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INDICE Premessa (E. Gabba) 11 1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica (E. Gabba) 13 1.1. La tradizione letteraria (p. 13) – 1.2. I dati dell’anti- quaria (p. 21). 2. L’età arcaica (E. Gabba) 27 2.1. Le origini e l’età regia (p. 27) – 2.2. La Roma dei Tarqui- nii (p. 34) – 2.3. Roma e i Latini (p. 41) – 2.4. Dalla monar- chia alla repubblica (p. 43) – 2.5. La società romana nel V secolo a.C. (p. 44) – 2.6. Il problema agrario (p. 48) – 2.7. Storia romana e storia italica (p. 50). 3. L’età medio-repubblicana (E. Gabba) 55 3.1. Dalla conquista di Veio alle leggi Licinie Sestie (p. 55) – 3.2. Il problema dei debiti (p. 59) – 3.3. Roma in Magna Gre- cia (p. 60) – 3.4. L’organizzazione politica dell’Italia romana (p. 64) – 3.5. La riforma dell’ordinamento militare (p. 66) – 3.6. Roma e il mondo greco nel III secolo a.C. (p. 68). 4. La conquista dell’egemonia in Italia (D. Foraboschi) 73 4.1. Le guerre sannitiche (p. 73) – 4.2. Pirro in Italia (p. 77) – 4.3. Le dinamiche economiche e la prima monetazione (p. 81) – 4.4. La frontiera settentrionale: i Galli e le prime colo- nie (p. 83).

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INDICE

Premessa(E. Gabba) 11

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica(E. Gabba) 13

1.1. La tradizione letteraria (p. 13) – 1.2. I dati dell’anti-quaria (p. 21).

2. L’età arcaica(E. Gabba) 27

2.1. Le origini e l’età regia (p. 27) – 2.2. La Roma dei Tarqui-nii (p. 34) – 2.3. Roma e i Latini (p. 41) – 2.4. Dalla monar-chia alla repubblica (p. 43) – 2.5. La società romana nel Vsecolo a.C. (p. 44) – 2.6. Il problema agrario (p. 48) – 2.7.Storia romana e storia italica (p. 50).

3. L’età medio-repubblicana(E. Gabba) 55

3.1. Dalla conquista di Veio alle leggi Licinie Sestie (p. 55) –3.2. Il problema dei debiti (p. 59) – 3.3. Roma in Magna Gre-cia (p. 60) – 3.4. L’organizzazione politica dell’Italia romana(p. 64) – 3.5. La riforma dell’ordinamento militare (p. 66) –3.6. Roma e il mondo greco nel III secolo a.C. (p. 68).

4. La conquista dell’egemonia in Italia(D. Foraboschi) 73

4.1. Le guerre sannitiche (p. 73) – 4.2. Pirro in Italia (p. 77) –4.3. Le dinamiche economiche e la prima monetazione (p.81) – 4.4. La frontiera settentrionale: i Galli e le prime colo-nie (p. 83).

Gabba E. et al.
Introduzione alla storia di Roma
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5. L’età dell’imperialismo(D. Foraboschi) 87

5.1. Cartagine (p. 87) – 5.2. Le guerre puniche (p. 89) – 5.3.Catone il Censore (p. 95) – 5.4 Il fronte dei Balcani (p. 97) –5.5. Le guerre macedoniche (p. 98) – 5.6. L’Oriente e laguerra siriaca (191-188 a.C.) (p. 101) – 5.7. La terza guerramacedonica (171-168 a.C.) (p. 103) – 5.8. La supremazia diRoma in Italia (p. 105).

6. La rivoluzione del secondo secolo a.C.(D. Foraboschi) 107

6.1. Asia Minore: il regno di Pergamo donato ai Romani (p.107) – 6.2. Le grandi rivolte di schiavi: Euno e Spartaco (p.107) – 6.3. La terza guerra punica (149-146 a.C.) (p. 110) –6.4. I Gracchi: contro gli abusi dei ricchi (p. 111) – 6.5. Lalotta politica dopo i Gracchi (p. 116) – 6.6. L’ordine dei ca-valieri (p. 116).

7. L’età della tarda repubblica(E. Gabba) 119

7.1. L’età di Gaio Mario (p. 119) – 7.2. La questione degli al-leati italici. La guerra sociale (p. 122) – 7.3. Lo stato munici-pale (p. 128) – 7.4. La prima guerra civile. Silla (p. 130) –7.5. Spartaco. Catilina (p. 132) – 7.6. L’imperialismo alla finedella repubblica (p. 135) – 7.7. L’alleanza fra Pompeo,Crasso e Cesare (p. 135) – 7.8. Cicerone (p. 138) – 7.9. DalRubicone ad Azio (p. 141).

8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero(D. Foraboschi) 149

8.1. Dall’economia del bottino al fisco imperiale (p. 150) –8.2. Il mondo delle merci (p. 152) – 8.3. La complessità dellaformazione economico-sociale (p. 156) – 8.4. L’economiafondamentale della produzione agricola (p. 158) – 8.5. Dal-l’artigianato alla manifattura (p. 162) – 8.6. Schiavi della ter-ra (p. 165) – 8.7. Tecnologia e produzione (p. 167).

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana(D. Mantovani) 171

9.1. La storia giuridica (p. 171) – 9.2. La tradizione romani-

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stica (p. 173) – 9.3. Gli esordi della documentazione (p.175) – 9.4. L’estrazione e la posizione sociale dei giuristi nelII secolo a.C. (p. 178) – 9.5. Le funzioni del giurista:respondere (p. 183) – 9.6. Le Dodici Tavole: tradizione econtenuti (p. 187) – 9.7. Lex publica e autonomia privata (p.195) – 9.8. Le funzioni del giurista: cavere (p. 199) – 9.9. Lagiurisprudenza pontificale (p. 202) – 9.10. L’editto del pre-tore e il ius gentium (p. 208) – 9.11. Il problema dell’in-fluenza della filosofia greca sul ius (p. 219) – 9.12. La costi-tuzione romana. Teorie politiche e componenti giuridiche(p. 224) – 9.13. La magistratura (p. 233) – 9.14. Il senato (p.247) – 9.15. Le assemblee popolari (p. 255) – 9.16. La re-pressione criminale (p. 269).

10. La creazione del principato e l’età augustea(E. Lo Cascio) 277

10.1. Augusto e la creazione del principato (p. 277) – 10.2. Ilnuovo ordinamento e la nuova amministrazione (p. 279) –10.3. Il principe e Roma (p. 284) – 10.4. L’organizzazionedell’Italia e delle province (p. 287) – 10.5. La fiscalità e la fi-nanza imperiale (p. 290) – 10.6. La riorganizzazione del-l’esercito (p. 293) – 10.7. Gli stati clienti e la difesa dell’im-pero (p. 294) – 10.8. I gruppi dirigenti: senatori e cavalieri(p. 296) – 10.9. La dinamica sociale (p. 298) – 10.10. Lalegittimazione del potere imperiale e il problema della suc-cessione (p. 299).

11. Da Tiberio alla fine della dinastia giulio-claudia(E. Lo Cascio) 303

11.1. Il principato di Tiberio (p. 303) – 11.2. Caligola (p.306) – 11.3. Gli anni di Claudio: verso una nuova organizza-zione dell’impero (p. 307) – 11.4. Nerone (p. 311).

12. Dai Flavi agli Antonini: il consolidamento del regimeimperiale(E. Lo Cascio) 315

12.1. Il longus et unus annus (p. 315) – 12.2. Vespasiano: dauna nuova legittimazione del potere imperiale a un nuovoordine sociale (p. 317) – 12.3. La politica fiscale e finanzia-ria e l’organizzazione della difesa (p. 320) – 12.4. Tito eDomiziano (p. 323) – 12.5. Nerva e la successione imperiale

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(p. 326) – 12.6. Traiano e le sue guerre (p. 327) – 12.7.Adriano e Antonino Pio: la “pace romana” (p. 332).

13. L’impero nel secondo secolo(E. Lo Cascio) 339

13.1. L’impero romano e la dinamica dell’integrazione (p.339) – 13.2. Le dinamiche economiche (p. 341) – 13.3. Gliequilibri etnici e sociali (p. 344) – 13.4. La duplicità lingui-stica e culturale dell’impero e la persistenza delle culture lo-cali (p. 347) – 13.5. L’amministrazione dell’impero (p. 349) –13.6. Gli intellettuali e l’impero (p. 352) – 13.7. Le formedella spiritualità pagana (p. 354) – 13.8. La diffusione delgiudaismo e del cristianesimo (p. 358).

14. I caratteri dell’economia imperiale(E. Lo Cascio) 365

14.1. Economia romana ed economie preindustriali (p. 365)– 14.2. Una peculiare economia preindustriale (p. 369) –14.3. Produzione e progresso tecnico (p. 373) – 14.4. L’orga-nizzazione della produzione e la specializzazione produtti-va (p. 375) – 14.5. Il volume degli scambi (p. 380) – 14.6.“Stato” e mercato (p. 382) – 14.7. L’evoluzione economicadell’impero nei primi tre secoli (p. 390).

15. La crisi dell’organismo imperiale(E. Lo Cascio) 393

15.1. Da Marco a Commodo: guerre e pestilenze (p. 393) –15.2. La guerra civile e l’ascesa di Settimio Severo (p. 396) –15.3. La dinastia severiana (p. 401) – 15.4. La gestione delpotere imperiale in età severiana (p. 404) – 15.5. Massiminoe i Gordiani (p. 407) – 15.6. Gli scontri coi Persiani e coiGoti (p. 408) – 15.7. La grande crisi dei decenni centrali delIII secolo (p. 410) – 15.8. L’impero e il cristianesimo (p. 413)– 15.9. La ricostituzione dell’unità imperiale (p. 416).

16. Il governo dell’impero e la società nel quarto secolo(E. Lo Cascio) 419

16.1. Diocleziano e la tetrarchia (p. 419) – 16.2. La nuovafiscalità e le riforme amministrative (p. 422) – 16.3. La mo-neta e l’inflazione: l’edictum de pretiis (p. 425) – 16.4. La

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persecuzione anticristiana (p. 427) – 16.5. La dissoluzionedell’ordinamento tetrarchico (p. 428) – 16.6. Cristianesimo eimpero dall’editto di Milano al concilio di Nicea (p. 430) –16.7. La Nuova Roma e il nuovo impero (p. 433) – 16.8. Lasocietà imperiale in epoca costantiniana (p. 435) – 16.9. Isuccessori di Costantino (p. 438) – 16.10. Dai Valentiniani aTeodosio (p. 443).

17. Dalla divisione in due parti alla dissoluzione dell’organi-smo imperiale in Occidente(E. Lo Cascio) 447

17.1. La successione di Teodosio e la politica di Stilicone (p.447) – 17.2. L’Occidente dal sacco di Roma all’occupazionevandalica dell’Africa (p. 450) – 17.3. L’Oriente da TeodosioII a Zenone (p. 453) – 17.4. La dissoluzione del potere impe-riale in Occidente (p. 455) – 17.5. Le controversie religiose ela crescita dell’organizzazione ecclesiastica (p. 458) – 17.6.La formazione dei regni romanobarbarici (p. 460) – 17.7. Lafine dell’impero d’Occidente come problema storico (p.461).

18. Il diritto da Augusto al Theodosianus(D. Mantovani) 465

18.1. La giurisprudenza classica: caratteri generali (p. 465) –18.2. I ruoli del giurista: i consulenti e il publice respon-dendi ius (p. 467) – 18.3. La trasmissione del sapere scienti-fico e le sectae dei Cassiani e dei Proculiani: maestri, inse-gnanti e pratici (p. 469) – 18.4. L’estrazione e la posizionesociale dei giuristi (p. 474) – 18.5. Le tecniche e le opere daLabeone a Giuliano (p. 479) – 18.6. Gaio e le fonti del dirittonell’età degli Antonini (p. 484) – 18.7. La giurisprudenzaseveriana (p. 488) – 18.8. L’organizzazione giudiziaria: lecause private e le cause fiscali (p. 490) – 18.9. L’organizza-zione giudiziaria: i giudizi pubblici e il diritto criminale (p.497) – 18.10. La constitutio Antoniniana (p. 503) – 18.11.L’esperienza giuridica tardoromana: caratteri generali (p.505) – 18.12. Il periodo critico e la restaurazione di Diocle-ziano (p. 510) – 18.13. Costantino, le leges generales e irescripta (p. 514) – 18.14. Costantino, le leges e il ius (p.519) – 18.15. Occidente e Oriente fino a Valentiniano III eTeodosio II: le leges (p. 523) – 18.16. Occidente e Oriente

fino a Valentiniano III e Teodosio II: cultura giuridica e pro-fessioni (p. 526) – 18.17. Occidente e Oriente fino aValentiniano III e Teodosio II: l’uso della letteratura classicae il Theodosianus (p. 530).

19. La religione nel mondo romano(L. Troiani) 535

19.1. Per una critica delle fonti (p. 535) – 19.2. Filosofia e re-ligione (p. 539) – 19.3. La definizione di “dio” (p. 542) –19.4. Monoteismo e politeismo (p. 545) – 19.5. L’epifania (p.548) – 19.6. Decadenza politica e decadenza religiosa (p.550) – 19.7. La religione e il trascendente (p. 553) – 19.8.Alle origini del cristianesimo (p. 554).

Cronologia 561

Bibliografia 597

Indice analitico 631

Carte 665

Indice10

1.

PROBLEMI DI METODOPER LA STORIA DI ROMA ARCAICA

1.1. LA TRADIZIONE LETTERARIA

Le narrazioni sulle fasi più antiche della storia di Roma vennero svol-gendosi, nel quadro della storiografia romana, dalla fine del III seco-lo a.C. all’età augustea con un processo di continuo arricchimento,fino ad un punto di arrivo che per noi è rappresentato dalle opere let-terariamente costruite ed atteggiate di Tito Livio e Dionigi d’Alicar-nasso. Differenti negli intenti storiografici e politici ed anche nellatecnica compositiva e per taluni aspetti anche nell’uso di fonti e didocumentazione precedenti, esse non pertanto rappresentano lo sta-dio finale di una lunga rielaborazione di molti e svariati materiali tra-dizionali che, al di là delle loro prime traduzioni in forma letterariacon Fabio Pittore e Cincio Alimento, rimontavano ad opere di storicigreci, che in vario modo avevano considerato Roma ed il mondoitalico: più indietro ancora esse si rifacevano a filoni di notizie tra-smesse oralmente, o ricavate da documenti e da monumenti, notizieche talora non erano neppure di origine romana.

Da tempo si è guadagnato il principio teorico, che può e devediventare canone di metodo interpretativo, che studiare nelle sue va-rie fasi storiche il farsi di questo complesso patrimonio tradizionale,nelle sue varie motivazioni ed in rapporto al mutare delle circostan-ze, significa propriamente esaminare lo stesso svolgimento della sto-ria di Roma, nei suoi aspetti politici, istituzionali, culturali. L’indaginedeve procedere a ritroso, risalendo dal più conosciuto e dal più sicu-ro verso quanto è più incerto e più oscuro. Sembra molto probabileche l’età fra il IV e il III secolo a.C. possa essere indicata come quellache ha visto crearsi in forma abbastanza definitiva, nelle sue linee ge-nerali, la struttura, che diverrà poi tradizionale, della rappresentazio-ne della storia di Roma arcaica.

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica14

Le due opere di Livio e di Dionigi presentano narrazioni dalleorigini fino all’incendio gallico molto difformi per estensione e orga-nizzazione dei materiali, che derivano dalle differenti premesse dimetodo critico dei due autori, dal loro diverso programma storio-grafico e letterario; tuttavia entrambi hanno rielaborato in fondo lostesso materiale offerto dall’annalistica romana (nelle sue pur distintefasi di sviluppo) e ad entrambi è presente un’idea abbastanza similedella storia della città, del suo sviluppo, del suo quadro istituzionale.La molto maggiore ampiezza della narrazione dionisiana dipende es-senzialmente dall’intento di fornire a lettori greci un’iniziale ricostru-zione etnografica del popolo romano e poi dalla precisa volontà dioffrire fin nei dettagli quello che si riteneva che avrebbe dovuto esse-re lo svolgersi effettivo di episodi storici, taluni considerati di valoreepocale, alla ricerca di una verisimiglianza che nel pensiero dellostorico greco finiva per divenire una sorta di verità inerente agli epi-sodi stessi, al di là dell’aderenza alle evidenze reali offerte dalle testi-monianze.

È questo un processo storiografico erroneamente definito taloracome retorico, anche per la larga presenza di discorsi collocati làdove l’episodio li doveva di necessità presumere (si deve prescinderenaturalmente dall’ovvio impiego di strumenti retorici nell’attuazionedi questo programma). Il procedimento risponde invece alla conce-zione, basilare, di un ripetersi della storia per la costante coerenzadella natura umana. Già Tucidide da questo rilievo traeva la conclu-sione della validità anche pratica della sua opera per i politici del fu-turo, ma anche ne ricavava la possibilità, altrettanto pratica, di ripen-sare e di ricostruire il passato. Nel caso romano si aggiungeva la im-maginata continuità istituzionale, con la conseguenza di una proba-bile e possibile ricostruzione del passato sull’esperienza della realtàdel presente. Di qui non soltanto la possibilità di ritrovare nel passatoproblemi politici contemporanei, ma anche di immaginare lo stessopassato, e di ricostruirlo concretamente, in termini inevitabilmenteattualizzanti e deformati, in quanto si applicavano modelli interpreta-tivi ricavati dalla vicenda politica contemporanea. È innegabile che lostesso “conflitto degli ordini” risente, nelle sue motivazioni e nei suoimodi di svolgimento, quali ci sono presentati nelle tarde opere stori-che, di caratteri tratti dai contrasti politici del II e I secolo a.C.

A fondamento di questa continuità e coerenza storiografica e po-litica stava la concezione di uno sviluppo lineare e “statale” della vi-cenda storica romana, che, al di là di Livio e di Dionigi, e di Cicerone,risale alle origini della storiografia romana e agli stessi ripensamenti

Livioe Dionigi

1.3. Drammaturgia 15

strutturali che l’avevano preceduta.Sembra che vi sia un accordo generale nel ritenere che la prima

storiografia romana sia sorta verso la fine del III secolo a.C. nel qua-dro e secondo i principi della storiografia “locale” greca, ma con in-tenti politici, dimostrati dallo stesso impiego iniziale della lingua gre-ca, rivolti soprattutto al mondo magnogreco e siciliano e poi, più ge-neralmente, greco, in vista di un accoglimento di Roma in una comu-nità culturale e politica riconosciuta superiore. Fabio Pittore non esi-tava a servirsi di fonti greche, e a citarle, per la stessa storia arcaicadella sua patria.

Questa esigenza di avvicinamento al mondo greco andò crescen-do, anche a livello storiografico, pur con un cambiamento di tono, inconcomitanza con l’espansione imperialistica romana, fino a quando,attenuatasi la necessità di autogiustificazione anche di fronte alle ri-correnti accuse di barbarità originaria, si verificò un deciso cambia-mento. La storiografia romana dalla metà del II secolo, e anzi già conle Origines di Catone, pur conservando una particolare attenzionealle vicende delle origini e alla presenza in quella fase di fattorinobilitanti di grecità (mentre importavano molto meno quelli di unapur ammessa presenza etrusca), andò piuttosto rivolgendo i propriinteressi ai problemi della politica interna della città, fino a divenirenel I secolo a.C. uno strumento nell’ambito di un più complessoscontro ideologico, il che favorì quel processo di attualizzazione del-la storia del passato, ora accennata e sul quale si avrà occasione diritornare.

Questo precisarsi e modificarsi di interessi politici legati al fattostoriografico ebbe significativi riflessi sulla stessa struttura narrativadelle opere storiche dalla fine del III secolo all’età augustea. Non èdifficile immaginare che un processo analogo avesse subìto anche laformazione della tradizione storica nelle età precedenti, reso piùcomplicato dal carattere prevalentemente orale della trasmissionedelle notizie e della ricostruzione storica.

Orbene la più antica annalistica è così descritta in un passo famo-so di Dionigi, 1.6.2, che, parlando di Fabio Pittore e di Cincio Alimen-to, dice: «l’uno e l’altro di costoro, gli avvenimenti ai quali essi stessiparteciparono, narrarono con precisione per la conoscenza direttache ne avevano, ma i fatti antichi, quelli accaduti posteriormente allafondazione della città, li scorsero per sommi capi». Il passo si prestaad interpretazioni in parte divergenti a seconda che si intenda il ter-mine ktisis, secondo esempi greci, con un valore più ampio che nonla vera e propria “fondazione” della città, e comprendente il periodo

Storiografiain lingualatina

1.1. La tradizione letteraria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica16

connesso alle origini (nel caso in questione, l’età regia), oppure conun significato più ristretto. In ogni caso l’evidenza fornita dai magriframmenti sopravvissuti conduce all’accordo su taluni punti.

Vi è un certo carattere unitario della più antica storiografia roma-na, da Fabio Pittore a Catone, a Calpurnio Pisone (console nel 133a.C.) e comune anche agli Annales di Ennio (un poema epico dalleorigini della città agli inizi del II secolo a.C.): l’interesse prevalentedegli autori per l’età contemporanea e per quella più prossima a que-sta (grosso modo a principiare dalle guerre sannitiche), e quindi unaloro narrazione più ampia, sembrano essersi accompagnati ad unatradizione relativamente ricca per il periodo delle origini e per l’etàregia. Per contro i racconti tradizionali, che per la fase di trapassodalla monarchia alla repubblica sono caratterizzati da un tono parti-colarmente ricco di fantasia e di colore, si presentano molto più scar-ni per il V secolo, ed anzi le notizie a disposizione degli storici sem-brano ancora diminuire lungo la seconda metà del secolo.

Questa disposizione non può essere casuale. In linea generale, sipuò pensare che per il periodo delle origini e anche per quello dei revi sia stato già nella storiografia greca, dalla fine del IV secolo, undiretto interesse a richiamare la storia di Roma nell’alveo di quellagreca; questo interesse è connesso direttamente con l’affacciarsi diRoma in Campania e in Magna Grecia. Il convergente interesse deiRomani in quella stessa direzione è testimoniato dall’accettazionesupergiù in quello stesso periodo del mito di Enea, che tuttavia deveaver combattuto, o convissuto, per qualche tempo con quello diOdisseo. Le più antiche notizie, nel patrimonio mitico e leggendariogreco, riconducibili direttamente o indirettamente a Roma, e meglioall’area laziale dove poi sarebbe sorta la città, sono legate alle tradi-zioni della colonizzazione greca in Occidente (Teogonia di Esiodo:prima metà VI sec.; Ellanico: fine V sec.).

I riferimenti crebbero nel tempo: essi si inseriscono senza nessu-na particolare rilevanza nella tipica rielaborazione etnografica grecarelativa alle popolazioni barbare con le quali i coloni greci venivanoin contatto. Queste notizie (alcune delle quali, più antiche, si riferi-scono in realtà al mondo etrusco, col quale i greci avevano più stretterelazioni) si collocano quindi all’interno di un processo culturale le-gato alla colonizzazione greca. La localizzazione in Occidente di mitigreci, soprattutto connessi con la guerra di Troia e il ritorno degli eroida essa, fu opera di mercanti e coloni greci e rappresentò per essi unfattore legittimante e nobilitante. Per questa via le popolazioni indi-gene a contatto con i greci recepirono e fecero propri miti e leggende

Greciae Roma

1.3. Drammaturgia 17

dei quali erano venuti a conoscenza e si creò quindi una sorta di pa-trimonio comune, nel quale non è facile riconoscere la parte spettan-te alle tradizioni locali. Si venne creando un complesso di tradizioni,genealogie e leggende per i popoli e le città dell’Occidente. In questolungo e lento processo di localizzazione, ricezione e utilizzazione dimiti Roma non ebbe per molto tempo nessun ruolo di speciale premi-nenza, tale da richiamare una particolare attenzione della storiografiagreca.

Non è chiaro né come né quando né per quali ragioni le originiromane vennero collegate con la fuga in Occidente di Enea e dei suoiTroiani. Sicuramente diverse furono, ad un certo momento, le inten-zioni con le quali da parte greca fu proposto quel collegamento equelle con le quali da parte romana la connessione fu accettata. L’ac-cettazione certamente mirava a stringere sempre più i rapporti fraRoma e il mondo greco suditalico, e a sganciare Roma dagli Etruschi:siamo nel IV secolo. Nella seconda metà del secolo Roma è oramaipresente in Campania. L’accoglimento del mito eneico creava proble-mi complicati di cronologia e fu necessario colmare lo iato fra l’arrivodi Enea e la “fondazione” della città con la serie dei re Albani, i qualisono già noti alla storiografia greca prima di Fabio Pittore. Ancora piùsingolare deve essere considerato l’accoglimento in Roma della leg-genda di Romolo e Remo, probabilmente di origine locale, marielaborata anch’essa nel IV secolo, forse in connessione con eventipolitici contemporanei. È molto importante che questo mito dei ge-melli, ricco di aspetti non precisamente positivi, sia stato abbastanzarapidamente accettato anche come patrimonio popolare (si è pensatocome tramite alle manifestazioni teatrali in occasione dei ludi).

Quando, di fronte all’incredibile avanzata dei Romani, popola-zione semibarbara, in Italia e nel Mediterraneo, con le vittorie suPirro e su Cartagine, il mondo greco cominciò seriamente, con Ti-meo, ad interessarsi a Roma, l’attenzione si rivolse, più che alla storiaarcaica della città, alle sue istituzioni politiche e militari, nelle qualipresto si riconobbe una delle ragioni della superiorità romana; que-sta attenzione si concluse con il VI libro delle Storie di Polibio.

Vanno fatte alcune precisazioni. Connessioni di Roma con l’am-bito suditalico risalivano già con sicurezza agli inizi del V secolo (in-troduzione del culto di Ceres, Liber e Libera), e dovevano essere pro-priamente ben attestate anche sul piano documentario, per esempioa Cuma. Inoltre, se si accetta l’idea che Fabio Pittore avesse davanti asé una tradizione già ampiamente elaborata e ricca di elementi greci,o suggeriti da storici greci (da ultimo da Timeo), non si deve affatto

1.1. La tradizione letteraria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica18

credere che questa tradizione non abbia a sua volta valorizzato ele-menti antichi, trasmessi tradizionalmente nello stesso ambito roma-no, che puntavano nella stessa direzione: basti pensare alle antiche,variegate versioni sulla storia di Demarato e di Tarquinio.

Ad ogni modo va ribadito con forza da un punto di vista meto-dologico che la presenza, messa in chiara evidenza dalla più recentericerca archeologica, di reperti greci a Roma per i secoli VII e VI,come anche il possibile rapporto comparativo di monumenti greci eromani, e pur l’altrettanto probabile derivazione greca di vocaboli la-tini, rappresentano dati documentari non comparabili con quelli of-ferti dalla tradizione letteraria e quindi, in definitiva, da non chiama-re in supporto all’attendibilità della medesima. Le teorie della presen-za di componenti greche nella tradizione storica di Roma arcaica han-no origini differenti di carattere ideologico e politico ed approderan-no alla fine alla suggestiva proposta di Dionigi di un’originariagrecità dei Romani e quindi ben anteriore alla penetrazione culturalegreca nell’età successiva alla guerra annibalica. Quella teoria, anchese talora elaborata su materiali antiquari e con acuti ragionamentiantropologici e comparatistici, rispondeva ad una precisa esigenzapolitico-culturale contemporanea dello storico ed era stata costruitaper questa funzione.

La più tarda rielaborazione annalistica dei racconti sui re ha ac-centuato e arricchito anche questi anteriori elementi di ascendenzagreca. Basti citare i tratti caratteristici della propaganda antitirannicache si sono sovrapposti alla tradizione su Tarquinio il Superbo e sisono inseriti nella narrazione relativa a Spurio Cassio: essi nella ver-sione dionisiana richiamano direttamente la pubblicistica greca suquel tema e le polemiche del I secolo a.C. a Roma. Anche la storia“politica” del V secolo è stata rifatta dall’annalistica del II e del I seco-lo fino a rendere difficile sceverare i pochi dati attendibili. Per esem-pio, tutta la problematica relativa alle contese sull’ager publicus ècompletamente anacronistica ed è esemplata sulle condizioni propriedei secoli III e II. Dell’ager publicus, sia caso o meno, non vi èneppur cenno nelle Dodici Tavole per quanto ci è noto, e si può anziaggiungere che tutto il problema agrario quale è delineato da Livio eda Dionigi dall’età di Romolo in avanti, nel quadro della società ro-mana, si viene svolgendo con una lineare coerenza per fare da pre-messa a quelle che saranno le vere questioni agrarie, nate dopo leampie acquisizioni di terra in Sabina agli inizi del III secolo. Il chenon vuole naturalmente dire che si abbia a respingere la più che pro-babile spiegazione che nel conflitto fra patriziato e plebe entrassero

Ricostruzionidell’annalistica

1.3. Drammaturgia 19

anche aspetti sociali ed economici: soltanto che essi sono stati stra-volti ed offuscati dall’attualizzazione operata nell’età della tarda re-pubblica. Come è stato anche di recente ribadito, spunti per lo studiodella più antica società agraria romana e italica possiamo recuperarlidal calendario Numano.

Il caso della legge delle Dodici Tavole pare ancor più emblema-tico. È indicativo che la nostra tradizione storico-letteraria non dicapraticamente nulla dei contenuti della legge, che noi cerchiamo di ri-costruire sulla base di citazioni e di riferimenti forniti dall’antiquariae da testi giuridici, se si eccettuano qualche confronto in Dionigi conil testo delle presunte leggi regie e il divieto del connubium, mentreci si dilunga sulla improbabile “storia esterna” dell’episodio. È piùche legittimo in questo caso, non già negare la collocazione alla metàdel V secolo della codificazione o la validità del testo trasmessoci(come torna oggi ad essere proposto), ma mettere in discussione il si-gnificato della legge intera intesa come esito di una pressione dalbasso. L’esame comparativo condotto dall’Eder (nel volume edito dalRaaflaub: vd. Bibliografia) con codificazioni aristocratiche sembrasuggerire piuttosto che la legge debba essere vista come prodottodella volontà di autoregolamentazione dei gruppi aristocratici e co-me fissazione di una situazione già in essere (il che fra l’altro è affer-mato da Dionigi). Anche le norme limitative del lusso funerario e dellutto riconducono alla monumentalizzazione dei sepolcri, tipicomodo aristocratico di affermazione e di contrasto in società arcaiche.E non vi è alcuna ragione di pensare ad influenza di analoghe normesoloniane. Fra l’altro la tradizione di un’imitazione di leggi grechenelle Dodici Tavole, tramite un’ambasceria inviata ad Atene o in Ma-gna Grecia o la collaborazione di Ermodoro, è con ogni probabilitàtarda invenzione annalistica, con intento nobilitante. L’interpretazio-ne “popolare” della legge si colloca notoriamente come conclusionedi quella visione lineare e progressiva della storia politica di Roma.

Un ragionamento non diverso va fatto a proposito delle ricostru-zioni “costituzionali” di Romolo e di Servio Tullio, coerenti nella loroconsequenziarietà, specialmente evidente nell’ampio discorso dioni-siano. Ma le coincidenze con il testo ciceroniano del De re publica(del 52 a.C.) e in più la presenza in Dionigi, anche a livello verbale, diconcezioni sociali e politiche derivate dalla Politica di Aristotele di-mostrano che ci si muove nel quadro ideologico e politico postsil-lano. Naturalmente anche in questi casi la rielaborazione tardo-annalistica ha potuto sfruttare, selezionandoli, elementi talora dimolto più antica risalenza e attendibilità, riconducibili per esempio a

1.1. La tradizione letteraria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica20

Fabio Pittore, alcuni dei quali si intrecciarono anche a filoni storicinon romani (etruschi, nel caso ben noto di Servio Tullio).

Un ragionamento analogo può essere fatto anche a proposito diNuma Pompilio, alla cui caratterizzazione concorrono materiali giàelaborati dalla storiografia magnogreca del IV secolo, e tendenti aprospettare una Roma dell’età regia socialmente e politicamenteavanzata. L’idea di un discepolato di Numa presso Pitagora durò alungo a Roma, anche quando oramai se ne era dimostrato l’anacro-nismo. L’interesse per questa remota acculturazione era comune allaMagna Grecia e a Roma.

Questo ragionamento non deve assolutamente meravigliare. Sipensi al caso di Atene culturalmente tanto più progredita di Roma.Eppure alla fine del V secolo le conoscenze che si avevano di storiacostituzionale di un passato non poi troppo remoto (l’età di Solone)erano, anche sul piano propriamente documentario, assolutamentecarenti. Appunto l’opera politica e legislativa soloniana era scarsa-mente nota al punto che si poteva imbastire una storia politico-costi-tuzionale della città secondo la prospettiva, ideologicamente costrui-ta, di una progressiva democraticità da Teseo a Teramene: questacostruzione elaborata dalla pamphlettistica politica della fine del se-colo V è passata tramite le Atthides nell’Athenaion Politeia aristo-telica. Il caso romano è analogo.

È possibile che si riesca a guadagnare questo primo risultato nelcammino a ritroso nella storia della tradizione storica su Roma arcai-ca. Il momento successivo all’entrata romana in Campania e fino allaguerra con Pirro pose su basi molto più ampie e complesse i rapportifra Roma e la Magna Grecia, soprattutto nel senso di scambi culturaliche possono anche essersi configurati come recezione in Roma diistituti giuridico-politici (si pensi alla civitas sine suffragio, vale a direal riconoscimento della qualità di cittadino, ma senza il diritto divoto). Si è già detto come sia venuto crescendo l’interesse magno-greco per i romani, fino al tentativo di accaparramento pitagorico diNuma Pompilio. Ripetiamo che è fra IV e III secolo che viene accoltoa Roma il collegamento delle origini cittadine con Enea, che diverràpresto strumento di politica interstatale. Anche la leggenda dei ge-melli si consolida in quel tempo con apporti greci. Sarà infine Timeoa collocare Roma e la sua storia nel quadro della grecità di Occidente,anche sfruttando tradizioni anteriori, indigene e greche.

È importantissimo notare che è agli inizi del III secolo che si ven-ne precisando la tradizione sul ruolo di Bruto nella caduta della mo-narchia, come può dimostrare la risalenza a quella data della statua

1.3. Drammaturgia 21

capitolina. Intorno al 300 si data anche la lupa degli Ogulnii sulPalatino, e in generale sono da riportare alla stessa cronologia le sta-tue dei re davanti al tempio di Giove Capitolino, indizio di un conso-lidamento della tradizione. Si possono agevolmente supporre moti-vazioni politiche che si collocano nel quadro delle grandi trasforma-zioni nella società romana e nello stato che si ebbero dalla secondametà del IV secolo. Il precisarsi della tradizione storica con l’accen-tuazione degli elementi greci delle origini comportò verisimilmenteuna riduzione del ruolo dell’Etruria per quella stessa età e in quelladella monarchia, proprio nel momento in cui gli Etruschi sosteneva-no fino a Sentino la principale opposizione alternativa all’egemoniadi Roma.

1.2. I DATI DELL’ANTIQUARIA

Sui modi nei quali la tradizione sia andata organizzandosi si può pro-spettare qualcosa di più che un’ipotesi. Alla base vi era già di sicuroquell’idea di uno svolgimento lineare e progressivo dello stato roma-no che si ritroverà poi sempre in seguito, anche se si ammetteva conCatone (secondo la citazione di Cicerone, De re publica, 2.2) uno svi-luppo costituzionale con successivi apporti di generazioni; punto fi-nale di arrivo sarà la “costituzione” di Romolo. L’idea di “statalità”sembrava acquisire concretezza con la proiezione nell’età regia diistituti politici e giuridici perché così acquistassero, con la vetustà,una maggiore legittimazione e avvalorassero l’idea di uno stato giàprecisamente organizzato fin dalle origini: si pensi a questo proposi-to anche al problema delle leges regiae (norme religiose e costituzio-nali che una tarda tradizione attribuiva ai re). Si aggiunga la teoria diuna regolare fondazione della città, secondo il modello coloniariogreco (poi messa in discussione da storici greci antiromani), e inoltrel’insistenza sul ruolo degli auspicia (vd. § 9.13) che, al di là delle in-terpretazioni e sistemazioni antiquarie ed augurali del I secolo a.C.,rappresentavano concretamente l’importanza, nelle mani dei patrizi,della religione e dei riti tradizionali, in campo politico e la loro fun-zione storica fin dai principi. La stessa storificazione dei miti e delleorigini sembra comportare consapevoli interventi di ordine religiosoe politico.

Questa delineazione complessa ed articolata dell’età regia venivanecessariamente a condizionare anche il momento del passaggio dal-

1.2. I dati dell’antiquaria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica22

la monarchia alla repubblica, nel senso che lo stacco poteva venire“riempito” con una teoria (solo in parte nuova), quella di una pro-gressiva acquisizione di “libertà” fino al Decemvirato.

Il criterio della “statalità”, inteso come metodo ricostruttivo dellastoria romana più antica, può prestarsi a suggestive nostre ricostru-zioni di quella storia. Chi nel IV secolo ripensava la storia più anticadella città e ne ricostruiva la tradizione avrà immaginato lo stato delVI e V secolo in termini non molto difformi da quelli del suo tempo,se pur su di una base territoriale più ridotta. Un punto pare, ad ognimodo, di particolare rilevanza: la pratica dell’assimilazione e dell’in-tegrazione a tutti i livelli entro la cittadinanza romana propriamenteesercitata dal IV secolo in poi permetteva agevolmente di immagina-re una società altrettanto aperta nella Roma dell’età regia e protore-pubblicana, e quindi di recuperare nel quadro lineare ed unitariocomponenti etniche di diversa provenienza con le relative tradizionistoriche. Anche quello che è per noi il fenomeno importantissimo diuna mobilità, non soltanto delle élites, fra VI e V secolo nell’area etru-sco-laziale, attestato anche da tradizioni non romane, veniva riporta-to nella cornice costituzionale di un apparato statale. Noi oggi insi-stiamo maggiormente su di un altro aspetto di questo processo di as-similazione, quello linguistico: pur significative presenze etruschenella Roma dell’età regia e pur significativi e antichi contatti con ilmondo greco (con la conseguenza di prestiti dal greco ben anterioriall’età ellenistica) non hanno mai portato a condizioni di bilin-guismo, né scalfito il carattere latino della città.

La tipicità romana di questa ricostruzione della tradizione secon-do il criterio dello “stato” veniva a contrapporsi a differenti modi diintendere e di rappresentare la storia. Si pensi agli affreschi dellaTomba François di Vulci (vd. § 2.1), come documento della storio-grafia etrusca nella seconda metà del IV secolo, relativo a fatti storiciin diverso modo presenti anche nella tradizione romana. Pur consi-derando che il mezzo pittorico della trasmissione ha imposto certeregole, la ricostruzione ideologica antiromana di eventi storici com-parati ad analoghi dell’età dell’epica greca (il che, fra l’altro, sembradimostrare già avanzata l’equivalenza Troiani-Romani) appare sgan-ciata da un contesto “statale” e collocata in un’atmosfera mitica e sim-bolica.

Al di sotto della formazione della tradizione storica secondo ilcriterio della “statalità” operavano molto probabilmente, ad un livelloprofondo, parametri ricostruttivi di tipo ideologico-strutturale. Se-condo le teorie recentemente riformulate da Enrico Campanile e da

1.3. Drammaturgia 23

Enrico Montanari, è possibile che la coerenza del quadro tradizionalesia anche dovuta alla continuità della presenza di un nucleo origina-rio di elementi culturali indoeuropei, che naturalmente non può con-tenere dati storici attendibili, ma opera, ha operato, nel senso che iricordi degli accadimenti sono riferiti ed inseriti in un «preciso siste-ma di valori, di usi e di esigenze». La mentalità indoeuropea deve es-sere concepita soltanto come specifico modo di analizzare il reale, diorganizzare concettualmente la realtà. Questa mentalità sembra in-dubbiamente apparire tanto nella funzione della regalità e quindinella rappresentazione della peculiare posizione sacrale dei re (spe-cialmente dei primi tre re di Roma), quanto e più nell’organizzazionee nella comprensione del patrimonio religioso più antico inserito inuna prospettiva storificata. Ne deriverebbe non già una garanzia diattendibilità per il discorso storico, ma una validità storica inerente almodo di presentazione degli accadimenti.

In ogni caso questa tappa nella formazione della tradizione, ver-so la fine del IV e gli inizi del III secolo, deve aver visto una forte se-lezione dei dati storici trasmessi oralmente ed anche da fonti docu-mentarie: selezione nel senso che anche molti materiali che sono anoi pervenuti per il tramite dell’antiquaria, e che quindi erano certa-mente già allora noti, non sono mai stati trasferiti a livello storiogra-fico. Elementi preziosi di contenuto giuridico, economico, sociale,culturale dei secoli V e IV sono stati lasciati da canto dall’annalistica eprima d’essa dalla tradizione che ne fu alla base. Le ragioni di questatrascuranza possono essere varie; fondamentale la loro marginalità oestraneità al quadro politico lineare che si intendeva proporre. Nederiva, sembra, una conseguenza di metodo di grande importanza.Noi non siamo legittimati ad inserire questo materiale nel raccontotradizionale, magari al posto di dati che possono apparire incon-gruenti. Essi devono essere trattati a parte: facciamo un esempio. Ci-cerone nel De legibus (2.45-53) introduce un’ampia, interessante di-scussione sulla successione dei culti domestici e sul passaggio dal di-ritto pontificale al diritto civile laico (vd. § 9.9). È evidente che Cice-rone descrive consapevolmente delle differenti fasi nello svolgimen-to della società romana. Problemi di questo genere sono estranei allatradizione storica trasmessa in forma letteraria. L’attenzione di que-st’ultima privilegia accadimenti politico-militari e si incentra sul con-trasto fra patriziato e plebe visto nelle sue manifestazioni esteriori; losviluppo di una società non faceva parte della narrazione degliaccadimenti.

Livio nel famoso capitolo iniziale del libro sesto si rendeva conto,

Antiquaria

1.2. I dati dell’antiquaria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica24

anche se ricavava da altri l’osservazione, dell’oscurità, e quindidell’incertitudine, della storia della città dalla fondazione all’incendiogallico. La spiegazione era indicata nella carenza di un tradizione let-teraria risalente a quei tempi, sola custodia fedele del ricordo degliaccadimenti, e nella distruzione dei commentari dei pontefici e di al-tri monumenta pubblici e privati avvenuta durante l’incendio gallicodella città. Senza tornare ad analizzare questo testo, non si può perònon notare che la prima osservazione avrebbe dovuto mettere inguardia Livio sulla validità e sulla attendibilità di larghi squarci narra-tivi che egli tuttavia riporta. Anche in seguito Livio, per esempio aproposito della seconda sannitica (8.40), riferisce talora incertezzetopografiche e cronologiche e sa di possibili falsificazioni dovute allevanterie nobiliari, ma non sembra aver nessun dubbio sulla storicitàdella complicata e complessa tradizione sull’episodio delle ForcheCaudine, che egli riporta per esteso, e che in questa forma è eviden-temente molto tarda. Né si comprende come egli intendesse che ladocumentazione pontificale, e altra conservata in pubblico e in priva-to, potesse servire a rimpolpare e a chiarire quelle fasi oscure dellastoria della città.

In età augustea erano a disposizione gli Annales Maximi, in 80libri, che contenevano la stesura delle annotazioni che il ponteficemassimo veniva registrando nel corso dell’anno sulla tabula dealbataesposta al pubblico sulle pareti della sua residenza, la Regia. Le an-notazioni, accanto ai nomi dei magistrati, dovevano essere prevalen-temente di carattere pratico e sacrale, ma vi saranno stati registratianche avvenimenti importanti. La ricopiatura nei commentari avràassunto una qualche forma letteraria. Si ritiene di norma che gliAnnales Maximi siano stati pubblicati verso il 130 a.C., durante ilpontificato di P. Mucio Scevola, ma altri pensano invece ad una edi-zione proprio di età augustea ad opera dell’erudito Verrio Flacco. Sa-rebbe molto importante sapere a quando risalivano le registrazionipontificali: difficilmente ad un’età anteriore all’incendio gallico, seb-bene non si possa escludere che dopo quell’evento i pontefici abbia-no cercato di ricostruire la documentazione andata distrutta; certa-mente ad un certo momento venne premessa una sorta di introduzio-ne, relativa alle origini della città e all’età monarchica, che risentivadi chiara influenza greca. Ad ogni modo, per quel che si può arguiredalle rare citazioni, gli Annali dei pontefici non dovrebbero aver avu-to molto peso sulla storiografia annalistica, se non, appunto, sull’im-pianto annuale della stessa. Lo schema di questa narrazione era datodalla lista dei magistrati annuali eponimi, i Fasti Consolari. Questa li-

AnnalesMaximi

FastiConsolari

1.3. Drammaturgia 25

sta, che noi ricostruiamo appunto dalla tradizione letteraria e dallacopia fatta incidere da Augusto, è stata riconosciuta sostanzialmentesicura nella sua autenticità con l’eccezione dei primi collegi all’iniziodella repubblica. Essa è un documento di valore eccezionale per lastoria più antica della città. Ma per tornare alla già ricordata riflessio-ne liviana a 6.1, essa è anche erronea. Lo storico non si è accorto cheal fondamento dei dati su certi avvenimenti stava un’inferenza legataalle dediche di molti templi (dunque un materiale epigrafico), deiquali dovevano essere conosciute la datazione e l’occasione: di quiera stato possibile risalire al fatto che era stato all’origine della co-struzione. Questo stesso ragionamento può valere per altre grandiopere pubbliche, alcune delle quali venivano rinviate, non senza ra-gione, all’età regia e devono aver contribuito a dare all’azione di al-cuni re una precisa connotazione.

Altri dati erano forniti dalla trasmissione orale. Il problema del-l’autenticità di questi dati si pone in modo diverso. Ottime indaginirecenti consentono importanti precisazioni. I quesiti principali paio-no essere i seguenti: chi trasmette e che cosa viene trasmesso e perquale scopo; e poi quanto è passato dalla trasmissione orale, tramiteun filtro selezionatore, nella ricostruzione storica. Le tradizioni oralisono molteplici a seconda degli usi e del milieu sociale che le conser-va, le elabora e le trasmette: le tradizioni gentilizie sono molto diffe-renti da quelle appartenenti agli strati popolari. Formule e materialigiuridici e contenuti legislativi (a cominciare dallo stesso testo dellalegge delle Dodici Tavole) hanno avuto un loro impiego e una lorovita indipendente, estranea alla tradizione storica vera e propria (val-ga qui l’esempio del passo ciceroniano; per la fase orale della giuri-sprudenza romana pontificale si può rinviare all’opera di AldoSchiavone su giuristi e nobili: vd. Bibliografia). Un buon numero didati relativi a fatti storici devono essere stati trasmessi nell’ambitodelle famiglie nobili; essi possono essere stati connessi alla lista deiconsoli e quindi ad una cronologia abbastanza sicura. Il pericolo del-la deformazione non è da sottovalutare, come già sapevano gli anti-chi, ma va anche considerato che la trasmissione avveniva sotto ilcontrollo del gruppo sociale. La costruzione di ascendenze regalisarà stata almeno in parte un fatto pertinente alla gens, ma abbastan-za generalmente accettato se è poi potuto penetrare nella tradizioneannalistica già per tempo. Tali ascendenze presuppongono già esi-stente un patrimonio di notizie sui re ed avranno, per altro, anchecontribuito ad accrescerlo.

Dati relativi alla religione e ai riti si potevano appoggiare alla sor-

1.2. I dati dell’antiquaria

1. Problemi di metodo per la storia di Roma arcaica26

vegliata continuità della ripetizione ed anche a documentazione tem-plare, e la loro trasmissione era certamente vincolata e meno de-formabile. La loro incidenza sulla formazione della tradizione non èda sottovalutare, dato che quel processo di formazione è certamenteavvenuto ad opera di senatori e pontefici.

Possono forse sembrare più dubbie le nozioni relative ad istitutipolitici e a procedure costituzionali per la tendenza, che sarà già statain atto nel V e IV secolo, a spostarli all’indietro nel tempo e a concen-trarli in certi periodi. Monumenti, statue, anche iscrizioni, toponimi,dei quali si era anche in parte perso il ricordo delle origini e dellecause, devono aver alimentato interpretazioni e tradizioni leggenda-rie, anche a livello popolare, collocate però in momenti storici che sipensavano precisi.

Infine, al momento fra IV e III secolo nei quali tutti questi svariatimateriali furono selezionati per entrare a formare il corpo storico,che sarebbe poi stato trasmesso alla prima annalistica, sarà stato age-vole organizzarli anche tenendo conto di confronti con quanto si sa-peva dello svolgimento storico e istituzionale di città greche ed etru-sche. È probabile che si possano ricercare anche in questa situazionele origini di quella concezione di una koiné italica, che è divenuta,pur con molte varianti, per opera della moderna storiografia, uno deicanoni interpretativi della storia di Roma fra VII e V secolo, toglien-dola così dal suo isolamento lineare e consequenziale. Che un regi-me monarchico potesse assumere tono popolare e antiaristocratico,che talora finisse nella tirannide e che questa venisse rovesciata dal-l’aristocrazia, la quale a sua volta sarebbe venuta a contrasto con ilpopolo, rappresentava uno schema che, al di là della sua aderenzaalla realtà romana, doveva essere ben conosciuto.

Va comunque ribadito il concetto che filoni diversi di diversadocumentazione debbono essere tenuti distinti nell’analisi e noncomparati a sostegno vicendevole di notizie o di dati, o anche giu-stapposti o semplicemente inseriti in un contesto non loro. È pre-feribile creare quadri disgiunti, elaborati con le oramai raffinate tec-niche metodologiche per i differenti tipi di documentazione; soltantoallora sarà possibile e utile un confronto che non dovrà poi mai signi-ficare conciliazione ad ogni costo e ricostruzione unitaria.

2. L’età arcaica34

2.2. LA ROMA DEI TARQUINII

Un saggio memorabile di Giorgio Pasquali – La grande Roma deiTarquinii, pubblicato nella «Nuova Antologia», 16 agosto 1936, pp.405-416 – ha rappresentato un momento epocale nello svolgimentodella ricerca moderna sulla Roma del VI secolo a.C., nell’età dellamonarchia etrusca. Come era inevitabile, la visione e l’interpretazio-ne prospettate nell’articolo hanno suscitato, e continuano a suscitare,una serie infinita di discussioni; ed è singolare che il grado di assen-so, molto più alto soprattutto in Italia che non il dissenso, non sia maidiminuito, sebbene alcuni degli argomenti principali portati dal Pa-squali a sostegno della sua tesi siano oramai apparsi insostenibili.Questo favore permanente è in larga parte dipendente dalla diffusateoria che l’indubbio amplissimo progresso di conoscenze legato allescoperte archeologiche abbia portato ad una conferma sostanzialedella tradizione storico-letteraria. Non per niente l’enfasi sulla Gran-de Roma dei Tarquinii è stata accentuata da ricche mostre ar-cheologiche.

Si pone, in questo caso e in primo luogo, un delicato problemaepistemologico sulla possibilità di comparare serie documentarie di-verse, lontane nel tempo e da affrontarsi con metodologie proprie. Ilcriterio stesso della conferma è in se stesso equivoco. In realtà il ri-schio di cadere e la frequentissima caduta in un ragionamento circo-lare vizioso sono evidenti: dati della tradizione letteraria e confermearcheologiche si sorreggono a vicenda nel senso che prima il datoarcheologico è valutato, implicitamente o esplicitamente, in un qua-dro generale offerto dalla tradizione letteraria; questa è poi “confer-mata” dall’evidenza archeologica così interpretata. Inoltre il dato ar-cheologico viene spesso generalizzato e quindi enfatizzato. Ad ognimodo, senza rifare qui la storia dell’idea pasqualiana nei successivisessant’anni (tanto più che essa è già stata esaminata da Ampolo consostanziale approvazione, e da Kuhoff con un approccio nuovo alproblema: vd. Bibliografia), è necessario ricordare che per il Pasqua-li la Roma della monarchia etrusca si presentava come città ampia ericca, con spiccato carattere grecanico, nelle manifestazioni artistichee culturali e nella stessa struttura politica di fondo, con carattere mer-cantile e attività industriose. A questa fase alta sarebbe seguita allafine del VI e all’inizio del V secolo una generale decadenza, durata alungo, inevitabile conseguenza proprio della caduta della monarchiaetrusca.

Nel complesso quadro delineato entravano, come è stato detto,

1.3. Drammaturgia 35

taluni elementi di per sé non nuovi, altri frutto di recentissime indagi-ni e non da tutti accettati, che venivano ripensati in modo unitario eapparentemente coerente. Come è affermato nella frase finale delsaggio, il quadro portava nella propria unità la garanzia della propriaverità. L’affermazione potrebbe mascherare un’intrinseca debolezza,appunto perché parecchi degli elementi del quadro erano già allora(e tanto più lo sono ora) insicuri e, se presi di per sé, non indicativi.Nello stesso anno 1936 Giorgio Pasquali aveva pubblicato ilvolumetto Preistoria della poesia romana, nel quale sosteneva che lacreazione del saturnio recitativo risaliva alla fase finale dell’età regiaper diretta influenza greca, probabilmente da Cuma. La teoria di persé non traeva seco di necessità implicazioni politiche, non più peresempio dell’adozione greca dell’alfabeto fenicio. Essa era inquadra-ta nella prospettiva di una vasta penetrazione culturale greca in Romanel VI secolo, che era sorretta da altri elementi più decisamente svi-luppati nell’articolo della «Nuova Antologia».

Questi fattori congruenti erano: l’ampia presenza di frammenti diterracotte architettoniche, di ispirazione ionica, appartenenti verosi-milmente ad edifici monumentali; resti di una muraglia probabilmen-te risalente all’età serviana, delimitante una vasta area urbana e il ri-cordo di templi riferiti alla fine dell’età regia e dedicati a divinità gre-che; la prosperità economica connessa ad un’attività di traffici com-merciali, e specialmente del legname: essa era confermata dalla men-zione di artigianati e mestieri (i collegia opificum venivano fatti risali-re dalla tradizione al re Numa Pompilio); il latino era interpretato, diconseguenza, come un idioma più di ceto mercantile e artigiano chenon rurale; l’ordinamento timocratico centuriato attribuito al reServio Tullio (che avrebbe spezzato il dominio delle gentes e che pre-supponeva una società evoluta) era ritenuto ispirato dalle analoghecostituzioni greche, anche nei suoi aspetti militari: la falange opliticasarebbe stata importata dalla Grecia. Il Pasquali accettava con entu-siasmo l’interpretazione che Plinio Fraccaro dava dell’identità struttu-rale fra le centurie della fanteria pesante della legione romana e lecenturie dei iuniores delle prime tre classi dell’ordinamentocenturiato, ne condivideva la risalenza all’età serviana e quindi l’attri-buzione all’inizio dell’età repubblicana, per la presenza di due con-soli, del raddoppio dei quadri legionari con il dimezzamento degliorganici. In questa prospettiva la presenza dell’elemento etrusco eradecisamente minoritaria, malgrado il dominio esercitato da re etru-schi. Tuttavia l’accoglimento della datazione polibiana del primo trat-tato romano-cartaginese al primo anno della repubblica (509 a.C.)

2.2. La Roma dei Tarquinii

2. L’età arcaica36

induceva a ritenere che Cartagine avesse considerato Roma comeuna delle città etrusche con le quali, come sappiamo da Aristotele(Politica, 3.1280a.36), aveva stipulato trattati.

Molte delle componenti questo quadro, con le relative argomen-tazioni, sono incertissime. Non discuto di proposito della risalenza alVI secolo della creazione del saturnio e di quanto attiene alla storialinguistica (è andata sempre più accentuandosi la ricerca di vocabolidi origine greca nel latino arcaico), in quanto non sembrano elementiessenziali per una interpretazione globale della Roma di VI secolo. Ipunti di forza sono altri. Il fattore archeologico fondamentale era rap-presentato dalla preesistenza, rispetto al muro “serviano” di IV seco-lo, di una muraglia di VI secolo, la cui estensione permetteva calcolisull’area urbana e sulla popolazione, e confronti con altre città con-temporanee. Di fatto, come riconosce lo stesso Pallottino, di questoeventuale muro dell’età regia non si sa nulla. Dubbi molto forti sonostati avanzati, a ragione, anche a proposito di altri grandi manufatti ecomplessi edilizi, fatti risalire ai re etruschi, e che avrebbero dovutofornire una prova archeologica per la tradizione annalistica (tempiodi Giove Capitolino, cloaca maxima, circo massimo). Pare chiaro chele terracotte architettoniche, fra l’altro presenti in varie altre localitàlaziali, non possano reggere da sole l’onere della dimostrazione ri-chiesta all’evidenza archeologica.

Un altro pilastro della costruzione del Pasquali era rappresentatodall’accoglimento delle teorie del Fraccaro su La storia dell’antichis-simo esercito romano e l’età dell’ordinamento centuriato, che diederoluogo negli anni trenta ad un’accesa discussione, che è continuata, sudi un tono più pacato, anche in seguito. Il problema coinvolgevaaspetti politico-costituzionali, militari ed economici, in quanto sug-geriva una visione “modernizzante” della società romana. L’osserva-zione, o meglio la scoperta (come riconobbe il De Sanctis) delFraccaro riguardava l’identità strutturale fra le 60 centurie delle fante-rie di linea della legione romana e le centurie degli iuniores delle pri-me tre classi del cosiddetto ordinamento serviano (40+10+10 = 60).Anche le 25 centurie degli armati alla leggera dell’ordinamentoserviano corrispondevano agli altrettanti veliti assegnati ad una legio-ne (2400). La coincidenza sembra dimostrare che in un certo momen-to storico le classi serviane formavano la legione, l’intero esercito ro-mano, di circa 6000 opliti (100 per centuria). Era stata evidentementesuperata la fase anteriore “romulea” dei 3000 armati forniti dalle tretribù genetiche, e dei 300 cavalieri. In età sicuramente storica una le-gione comprendeva una media di 50 uomini per centuria, vale a dire

L’antichissimoesercitoromano

1.3. Drammaturgia 37

un totale di circa 3000 fanti. E poiché ogni esercito constava di normadi due legioni, sembra naturale ricavare la conclusione che erano sta-ti raddoppiati i quadri della singola legione precedente, per formarnedue, e che era stato diviso fra le due legioni il contingente totale di6000 fanti. Questo raddoppio era messo in relazione dal Fraccaro conl’istituzione dei due consoli all’inizio della repubblica, al posto delprecedente unico comandante, il re o un suo delegato. Premessa econseguenza del ragionamento del Fraccaro era la risalenza servianadell’ordinamento serviano, quale ci è descritto dalla tradizione lette-raria, anche se nella discussione con il De Sanctis, che seguì alla suascoperta, egli riconobbe che l’ordinamento stesso, e quello della le-gione, potevano aver subito mutamenti e adattamenti nel tempo (peresempio la distinzione fra iuniores e seniores). Una spiegazione, ipo-tetica ma non priva di un certo grado di probabilità, è quella prospet-tata da vari studiosi, e fondata su di un passo di Catone riferito daGellio (Noctes Atticae, 6.13), che l’originario ordinamento “serviano”comprendesse, accanto agli equites, la classis, forse non solo compo-sta da uomini della prima classe di censo, corrispondente alla legionedi 6000 fanti, e gli infra classem, cioè truppe armate alla leggera eanche non combattenti. I punti problematici restano parecchi, e insostanza possono essere così formulati: quale possa essere l’eventua-le risalenza di questo ordinamento con le sue implicazioni politiche erispetto al quadro generale, sociale ed economico, che esso presup-pone. Inoltre quali sono state le fasi di svolgimento attraverso le qualisi sarebbe passati per arrivare allo schema finale dell’ordinamentocenturiato, sia sul piano socio-economico, sia militare e politico.

Che lo schema dell’ordinamento serviano a noi descritto dallatradizione letteraria, cinque classi di censo e 193 centurie, pur pre-scindendo dai valori monetari che avrebbero contraddistinto le stesseclassi, non possa risalire alla metà del VI secolo è ora abbastanza ge-neralmente ammesso. Questa struttura presuppone una complessaarticolazione della società e una consistenza di capacità economichenon ammissibile neppure per l’ultima età regia. L’idea di Roma nellafase dei re etruschi come di una città di sviluppate attività artigianalie commerciali era connessa anche all’accoglimento, pressoché acriti-co, dei dati tradizionali sulla risalenza al re Numa dei collegiaopificum (passo fondamentale Plutarco, Numa, 17), e su una pretesaconferma archeologica di quei dati (che i collegia siano presuppostinelle Dodici tavole è infondato).

Nessuno dubita, e anzi abbiamo spesso ripetuto, che Roma abbiaavuto una sua centralità per i traffici connessi con il Tevere e il suo

L’economiadi Romaarcaica

2.2. La Roma dei Tarquinii

2. L’età arcaica38

attraversamento, e che debba a questa sua posizione il ruolo rilevan-te che essa andò assumendo, ma la situazione economica della Romaetrusca era ancora legata all’agricoltura e dominata da gruppi gen-tilizi. In altri termini, come indica bene il caso ateniese, si può pensa-re per il VI (e il V) secolo, nel quadro di forme economiche pre-monetarie, ad una società gentilizia, che aveva al suo interno diffe-renziazioni economiche, non ad una città politicamente organizzatasu vari livelli di censo. In questo modo potevano venire valorizzatedifferenti capacità economiche ai fini della milizia, ma si era ben lon-tani da quella teorizzazione ideologizzata dell’ordinamento centu-riato (capacità economiche-servizio militare-diritti politici), che ci of-fre l’immagine di un corpo civico globalmente e coerentemente inte-grato nello stato, e che non è se non l’interpretazione dell’esito finaledi un processo storico svoltosi a lungo nel tempo. È stato da più partirilevato che questo processo deve aver conosciuto un momento deci-sivo fra V e IV secolo, in relazione ad una precisa contingenza, quan-do durante l’assedio di Veio la tradizione colloca l’istituzione dellostipendium e del tributum (vd. più avanti). Sulla scia della tradizioneannalistica si attribuisce di norma all’ordinamento serviano un preci-so significato statale cittadino, con una valenza più propriamente“popolare” (sebbene nella storiografia antica sia presente anchequella opposta, sfruttata dalle valutazioni politico-ideologiche del-l’età postgraccana). Ma anche sugli aspetti propriamente tecnico-mi-litari dell’ordinamento serviano è necessario presentare delle preci-sazioni.

L’ordinamento oplitico, con il suo tipico armamento, la tecnicadel combattimento e soprattutto i suoi presupposti sociali ed econo-mici, si andò sviluppando lentamente nel mondo greco dalla metàdell’VIII secolo, in una società di guerrieri aristocratici, senza nessunparticolare riflesso politico, anche quando nel VII e VI secolo la strut-tura politica cittadina si andò allargando a più vasti strati di proprieta-ri terrieri. Ancora alla metà del V secolo il «Vecchio Oligarca» (comeviene spesso chiamato l’autore della pseudo-senofontea Costituzionedegli Ateniesi) considera legittimamente gli opliti a fianco degli ari-stocratici e in opposizione al demos. Il modello greco degli oplitifu introdotto in Etruria, a quel che sembra, non prima della metà delVII secolo, lentamente e gradualmente fra quella data e la metà del VIsecolo. Fu adottato da una società oligarchico-gentilizia senza che nederivassero, per quel che si sa, mutamenti al suo interno e senza chesi possa pensare ad una qualsiasi scansione timocratica, anche se,evidentemente, i militi saranno provenuti dalla classe subalterna, la

Ordinamentooplitico

1.3. Drammaturgia 39

quale, tuttavia, nelle città etrusche di età classica non pervenne maiad elevarsi a quella posizione cittadina e a quella coscienza civicache contraddistinsero, poi, l’esercito centuriato romano.

D’altra parte è difficile poter determinare come si sia andata for-mando la peculiare struttura della società etrusca, caratterizzata dadomini e da servi, non privi di una certa autonomia economica anchese politicamente dipendenti (oltre che da schiavi). Essa certamentenon ebbe origine in situazioni confrontabili con il mondo greco, nelquale forme di servaggio furono l’effetto della sottomissione di popo-lazioni preesistenti a nuclei di conquistatori sopraggiunti dal di fuori.Almeno dal III secolo fu poi nell’interesse del governo romano man-tenere il più possibile inalterato il tipico carattere della società dellecittà etrusche.

Il sistema oplitico-falangitico con il relativo armamento passaro-no dall’Etruria a Roma fra il VI e il IV secolo: una precisa cronologia ènaturalmente impossibile da determinare. La derivazione etrusca erariconosciuta dalla tradizione romana (Diodoro, 23.2; Ineditum Vati-canum, III), alla quale non interessava la remota risalenza ellenica.Anche se questa introduzione dovesse essere collocata nell’età dellamonarchia etrusca, non c’è nessun motivo per credere che essa abbiatratto con sé, immediatamente, una diversa struttura della società ro-mana, e un differente valore politico. Si era pur sempre in un conte-sto gentilizio, e sarà più tardi che l’ordinamento serviano venne assu-mendo quel valore politico, che sarà proiettato all’indietro alle suepretese origini. Ancora nei primi decenni del V secolo le armategentilizie erano formate dai membri delle gentes e dai loro clienti.

Il problema storico fondamentale sta proprio nel diverso svilup-po che, all’interno di una struttura comune alle città etrusche, ebberoin Roma le forze della classe subalterna (plebe). Ma Roma non eramai stata una città etrusca; era più aperta ad esperienze e influenzeculturali esterne; era socialmente più vivace. La progressiva valoriz-zazione militare degli strati inferiori, necessaria per una politica dipur modesta espansione, e anche di difesa, portò con sé conseguen-ze politiche e istituzionali che mutarono l’intero impianto cittadino.La struttura statale andò acquistando consistenza e organicità; la stes-sa classe aristocratica dominante dovette darsi un’autoregolamen-tazione per mantenersi al potere.

Se si accetta l’idea che lo schema dell’ordinamento centuriato“serviano” sia andato completandosi nelle sue cinque classi nel corsodel V secolo, proprio riflettendo la sempre più vasta utilizzazionenella milizia di elementi inferiori cresciuti economicamente, si po-

2.2. La Roma dei Tarquinii

2. L’età arcaica40

trebbe ipotizzare che la magistratura dei tribuni militum consularipotestate, che dal 444 al 367 a.C., in numero variabile da tre a otto,sostituirono in molti anni i consoli, potrebbe aver corrisposto ad au-menti della forza bilanciata romana. In tal caso potrebbe risalire allafine del V – inizi del IV secolo il rapporto fra ordinamento servianoconcluso e la struttura della legione individuato dal Fraccaro. In que-sto caso il raddoppio dei quadri della legione potrebbe essere riferitoal ripristino definitivo dei due consoli, uno dei quali obbligatoria-mente plebeo, nel 366 a.C.

Dunque anche l’ordinamento serviano, del quale è anche discuti-bile la derivazione greca, non può avvalorare la ricostruzione dellaRoma regia proposta dal Pasquali, ed è significativo che l’Ampolo,nel suo ripensamento del lavoro pasqualiano, abbia praticamente la-sciato cadere questo argomento. Resta, e certamente problema dinon poco conto, il primo trattato fra Cartagine e Roma, che Polibiodatava al 509 a.C., con tutte le sue implicazioni politiche, prima fratutte il riconoscimento da parte di Cartagine di un controllo romanosulla costa tirrenica dalla foce del Tevere a Terracina. Per affermazio-ne esplicita di Polibio la stessa clausola ricorreva anche nel secondotrattato, che viene normalmente riferito a circa centocinquant’annidopo (Polibio, 3.22-23). La data del primo trattato è stata, ed è, ogget-to di una discussione senza fine. Le difficoltà sono principalmentedovute al modo con il quale Polibio riporta, non propriamente il te-sto, ma il contenuto del trattato (lo stesso vale anche per il secondo),riferendolo in modo frazionato e intercalando commenti e spiegazio-ni proprie, che dimostrano la confusione e l’insicurezza, non soltantodipendenti dalle difficoltà dell’arcaico linguaggio testuale, con lequali lo storico e i suoi esegeti romani avevano affrontato i documen-ti.

Accogliendo la datazione al primo anno della repubblica avrem-mo un’altra prova dell’interesse di Cartagine a stringere rapporti concittà etrusche della costa, per quanto il già ricordato passo di Ari-stotele che attesta condizioni di isopoliteia fra Cartagine e Etruschi(qualcosa di analogo è previsto anche nel finale del secondo trattatopolibiano) non consenta una collocazione cronologica sicura. Le ta-volette auree con iscrizioni fenicie e etrusche rinvenute a Pyrgi, portodi Caere, databili agli inizi del V secolo, e che contengono una dedica“bilingue”, da parte di chi in Caere deteneva il potere, alla divinitàfenicia Astarte, confermano, non la datazione del trattato al 509,come si suole ripetere dai più, ma quei rapporti certamente di carat-tere mercantile. L’aspetto principale dei due trattati, non sempre te-

Trattatiromano-

cartaginesi

1.3. Drammaturgia 41

nuto nel debito conto nelle analisi critiche, è la profonda disegua-glianza fra i due contraenti, che spiega anche il dissimile carattere deiloro impegni. Roma è in netta condizione di inferiorità. Al di là di al-cune clausole di apparente reciproca parità, sicuramente tralatice, lelimitazioni nei movimenti marittimi imposte a Roma appaiono gravis-sime e senza contropartita. È chiaro che i Cartaginesi possono invecesbarcare militarmente nel Lazio e agirvi come meglio credono. Inquesta prospettiva, anche ammettendo che nel 509 Roma controllas-se la costa laziale, o meglio si impegnasse anche a nome di localitàcostiere, non si può certamente parlare di Roma come di una cittàpotente. La Roma dei Tarquinii non era grande. E comunque la strut-tura urbana cittadina non era, anche in questo caso, conferma di sta-bilità politica.

2.3. Roma e i Latini

81

4.3. LE DINAMICHE ECONOMICHE E LA PRIMA MONETAZIONE

Il primo esito economico delle guerre vittoriose fu la grandiosa e-spansione del territorio romano: si calcola che tra il 338 a.C. e il 264a.C. passò da circa 5.500 a quasi 27.000 km2 e venne redistribuito at-traverso la fondazione di colonie (ne vennero fondate una ventinanelle aree centromeridionali) e l’assegnazione di terre ai cittadini.Probabilmente già in questo periodo si poté assistere alla prima for-mazione della grande proprietà terriera, che tendeva ad espandersi aspese della piccola proprietà.

Le leggi Liciniae Sextiae, che limitavano l’uso, cioè il possesso enon la proprietà, dell’ager publicus (vd. § 2.6) a 500 iugeri di terra(ca. 125 ha), sono più verosimili in questo periodo di grande espan-sione territoriale che non nella prima metà del IV secolo a.C., secon-do la datazione tradizionale. Su queste grandi tenute agricole venne-ro impiegate sempre più intensamente le masse schiavili catturate inguerra, impostando rapporti di lavoro che in Italia domineranno peralcuni secoli. La città di Roma ricomiciò a ingrandirsi, a popolarsi, adornarsi di grandi templi e monumenti finanziati con il bottino di guer-ra e a divenire lo spazio urbano di alcune importanti attività artigia-nali. Il sarcofago di Scipione Barbato e la cosidetta Cista Ficoroni, uncofanetto di bronzo firmato dal suo artefice con il nome romano diNovius Plautius, sono tra gli esempi più noti di questo artigianato ro-mano. Nell’ambito della produzione più di massa, la ceramica a ver-nice nera venne esportata non solo in Italia, ma anche in Gallia, Spa-gna, Sicilia e Africa cartaginese. Del resto Roma sarà sempre una cittàimportatrice di grano e di beni alimentari, che deve in qualche modoripagare con altri tipi di esportazione.

L’allargarsi degli scambi rese oggettivamente necessario aumen-tare e qualificare i mezzi di scambio attraverso l’adozione della mo-neta, che era stata inventata in Grecia già attorno al VI secolo a.C.Venne superata l’antica forma di pagamento attraverso barre di rameindistinte e senza iconografia che valevano secondo il loro peso (aesgrave). Si introdussero lingotti di rame fuso contraddistinti da imma-gini diverse: il maiale, l’elefante (dopo Pirro), l’ancora navale ... Illoro standard ponderale era definito intorno ai 1625 gr ed il loro va-

Moneta

4.3. Le dinamiche economiche e la prima monetazione

4. La conquista dell’egemonia in Italia82

lore nella circolazione e negli scambi doveva essere superiore a quel-lo del loro peso: cominciava cioè la civiltà della moneta.

Del resto, già dai primi anni del III secolo a.C. i Romani avevanocominciato ad imitare le monete della Magna Grecia, facendo coniaredidracmi di argento con diverse raffigurazioni e legende. È difficilespiegare come potessero coesistere forme di pagamento così diversecome l’ancor primitivo aes signatum e le belle doppie dracme di tipogreco: probabilmente circolavano in aree diverse e differentementeevolute. Alla fine del secolo (tra il 214 e il 211 a.C.) i Romani intro-dussero un loro particolare sistema monetario che, attraverso innu-merevoli evoluzioni, giungerà a dominare tutta l’ecumene. Il sistemaoriginario che rapidamente si evolse a causa di una serie di riduzioniponderali può essere così schematizzato.

PESILibbra di circa 325 grammiOncia di 1/12 di libbra (ca. 28 gr.)Scrupolo di poco più di 1 gr.

MONETA DI RAMEDenominazione Peso Segno valore Immagine Immagine

Diritto Rovescio

Asse 12 once I Giano Prua naveSemiasse 6 once (1/2) S Giove »Triente 4 once (1/3) .... Minerva »Quadrante 3 once (1/4) ... Ercole »Sestante 2 once (1/6) ... Mercurio »Oncia 1 oncia (1/12) . Bellona »

MONETA D’ARGENTODenario: da un iniziale 1/72 di libbra passa a 1/84 e poi, con Nerone, a 1/96. Ilsuo segno di valore è inizialmente X (= 10 assi) e, dalla metà del secondo se-colo a.C., diviene XVI, siglato in forma di asterisco X (= 16 assi).Quinario = 1/2 denario, sigla VSesterzio = 1/4 di denario, sigla HS

MONETA D’ORODopo tre emissioni tra il III e il II secolo le coniazioni vennero abbandonatefino a Silla e ripresero in grande stile solo con l’Impero e le sue ampie coniazionidi Aurei.

Ma il denario di argento costituì a lungo il perno del sistema: erauna moneta di circa 4 grammi dal valore di circa 4 dollari. Le conia-zioni furono subito massicce e, a volte, ci è possibile calcolarle: nel-

83

l’89 a.C. vennero coniati più di 39 milioni di denari, soprattutto perpagare le spese belliche e le opere pubbliche.

Originariamente il valore del metallo e quello della moneta eranomolto vicini, ma era interesse dello stato divaricare il più possibilequesti valori. Dal III secolo d.C. il valore del metallo divenne un’infi-ma percentuale del valore attribuito forzosamente dallo stato allamoneta. Grande fu il guadagno per le casse dello stato, che potevaprodurre moneta al costo di 1 e venderla virtualmente a 100. Ma l’ar-tificio finanziario contribuì ad innescare un’inflazione vertiginosa,con un aumento incontenibile dei prezzi. Nel IV secolo d.C. il proble-ma venne risolto tornando ad una moneta dal valore corrispondenteal peso del metallo che la componeva (quindi una non-moneta).Questa volta il metallo sarà l’oro dal fascinoso colore giallo rilucente.La moneta si chiamerà solidus, da cui il nostro «soldo».

4.4. La frontiera settentrionale: i Galli e le prime colonie

8.

L’ECONOMIA TRA LA FINEDELLA REPUBBLICA E L’IMPERO

L’incessante successione di guerre civili, esterne, rivolte schiavili, pu-lizia dei mari contro i pirati, mutò apparentemente i connotati del-l’economia romana. Ampi spazi si aprirono a fornitori degli eserciti,mercanti, banchieri, usurai, finanziatori di leaders politici in lotta. Ilcapitale finanziario sembrava assumere un ruolo emergente rispettoall’economia agraria fondamentale. Inoltre l’immanenza della guerraincideva sulla forma e distribuzione della ricchezza, sulla metamorfo-si della struttura fondiaria, sull’articolarsi e il definitivo espandersidei mercati su scala intercontinentale (Europa, Asia, Africa). L’inelu-dibile necessità di pagamento delle legioni accelerò i ritmi produttividelle zecche, gonfiò i flussi finanziari aumentando la massa moneta-ria, ma concentrando la liquidità nelle scelte mani di persone che si-multaneamente potevano essere banchieri, speculatori, appaltatori diopere pubbliche e rifornimenti per l’esercito. Mentre costoro poteva-no succhiare l’enorme liquidità messa in circolazione dallo Stato, itradizionali rappresentanti della ricchezza terriera, assieme al popolominuto, potevano contemporaneamente soffrire di carenza di mezzidi pagamento (inopia nummaria). Per questo si doveva ricorrere abanchieri-argentarii anche per acquisti e crediti di minima entità.

Nel 92-91 a.C. si cercò – con la lex Papiria – di svalutare la mone-ta spicciola di rame al fine di aumentarne il volume, ma il cambio trale monete divenne così instabile che si dovette stabilizzarlo d’impe-rio. Anche gli interventi sul problema dei debiti e dei tassi di interes-se si moltiplicarono. In questo contesto assunse un ruolo emergenteil capitale finanziario (o usuraio) che si accaparrava la liquidità, in unsistema in cui il ruolo delle banche è circoscritto e limitato da tecni-che bancarie che lentamente si affineranno ma non giungeranno maipropriamente all’impiego di strumenti come l’assegno con girata.

Paradigmatica è la figura di Rabirio Postumo. Figlio di un poten-

8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero150

tissimo pubblicano, dominò il settore degli appalti pubblici, probabil-mente ancora nel 46 a.C., quando Cesare lo incaricò dei rifornimentidella Sicilia. Prestò denaro a nazioni e re, come Tolemeo Aulete diEgitto. Nel 55 a.C. si fece nominare ministro delle finanze del regno diEgitto per recuperare i suoi crediti: un finanziere assume una figuraistituzionale per salvaguardare i propri interessi. Non diversa apparela figura di Bruto, il tirannicida. Nel 56-50 a.C. aveva prestato enormicifre alla città di Salamina di Cipro al tasso esorbitante del 48% annuo,facendosi convalidare l’operazione da ben due deliberazioni del se-nato e, davanti alla difficoltà nel riscuotere il credito, ottenne l’inviodi alcuni squadroni di cavalleria per assediare la sede del senato diSalamina, nella quale cinque consiglieri morirono di fame.

Il circuito zecca-esercito-lavori pubblici-appaltatori aveva pola-rizzato la ricchezza mobiliare nelle mani di un’oligarchia finanziariache – come sempre sotto il sole – dopo avere prosciugato la liquidità,si trovava a sua volta in difficoltà a recuperare i crediti concessi a tas-si di interesse così esorbitanti da dovere essere ridotti per legge. Tut-tavia la politica monetaria dello stato sostenne attivamente una taledomanda di liquidità. La massa monetaria in circolazione si facevaenorme, anche se nei momenti di guerra aumentava il numero deitesori monetari sotterrati e non recuperati, fenomeno che incise sullaliquidità contraendola sensibilmente. Noi ci possiamo approssimareal suo ordine di grandezza calcolando il numero dei conii impiegati emoltiplicandolo per il presumibile numero di monete che ogni coniopuò produrre: dagli anni 90 ai 50 a.C. circolarono più di 400 milionidi monete romane d’argento (oltre a quelle in oro e rame). Comun-que i circuiti di circolazione di questa massa monetaria erano quelliimposti dalle esigenze di rifornimento ed equipaggiamento deglieserciti, così da determinare l’inaridimento monetario di intere regio-ni: è eloquente il fatto che, dopo che Pompeo ottenne il diritto di at-tingere alle risorse finanziarie dell’Asia per pagare la guerra asiatica equella contro i pirati che infestavano i mari, il governatore della pro-vincia di Ponto-Bitinia del 61-59 a.C., Papirio Carbone, abbia dovutorimonetizzare la regione facendo funzionare ben otto zecche.

8.1. DALL’ECONOMIA DEL BOTTINO AL FISCO IMPERIALE

Con l’esaurirsi dell’espansionismo militare non fu più possibile gesti-re le finanze dello stato con gli enormi bottini conquistati ai popoli

151

vinti. Si rese necessario coordinare un sistema fiscale e tributario checonvogliasse un flusso regolare di risorse a Roma, da dove venivanoredistribuite secondo le necessità imperiali.

Se il tributo è un premio alla vittoria, deve dunque essere pagatodai popoli vinti. I cittadini romani, esentati dall’imposta patrimonialedopo Pidna, pagavano solo il 5% sulla manomissione degli schiavi esull’eredità, oltre alle imposte indirette (dazi, dogane, ...). Per gli altriabitanti dell’impero la categoria fiscale era quella dell’imposta inver-samente proporzionale: la quota fiscale è più alta quanto più è bassolo status socio-giuridico. Ma il sistema non era omogeneo su scalaimperiale. I conquistatori si limitarono ad ereditare e perfezionare lefiscalità precedenti, organizzate con particolare cura durante il perio-do ellenistico. L’imposta più gravosa, quella fondiaria, veniva riscos-sa come 1% del valore monetario in Siria e Cilicia, mentre in altre pro-vince si pagava una sorta di decima sulla produzione. A queste impo-ste centrali se ne aggiungevano svariate altre, diverse da provincia eprovincia: sull’artigianato (che in epoca tardo-antica comprese anchela prostituzione), sui cambi monetari, dazi, dogane, corvées, impostedel registro ...

Rapidamente mutò il modo di riscossione: un severo controllosugli appalti aveva nientificato i peccati speculativi dei pubblicani,che vennero sostituiti da burocrati o da persone fiscalmente vincolatealla riscossione (munera personalia). Nel giro di pochi decenni lamorsa fiscale si fece più acuta: a metà del I secolo d.C. province comela Gallia e l’Egitto dovevano pagare un tributo circa dieci volte supe-riore a quello che inizialmente avevano dovuto pagare a Cesare eAugusto (Frank).

È impossibile ricostruire l’entità delle entrate fiscali. Utilizzandofonti incerte e imprecise ed elaborando estrapolazioni statistiche sipossono approssimativamente valutare queste entrate in 1,4 miliardidi sesterzi in epoca flavia e un PIL di 6 miliardi di sesterzi. Ma unabuona parte di questa quota veniva impiegata per il mantenimentodell’esercito, che però spendeva i propri stipendi nelle diverse pro-vince dove era stanziato, attivando una domanda solvibile che solle-citava positivamente le economie locali. Veniva messo in moto cosìun processo di accentramento dei surplus estorti e di redistribuzioneparziale degli stessi che induceva importanti dinamiche economiche.

Un complesso meccanismo di redistribuzione permette di diffe-renziare tra province importatrici di imposte e province che attraver-so il fisco subivano un salasso di ricchezze. Le élites dominantiinsediate a Roma non si limitavano a consumare risorse procurate at-

8.1. Dall’economia del bottino al fisco imperiale

8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero152

traverso lo sfruttamento fiscale delle province, ma le ripartivano adaltre élites provinciali che divenivano protagoniste di una riuscitaeconomica che permetteva di uscire da uno spazio periferico per di-venire centri nuovi in espansione. È il caso della Gallia Belgica. Lostanziamento permanente di consistenti forze armate romane la tra-sformò in un polo di attrazione di ricchezze e quindi di opportunitàper i proprietari terrieri, prevalentemente Celti, che nel rifornimentodegli eserciti romani trovarono il modo per ottimizzare i profitti.

8.2. IL MONDO DELLE MERCI

Già da secoli l’economia romana aveva superato il limite di una pro-duzione e di un commercio tesi quasi esclusivamente all’esigenzaprimaria dell’approvvigionamento alimentare, dentro un orizzontedove l’acquisizione di oggetti preziosi e voluttuari presentava i pre-minenti connotati simbolici e di prestigio che caratterizzano una so-cietà antropologicamente primitiva. Ormai, malgrado le reiterate leg-gi contro il lusso, la domanda di beni sontuosi (marmi, opere d’arte,vestiti preziosi, cibi esotici, abitazioni alla greca, schiavi colti, ...) sicostituiva come un circuito economico quantitativamente circoscrittoalle élites, ma qualitativamente significativo a causa dell’alto valoreaggiunto di queste merci provenienti dalle lontananze di ogni puntocardinale. L’economia del lusso delle classi agiate appariva simmetri-ca all’economia di sussistenza di larga parte della popolazione.Ovunque emergeva una borghesia municipale che – anche nei centriperiferici come Aquileia – abitava case invidiabili ornate di mosaiciellenistici e che si concedeva il lusso raffinato di gemme, ambre delBaltico, vetri preziosi, ceramiche fini, ora importate dall’Oriente, oradi produzione locale, perché anche in Italia stava nascendo un arti-gianato, talvolta di dimensione manifatturiera, sempre più autonomodal legame con l’agricoltura e aperto – ovviamente più al centro chealla periferia – alla suggestione dei nuovi gusti ellenistici.

Strutturalmente la dimensione del commercio doveva essere am-pia, sia per il trasporto delle tasse in natura, sia per la domanda dellamassa dei contadini che, pur ai limiti di sussistenza, domandavanovestiti, strumenti di lavoro e occasionali oggetti di lusso, almeno perle feste rituali e per i matrimoni. È stato valutato che, se il 10-15%della popolazione dell’Impero viveva in città, questo comportava uncommercio di oltre un milione di tonnellate di grano (o equivalente)

153

solo se la popolazione urbana avesse consumato un minimo vitale dicirca 220 chili di grano. Le carestie ricorrenti sollecitano questi flussicommerciali (vd. anche § 14.2). I rifornimenti all’esercito ne gonfiava-no sensibilmente il volume: quattro legioni al consumo di un litro divino giornaliero pro capite richiedono un commercio di settecento-mila ettolitri l’anno. E nei momenti cruciali le legioni saranno alcunedecine.

Gli scambi si intrecciavano anche al di là delle frontiere romane.Già nel II secolo a.C. una fitta trama di traffici connetteva Roma conla Gallia meridionale. Il vino, di cui i Celti erano inesausti bevitori,costituiva una delle prime voci delle esportazioni italiche, tanto piùche una norma protezionistica impediva ai transalpini di impiantarevigneti (Cicerone, De re publica, 3.9.16). I guadagni per i mercantidovevano essere cospicui, ma ancora superiori erano le entrate doga-nali che allora potevano arrivare al 300% del prezzo del prodotto. Sututto il mondo conquistato dilagavano i commercianti, anche i rap-presentanti dei senatori, cui la lex Claudia del 219/218 a.C. pur inter-diceva il grande commercio. Fin dall’inizio delle guerre mitridatiche iGreci in rivolta contro l’oppressione romana trucidarono migliaia diquesti avventurosi commercianti. Se le cifre trádite di ottantamila ocentocinquantamila italici uccisi sembrano, come al solito poco cre-dibili, forniscono tuttavia un ordine di grandezza drammatico del fe-nomeno. Il porto franco di Delo diventò il centro ombelicale di questiscambi e si specializzò nel commercio – spesso gestito da ex-schiavi– di schiavi, venduti su quel mercato prevalentemente da pirati cheavevano fatto razzie nelle città della costa asiatica. Se la cifra iper-bolica fornita da Strabone (14.5.2) di decine di migliaia di schiavivenduti quotidianamente pare ancora una volta incredibile, tuttavia ècerto che la probabile sede di questo mercato (l’agorà des Italiens) diuomini e donne poteva contenere fino a diciottomila persone. Glischiavi erano del resto una delle merci più ricercate. In Roma stessaesisteva un mercato degli schiavi (venalicium: Cicerone, Orator,232.6; equivalente allo statarion greco) situato nella zona dell’Aven-tino e gestito da commercianti specializzati, i magistri Capitolini.

Ma i mercanti non si costringevano entro i limiti dell’impero. Giàprima della conquista traianea (vd. § 12.6) la Dacia era percorsa danegotiatores alla ricerca di prodotti locali come il miele e il sale, masoprattutto per acquistare schiavi per il cui pagamento veniva accet-tata la moneta romana d’argento, la quale godeva di un tale apprez-zamento da dare origine a massicce imitazioni barbariche. Ma tra il Isecolo a.C. e il I secolo d.C. i commerci italici segnarono un declino.

8.2. Il mondo delle merci

8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero154

Un’analisi condotta sull’importante mercato di Ostia indica una rapi-da crescita delle importazioni dalla Spagna, Gallia e Africa. Simmetri-camente la ceramica del tipo di Arezzo (dopo un grande successo suimercati) cominciava a sparire dalle frontiere germaniche, mentre piùtardi l’intera produzione ceramica italica sembrò soppiantata dalleofficine galliche e africane.

Con la fine delle guerre civili, il costituirsi dell’Impero e l’instau-rarsi della pax augusta l’economia raggiunse una dimensione mon-diale. «L’Europa è totalmente autonoma: possiede una massa inestin-guibile di uomini per la guerra, per lavorare la terra, per amministrarele città. Un’altra delle sue superiorità sta nel fatto che produce i fruttimigliori e necessari alla vita, oltre a tutti i minerali utili; importa dal-l’esterno solo profumi e pietre preziose la cui scarsezza o abbondan-za non aggiunge niente al benessere della vita. Allo stesso modo l’Eu-ropa fornisce una grande abbondanza di animali, mentre sono scarsele bestie feroci» (Strabone, 2.5.26).

Si era formata un’economia-mondo: dall’Europa e da tutto ilmondo conquistato e pacificato giungevano a Roma, la metropoli-ca-pitale, merci di ogni tipo, che ne ostentavano la ricchezza e il predo-minio. Difatti, come noterà Appiano, l’impero romano aveva estesole proprie conquiste e i propri confini come mai nessun impero pre-cedentemente. Nell’Oceano erano soggetti ai Romani la maggior par-te dei Britanni. Superate le Colonne d’Ercole comandavano su tutte leisole e le terre del Mediterraneo: i Mauritani, i Numidi, i Libici, i Cire-naici, i Marmaridi, gli Alessandrini che abitavano la grande città fon-data da Alessandro Magno, e tutto l’Egitto fino all’Etiopia erano sog-getti a Roma. Più ad Oriente il dominio si estendeva su Siria, Palesti-na, parte dell’Arabia, fino a Palmira e al deserto che circonda il fiumeEufrate; comprendeva tutta l’Anatolia fino al Mar Nero e alle regioninordiche della Mesia e della Tracia. Dentro lo stesso impero erano laGrecia, la Tessaglia, la Macedonia e l’Illiria, la Pannonia e l’Italia stes-sa con le sue popolazioni nordiche di Celti e le popolazioni celtichedella Gallia, fino ai Celtiberi di Spagna. I confini dell’Impero eranodunque segnati a sud da Mauretania ed Etiopia, ad est dalla Russiameridionale e in Europa dalla linea Reno-Danubio. Ma anche oltrequesti confini numerosi popoli erano sotto il protettorato di Roma,che non li annetteva perché «poveri, senza profitto e inutili».

Nella prefazione dell’ultimo libro, perduto, della sua Storia Ro-mana Appiano avrebbe fornito una contabilità dettagliata delle en-trate e delle uscite complessive. Questo tipo di unificazione politicadi ampie regioni di Europa, Africa ed Asia non chiudeva però il mon-

Economia-mondo

155

do romano in se stesso. Le frontiere erano militarmente controllate,ma non impedivano sempre più intensi scambi con le più lontane ter-re oltre frontiera. Gli scambi attraverso il confine del fiume Reno conla Germania più orientale e fino alla Scandinavia (oggetti di vetro emetallici, monete e vino contro animali, sapone, carri e vestiti) furo-no intensi e contribuirono all’evoluzione di tipo feudale delle tribùgermaniche. Dalle regioni baltiche l’ambra grezza raggiungeva viaterra i centri di lavorazione specializzati come Aquileia ed Alessan-dria d’Egitto, da dove si diffondeva per tutto il Mediterraneo. Coloniaalle foci del Reno divenne un centro di produzione vetraria, conesportazioni in tutto il nord-ovest europeo. Verso l’Africa gli enormidepositi di anfore attorno al porto di Alessandria e ancora al confinemeridionale dell’Egitto (Kasr Ibrim) mostrano l’intensità dei rapporticon il regno di Meroe e con l’Etiopia.

Nemmeno l’Estremo Oriente restò fuori da quest’orbita: Greco-Romani si insediarono in India, dove acquistavano avorio, stoffe pre-ziose e spezie in cambio di monete d’oro e d’argento, mentre nel tar-do impero gli scambi con lo Sri-Lanka avvenivano soprattutto attra-verso monete di bronzo. Il commercio della seta cinese procedeva siavia terra, attraverso l’Afghanistan, sia passando in India e proseguen-do via mare sino al Golfo Persico e al Mar Rosso. Fonti cinesi comegli Annali Han menzionano l’arrivo alla corte di un ambasciatore del-l’imperatore Marco Aurelio, intenzionato a stabilire rapporti diretticon la Cina, evitando l’intermediazione della Persia. Secondo questotesto i Romani «sono onesti nelle loro transazioni e non fanno dueprezzi ... Il bilancio si basa su un tesoro ben provvisto».

Solo l’estremo confine occidentale, segnato dall’Oceano Atlanti-co, rimase insormontato (ma un accampamento romano è stato trova-to anche in Irlanda). In tutte le altre direzioni l’immenso e spopolatospazio dell’impero fu solcato da una trama fitta di relazioni che loposero al centro di un orizzonte mondiale. Sotto questa vivacità degliscambi agiva però il limite strutturale dei costi di trasporto, in par-ticolare via terra. I rapporti di costo fra trasporto via mare, via fiume,via terra nell’impero romano sono (dato 1 il mare): 1:4,9:28. Gli stes-si rapporti nelle zone impervie oltre la frontiera del Reno diven-tano: 1:5,9:62,5. Nell’Inghilterra del XV-XVI secolo abbiamo invece1:4,7:22,6, con una sensibile riduzione dei costi di trasporto via-terra.Nel mondo romano accadeva così che molte merci a basso valoreaggiunto raddoppiassero il prezzo nel giro di poco più di duecentochilometri, mentre in tutto il Trecento italiano il trasporto anche alunga distanza di fustagni e panni avrà un’incidenza sul costo com-

L’Oriente

8.2. Il mondo delle merci

8. L’economia tra la fine della repubblica e l’impero156

plessivo tra l’8 e il 28%.Un’iscrizione in greco e in latino della prima età imperiale trovata

in Turchia fornisce un’informazione ravvicinata sui problemi del tra-sporto via terra (Gara 1994, pp. 86-87). È una regolamentazione del-l’impiego dei mezzi di trasporto nella zona di Sogolassus. Viene fissa-to un tariffario per tali mezzi di trasporto e si elencano le categorie dipersone che ne potevano usufruire (militari, procuratori, senato-ri, ...). Ogni carro deve costare 10 assi (circa 2 dollari) all’ora, 4 assiun mulo, 2 un asino. Sono dati rilevanti: «due assi per un carico di 70-80 kg (carico di un asino) per un’ora di percorso, [sono] una cifra nonirrisoria, soprattutto considerando che il territorio di Sogolassus èmontagnoso e la distanza coperta in un’ora non poteva essere rile-vante» (Gara 1994). L’editto conferma dunque che il prezzo del tra-sporto non veniva calcolato in base al valore della merce (advalorem), ma in base al peso: merci pesanti e a basso valore aggiuntovenivano penalizzate rispetto a quelle più leggere e preziose.

1.3. Drammaturgia 255

9.15. LE ASSEMBLEE POPOLARI

I Romani impiegavano tre parole per indicare un’assemblea legittima,con(ven)tio, comitia, concilium, che etimologicamente rinviano al-l’azione di venire, andare o chiamare a raccolta.

La contio si tiene per «parlare al popolo senza sottoporre alcunaproposta al suo voto» (Gellio, 13.16.3). In ciò si distingue nettamentedalle altre due forme, che hanno funzione deliberativa (e delle qualisole, perciò, fa menzione una legge di fine II secolo, la lex Latinatabulae Bantinae, ed. Roman Statutes, nr. 7, lin. 5, nel disporre laperdita del diritto di voto a carico del trasgressore: «Qualunque magi-strato terrà i comitia o il concilium, non gli consenta di esprimere ilsuffragio»). Lo scopo primario della contio era, quindi, la comunica-zione al pubblico delle ordinanze magistratuali, che avevano perciòil nome di edicta, sebbene spesso la loro complessità ne imponessela pubblicazione anche per iscritto. La contio, tuttavia, rappresentavaanche la principale arena in cui si formavano gli orientamenti politicidella massa urbana, specialmente a partire dall’età dei Gracchi, conuna progressione che raggiunse l’apice con la tattica popolare diPublio Clodio Pulcro all’inizio degli anni cinquanta. Vi potevano ave-re luogo, infatti, anche veri e propri dibattiti, come, ad esempio, afavore (suasio) o contro (dissuasio) una proposta di legge da sotto-porre ai comitia o al concilium. Tali dibattiti, per la verità, erano piùsimili a moderne conferenze stampa che alle assemblee greche, do-minate dalla libertà di parola: «Tutti gli affari pubblici dei Greci sonoamministrati dall’audacia di un’assemblea che siede per deliberare»

9.15. Le assemblee popolari

Contio

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana256

(Cicerone, Pro Flacco, 16). La contio romana, infatti, era confinatapoliticamente in uno stretto spazio istituzionale, dominato dai tribu-nali, dai magistrati e dal senato (Cicerone, Pro Flacco, 57) ed era sot-toposta a rigidi controlli nel suo svolgimento. Era «convocata da unmagistrato o da un sacredote pubblico per mezzo di un araldo» (Fe-sto, Pauli excerpta, p. 34.1 L.) e spettava al presidente concedere ilpermesso di parlare. Di fatto, ottenerlo era pressoché impensabileper chi non fosse attualmente un magistrato o non lo fosse stato. Ba-sti dire che, nell’ultimo secolo della repubblica, sono stati contatisolo cinque individui che salirono alla tribuna senza esserlo; è em-blematico, inoltre, che un cittadino impegnato e oratore facondocome Cicerone non abbia preso la parola in una contio prima d’averequarant’anni e la carica di pretore. Perciò a Roma, sebbene chi aspi-rasse a fare carriera politica dovesse essere un buon oratore, per par-lare in una contio occorreva avere già fatto carriera. Ciò dimostra,ancora una volta, che l’avanzamento nelle magistrature dipendeva,innanzitutto, dall’estrazione familiare e l’arte della parola, piuttostoche nell’oratoria politica (riservata, semmai, ai dibattiti nel chiuso delsenato), si esercitava soprattutto nelle arringhe giudiziarie, che rap-presentavano, come s’è accennato, una delle strade maestre per dareprova di essere all’altezza degli antenati (§ 9.4). In definitiva, nellacontio esponenti del gruppo dirigente si rivolgevano alla plebe urba-na per sollecitare una qualche mobilitazione a sostegno delle propriepolitiche: i limiti di quest’assemblea sono bene definiti dal frequenteparagone di essa con i giochi e gli spettacoli gladiatori, come mo-menti di socializzazione.

Comitium, al singolare, è parola che indica un luogo «così detto acoeundo, cioè “andare insieme”» (Festo, Pauli excerpta, p. 34.13 L.).A Roma è l’area nella quale si prolunga la parte settentrionale delForo; la sua prima pavimentazione, che testimonia la definizioned’uno spazio politico, è assegnata agli anni intorno al 625 a.C. Al plu-rale, la parola è passata a designare l’assemblea.

Fra i comitia, la forma più antica era quella dei comitia curiata,che risalgono all’età monarchica (Varrone, De lingua Latina, 5.32:«Comitium è così detto dal fatto che vi “andavano insieme” per icomitia curiata e per le liti»). Erano la riunione delle curiae, divisionidella popolazione che avevano probabilmente origine in aggregatiparentelari addirittura precivici (la parola deriva forse da *coviriae,luoghi di riunione dei viri; cfr. osc. covehria). Le trenta curie dei tem-pi storici, i cui nomi erano in parte toponimi, in parte antroponimi,erano inquadrate per dieci nelle tre tribù genetico-territoriali dei

Comitiume comitia

Comitiacuriata

1.3. Drammaturgia 257

Tities, Ramnes e Luceres, anch’esse radicate in organizzazioni preur-bane (vd. § 2.1). Quando scrive Polibio, i comizi per curie sono un re-litto d’altri tempi e, del resto, i loro compiti furono sempre disomo-genei rispetto a quelli d’un’assemblea repubblicana. I comitia calata(sintagma che designa l’assemblea con riferimento al rito di convoca-zione, detto calare, che per le curie era affidato a littori, mentre per lecenturie a sonatori di corno, come spiega il giurista Labeone pressoGellio, 15.27.2) assistevano per curie all’inaugurazione dei flamini edel rex sacrorum, figura quest’ultima nella quale si vedeva la conti-nuazione del re nella sua veste di sacerdote; il rito si svolgeva in con-formità alla decisione del collegio dei pontefici. Inoltre, arbitri anco-ra i pontefici, le curie deliberavano sull’adrogatio, cioè l’adozione diun pater familias da parte di un altro capofamiglia. Le curie emette-vano, infine, una lex, detta appunto curiata, che era un atto d’investi-tura dei magistrati che seguiva l’elezione vera e propria effettuata neicomizi centuriati o tributi. Benché vi fosse una sicura relazione fraquesta lex curiata e l’esercizio del comando militare (si sa, oltretutto,che i consoli interessati presiedevano a questo scopo essi stessi i co-mizi, cui assistevano gli àuguri), sembra tuttavia non fosse richiestasolo per le magistrature cum imperio, ma per tutte quelle «patrizie» –esclusi cioè, i tribuni e gli edili plebei (vd. § 9.13) – con la sola ecce-zione della censura (Cicerone, De lege agraria II, 26-27; MarcoMessala, Liber de auspiciis, in Gellio, 13.15.4). L’estraneità dell’as-semblea per curie al gioco politico e, al tempo stesso, il tenace attac-camento dei Romani alla tradizione sono segnalati dal fatto che la lexcuriata, nella tarda repubblica, pur continuando a essere emanata,perché ritenuta indispensabile sotto il profilo degli auspicia, venivavotata dai trenta littori curiati in rappresentanza delle trenta curie.

Per avere un quadro vivace delle assemblee nelle quali, invece, aquel tempo si svolgeva la partecipazione politica dei cittadini si puòleggere il discorso che Livio, 39.15.11, attribuisce al console del 186a.C. Spurio Postumio Albino. Deplorando le illegittime riunioni not-turne degli adepti dei culti bacchici, in gran parte donne, il consoleaffermava: «I vostri antenati vollero che neppure voi [ossia, i cittadinidi sesso maschile] vi riuniste alla rinfusa e senza motivo, bensì soloquando, innalzato il vessillo sull’Arce, l’esercito fosse stato condottofuori per i comitia oppure quando i tribuni avessero indetto unconcilium per la plebe oppure uno dei magistrati avesse chiamatoalla contio. E ovunque vi fosse un assembramento, ivi ritenevano do-vesse esserci anche un capo legittimo della folla». Il testo, che appun-to passa sotto silenzio i comitia curiata, allude, per così dire in ordi-

9.15. Le assemblee popolari

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana258

ne decrescente di solennità, ai comitia centuriata, al concilium plebise alla contio (nell’ambito della quale Sp. Postumio teneva il suo di-scorso). S’è già osservato che quest’ultima si differenzia dalle primedue perché non ha funzione deliberativa. La differenza fra comitia econcilium, invece, sta nel fatto che i primi comprendono «il popolo alcompleto», «in ogni sua parte e in tutti i suoi ordini», il secondo «unaparte», ossia la plebe; infatti, «non vi sono comprese le genti patriziedei cittadini». La differenza è concettualmente netta, come precisano igiuristi Capitone e Lelio Felice con le parole appena riportate (Gellio,10.20.5; 15.27.4) e come tale è rispettata, con poche eccezioni, anchenel lessico non specialistico: resta a ricordare, come una ferita mairimarginata, i tempi della lotta fra gli ordini. Tuttavia, nell’epoca dicui discorriamo, ridottisi demograficamente i patrizi a un piccolocampione e, di conseguenza, divenuta di fatto quasi omogenea lacomposizione personale delle due forme assembleari, a tenerle di-stinte valevano molto di più i sistemi di voto che vi si praticavano. Aessi – e all’iter legis, con le suasiones, le dissuasiones e la promulgatio– allude efficacemente un brano di Cicerone, il quale pure, come poiLivio, ne attribuisce l’ideazione agli antenati, personificando la natu-ra tradizionale delle istituzioni romane: «Quei nostri concittadini pie-ni di saggezza e di virtù ... vollero che le delibere della plebe o i co-mandi del popolo fossero approvati o respinti solo dopo che fossestata sciolta la contio, previa distribuzione delle unità di voto, avendodistinto per tribù e per centurie gli ordini, le classi, le età, dopo avereascoltato pareri autorevoli e lasciata a lungo affissa in pubblico laproposta, perché se ne potesse prendere conoscenza» (Pro Flacco,15).

I comitia centuriata, come ricorda il discorso consolare immagi-nato da Livio, sono un’assemblea cui il popolo prende parte inqua-drato militarmente (exercitus). Le unità di voto, come precisa per par-te sua Cicerone, sono le centurie, che costituiscono anche le unità dibase dell’ordinamento oplitico-falangitico (sostituite nel IV secolodal manipolo: vd. § 3.5), le unità di leva (soppiantate nel III secolodalle tribù) e i quadri di prelievo tributario (che fu sospeso nel 167a.C.). A ricordare l’origine militare di questi comizi restava, fra l’altro,la terminologia, il rituale e il luogo di convocazione. Anche in funzio-ne politica, l’exercitus era convocato al suono delle trombe militari,in un’area dedicata a Marte esterna al pomerio, cioè allo spazio inau-gurato che circondava le mura cittadine e poneva termine all’auspi-cium urbanum.

Nella forma più antica a noi conosciuta, che la tradizione attribui-

Comitiacenturiata

Centurie

Classi

1.3. Drammaturgia 259

sce al re Servio Tullio, ma che si perfezionò verosimilmente solo ver-so la fine del V secolo – a seguito dell’introduzione a Roma dal-l’Etruria della tattica oplitico-falangitica, che si compì probabilmentefra VI e V secolo, e in connessione con l’introduzione della legione disessanta centurie (vd. § 2.2) – le centurie di fanteria erano distribuitein cinque classi di censo: ottanta nella prima, venti nella seconda,nella terza e nella quarta, trenta nella quinta. Entro ciascuna classe lecenturie erano ripartite per età, in uguale numero, fra iuniores, cioèadulti atti alle campagne militari esterne e seniores, lasciati a difesadella città. L’attribuzione ad una certa classe di censo determinavaanche l’armamento di cui ciascun fante si doveva provvedere, cheandava dalla panòplia oplitica della prima classe (elmo, scudo,schinieri e corazza, tutti in bronzo, lancia e gladio) alle fionde e pie-tre della quinta (le centurie dei iuniores delle prime tre classi corri-spondono, per numero e armamento, all’originaria legione unica disessanta centurie di cento uomini). Quattro centurie aggiuntive eranodestinate ai servizi non armati: due erano composte da falegnami eda fabbri (assegnati alle macchine da guerra) ed erano aggregate aifini del voto alla prima o alla seconda classe, due da sonatori di tubae sonatori di corno, aggregate alla quarta o alla quinta. Fra i cittadinipiù abbienti erano reclutate, invece, diciotto centurie di cavalieri, chemilitavano su cavalli forniti a spese pubbliche; altri cittadini dotatidel medesimo censo equestre, ma non insigniti dell’equus publicus e,pertanto, iscritti nella prima classe di fanteria, potevano essere chia-mati per esigenze belliche a integrare le file dei cavalieri, militandosu cavalli acquistati e mantenuti a spese proprie. Completava il siste-ma un’ultima centuria, nella quale confluivano i cittadini che nonraggiungevano la soglia patrimoniale minima ed erano perciò censitisolo in quanto persone (capite censi) ed erano esclusi anche dallamilizia di fanteria (ad essi attinse, invece, Mario: vd. § 7.1). Il totale èdi centonovantatré centurie (Livio, 1.43.1-11; cfr. Dionigi, 4.16-18;7.59). Nel corso del III sec. a.C. una riforma pose il sistema in relazio-ne con le tribù territoriali, le quali, con l’istituzione della Quirina edella Velina, avevano raggiunto nel 241 a.C. il numero definitivo ditrentacinque. I particolari di questa riforma sono oscuri (e sono statisolo di riflesso illuminati dalla lex Valeria Aurelia epigrafica, che ri-guarda i comizi d’età augustea e tiberiana: ed. Roman Statutes, nr.37). Di certo sembra esserci solo che il numero delle centurie dellaprima classe fu ridotto a settanta, sì che, almeno entro di essa, ciascu-na centuria di iuniores e ciascuna centuria di seniores veniva a esserecollegata biunivocamente con una delle trentacinque tribù, tanto da

9.15. Le assemblee popolari

Riforma delIII sec. a.C.

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana260

poter essere chiamata «parte d’una tribù» (Cicerone, Pro Plancio, 49;vd. anche Livio, 24.7.12, del 215 a.C.).

Come si è detto, il principio costitutivo di quest’ordinamento èquello censitario. È incerto se all’origine la sola forma di ricchezzastimata fosse quella immobiliare. In astratto, è possibile che si tenes-se conto fin dall’origine anche della ricchezza mobiliare e in partico-lare (pre)monetaria, forme della quale affiorano già all’epoca cui latradizione fa risalire l’introduzione del reclutamento su base cen-sitaria, come attesta a livello numismatico l’aes signatum del tipo piùantico, lingotti contrassegnati dall’emblema del «ramo secco». Tutta-via, a parte le illazioni che si possono trarre da termini come adsiduie proletari (§§ 2.1, 9.6), è significativo il rilievo che il criterio dellaproprietà immobiliare possiede ancora nei censimenti del II secoloa.C., come sembra ad esempio emergere da Livio, 45.15.2, relativo al-l’iscrizione dei libertini nelle tribù. Ad ogni modo, secondo un’inter-pretazione persuasiva, Livio, 1.43.2-7, consente di conoscere i limitiinferiori di censo per l’iscrizione nelle cinque classi in vigore nel IIIsecolo, cioè, rispettivamente 10.000, 7.500, 5.000, 2.500 e 1.100 assilibrali ridotti, di dieci once (limiti che Livio moltiplica per dieci, pertradurli nella moneta circolante nella tarda repubblica, l’asse unciale,1/12 di libbra). Non si conoscono con sicurezza i successivi ritocchisubiti in conseguenza della riduzione del peso dell’asse a un sesto dilibbra, verificatasi al tempo della guerra annibalica. Tuttavia, sembrache nel corso del II secolo la distanza fra la prima e la quinta classe sisia accentuata in termini reali, come riflesso normativo della forbiceche s’apriva sempre più fra ricchi e poveri e, al tempo stesso, dellaproletarizzazione dell’esercito (cioè l’estensione del reclutamento aiceti meno abbienti, cui si provvedeva abbassando la soglia d’ingressonei proletari, nozione il cui significato tecnico resta peraltro discusso:vd. anche § 3.5). Quanto al censo equestre, in origine non sembra siastato esplicitamente distinto da quello della prima classe, ma fu poifissato in una somma pari a dieci volte tanto intorno al 150 a.C.

Fino a quando fu mantenuta, la coincidenza fra i quadri di com-battimento, di leva, tributari e di voto da una parte e la distribuzionein essi della cittadinanza in base alla ricchezza dall’altra facevano sìche la misura degli oneri militari e tributari e dei diritti politici spet-tanti a ciascun cittadino fosse funzione della ricchezza. Poiché daogni centuria era reclutato un uguale numero di soldati e levato ilmedesimo tributo complessivo e poiché gli appartenenti alle singolecenturie della prima classe erano meno numerosi di quelli delle altre,i più abbienti dovevano servire più spesso e pagare una quota d’im-

Censo

Proporzionalitàdi oneri e

diritti politici

1.3. Drammaturgia 261

posta più elevata. Cicerone, De re publica, 2.40, afferma addiritturache una sola centuria delle classi inferiori alla prima conteneva quasipiù individui dell’intera prima classe, anche se il riferimento cronolo-gico a questa situazione è impreciso; per Dionigi, 4.18.2, la centuriadei capite censi era da sola più numerosa della somma delle restanti.La contropartita è la proporzionalità dei diritti politici. Poiché ognicenturia esprimeva un voto, determinato dalla maggioranza dei suf-fragi espressi al suo interno, il voto dato in una centuria meno affolla-ta pesava più di quello dato in una centuria stipata. Inoltre, la mag-gioranza nei comizi centuriati era costituita da novantasette voti e,quindi, prima della riforma del III secolo a.C., poteva essere raggiun-ta con il voto compatto delle centurie dei cavalieri e della prima clas-se (novantotto in totale) e, dopo la riforma, con la semplice acces-sione di nove centurie delle altre classi. Inoltre, l’ordine di chiamata –almeno, dopo la riforma del III secolo – era congegnato in modo taleche una centuria della prima classe estratta a sorte votasse per prima(praerogativa) e il risultato fosse proclamato immediatamente, per-ché fungesse da autorevole indicazione di voto per tutte le altre. Ci-cerone notava che «una sola centuria praerogativa ha tanta autoritàche non è mai capitato che un candidato sia riuscito il più votato daessa e non sia stato poi eletto console, in quegli stessi comizi o alme-no in quell’anno» (Pro Plancio, 49). Può darsi che si riferisse a unsuperamento di questo privilegio Dionigi d’Alicarnasso, 4.21.3, quan-do parlava, per esperienza diretta, d’una trasformazione in senso de-mocratico dei comizi, ottenuta senza alterarne la struttura, ma solo,appunto, modificando l’ordine di chiamata.

L’ordinamento centuriato, nel suo riflesso politico, aveva dunquecarattere spiccatamente timocratico, secondo una valutazione espli-citamente teorizzata nel I sec. a.C. (per la precisione, anche geronto-cratico, perché, a paragone delle centurie dei iuniores, costituite daadulti fra i 17 e i 45 anni, quelle dei seniores, comprensive della fasciad’età fra i 46 e i 60 anni, erano naturalmente meno affollate),controbilanciato dai maggiori oneri militari e finanziari che gravava-no sui più abbienti. Tuttavia, nel giudicare il sistema politico romano,non bisogna trascurare che, nel tempo, questa simmetria andò perdu-ta, lasciando sul piatto della bilancia solo gli onori: la percezione deltributum, come s’è accennato, fu sospesa dal 167 a.C. e il principiodel reclutamento censitario, dopo essere stato progressivamenteeroso, fu abbandonato, anche se non abolito, nel 107 a.C. (vd. § 7.1).La struttura centuriata sopravvisse, tuttavia, nei comizi: Mario che ar-ruolò i capite censi volontari, eludendo la leva basata sulle classi, fu

9.15. Le assemblee popolari

Principiotimocraticoe geronto-cratico

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana262

eletto console per cinque volte consecutive da comizi in cui conti-nuava a vigere il principio timocratico.

Nel concilium, l’assemblea della plebe, le unità di voto sono letribù, vale a dire divisioni della popolazione in base al luogo ove sitrovava la proprietà immobiliare o la residenza (sul numero e gli in-crementi: vd. § 2.4). L’annalistica data al 471 a.C. l’istituzione del votoper tribù, riferendolo tuttavia apparentemente ai comitia, non alconcilium. Ad ogni modo, in età meglio documentata, il conciliumplebis svolse un ruolo cruciale nel conflitto fra gli ordini, assicurandoil reclutamento dei tribuni e la formulazione delle politiche plebee.La definitiva conclusione del conflitto coincide con il riconoscimentodella portata vincolante delle sue delibere per l’intero popolo, inclusii patrizi, riconoscimento che, nonostante le incertezze della tradizio-ne, non può essere stato anteriore alla fine del IV secolo e forse ven-ne solo intorno al 287 a.C., dopo una secessione sul Gianicolo, conuna lex Hortensia. Ciò che può ammettersi è che, anche prima di allo-ra, i tribuni usassero i loro poteri per evitare che gli scita plebis restas-sero lettera morta.

Per completare la panoramica delle assemblee romane, occorreaccennare ai comitia tributa, assemblea deliberante di tutto il popoloorganizzato per tribù. La loro storia è misteriosa (si ricordi la tradizio-ne annalistica sulle sue origini nel 471 a.C.) e si è quindi addiritturadubitato della loro esistenza – essi, del resto, mancano anche nelquadro tracciato dal console Postumio nel suo discorso in Livio – e siè stati indotti pensare che si tratti d’una semplice mutazione del con-cilio plebeo, reso accessibile ai patrizi. Tuttavia, ciò sembra da esclu-dere, considerato il formalismo dei Romani. D’altra parte, la difficoltàche talora si incontra a differenziarli dai comizi centuriati dipende dalfatto che, come s’è accennato, con la riforma del III secolo era stataistituita una connessione fra il sistema delle tribù e l’organizzazionecenturiata, almeno nella prima classe, così che non è raro che talvoltanelle fonti s’incontri menzione delle tribù dove ci si aspetterebbero lecenturie. Tuttavia, nonostante queste interferenze, un passo comequesto di Cicerone, De legibus, 3.44: «Il popolo diviso per censo, or-dini, età vota con maggiore riflessione di quello convocato in massaper tribù», rende certo che vi fosse una precisa differenza fra comitiacenturiata e tributa e quindi questi ultimi siano da considerare un’as-semblea generale dotata di un’autonoma identità. La contiguità fra ledue forme comiziali, ma al tempo stesso la loro differenza, è testimo-niata dalla disinvoltura con cui Cesare, nel 44 a.C., all’annuncio dellamorte di uno dei consoli, convertì nel giorno stesso del voto i comitia

Conciliumplebis

Comitiatributa

1.3. Drammaturgia 263

tributa convocati in Campo Marzio per l’elezione dei questori neicomitia centuriata per eleggere un sostituto del console morto (Cice-rone, Ad Familiares, 7.30.1: quel consul suffectus era destinato a re-stare in carica poche ore, essendo ormai passato il mezzogiorno del-l’ultimo dell’anno; perciò Cicerone poté redigere un sarcastico rendi-conto della sua magistratura, nello stile degli elogia, segnalando che,durante la carica di questo console, nessuno pranzò).

È evidente – per passare ora a una comparazione delle varie for-me – che l’equiparazione del plebiscitum alla lex e la convocazione acomizio del popolo per tribù, produssero, almeno a partire dal IIIsecolo, una sia pur incompleta concorrenza fra i comitia centuriatada una parte e il concilium plebis e i comitia tributa dall’altra, in cui sipraticavano, tuttavia, sistemi di voto divergenti. Un sistema topo-grafico, quello del voto per tribù, entrava cioè in concorrenza con ilsistema timocratico del voto per classi e centurie, in astratto minac-ciando la preponderanza dei ceti abbienti che quest’ultimo assicura-va. La differenza fra i diversi meccanismi è ben presente, ad esempio,a Cicerone, nel passo del De legibus (3.44) citato poco sopra, dovecontrappone il voto più «meditato» dei comizi centuriati a quello deitributi (vd. anche Dionigi, 7.59). Tuttavia, la “minaccia” rappresentatadal voto per tribù non dev’essere enfatizzata. Da una parte, infatti,come s’è detto, alcune decisioni rimanevano formalmente attribuiteai comizi centuriati (prima di tutte, l’elezione dei magistrati più eleva-ti) e, comunque, il potere di convocazione e di proposta alle varieassemblee era pur sempre nelle mani della magistratura, la quale –compresi i tribuni della plebe – era soggetta a vari vincoli, sia pured’intensità diversa nella varie fasi storiche. D’altra parte, anche nel-l’organizzazione per tribù, come in quella per centurie, non tutti ivoti avevano il medesimo peso. Il voto emesso dai cittadini iscrittinelle tribù rustiche contava più di quello emesso nelle urbane, cheerano più affollate, come lo erano le centurie della classi inferiori ri-spetto a quelle della prima. Il maggiore affollamento dipendeva dal-l’obiettiva maggiore densità della popolazione urbana, ma anche dalfatto che i censori vi iscrivevano, a prescindere dalla loro sede, iliberti, i quali, intorno al 230 a.C., furono distribuiti nelle quattro tri-bù urbane, per essere poi, con poche eccezioni, concentrati addirit-tura in una sola da Tiberio Sempronio, padre dei Gracchi (i tentatividi redistribuirli nelle trentacinque tribù che furono compiuti nel I se-colo a.C., da Publio Sulpicio Rufo a Clodio, non passarono o ebberovita breve). Più in generale, i censori vi relegavano gli individui e igruppi che volevano emarginare per il loro modo di vita, come, ad

9.15. Le assemblee popolari

Confrontofra sistemacenturiatoe tributo

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana264

esempio, gli attori (esclusi quelli di atellanae). Perciò, il fulcro delconcilium era comunque la classe dei contadini. Di fatto, poi, la par-tecipazione al voto nelle tribù rustiche doveva essere piuttosto bassa,se si considera la maggiore distanza dal luogo dell’assemblea rispettoalle urbane. Questo fa supporre che l’esito del voto fosse determina-to dai proprietari che erano iscritti nelle tribù rustiche, ma risiedeva-no a Roma e da quanti potevano comunque permettersi di abbando-nare la propria occupazione e recarsi più volte l’anno nell’urbe peresercitare il diritto di voto, cioè, ancora una volta, dai più abbienti.

Delineata la struttura delle assemblee deliberanti, occorre preci-sare, riprendendo un tema già sfiorato, che comizi e concilio si riuni-vano e deliberavano esclusivamente per iniziativa di un magistratoche ne avesse il diritto. L’exercitus, ovviamente, era convocato a co-mizio da un magistrato cum imperio; lo stesso valeva per le tribù; ilconcilio plebeo era indetto da tribuni e edili della plebe; inoltre, ilcensore convocava l’exercitus centuriatus per procedere alla chiusu-ra quinquennale del censimento e il questore, sporadicamente, perprocessi criminali, scopo per cui l’edile curule poteva convocare i co-mizi tributi.

Il quadro essenziale delle competenze delle assemblee popolariè quello tracciato da Polibio, 6.14, che descriveva i vari atti da unpunto di vista contenutistico, secondo un modello d’ascendenza gre-ca (esaminato al § 9.12). I Romani riconducevano efficacemente l’in-sieme di questi atti a tre categorie, ossia «la creazione dei magistrati, igiudizi popolari, gli ordini e divieti» (Cicerone, De legibus, 3.10), l’ul-tima delle quali – «gli ordini e i divieti», ossia le leggi – raggruppa,quindi, una serie di decisioni assembleari che, in Polibio, sono inve-ce enumerate distintamente.

Fra le materie sulle quali il popolo era chiamato a pronunciarsi,ve n’erano alcune sulle quali era «signore», vale a dire erano di suariserva. Secondo l’elencazione di Polibio, che trova nelle altre fonticonferme e precisazioni, interrogare il popolo era necessario per at-tribuire le cariche (Polibio, 6.14.4; Cicerone, De lege agraria II, 11;Pro Plancio, 11; Dionigi, 5.19; 6.66.2; 7.56.2), mettere a morte un cit-tadino (Polibio, 6.14.4, 6; cfr. Cicerone, Ad Atticum, 4.17: vd. § 9.16),richiamarlo da un giusto esilio (Livio, 5.46.11), conferire o togliere lacittadinanza (Livio, 26.33.10), munire o privare del diritto di voto(Livio, 38.36.8; 45.15.3), dichiarare guerra (Polibio, 6.14.10; Livio,4.30; 38.45.6; Dionigi, 6.66.2; 7.56.2; Appiano, Bella civilia, 3.229),concludere la pace (Polibio, 6.14.10; Sallustio, Bellum Iugurthinum,39.3; Cicerone, De officiis, 3.3; Livio, 9.5.1-6; 9.8.5; 9.9.4-19; Dionigi,

Convocazionedelle

assemblee

Competenzedelle

assemblee

Materieriservate

1.3. Drammaturgia 265

6.66.2; 7.56.2) e ratificare le alleanze e i trattati (Polibio, 6.14.11,15.9). Queste materie compongono un quadro coerente e facilmentericonoscibile. Vi si ritrova la città-stato con le sue caratteristiche fon-damentali. I componenti del gruppo sono chiamati a dare il loro votosu questioni che riguardano l’esistenza fisica (condanna a morte) opolitica del civis (cittadinanza, esilio, diritto di voto), l’attribuzionedel potere (elezione dei magistrati), la guerra e la pace. Occorre, tut-tavia, ricordare – ricollegandoci alla valutazione sostanziale del ruolodel popolo che già davano Polibio e Cicerone (vd. § 9.12) – che, intalune di queste materie, sebbene il voto dei cittadini fosse formal-mente indispensabile, esso costituiva comunque l’ultimo elemento diun processo di decisione che aveva il suo fulcro altrove, in genere nelsenato (vd. gli esempi al paragrafo precedente).

A parte queste materie riservate al voto dei cittadini, ben primache i populares vi si aggrappassero nella rincorsa al potere, si affermòl’idea che il popolo fosse la fonte ultima di legittimità e, pertanto,potesse intervenire in ogni decisione di rilievo politico, con la prete-sa riconosciuta di prevalere sulle altre istituzioni (salvo, naturalmen-te, il parere del senato, che in taluni casi, come s’è ripetuto, era addi-rittura sentito come obbligatorio). Tuttavia, esaminando l’uso che diquesto potere fu storicamente fatto, senza limitarsi cioè alle dichiara-zioni astratte (per quanto importanti nel determinare lo statuto delcivis, come s’avrà modo di osservare), si può misurare una notevoledistanza fra l’ideologia e la realtà, nel senso che il principio dellapotestas omnium rerum attribuita al popolo, lungi dal dare adito auna trasformazione radicale delle istituzioni, fu per lo più utilizzatoda esponenti della classe dirigente per alterare a proprio favore ilcorso normale dei processi decisionali oligarchici. Per sua natura,questo tipo di attività “strumentale” (o strumentalizzata) delle assem-blee non è suscettibile d’una descrizione sistematica. Si può procede-re per esempi: la provincia non attribuita dal senato poteva esserechiesta al popolo (minacciò di farlo Scipione nel 205 a.C. se non glifosse stata affidata l’Africa); il trionfo negato dal senato poteva esserecelebrato per plebiscito (come fece Gaio Flaminio nel 223; non acaso, Polibio, 2.21, vedeva in lui «l’iniziatore della politica demagogi-ca»); il console poteva essere obbligato a nominare un dittatore indi-cato dal popolo; al concilium plebis poteva chiedersi che risolvesseun appalto aggiudicato dai censori; l’autorizzazione a nominare lega-ti, di solito concessa dal senato – che attraverso questi incaricati dimissione esercitava un certo controllo sull’operato dei magistrati inprovincia – poteva essere data dal concilium.

9.15. Le assemblee popolari

Prevalenzapopolare

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana266

Stretta fra le decisioni che scandiscono i momenti essenziali esimbolici della vita cittadina da una parte e gli interventi strumentalidall’altra, ebbe storicamente poco spazio la legge, intesa, come la siintende nel moderno Stato legislativo, come norma generale edastratta (vd. anche § 9.7, per il diritto privato). Tacito esprimeva per-fettamente questa consapevolezza (Annales, 3.27.2): «Le leggi cheseguirono le Dodici Tavole, sebbene fossero talvolta dirette alla re-pressione dei reati, più spesso sono state emanate fra i disordini, perla lotta fra gli ordini o per ottenere cariche illecite o per bandire uo-mini illustri o per qualche altro motivo perverso». Naturalmente, que-sta scarsità della produzione legislativa – a parte il fatto che il giudi-zio di Tacito è comunque un po’ troppo severo, poiché oltre alle Do-dici Tavole e a quelle di diritto criminale, non mancarono altre leggimateriali importanti, specialmente nel campo del diritto pubblico –non toglie che alla lex sia stato sempre riconosciuto ideologicamenteil primato fra le fonti di diritto.

Si può ora conclusivamente tornare sul ruolo dei cittadini nelprocesso di decisione politica, sempre attenendoci al quadro dipintoda Polibio, che godeva di un’impareggiabile visione della res publica.Si deve ribadire, innanzi tutto, che il ruolo politico del popolo variònel tempo. Basti pensare che i quadri organizzativi rimasero sostan-zialmente immutati dalla metà del III secolo a.C., con l’istituzionedelle due ultime tribù e la parallela riforma delle classi, quando cioèsi era appena agli inizi della fase imperialista. In particolare, sebbenele fonti si contraddicano nel descrivere i provvedimenti seguiti allaconcessione della citttadinanza romana agli Italici dopo la guerra so-ciale, che moltiplicò il numero degli aventi diritto al voto, concorda-no, tuttavia, nel presentarli come miranti a non consegnare il predo-minio delle assemblee ai nuovi arrivati (vd., in particolare, Appiano,Bella civilia, 1.214-215; vd. anche §§ 7.2, 7.3). Le diverse velocità cuiprocedevano l’espansione e l’adeguamento delle istituzioni causaro-no una crescente divaricazione fra corpo sociale e assemblee. Ciò si-gnifica che i comizi che – per fare un esempio – approvarono nel 264a.C. contro il parere del senato la spedizione militare in aiuto aiMamertini, rappresentavano i «molti» – per usare l’espressione diPolibio, 1.10.1-3 (polloì) – ben più di quanto gli stessi comizi li rap-presentassero nel I secolo a.C., dopo l’immissione degli italici nellacittadinanza romana. In questo senso, anzi, il crescente attivismo del-le contiones e delle stesse assemblee deliberanti a partire dall’etàgraccana può essere considerato un effetto del distacco dalla base.

È evidente, in secondo luogo, che il principio censitario e la ri-

Leggemateriale

Ruolopolitico

dei cittadiniin assembleaa) variabilità

nel tempo

1.3. Drammaturgia 267

partizione per tribù impediscono valutazioni generalizzanti del ruolopolitico dei cittadini, che presuppongono la fungibilità degli indivi-dui come soggetti politici. A Roma, la misura della parte potenziale diciascun civis nel processo di decisione politica era determinata dallaposizione specifica che occupava nelle tribù e nelle classi.

Poste queste due premesse, un punto che deve attirare l’attenzio-ne è l’irrisoria partecipazione dei cittadini alle assemblee. Stime ap-prossimative, ma indicative, rivelano che in media votava solo l’1-2%degli aventi diritto. La percentuale è così bassa da apparire oggi in-concepibile, anche per società meno propense alla partecipazione alvoto di quella italiana. Addossarne la responsabilità alle difficoltàmateriali che si frapponevano fra il diritto e la sua realizzazione, tut-tavia, non è sufficiente. In realtà – e si tocca così un secondo puntoimportante – la disaffezione al voto non può essere disgiunta dallamancanza d’un vero interesse, che è a sua volta l’effetto d’una scarsalibertà di scelta, che la teoria moderna ha invece individuato comeuno dei requisiti fondamentali perché si possa parlare di democraziain senso sostanziale.

Secondo una visione imperniata sugli studi prosopografici con-dotti nelle scie di M. Gelzer e, soprattutto, di F. Münzer, questa scarsalibertà sarebbe da imputare alla rete di relazioni, familiari, socio-giu-ridiche (come la clientela) e politico-culturali (come l’amicitia) in cuiciascun cittadino si trovava avviluppato e che predeterminava la dire-zione del suo voto.

La revisione cui quest’impostazione è stata sottoposta negli ulti-mi decenni, da una parte ha condotto ad accertare che l’estensione ela tenuta di queste reti erano minori di quelle immaginate; d’altra par-te, si riconosce ora che non mancarono contese intorno a specificitemi d’azione politica (diremmo programmi, o, addirittura, ideologie,se le parole non rischiassero d’ingigantire fenomeni comunque limi-tati). In particolare, era inevitabile che la competizione s’accendesseper ottenere l’elezione alle cariche, obiettivo che necessariamentemetteva l’uno contro l’altro esponenti della classe dirigente (non è uncaso che il voto scritto sia stato introdotto in primo luogo proprio neicomizi elettorali, dalla lex Gabinia tabellaria del 139 a.C.). Tali con-tese avevano, quindi, indubbiamente come effetto, da un lato, diaprire rivalità all’interno delle stesse coalizioni familiari e clientelarie, d’altro lato, di stimolare i vari leader a cercare anche al di là dellerispettive coalizioni il consenso necessario per fare prevalere le pro-prie istanze. A ciò servivano campagne sempre più accurate, condispiegamento anche di notevoli mezzi finanziari, sia per l’allesti-

b) variabilitàsoggettiva

9.15. Le assemblee popolari

c) scarsaaffluenza

d) scarsalibertàdi scelta

9. Il diritto e la costituzione in età repubblicana268

mento di spettacoli sia per distribuzioni fra i votanti, spesso oltre i li-miti via via più stretti che le leggi posero alla sollecitazione del voto(ambitus).

Pur con queste precisazioni, tuttavia, nel valutare la libertà discelta lasciata ai cittadini, non bisogna dimenticare che l’iniziativa eranelle mani dei magistrati, senza la cui convocazione e proposta leassemblee non potevano deliberare e, indirettamente del senato, at-traverso lo strumento formale dell’auctoritas patrum o quello politi-co della consultazione preventiva su cui vigilavano i tribuni della ple-be. Dal lato passivo, poi, la competizione per le cariche magistratualiera strozzata dalla limitazione dell’eleggibilità ai soli cavalieri e, nelleassemblee legislative, come s’è visto poco sopra, i temi in discussio-ne erano molto spesso il riflesso di lotte di potere interne all’élite,prive o quasi d’interesse per la generalità del pubblico; marginali, nelcomplesso, erano infine i processi popolari. È sicuramente partigianae condizionata dalla causa, ma tuttavia efficace la diagnosi degliorientamenti politici della massa che Cicerone presenta nella ProSestio: «oggi ormai non c’è quasi alcun punto sul quale il popolo lapensi diversamente dagli aristocratici; non chiede nulla né aspira acambiamenti rivoluzionari» (104). È noto, del resto, l’ammonimentoche Quinto Tullio Cicerone rivolgeva al fratello candidato console,«durante la campagna elettorale, meglio non occuparsi di politica néin senato né nella contio» (Commentariolum petitionis, 53). Tornanoinsomma alla mente le parole di De re publica, 1.47, che descrivono,in una prospettiva radicale che certo non era quella degli ottimati ro-mani, le città nelle quali «a parole sono tutti liberi», visto che «votano,attribuiscono comandi, magistrature, sono corteggiati dai candidati, lisi interroga sulle proposte di legge»; a ben guardare, tuttavia, ci siaccorge ch’essi «danno ciò che anche se non lo volessero, dovrebbe-ro dare e che manca proprio a loro, cui gli altri lo chiedono» (vd. an-che § 9.12). In definitiva, vincoli sociali e scarsa attrattiva dei temi indiscussione si traducevano nella disaffezione al voto.

Se quel che si è venuto dicendo descrive, per usare un’espressio-ne eloquente, il «concreto del votante», ciò non toglie, tuttavia, cheper avere una visione equilibrata della condizione popolare si debbatenere nella giusta considerazione anche l’ideologia della potestaspopuli (in cui si vede, a ragione, l’equivalente del greco demokratia).Del resto, nel passo poco sopra citato della Pro Sestio, fra le istanzeche un tempo, prima della concordia attuale, erano state oggetto dicontrasto fra massa e aristocratici, Cicerone menzionava proprio l’in-troduzione del voto segreto nelle assemblee, per effetto di quattro

e) realtàe ideologia

1.3. Drammaturgia 269

plebisciti emanati – appunto in mezzo a vivi contrasti – fra il 139 e il107 a.C. (definiti, per la forma scritta del voto ch’essi prescrivevano,leggi tabellariae: Cicerone, De legibus, 3.35-36): «il popolo ritenevache si trattasse della sua libertà». Quest’esempio è la riprova del fattoche il diritto di voto contribuiva in modo essenziale a definire lo sta-tuto di civis, anche al di là delle sue realizzazioni («quia populo liceresatis est»: Cicerone, De legibus, 3.39).

9.16. La repressione criminale

13. L’impero nel secondo secolo344

Movimenti dipopolazione

entrol’impero e

integrazione

13.3. GLI EQUILIBRI ETNICI E SOCIALI

L’arrivo degli schiavi in Italia nel corso dell’espansione aveva signifi-cato sostanzialmente l’immigrazione forzata di un grosso numero so-prattutto, ma non solo, di orientali nella penisola. La composizioneetnica della penisola ne fu mutata, anche perché, attraverso la praticadella manomissione, considerata in modo ambivalente come un fattopositivo e negativo, dagli osservatori stranieri e dagli stessi politiciromani, l’integrazione di questi nuovi immigrati di provenienzaorientale con gli altri abitanti dell’Italia poteva attuarsi piuttosto facil-mente: non ostavano a questo processo atteggiamenti o pregiudizirazzistici, che erano del tutto assenti nella società romana.

345

L’integrazione fu anche culturale e per esempio determinò il dif-fondersi di pratiche religiose e di culto, soprattutto in quelle regionidella penisola che erano legate da più stretti rapporti con l’orientecome le città della Campania: così, ad esempio, si diffusero gli Isei e iSerapei, gli edifici di culto delle due divinità egiziane di Iside e Sera-pide. Si ebbe dunque un’integrazione nella penisola che riguardò lapopolazione nel suo complesso e anche i ceti subalterni.

Ma il processo di osmosi etnica e sociale non toccò solo l’Italia:alla lunga interessò anche le province dove stazionavano gli eserciti.Se nel periodo della conquista l’emigrazione dall’Italia aveva riguar-dato soprattutto i mercanti e gli uomini d’affari, con lo stabilimentodella pax Augusta furono proprio i legionari, che erano inizialmentedi provenienza esclusivamente italica (§ 10.6), a rappresentare il piùpotente veicolo della romanizzazione: della diffusione cioè della cul-tura romana e della lingua latina. Anche in seguito l’esercito legiona-rio ebbe un ruolo decisivo nella dinamica dell’integrazione. Si è giàvisto come le aree del reclutamento legionario nel I secolo fossero leprovince più precocemente romanizzate, quali la Gallia Narbonensee la Betica, oltre l’Italia, mentre gli ausiliari provenivano dalla GalliaComata e dalla Tarraconense. Queste unità militari costituite ormaida Romani o da appartenenti a popolazioni profondamente romaniz-zate furono quelle che valsero a romanizzare, a loro volta, profonda-mente i distretti territoriali vicini al limes.

Ma forse più importante di questo processo, per le sorti futuredell’organismo imperiale, fu l’integrazione delle classi dirigenti del-l’impero. L’ascesa economica delle province fu parallela all’ascesasociale delle élites delle città provinciali. I senatori e i cavalieri co-minciarono a provenire dalle regioni più precocemente romanizzate,le Gallie, le Spagne, l’Africa. Ad aiutare potentemente questo proces-so contribuì in misura decisiva la promozione consapevole, da partedell’autorità imperiale, del modello di organizzazione sociale basatosulle città: mentre le istituzioni cittadine di Roma, con la nascita delprincipato, si snaturavano, esse mantenevano la loro vitalità nei cen-tri urbani dell’Italia e delle province. Questi centri vennero organiz-zati e strutturati dall’autorità imperiale secondo una precisa gerar-chia, che vedeva i municipi di diritto romano e le colonie, soprattuttoquelle che godevano del privilegio del ius Italicum, al gradino piùalto, mentre il ius Latii manteneva la sua funzione di gradino inter-medio rispetto alle comunità peregrine nel processo di adeguamentoal modello romano.

L’integrazione conobbe però un limite: fu, appunto, in larghissi-

La dinamicadell’integra-zione

13.3. Gli equilibri etnici e sociali

13. L’impero nel secondo secolo346

ma misura piuttosto un’integrazione orizzontale che verticale: nonfu, se non entro limiti modesti, un’integrazione fra i vari gradini dellagerarchia sociale. Il governo romano cercò sempre l’appoggio delleélites locali: ma per renderle fedeli e interessate al mantenimento del-la supremazia politica di Roma e alla stessa sopravvivenza dell’impe-ro, dovette garantire la loro posizione di preminenza a livello locale.Di più: anche là dove erano presenti strutture sociali più egualitarie emancavano le élites, il governo romano le creò ex-novo. Le societàprovinciali, perciò, nelle quali pure non mancava una certa mobilitàsociale, determinata se non altro dal fatto che il regime demograficovigente, con la sua altissima mortalità, provocava frequentementel’estinzione delle famiglie, videro cristallizzarsi le differenze al pro-prio interno: le élites locali, formate dal ceto decurionale (dal ceto dicoloro, cioè, che facevano parte dei consigli cittadini, un ceto che eratendenzialmente ereditario), si distinguevano dalle plebi intramurane– la maggioranza della popolazione cittadina – e da quelle extra-murane – i contadini, che costituivano la grande massa della popola-zione.

Paradossalmente, a rappresentare l’elemento potenzialmente piùin grado di garantirsi un’agevole ascesa sociale, era quello dei liberti.I liberti, che, come si è visto (§ 11.3), erano colpiti da limitazioni deipropri diritti, per esempio al livello della partecipazione politica,spesso godevano, all’atto della manomissione e specialmente se era-no stati fatti eredi dai propri ex-padroni, di disponibilità economicheimpensabili per gli ingenui (i nati liberi) di più umili condizioni, enon erano condizionati, nel gestire le loro ricchezze, dai pregiudiziideologici che distoglievano gli appartenenti ai ceti alti dalle attivitàcommerciali e da alcune di quelle professionali, considerate sordidee comunque indegne di un uomo di nascita libera. Erano perciò po-tenzialmente più in grado di arricchirsi e, per questa via, di garantirsiuna certa ascesa sociale, di cui avrebbero potuto poi valersi piena-mente i propri figli nati dopo la manomissione (e perciò ingenui).

Il discrimine sociale fra ricchi e poveri venne ulteriormente a raf-forzarsi nel momento in cui, proprio nel corso del II secolo, cominciòa valere un criterio di discriminazione sociale nella repressione crimi-nale (§ 18.9). La procedura affermatasi alla fine dell’età repubblicanaera quella che affidava il giudizio per i reati più gravi alle quaestiones(§ 9.16): questi tribunali dovevano solo decidere se l’imputato fosse omeno reo, ma la pena era fissa e stabilita a priori. Con l’affermarsidella repressione criminale extra ordinem (§ 18.9), i giudici ebberoinizialmente ampia discrezionalità nel graduare l’entità della pena

Honestiorese humiliores

347

alla gravità del reato e al grado di colpevolezza del reo, anche attra-verso una valutazione della sua stessa personalità. Da qui a stabilireuna diversità della pena in base alla condizione sociale del reo il pas-so era breve. Si affermò, dunque, già a partire dall’età adrianea, il cri-terio della differenziazione delle pene pro qualitate personarum: al-cune pene, e segnatamente quella di morte, non venivano commina-te, di norma (e salvo nel caso di delitti politici), agli honestiores, agliappartenenti ai ceti più elevati (senatori, cavalieri, decurioni dellecittà); se la pena di morte veniva comminata, assumeva comunque laforma della decapitazione e non quella della crocefissione o del-l’esposizione alle belve feroci nell’anfiteatro. Nel contempo si rico-nosceva un valore diverso alle testimonianze a seconda della condi-zione sociale del testimone.

La distinzione delle pene pro qualitate personarum non facevache ribadire la radicalità della differenziazione sociale all’interno del-la popolazione dell’impero. Era in questa differenziazione socialeche si risolveva, peraltro, la stessa differenziazione tra i singoli in ter-mini di statuto giuridico personale: lo stesso possesso della cittadi-nanza romana, come diceva il retore greco Elio Aristide in una suacelebre orazione in lode di Roma, recitata davanti ad Antonino Pio inuno degli anni iniziali del suo regno, non indicava più l’appartenenzaal popolo dei conquistatori (26.63), ma era divenuto ormai il segno diun discrimine sociale. Ciò vuol dire che correva più differenza tra ildecurione e il povero artigiano di una città dell’Asia Minore, che tra ilmedesimo decurione e il suo omologo di una città spagnola.

13.4. La duplicità linguistica e culturale dell’impero

1.3. Drammaturgia 369

14.2. UNA PECULIARE ECONOMIA PREINDUSTRIALE

Al di là dei problemi posti dai costi proibitivi dei trasporti, va sottoli-neato tuttavia che, per questo specifico aspetto del volume degliscambi, sembra che l’economia romana imperiale abbia registratouna situazione assai più favorevole rispetto ai secoli successivi alladisgregazione dell’organismo imperiale: il volume degli scambi chesi raggiunse nell’area del Mediterraneo tra il I secolo a.C. e il III d.C.probabilmente non sarebbe stato eguagliato che molto tardi dopo larottura della continuità in epoca tardoantica. Questa comparativa-mente elevata consistenza degli scambi sembra essere il diretto por-tato della creazione di un’organizzazione politica “imperiale”, cheriunifica tutta l’area del Mediterraneo antico. L’ampliarsi del settoredel mercato e la stessa “crescita” e lo stesso “sviluppo” dell’economiaimperiale romana sono in una prima fase il prodotto diretto dellaconquista, mentre in una seconda fase sono il prodotto, si potrebbedire, del persistere dell’unità politica dell’organismo imperiale. E ineffetti le caratteristiche peculiari che differenziano l’economia roma-na imperiale da altre economie preindustriali hanno a che fare conl’impatto che ha sulla vita economica delle varie aree l’esistenza del-l’impero territoriale di grandi dimensioni e dell’organizzazione politi-ca su cui esso si basa.

Quali sono queste caratteristiche peculiari dell’economia impe-riale? Anzitutto l’urbanizzazione accentuata e capillarmente diffusa,ma soprattutto caratterizzata da centri urbani di dimensioni assoluta-mente ragguardevoli. Tra questi centri aveva naturalmente un posto asé la città di Roma, che avrà raggiunto e forse superato il milione diabitanti nel corso della prima età imperiale. A Roma si affiancavanoaltre “metropoli” con diverse centinaia di migliaia di abitanti, tantonell’Occidente quanto nell’Oriente: Cartagine, Alessandria, Antio-chia, Seleucia, Efeso, Pergamo, ma soprattutto una miriade di cittàmedio-grandi (dell’ordine di alcune decine di migliaia di abitanti),sparse per tutto il territorio dell’impero, anche se non uniformementediffuse. Le città dell’impero assommavano a diverse migliaia. Calcola-re il loro numero pone problemi: la città nel mondo antico era un’en-tità politica, prima di essere un aggregato di strutture abitative di di-mensioni consistenti. Centri di poche centinaia di abitanti potevanovantare lo status di città, mentre grandi concentrazioni di migliaia diabitanti restavano nella condizione di villaggi: per esempio il centroegiziano di Karanis, la cui popolazione è stata valutata a 4.000 abitan-ti, era un villaggio della chora egiziana del distretto arsinoite. Tra le

L’urbanizza-zione

14.2. Una peculiare economia preindustriale

14. I caratteri dell’economia imperiale370

regioni più urbanizzate figurava, ovviamente l’Italia, con le sue 430città in età augustea: ma vi erano differenze tra una regione e l’altra:le città della Cisalpina erano mediamente più grandi e dunque verosi-milmente più popolate, ma anche assai meno numerose e dunquecon territori assai più vasti. Altre regioni occidentali conobbero unaprecoce e notevole urbanizzazione, come la Gallia meridionale, laBetica e, più tardi, l’Africa. Alcune regioni orientali erano già forte-mente urbanizzate quando vennero annesse dai Romani. Un caso asé è quello dell’Egitto, che aveva, oltre ad Alessandria, centri urbanidi notevoli dimensioni e che come tali giocavano un notevole ruoloeconomico, quali Ossirinco o Ermopoli, ma che non avrebbero avutoche molto tardi (§ 15.2), il carattere di autonome comunità cittadine.

Sebbene gli studi più recenti abbiano posto il grado dell’urbaniz-zazione dell’Europa del basso medioevo e della prima età moderna aun livello assai più elevato di quanto non si ritenesse in passato (tan-to per le dimensioni di singoli centri urbani, quanto per il loro stessonumero), sembra innegabile che esso non abbia raggiunto che moltotardi il livello al quale era pervenuta l’urbanizzazione nei territoridell’impero. Nell’Europa dell’età medievale e della prima età mo-derna, in ogni caso, mancavano, o erano molto poco numerose legrandi concentrazioni con centinaia di migliaia di abitanti. Solo dopoil 1700 ci sarebbero state tre città, nell’area occupata in antico dall’im-pero, con una popolazione superiore a 500.000 (Istanbul, Parigi eLondra).

Questa così accentuata urbanizzazione era anzitutto causa ed ef-fetto a un tempo di un livello del popolamento complessivo non piùraggiunto, per alcune regioni meridionali e orientali del bacino medi-terraneo, sino al diciannovesimo o ventesimo secolo (e al di là delproblema di una determinazione quantitativa della popolazione, cherimane problema assai discusso, e che comunque può riguardare so-lo alcune regioni per le quali c’è la possibilità di arrivare a dati nume-rici attendibili, come l’Italia o l’Egitto). Lo sviluppo delle città e unforte popolamento dei centri urbani, infatti, non può che presuppor-re, in uno scenario preindustriale (caratterizzato da una limitata pro-duttività di tutti i fattori di produzione, dalla terra al lavoro), un fortepopolamento rurale, che garantisca le condizioni di sopravvivenzadella popolazione urbana non impegnata nella produzione dei beniprimari.

Alcuni sparsi dati cifrati registrati nelle nostre fonti hanno solleci-tato tentativi ingegnosi dei moderni per individuare le dimensioni delpopolamento in alcuni momenti dell’epoca imperiale e in talune spe-

Il livellodel

popolamento

1.3. Drammaturgia 371

cifiche aree. Registrazioni di tipo censuale per varie ragioni nelle di-verse aree e a seconda dei tempi in effetti non mancavano nel mondoromano. Una testimonianza assolutamente singolare che la tradizioneantica ci ha lasciato, traendola ovviamente da documenti ufficiali, eche non pare avere paralleli nella storia del mondo premoderno, èquella costituita dalle cifre risultanti da molte fra le enumerazioni chesi succedettero nel corso dell’età repubblicana e della prima età im-periale (si tratta di una quarantina di cifre, relative al periodo che vada Servio Tullio, che avrebbe secondo la tradizione introdotto il siste-ma, sino a quelle dei tre censimenti effettuati nel 28 a.C., nell’8 a.C. enel 14 d.C. che Augusto stesso ci ha tramandato nelle Res gestae, 8.2-4, e ancora alla cifra risultante dal censimento compiuto dall’impera-tore Claudio nel 47 d.C., ricordata da Tacito nei suoi Annales, 11.25).

Le cifre in età repubblicana si riferiscono ai maschi adulti, a colo-ro che per la loro età sono «atti alle armi»: non è dunque difficile,ipotizzando quale potesse essere, in termini percentuali, il numerodei maschi in una popolazione come quella romana, stimare il nume-ro complessivo dei cittadini dei due sessi e di tutte le età. Nonostantefossero previste pene molto severe per chi non effettuava la sua di-chiarazione, eludendo in tal modo i propri obblighi militari e fiscali,non tutti i cittadini si saranno tuttavia sobbarcati all’onere di andare aRoma e presentarsi davanti al censore, per farsi registrare: e la stessaautorità non avrà perseguito con molto rigore quei cittadini che era-no troppo poveri per servire nell’esercito e pagare il tributo, i pro-letarii (§ 9.6). I cittadini non censiti (incensi) andarono naturalmentedivenendo sempre più numerosi, a mano a mano che l’ager Romanussi andò estendendo nella penisola sino a ricomprenderla, dopo laguerra sociale, nella sua interezza. Sicché le cifre che la tradizione ciha conservato devono essere considerate dei semplici minimi. Negliultimi convulsi decenni dell’età repubblicana fu peraltro impossibileprocedere con regolarità alle operazioni di censimento.

La situazione dovette cambiare quando, con Cesare, venne intro-dotto un nuovo criterio per effettuare la registrazione: d’ora in avantiil cittadino capo famiglia non era più obbligato a recarsi a Roma a ef-fettuare la sua dichiarazione davanti al censore, ma la doveva effet-tuare nel municipio o nella colonia dove era domiciliato e davanti aimagistrati locali. Anche i cittadini romani residenti nelle province, or-mai molto numerosi, poterono essere ricompresi nel computo glo-bale.

È forse come conseguenza di questa nuova maniera di effettuareil censimento che si spiega come mai, nel 28 a.C., quando Ottaviano

14.2. Una peculiare economia preindustriale

14. I caratteri dell’economia imperiale372

riuscì a censire nuovamente dopo più di quarant’anni i cittadini ro-mani, essi siano risultati più di quattro milioni, e cioè più di quattrovolte il numero dei cittadini romani nel 70, a meno di non voler pen-sare, come una lunga tradizione di studi vorrebbe suggerire, che, apartire da Augusto, siano stati enumerati non più soltanto i maschiadulti, ma i cittadini di entrambi i sessi e di tutte le età.

Se riteniamo che i cittadini romani contati da Augusto erano i solimaschi adulti, abbiamo modo di stimare l’ordine di grandezza dellapopolazione libera dell’Italia romana, escluse le isole, nella prima etàimperiale: dieci-dodici milioni; a questi bisogna aggiungere un im-precisabile numero di schiavi. L’Italia che aveva conquistato l’imperoe che era padrona del Mediterraneo risultava, non per caso, essereanche la regione più popolata del mondo antico. Un pari livello dipopolamento sarebbe stato raggiunto di nuovo dalla penisola solonell’avanzata età moderna.

Non possediamo, putroppo, un documento paragonabile alle ci-fre dei censimenti per i peregrini, nettamente maggioritari, com’è ov-vio, nelle province, anche se sappiamo che Augusto stesso introdus-se, a fini prevalentemente fiscali, il censimento nelle province, comeci dice tra l’altro un luogo famoso del Vangelo di Luca (2.1-3). Qual-che indicazione delle fonti antiche consente, tuttavia, di formulareipotesi circa l’entità del popolamento nelle varie aree dell’impero:per esempio da un luogo della Naturalis historia di Plinio (3.28) èpossibile inferire l’entità del popolamento di alcuni conventus dellaSpagna e ancora da due luoghi di Diodoro (1.31.6-9; cfr. 1.80.6) e diFlavio Giuseppe (Bellum, 2.385) quella della popolazione complessi-va dell’Egitto (anche se si tratta di notizie di cui rimane discusso il si-gnificato). Questi dati confermano che tra le regioni più fittamentepopolate era, per l’appunto, la parte fertile dell’Egitto, e cioè la valledel Nilo col Fayum e il Delta, dove venne raggiunto nella prima etàimperiale un livello di popolamento che sarebbe stato conseguito dinuovo solo verso la fine del diciannovesimo secolo. Ma regioni den-samente popolate erano anche la Siria e buona parte dell’Asia Mino-re, e l’Africa del nord avrebbe sperimentato nei primi secoli dell’etàimperiale un forte incremento demografico. Meno popolate erano leregioni dell’Occidente, come alcune aree della Gallia e della Spagna,e ancora le zone più prossime ai confini settentrionali.

18.

IL DIRITTO DA AUGUSTOAL THEODOSIANUS

18.1. LA GIURISPRUDENZA CLASSICA: CARATTERI GENERALI

Per tutta l’età repubblicana, come s’è appreso (vd. cap. 9), il dirittoprivato ebbe natura eminentemente giurisprudenziale, nel sensoch’era rimesso in ultima analisi ai giuristi – dapprima in quanto pon-tefici, poi in quanto riconosciuti esperti – d’individuare quale fosse ilius, dichiarandolo nei responsa che fornivano a quei concittadini cheli interrogavano sui propri casi. Nell’individuare quale fosse il ius, igiuristi erano guidati da criteri e scelte di valore che raramente trova-vano enunciati in leggi o in altri atti normativi espliciti. Benché la lexvotata dalle assemblee popolari occupasse il vertice delle fonti deldiritto e, in particolare, le leges delle Dodici Tavole non abbiano maicessato d’essere considerate la matrice dell’intero ordinamento, difatto raramente si ricorreva ad una legge per fornire la massima di de-cisione d’un conflitto d’interessi (vd. §§ 9.7, 9.8). In questo quadro, icriteri normativi cui i giuristi per lo più ispiravano le proprie decisio-ni erano elaborati per via di “costruzione giuridica”, spesso ancorataalla struttura formale degli atti oppure – specialmente in seguito al-l’apertura mercantilistica della società romana, cui corrispose un pro-cesso di deformalizzazione – erano ricavati dalla struttura socio-eco-nomica dei rapporti presi in considerazione. Per questo, il sistemagiuridico romano è definito oggi un “sistema aperto”, per contrap-porlo a quei sistemi – fra i quali, ad esempio, quelli attuali dei paesieuropei continentali – nei quali i giuristi trovano appunto già poste lemassime di decisione e non partecipano alla loro statuizione (sottoquesto profilo, può essere invece avvicinato al common law ingle-se). Pur se alieni dalle teorizzazioni, i giuristi romani non potevanonon essere coscienti di quest’assetto, come traspare ad esempio dalladefinizione del ius come ars boni et aequi, ossia come tecnica del

Dirittogiurispruden-ziale

Sistemaaperto

18. Il diritto da Augusto al Theodosianus466

buono e dell’equo, formulata dal giurista Celso (D. 1.1.1 pr.).L’interpretatio giurisprudenziale non era, quindi, o era solo mar-

ginalmente attività di esplicazione di testi normativi, come potrebbeinvece far pensare la corrispondente parola moderna «interpretazio-ne», solitamente riferita a un “sistema chiuso”. Insieme alle leges,quest’interpretatio costituiva il ius civile in senso stretto, al quale, apartire dal III sec. a.C., si venne sovrapponendo la iurisdictio del pre-tore, come momento di realizzazione pratica, attraverso il processo,del ius civile stesso, ma anche come occasione per correggerlo e inte-grarlo e le cui linee erano esposte nell’editto.

La natura giurisprudenziale del ius sopravvisse alla trasformazio-ne della costituzione mista in principato ossia in monarchia tempera-ta nelle forme (che è illustrata al cap. 10). Naturalmente, la presenzadi un’istituzione accentratrice come il princeps, che tendeva, comecostatavano i contemporanei, «ad appropriarsi delle prerogative delsenato, dei magistrati, delle leggi» (Tacito, Annales, 1.2.1), non rima-se senza conseguenze sul piano del diritto. Tuttavia, specialmente sesi eccettua la stagione della legislazione etico-demografica augustea(nella quale, oltretutto, la volontà del princeps fu pur sempre rivestitadelle forme della lex publica), si può affermare che l’influenza impe-riale si sia manifestata meno sui contenuti del ius e piuttosto sull’or-ganizzazione giudiziaria e sul ruolo socio-politico dei giuristi. In par-ticolare, sebbene fosse stato precocemente riconosciuto al principe ilpotere di emettere norme giuridiche, nella forma di constitutiones(vd. § 18.6), storicamente l’uso di tale potere fu abbastanza sporadicofino alla metà del II sec. d.C. Anche quando, in seguito, le constitu-tiones si fecero più frequenti, esse rimasero prevalentemente iscritteall’interno dell’impianto casistico del diritto romano. Infatti, se si ec-cettuano gli editti, le costituzioni del principe erano per lo più emes-se con riferimento appunto a casi concreti, affrontati in sede giudi-ziaria o sulla base di una petizione, e tendevano quindi ad applicaree riprodurre il diritto vigente. Anche quando se ne allontanavano,dovevano comunque passare per il crivello dei giuristi, alla cui inter-pretatio spettava di vagliare l’effettiva portata di queste statuizioni,inserendole nel circuito del diritto giurisprudenziale.

Per quel che riguarda poi specificamente la tecnica giurispru-denziale, nei primi tre secoli della nostra era essa continuò a seguirei canoni fissati dai giuristi repubblicani. Ciò non toglie che, in con-nessione con le mutevoli condizioni politiche e culturali e grazie aindividualità di grande valore, la giurisprudenza del principato abbiauna sua profondità storica. Inoltre, specialmente dall’età adrianea, in

Interpretatio

Persistenzadel caratteregiurispruden-

ziale deldiritto nelprincipato

Classicitàdella giuri-sprudenza

1.3. Drammaturgia 467

coincidenza con l’emergere della personalità del giurista Salvio Giu-liano, e fino a tutta l’età dei Severi, la produzione letteraria dei giu-risti si intensificò notevolmente in quantità e s’aprì anche a nuovi te-mi, capitalizzando il patrimonio di pensiero dei secoli precedenti eincrementandolo d’ulteriori sviluppi. Se si aggiunge che, per effettodi vari fattori per lo più socio-politici, una letteratura giuridica origi-nale cessò, quasi all’improvviso, intorno alla metà del III secolo d.C.e che perciò le epoche successive dovettero rivolgersi principalmen-te proprio agli scritti dei giuristi adrianei, antonini e severiani e se sirammenta, inoltre, che, proseguendo lungo questa linea, l’imperato-re Giustiniano ne redasse un’antologia, il Digesto, che portò in salvoproprio queste opere, consegnandole al medioevo occidentale e al-l’età moderna, si comprende perché, fin dall’Umanesimo, la giuri-sprudenza di questo periodo (e, più in generale, quella del principa-to) sia considerata «classica». Per un insieme di circostanze, in parteattribuibili a suoi effettivi valori, in parte alla sua fortuna letteraria, lagiurisprudenza del principato (e, per una serie d’impercettibili, mastoriograficamente rischiosi slittamenti, il “diritto” di questo periodo)è insomma considerata il tratto più alto d’una parabola, iniziata daSesto Elio, se non già da Appio Claudio e Gneo Flavio e destinata aconcludersi con Giustiniano.

18.2. I RUOLI DEL GIURISTA:I CONSULENTI E IL PUBLICE RESPONDENDI IUS

Come s’è accennato, il mutamento principale, rispetto all’epoca pre-cedente, investì la posizione socio-politica del giurista. Da una parte,infatti, con il mutare dell’assetto costituzionale, si sfaldò il modellostesso dell’aristocratico, di cui la cognizione del ius era una compo-nente e, di pari passo, crebbe il peso del principe nel fornire alla giu-risprudenza una legittimazione. D’altra parte, se nell’età repubblica-na l’ufficio di giurista era – o almeno appare essere stato – un ruolomonolitico, nel corso del principato si andò articolando in vari ruolispecialistici. Quest’articolazione fu il risultato d’una più generale ten-denza alla specializzazione che investì tutte le discipline e le abilità,ma anche della progressiva diffusione del diritto romano nell’impero,che incrementò la domanda d’esperti in tutte le regioni.

Fra le varie vesti sotto cui si presenta il giurista fra la fine del Isecolo a.C. e la metà del III secolo d.C., cioè quella del consulente,

18.2. I ruoli del giurista

18. Il diritto da Augusto al Theodosianus468

quella dell’insegnante e quella del pratico, la più solenne, che piùl’avvicina al ruolo che aveva avuto in età repubblicana, è la prima,quella dell’esperto autorevole che offre gratuitamente responsi aiconcittadini che gli sottopongono i loro casi. Tuttavia, anche sull’uffi-cio della consulenza giuridica, sul respondere, si stese subito l’ombradel nuovo regime, nel senso che i giuristi, a partire da Augusto, furo-no presi sotto l’ala del princeps di turno, che concedeva (solo) ad al-cuni il publice respondendi ius, cioè il diritto di dare responsi al pub-blico (publice qui equivale a populo: cfr. Pomponio, D. 1.2.2.48 e 50).Questa prerogativa, concessa spontaneamente da Augusto e Tiberioe poi elargita come un beneficio a richiesta degli interessati, oltre aimporre loro di rilasciare i responsi per iscritto e sigillati, dovevacomportare alcune facilitazioni materiali, forse anche un pubblico ri-trovo (statio) ove fare professione. Tuttavia, l’effetto principale delpublice respondendi ius era di aggiungere all’autorità personale delgiurista il sostegno del favore imperiale. Si creava così, fra l’altro, al-l’interno dei cultori della giurisprudenza, una élite di giuristi “ufficia-li”, che rispondevano al pubblico appunto ex auctoritate principis,distinti dalla restante massa. Con Adriano, addirittura, questo incre-mento d’autorità si tradusse in efficacia giuridica dei responsa emessidai giuristi autorizzati. Infatti, un rescritto (vd. § 18.6) di questo prin-ceps dichiara che se su una data questione coincidono le opinioni ditutti i giuristi «ai quali è stato accordato di creare norme giuridiche» –locuzione, questa, per la verità ambigua, ma che viene di solito intesacome allusiva proprio ai giuristi muniti di publice respondendi ius –«ciò su cui le opinioni coincidono possiede valore di legge; se invecehanno opinioni diverse, al giudice è lecito seguire l’opinione che vo-glia» (Gaio, Institutiones, 1.7, da confrontare con il passo parallelodelle Institutiones di Giustiniano, 1.2.8). Ovviamente, come contro-partita, rilasciare o negare il privilegio di publice respondere equiva-leva a sottoporre ad un gradimento politico un’attività che, almenonei due secoli anteriori, era stata invece libera, fondata non su unapatente d’ufficialità, ma solo sulla «fiducia nella propria preparazio-ne» di chi si offriva a dare responsi (il paragone fra i due diversi siste-mi è già in Pomponio, D. 1.2.2.49). Tuttavia, questo gradimento nonimplica necessariamente che i contenuti tecnici dei responsi ne ab-biano risentito; come si vedrà, esso influì piuttosto sul profilo socio-logico del ceto dei giuristi.

Oltre che attraverso il publice respondendi ius, il mutamento co-stituzionale ebbe un altro contraccolpo sul ruolo di consulente. Nelcorso del principato, al più tardi con Adriano, si affermò la prassi di

Il giuristaconsulentee il publice

respondendiius

Responsidei giuristie rescritti

dei principi

1.3. Drammaturgia 469

cittadini e sudditi di ogni parte dell’impero di sottoporre i propri que-siti, invece che ai giuristi, direttamente al princeps, il quale, per lopiù, rispondeva loro per iscritto, ossia mediante rescripta (vd. § 18.6).Ciò non comportò, tuttavia, la scomparsa della funzione respondentedei giuristi (muniti o privi del diritto di farlo publice). Infatti, a diffe-renza di quel che a lungo s’era ritenuto, si sa ora che i giuristi conti-nuarono a svolgere l’ufficio di consulenza almeno fino al V secolo,sia in Occidente sia in Oriente (vd. § 18.6). Si può parlare, dunque,della consulenza privata come d’una costante dell’esperienza giuridi-ca romana, che perdura anche nella tarda antichità. Più che avvi-cendarsi, responsa dei giuristi e rescripta dei principes, pertanto, coe-sistettero. È significativo che nel 239, quando ormai si stavanospegnendo anche gli ultimi fuochi dell’ispirazione letteraria deigiuristi, l’imperatore Gordiano III invii un rescritto a un cittadino cheaveva già rivolto il medesimo quesito – e non ne faceva mistero – algiurista Erennio Modestino. A conferma della intercambiabilità, sipuò aggiungere che la doppia interrogazione non può essere statamotivata dalla difficoltà della questione in gioco, che, anzi, appareaddirittura banale ed ottenne non a caso dal giurista e dal principeidentica risposta (CI. 3.42.5). Resta, tuttavia, evidente che l’autoritàd’un rescritto imperiale avrebbe comunque prevalso sulla rispostadifforme d’un giurista e ciò non poteva che subordinare ulteriormen-te i giuristi al principe, che faceva loro concorrenza direttamente nelcampo nel quale avevano costruito e mantenuto il loro secolare pri-mato. Inoltre, come meglio vedremo (vd. § 18.4), per far fronte allacrescente massa di quesiti che venivano loro sottoposti, i principi, giànel corso del II secolo, dovettero assorbire nei ranghi dei propri ufficiun notevole numero di giuristi, spesso anzi i migliori, indebolendoulteriormente la libera professione.

18.3. La trasmissione del sapere scientifico

19.

LA RELIGIONENEL MONDO ROMANO

19.1. PER UNA CRITICA DELLE FONTI

Questo capitolo non è un elenco, più o meno ragionato e critico, de-gli dei del pantheon romano e riconosciuti tali dallo stato, con annes-se funzioni. A partire specialmente dal volume fondamentale diGeorg Wissowa sulla religione e sul culto dei Romani, noi disponia-mo di strumenti di primo piano in materia (vd. Bibliografia). «Però, loscopo di un lavoro storico non è semplicemente quello di riversare laconoscenza accumulata. Un lavoro storico dovrebbe essere, piutto-sto, un fermento che stimoli il ragionamento personale del lettore»(Bickerman 1988, p. IX). Forti di questa dichiarazione di metodo, ten-teremo di suggerire alcuni spunti di interpretazione della religioneromana. Lo scopo unitario di questa esposizione è quello di dare unadelle possibili risposte alla domanda che riesce più spontanea, qua-lora si affronti il tema di una religione di oltre duemila anni fa: è pos-sibile ricostruire, dopo tanti secoli trascorsi, frammenti di identità delsentimento religioso antico? Come è ovvio, ci limiteremo a produrrealcuni esempi che sono sembrati significativi; senza pretese (assurde)di esaustività.

Mettere anche in guardia dagli inevitabili fraintendimenti e ana-cronismi delle moderne ricostruzioni rientra nel novero delle con-siderazioni propedeutiche alla religione romana. Infatti, senza unapreliminare analisi critica delle fonti antiche che ci hanno conservatocompiuto ricordo della religione romana, noi corriamo il rischio disottovalutarne alcuni aspetti che, pure, dovevano essere centrali allariflessione e all’esperienza contemporanee. Per usare un esempioclassico: Varrone, citato da Agostino, è fonte canonica e indispensa-bile per la comprensione dell’antica religione romana. Noi, però, nel-l’impiegarla, non dovremmo fare come Agostino che attualizza un’o-

Scopodella ricerca

Varrone

19. La religione nel mondo romano536

pera, le Antiquitates rerum divinarum, pubblicata circa quattro seco-li e mezzo prima del De civitate Dei; proprio come se Varrone fosseun suo contemporaneo. Le circostanze che hanno portato il Santo autilizzare un’opera così arcaica per i suoi tempi non sono del tuttocomprensibili.

Quello che appare sicuro è che in cinque secoli la religione ro-mana non poteva non essere mutata. Le speculazioni di Pietro Bem-bo sopra la lingua possono essere considerate testimonianza attualeda chi ai nostri giorni voglia riprenderne la questione? L’opera di Var-rone, anteriore di quattro secoli e mezzo circa, non è solo collocatadal Santo a fronte di una temperie storica e culturale cristiana estra-nea del tutto alla sua origine e formazione, e non è solo, di conse-guenza, misurata secondo i parametri e i valori istituiti dal cristianesi-mo e dal suo sviluppo (ai tempi in cui Agostino vive) oramai secola-re. Anche se riusciamo ad esaminare in sé il valore della testimonian-za di Varrone, depurandola, per così dire, dalle osservazioni di Ago-stino, deve rimanere dubbio che l’analisi erudita (quale doveva esse-re quella di Varrone) sappia cogliere la complessità, l’articolazione ela varietà del sentimento religioso vissuto nella vita reale e quotidia-na e non nel mondo dei dotti e dell’accademia.

Ad esempio, i sincretismi, che probabilmente pullulavano nelloscritto di Varrone e, comunque, pullulano nei frammenti conservati,appartengono al mondo dei dotti. Erano grammatici e filosofi a di-sputare se Vacuna potesse essere identificata con Vittoria, Cerere, Mi-nerva o Diana (F 1 Cardauns). Il fedele, però, che prega e adora ledivinità, si sarà posto con distacco questi interrogativi. Inoltre, comese Varrone fosse suo contemporaneo, Agostino colloca e sente le sueaffermazioni sopra la presunta ignoranza della religione patria sullosfondo della progressiva affermazione del cristianesimo. Questa cir-costanza può indebolire e offuscare una lettura critica dei frammentidelle Antiquitates rerum divinarum. Leggiamo il frammento intro-duttivo citato da Agostino: «egli (i.e. Varrone) diceva di temere che glidei perissero non per un’aggressione nemica, ma per la negligenzadei concittadini; dalla quale egli dice che essi sono da lui liberaticome da una frana e che essi per la memoria dei buoni, per mezzo dilibri di questo genere, sono riposti e conservati con una cura più utiledi quella con cui si celebra la liberazione, da parte di Metello, dei sa-cra vestalia o la liberazione dall’eccidio troiano dei penati da parte diEnea» (F 2a Cardauns). Lo spirito di questa parafrasi agostiniana delpensiero di Varrone, unito in specie alle accorate e ripetute profes-sioni di pessimismo di un Cicerone, ha finito per risultare influente,

537

se non decisivo, sulla costituzione di un cliché fisso sulla religioneromana e sul suo “stato di salute”.

Dovremmo distinguere, però, le preoccupazioni apologetiche diAgostino, formulate dopo il sacco di Roma da parte di Alarico (410d.C.), da quelle di una parte della classe dirigente romana formulatenella metà del I secolo a.C. e sollecitate, forse, dal sommo pontificatodi Gaio Giulio Cesare (come è noto, l’opera di Varrone, da cui il San-to attinge, era dedicata a Cesare, pontefice massimo). Un’esigenzaspecifica e contingente, avvertita da una parte della classe dirigenteromana verso la fine della repubblica, non può assurgere a canonefisso di interpretazione storica di un fenomeno millenario quale èquello della religione cosiddetta politeista del mondo romano. Inol-tre, l’ignoranza delle risalenze dotte delle divinità non significa in séattenuazione o addirittura cancellazione del sentimento religioso tra-dizionale. Tanto più che il risvolto patriottico della religione romana,così solennemente enfatizzato nel libro secondo del De natura deo-rum e del De legibus di Cicerone, non riesce a esaurirne la complessaidentità; ad esso era particolarmente sensibile, però, quella cerchiadella classe dirigente la quale, specialmente negli anni quaranta a.C.,agitava, contro lo spauracchio del lassismo e dell’anarchia degli“epicurei”, le religioni e la restaurazione del sentimento religioso tra-dizionale, intesi come cemento di una nuova coesione della compa-gine civica: si sentenziava con amarezza che la repubblica fosse an-data perduta anche perché si erano perduti gli dei.

Il progetto ciceroniano di rifondare la costituzione romana pren-deva l’avvio dalle leges de religione. Noi abbiamo conservati dalla tra-dizione gli echi di questa concezione aristocratica ed elitaria del sen-timento religioso e delle sue motivazioni e giustificazioni. Essa perònon avrà rappresentato che in parte l’identità del più diffuso senti-mento religioso.

Dalle parole introduttive di Varrone, sopra riportate e tramandateda Agostino, dipende in buona misura anche la nostra enfasi sul co-siddetto aspetto utilitaristico, formalistico e ritualistico della religioneromana. Ad esempio, dai frammenti citati dal Santo apprendiamo cheVarrone ammoniva che «non giova a niente sapere che esiste il dioEsculapio, se poi non sai che egli aiuta la buona salute e, così, nonsai perché tu debba supplicarlo». Questa affermazione di Varronesembra essere tanto pertinente e rappresentativa del sentimento reli-gioso corrente quanto quella di chi, ai nostri giorni, sostenga che,prima di pregare Nostra Signora di Lourdes, sia necessario informarsida un prontuario in che cosa possa aiutarci. Con difficoltà immaginia-

Aspettoutilitaristico

19.1. Per una critica delle fonti

19. La religione nel mondo romano538

mo che l’affermazione di principio di Varrone, «essere così utile la co-noscenza degli dei, qualora si sappia quale potenza e facoltà e pote-stà abbia ciascun dio di ciascuna cosa» (F 3 Cardauns), rispecchi ilsentimento religioso comune; essa sarà venuta incontro, piuttosto, aun piano di risistemazione erudita e antiquaria delle istituzioni sacreromane. Come dice Cicerone con enfasi: «Infatti i tuoi libri ricon-dussero come a casa noi che peregrinavamo nella nostra città e viandavamo errando come ospiti, così che potessimo finalmente cono-scere chi siamo e dove siamo. Tu hai svelato l’età della patria, i com-puti delle età, i diritti dei sacra, quelli dei sacerdoti, la scienza in pa-ce e in guerra, la sede delle regiones, dei luoghi, tu i nomi, i generi, lefunzioni, le cause di tutte le cose divine e umane» (T 1 Cardauns).

Questa ispirazione generale dell’opera di Varrone ha enfatizzatoe cristallizzato, nelle nostre analisi, l’aspetto contrattualistico e utili-taristico delle relazioni del romano con la divinità. Tale aspetto, però,più che per essere rappresentativo del sentimento religioso corrente,è sottolineato come antidoto a una diversa concezione della religio-ne; una concezione che desta preoccupazioni: esso ha la prevalentefunzione di porre argini alla forza dirompente della “superstizione”,cioè il terrore inconsulto del soprannaturale. Questo appare essere illeitmotiv di opere contemporanee a quella di Varrone (ad esempio, iltrattato De divinatione di Cicerone, come pure il De rerum natura diLucrezio). Certamente, le leges arae delle nostre iscrizioni (ad esem-pio, la lex arae Iovis salonitanae: ed. Laffi 1980) suggeriscono mi-nuziosi rituali; essi, però, erano per “gli addetti ai lavori”. Mutatismutandis, postulare una religione ritualistica diffusa presso l’anticoromano da testi di questo genere sarebbe come postulare ai nostrigiorni la conoscenza minuta, da parte dell’uomo della strada, del ce-rimoniale religioso sulla base della liturgia e dei rituali osservati daisacerdoti nelle chiese.

I frammenti dell’opera di Varrone sembrano auspicare che il sen-so del soprannaturale e del trascendente sia moderato e ridotto a unavisione “utilitaristica”. Il fatto che Varrone valorizzi questo aspettodelle religioni non significa di necessità che esso fosse diffuso. In tut-ti i casi, il nostro autore non vuole ridestare un sentimento religiosoche sarebbe sopito, ma riportare alla luce conoscenze utili a un rap-porto con la divinità da lui giudicato più corretto e sano. In sostanza,noi non dovremmo confondere la decadenza delle conoscenze conquella del sentimento religioso. L’aspetto pedante e ritualistico dellareligione romana, sottolineato da Agostino nella ricostruzione diVarrone, non può essere elevato a manifesto della religione romana.

539

Varrone si preoccupa «perché non facciamo come sono soliti fare imimi e finiamo per desiderare da Libero l’acqua e dalle Linfe il vino»(F 3 Cardauns 1976). Egli doveva, prima di tutto, giustificare la suaricerca antiquaria, da qualunque fine e circostanza, più o meno con-tingenti, fosse stata suscitata. Il grammatico reatino mostra di non ac-corgersi che la gente prega e invoca la divinità anche – e soprattutto –perché non ne conosce i poteri al dettaglio.

19.2. Filosofia e religione