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Introduzione Il candomblé è una religione che si basa su tradizioni molto antiche. Esso annovera numerosi seguaci in tutto il Brasile in quanto la sua filosofia, i suoi misteri, le sue credenze ed i suoi rituali specifici fanno sì che questa religione sia totalmente differente e indipendente dalle altre. Il candomblé presuppone l’esistenza di un principio primo chiamato Olorun ed è costituito da un sistema di credenze in delle divinità chiamate orixás, associate al fenomeno della possessione, o trance mistica, che si esprime attraverso l’incorporazione da parte della divinità nell’iniziato. Questa religione afro-brasiliana si fonda su una profonda ricerca che mette in contatto le forze interiori dell’essere umano con il mondo che lo circonda ed è per questo che esistono delle tecniche capaci di portare il fedele ad una sorta di meditazione attraverso un processo che trasforma l’inconscio in conscio. Questo processo si basa sull’esperienza del corpo e su un sapere del corpo che viene continuamente riscoperto e attivato. Colui che vuole avvicinarsi a questa religione si deve affidare a sacerdoti che abbiano terminato il loro cammino religioso e superato le prove che questo richiede, come ad esempio essere umili, chiedere permesso prima di entrare nei luoghi ritenuti sacri, essere pazienti, avere dedizione, cercare di vivere in armonia con le persone della comunità. Le vecchie sacerdotesse di Bahia dicono che il candomblé è caridade (carità) e che loro hanno l’obbligo di aiutare gratuitamente, per cui chi ha bisogno viene aiutato e partecipa economicamente a seconda delle sue possibilità. Le comunità di candomblé sono società di auto aiuto, che sono nate e che si sono diffuse in situazioni storiche e sociali di grande difficoltà; possiamo quindi affermare che è proprio grazie alla fede se gli schiavi africani sono riusciti a sopravvivere anche in condizioni di estrema sofferenza e disagio. Secondo Barbàra (2003:2), «spesso il candomblé è visto come un’agenzia terapeutica che calma le persone e cura le malattie». In realtà ciò è molto riduttivo, dovremmo dire piuttosto che, attraverso la possessione il fedele riprende coscienza di sé e rinasce con delle forze nuove che lo aiuteranno nel suo cammino. Il candomblé è nato nella sua forma più organizzata a Salvador de Bahia perché in questa città arrivarono gli ultimi contingenti di schiavi nagô, conosciuti anche con il nome di ioruba. Da Salvador de Bahia si è diffuso nel resto del paese, soprattutto negli anni ’60 verso il sud, a causa dell’immigrazione di persone provenienti dal nord-est a São Paulo in cerca di lavoro. Barbàra (2003:3) sostiene che il candomblé cambi a seconda del luogo in cui è professato: a Salvador de Bahia, ad esempio, esso ha mantenuto tutta una serie di caratteristiche “antiche”, è ancora vicino all’Africa; ciò è dovuto al particolare sviluppo sociale che ha avuto la città: i tempi nel terreiro sono più lunghi, vige ancora il segreto su molti argomenti, tra cui l’iniziazione, e in tutti i quartieri antichi della città si possono trovare delle piazze o degli alberi dedicati ad una divinità. 4

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Introduzione Il candomblé è una religione che si basa su tradizioni molto antiche. Esso annovera numerosi seguaci in

tutto il Brasile in quanto la sua filosofia, i suoi misteri, le sue credenze ed i suoi rituali specifici fanno sì

che questa religione sia totalmente differente e indipendente dalle altre.

Il candomblé presuppone l’esistenza di un principio primo chiamato Olorun ed è costituito da un

sistema di credenze in delle divinità chiamate orixás, associate al fenomeno della possessione, o trance

mistica, che si esprime attraverso l’incorporazione da parte della divinità nell’iniziato.

Questa religione afro-brasiliana si fonda su una profonda ricerca che mette in contatto le forze interiori

dell’essere umano con il mondo che lo circonda ed è per questo che esistono delle tecniche capaci di

portare il fedele ad una sorta di meditazione attraverso un processo che trasforma l’inconscio in conscio.

Questo processo si basa sull’esperienza del corpo e su un sapere del corpo che viene continuamente

riscoperto e attivato.

Colui che vuole avvicinarsi a questa religione si deve affidare a sacerdoti che abbiano terminato il loro

cammino religioso e superato le prove che questo richiede, come ad esempio essere umili, chiedere

permesso prima di entrare nei luoghi ritenuti sacri, essere pazienti, avere dedizione, cercare di vivere in

armonia con le persone della comunità. Le vecchie sacerdotesse di Bahia dicono che il candomblé è

caridade (carità) e che loro hanno l’obbligo di aiutare gratuitamente, per cui chi ha bisogno viene

aiutato e partecipa economicamente a seconda delle sue possibilità.

Le comunità di candomblé sono società di auto aiuto, che sono nate e che si sono diffuse in situazioni

storiche e sociali di grande difficoltà; possiamo quindi affermare che è proprio grazie alla fede se gli

schiavi africani sono riusciti a sopravvivere anche in condizioni di estrema sofferenza e disagio.

Secondo Barbàra (2003:2), «spesso il candomblé è visto come un’agenzia terapeutica che calma le

persone e cura le malattie». In realtà ciò è molto riduttivo, dovremmo dire piuttosto che, attraverso la

possessione il fedele riprende coscienza di sé e rinasce con delle forze nuove che lo aiuteranno nel suo

cammino.

Il candomblé è nato nella sua forma più organizzata a Salvador de Bahia perché in questa città

arrivarono gli ultimi contingenti di schiavi nagô, conosciuti anche con il nome di ioruba. Da Salvador

de Bahia si è diffuso nel resto del paese, soprattutto negli anni ’60 verso il sud, a causa

dell’immigrazione di persone provenienti dal nord-est a São Paulo in cerca di lavoro.

Barbàra (2003:3) sostiene che il candomblé cambi a seconda del luogo in cui è professato: a Salvador de

Bahia, ad esempio, esso ha mantenuto tutta una serie di caratteristiche “antiche”, è ancora vicino

all’Africa; ciò è dovuto al particolare sviluppo sociale che ha avuto la città: i tempi nel terreiro sono più

lunghi, vige ancora il segreto su molti argomenti, tra cui l’iniziazione, e in tutti i quartieri antichi della

città si possono trovare delle piazze o degli alberi dedicati ad una divinità.

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Il candomblé di Rio de Janeiro e di São Paulo, al contrario, si è maggiormente urbanizzato a causa del

ritmo frenetico delle due megalopoli. Tuttavia Salvador de Bahia continua ad essere vista da tutti come

la patria mitica del candomblé dove ci si reca per ricevere l’axé.

Attraverso questo elaborato mi sono proposta di dare un’idea generale di tutto ciò che è e che

rappresenta questa grande religione afro-brasiliana, non solo per gli afro-brasiliani stessi ma anche per

tutti coloro che nel tempo si sono avvicinati ai suoi principi a tal punto da farne una ragione ed una

filosofia di vita.

Nell’approcciarmi al candomblé, ho cercato di immedesimarmi nei suoi fedeli e nelle loro convinzioni

religiose e, giorno per giorno, ho scoperto sempre di più una realtà completamente nuova e fresca.

Sono rimasta affascinata dalla visione del mondo del candomblé, dalla grande devozione che hanno i

fedeli nei confronti degli orixás e, soprattutto, dalla capacità ed elasticità di questa religione nell’aver

saputo adattarsi alle trasformazioni al punto da diventare per molti un punto di riferimento, nonché una

via d’uscita da una realtà crudele.

Possiamo affermare che al giorno d’oggi il candomblé è una religione diffusissima fra tutti i ceti sociali

della popolazione, senza distinzione di razza, di provenienza o di colore della pelle. Esso è diventato un

vero e proprio fenomeno sociale, che lotta quotidianamente per la supremazia con il cattolicesimo e

anche con tutte le altre religioni afro-brasiliane.

Grazie a questa tesi è iniziata per me un’immersione nella realtà brasiliana, così affascinante e ricca di

colori, che spero di poter vedere presto dal vivo. Per il momento mi limito ad illustrare nelle pagine che

seguono ciò che ho compreso di questa realtà e spero di farlo in modo gradevole.

La tesi è suddivisa in quattro capitoli: nel capitolo 1 presento il candomblé, la sua storia e tutto ciò che i

fedeli africani sono riusciti a portare di esso con sé nel Nuovo Mondo; nel capitolo 2 illustro il mondo

degli orixás, con tutte le loro caratteristiche particolari e le loro personalità; il capitolo 3 vuole essere

una descrizione di tutte le cerimonie che fanno parte del terreiro, come le feste pubbliche, e della vita di

un fedele, come ad esempio l’iniziazione o la possessione; nel capito 4, infine, mi sono dedicata

all’illustrazione delle tecniche di cura e di terapia utilizzate dalle personalità di spicco del candomblé.

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Capitolo 1: dall’Africa al Brasile 1.1 La tratta degli schiavi Come sia nato e si sia sviluppato il culto del candomblé in Brasile è ancora un mistero. Per cercare di

rispondere a questo interrogativo dobbiamo necessariamente risalire agli inizi delle deportazioni di intere

popolazioni che, dalla costa occidentale dell’Africa (dal Senegal, dall’Angola, dalla Nigeria e dal Congo) e

da quella orientale (dal Mozambico e dal Madagascar), venivano caricate e spedite in sovraccariche navi

negriere verso il nuovo mondo da poco scoperto.

Il risultato di questi traffici portò ad una caleidoscopica moltitudine di razze differenti che non parlavano

la stessa lingua, essendo nate in contesti sociali e spirituali diversi.

Le documentazioni storiche ci indicano che i primi trasporti di schiavi ebbero inizio appena 38 anni dopo

la scoperta del Brasile (1500), e cioè nel 1538, e che si protrassero fino alla metà del 19 secolo, anche se in

realtà continuò illegalmente fino alla fine del secolo. I riferimenti alla quantità di schiavi africani deportati

in totale sono piuttosto discordanti: secondo Barbàra (2003:5) non meno di 500.000 africani furono

deportati in tutto il territorio; Pinsky (2004) parla di 1.732.000 schiavi deportati dal 1531 al 1850; secondo

l’IBGE, Instituto Brasileiro de geografia e estatistica, (2000) furono deportati circa 4 milioni di africani,

l’equivalente di un terzo di tutto il commercio negriero.

La tratta ebbe origine dalla crisi demografica india e dalla conseguente richiesta di manodopera a basso

prezzo da utilizzare inizialmente nelle grandi piantagioni di canna da zucchero e, in seguito, nelle miniere

che erano state scoperte in un secondo tempo nell’interno del paese, in Minas Gerais e zone limitrofe. La

cattura avveniva con metodi violenti e brutali. Dopo essere stati marchiati a fuoco gli uomini, le donne e i

bambini venivano spogliati e fatti salire sulle navi, dove erano ammassate molte più persone di quante

potessero essere trasportate. Il viaggio in mare risultava un vero inferno, soprattutto a causa del terrore e

della tristezza che provavano i prigionieri che temevano di essere stati catturati dai bianchi per essere poi

mangiati al loro arrivo nel porto di destinazione. Le navi negriere erano talmente cariche che i poveri

sventurati non potevano neanche sdraiarsi, ma erano obbligati a stare seduti per tutta la durata del viaggio,

legati a due a due con pesanti catene. A volte per mantenerli in “salute”, venivano fatti salire sul ponte e

obbligati a saltare con le catene alle caviglie. Chi moriva durante la traversata veniva buttato in mare.

All’arrivo nei porti le madri venivano divise dai figli senza alcun riguardo per i bambini.

La tratta degli schiavi verso Salvador de Bahia si può dividere in quattro cicli:

1) il ciclo della Guinea : seconda metà del XVI secolo;

2) il ciclo dell’Angola e del Congo: XVII secolo;

3) il ciclo della Costa di Mina : primi tre quarti del XVIII secolo;

4) il ciclo del Golfo di Benin, Dahomey, Nigeria: dal 1770 al 1850.

Si può nominare anche un ultimo periodo, quello dell’illegalità, che si caratterizzò per la clandestinità;

anche se dal 1815 erano stati stipulati dei trattati fra Inglesi, Portoghesi e Brasiliani che abolivano il

traffico negriero a nord dell’Equatore, il triste commercio continuò fino alla fine del secolo.

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Furono soprattutto i Sudanesi e i Bantu a essere deportati in Brasile; fra i Sudanesi arrivarono gli Ioruba

(Nagô, Igexá, Egbá, Ketu, Ibadan, Ijebu) che furono destinati soprattutto alle piantagioni dello stato di

Bahia e del Nord-est, e i Dahomeani ( Jejê o Ewe) destinati alle piantagioni del Maranhão. I Bantu,

invece, erano costituiti da numerose tribù del Congo, dell’Angola e della Costa Orientale. Sembra che

siano stati proprio loro i principali responsabili della costruzione dei Quilombos, repubbliche libere

fondate nella foresta da schiavi fuggiaschi che erano formate da più villaggi e nelle quali si cercava di

ristabilire le culture e i valori di origine. Fu una vera rivoluzione contro lo schiavismo messo in pratica

nel Brasile coloniale. Spesso nei Quilombos confluirono anche Indios e mulatti.

Secondo Barbàra (2003:11), la cultura europea di quell’epoca considerava gli africani dei popoli

selvaggi, privi di cultura, che avevano avuto la fortuna di essere stati catturati dai bianchi e di essere

stati civilizzati ed istruiti alla religione cristiana. Raramente si riconosce che i principali artefici della

nascita del Brasile furono proprio quegli schiavi che, provenendo da forti città-Stato, conoscevano la

lavorazione del ferro ed erano abili artigiani. Il livello socio-culturale di queste popolazioni era molto

vario. Si dice che i Bantu del Congo e dell’Angola fossero i più primitivi e per questo fossero i più

remissivi e docili. Erano quindi considerati dai padroni schiavi di serie A, proprio a causa della loro

“dipendenza”. Si diceva addirittura che imparassero meglio la lingua portoghese.

I più temuti, invece, furono i Sudanesi: gli Ioruba e i Dahomeani, che erano abituati a vivere in città-

Stato e conoscevano varie arti fra cui quella della tessitura, la lavorazione del ferro ed erano grandi

artisti per quanto riguardava il rame, l’oro e il legno. Allevavano animali e costruivano fortificazioni.

Erano temuti inoltre a causa della loro cultura; spesso erano superiori ai loro padroni: sapevano leggere

e scrivere nella loro lingua e questo faceva sì che fossero guardati con sospetto.

In Brasile il traffico negriero fu ufficialmente proibito nel 1850 con la legge Eusébio de Queiroz.

1.2 Contributo delle civiltà africane alla cultura brasiliana In tutto il Brasile si avverte la presenza della cultura africana: dalla cucina, alla danza, dalla musica al

modo di parlare e in particolare alla religione.

Attraversando l’oceano gli schiavi portarono con sé non solo la forza-lavoro ma anche le loro culture e

le loro credenze. Furono le loro divinità a salvarli, a salvaguardare la loro identità e contribuirono a

modificare la società e la mentalità in cui erano stati immessi violentemente.

In Brasile il modello della società schiavista era rappresentato dalla fazenda che era costituita da tre

edifici: la chiesa, al centro, l’edificio per gli schiavi, la senzala, e la casa padronale, la casa grande. La

Chiesa, che al principio incentivava la deportazione delle popolazioni africane, si mostrò con il passare

del tempo più clemente con gli schiavi, autorizzando lo svolgimento delle loro manifestazioni religiose

alla sola condizione di essere battezzati e di adorare le immagini dei santi cattolici.

Il permesso a dar libero sfogo a queste manifestazioni portò alla creazione di molte confraternite di

africani, con lo scopo di curare le proprie anime. Gli schiavi sapevano che soltanto la cristianizzazione e

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l’occidentalizzazione avrebbe permesso loro una certa mobilità verticale, ovvero la possibilità di

sopravvivere. Bisognava, quindi, adattarsi, “re-interpretando”, laddove possibile, persino i propri culti

religiosi. Più tardi nacquero anche società carnevalesche, quelle funerarie e di mutuo soccorso, e si

originò anche il candomblé.

Tutte queste associazioni sorsero per compensare gli schiavi della violenta “detribalizzazzione” subita e

per offrire modelli di riferimento a coloro che erano stati privati di tutto ciò che di più intimo

possedevano: gli affetti, una casa, la nazione e soprattutto la dignità personale.

Riunendosi nelle loro feste, rinnovando la forza dei loro simboli, dei loro valori, dei lori ideali, gli

schiavi lavoravano meglio. I padroni portoghesi notarono che era controproducente, dal punto di vista

del loro profitto, un’imposizione ossessiva dell’orario di lavoro, quindi lasciarono fare.

Ci fu un altro elemento a favorire gli africani: la danza, elemento marcante delle manifestazioni

religiose “nere”, che era vista e considerata come una tecnica di eccitazione sessuale. Cosa videro gli

europei nelle danze frenetiche degli africani? Un incentivo alla procreazione, cioè un mezzo per

aumentare il proprio investimento umano senza perdere il capitale. Essi dicevano: «Danzate, neri….e

moltiplicatevi». Ma queste feste, queste sfrenate danze, le stesse che vengono dirette oggi dai pais-de-

santo1

nei sobborghi della città di Bahia, venivano permesse perché i bianchi immaginavano fossero dedicate

alla vergine e ai santi cattolici, dal momento che venivano celebrate davanti agli altari. In realtà non

avveniva proprio così: erano gli orixás africani i protagonisti celebrati, le divinità alle quali i neri

rendevano omaggio. I cattolici, quindi, chiudevano un occhio, in nome del guadagno e del bene comune

e poi pensavano, in fondo questi africani erano pur sempre battezzati e si sarebbero presto trasformati in

buoni cattolici.

Molti storici vedono in queste organizzazioni l’origine del sincretismo: le confraternite contribuirono

alla conservazione dei rituali religiosi e delle culture africane in genere. Si creò un’intima fusione dei

riti, una simbiosi fra vari elementi spesso appartenenti a due o più culture che entravano in contatto. In

una situazione di sofferenza comune si riuscivano ad unire persino etnie solitamente nemiche e

tradizionalmente rivali. Naturalmente gli africani entrarono in contatto anche con la popolazione

indigena.

Le culture africane in Brasile non si fecero assimilare, ma con grande capacità creativa recuperarono

simboli ed elementi da tutte le culture con cui entrarono in contatto e soprattutto cercarono di spiegare

la vita, tentando di ritrovare un senso e una sensibilità al di là di quello che avevano vissuto. 1.3 Il sincretismo L’aspetto più evidente del sincretismo è dato dalla corrispondenza tra i santi cattolici e gli orixás

africani, che – in modo un po’ riduttivo per quello che è il complesso religioso del candomblé – è stata

considerata la caratteristica più suggestiva e importante di questo culto afro-brasiliano. Probabilmente è

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vero, come dice un detto popolare brasiliano, che «gli europei hanno attraversato l’Oceano per imporre

la legge di Cristo e ci sono riusciti nelle messe e nelle processioni ma non nelle anime». (Barba,

1999:12)

Certo è difficile giudicare razionalmente possibile un’armonia tra il politeismo africano e il monoteismo

cristiano. Per i sacerdoti del candomblé, o perlomeno per quelli che tuttora accettano di fatto il

sincretismo, la spiegazione è possibile: esiste una religione universale, che riconosce l’esistenza di un

unico Dio creatore, e poi tanti culti che diversificano e articolano il panorama religioso, ma che possono

essere tutti ricondotti all’assoluto, ossia ad una religione universale.

Esiste, nella memoria degli adepti del candomblé, un Dio creatore, che è Olorun, ma, essendo troppo

lontano, questo dio ha bisogno di intermediari, siano essi angeli, santi, o orixás. A stabilire una

corrispondenza tra questi ultimi e i santi del cattolicesimo è intervenuta, ad esempio, l’iconografia;

possiamo immaginare che l’influenza di certe raffigurazioni di alcune stampe religiose possano aver

influito enormemente sulla fantasia dei praticanti, accostando queste nuove figure alle divinità africane;

in questo modo si diede un volto occidentale a delle divinità che fino ad allora avevano trovato un

riferimento soltanto in simboli, figure e statue di terracotta, e che erano prive, dunque, di un’immagine

prestabilita.

Ogum, dio del ferro e della guerra, fu sincretizzato con Sant’Antonio o con San Giorgio, a seconda dei

terreiros2;

Oxóssi, dio della caccia, fu associato anche’esso a San Giorgio o a San Sebastiano;

Omolu, dio delle malattie contagiose, fu identificato con San Lazzaro o con San Sebastiano, per via

delle ferite che ne ricoprono il corpo;

Xangô, dio dei tuoni, violento e virile, fu paragonato a San Gerolamo;

Oxum, dea dell’acqua, della bellezza e della vanità fu sincretizzata con la Madonna;

OyáYansã, dea dei venti e delle tempeste, fu sincretizzata con Santa Barbara;

Nanã Buruku, dea delle paludi e del fango, diventò la Sant’Anna dei cattolici;

Yemanjá, madre di numerosi altri orixás e dea del mare, fu sincretizzata con l’Immacolata Concezione;

Oxalá, dio della creazione, fu sincretizzato con Gesù Cristo;

Ossâim, dio delle erbe e delle foglie, fu sicretizzato con Sant’Onofrio;

Oxumarê, dio metà donna e metà uomo, divenne San Bartolomeo;

Logum-Edê, fu sincretizzato con l’arcangelo Gabriele;

Obá, dea del fiume, fu sincretizzata con Giovanna d’Arco o con Santa Caterina;

Euá, dea delle grotte e delle fonti, divenne Nostra Signora di Mont Serrat.

Con un po’ di buona volontà si trovano e si giustificano le corrispondenze fra i santi cattolici e gli

orixás afro-brasiliani. Diverso è il discorso se ci si chiede cosa realmente avvenga nella mente e nel

cuore di un fedele che contemporaneamente va a messa e alle sedute di candomblé, che crede in Dio e

anche in Olorun. È una maschera dei bianchi sui santi neri, oppure un’intima e sentita fusione? Si tratta

di una diversità linguistica oppure di una confusione perpetuata e di convenienza? Difficile dirlo. Quello

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che si può dire è che il brasiliano è sinceramente cattolico quando si reca a messa, così come è legato

strettamente alla religione africana quando si reca alle sedute di candomblé. Questa duplice

appartenenza viene vissuta dai fedeli con estrema disinvoltura.

1.4 Storia del candomblé Ancora non si sa esattamente come sia nato e come si sia sviluppato il candomblé. La sua origine è

considerata magica ed è strettamente legata alla città di Salvador de Bahia in quanto i grandi terreiros di

candomblé nacquero proprio in questa città e da qui si sparsero in tutto il Brasile.

A partire dal XIX secolo la Chiesa cattolica aveva istituito delle confraternite che consentivano di

separare le varie etnie africane; ciò impediva che gli schiavi riuscissero a raggrupparsi nuovamente,

tuttavia veniva loro permesso di venerare i propri dei.

A Salvador de Bahia alcune donne originarie di Ketu, antiche schiave libere appartenenti alla

confraternita della Boa Morte, avrebbero organizzato un terreiro di candomblé chiamato Oyá Omi Ase

Àirá Intilè in una casa situata vicino alla chiesa della Barroquinha e dopo varie sistemazioni si

installarono definitivamente nell’Avenida Vasco da Gama con il nome di Casa Branca.

Le versioni su queste sacerdotesse sono varie; sembra che due di queste, Ialussô Danadana e Ianassô

Acalá o Ianassô Ocá, aiutate da un sacerdote chiamato Babá Assicá, sarebbero state le due fondatrici

del terreiro. Il titolo di Ianassô era un titolo altamente importante alla corte del re di Oyo e

corrispondeva a funzioni religiose specifiche e di grande significazione, in quanto colei che deteneva

questo titolo dirigeva il culto di Xangô. Sembra che Ialussô Danadana sia tornata in Africa e là sia

morta. La sacerdotessa Ianassô sarebbe tornata a Ketu, accompagnata da Marcelina da Silva, una sua

figlia spirituale o forse figlia di sangue che era incinta di una bimba che sarebbe stata la madre di una

delle mãe-de-santo3 più celebri di Bahia, Mãe Senhora.

Marcelina da Silva e il suo gruppo ritornarono a Salvador con un africano, Bangboxé, figura mitica del

candomblé.

Da questa radice di tradizione ketu nacque il terreiro della Casa Branca, il cui nome ioruba è Ilé Axé

Iyá Nassô. Successivamente, nel 1910, nacque un’altra famosa casa denominata Axé Opô Afonjá, ad

opera della celebre mãe-de-santo Eugênia Ana Santos, Mãe Aninha, figlia di Xangô.

È da sottolineare che in queste case tradizionali la guida della comunità può essere solo una donna e che

nel terreiro della Casa Branca l’iniziazione continua ad esistere soltanto per il sesso femminile.

La figura femminile, infatti, è centrale nella religione del candomblé; le sacerdotesse esercitano il

proprio potere con un’ autorevolezza ed una saggezza uniche.

Nel XIX secolo ci furono molti figli di africani di prima generazione che si recarono in Africa per farsi

iniziare. Ritornarono poi a Bahia ed ebbero una grande influenza sull’organizzazione dei culti. Si

possono citare due figure mitiche del candomblé: Martiniano Eliseo de Bonfim e suo padre, che arrivò

come schiavo nel 1840, comprò la libertà nel 1850 e dopo altri cinque anni riuscì a liberare anche la

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moglie. Martiniano nacque libero nel 1859 e a diciassette anni andò con il padre a Lagos per farsi

istruire, da dove tornò nel 1886. Diventò un babalaô4 molto conosciuto.

Molti ex-schiavi, invece, tornarono in Africa e vi rimasero per sempre.

A partire dagli anni ’20-’30, dalla culla delle culture africane che è Salvador de Bahia, le sacerdotesse

cominciarono ad intraprendere molti viaggi verso il sud del Brasile per iniziare nuovi fedeli e

successivamente fondare dei terreiros di candomblé a Rio de Janeiro e a São Paulo.

La parola “candomblé” è una parola bantu che sembra significare “danze dei negri”, ma è identificato

anche con il nome di un antico strumento musicale.

Il candomblé nacque da schiavi che erano stati divisi in varie “nazioni”, o gruppi, a seconda del luogo di

provenienza. Le nazioni più importanti erano: Angola, Congo di tradizione bantu, Jejê provenienti dal

Dahomey e le popolazioni Ioruba ( Ketu, Igexá, Egbá, Oyo). È possibile distinguere queste nazioni dal

modo di suonare il tamburo, dalla musica, dai colori, dal modo di ballare ecc. Al giorno d’oggi la più

conosciuta è la nazione Ketu, che è anche considerata la più tradizionale.

Il candomblé è la religione afro-brasiliana che maggiormente ha mantenuto le caratteristiche delle

religioni tradizionali africane, sia nella cosmogonia sia nel rituale che nella solidarietà sociale.

Le civiltà africane spesso vengono definite “simboliche” e infatti i disegni, gli oggetti, le piante, le

pietre rimandano sempre ad un “altro”, che è difficilmente spiegabile e rappresentabile. Questo “altro”

non è però un semplice specchio fra oggetti e cose, è invece un filo energetico che collega gli esseri

umani e non, secondo una classificazione del mondo caratteristica del candomblé.

1.5 Struttura della religione Il candomblé crea un collegamento armonioso fra tutte le parti che compongono l’essere umano, il

cosmo e la società, mettendo in equilibrio tutti questi aspetti dinamicamente..

Esiste una divinità suprema, un principio unico chiamato Olorun o Olodumarê, che non agisce

direttamente sulla Terra, ma è sostituito dagli orixás. Questi sono divinità che hanno avuto

l’incombenza di creare e governare il mondo; ognuno di essi è responsabile di un aspetto particolare

della natura e di certi aspetti della vita sociale e individuale.

Gli orixás sono forze vive che si occupano di:

1) un aspetto del cosmo;

2) un aspetto sociale;

3) un aspetto individuale.

Ogni persona è un frammento della divinità ed è per questo che è considerata figlia dell’orixá, dal quale

ha ereditato le caratteristiche fisiche, psichiche ed energetiche. Tali legami sono impressi in tutto il

corpo, ma solo con l’iniziazione possono essere fissati in modo stabile

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