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Laurie Penn el Castells hilip Ro Urvashi Butalia VISTI DAGLI ALTRI Gli sposi senza legge SIRIA Guerra chimica SCIENZA Una forza nel buio PI, SPED IN AP, DL ART DCB VR ESTERO: DE BE CH internazionale.it Dal calcio alle armi per i ribelli siriani. L’emirato investe in tutto il mondo le ricchezze accumulate vendendo il gas e sfruttando i lavoratori migranti Qatar OGNI SET A NALI DI TUTTO GGIO GIU N. PDF AD ANDROID La piccola superpotenza

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Laurie Penn el Castells hilip Ro Urvashi Butalia

VISTI DAGLI ALTRI

Gli sposi senza leggeSIRIA

Guerra chimicaSCIENZA

Una forza nel buio

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internazionale.it

Dal calcio alle armi per i ribelli siriani. L’emirato investe in tutto il mondo le ricchezze

accumulate vendendo il gas e sfruttando i lavoratori migranti

Qatar

OGNI SET A NALI DI TUTTO GGIO GIU N.

PDF AD ANDROID

La piccola superpotenza

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Seguilo su

4 giugno 2013

Parlamento europeo Bruxelles

A un anno dalle elezioni europee Presseurop

organizza una giornata di incontri e dibattiti

sul futuro dell'Ue con lettori, giornalisti

e deputati europei

Seguite il Forum in diretta su www.presseurop.eu/EU2014

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Sommario

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La settimana

È rimasto in Siria per due mesi, di nascosto, più o meno nello stesso periodo in cui è scomparso Domenico Quirico. Il giornalista di Le Monde Jean-Philippe Rémy ha indagato in particolare nella zona di Damasco. E ha visto con i suoi occhi le forze del regime usare armi chimiche. “Se c’è riuscito un giornalista, com’è possibile che i governi occidentali non siano stati in grado di arrivare a una conclusione chiara sull’uso delle armi tossiche in Siria?”, chiede l’editoriale uscito in prima pagina il giorno dello scoop. Di fronte al suo u�cio, al sesto piano della redazione di Le Monde, sono esposti una vecchia macchina da scrivere, blocchetti di appunti ingialliti, fotogra�e in bianco e nero. Sembra un museo un po’ polveroso. Natalie Nougayrède sa che il suo compito di direttrice di Le Monde è di�cile, ma è consapevole delle enormi potenzialità del momento. Ha 46 anni, una grande esperienza sul campo (soprattutto in Europa dell’est) ed è la prima donna direttrice del più famoso quotidiano francese. Anche Le Monde, come tutti i grandi quotidiani europei, deve riuscire a passare dalla carta al digitale non solo sopravvivendo, ma se possibile ritrovando un’identità e un ruolo nella società. “Per me è molto importante pubblicare articoli e commenti originali. Vogliamo essere molto forti sui fatti. Non ci saranno approssimazioni e voglio che tutti gli articoli siano veri�cati, solidi”. Un programma impegnativo, ma che ha il grande vantaggio di funzionare indipendentemente dal supporto: che sia su carta, sul web o sui tablet, il giornalismo di qualità ha un futuro. Natalie Nougayrède ne parlerà anche a Ferrara, al festival di Internazionale, dal 4 al 6 ottobre.Giovanni De [email protected]

Originali

14 Guerra chimica Le Monde

18 Niger El Watan

20 Stati Uniti-Messico The New York Times

24 Regno Unito The Guardian

26 Giappone The Guardian

28 Gli sposi senza legge

The New York Times

46 La pace rimandata Jot Down

54 I nomadi di Bishkek Transitions online

56 Una forza nel buio Aeon

60 Testimone oculare Sara Naomi

Lewkowicz

66 Due giorni a Dresda

The Independent

68 Don King Grantland

72 Stati Uniti Peter Kuper

74 Una scena imperfetta

Itogi

88 Naturalmente senza �gli

Urvashi Butalia92 Quando andavo

a Praga Philip Roth

94 Alla conquista delle terre d’Africa Le Monde

La piccola superpotenzaDal calcio alle armi per i ribelli siriani. L’emirato investe in tutto il mondo le sue ricchezze. Gli articoli di Frontline (p. 36), Financial Times (p. 39) ed El País (p. 43). Foto di Jonathan Kitchen (Getty Images)

99 Occhiali indiscreti The New York Times

100 Fondo monetario internazionale

The Wall Street Journal

76 Cinema, libri, musica, video, arte

Le opinioni

19 Amira Hass

32 Laurie Penny

34 Manuel Castells

78 Go�redo Fo�

80 Giuliano Milani

84 Pier Andrea Canei

86 Christian Caujolle

93 Tullio De Mauro

95 Anahad O’Connor

101 Tito Boeri

Le rubriche

10 Posta

13 Editoriali

104 Strisce

105 L’oroscopo

106 L’ultima

Laurie Penn el Castells hilip Ro Urvashi Butalia

Gli sposi senza legge

Guerra chimica

Una forza nel buio

internazionale.it

QatarLa piccola superpotenza

Aeon È un magazine digitale britannico di politica e cultura. L’articolo a pagina 56 è uscito il 23 aprile 2013 con il titolo In the dark. Frontline È un quindicinale indiano di approfondimento e attualità. L’articolo a pagina 36 è uscito il 5 aprile 2013 con il titolo Brand Qatar. Jot Down Fondata nel 2011, è una rivista culturale spagnola. L’articolo a pagina 46 è uscito ad aprile del 2013 con il titolo Guatemala, la

transición requisada. Transitions online È un sito ceco dedicato ai paesi dell’ex blocco sovietico. L’articolo a pagina 54 è uscito il 13 marzo 2013 con il titolo Kyrgyzstan’s new nomads. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

Le principali fonti di questo numero

“Questa cultura preferisce sempre le donne che occupano meno spazio possibile”

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Immagini

Ripartire da zeroMoore, Stati Uniti27 maggio 2013

Jaqi Castro, Angelica Morris-Smith e Cetoria Petties, tre volontarie, spingono i carrelli pieni di provviste da distribuire agli abitanti della città colpita dal torna-do il 20 maggio. Classi�cato come F5, il grado di distruzione più alto della scala di Fujita, il tornado ha causato la morte di almeno 24 persone, tra cui dieci bam-bini, e 377 feriti. A Moore, New castle e nella parte sud di Oklahoma City sono state distrutte più di 1.200 case. Foto di Tom Pennington (Getty Images)

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Immagini

Festa grandeGerusalemme, Israele22 maggio 2013

Venticinquemila ebrei ortodossi della dinastia chassidica Belz hanno parteci-pato il 22 maggio a Gerusalemme al ma-trimonio del nipote del rabbino capo della comunità, Shalom Rokach, 18 an-ni, e Hana Batya Pener, 19 anni. Secon-do The Times of Israel sono state le noz-ze più imponenti degli ultimi vent’anni. In Israele vivono circa 700mila ebrei ultraortodossi, una popolazione in rapi-da crescita. Foto di Menahem Kahana (Afp/Getty Images)

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Immagini

Stop alla centraleVitória do Xingu, Brasile27 maggio 2013

Un gruppo di indigeni di varie etnie ha occupato il cantiere principale della centrale idroelettrica Belo Monte, in co-struzione nello stato del Pará, lungo il �ume Xingu. I manifestanti, che aveva-no già bloccato i lavori all’inizio di mag-gio, chiedono al governo federale di es-sere consultati sull’impatto ambientale della centrale. Quando sarà ultimata, Belo Monte diventerà la terza centrale idroelettrica più grande del mondo, do-po quella delle Tre gole in Cina e di Itai-pú al con�ne tra Brasile e Paraguay. Foto

di Lunae Parracho (Reuters/Contrasto)

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[email protected]

La guerra al cancro

Ho molto apprezzato l’arti-colo di Peggy Orenstein (In-ternazionale del 24 maggio), le cui considerazioni possono essere condivise anche da chi in Italia lavora nel campo del-lo screening del tumore mam-mario. Devo segnalare che nel testo il to cure inglese è tra-dotto, erroneamente, con il termine “curare” anzi-ché “guarire”. Mario Campogrande, presidente onorario dell’Asso-ciazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani

Periferie svedesi

Complimenti per l’editoriale “Dalle periferie svedesi” (In-ternazionale del 24 maggio). Nella sua brevità ha saputo af-frontare i problemi dell’immi-grazione e dello stato sociale in Svezia con osservazioni di buon senso. Purtroppo in Italia un caso come quello di Husby sarebbe stato trattato o con il classico “al lupo al lupo” della destra o con il pietismo della sinistra.Federico Racalbuto

La scuola in Italia

Caro Internazionale, sono un insegnante di �loso�a e storia delle superiori. La classe di quinta di cui sono coordina-tore si è abbonata a te in quest’ultimo anno di scuola. A partire dalle tue analisi abbia-mo spesso discusso di nozze gay e di interruzione volonta-ria di gravidanza, di neofasci-smi e di fatica della democra-zia rappresentativa, di impren-ditori suicidi e del lavoro oggi in Italia. E anche di scuola, di come esista una sorta di ditta-tura del manuale nell’era dell’accesso totale alle infor-mazioni. Non so se abbiamo fatto un buon lavoro, né come andrà l’esame di stato. E non so se la classe sarà ascoltata per la sua intelligenza o invece sarà classi�cata come una scuola per ricchi e quindi costi-tuzionalmente marginale. Già, perché insegno in un istituto salesiano, una di quelle scuole che sono chiamate private e in-vece sono pubbliche paritarie. La mia è una funzione pubbli-ca e il mio primo riferimento è la costituzione, non il magiste-ro ecclesiastico. Caro Interna-

zionale, vorrei che tu insistessi nel costruire un dibattito serio sulla scuola in Italia, in cui al centro ci siano i ragazzi e la lo-ro formazione, in cui le scuole private non possano permet-tersi di danzare sulle ceneri della scuola statale, ogni istitu-to sia valorizzato per quel che può dare e si abbandoni l’idea del monopolio dell’educazio-ne, da una parte e dall’altra. Giovanni Realdi

Errata corrige

Il �toplancton è alla base della catena alimentare mari-na, ma non tutte le specie se ne nutrono, come era invece scrit-to su Internazionale del 24 maggio a pagina 97. Nel nume-ro del 10 maggio, a pagina 39, la tecnologia Amoled è una tecnologia dei display e non dei processori.

E se seguissi la moda e re-stassi io con i �gli mentre mia moglie è al lavoro? –Matteo

Che il papà a tempo pieno va-da di moda non ci sono dubbi: basta sfogliare una rivista fem-minile o fare un giro tra i blog per rendersene conto. Ma non è detto che sia anche una real-tà. Anzi, secondo una ricerca condotta nel Regno Unito si tratta di un falso mito: negli ul-timi dieci anni il numero di pa-dri a casa con i �gli è aumenta-to di seimila persone, mentre quello delle mamme è diminu-

ito di 44mila. Chi copre la dif-ferenza di 38mila famiglie re-state senza genitori? I nonni, le tate, l’asilo nido. Sono loro la vera moda e non i tanto decan-tati quanto rarissimi padri a tempo pieno. Perché purtrop-po è più dura di quanto sembri: un uomo che lascia il lavoro per stare con i �gli è visto nel migliore dei casi come un de-bole, nel peggiore come un fal-lito. Ed è un’idea talmente ra-dicata che spesso si a�accia anche nella testa delle mogli: l’uomo che non porta a casa la pagnotta non è attraente. Da quanto ho visto io, le uniche

che riescono ad accettare di buon grado di sostenere eco-nomicamente il marito sono donne molto intelligenti e si-cure di sé. Quelle che hanno capito che la divisione dei ruoli basata sulla personalità e non sul genere di appartenenza è un vantaggio per tutti. Se tua moglie è una di loro, vai tran-quillo: segui la moda, vera o falsa che sia, e prenditi cura della tua famiglia.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internaziona-le. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear daddy

Il falso mito dei padri a casa

Wan wan

disse il cane

Le correzioni

Aaaammm, dice Satomi Yai al suo cane Airu (Internaziona-le 1001, pagina 104) per fargli aprire la bocca. Ma quando so-no nella loro casa di Itō, in Giappone, Satomi dice aaan. E quando Airu le morde la mano dice itai, non aahii! Le parole che servono a rappresentare rumori, azioni o sensazioni vanno tradotte come tutte le altre, perché sono diverse da cultura a cultura e da lingua a lingua. Per�no quando imita-no lo stesso suono. Airu, per esempio, abbaia come tutti i cani del mondo, ma in italiano fa bau bau e in giapponese wan wan. I linguisti le chiamano onomatopee. L’italiano ha le sue: i treni fanno ciuf ciuf e chi beve fa glu glu. Ma usa anche parole inglesi spesso arrivate proprio attraverso i fumetti. Wowww, dice un passante stu-pito che ha appena visto un ti-zio sul cornicione di un palaz-zo (pagina 88). In inglese wow è un verbo che signi�ca più o meno “fare grande impressio-ne”, in italiano invece non vuol dire niente. Ma molti lo usano al posto del più genuino oh!, anche se non sanno l’inglese. Il fumettista italiano Jacovitti usava onomatopee tutte sue che suggerivano un signi�cato ai lettori italiani, come pùgno e spàro, o versioni italianizzate come bànghete. Ma ormai in Italia le pistole fanno solo bang (in inglese vuol dire “colpire”). Lo sanno anche i bambini.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Le lettere possono essere modi�cate per ragioni di spazio e chiarezza.

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Editoriali

Era già stato di�cilissimo convincere tutti i pro-tagonisti della guerra in Siria a sedersi intorno a un tavolo per la conferenza di pace chiamata Gi-nevra 2. Negli ultimi giorni tre eventi hanno reso il compito più di�cile, ma non meno urgente. Il primo è stato il discorso di Hassan Nasrallah, il 25 maggio, in cui il leader del gruppo libanese Hez-bollah ha dichiarato che il suo movimento com-batte per il regime di Assad. Dopo due anni di con�itto in Siria tra la maggioranza sunnita da un lato e il governo e l’esercito dominato dagli alawi-ti dall’altro, le parole di Nasrallah hanno scardi-nato il fragile equilibrio tra sunniti, sciiti e cristia-ni in Libano che durava dalla �ne della guerra ci-vile nel paese. Per la prima volta Hezbollah am-mette che difendere il Libano da Israele non è il suo solo obiettivo, e si impegna a sostenere una guerra confessionale contro altri arabi. Il discorso di Nasrallah dovrebbe far ri�ettere quelli che cer-cano di fermare la guerra, perché rende ancora più importante il coinvolgimento dell’Iran in Gi-nevra 2.

Il secondo evento ha avuto luogo a Bruxelles. Anche se la crisi siriana rischia di diventare regio-nale, Londra e Parigi continuano a voler armare i ribelli. Nel corso di un dibattito che ha visto i due paesi contrapporsi agli altri 25, Regno Unito e Francia sono riuscite a metter �ne all’embargo sulle armi imposto dall’Unione europea. A questo evento ne è seguito subito un terzo: la Russia ha confermato la fornitura di missili antiaerei S300

a Damasco, una decisione che risponde più a Isra-ele che all’Unione europea. Mosca voleva un im-pegno di Israele a non compiere altri raid aerei sulla Siria, mai arrivato. La decisione di Mosca è disastrosa: il regime potrebbe usare questi missi-li veloci a guida radar contro qualsiasi obiettivo.

Per come stanno le cose – con 300 morti negli scontri in Iraq nelle ultime due settimane, una crescente tensione confessionale in Libano, il ri-schio di altri raid aerei israeliani – il con�itto siria-no potrebbe estendersi a un’area che va dallo stretto di Hormuz al Mediterraneo. È sullo sfondo di questo contesto regionale che dovrebbe essere valutata la decisione britannica e francese di ar-mare i ribelli, giusti�cata sostenendo che servi-rebbe a ra�orzare gli elementi più moderati e a fare pressione perché tutte le parti partecipino alla conferenza di pace. In realtà Russia, Regno Unito e Francia non stanno facilitando il raggiun-gimento di un cessate il fuoco né gli sforzi diplo-matici multilaterali. È più probabile che un au-mento delle armi in circolazione ra�orzi i signori della guerra, spinga i paesi che aiutano Assad ad aumentare il loro sostegno militare e dia al leader siriano una scusa in più per a�ermare che si sta battendo contro un complotto islamista sostenu-to dall’estero.

Un aumento delle armi ra�orza il mito secon-do cui la soluzione di questo con�itto può essere solo militare. Un mito che entrambe le parti in lotta in Siria continuano ad alimentare. gim

Le armi contro i negoziati in Siria

Il Grillo calante

The Guardian, Regno Unito

Gianluca Wallisch, Der Standard, Austria

L’amore degli italiani per gli idoli può essere tra-volgente. Ma anche a quegli idoli che sono stati improvvisamente esaltati e portati alle stelle può succedere di essere abbandonati altrettanto ra-pidamente e spietatamente. La cosa non vale solo per i piloti di Formula Uno o per gli allenato-ri di calcio: questo principio ha da tempo fatto il suo ingresso anche in politica.

E così Beppe Grillo, che ancora ieri era un messia (uno tra quanti?), viene oggi rispedito nel deserto. Resta ben poco del recente trionfo alle elezioni politiche della �ne di febbraio, che han-no regalato a questo comico arrabbiato la �ducia di un quarto degli elettori italiani. Lo si è visto già alle successive elezioni regionali del Friuli, e og-gi è confermato dalle elezioni comunali: Grillo

non ha neanche una ricetta da o�rire per risolve-re i problemi del paese. Gli italiani l’hanno capi-to. E ne hanno tratto le loro conclusioni.

La colpa di questo brusco calo elettorale do-vrebbe ricadere innanzitutto su Grillo. Presen-tarsi alle elezioni, ma poi ri�utare qualsiasi for-ma di confronto democratico, è fatale. Gli eletto-ri sanno bene che l’Italia, nel bel mezzo della sua crisi più dura, non ha tempo da perdere in gio-chini di potere. Comunque Grillo non è l’unico in lutto: sono stati puniti a dovere anche i “vecchi” partiti, che �nora non hanno dato segni di voler cambiare modo di pensare e ricominciare da ca-po. Insomma, i cittadini italiani si allontanano ancora una volta dalla politica. Fino a quando non entrerà in scena il prossimo messia. ma

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra �loso�a”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paci�co), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Ci�olilli, Sabina Galluzzi Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla �ne degli articoli. Marina Astrologo, Francesca Bianchi, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto gra�co Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Giovanni Ansaldo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anna Franchin, Mads Frese, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e di�usione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 8066 0287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Concessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media SrlStampa Elcograf s.p.a, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signi�ca che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per �ni commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 29 maggio 2013

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Attualità

14 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Un attacco con armi chi-miche sul fronte di Jo-bar, alle porte della ca-pitale siriana, inizial-mente passa quasi inos-servato. Niente di spet-

tacolare. E, soprattutto, niente di ben indi-viduabile. L’obiettivo è proprio questo: quando i combattenti dell’Esercito siriano libero (Esl) si accorgono di essere esposti ad agenti chimici usati dalle forze governa-tive, ormai è troppo tardi. Qualunque sia il gas usato, ha già prodotto degli e�etti, e questo a poche centinaia di metri dalle pri-me abitazioni della capitale siriana.

All’inizio si è sentito solo un rumore lie-ve, un colpo metallico, quasi un ticchettio. E in mezzo al gran fracasso degli scontri di quel giorno nel settore Bahra 1 del quartie-re di Jobar, i combattenti della brigata Tahrir al Sham (Liberazione della Siria) non ci hanno fatto troppo caso. “Abbiamo pensato a un colpo di mortaio non esplo-so”, spiega Omar Haidar, responsabile operativo della brigata che occupa questo avamposto a meno di 500 metri dalla piaz-za degli Abbasidi. Cercando le parole per descrivere quello strano suono, lo parago-na a “una lattina caduta per terra”. Niente odore né fumo, nemmeno un �schio a indi-

care la fuoriuscita di un gas tossico. Poi sono comparsi i sintomi: tosse violenta, gli occhi che bruciano, le pupille che si restrin-gono e la vista annebbiata. Poco dopo co-minciano le di�coltà respiratorie, a volte piuttosto acute, il vomito, gli svenimenti. Gli uomini più colpiti devono essere allon-tanati prima che so�ochino.

Abbiamo assistito a scene simili per di-versi giorni di seguito nel quartiere alle porte di Damasco, dove le forze ribelli so-no entrate a gennaio. Da allora il controllo di Jobar è diventato di importanza cruciale sia per l’Esl sia per il governo. Ma in due mesi di indagini nei dintorni della capitale siriana, abbiamo raccolto una serie di ele-menti simili in un contesto molto più am-pio. La gravità dei casi, il loro numero, l’uso di questo tipo di armi mostrano come non si tratti di banali gas lacrimogeni, ma di prodotti di tipo diverso, molto più tossici.

Sull’ingarbugliato fronte di Jobar, dove le linee nemiche sono così vicine che a vol-te gli uomini possono insultarsi oltre che uccidersi tra loro, per tutto il mese di aprile si sono viste regolarmente scene di attac-chi con i gas. Le forze governative non li usano in modo pesante e su larga scala, ma in modo occasionale e localizzato, soprat-tutto nei punti in cui lo scontro con i ribelli

troppo vicini si fa più acceso. Nel settore Bahra 1, uno dei più avanzati in direzione della grande piazza strategica degli Abba-sidi, porta di accesso a Damasco, gli uomi-ni di Abu Jihad, detto Narghilé, hanno su-bìto il primo attacco di questo tipo la sera di giovedì 11 aprile. All’inizio tutti sono stati colti alla sprovvista. Avevano sentito parla-re di gas usati in altre regioni della Siria (in particolare a Homs e nella regione di Alep-po) nel corso dei mesi precedenti, ma non sapevano come comportarsi in casi del ge-nere. Come proteggersi senza abbandona-re le posizioni e o�rire una facile vittoria al nemico? “Alcuni uomini sono stati allonta-nati, altri sono rimasti paralizzati dalla paura. Ma non hanno abbandonato la posi-zione. I soldati al fronte hanno ricevuto l’ordine di procurarsi sciarpe inumidite per proteggersi il viso”, spiega un combattente. In quell’occasione sono state distribuite alcune maschere antigas destinate soprat-

Guerrachimica

Jean-Philippe Rémy, Le Monde, Francia

L’esercito siriano usa i gas tossici in modo limitato per non lasciare troppe prove. Ma nei dintornidi Damasco gli ospedali sono pieni di persone intossicate. L’inchiesta di Le Monde

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tutto agli uomini che occupavano posizioni �sse, dove un singolo muro a volte segna il con�ne del territorio ribelle. Altri si sono accontentati della ridicola protezione of-ferta da mascherine da chirurgo.

Gli uomini al comando di Narghilé non sono i soli ad aver subìto un attacco con gas. Nei pressi del vicino mercato della car-ne, dove stazionano carri armati del gover-no, le “forze speciali” dei ribelli della Liwa Marawi al Ghuta sono state esposte a con-centrazioni di composti chimici indubbia-mente ancora più elevate, a giudicare dagli e�etti sui combattenti. Nelle ore successi-ve li abbiamo ritrovati a lottare per la vita in un letto di ospedale.

A Jobar i combattenti non hanno ab-bandonato le loro posizioni, ma quelli ri-masti sulla linea del fronte, con le pupille ristrette e la respirazione faticosa, sono “terrorizzati e cercano di calmarsi con le preghiere”, ammette Abu Atal, uno dei

combattenti di Tahrir al Sham. Un uomo di un’altra brigata è morto il 18 aprile in un settore vicino. Si chiamava Ibrahim Dar-wish.

Nella zona nord di Jobar, interessata da un attacco simile, il generale Abu Moham-mad al Kurdi, comandante della prima di-visione dell’Esl (che riunisce cinque briga-te), a�erma che i suoi uomini hanno visto dei soldati governativi lasciare le loro posi-zioni poco prima della comparsa di uomini “con indosso delle tute di protezione con-tro gli agenti chimici”, che hanno messo per terra “delle piccole bombe, simili a mi-ne”, dalle quali si è di�uso nell’aria un pro-dotto chimico. I suoi uomini, prosegue, avrebbero ucciso tre di questi tecnici. Dove sono le tute di protezione prelevate ai ca-daveri? Nessuno lo sa. I combattenti che quella sera sono stati esposti all’attacco raccontano di un forte panico e di una riti-rata precipitosa. Non ci sono civili né fonti

indipendenti che possano smentire o con-fermare queste testimonianze: a Jobar non abita più nessuno, oltre ai combattenti bloccati nei diversi fronti del quartiere.

Ciò non impedisce di constatare l’e�et-to dei gas usati dal governo siriano alle por-te della capitale. Il 13 aprile, durante un at-tacco chimico su una zona del fronte di Jo-bar, il fotografo di Le Monde ha visto i combattenti in mezzo alle case in rovina cominciare a tossire e poi indossare le loro maschere a gas, senza fretta apparente, ma in realtà già colpiti dal gas. Alcuni uomini si erano accovacciati, respirando a�anno-samente e vomitando. Sono dovuti fuggire immediatamente dal settore. Il fotografo di Le Monde per quattro giorni ha avuto problemi alla vista e alle vie respiratorie. Eppure quel giorno le concentrazioni più alte di gas erano state registrate in un setto-re vicino.

In assenza di testimonianze indipen-

Il 27 maggio i ministri degli esteri dell’Unione europea hanno deciso di non rinnovare l’embargo sulle armi destinate ai ribelli siriani che scadrà il 1 giugno. Tuttavia Francia e Regno Unito, i promotori della misura, non consegneranno armi alla Coalizione nazionale siriana (Cns) �no al 1 agosto, nella speranza che la conferenza di pace “Ginevra 2”, promossa da Russia e Stati Uniti, abbia buon esito. All’incontro, previsto per giugno, dovrebbero partecipare rappresentanti del regime di Damasco e dell’opposizione siriana. La Russia ha criticato la decisione dell’Ue e ha fatto sapere che continuerà a fornire missili antiaerei al regime siriano sostenendo che le “armi di difesa stabilizzeranno” la Siria, scongiurando un intervento straniero. Ma cresce il timore di una possibile espansione del con�itto: il 26 maggio due razzi hanno colpito la zona di Beirut controllata da Hezbollah.

Da sapereDeir Ezzor, 4 aprile 2013

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16 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Attualitàdenti sono sorti numerosi dubbi sulla veri-dicità dell’uso generalizzato di armi chimi-che da parte delle forze governative, che ne possiedono tre importanti riserve, in-clusi gas neurotossici come il sarin. Vari paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Turchia e Israele, hanno dichiarato di essere in pos-sesso di prove che indicherebbero l’uso di armi di questo tipo, ma non hanno rivelato la natura esatta delle loro prove, né hanno stabilito se, come promesso dal presidente statunitense Barack Obama nell’agosto del 2012, il ricorso a queste armi da parte del governo di Damasco rappresenterà davve-ro il superamento di una “linea rossa” che potrebbe determinare un intervento stra-niero in Siria contro il regime.

Dal canto suo, anche il governo siriano accusa l’Esl di usare armi chimiche, e que-sto non fa che aumentare la confusione. Per accertare il reale uso di questi compo-sti da parte dell’esercito siriano bisogna allora interrogare i medici che sul posto tentano di curare o salvare i combattenti esposti ai gas. L’8 aprile, presso l’ospedale Al Fateh di Kafer Battna, il più importante centro medico dell’area della Ghouta, un’ampia zona controllata dai ribelli a est di Damasco, i medici mostrano sui loro te-lefonini i video di scene di so�ocamento. Un suono terribile esce dalla gola di un uo-mo. Era il 14 marzo e, stando a quanto rife-rito dal personale medico, quell’uomo era stato esposto al gas sul fronte di Otaiba, una città nella zona orientale della Ghouta, dove il governo siriano conduce dalla metà di marzo una vasta operazione per accer-chiare le forze ribelli e impedirgli l’accesso alla loro principale via di rifornimento.

Uno di questi medici, il dottor Hassan, descrive accuratamente i sintomi di questi pazienti: “Le persone che arrivano hanno di�coltà a respirare. Hanno le pupille ri-strette. Alcuni vomitano. Non sentono più, non parlano più, i muscoli respiratori sono inerti. Se non si interviene con la massima urgenza, muoiono”. Questa descrizione corrisponde in tutto e per tutto a quelle de-gli altri medici che abbiamo incontrato nell’arco di varie settimane nei dintorni di

Damasco. Con qualche di�erenza. A se-conda dei luoghi, i combattenti che ne so-no rimasti vittime a�ermano che i prodotti chimici sono stati di�usi da semplici pro-iettili, da razzi o anche da una specie di gra-nata.

L’esperimento Sul fronte di Jobar, al quinto attacco di que-sto tipo, il 18 aprile, i combattenti dell’Esl guidati da Omar Haidar dicono di aver vi-sto cadere ai loro piedi un grande cilindro dotato di un dispositivo d’apertura, lungo più o meno venti centimetri. Si trattava di armi chimiche, e se sì, che tipo di sostanze di�ondeva? Per rispondere con precisione a questa domanda, servirebbero ulteriori

indagini che le condizioni del con�itto ren-dono però di�cili. Bisognerebbe fare dei prelievi sui combattenti morti o ricoverati in ospedale in seguito all’esposizione ai gas, affidandoli poi a laboratori specializzati all’estero. Alcuni di questi prelievi sono sta-ti già fatti, e sono in corso delle analisi.

In seguito, a Jobar sono state distribuite maschere antigas, siringhe e �ale di atropi-na, un prodotto iniettabile che contrasta gli e�etti dei gas neurotossici come il sarin. I medici della Ghuta sospettano l’uso di questo agente neurotossico inodore e inco-lore, i cui e�etti corrispondono a quelli os-servati sul posto. Secondo una fonte occi-dentale ben informata, questo non esclude che il governo siriano abbia fatto ricorso a un mix di prodotti, utilizzando in particola-re gas lacrimogeni per confondere le acque e depistare l’osservazione dei sintomi.

Se dovessero esserci prove concrete dell’uso di armi chimiche da parte delle truppe di Bashar al Assad, le conseguenze sarebbero gravi e quindi nascondere le prove è d’obbligo. I gas sono usati in ma-niera limitata, evitando una di�usione si-stematica che lascerebbe sul campo prove inconfutabili. Il fenomeno si ripete con una certa regolarità: secondo i ribelli, il 23 mar-zo un altro attacco con armi chimiche ha avuto luogo ad Adra, una zona a nordest di Damasco in cui gli scontri tra il regime e i ribelli sono particolarmente aspri.

Nella seconda metà di aprile, gli attac-chi con il gas sono diventati una strana rou-tine a Jobar. Sulla linea del fronte i ribelli dell’Esl avevano preso l’abitudine di tenere le loro maschere a portata di mano. Si orga-nizzavano delle regolari sedute per lavarsi gli occhi, con siringhe piene di soluzione �siologica. Lo scopo di questi attacchi ap-pariva essenzialmente tattico: era un ten-tativo di destabilizzare le unità dei ribelli nei quartieri dai quali i soldati governativi non sono riusciti a scacciarli, e al tempo stesso un test. Se le forze armate siriane possono usare le armi chimiche nella loro capitale senza provocare una seria reazio-ne della comunità internazionale, questo non è forse un invito a proseguire l’esperi-mento su scala un po’ più ampia?

Fino a oggi i casi di uso di gas non sono stati isolati. L’unico oftalmologo della re-gione opera in un piccolo ospedale di Sabha di cui preferisce non indicare la posizione precisa. Solo lui ha contato 150 persone con questi sintomi nel giro di due settima-ne. Nei pressi delle zone più esposte ai gas, ha organizzato delle docce per consentire ai combattenti esposti ai prodotti chimici di lavarsi e cambiarsi, evitando così di con-taminare il personale dei centri di cura.

Rimedio da cavalloPer salvare i combattenti con i problemi respiratori più gravi bisogna trasportarli attraverso un lungo dedalo all’interno di case dai muri perforati – superando trincee e tunnel scavati per evitare il fuoco nemi-co, fino a un’ambulanza di fortuna par-cheggiata su una piazzola un po’ in disparte – e �lare a tutta velocità su strade esposte ai proiettili e alle granate per raggiungere un ospedale da campo prima che gli uomini muoiano so�ocati.

All’ospedale islamico di Hammuriya, che si trova in un hangar appartato, il 14 aprile il dottore assicura di aver visitato, due ore prima, un combattente del fronte di Jobar con gravi di�coltà respiratorie e un ritmo cardiaco “impazzito”. Per salvar-lo sostiene di avergli fatto quindici iniezio-ni di atropina una dopo l’altra, insieme a idrocortisone. Un rimedio da cavallo ne-cessario per un caso disperato.

La notte precedente una delle ambu-lanze che cercavano di portare altrove gli uomini esposti al gas è stata colpita da un cecchino. L’autista è stato ferito. Il mattino seguente, gli autisti dell’ambulanza hanno dovuto percorrere quella strada a tutta ve-

Hanno di�coltà a respirare. Hanno le pupille ristrette. Alcuni vomitano. Non sentono più, non parlano più, i muscoli sono inerti

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 17

locità, sotto il tiro di un carro armato, per raggiungere una zona del fronte in cui era stato appena sversato uno strato di prodot-ti chimici. “All’arrivo hanno trovato tutti per terra”, racconta un infermiere di un al-tro centro ospedaliero di Kafer Batna, che preferisce restare anonimo per timore di rappresaglie contro la sua famiglia che vive in una zona controllata dal governo.

Nel corso della mattinata, nel cortile di un ospedale allestito in un parcheggio sot-terraneo al riparo dai colpi dei Mig o dell’artiglieria governativa regna il caos. Gli uomini sono stesi accanto a cinque aiu-to infermieri contaminati per contatto. Fi-nora i combattenti trasferiti dal fronte sono quindici, ma potrebbero essercene altri. Nelle stanze allestite alla meno peggio si corre per distribuire ossigeno e fare le inie-zioni. Il dottor Hassan, responsabile dell’ospedale, è steso nel suo minuscolo u�cio con una maschera d’ossigeno, men-tre gli viene somministrata l’atropina. Do-po un’ora alle prese con questi casi urgenti ha perso i sensi e ha cominciato a so�oca-re.

Da quando il blocco imposto sulla re-gione dalle forze governative ha reso le medicine sempre più rare, Hassan lotta da mesi per mantenere aperto il suo centro di cura con l’aiuto di volontari, alcuni dei qua-li sono semplici liceali. Mancano gli ane-stetici, i chirurghi improvvisati si sono ri-dotti a usare prodotti veterinari come la ketamina. La mor�na è sparita. E le scorte di atropina non dureranno a lungo. Il dot-tore ha prelevato dei campioni che con mil-le di�coltà sono stati fatti uscire di con-trabbando dalla regione. Ci vorrà ancora qualche settimana per conoscere i risultati delle analisi.

Solo in due degli otto centri medici del-la zona est della Ghuta che abbiamo visita-to i responsabili medici hanno dichiarato di non aver ricoverato combattenti o civili colpiti da attacchi con gas. A Nashibiyya il 18 marzo i medici hanno visitato �no a ses-santa casi in un solo giorno, provenienti dal fronte di Otaiba. La struttura non aveva i mezzi per far fronte a questo a�usso, in particolare per la carenza di ossigeno. Cin-que uomini sono morti per so�ocamento. Qualche giorno dopo, consapevoli della gravità della situazione, i medici hanno fatto riesumare le spoglie di quelle vittime alla presenza di autorità locali e religiose per prelevare dei campioni di tessuto da far arrivare in un paese vicino. Alcuni di questi

campioni sono stati a�dati a un piccolo gruppo di combattenti che ha cercato di aggirare l’accerchiamento della regione da parte delle forze governative. Ma i medici di Nashibiyya non sanno se i prelievi siano arrivati a destinazione.

Come pazziA una decina di chilometri, presso l’ospe-dale di Duma controllato dalla brigata Al Islam, i medici sostengono di aver visitato 39 pazienti dopo l’attacco chimico lanciato il 24 marzo sulla città di Adra. Due uomini sono morti nei locali dell’ospedale. Uno dei medici nota come nel giro di due giorni “i malati diventino come pazzi”. Marwan, un combattente presente all’attacco di Adra, a�erma di aver visto “arrivare sul

fronte dei missili che hanno di�uso una luce arancione” e, durante il trasferimento in ospedale, “tre uomini morire lungo la strada nei veicoli che li trasportavano”. In questo contesto di caos che regna nella re-gione della Ghuta, civili e militari spesso muoiono prima di essere riusciti a raggiun-gere un ospedale.

Adra, Otaiba e Jobar sono i tre luoghi in cui fonti locali della regione hanno descrit-to l’uso dei gas a partire dal mese di marzo nell’area di Damasco. Si nota una di�eren-za: a Jobar l’uso dei prodotti chimici è stato più prudente e localizzato. Al contrario, sui fronti più lontani, come Adra e Otaiba, le quantità stimate in base al numero dei casi giunti contemporaneamente negli ospeda-li sono maggiori.

Prestare soccorso alle vittime di attac-chi chimici, tuttavia, non è l’unica attività degli ospedali della regione. Due ore prima del nostro arrivo, quattro bambini con i corpi ridotti a brandelli dalle bombe sgan-ciate dai Mig dell’aviazione di Assad erano stati trasportati d’urgenza a Duma. Subito dopo essere stati stabilizzati, hanno dovu-to lasciare l’ospedale senza alcuna speran-za di poter essere portati via dalla Siria. Saranno senza dubbio morti per strada, come molti altri. Gli infermieri hanno �l-mato quei corpi martoriati, quelle urla di dolore. “Questo, vedete, succede ogni giorno, e per noi è ancora più grave degli attacchi chimici: siamo arrivati a questo punto”, commenta, annichilito, un medico che non può riferire il suo nome. gim

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta di Le Monde sull’uso di armi chimiche a Jobar, il ministro degli esteri francese Laurent

Fabius ha dichiarato che in Siria “i sospetti di uso locale di armi chimiche sono sempre più forti”. Tuttavia, la posizione di Parigi non cambia. “Abbiamo solo degli indizi”, spiega un diplomatico francese, “per trovare le prove, e formulare accuse, bisognerebbe che una missione dell’Onu entrasse in Siria, ma il regime non lo permette”. Intanto Le Monde ha fatto analizzare dei campioni, portati dai suoi inviati in Siria, prelevati da vittime di intossicazione da gas, per capire se siano state usate sostanze illegali.

Da sapere

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Provincia di Raqqa, 3 maggio 2013

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Africa e Medio OrienteCollaborareper l’uranio

Thomas Hofnung, Libération, Francia

Il 23 maggio il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mu-jao) ha compiuto due attentati suicidi contro una base dell’esercito nigerino

ad Agadez e contro l’azienda francese Are-va nella sua miniera d’uranio ad Arlit, cau-sando una ventina di morti e numerosi feri-ti. È il primo attentato di questo tipo sul territorio del Niger, un paese che con i suoi soldati contribuisce alla forza internaziona-le dispiegata in Mali, dopo l’o�ensiva lan-ciata lo scorso gennaio dall’esercito france-se. Con gli attacchi del 23 maggio il terrori-smo raggiunge anche il Niger, che rischia di trasformarsi in un covo di jihadisti. “Abbia-mo attaccato la Francia e il Niger, perché Niamey collabora con Parigi nella guerra contro la sharia”, ha dichiarato Abu Walid Sahraoui, portavoce del Mujao. Negli ultimi anni il Niger ha assistito a vari attacchi e ra-pimenti condotti da gruppi estremisti isla-mici, in particolare nel nord del paese. Ma da gennaio non c’era stato nessun episodio così grave.

I jihadisti, che hanno subìto perdite im-portanti in Mali quasi senza opporre resi-stenza, hanno deciso di cambiare tattica. All’alba del 24 maggio le forze speciali degli eserciti francese e nigerino hanno sferrato un attacco ad Agadez per liberare un grup-

po di allievi u�ciali che erano stati presi in ostaggio dai terroristi.

“Se l’obiettivo è far diventare il Mali un covo di estremisti islamici, possiamo assi-curare che non succederà. Ora bisogna evi-tare che il nord del Niger o il Ciad corrano un rischio simile”, ha dichiarato il ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian.

SorpresaGli attacchi compiuti nel nord del Niger dal Mujao sarebbero stati condotti insieme al gruppo dei Firmatari con il sangue, guidato dal jihadista Mokhtar Belmokhtar. Un suo comunicato, ripreso dall’agenzia maurita-na Al Akhbar, dichiara che “agli attacchi hanno partecipato più di una decina di com-battenti e che è stato il capo terrorista in persona a coordinare il doppio attentato in Niger”. Le stesse dichiarazioni sono state rilasciate da un portavoce del gruppo, che minaccia di “spostare la guerra in Niger se Niamey non ritirerà le truppe” dal Mali. I Firmatari con il sangue sono la stessa mili-zia che a gennaio aveva sferrato un attacco contro l’impianto per l’estrazione del gas di In Amenas, in Algeria. Il leader Belmokhtar – che era stato dato per morto dalle autorità del Ciad, ma non da quelle francesi – conti-nua a colpire. gim

Il terrorismocontagia il Niger

Hacen Ouali, El Watan, Algeria

L’attentato del 23 maggio ad Arlit, in Niger, ha provocato danni considerevoli agli impianti del-la multinazionale francese Are-

va, dove l’uranio estratto dalla miniera è lavorato e trasformato in yellow cake, prima di essere esportato in Francia per essere ar-ricchito. La produzione di Areva rischia di essere compromessa.

L’impianto di Arlit ha una grande im-portanza strategica per Parigi: un terzo dell’uranio usato nelle centrali nucleari ci-vili dell’azienda Électricité de France (Edf ) proviene dal Niger. A 80 chilometri da Arlit, a Imouraren, Areva sta costruendo un’enor-me miniera a cielo aperto che, a pieno regi-me, dovrebbe produrre cinquemila tonnel-late di uranio all’anno.

L’attacco terroristico è considerato una “sfida” lanciata alla Francia. La scelta dell’obiettivo fa ricordare un episodio dolo-roso: nel settembre del 2010 un commando guidato dal lea der jihadista Abu Zeid (ucci-so a febbraio in Mali) si è introdotto nei dor-mitori della miniera e ha rapito sette lavora-tori di Areva e del gruppo Vinci. Tre sono stati liberati, ma degli altri non si hanno no-tizie. Da allora sono stati intensi�cati i con-trolli di sicurezza nel nord del Niger, in stretta collaborazione con le forze francesi. Il presidente nigerino Mahamadou Issou-fou ha il pieno sostegno di Parigi. Finora è riuscito a preservare il fragile equilibrio nel suo paese, dove risiede un’importante co-munità tuareg, che in passato si è ribellata contro il potere centrale. Seicentocinquan-ta soldati nigerini sono attualmente impe-gnati in Mali.

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Un terrorista ucciso ad Agadez, il 24 maggio 2013

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 19

Con l’aiuto dei genitori, i miei giovani amici in Brasile hanno comprato un pezzo di terra sulle montagne. Costruire una casa lassù ha un costo accetta-bile. La terra è selvaggia e non è mai stata coltivata. Alla �ne dell’estate, quando in città si so�oca, quel pezzo di terra di-venta un rifugio incantevole.

Lungo la strada che porta alla proprietà ci sono molte baracche, piene di bambini in-digeni vestiti di stracci. È una storia vecchia di secoli: una fa-miglia arrivata cent’anni fa dall’Europa ha comprato la

terra dagli eredi di qualche no-bile portoghese che l’ha avuta 400 anni fa grazie ai suoi tito-li. Gli abitanti originari della terra, invece, sono ormai quasi scomparsi (padre Vilson mi ha raccontato che in Brasile sono morti sei milioni di indigeni). I superstiti non possono per-mettersi una casa, �guriamoci un pezzo di terra.

Questa settimana ho visita-to un luogo a est di Gerusa-lemme in cui 15 anni fa Israele ha “ricollocato” forzatamente 150 famiglie beduine della tri-bù jahalin. Certo, la sopravvi-

venza dei beduini non è in pe-ricolo, ma le loro tradizioni e la loro dignità sì. Dopo essere stati espulsi da Israele, i bedui-ni sono stati costretti a trasfe-rirsi molte volte. Una ricerca dell’ong israeliana Bimkom e dell’Onu ha stabilito che il ri-collocamento dei jahalin (vici-no a una discarica e senza ser-vizi adeguati né spazio per il bestiame) è stata un disastro.

A poche centinaia di metri di distanza, le case e le strade ordinate degli insediamenti di Ma’ale Adumim e Kedar ri-splendono al sole. as

Da Ramallah Amira Hass

L’odissea dei beduini

Nel cinquantesimo anniversario della nascita dell’Organizzazione dell’unità africana, che nel 2002 è diventata l’Unione africana, il mensile New African fa un resoconto dei progressi e delle s�de del continente. Nell’Africa sub-sahariana si trovano sei tra i paesi che negli ultimi dieci anni hanno fatto

registrare i tassi di crescita più alti al mondo. Si prevede che entro il 2050 il pil continentale passerà da duemila miliardi a 29mila miliardi di dollari. Con il 40 per cento della popolazione sotto i 35 anni, l’Africa è il continente più giovane al mondo e le nuove generazioni innescheranno un aumento della domanda di beni e servizi. Nuove opportunità emergeranno con lo sviluppo dell’agricoltura nel continente, in cui si trova il 60 per cento delle terre coltivabili ancora non sfruttate al mondo. Lo sviluppo si accompagna a un fermento nel campo delle scienze, delle nuove tecnologie e dell’arte. Non tutti i paesi africani, però, tengono il passo. “Ci sono ferite aperte, soprattutto nelle ex colonie francofone”, scrive il giornale. Il primo passo è migliorare le infrastrutture: strade, ferrovie, reti elettriche e idriche, telecomunicazioni.

Africa

I primi cinquant’anni

New African, Regno Unito

KENYA

Dalla parte di Kenyatta Il consiglio esecutivo dell’Unio-ne africana ha chiesto il 23 mag-gio alla Corte penale internazio-nale (Cpi) di far cadere le accuse per crimini contro l’umanità ri-volte a Uhuru Kenyatta, il neoe-letto presidente keniano, e il suo vice William Ruto, in relazione alle violenze postelettorali ke-niane del 2007-2008, scrive Jeune Afrique. I governi afri-cani accusano la Cpi di concen-trarsi solo sul loro continente.

IN BREVE

Guinea Equatoriale Il Partito democratico della Guinea Equa-toriale (Pdge), la formazione del presidente Teodoro Obiang, ha vinto le elezioni legislative del 26 maggio.Rdc Il 23 maggio il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha e�ettuato una visita a Goma, nel Nord Kivu, dove sono in corso dei combatti-menti tra l’esercito e i ribelli dell’M23. Più di 30mila persone sono in fuga dalle violenze.

GUINEA

La capitalein fermento Il 29 maggio a Conakry si sono svolti i funerali di undici perso-ne uccise negli scontri (nella fo-to), avvenuti dal 23 al 26 maggio, tra polizia e manifestanti, scrive Guinée Conakry Info. Da me-si, spiega Afrik, l’opposizione scende in piazza per chiedere elezioni trasparenti. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il decreto emesso dal pre-sidente Alpha Condé che convo-ca i guineani alle urne il 30 giu-gno per le elezioni legislative. A inizio maggio gli abitanti di Co-nakry erano scesi in piazza con-tro il governo per denunciare l’interruzione dei servizi di di-stribuzione di acqua potabile ed elettricità.

MALI

Verso le elezioni Il governo ha annunciato che il primo turno delle presidenziali sarà il 28 luglio. Le autorità sa-ranno costrette a una corsa con-tro il tempo, sottolinea Mali Actu, ma è la Francia a fare pressioni. I paesi amici del Mali hanno promesso 3,2 miliardi di euro per la ricostruzione ma i fondi arriveranno solo dopo il voto. Il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, che controlla Kidal, nel nord del Ma-li, ha accettato lo svolgimento delle elezioni, ma ha fatto sape-re che non consentirà all’eserci-to maliano di entrare in città.

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Americhe

L’u�cio del medico legale della contea di Pima, in Arizona, cu-stodisce il più grande registro dei migranti che attraversano il

con�ne con il Messico. Qui 774 gruppi di resti umani conservati in ammu�ti sacchi per cadaveri aspettano di essere identi�ca-ti. Per la famiglia di Andrés Valenzuela Co-ta quei resti rappresentano l’opportunità di chiudere un capitolo triste della storia della famiglia. Cota è scomparso il 15 luglio 2011, a 45 anni, dopo aver chiamato una nipote chiedendole di inviargli cento dollari in un’agenzia della Western Union di Cana-nea, in Messico, uno snodo del tra�co di migranti attraverso l’Arizona.

Mentre il congresso degli Stati Uniti esamina la più radicale riforma dell’immi-grazione degli ultimi decenni, i resti con-servati a Tucson sono un triste promemoria di quello che succede ogni giorno lungo il con�ne. Negli ultimi anni il numero di mi-granti arrestati è diminuito drasticamente e questo signi�ca che sempre meno perso-ne cercano di attraversare il con�ne illegal-mente. Eppure il numero di morti è rimasto alto. “Le persone che attraversano il con�-ne sono sempre di meno”, spiega Bruce An-derson, antropologo forense dell’u�cio del medico legale, “ma molti di quelli che ci provano continuano a morire”. Nell’ultimo anno �scale, cioè �no al 30 settembre 2012, i morti accertati sono stati 463. Secondo l’organizzazione per i diritti umani O�ce on Latin America, con sede a Washington, signi�ca che in media sono morti cinque migranti ogni quattro giorni. Solo nel 2005 il bilancio è stato peggiore di questo, e quell’anno gli arresti sono stati il triplo.

Il ra�orzamento delle misure di control-

lo lungo il con�ne ha costretto i migranti a seguire rotte più pericolose, e nel 2012 il maggior numero di decessi è avvenuto nell’impervia striscia di deserto che com-prende la punta meridionale del settore controllato dalla polizia di con�ne di Tuc-son, la più impegnata alla frontiera. L’unico passaggio più rischioso si trova in un settore della Rio Grande valley, in Texas, dove dal 1 ottobre al 30 aprile gli agenti di polizia e i proprietari dei ranch hanno trovato i resti di 77 migranti, più della metà del numero complessivo di corpi ritrovati nell’ultimo anno �scale: 150. In quella zona la maggior parte dei decessi è avvenuta nella contea di Brooks, un’area di 2.500 chilometri quadra-ti dove il reddito medio per famiglia è di 25mila dollari all’anno (circa 20mila euro). Secondo Raul Ramirez, un giudice della contea, a questo ritmo nel 2013 il numero di corpi ritrovati potrebbe raddoppiare. Nel 2012 ha già toccato la cifra record di 129. La maggior parte delle vittime proviene dall’America Centrale.

L’u�cio del medico legale di Tucson, dove si fanno le autopsie per tre delle quat-tro contee di con�ne dell’Arizona, ha rac-colto dal primo gennaio al nove maggio 49 gruppi di resti umani. Sono contrassegnati da un numero e poi fotografati, pesati e mi-surati. I vestiti, ridotti a brandelli dagli ele-menti e dagli animali, sono conservati in buste di plastica. Per anni l’identi�cazione dei resti è stata particolarmente di�cile, soprattutto a causa della mancanza di indi-zi. Pochi migranti delle comunità rurali po-tevano essere identi�cati con l’impronta dentale, e di solito i documenti d’identità ritrovati nelle tasche e negli zaini dei cada-veri erano falsi.

Assemblare i resti, per esempio colle-gando una mandibola ritrovata in primave-ra al corretto gruppo di resti rinvenuti in precedenza, è un po’ come mettere insieme i pezzi di un puzzle. Bisogna rovistare a ma-no negli schedari zeppi di documenti che tappezzano l’u�cio del dottor Anderson. Uno sca�ale è occupato dai pochi casi della �ne degli anni novanta, gli altri sono dedi-

cati alle oltre 2.100 vittime registrate dal 2001. “Stabilire la causa di morte è abba-stanza semplice”, spiega Gregory L. Hess, medico legale capo della contea di Pima. “Il problema è dare un nome ai resti”.

All’inizio di maggio l’u�cio ha comple-tato un archivio geogra�co computerizzato con i dati di 1.826 migranti morti nel deser-to. Il registro comprende le coordinate gps del luogo dove sono stati ritrovati i resti e (quando disponibili) il sesso, l’età e la causa del decesso. Grazie all’archivio, oggi tutti possono farsi un’idea della complessità e dell’ampiezza del problema. Il progetto ha preso il via cinque anni fa grazie a un accor-do con Humane borders, un’organizzazio-ne non pro�t che all’epoca stava già crean-do un registro dei morti, e ha ricevuto una donazione anonima di 175mila dollari.

La ricerca continuaLa mandibola recuperata in primavera si trovava nel cuore del deserto, vicino a Three Points, a ovest di Tucson. L’antropo-loga forense Angela Soler ha cercato nell’ar-chivio i corpi associati a quell’area, e ne ha

Inghiottiti dal deserto

Negli ultimi anni il numero di migranti che cercano di attraversare illegalmente il con�ne tra il Messico e l’Arizona è diminuito. Ma il bilancio delle vittime è ancora alto

Fernanda Santos e Rebecca Zemansky, The New York Times, Stati Uniti

Dal 2001 a oggi circa 2.100 migranti sono morti attraversando il con�ne tra il Messico e l’Arizona. L’u�cio del medico legale della contea di Pima,in Arizona, e l’organizzazione non pro�t Humane borders, che gestisce una rete di punti di rifornimento di acqua per i migranti, ha reso pubblico un database dei punti dove sonostati trovati i resti di migrantimorti duranteil viaggio.

Morti

Punti di rifornimentod’acqua

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trovati 52 nel raggio di sei miglia. Soler ha cominciato ad analizzare i più vicini al luo-go dove era stata recuperata la mandibola. Uno era il corpo integro di un uomo trovato e identi�cato nel 2008. Un altro, trovato nel 2012, apparteneva a un ispanico di età com-presa tra 20 e 35 anni, la fascia demogra�ca più comune tra i migranti morti. L’antropo-loga ha analizzato la documentazione e ha scoperto che dal corpo mancava proprio la mandibola. “Ci ho messo poche ore, ma al-tre volte ci vogliono mesi”, spiega.

A marzo l’u�cio del medico legale della contea di Pima ha chiesto ai familiari di An-drés Valenzuela Cota, il migrante scompar-so nel 2011, un calco dei denti del loro pa-rente per controllare se corrisponde a qual-cuno dei corpi conservati nell’u�cio. Tra i corpi trovati nella contea di Cochise, dove in base all’ultima telefonata tra Cota e i pa-renti si ritiene che l’uomo sia entrato nel paese, sono state trovate sette possibili cor-rispondenze.

Un cognato di Cota, che ha chiesto di mantenere l’anonimato perché teme ritor-sioni da parte dei cartelli della droga che

controllano il tra�co di migranti, racconta che la famiglia ha denunciato la scomparsa di Andrés sia in Messico sia negli Stati Uniti. Lo ha cercato negli ospedali e nelle stazioni di polizia e ha ripercorso la rotta dell’uomo distribuendo volantini con il suo nome e la fotogra�a in tutti i centri abitati. “Ma non abbiamo fatto passi avanti”, spiega.

Dopo la scadenza del suo visto, Cota ha vissuto per vent’anni in California senza

Da sapere Il 22 maggio la commissione giustizia del se-

nato degli Stati Uniti ha approvato, con 13 voti a favore e 5 contrari, la riforma dell’immi-grazione che dovrebbe permettere a 11,5 mi-lioni di migranti che vivono illegalmente negli Stati Uniti di ottenere la cittadinanza. Nono-stante i numerosi emendamenti, il provvedi-mento approvato è molto simile a quello origi-nale proposto dalla cosiddetta gang of eight, un gruppo di quattro senatori democratici e quat-tro repubblicani che dopo mesi di lavoro ha prodotto un testo comune. I democratici hanno rinunciato a un emendamento che pre-vedeva la possibilità di dare la cittadinanza ai partner stranieri di cittadini statunitensi omo-sessuali. La legge sarà sottoposta al voto del senato a giugno, prima di passare alla camera.

Il 24 maggio il giudice federale Murray Snow ha stabilito che Joe Arpaio, lo sceri�o della contea di Maricopa, in Arizona, non po-trà più fermare e schedare i lavoratori della contea in base al colore della pelle. Arpaio era stato citato in giudizio da un gruppo di auto-mobilisti ispanici. Snow lo ha accusato di pren-dere di mira gli ispanici con controlli e scheda-ture irregolari. Lo sceri�o è noto per la sua in-transigenza nei confronti degli immigrati e per le umiliazioni che in�igge ai detenuti della sua contea, costretti a indossare mutande rosa. Nel 2012 era stato citato in giudizio dal mini-stero della giustizia statunitense per violazioni delle libertà civili.

essere in regola, ma quando la madre si è ammalata ha deciso di tornare a Los Mo-chis, nello stato messicano di Sinaloa, per dirle addio. Nel settembre del 2010 ha pro-vato a tornare negli Stati Uniti presentan-dosi alla dogana di San Diego con un passa-porto falso, ma è stato scoperto e incarcera-to per 45 giorni.

Tornato in libertà, ha tentato per due volte di superare il con�ne di nascosto, sen-za riuscirci. A quel punto un parente gli ha consigliato di recarsi nella città di con�ne di Nogales, dove un tra�cante lo avrebbe accompagnato in Arizona “per un prezzo di favore”, racconta il cognato. Nella sua ulti-ma telefonata Cota ha annunciato di essere pronto a cominciare il viaggio, precisando che non avrebbe potuto portare con sé il cellulare e promettendo che avrebbe chia-mato sei giorni dopo. Il 9 maggio Robin C. Reineke, un antropologo che lavora nell’uf-�cio del medico legale, ha spulciato il data-base analizzando uno per uno i casi della contea di Cochise, ma non ha trovato trac-cia di Andrés Valenzuela Cota. La ricerca continua. as

Fonte: The New York Times

Ipotizzando che i migranti percorrano in media 19 chilometri al giorno, le vittime concentrate in questo punto avevano attraversato il con�ne da tre giorni.

Prima del 2006 i migranti morivano soprattutto nelle valli di Altar e Baboquivari. Poi, con l’entrata in vigore del Secure fence act, che ha autorizzato la costruzione di nuove barriere e ra�orzato la sorveglianza del con�ne, le morti sono state più frequenti nelle regioni montuose a est della Altar valley e nel deserto a ovest della Baboquivari valley, più distanti e di�cili da raggiungere.

Sul totale delle morti accertate in Arizona, circa la metà è avvenuta nella riserva della nazione indiana Tohono O’odham, che occupa un’area desertica di circa 11mila chilometri quadrati. La tribù non consente agli operatori di Humane borders di lasciare rifornimenti d’acqua sul suo territorio.

Da sapere

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Popolazione statunitense composta da immigrati, %Fonte: The Washington Post

1900 1920 1940 1960 1980 2000

Europa6 milioni

Asia12 milioni

America Latina22 milioni

Africa, Oceania e Nordamerica

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22 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

STATI UNITI

La sicurezzasecondo Obama Per il New York Times è stato “il più importante discorso sull’antiterrorismo dagli atten-tati del 2001”. Il 23 maggio, alla National defence university di Washington, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha detto che la guerra permanente cominciata dodici anni fa è inso-stenibile per una democrazia e che bisognerà mettere �ne al con�itto. Obama ha difeso l’uso dei droni, ma ha chiesto che in futuro gli attacchi, gestiti dall’esercito e non più dalla Cia, siano limitati agli obiettivi che rappresentano “una continua e imminente minaccia” e che non possono essere catturati dagli Stati Uniti o da un loro alleato. Interrotto più volte da una con-testatrice che gli ha ricordato lo sciopero della fame in corso da febbraio a Guantanamo, il presi-dente Obama ha ribadito che vuole chiudere il campo di pri-gionia e trasferire i prigionieri in Yemen.

STATI UNITI

I boy scoutaprono ai gay Con il 61 per cento di voti favo-revoli, il 23 maggio l’assemblea generale dei boy scout statuni-tensi ha deciso di accettare nell’organizzazione ragazzi e ra-gazze omosessuali minori di 18 anni, rompendo un divieto che esiste da 22 anni. La norma en-trerà in vigore dal 1 gennaio 2014, ma non sarà estesa ai capi dei gruppi scout. “I sentimenti con cui la comunità gay ha ac-colto il voto”, scrive The Atlan-tic, “sono riassunti bene nel ti-tolo della rivista Mother Jones: ‘Boy scout. Puoi essere omoses-suale �no a diciott’anni’”. Se-condo Zach Wahls, uno scout cresciuto da due madri lesbiche, “è un passo incompleto, ma va nella direzione giusta”.

ARGENTINA

Un decennioal potere Il 25 maggio migliaia di persone hanno riempito plaza de Mayo, a Buenos Aires, per celebrare l’anniversario della rivoluzione di maggio del 1810 e il decimo anniversario dall’arrivo dei Kirchner (prima Néstor, ora Cri-stina Fernández) al governo. “La presidente”, scrive El País, “ha celebrato il decennio vinto, in contrapposizione agli anni ot-tanta, considerati il decennio perso dall’America Latina”. La Nación si chiede: “Come si fa a parlare di ‘decennio vinto’ quan-do l’in�azione è ai livelli degli anni ottanta?”. Il quotidiano Pá-gina 12 fa notare che “Cristina Fernández non è eterna e non vuole esserlo. Ma ha promesso che un cambio di governo non signi�ca perdere le conquiste raggiunte �nora”.

IN BREVE

Cile Il 24 maggio il governo ha in�itto una multa da 16 milioni di dollari all’azienda canadese Barrick Gold, la più grande com-pagnia mineraria del mondo per l’estrazione dell’oro. È accusata di aver inquinato le falde acqui-fere costruendo la miniera di Pascua-Lama. Brasile Il 25 maggio centomila persone hanno partecipato a Rio de Janeiro a una manifestazione contro i matrimoni gay.Stati Uniti Il 27 maggio è stato inaugurato a New York un servi-zio di bike sharing con seimila biciclette e 333 stazioni tra Man-hattan e Brooklyn.

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Accordo agrario tra Farc e governoDopo sei mesi dall’apertura dei negoziati, il 26 maggio all’Avana le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e il governo di Juan Manuel Santos hanno annunciato in un comunicato congiunto di aver raggiunto un accordo sul primo dei sei punti in discussione: la terra. Semana sottolinea che “per la prima volta dall’inizio del con�itto le due parti parlano la stessa lingua”. Nella foto: il negoziato-re delle Farc Pablo Catatumbo (a sinistra) all’Avana il 26 maggio 2013

Messico

Il 19 maggio, con una decisione inaspettata, il presidente messicano Enrique Peña Nieto (del Partito rivoluzionario istituzionale) ha inviato seimila militari e centinaia di poliziotti nello stato di Michoacán. “Al caos imposto dai cartelli della droga, Peña Nieto ha risposto con una misura avventata degna del suo

predecessore Felipe Calderón, commettendo così i suoi primi errori tattici”, scrive il settimanale Proceso. Nella maggioranza dei municipi dello stato da mesi detta legge il cartello Los Caballeros Templarios: blocca l’entrata dei camion che trasportano benzina, alimenti e medicine, e minaccia gli abitanti. “L’ordine ricevuto dai militari”, spiega la rivista, “era quello di calmare la zona. Ma per prima cosa l’esercito ha provato a disarmare i gruppi di autodifesa cittadina che si erano organizzati per rispondere agli attacchi dei Caballeros Templarios. La popolazione ha reagito con manifestazioni di protesta e ha ri�utato di consegnare le armi. Finora non è stato arrestato nessun narcotra�cante”.

Proceso, Messico

Obiettivo Michoacán

Colombia

Americhe

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UNA VIGNETTA

PERL’EUROPA

LA PIÙ BELLA SARÀPREMIATA AL FESTIVAL DI

INTERNAZIONALE A FERRARA 2013

intern.az/concorsovignette *Il concorso scade il 25 giugno

Partecipaal concorso*

2013

Promosso dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europeaIn collaborazione con Presseurop e Internazionale

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Europa

L’agghiacciante omicidio del sol-dato britannico Lee Rigby, uc-ciso il 22 maggio in una strada del quartiere di Woolwich, nel

sud di Londra, ha messo in moto una se-quenza di eventi che erano ampiamente prevedibili già dal momento in cui si è spar-sa la notizia. Adesso, però, questi eventi stanno cominciando a prendere una piega inaspettata e spiacevole. All’inizio, ovvia-mente, il trauma causato dalla notizia ha assorbito la pietà e l’energia di tutti: una ri-sposta doverosa di fronte a una simile tra-gedia. Poi, una volta passata l’emozione iniziale, si è scatenato un nuovo dibattito giornalistico e politico.

Questo dibattito riguarda i modi per prevenire gli attentati in futuro. L’esperien-za recente, soprattutto dopo l’11 settembre, dovrebbe far suonare un campanello d’al-

larme. Il culto della violenza esibita, e l’idea che questa si possa giusti�care sulla base di presunte ingiustizie politiche, religiose o legate a un senso di orgoglio calpestato (tut-ti atteggiamenti tipicamente maschili), so-no fenomeni inquietanti quanto antichi. In ballo ci sono questioni di grande complessi-tà, che vanno oltre il problema del radicali-smo islamico o del razzismo, speculare al primo. Purtroppo, in questo momento qual-siasi ri�essione complessa e pacata è travol-ta da un clima in cui prevale la voglia di sempli�cazione.

Più controlloTutto sommato i politici vanno capiti. De-vono agire in fretta, da una parte per la fero-cia dell’omicidio, dall’altra per il timore di e�etti collaterali più gravi. Ma devono farlo anche perché gli ultimi avvenimenti sono �niti subito nella polveriera del dibattito politico. Dopo la reazione spontanea e uni-taria delle prime ore, per la classe politica ci sono pericoli e opportunità: un clima che probabilmente continuerà dopo i funerali e nelle prossime sedute in parlamento.

Si capisce anche perché la ministra dell’interno Theresa May è particolarmen-te sotto pressione. L’opinione pubblica bri-

tannica è comprensibilmente sconvolta al pensiero che in mezzo a noi ci sia qualcuno capace di commettere simili orrori o di giu-sti�carli. Pensa, non senza ragione, che in tutto questo c’entri il radicalismo islamico. Vuole essere certa che fatti come questo non si ripetano più. E gli unici che possono rassicurarla sono i politici.

Ma oggi i politici non possono dire che la situazione è sotto controllo, anche se in realtà lo è anche se l’opinione pubblica si rende conto che gli interventi possibili sono limitati. Una dichiarazione di questo tenore stonerebbe con l’immagine terribile del ca-davere del soldato. E mal si sposerebbe an-che con le storie che sono circolate e che collegano i presunti attentatori di Londra ad altri estremisti e altri attacchi nel Regno Unito e all’estero. I cittadini hanno tutto il diritto di essere preoccupati quando gira voce che alcuni servizi di sicurezza, sotto la responsabilità di May, hanno avuto contatti diretti con le persone che oggi sono sospet-tate di questo brutale omicidio.

Tutto questo, non dobbiamo dimenti-carlo, succede mentre i leader politici han-no sempre meno credibilità.

La signora May ha risposto all’omicidio di Woolwich proponendo nuovi controlli sulla posta elettronica e un giro di vite sui gruppi religiosi e i predicatori che fomenta-no l’odio e la violenza. Il Partito laburista ha criticato la coalizione di governo sia per i tagli ai piani antiterrorismo sia per la scarsa vigilanza sul web. È anche evidente che i tory e i laburisti stanno cavalcando il clima di indignazione per mettere in di�coltà i liberaldemocratici e riguadagnare credito agli occhi dell’opinione pubblica dopo l’im-pennata dei populisti xenofobi dell’Ukip nei sondaggi nazionali. Ma cercare di capi-re perché certe cose succedono non vuol dire giustificarle. Si dice che l’orrore di Wool wich si sarebbe potuto evitare se i ser-vizi per la sicurezza interna, l’MI5, avessero avuto più poteri di controllo sulla posta elet-tronica, come propone oggi May, o se qual-che predicatore estremista fosse stato mes-so a tacere. Ma a riguardo non ci sono prove. E anche la probabilità di prevenire un nuo-vo atto isolato di violenza jihadista attraver-so l’allargamento dei poteri di controllo è minima. La storia di quello che è successo dopo l’11 settembre dimostra che quando i governi si danno più poteri lo fanno per ras-sicurare l’opinione pubblica più che per ri-solvere i problemi. Il pericolo è che dopo Woolwich si ripetano gli stessi errori. fs

Dopo l’omicidio di Londra i britannici hanno paura

Il brutale assassinio del soldato Lee Rigby rappresenta una s�da per tutta la classe politica britannica. Che deve saper reagire con fermezza, ma facendo tesoro degli errori del passato

The Guardian, Regno Unito

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La polizia scienti�ca sul luogo dell’assassinio. Londra, 23 maggio 2013

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 25

SVEZIA

Alla radicedelle violenze Gli scontri tra polizia e manife-stanti avvenuti negli ultimi dieci giorni nelle periferie di Stoccol-ma hanno sollevato interesse e preoccupazione anche fuori dalla Svezia. Al punto che i mi-nisteri degli esteri di Regno Uni-to, Stati Uniti, Paesi Bassi e Nuova Zelanda hanno consi-gliato ai loro cittadini di non vi-sitare la capitale svedese. Tutta-via la situazione sta tornando al-la normalità. Secondo la polizia, dopo il weekend tra il 25 e il 26 maggio gli scontri e gli atti di vandalismo sono sensibilmente diminuiti. In totale sono state arrestate almeno 13 persone e sono state date alle �amme de-cine di auto. “Questi scontri so-no le conseguenze dirette della violenza della polizia, della di-soccupazione giovanile, del raz-zismo e delle disuguaglianze economiche”, scrive su Dagens Nyheter la �losofa inglese Nina Power. “Ma non è troppo tardi per cercare di capire perché i giovani sono così arrabbiati”.

BULGARIA

Un governo a metà A due settimane delle elezioni, la Bulgaria ha un nuovo gover-no. L’esecutivo, che sarà guidato da Plamen Orešarski, è frutto di un accordo tra il Partito sociali-sta e il Dps, il partito della mino-ranza turca, e ha il sostegno di 120 deputati su 240. Non potrà quindi governare senza l’appog-gio degli ultranazionalisti di Ataka sui singoli progetti di leg-ge. Come spiega O�news, è stato proprio Ataka a garantire il quorum durante le procedure parlamentari, uscendo poi dall’aula al momento del voto, come la legge bulgara consente di fare. A questo punto, conclu-de O�news, è inevitabile un pe-riodo di grande instabilità.

TURCHIA

Gli alcolici fuori legge Divieto di vendere alcolici vici-no a moschee e scuole, pubblici-tà vietata e alcol bandito anche da �lm e �ction tv. Il 24 maggio il parlamento turco ha approva-to una legge severissima sulla vendita e il consumo di alcol, voluta dal partito del premier Recep Tayyip Erdoğan, Akp, per “proteggere la salute dei giova-ni”. Tuttavia, scrive il laico Mil-liyet, “un simile divieto non può essere giusti�cato con que-sti argomenti, perché in Turchia il consumo di alcol tra i giovani non è un problema”. La verità, commenta il quotidiano, è che “l’islamismo moderato dell’Akp ha dimenticato la sua compo-nente democratica e sta portan-do il paese nella direzione di una sharia moderata”.

IN BREVE

Russia Il 23 maggio il tribunale di Berezniki ha negato la libertà condizionata a Maria Alëkhina, militante delle Pussy riot. Francia Il 29 maggio, a cinque giorni dall’omicidio di Londra, la polizia ha arrestato un venti-duenne musulmano accusato di aver accoltellato un soldato.Islanda Il 23 maggio è entrato in carica il governo guidato da Sigmundur Davið Gunnlaugs-son, 38 anni, leader del Partito del progresso (centro). Ex Jugoslavia Il 29 maggio il croato-bosniaco Jadranko Prlić è stato condannato a 25 anni di prigione per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja.

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L’ultima protestaIl 26 maggio il fronte degli oppositori al “matrimonio per tutti” ha tenuto la sua ultima manifestazione di protesta contro la legge sulle unioni gay. A Parigi hanno s�lato 150mila persone (un milione se-condo gli organizzatori). Violenti scontri tra i manifestanti di estre-ma destra e la polizia sono scoppiati a �ne giornata: 34 agenti sono rimasti feriti e ducecento persone sono state arrestate, scrive Li-bération. Il quotidiano sottolinea che, dopo aver cavalcato la prote-sta, una parte della destra se ne è dissociata. Intanto, il primo matri-monio omosessuale è stato celebrato a Montpellier il 29 maggio.

Parigi, 26 maggio 2013

Germania

Berlino non è pericolosa come Parigi o Londra, ma o�re sicuramente più insidie di molte altre città tedesche, scrive il settimanale Der Freitag, che racconta il “vitale e variegato” sottobosco criminale berlinese tra “spacciatori di droga, rock band e rapinatori”. Le sanguinose guerre per il controllo del territorio scoppiate dopo

la caduta del Muro sono �nite da tempo: oggi i criminali di Berlino “tessono le loro trame senza dare troppo nell’occhio”. Nella capitale tedesca, per esempio, entrano cinque chili di cocaina al giorno, ma la polizia registra scarsi successi: “Nel 2010 a Berlino sono stati sequestrati solo 21,3 chili di cocaina, mentre tra l’aprile del 2010 e il marzo del 2011 i chili di cocaina sequestrati a Londra sono stati 586”. In periferia, inoltre, imperversano le guerre tra bande di teppisti in motocicletta come gli Hell’s Angels Berlin City e i Mc Mongols Berlin, spesso animate dai giovani �gli di immigrati.

Der Freitag, Germania

Criminali a Berlino

Francia

Maria Alëkhina

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26 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Asia e Paci�co

Giovedì 23 maggio il Nikkei 225, l’indice principale della borsa di Tokyo, ha perso più del 7 per cento del suo valore, precipi-

tando da 15.942 (il valore più alto mai toc-cato in più di cinque anni) a 14.483 punti. Si è trattato di un crollo improvviso, che però assume un aspetto piuttosto particolare se lo si osserva nel contesto degli ultimi cin-que mesi, da quando cioè il liberaldemo-cratico Shinzō Abe è diventato primo mini-stro del Giappone. Anche contando il crollo di giovedì, in questi mesi il Nikkei è comun-que aumentato quasi del 45 per cento, e �-nora la sua ripresa è stata uno dei più grandi successi della storia della �nanza.

Questo impeto straordinario è stato prodotto dalle riforme economiche realiz-zate da Abe nel tentativo di risolvere i pro-blemi che a�iggono il paese da più di quin-dici anni. Questo periodo è noto come il “decennio perduto” del Giappone, un’espressione che trasmette il senso di di-sperazione di�uso tra la popolazione. Nel paese sono state adottate quasi tutte le mi-sure economiche convenzionali, eppure la crescita è rimasta limitata, superando solo di rado il 2 per cento all’anno nei periodi migliori e attestandosi in media sul -0,7 per cento all’anno dall’inizio della recessione.

Che si tratti di una causa o di un sinto-mo dei problemi del Giappone resta una questione aperta, ma l’incapacità delle au-torità monetarie del paese di combattere la de�azione (cioè la diminuzione dei prezzi) ha prodotto una comprensibile indignazio-ne. Per questo Abe, che si è candidato con l’esplicita promessa di risolvere de�nitiva-mente il problema, ha il mandato di appli-care politiche economiche non convenzio-

nali come pochi altri prima di lui.Dalla sua entrata in carica il primo mi-

nistro ha approvato un pacchetto di stimolo da ottanta miliardi di euro e ha varato una sorta di nazionalizzazione del patrimonio industriale nazionale (con un piano per la costruzione da parte dello stato di nuove fabbriche da affittare ai produttori) allo scopo di promuovere gli investimenti nel paese. Inoltre Abe ha nominato governato-re della Banca del Giappone l’anticonfor-mista Haruhiko Kuroda, che ha lanciato un programma di “rilassamento qualitativo e quantitativo” del valore di quasi 2.300 mi-liardi di euro per riportare l’in�azione al suo tasso ideale del 2 per cento entro i pros-simi due anni. Ma forse la novità più im-portante è che Akira Amari, il ministro del-la politica economica e �scale, aveva an-nunciato un obiettivo esplicito per la borsa: “Sarà importante dar prova del nostro co-raggio e fare in modo che il Nikkei tocchi la soglia dei 13mila punti entro la �ne dell’an-no �scale (il 31 marzo)”.

Alla �ne il Nikkei ha mancato il bersa-glio e ha raggiunto quota 13mila solo alla �ne della prima settimana di aprile. Ma an-che in questo modo l’ascesa è stata stupefa-cente, del 17 per cento in meno di due mesi,

Il lato psicologico delle riforme giapponesi

Il crollo improvviso dell’indice Nikkei ha sollevato dubbi sulla strategia economica del premier Shinzō Abe. Pericolosamente basata sulla gestione delle aspettative

Alex Hern, The Guardian, Regno Unito

e questo risultato è cruciale per il successo della politica di Abe, ormai nota come abe-nomics e tutta incentrata sulla gestione del-le aspettative.

Circolo viziosoSe la popolazione non si aspetta un’in�a-zione, le aziende non aumentano i prezzi, i lavoratori non trattano per ottenere un au-mento salariale e si può star certi che l’in-�azione non si innescherà. È un circolo vi-zioso e serve un intervento esterno per dare nuovo impulso all’economia: a questo sco-po potrebbero bastare i discorsi sul rilassa-mento illimitato e sull’impegno a “fare qualunque cosa” per mettere �ne alla de-�azione. Ma, in sostanza, si tratta di un gio-co psicologico dalla posta molto alta. E così si ritorna al crollo dell’indice Nikkei, per-ché il problema dei giochi psicologici è che se all’improvviso tutti si accorgono che è un gioco l’e�etto può annullarsi. Sarà di questo che gli operatori di borsa, sempre attenti alle possibili aperture del mercato, si saranno preoccupati giovedì sera: si è trattato di un’interferenza, di un �nto ri-basso nell’ambito di un aumento ininter-rotto? Oppure il Giappone sta perdendo la speranza? fp

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AFGHANISTAN

Detenuti segreti Le forze militari britanniche de-tengono da mesi circa 90 citta-dini afgani in una prigione se-greta a Camp Bastion, in Afgha-nistan. A rivelarlo sono stati i le-gali di alcuni detenuti, secondo cui i loro assistiti sono rinchiusi

da 14 mesi senza nessuna accu-sa formale. Molti detenuti non hanno nemmeno avuto accesso a un avvocato, denunciano i le-gali. Il ministro della difesa bri-tannico Philip Hammond il 29 maggio ha confermato la deten-zione ma ha respinto il paragone con Guantanamo sollevato dai legali e ha de�nito assurda la descrizione di Camp Bastion co-me di una prigione segreta, scri-ve la Bbc. Hammond ha fatto sapere che i detenuti sono so-spettati di aver ucciso soldati britannici e che non vengono consegnati alle autorità afgane perché si teme per la loro incolu-mità. La missione Nato permet-te alle forze britanniche di fer-mare i sospetti solo per 96 ore. Il Regno Unito è l’unico paese straniero a tenere in prigione cittadini afgani nel loro paese.

In India il settore informale impiega il 90 per cento della forza lavoro e produce il 50 per cento del pil. Però la maggior parte dei lavoratori di questo settore – braccianti, manovali, conducenti di risciò, straccivendoli, prostitute – non riceverà la pensione. Lo stato, infatti, riconosce una pensione di vecchiaia pari a 200 rupie

al mese (circa 2,7 euro) solo a chi risulta sotto la soglia di povertà. Così milioni di indiani che lavorano nel settore informale non rientrano nel programma pensionistico nazionale perché guadagnano più di 50 rupie al giorno (0,70 euro). Duecento rupie al mese sono indubbiamente poche, scrive Fountain Ink, ma almeno garantiscono un pasto in più al giorno. All’inizio di marzo circa diecimila anziani provenienti da ogni parte dell’India sono andati a New Delhi guidati dalla storica attivista Aruna Roy per chiedere il diritto alla pensione per chiunque abbia più di 60 anni. Un’età in cui chi ha svolto per tutta la vita lavori usuranti spesso non è più in grado di continuare a sostentarsi. Attualmente per le pensioni del settore informale il governo centrale e i singoli stati spendono l’equivalente dello 0,2 per cento del pil.

India

Una vecchiaia dignitosa

Fountain Ink, India

PENISOLA COREANA

Nord e sud maicosì lontani Raramente la linea che divide in due la penisola coreana è stata più spessa, commenta su Hankyoreh Kim Yeon-chul, docente di studi sull’uni�cazio-ne all’università Inje. È la prima volta dal 1971 che ogni contatto è stato interrotto, tutte le linee dirette chiuse, ogni tipo di scambio congelato. Anche dopo l’a�ondamento della nave mili-tare sudcoreana nel 2010 gli scambi commerciali non ne ri-sentirono perché il polo indu-striale di Kaesong, cogestito da nord e sud, restò aperto. “Oggi invece siamo nell’era zero delle relazioni intercoreane”, conti-nua Kim, “e i temuti danni per la chiusura di Kaesong, inattivo dall’inizio di maggio, stanno di-ventando realtà”. Il 28 maggio Pyongyang ha invitato gli uomi-ni d’a�ari sudcoreani ad andare a Kaesong per trattare la ripresa delle attività. Seoul, però, insiste per avviare colloqui u�ciali.

BIRMANIA

Controllo delle nascite

Le autorità dello stato del Ra-khine hanno deciso di ra�orzare i controlli della piani�cazione familiare dei rohingya, una mi-noranza musulmana non rico-nosciuta dalla Birmania e op-pressa dalla maggioranza bud-dista. Approvata nel 1994, la legge non era applicata da anni. Aung San Suu Kyi ha criticato la decisione, scrive Irrawaddy.

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AUSTRALIA

Nel mirino di Pechino Il 28 maggio l’emittente tv au-straliana Abc ha rivelato che i sistemi informatici di diverse istituzioni e aziende del paese sono stati colpiti da un attacco partito dalla Cina. Secondo il ministro degli esteri Bob Carr, gli hacker hanno rubato i piani di costruzione del nuovo quar-tier generale dei servizi segreti di Canberra e alcuni progetti di sistemi di sicurezza e comuni-cazione. Carr ha spiegato che la notizia non condizionerà i rap-porti con Pechino. Nel servizio, Abc spiega che sulla questione c’è un silenzio assordante: “Le aziende non parlano per timore di spaventare clienti e azionisti, mentre i governi vogliono evi-tare di dover rispondere a do-mande scomode”. Il governo cinese ha negato ogni accusa.

IN BREVE

India Il 25 maggio 24 persone sono morte in un’imboscata dei ribelli maoisti nello stato del Chhattisgarh. Tra le vittime ci sono alcuni deputati locali del partito del Congress.Afghanistan Sette persone, tra cui quattro taliban, sono morte il 24 maggio in una serie di at-tacchi a Kabul. Una funzionaria italiana dell’Organizzazione in-ternazionale per le migrazioni (Oim), Barbara De Anna, è ri-masta ferita.Filippine Il 27 maggio sette sol-dati sono stati uccisi dai ribelli comunisti vicino ad Allacapan, nel nord del paese.A

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Philip Hammond

Kaesong, 23 aprile 2013

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Visti dagli altri

28 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

è stata una cerimonia nuziale tradizionale in quasi tutti i sen-si: musica romantica, promes-se, fedi scintillanti e un appas-sionato primo bacio. Il tutto accolto da entrambe le fami-

glie con applausi e lacrime.Dal punto di vista giuridico, però, il ma-

trimonio celebrato la settimana scorsa tra Massimiliano Benedetto e Giuseppe Ilaria è stato puramente simbolico e tutt’altro che consueto, visto che in Italia le coppie omo-sessuali non sono riconosciute dalla legge. “È una celebrazione fuori dalle regole”, ha infatti dichiarato Imma Battaglia, leader in Italia del movimento Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender), o�ciando la ceri-monia in un albergo di lusso della capitale. “Gli omosessuali sono accusati di essere un pericolo per la famiglia. E invece oggi Mas-similiano e Giuseppe stanno semplicemen-te realizzando un desiderio che ra�orza il concetto di famiglia”.

Ma la loro è stata anche una presa di po-sizione politica. Il movimento per il ricono-scimento giuridico dei matrimoni tra per-sone dello stesso sesso sta facendo passi avanti in tutto il mondo. Questo genere di unioni è legale in almeno tredici paesi e in alcuni stati statunitensi. In aprile i matri-moni tra persone dello stesso sesso sono stati legalizzati in Nuova Zelanda e in Uru-guay. Per quanto riguarda l’Europa, nel Re-gno Unito il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso è previsto per

quest’estate, e in Germania si attende il vo-to del Bundestag per fare altrettanto. In Francia il primo matrimonio omosessuale legale è stato celebrato il 29 maggio, anche se il 26 maggio a Parigi almeno 150mila per-sone hanno manifestato contro i matrimoni gay. L’Italia, invece, è tra i pochi paesi dell’Europa occidentale dove le unioni tra persone dello stesso sesso non sono ricono-sciute. Sono anni che varie proposte di leg-ge per la legalizzazione delle unioni gay si arenano in parlamento, vittime dell’indi�e-renza del centrosinistra e dell’ostilità del centrodestra. Negli ultimi quindici anni so-no molte le città italiane, compresa Milano nel 2012, che hanno istituito un registro ci-vile delle unioni tra persone dello stesso sesso, ma i pochi diritti stabiliti dal registro valgono solo per la singola città. E tra queste città non c’è Roma.

Con le nostre famiglie“Non vorrei sembrare retorica, ma noi ado-riamo i nostri ragazzi, e da italiana provo un po’ di vergogna”, dice la madre di Massimi-liano, Marinella Benedetto, che l’ha accom-pagnato all’altare. “I tempi sono maturi per una svolta: basta spingere ancora un po’”. I due sposi di Roma fanno notizia da settima-ne. “Un nostro amico, venuto da New York per partecipare alla cerimonia, ci ha detto che non capiva quale fosse il problema. Gli ho spiegato che siamo in Italia”, racconta Massimiliano Benedetto a proposito del gran clamore attorno all’evento. “In tanti ci hanno chiesto: ‘Ma perché non vi siete spo-sati all’estero?’”, ha detto Giuseppe Ilaria in un’intervista rilasciata nell’appartamento che gli sposi dividono con i loro due cani. “Ma per noi era importante che la cerimo-nia si svolgesse a Roma, perché le nostre famiglie potessero partecipare: altrimenti tutto questo non avrebbe avuto senso”.

Gli sposisenza legge

Elisabetta Povoledo, The New York Times, Stati Uniti

Giuseppe e Massimiliano hanno celebrato il loro matrimonio in un albergo di Roma. Ma in Italia non c’è una legge sulle unioni omosessuali

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Egizia Mondini, l’addetta alle comuni-cazioni di Same Love, l’agenzia italiana di wedding planning per coppie dello stesso sesso che ha organizzato la cerimonia, ha pubblicizzato l’evento come “parte di una più ampia rivoluzione culturale” che sta avvenendo in Italia. Ma c’è ancora molto da fare, visto quanto ci ha detto la stessa Mondini: “Nei confronti di nostra �glia, la mia compagna ha gli stessi diritti di una babysitter”. Secondo molti sondaggi, in materia di diritti per gli omosessuali la so-cietà italiana è più tollerante dei suoi parla-mentari. Da uno studio condotto nel 2011 dall’Istat è emerso che per quasi il 63 per cento degli intervistati le coppie dello stes-so sesso dovrebbero avere gli stessi diritti delle coppie eterosessuali e che per quasi il 44 per cento le coppie gay dovrebbero po-tersi sposare.

Più uguali degli altri“I nostri politici non hanno il coraggio di combattere questa battaglia”, dice Giusep-pina La Delfa, presidente dell’associazione Famiglie arcobaleno. “Per loro viene pri-ma la carriera politica, e temono di inimi-carsi l’opinione pubblica”.

Eppure, proprio in questo mese, i parla-mentari italiani hanno approvato l’esten-sione dell’assistenza sanitaria integrativa ai loro conviventi, anche dello stesso sesso. La decisione ha scatenato accuse di ipocri-sia e di attaccamento a privilegi elitari. “Sembra la versione gay della Fattoria degli animali di George Orwell, dove tutti gli animali sono uguali ma alcuni, quelli al po-tere, sono più uguali degli altri”, ha com-mentato Luca Mastrantonio sul Corriere della Sera. “Invece è il parlamento italiano dove, ancora una volta, rischia di appro-fondirsi la distanza tra il paese legale, le istituzioni, e il paese reale, le persone co-muni”.

Secondo alcuni, l’ostacolo principale è l’in�uenza esercitata dal Vaticano su una parte dei parlamentari. Secondo altri, in-vece, questa è solo una scusa. “Il Vaticano fa il suo mestiere. È come il buttafuori di una discoteca: decide chi entra e chi resta fuori”, dice Alessandro Bentivegna, uno dei fondatori di Same Love, che due anni fa

è andato a Dublino per celebrare l’unione civile con il suo partner. “L’Irlanda è altret-tanto cattolica, eppure è cent’anni più avanti di noi”. In Irlanda le unioni tra per-sone dello stesso sesso sono state legaliz-zate già nel 2010.

Gli omosessuali italiani che sperano di sposarsi hanno anche altre soluzioni sim-boliche. Tra queste c’è il sito Matrimonio gay online, dove le coppie dello stesso ses-so possono compilare un modulo e seguire le istruzioni, che comprendono un “bacio obbligatorio” con una versione della mar-cia nuziale di Mendelssohn come musica di sottofondo. Il sito ospita anche una peti-zione per la legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Da dicembre scorso, quando il servizio è diventato ope-rativo, i matrimoni via internet sono stati una trentina, dice Gabriele Tiraboschi, il portavoce dell’associazione che gestisce il sito. “Anche se è solo online, è comunque un modo per dire: ‘Eccomi, sono qui, que-sto è ciò che voglio’”, spiega.

Intanto c’è qualche segnale di apertura sulla questione da parte del parlamento che si è insediato il 15 marzo 2013. La mini-stra delle pari opportunità, Josefa Idem, ha annunciato in diverse occasioni la sua in-tenzione di battersi per la parità di diritti delle coppie gay, ed è probabile che il dise-gno di legge contro l’omofobia, �rmato da oltre un terzo dei deputati, sia approvato.

La presidente della camera dei deputa-ti, Laura Boldrini ha dichiarato il 17 maggio in un discorso u�ciale che “in Italia la cul-tura maschilista e omofoba è ancora di�u-sa” e si è detta favorevole al riconoscimen-to giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso. Ma per i matrimoni veri e pro-pri, le cose rischiano di essere più di�cili, “anche se la società si è evoluta”, dice Ivan Scalfarotto, un parlamentare del Partito democratico che ha presentato un disegno di legge su questo tema. “Mi accontenterei dell’introduzione delle unioni civili”, pro-segue Scalfarotto, “però vorrei lo stesso sapere perché pago le stesse tasse, senza poter esercitare gli stessi diritti degli altri cittadini”. ma

Dall’alto in basso: Roma, 22 maggio 2013. Giuseppe Ilaria e Massimiliano Benedetto nella loro casa prima della cerimonia. Amici e parenti durante il matrimonio in un albergo romano.

I nostri politici non hanno il coraggio di combattere questa battaglia

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Visti dagli altri

Non è un paeseper bambini

Oltre 720mila bambini vivono in povertà: non hanno cibo, vestiti e cure mediche. Il rapporto di Save the children sulla condizione dell’infanzia in Italia

Barbie Latza Nadeau, The Daily Beast, Stati Uniti

Secondo l’ultimo rapporto di Save the children, Allarme infanzia, in questo momento l’Italia è uno dei paesi peggiori d’Europa in cui es-

sere bambini, con 720mila minori che vivo-no in assoluta povertà.

In termini pratici, signi�ca che questi bambini non hanno abbastanza da man-giare, non usufruiscono dell’assistenza sanitaria di base, compresi i vaccini più im-portanti e i controlli all’udito e alla vista. Inoltre in molti casi non vanno a scuola o se ci vanno sono troppo a�amati o turbati per concentrarsi. Signi�ca anche che non vivono la loro infanzia come dovrebbero poter fare, perché sono troppo occupati a sopravvivere.

L’ultimo rapporto di Save the children per l’Italia è a dir poco deprimente. Il 20 maggio l’ong ha organizzato manifestazio-ni di protesta in sedici città, facendo s�lare i bambini davanti ad alcuni dei più impor-tanti monumenti del paese. Davanti alla torre di Pisa portavano sagome di cartone di bambini a rappresentare la generazione perduta del paese e cartelli con scritte come “Ci avete rubato il futuro” e “Ci state ru-bando il cibo”. L’iniziativa, che continuerà �no al 5 giugno con manifestazioni di sensi-bilizzazione in tutto il paese, vuole essere un campanello d’allarme per i politici.

Gli organizzatori sostengono che se non si interverrà al più presto, un numero sem-pre maggiore di bambini e adolescenti ita-liani rischierà di avere un futuro senza spe-ranza. L’Italia è molto al di sotto della me-dia europea in base ai dodici indicatori so-cioeconomici standard per l’infanzia. Tra questi ci sono il livello di nutrizione, l’ac-cesso regolare all’istruzione, l’inclusione

sociale, le condizioni economiche generali e le opportunità di lavoro future. In Europa, solo la Grecia e la Bulgaria hanno una situa-zione peggiore. “Siamo preoccupati per il futuro dei bambini di questo paese”, ha di-chiarato Valerio Neri, direttore generale di Save the children Italia. “In base a tutti gli indicatori, le prospettive dei ragazzi italiani sono estremamente negative”.

Istruzione negataLa crisi economica complica le cose. Il rap-porto di Save the children denuncia un pre-occupante tasso di abbandono scolastico, il che signi�ca che la crisi attuale si ripercuo-terà anche nei prossimi anni, quando i bam-bini italiani diventeranno adulti e rischie-ranno di essere poco istruiti e senza alcuna specializzazione. Un ragazzo su cinque – il 18 per cento degli adolescenti – lascia la scuola dopo le medie, intorno ai 14 anni, per andare a lavorare nel mercato nero o nell’azienda di famiglia, o per occuparsi dei fratelli più piccoli, per permettere ai genito-ri di guadagnarsi da vivere. La media euro-pea è del 10 per cento. A volte lasciano la scuola perché i genitori non riescono più a pagare i libri, i pasti e il trasporto o peggio ancora perché si vergognano di non avere vestiti e scarpe adeguati. Tra quelli che completano il corso di studi superiore, solo una minima parte, meno del 30 per cento, si iscrive all’università. E se riescono a �ni-

re l’università, devono a�rontare un tasso di disoccupazione che per i laureati è intor-no al 40 per cento. Alla luce di queste stati-stiche, non c’è da stupirsi se, a livello di op-portunità educative, l’Italia è al quart’ulti-mo posto in Europa, seguita solo da Malta, Portogallo e Spagna. Ma forse la cosa più grave che emerge dal rapporto di Save the children è che lo stato italiano ha pratica-mente abbandonato i suoi giovani. L’Italia è ventiduesima su 27 nella lista degli stati che non garantiscono servizi adeguati per i bambini. Solo due su dieci frequentano nidi e asili pubblici, per cui spesso i genitori non possono lavorare perché devono occuparsi di loro. A parte i servizi, in Italia stanno di-minuendo anche i parchi giochi e gli spazi verdi a causa della cementi�cazione dovu-ta all’espansione delle industrie. Save the children calcola che sette bambini italiani su cento crescono vicino a fabbriche inqui-nanti. E quando ci sono i servizi, spesso le famiglie sono troppo povere per o�rire ai loro �gli le opportunità più basilari. Nell’ul-timo anno, quasi il 20 per cento di loro non è mai stato al cinema, e più del 25 per cento non pratica nessuno sport, anche perché la crisi ha costretto le scuole a tagliare i pro-grammi sportivi. Più del 33 per cento dei ragazzi italiani dai 6 ai 17 anni non ha mai usato internet e quasi il 36 per cento non ha mai usato un computer. Ma la cosa più gra-ve è che il 39,5 per cento non ha mai letto un libro.

Save the children, e altre ong, hanno av-viato una serie di iniziative di base nelle città più povere. In alcuni casi, come a Bari, o�rono assistenza gratuita ai bambini per permettere alle madri di cercare un lavoro. Altri programmi mirano alla costruzione di parchi giochi nei quartieri dove i ragazzi che non vanno a scuola possano incontrarsi e socializzare, per sviluppare le capacità linguistiche e aprirsi a nuove idee. In Italia si moltiplicano le iniziative per insegnare ai genitori come nutrire correttamente i bam-bini anche con risorse limitate.

Save the children ha chiesto ai genitori di scrivere un messaggio sul futuro dei loro figli da postare sul sito della campagna. Uno dei più commoventi recita: “I bambini sono le creature più pure che esistono… hanno diritto di vivere in pace e, soprattut-to, noi abbiamo il diritto di fare l’impossibi-le per realizzare i loro sogni”. Purtroppo, in alcune zone d’Italia, sopravvivere all’infan-zia è diventato l’ostacolo più di�cile da su-perare. bt

Da sapereSpesa per la protezione sociale di famiglie e minori, percentuale del pilFonte: Save the children

1. Danimarca

2. Lussemburgo

3. Irlanda

4. Finlandia

5. Svezia

18. Italia

19. Grecia

20. Lettonia

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 31

L’Italia vive una gravissima crisi economica, politica e sociale. Una situazione che non attira maggiore attenzione solo per-

ché all’interno dell’Unione europea ci sono altri paesi in condizioni peggiori. Quel che è certo è che da una decina d’anni l’Italia combina una diminuzione del pil con una crescita bassissima, mentre i cittadini non credono più ai politici. Nel frattempo la for-za lavoro, con un tasso di disoccupazione che secondo l’Unione europea arriverà al 12 per cento nel 2014, cerca delle alternative per sopravvivere. Alcuni lavoratori italiani si sono uniti alla lotta per l’autogestione delle fabbriche, come è già successo in Gre-cia, in Spagna e negli Stati Uniti, sulla base dell’esperienza argentina delle fabbriche

recuperate. Il caso più importante è quello dello stabilimento della Ma�ow, a Trezza-no sul Naviglio, vicino a Milano, la città simbolo dell’industria italiana.

La vicenda è simile a quella di tante altre aziende che hanno subìto una cura di tagli sulla base delle ricette neoliberiste. La sto-ria di questa fabbrica, che produceva com-ponenti per grandi case automobilistiche, è cominciata nel 1973. Dopo diversi passaggi di proprietà iniziati nel 1999 e in seguito alla crisi che ha colpito anche uno dei principali clienti, la Bmw, il numero dei dipendenti è sceso da mille a 330. Nel 2009 il tribunale di Milano ha dichiarato l’impresa insolvente e i lavoratori hanno reagito occupando la fab-brica. Nel 2010 la ditta è passata nelle mani del gruppo polacco Boryszew, che si era im-pegnato ad acquistare a condizione che il numero di dipendenti fosse ridotto a ottan-ta. Il gruppo polacco non ha mai pagato gli stipendi dovuti ai dipendenti e nel dicem-bre del 2012 la fabbrica ha chiuso de�nitiva-mente i battenti.

Il gruppo Occupy Ma�ow, nato nel 2009 quando i lavoratori si sono resi conto che la strategia imprenditoriale stava portando

Fabbriche occupate per resistere alla crisi

A Trezzano sul Naviglio un gruppo di ex dipendenti della Ma�ow ha creato una cooperativa per riconvertire i vecchi stabilimenti. Seguendo l’esempio dei lavoratori argentini

Esteban Magnani e Marco Semenzin, Página 12, Argentina

alla riduzione e alla chiusura delle attività, ha proposto a tutti i dipendenti di creare una cooperativa. Con il sostegno della Con-federazione unitaria di base (Cub), dell’ex senatore di Rifondazione comunista Luigi Malabarba e di alcuni statali, nel marzo del 2013 dieci lavoratori hanno creato la coope-rativa Ri-Ma�ow, un progetto di riciclaggio industriale all’interno della stessa fabbrica. Il loro obiettivo è riavviare l’attività produt-tiva e sostituirla con un’altra di maggiore utilità sociale, soprattutto di riciclaggio e riuso di materiali elettronici. Cercano an-che di usare gli spazi per lavorare con picco-li agricoltori biologici locali che potranno usare la fabbrica come mercato per i loro prodotti. Il movimento nato nella fabbrica potrebbe anche servire a di�ondere questo modello nella zona.

Una rete internazionaleIn questo momento la cooperativa, a cui hanno già aderito diciassette lavoratori, sta cercando il capitale necessario per la ricon-versione. I soldi potrebbero arrivare dal ri-ciclaggio delle rimanenze della vecchia fabbrica. La cooperativa ha ottenuto dall’at-tuale proprietario, la banca UniCredit, il permesso di usare gli spazi della fabbrica. I lavoratori si considerano parte di Rivolta il Debito, un movimento che si oppone all’idea che il debito pubblico creato dagli speculatori e dai banchieri ricada sulle spal-le dei lavoratori. Maria Rosa, una delle lavo-ratrici della cooperativa, spiega: “Il padrone se n’è andato, ha cacciato tutti, rubando il marchio della fabbrica e gli ordini della Bmw ottenuti grazie alla nostra professio-nalità. Per noi riappropriazione significa riprenderci gli impianti abbandonati. Li consideriamo nostri perché abbiamo sem-pre lavorato qui e devono esserci assegnati come risarcimento sociale”.

Internet ha contribuito a questa nuova modalità di lotta sociale, perché ha dato vi-sibilità a notizie che di solito non arrivano sui giornali. Questo storie sono diventate fonte di ispirazione per altre persone. Do-natella, una donna che vive dei sussidi di disoccupazione, a�erma: “Ci siamo ispirati all’esperienza delle imprese recuperate in Argentina, in Spagna e in Grecia, ma anche alla storia delle società di mutuo soccorso in Italia”. È un piccolo caso in termini quan-titativi, ma molto importante dal punto di vista simbolico, perché stimola un dibattito che le società europee non sembravano es-sere in grado di riprendere. fr

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Trezzano sul Naviglio, Milano. Gli stabilimenti della Ma�ow, 16 maggio 2013

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Le opinioni

32 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

L’immagine è importante. Questa pri-mavera, l’agenzia brasiliana Star mo-dels ha lanciato una campagna per mostrare alle ragazze quanto è orribile l’anoressia. Dopo la morte di due fa-mose modelle sudamericane per ano-

ressia, si potrebbe considerare quest’iniziativa un mo-do per ripulire il proprio marchio e farsi un po’ di pubbli-cità. Troppo cinico? Non direi: di recente si è per�no scoperto che alcune agenzie reclutavano le modelle in una clinica svedese per disordini alimentari.

Intanto la nuova campagna pubblicitaria della Dove usa ritratti basati sulle descrizioni degli altri per dimo-strare alle donne che si sottovalutano. La Dove appar-tiene all’Unilever, una società miliarda-ria che non si fa scrupoli nell’usare in modo sessista e fascista il corpo in altre pubblicità. Fabbrica anche una linea di prodotti per dimagrire rapidamente e vende una sorta di candeggina alle don-ne di colore per diventare “più bianche” bruciandosi la pelle. Le industrie della moda, della bellezza e dei cosmetici non hanno interesse a migliorare l’immagine delle donne. Giocare sulle loro insicurez-ze per vendere prodotti è un vecchio truc-co, ma nella pubblicità c’è una nuova tendenza più cinica che da un lato propone stereotipi irraggiungibili e dall’altro o�re rimedi tranquillizzanti. Noi non siamo come tutti gli altri, sussurrano questi spot. Pensiamo che tu sia carina così come sei. Ora compra la nostra crema e sorridi. Il messaggio è comun-que che per essere felici le donne devono sentirsi “bel-le”, e ovviamente “essere” belle aiuta.

Parliamoci chiaro: noi donne non so�riamo di di-sordini alimentari, non ci facciamo del male da sole e non abbiamo problemi con la nostra immagine perché siamo stupide. La bellezza e l’uso fascista del corpo non sono solo nella nostra testa, in�uiscono sulla nostra vi-ta, a qualsiasi età, qualunque sia il nostro aspetto, e non solo quando apriamo una rivista patinata. La nostra so-cietà ama parlare di bellezza e di peso corporeo. Quello a cui non si accenna mai è l’importanza che si attribui-sce all’aspetto �sico per tenere le donne di tutte le età e di tutte le classi sociali al loro posto. Per un uomo met-tersi un vestito decente e farsi la barba basta per dar prova di “essersi impegnato”. Le donne invece devono so�rire e perdere tempo e denaro per tagliarsi, decolo-rarsi e tingersi i capelli, depilarsi, strapparsi le sopracci-glia, morire di fame, andare in palestra e scegliere vesti-ti che trasmettono il messaggio giusto senza farle sem-brare manichini da vetrina. I disturbi alimentari come

l’anoressia e la bulimia non sono solo malattie mentali gravi ma sono l’ultima battaglia di una guerra che le donne e le ragazze combattono per quasi tutta la vita. Le industrie della moda, delle diete e della bellezza in-gigantiscono pregiudizi sociali già esistenti istigando le donne a morire di fame, a sprecare tempo, energie e soldi nel disperato tentativo di somigliare a uno stereo-tipo di bellezza che ogni anno diventa più angusto.

Alcuni studi hanno dimostrato che, a tutti i livelli, le donne che pesano di meno sono pagate di più per lo stesso lavoro e hanno maggiori probabilità di fare car-riera. In politica, negli a�ari e nelle arti, gli uomini al potere sono liberi di ingrassare e di essere sciatti ma, se mirano a un posto di prestigio, le donne sono giudicate

per il loro aspetto, e di solito o siamo trop-po brutte o troppo carine per avere qual-cosa da dire. La bellezza è sempre stata una questione di classe, soldi, potere e privilegi. Alle ragazze viene insegnato che essere magre e carine è l’unico modo sicuro per fare strada nella vita, anche se evidentemente non è così.

È difficile sentirsi a proprio agio in questa cultura tossica della bellezza. Fin-ché “grassa” sarà la cosa peggiore che si potrà dire di una donna, chiunque di noi avrà il coraggio di dire la verità su quello

che sta succedendo sarà de�nita grassa, che lo sia o me-no. Il concetto di “grasso” è soggettivo e sociale, ed è l’o�esa che viene più spesso rivolta a una donna che cerchi di farsi valere, �sicamente o politicamente. An-che la ragazza più magra e più bella sarà de�nita brutti-na se quello che esce dalla sua bocca minaccia i privile-gi maschili, ecco perché tutte le femministe sono eti-chettate come “brutte e grasse”. Questa cultura prefe-risce sempre le donne che occupano meno spazio pos-sibile.

Più che combattere per il diritto di ogni donna a sen-tirsi bella, mi piacerebbe veder tornare un femminismo che dice alle donne e alle ragazze che va bene anche non essere carine e beneducate. Che forse le donne in-signi�canti, grasse, vecchie, diversamente abili o che se ne in�schiano del proprio aspetto perché sono troppo impegnate a salvare il mondo o a sistemare il cassetto dei calzini hanno diritto a occupare lo stesso spazio di chiunque altro. Penso che, se vogliamo prenderci cura della prossima generazione di ragazze, dovremmo ras-sicurarle dicendogli che il carattere è più importante della bellezza e lo sarà sempre e che, anche se non sono snelle e graziose, sono comunque degne di rispetto. Tutti gli uomini hanno questo diritto e sarebbe ora che cominciassimo a rivendicarlo anche noi. bt

La bellezza non conta

Laurie Penny

LAURIE PENNY

è una giornalista britannica. È columnist del settimanale New Statesman e collabora con il Guardian.

Più che combattere per il diritto di ogni donna a sentirsi bella, mi piacerebbe veder tornare un femminismo che dice alle donne e alle ragazze che va bene anche non essere carine e beneducate

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Le opinioni

34 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Le cose vanno male, dicono in molti, con-siderando i licenziamenti e il peggiora-mento delle condizioni di lavoro. Il gior-nalismo però non è mai stato così impor-tante. In una società dove il potere è poco trasparente e i cittadini hanno perso �-

ducia nelle istituzioni, l’accesso alle informazioni e a una rigorosa interpretazione dei fatti è una condizione fondamentale per poter assumere il controllo delle no-stre vite. Se con giornalismo intendiamo la ricerca, l’analisi e la distribuzione delle informazioni, non pos-siamo parlare di crisi del giornalismo, ma di una sua trasformazione. A essere in crisi è il modello d’impresa dei mezzi di comunicazione, ormai obsoleto. Soprat-tutto quello della carta stampata, che non sa come a�rontare la concorrenza di internet, se non facendo pagare l’accesso ai contenuti online, un metodo che non funziona perché spinge migliaia di lettori verso altri canali d’informazione. Oggi quasi tutti i giornali sono insostenibili da un punto di vista �nanziario e sopravvi-vono grazie a sussidi pubblici o all’aiuto di grandi gruppi che li usano come piattaforma di lan-cio per strategie multimediali di business. La tv regge meglio, anche se è in fase di transizione, in attesa che scompaia la generazione che ha passato una vita a guar-darla.

È vero, restano alcuni canali pagati soprattutto dai contribuenti, come la Bbc. Per questo la difesa della tv pubblica diventa fondamentale per la democrazia dell’informazione. Lo sviluppo di internet sulle piatta-forme mobili obbliga la tv ad adattarsi, da un punto di vista tecnologico e imprenditoriale, all’era dell’autoco-municazione di massa che ha ormai sostituito la comu-nicazione di massa, il feudo della tv generalista. La principale fonte di guadagno della tv è la pubblicità, che sta investendo sempre di più su internet, dove riesce a raggiungere un maggior numero di persone a minor costo. La pubblicità ha faticato ad adattarsi a un mezzo di comunicazione interattivo, ma le nuove strategie stanno funzionando e rendendo la rete redditizia.

Il giornalismo, però, è ben più della somma dell’in-dustria dei mezzi di comunicazione. Il giornalismo è un bene comune e deve essere considerato come tale. È quello che consente alla società di essere una società che comunica e non solo un insieme di individui poten-zialmente autistici. In questo senso, il giornalismo oggi è più vivo che mai. In rete, l’informazione è prodotta, interpretata e distribuita su vastissima scala e in diversi formati. Il citizen journalism che permette a ciascuno di

creare un suo canale (un blog o una semplice presenza in rete) non minaccia, ma integra il giornalismo profes-sionale. A patto che, come fanno la Bbc o il Guardian, questa valanga di informazioni sia organizzata, �ltrata e interpretata con professionalità. Anche perché, visto che nell’era di internet è impossibile nascondere le in-formazioni, la censura interna dei mezzi di comunica-zione è molto più di�cile, e l’indipendenza del profes-sionista ne esce ra�orzata.

In un recente studio in collaborazione con Bregtje van der Haak, ex direttrice della tv pubblica olandese,

e con il premio Pulitzer Michael Parks, abbiamo scritto come i giornalisti oggi abbiano bisogno della collaborazione di specialisti e di accedere alle più varie fonti di informazione che nascono co-stantemente su internet e sui database digitali. Così è nato un giornalismo in re-te, in cui è tutta la rete a produrre e a di-stribuire le informazioni, anche grazie alla collaborazione di diversi specialisti, e per il quale veri�care l’informazione diventa fondamentale. Questa evoluzio-ne non sminuisce la professione del gior-

nalista, anzi: qualcuno deve riunire e interpretare tutte le informazioni in tempo reale. Questo qualcuno è un professionista in grado di farlo con indipendenza di giudizio, che non equivale alla neutralità, ma al rigore e alla trasparenza sulla prospettiva da cui è data un’infor-mazione. Al giornalismo professionale, in un mondo travolto dalle informazioni, restano la credibilità e la qualità dell’analisi. Solo se il giornalismo non risponde-rà a questi due criteri potremo parlare di una sua crisi.

Oggi siamo ormai in grado di rendere automatico il lavoro di routine del giornalista, quello che consiste nel raccogliere le informazioni, organizzarle, scriverle e di�onderle. L’esperto di intelligenza arti�ciale Kris Hammond, a Chicago, ha creato un’impresa, Narrative Science, in cui dei robot possono scrivere articoli senza l’intervento umano, soprattutto sulla �nanza o lo sport. Ci mancava solo questo, potremmo dire. Io però non sono d’accordo. Se la routine può essere automatizzata e le informazioni arrivano da canali diversi, diventano fondamentali la qualità dell’analisi e la garanzia di pro-fessionalità. Per questo licenziando i giornalisti le aziende uccidono la gallina dalle uova d’oro. Se i mezzi di comunicazione non sapranno dare alla gente ciò che non è in grado di fare da sola, le informazioni saranno semplicemente autogestite in modo collaborativo dai cittadini. Il giornalismo non è morto, sta rinascendo. A meno che non lo uccidano i grandi gruppi di comunica-zione. fr

Il giornalismo rinasce

Manuel Castells

MANUEL

CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Reti di indignazione e

speranza (Università Bocconi editore 2012).

Se per giornalismo intendiamo il saper trovare, analizzare e distribuire delle informazioni, non possiamo parlare oggi di crisi del giornalismo, ma di una sua trasformazione

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Il grande gioco In copertina

Nessuno cammina per le strade di Doha. Sui suoi larghi viali circola un tri-pudio di automobili, tra cui una Rolls-Royce co-lor salmone che ho visto

passare varie volte. Gli unici che si vedono per strada sono gli operai edili che, con la testa coperta da un pezzo di sto�a, costrui-scono strade e palazzi sotto il sole cocente. Le passeggiate si fanno nei centri commer-ciali, come il City Center, dove i turisti co-me me possono incontrare le normali fami-glie qatariote. Gli uomini vestiti di bianco, le donne di nero, i bambini con abiti �rmati – una lenta passeggiata tra i negozi dei mar-chi più prestigiosi. Mentre mi so�ermo a guardare le persone che pattinano sul ghiaccio nella hall del centro commerciale, un uomo mi sorride. Gli chiedo perché nes-suno cammina per strada. Il suo sorriso di-venta ironico: “Che bisogno c’è di cammi-nare se puoi guidare?”.

Gli abitanti del Qatar possono permet-tersi di guidare. Il reddito pro capite è sti-mato in 103mila dollari e, se si aggiungono tutti i vantaggi riservati alle circa 250mila persone con la cittadinanza qatariota, sale a 400mila dollari. Spiccioli, se si considera che il valore delle riserve di gas naturale del Qatar aumenta man mano che il mondo dell’industria cerca di passare ai carburanti alternativi. I proventi del gas naturale am-montano a trenta miliardi di dollari all’anno e il tasso di crescita del Qatar si attesta in-torno al 20 per cento. A di�erenza di Dubai,

il modernismo desertico di Doha si basa più sui gasdotti che sulla speculazione edilizia. Tra il Museo di arte islamica (progettato dall’architetto sinoamericano Ieoh Ming Pei) e l’hotel Four seasons, il vecchio lungo-mare tiene a distanza i palazzi in vetro e ac-ciaio. Ma, poco lontano, le futuristiche torri dell’azienda QatarGas dominano lo skyline di Omar al Mukhtar street (ribattezzata nel 2011 in onore dell’eroe libico per il ruolo che il Qatar ha avuto nella rivolta in Libia). Que-sta è una civiltà costruita sul gas.

Le rendite del gas hanno permesso all’emiro Hamad bin Khalifa al Thani di comprare, nel marzo del 2013, sei isole gre-che per 8,5 milioni di euro. I venditori le pro-ponevano come il luogo ideale per aprire un resort di lusso. L’emiro, invece, con le sue tre mogli e i suoi 24 �gli (con relative fami-glie e domestici) vuole usarle come luogo di villeggiatura privato. I claustrofobici codici sociali del golfo Persico spingono i reali a cercare il divertimento altrove (a Monaco o a Londra). Nessuno può biasimarli se vo-gliono rilassarsi. Tuttavia sarebbe meglio se potessero permetterselo non solo tutti i cittadini dell’emirato ma, soprattutto, an-che quelli che lavorano per loro.

I qatarioti ricorrono a vari tipi di lavoro a contratto per avere la loro vita agiata. A pro-teggerli ci sono i diecimila soldati statuni-tensi di stanza nella base aerea Al Udeid, la più grande struttura degli Stati Uniti nella regione. A meno che non si voglia guidare per un’ora nel deserto, questi soldati riman-gono invisibili mentre garantiscono al Qa-

Vijay Prashad, Frontline, India Foto di Isabelle Eshraghi

Dal calcio spagnolo alle armi per i ribelli siriani, il Qatar investe in tutto il mondo le enormi quantità di denaro che derivano dalle riserve di gas naturale e dallo sfruttamento della manodopera a basso prezzo dei lavoratori migranti. Ma �n dove vuole spingersi l’emirato?

tar una difesa permanente più e�cace delle Forze scudo della penisola (le truppe del Consiglio di cooperazione del golfo) o dello stesso esercito del Qatar, formato di recen-te. L’Iran dista soltanto 480 chilometri.

Quando ero a Doha ho noleggiato uno degli onnipresenti taxi blu e ho chiesto

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gioco del Qatar

all’autista di percorrere la strada che porta verso la base statunitense. Ma non ci siamo allontanati molto. Il tassista ha deciso di portarmi all’Omani suq, vicino al mercato all’ingrosso. Il mio tassista era del Bangla-desh (altri vengono dall’Egitto, dall’India e dalle Filippine). Mentre ci allontanavamo

dalle strade più battute di Doha, mi ha rac-contato la sua storia, che somiglia a quella di tanti altri. A Dhaka aveva �rmato un con-tratto in cambio di un certo salario, ma al suo arrivo in Qatar ha scoperto che non era più valido. Così ha dovuto �rmarne un altro per metà della paga e ha dovuto consegnare

i suoi documenti al capo (la prima moglie dell’emiro). Gli ho chiesto di parlarmi degli altri lavoratori, muratori e domestici. Mi ha confermato quello che avevo già sentito da un autista egiziano, e da un autista e un ope-raio indiani: le procedure del reclutamento all’estero sono sempre le stesse. “Non vedo

Doha, novembre 2012

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In copertina

l’ora che il mio contratto �nisca”, mi ha con-fessato. Cerca di risparmiare tutto quello che guadagna, destina una cifra modesta alle spese quotidiane e un po’ di soldi li manda alla famiglia per le necessità più strette usando i servizi di trasferimento del-le rimesse che applicano tassi da usurai. Il resto �nisce in un deposito bancario di cui si preoccupa moltissimo: “Che tipo di impre-sa dovrei avviare? Un negozio o un servizio di taxi?”.

Lavoratori in trappolaSecondo Human rights watch (Hrw), in Qa-tar più di un milione di lavoratori migranti è intrappolato nel sistema della kafala (spon-sorizzazione). Nel Rapporto di Hrw del 2013 si legge che la kafala “vincola la residenza legale di un lavoratore migrante al suo dato-re di lavoro o ‘sponsor’. Gli stranieri non possono cambiare lavoro senza il consenso del loro garante, se non in casi eccezionali e con il permesso del ministero dell’interno. Se un lavoratore lascia il suo sponsor, per esempio se subisce abusi, quest’ultimo può denunciarlo per ‘diserzione’, condannan-dolo al carcere o alla deportazione. Per uscire dal Qatar, i migranti devono ottenere un visto d’uscita dal loro sponsor ma, come denunciano alcuni lavoratori, a volte gli vie-ne negato. A quel punto i migranti non han-no modo di sporgere denuncia o ottenere giustizia. Inoltre, le leggi sul lavoro non si applicano ai collaboratori domestici, in gran parte donne, a cui sono negati diritti di base come il limite all’orario di lavoro e il giorno libero settimanale”.

Con il taxi siamo passati vicino Barwa al Baraha, un’imponente città in costruzione che dovrebbe ospitare i lavoratori di Doha. Il mio tassista non prevede di trasferirsi lì in tempi brevi. Non è chiaro a quali lavoratori lo stato concederà il permesso di residenza. Come molte altre cose in Qatar, la di�cile condizione di vita degli immigrati è eviden-te e viene sfruttata a proprio favore nella sorprendente strategia di promozione dell’emirato. L’astuta Sheikha Mozah bint Nasser al Missned, seconda moglie dell’emiro e principale ideatrice del “mar-chio” Qatar, ha creato la Qatar foundation on combating human tra�cking e nel 2002 l’emiro ha inaugurato la commissione na-zionale per i diritti umani. Con una sempli-ce �rma il sovrano potrebbe mettere fuori legge il sistema della kafala, ma sarebbe troppo faticoso. Meglio mantenere intatte le condizioni che permettono ai qatarioti di condurre una vita lussuosa e creare piutto-sto delle docili organizzazioni non governa-tive, che si limitino a lanciare rimproveri nel

caso di un incidente troppo grave e a con-vincere gli hotel a organizzare serate di gala a favore dei migranti – cioè per gli stessi ca-merieri e addetti alle pulizie che lavorano in quegli eventi.

La tv Al Jazeera è naturalmente una par-te importante del marchio Qatar. E non so-no solo i suoi detrattori a denunciare il con-trollo delle autorità qatariote sull’emitten-te. Alcuni giornalisti che ci lavorano parlano di episodi di censura. Non si potevano criti-care i ribelli libici né ora quelli siriani, e non si può parlare delle condizioni dei lavorato-ri migranti. Nel settembre del 2011 il rispet-tato direttore di Al Jazeera, Wadah Khanfar, si è dimesso dopo aver contribuito a costrui-re la reputazione del canale. Khanfar era stato l’arte�ce del posizionamento del ca-nale a favore della nuova leadership libica e, in particolare, dell’ex primo ministro del governo di transizione Mahmud Jibril. Il palazzo tuttavia voleva assumere il pieno

controllo del canale e Khanfar è stato sosti-tuito con Ahmed bin Jassim al Thani, un ex dirigente della QatarGas senza esperienza giornalistica.

Mentre mi trovavo a Doha, il primo mi-nistro (dal 2007) e ministro degli esteri (dal 1992) Hamad bin Jassim al Thani ha detto di essere deluso dalla reticenza occidentale ad adottare il modello dell’intervento libico in Siria. Lui vuole armare i ribelli. Per que-sto il Qatar ha espulso il personale diploma-tico siriano e allacciato pieni rapporti con l’opposizione. Nel quartiere di Qutai�ya, non lontano dall’ambasciata libica, sorge la nuova ambasciata siriana. All’ingresso non ci sono controlli di sicurezza. Entro senza problemi e chiedo di vedere Nizar al Hara-ki, l’ambasciatore per la Coalizione nazio-nale siriana delle forze rivoluzionarie e di opposizione, o un suo portavoce. L’uomo alla reception, Mohammed, mi passa una fotocopia con un numero di telefono e un indirizzo email, e mi chiede di telefonare a Omar Adlabi, un poeta, che si è fatto una buona reputazione quando stava a Beirut.

I ribelli siriani non si preoccupano della contraddizione di ricevere sostegno da un regime autoritario (che alla �ne del 2012 ha mandato in carcere il poeta Mohammad ibn al Dheeb al Ajami per aver criticato l’emiro). Vogliono la loro rivoluzione, a pre-scindere da dove provengano gli aiuti. Na-turalmente il Qatar ha i suoi interessi. Ha �nanziato i Fratelli musulmani in tutto il Nordafrica e in Siria. La Fratellanza è il vei-colo preferito dell’emirato e per i Fratelli musulmani l’unica esigenza democratica è poter svolgere un ruolo politico nei paesi

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Da sapere Gli investimenti qatarioti nel mondo

MadagascarTerre coltivabili Australia

Terre coltivabili,Allevamenti

KenyaTerre coltivabili

CambogiaTerre coltivabili

UcrainaTerre coltivabili Turchia

Infrastruttureportuali

CinaTerre coltivabili,Comunicazioni,Finanza,

RussiaMiniere

SingaporeAlberghi

SudanTerre coltivabili

Egitto* QATAR

*Il Qatar sostieneeconomicamente i governirivoluzionari di Egittoe Tunisia

Tunisia*

SudafricaTerre coltivabili

BrasileZucchero,Terre coltivabili

FranciaSport, lusso, alberghi,immobiliare, energia

GermaniaAutomobili

GreciaEnergia, �nanza

ItaliaLusso, alberghi

Paesi BassiEnergia

PortogalloEnergia

Regno UnitoImmobiliare,lusso, �nanza,grandi magazzini

SpagnaEnergia, sport,immobiliare

SveziaImmobiliare

SvizzeraAlberghi, energia,�nanza, sport

ArgentinaTerre coltivabili

AlgeriaFertilizzanti

L’economia del Qatar è ancora strettamente dipendente dal gas naturale, di cui il paese detiene le maggiori riserve a livello mondiale dopo Russia e Iran (dati Opec 2012). Per diversi�care le sue attività Doha ha creato nel 2005 la Qatar investment authority, un fondo di investimento da 115 miliardi di dollari che ha interessi in tutto il mondo.

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Da sapere

Popolazione totale

1,7 milioni

Cittadini225mila

Fonte: Human rights watch

Il Qatar ha 1,7 milioni di abitanti, tra cui 1,2

milioni di lavoratori migranti e migliaia di apolidi. Per ottenere la cittadinanza bisogna aver risieduto nel paese per 25 anni.

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dove sono presenti. Il Qatar ha cercato di essere un mediatore neutrale in una lunga serie di con�itti regionali (Yemen, Darfur, Palestina), ma dopo la guerra in Libia ha cominciato a presentarsi come parte di un nuovo ordine regionale. Oggi Doha è diven-tata una stazione di posta per ribelli, un po’ come la Londra dell’ottocento, quando Karl Marx e la sua banda di “canaglie” europee si trasferirono nella capitale imperiale, do-ve furono lasciati in pace a patto di non in-tralciare la monarchia e la politica estera britannica.

Khaled Meshal, il leader dell’organizza-zione islamica palestinese Hamas, ha la-sciato il suo bunker forti�cato a Damasco per una villa immersa nel verde alla perife-ria di Doha. Per�no i taliban hanno rappre-sentanti in città, anche se non possono farlo sapere (in un negozio afgano mi hanno rac-contato che i taliban vorrebbero vedere scritto sulla loro targa “Repubblica islamica dell’Afghanistan”, cosa che il Qatar, dietro pressione degli Stati Uniti, non può conce-dere). Hamas si destreggia con astuzia tra la Siria (di cui critica il regime) e l’Iran (che è tra i suoi principali sostenitori), un equili-brismo che non è riuscito né a Hezbollah né al Qatar. L’emiro non può permettersi di es-sere troppo aggressivo con l’Iran, non solo per la sua vicinanza, ma anche perché i due pae si condividono uno dei più vasti giaci-menti di gas naturale del mondo. Un diplo-matico qatariota mi ha detto che non tutti i suoi colleghi sono soddisfatti della linea adottata sulla questione siriana. Nuoce ai siriani, ma anche ai rapporti tra il Qatar e l’Iran.

Secondo il giornalista Paul McGeough, autore del libro Kill Khalid, Meshal si allena tutti i giorni nella palestra della villa di Ha-mas, vestito con una tuta blu dell’Adidas e scarpe abbinate. Meshal marcia a passo svelto sul tapis-roulant mentre discute del-la mancata svolta nei rapporti con Israele. “Sono abituato a camminare perché sono un contadino di Silwad”, ha rivelato a Mc-Geough, parlando del villaggio in Cisgior-dania da cui la sua famiglia fu scacciata nel 1967. Come la maggior parte dei qatarioti, il leader palestinese passeggia al chiuso. All’esterno ci vanno solo i lavoratori mi-granti, persone le cui vite vengono facil-mente sacri�cate in incidenti sul lavoro o in guerre spietate. gim

Mano tesaai ribelli siriani

Roula Khalaf e Abigail Fielding-Smith, Financial Times, Regno Unito

Doha gioca un ruolo importante in Siria, dove �nanzia l’opposizione politica e alcune milizie. Un’inchiesta del Financial Times

A breve distanza dai grat-tacieli della baia occi-dentale di Doha sorge una villa moderna su cui sventola la bandiera a tre stelle della rivoluzione

siriana. È la nuova ambasciata della Siria in Qatar e non rappresenta il regime di Bashar al Assad, ma i suoi oppositori. È una sede diplomatica unica nel suo genere ed è stata inaugurata due mesi fa da un ministro qata-riota dopo una serrata azione di lobby con cui Doha ha convinto i paesi della Lega ara-ba a cedere il seggio siriano all’opposizione. I diplomatici che ci lavorano non hanno un governo o un apparato burocratico al quale fare riferimento per o�rire dei servizi ai si-riani all’estero. Non possono nemmeno rinnovare un passaporto. “Forse tra poco”, mugugna un giovane diplomatico �ducio-so. Ma il Qatar non è un paese che si lasci ostacolare da futili dettagli.

L’inaugurazione dell’ambasciata è un gesto teatrale con cui il piccolo e ricchissi-mo emirato esprime la sua posizione nella crisi siriana. Nessun paese può vantare più credito del Qatar nel sostenere i ribelli si-riani. Che si tratti di inviare armi o denaro, di mettere in atto pressioni o manovre di-plomatiche, Doha è sempre stata in prima �la, riversando prontamente la sua ricchez-za negli sforzi per far cadere Assad. Tutta-via, mentre la rivolta più sanguinosa del mondo arabo prosegue per il suo terzo an-no, il Qatar si trova invischiato in un con�it-to complesso e frammentato. La sua capa-cità di in�uenzarne il risultato sembra più ridotta e il paese sta diventando un capro espiatorio di alto pro�lo per entrambe le

parti in con�itto. Tra i numerosi ma fram-mentati oppositori del regime siriano, il piccolo stato del golfo Persico suscita rea-zioni ambigue, spesso ostili. Nelle zone della Siria sotto il controllo dei ribelli, pochi sembrano rendersi conto delle enormi somme di denaro inviate dal Qatar. A se-conda delle fonti, le stime variano da uno a tre miliardi di dollari. E tra i siriani si fa lar-go l’impressione che Doha usi le sue risorse �nanziarie soprattutto per sviluppare una rete di alleati tra i ribelli, preparandosi così a esercitare una forte influenza nell’era successiva alla caduta di Assad.

Khalid al Attiyah, viceministro per gli a�ari esteri del Qatar nonché uomo di pun-ta sulla Siria, liquida queste critiche come voci di poco conto: “Siamo uno stato, siamo maturi. Se ci fossimo preoccupati di quello che dicono gli altri, oggi non saremmo qui e il Qatar non sarebbe così ricco”. Il ruolo del Qatar in Siria, però, sembra eccezional-mente importante per un paese che non ha l’esperienza diplomatica e lo status conso-lidato della vicina Arabia Saudita, che agi-sce con più discrezione.

In un certo senso il fatto che il Qatar sia così esposto ri�ette la riluttanza dell’occi-dente a intervenire in Siria. Ma per Doha la Siria è anche l’apice di una politica estera opportunista, che ha visto l’emirato pre-sentarsi come paladino delle rivolte arabe in Nordafrica e come amico di chi poi è ri-sultato vincitore: i partiti islamici.

Gli Al Thani, la famiglia al potere in Qa-tar, non hanno a�nità ideologiche o reli-giose con organizzazioni islamiche come i Fratelli musulmani in Egitto o il partito En-nahda in Tunisia. Semplicemente non si preoccupano troppo di quale religione pro-fessino gli amici che possono tornare utili. La maggior parte dei paesi del golfo Persico è ostile alle tendenze islamiste in atto nel mondo arabo, ma è una questione di poco conto per uno stato come il Qatar, che ama fare il bastian contrario. Allo stesso modo gli Al Thani non sembrano particolarmente

L’AUTORE

Vijay Prashad è uno storico e giornalista indiano che vive e insegna negli Stati Uniti. In Italia ha pubblicato Storia del terzo mondo (Rubbettino 2009).

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imbarazzati dalle contraddizioni di un regi-me autoritario che fa il tifo per i rivoluzio-nari. “In Qatar si dice che se vedi uno tsu-nami dirigersi verso di te, devi cavalcarlo e non lasciare che ti travolga”, commenta un diplomatico occidentale.

Proprio questo tipo di dinamismo e di propensione al rischio ha permesso a Doha di agire come una potenza regionale, men-tre �no a pochi anni fa era una nullità in campo diplomatico. Ma lo stallo militare in Siria ha anche messo in evidenza che alla fine l’imprudenza e l’impotenza politica possono minare gli obiettivi del Qatar. “I qatarioti hanno allargato troppo il loro rag-gio d’azione. Il loro sistema si fonda su un pugno di uomini al vertice e una burocrazia quasi inesistente”, commenta un altro di-plomatico. Nel caso della Siria questi uomi-ni sono stati l’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, suo �glio e principe ereditario, Ta-mim bin Hamad al Thani, il primo ministro Hamad bin Jassim al Thani, e il vicemini-stro Attiyah.

Soci in a�ariL’emiro Hamad, 61 anni, al potere dal 1995, è stato protagonista di uno spettacolare dietrofront sulla via di Damasco. Fino a po-chi anni fa Bashar al Assad e sua moglie Asma erano spesso suoi ospiti a Doha. Il Qatar aveva grossi investimenti in Siria, tra cui una holding congiunta da cinque mi-liardi di dollari creata nel 2008 per svilup-pare di tutto, dalle centrali elettriche agli alberghi. L’emiro aveva inoltre sostenuto la riabilitazione internazionale di Assad all’epoca del crescente ostracismo imposto dagli Stati Uniti, dall’Europa e dai paesi arabi. Nel 2010 Hamad, che vantava un’amicizia personale con il presidente francese Nicolas Sarkozy, ha giocato un ruolo importante nella ripresa dei rapporti diplomatici tra la Siria e la Francia. All’epo-ca, Damasco faceva parte di un’alleanza – con l’Iran e il Libano, dominato dall’orga-nizzazione sciita Hezbollah – che sembrava in ascesa, e il Qatar, con il pragmatismo e l’opportunismo che lo contraddistinguono, intravedeva la possibilità di cavalcare quest’onda.

All’inizio delle rivolte in Siria, nel marzo del 2011, il Qatar, così come la Turchia, ha reagito con cautela. Al Jazeera, la tv satelli-tare con sede a Doha, è stata accusata di aver minimizzato le prime proteste. Dietro le quinte, sia l’emiro sia il principe Tamim hanno sconsigliato ad Assad di usare la for-za contro i manifestanti. Ma quando, nell’aprile di quell’anno, il primo ministro Hamad bin Jassim è andato in visita da As-

sad gli è stato chiaro che il dittatore siriano aveva in mente di “uccidere la gente”.

L’emiro del Qatar non ha scoperto le sue carte �no all’agosto del 2011, quando anche l’Arabia Saudita si è decisa a rompere il si-lenzio sulla Siria. Nel corso di quella prima, sanguinosissima estate, tra le autorità qata-riote si era ra�orzata la convinzione che in Siria fosse scoppiata una vera rivoluzione. Applicando il modello seguito nelle altre rivolte arabe, il Qatar ha avuto l’istinto di scommettere sull’opposizione.

I leader di Doha sono stati incoraggiati dall’esito della rivolta in Libia, dove il Qatar aveva assunto un ruolo di primo piano nell’intervento militare guidato dalla Nato. Pur sapendo che la caduta di Assad sarebbe stata più complicata di quella di Muammar Ghedda�, i qatarioti si aspettavano che pri-ma o poi l’occidente sarebbe intervenuto a �anco dell’opposizione siriana. “Non vole-vamo essere noi a prendere l’iniziativa. Ab-biamo chiesto a molti paesi di farlo, assicu-rando che li avremmo sostenuti. Invece ci siamo trovati al posto di guida”, si è lamentato il primo ministro Hamad bin Jassim. An-che nel mondo arabo il Qatar ha riscontrato una resistenza più forte rispetto alla Libia. “Prima di dirci de-lusi dall’atteggiamento occidentale, do-vremmo chiederci cosa abbiamo fatto noi in quanto nazione araba. Perché la Siria è prima di tutto una questione araba”, ha di-chiarato Attiyah.

Prima delle rivolte arabe il Qatar era ri-uscito a ritagliarsi un ruolo da mediatore, in grado di parlare con tutti, in un Medio Oriente segnato da profonde divisioni. Ospitava la più grande base aerea militare statunitense nella regione e, allo stesso tempo, manteneva rapporti cordiali con l’Iran. Aveva contatti con Israele e contem-poraneamente o�riva sostegno al gruppo palestinese Hamas e al libanese Hezbollah. Riguardo alla questione siriana, il Qatar è

stato uno dei pochi paesi arabi a fare la voce grossa, spingendo per una linea più aggres-siva. “In Siria, il Qatar è stato un protagoni-sta attivo”, dice un diplomatico occidenta-le. Dopo aver fatto di tutto per diventare la Norvegia del golfo Persico voleva diventare anche “il Regno Unito e la Francia del Gol-fo. Ma non puoi essere entrambe le cose”.

Ahfad al Rasul suscita l’invidia delle al-tre milizie ribelli presenti in Siria. È una formazione nuova, nata dall’unione di vari gruppi combattenti, spesso messa in rela-zione ai soldi del Qatar. Ahfad al Rasul è una delle poche coalizioni combattenti in Siria che può essere considerata “e�cace”, sostiene Khaled, un esponente del gruppo, ben vestito e armato di computer portatile, che abbiamo incontrato nel sud della Tur-chia.

O�rire sostegno ai ribelli siriani è stato l’inevitabile passo successivo per Doha. All’inizio del 2012, mentre le proteste paci-�che lasciavano il posto alle armi, il Qatar è

andato alla ricerca di armi legge-re: le comprava in Libia e in Euro-pa orientale e le spediva in Tur-chia, dove i servizi di sicurezza le trasportavano oltre il con�ne. Se-condo persone informate su que-

ste spedizioni, all’inizio il Qatar si è rivolto ai servizi segreti turchi per identi�care i de-stinatari delle armi ma poi, quando anche l’Arabia Saudita ha cominciato a partecipa-re alle operazioni, si è a�dato a mediatori libanesi. L’International peace research institute di Stoccolma, che registra gli spo-stamenti di armi, parla di almeno settanta voli cargo militari tra il Qatar e la Turchia dall’aprile del 2012 al marzo del 2013.

Secondo Elizabeth O’Bagy, analista dell’Institute for the study of war negli Sta-ti Uniti, i qatarioti si sono rivolti anche a esponenti della Fratellanza musulmana in esilio per individuare le fazioni ribelli da sostenere. È attraverso questo canale, spie-ga O’Bagy, che hanno stabilito un collega-mento con le brigate Farouq, una delle più importanti in Siria. Contemporaneamente, secondo fonti dell’opposizione, il Qatar ha inviato le sue forze speciali alla ricerca di gruppi ribelli.

È di�cile, però, individuare le brigate finanziate solo dal Qatar. Si ritiene, per esempio, che Ahfad al Rasul riceva fondi anche dall’Arabia Saudita. Allo stesso tem-po la natura casuale e limitata dei trasferi-menti di armi fa in modo che gli stessi de-stinatari non siano consapevoli del fatto di ricevere aiuti da Doha. “I gruppi ricevono fondi dal Qatar e dall’Arabia Saudita, e a volte ingannano i loro sostenitori”, com-

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menta O’Bagy. Se il Qatar, come a�ermano i suoi avversari, sta cercando di costruire un esercito per procura in Siria per tutelare i suoi interessi nella regione, lo sta facendo in un ambiente che non favorisce né la leal-tà né la coesione. Con così tante fonti di supporto esterno e nessuna struttura orga-nizzativa stabile, i gruppi ribelli siriani oscillano da un’alleanza all’altra e cambia-no casacca di continuo per intercettare la maggior quantità di aiuti possibile.

Il Fronte al nusra

Nonostante le relazioni tra Riyadh e Doha siano state a lungo segnate dal sospetto re-ciproco, per molti versi i due paesi hanno lavorato gomito a gomito sulla questione siriana. Tuttavia i due paesi hanno posizio-ni nettamente divergenti sui Fratelli mu-sulmani e questo li ha portati a perseguire obiettivi diversi sul campo di battaglia si-riano, con conseguenze drammatiche per un’opposizione alla disperata ricerca di unità. I sauditi preferiscono sostenere le fazioni di orientamento laico e i sala�ti che sposano l’islam wahabita praticato in Ara-bia Saudita, piuttosto che la Fratellanza musulmana, un gruppo meglio organizza-to, che rappresenta una minaccia più forte dal punto di vista politico.

Il viceministro Khalid al Attiyah nega che ci siano tensioni con l’Arabia Saudita, sostenendo che la collaborazione tra i due paesi è più forte di quanto si pensi. Tutta-via, secondo fonti vicine alle forze ribelli e molti analisti, dal settembre del 2012 la ri-valità tra i due paesi si è accentuata al punto che qatarioti e sauditi avrebbero creato al-leanze e strutture militari separate. In se-guito alle rimostranze dei leader dell’oppo-sizione e dei funzionari occidentali, i due stati hanno accettato di uni�care le struttu-re sotto un comando supremo militare gui-dato dal generale Selim Idriss, che gode del sostegno dell’occidente. Tuttavia né Qatar né Arabia Saudita avrebbero mantenuto la promessa di ra�orzare il comando supre-mo militare, continuando a operare separa-tamente.

Alla �ne del 2012 in Siria è emerso un nuovo fattore a complicare i rapporti del Qatar con l’occidente: il gruppo estremista islamico Fronte al nusra, che guadagnava terreno nel nord del paese. A dicembre gli Stati Uniti, allarmati, hanno incluso il Fron-te al nusra nella lista dei gruppi terroristi.

Preoccupati che il Qatar fosse troppo tollerante con i gruppi islamici radicali, i governi occidentali hanno chiesto garanzie a�nché le armi non �nissero nelle mani di

formazioni jihadiste. “Ai qatarioti non im-porta a chi vanno gli aiuti, l’importante è rovesciare Bashar”, dichiara un ex funzio-nario statunitense, secondo cui l’obiettivo di Washington era diventato “impedire al Qatar di muoversi liberamente”. Gli Stati Uniti hanno così istituito un “tavolo consul-tativo”: sono state create due basi “operati-ve” incaricate di sorvegliare i rifornimenti di armi, una in Turchia, l’altra in Giordania. Alle operazioni partecipano rappresentan-ti di una decina di paesi. Tuttavia il Qatar continuerebbe a sostenere, direttamente o indirettamente, organizzazioni come il Fronte al nusra (anche se le principali fonti di �nanziamenti sono Al Qaeda in Iraq e donatori privati del Golfo).

Secondo Attiyah, Doha non ha mai so-stenuto il Fronte al nusra: se il movimento è così forte, è colpa dell’inerzia della comu-nità internazionale. “Il Fronte al nusra è emerso a causa del ritardo con cui il consi-glio di sicurezza dell’Onu ha adottato una risoluzione contro Bashar al Assad e il suo regime”, ha dichiarato il primo ministro Hamad bin Jassim.

Comunque, ci sono segnali del fatto che il Qatar controlla sempre meno gli aiuti mi-litari ai ribelli e che il suo ruolo nell’approv-vigionamento di armi è ormai secondario

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rispetto a quello dell’Arabia Saudita. Ri-yadh ha reti più sviluppate per procurarsi le armi e ha collaborato con la Giordania per sostenere gruppi ribelli che non siano lega-ti al Fronte al nusra.

Molti siriani probabilmente non hanno mai sentito parlare di Mustafa Sabbagh, sebbene sia considerato l’uomo più potente dell’opposizione. Proprietario di un’azien-da edile, il segretario generale della Coali-zione nazionale siriana nell’ultimo decen-nio ha vissuto in Arabia Saudita. Non è tipo da grandi discorsi, ma controlla il bilancio della coalizione, al quale il Qatar contribu-isce come principale donatore. Amici e cri-tici lo considerano un uomo intelligente, perfettamente in sintonia con la mentalità a�arista dei qatarioti, ma Sabbagh è accu-sato di usare il suo potere per rafforzare l’in�uenza del Qatar sull’opposizione.

Le tensioni tra Sabbagh e alcuni espo-nenti laici della coalizione sono emerse a marzo, con la di�cile elezione del primo ministro ad interim Ghassan Hitto. Le pro-teste sulla nomina di Hitto sono state così forti da causare tensioni tra il Qatar e l’Ara-bia Saudita e da spingere i sauditi ad assu-mere un ruolo più attivo nell’in�uenzare le politiche dell’opposizione.

Il campo politicoI legami del Qatar con l’opposizione politi-ca siriana fanno discutere ancora di più del suo appoggio ai combattenti ribelli. Gli av-versari del regime di Damasco sono un as-sortimento frammentato di gruppuscoli ma svolgono un ruolo importante nell’orientare le politiche internazionali. È stata la Turchia a favorire, nell’agosto del 2011, la formazione della prima coalizione d’opposizione credibile: il Consiglio nazio-nale siriano (Cns). Il Qatar si è rapidamente accodato contribuendo con i suoi �nanzia-menti. Il Cns però era diviso da lotte inte-stine e la Fratellanza musulmana, l’unico blocco organizzato, ha �nito per esercitare un’in�uenza sempre maggiore. A mano a mano che personaggi di orientamento laico abbandonavano il Cns, i paesi occidentali – Stati Uniti in testa – hanno fatto pressioni sul Qatar perché favorisse la formazione di un’opposizione più ampia. La nascita del nuovo organismo, la Coalizione nazionale siriana, è stata annunciata a Doha nel no-vembre del 2012.

Le critiche al Qatar per il controllo eser-citato sull’opposizione non si sono fermate neanche dopo la nascita della coalizione. La Fratellanza musulmana non ne è più la principale componente. Ma un nuovo bloc-co, formato da più di una decina di persone

coinvolte da Sabbagh in qualità di rappre-sentanti delle comunità locali, ha fatto esplodere nuove dispute perché è conside-rato un alleato del Qatar. Ogni membro di questo blocco dovrebbe rappresentare un consiglio locale delle diverse province della Siria. L’insieme di questi consigli ha ricevu-to otto milioni di dollari dal Qatar subito dopo la formazione della coalizione. Il Qa-tar è stato inoltre il primo – e forse l’unico – paese a �nanziare le casse della coalizione, con almeno venti milioni di dollari. Ha inol-tre consegnato i primi dieci milioni di dol-lari, di un pacchetto complessivo di aiuti da cento milioni.

In un’intervista al Financial Times, Sab-bagh ha de�nito inesatta e ingiusta l’accusa di essere subordinato al Qatar. Dispensan-do lodi per il contributo saudita alla causa siriana, sostiene che i suoi rapporti con il Qatar si limitano al sostegno “logistico” a un forum economico da lui fondato dopo l’inizio della rivolta contro Assad. Il forum ha raccolto fondi da commercianti dentro e fuori la Siria a favore dell’Esercito siriano libero. Sabbagh ribadisce di aver invitato i rappresentanti dei consigli locali a far parte della coalizione nel tentativo, per quanto maldestro, di aumentare la rappresentanza popolare nel principale fronte di opposizio-ne. “È inevitabile che la loro presenza su-sciti polemiche, perché non ci sono state elezioni. È un’esperienza che ha bisogno di maturare”, spiega.

Il viceministro qatariota Attiyah, dal canto suo, dichiara di non intrattenere con Sabbagh rapporti più stretti di quelli che ha con altri esponenti della coalizione. Fa inol-tre notare che la coalizione non è stata cre-ata solo dal Qatar, ma con l’aiuto e la bene-dizione di funzionari arabi e occidentali.

Intanto in Siria il numero dei morti con-tinua a salire e Bashar al Assad è ancora al potere. Gli eventuali risultati del coinvolgi-mento del Qatar nella politica dell’opposi-zione siriana dipenderanno dalla sopravvi-venza della Siria in quanto paese – cosa che non si può dare per scontata. Forse per l’emiro del Qatar potrebbe essere su�cien-te la cacciata di Assad. In teoria, Doha po-trebbe anche uscirne con diverse sfere di in�uenza, rappresentate dai gruppi islami-sti e dalle brigate alleate. All’interno della Siria, però, si è creato molti nemici e non solo tra i sostenitori del regime. Il tessuto sociale del paese è talmente lacerato e il suo popolo sotto attacco è talmente radica-lizzato e sospettoso che i qatarioti potreb-bero ben presto scoprire che non riceveran-no nessun ringraziamento – e che non sono a�atto desiderati. gim

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Stampa araba

Se consideriamo quanto è pro-fonda la cooperazione tra Stati Uniti e Qatar �n dal

1972, anno in cui i due paesi hanno stretto i rapporti diplomatici, sem-bra impossibile che Doha possa agi-re in maniera indipendente rispetto a Washington, scrive il settimanale egiziano Al Ahram. “Il Qatar ac-coglie la base militare del Coman-do centrale degli Stati Uniti e so-stiene le operazioni della Nato e de-gli Stati Uniti nella regione. Parteci-pa inoltre agli sforzi americani per costruire una rete integrata di dife-sa antimissile nel golfo Persico. No-nostante quest’alleanza così stretta, il Qatar sta dando ampio appoggio ai movimenti islamisti. Il matrimo-nio di convenienza tra l’emirato e organizzazioni come i Fratelli mu-sulmani è stato un incubatore per i gruppi estremisti islamici che attac-cano gli Stati Uniti, mentre questi ultimi sono impegnati nella guerra globale contro il terrorismo”. A questo punto è di�cile dire “se i due paesi cospirino insieme o se siano divisi da un con�itto d’inte-ressi”.

La vicinanza agli Stati Uniti e il dinamismo in campo diplomatico suscitano sospetto negli altri paesi arabi, che vedono nel Qatar “il dia-volo in persona”, scrive il sito alge-rino Algérie-focus. Molti proble-mi “sono imputati al piccolo emira-to satanico che manipolerebbe tut-to il mondo con la sua celebre tv, Al Jazeera. Finanziamento del terrori-smo, del jihadismo, dei movimenti islamisti, sostegno ai fanatici: gli argomenti non mancano per ap-pannare l’immagine del Qatar, con-siderato il motore di tutte le rivolte arabe”. Ma, secondo Algérie-focus, anche se “il Qatar svolge un ruolo geopolitico discutibile e quasi peri-coloso”, l’emirato non deve diven-tare il capro espiatorio con cui i go-verni dei paesi arabi cercano di giu-sti�care tutte loro mancanze.

Di�datedell’emirato

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Quale di queste due notizie è vera? 1) Il Qatar lancerà la Dream football league, un torneo di calcio tra le 24 squadre più forti del mon-do, che mettendo in palio

duecento milioni di euro minaccia di oscu-rare la Champions league, a corto di fondi.

La diplomaziadel pallone

John Carlin, El País, Spagna

I Mondiali di calcio del 2022 saranno l’apice di una lunga e articolata operazione di penetrazione del Qatar nel mondo dello sport

2) Il Qatar �nanzia un programma quin-quennale di eccellenza sportiva, a cui han-no partecipato due milioni di giovani di tre diversi continenti. L’obiettivo è assegnare la cittadinanza ai migliori calciatori a�n-ché indossino i colori del Qatar ai Mondia-li che l’emirato ospiterà nell’estate del 2022.

La notizia vera è la seconda. Eppure an-che la prima sembra verosimile, tanto che per�no il rispettabile Times di Londra l’ha pubblicata con titoli a caratteri cubitali. Il giornale ha poi dovuto retti�care e scusarsi con i lettori.

Altra domanda. Cos’hanno in comune Lionel Messi, i Fratelli musulmani egizia-

ni, Tony Blair, i grandi magazzini londinesi Harrods, il marchio automobilistico Por-sche, David Beckham, il Banco Santander, la squadra di calcio del Barcellona, Nicolas Sarkozy e i ribelli islamici in Siria? Rispo-sta: tutti hanno ricevuto, ricevono o riceve-ranno soldi dall’emirato arabo.

Quello che �nora è riuscito a fare il Qa-tar non sembra reale, ma un sogno uscito da una versione moderna delle Mille e una

notte, la cui prevedibile morale è che il de-naro spiana la strada verso potere e allean-ze. Ma se il marchio Qatar è conosciuto in tutto il mondo, è soprattutto grazie alla pe-netrazione nel mondo del calcio. Niente rappresenta meglio l’ingordigia del Qatar del suo programma di eccellenza sportiva, Aspire, ispirato al modello del vivaio del Barcellona.

Dal 2007 Aspire ha messo alla prova oltre due milioni di giovani calciatori (l’equivalente dell’intera popolazione del Qatar) su ottocento campi di calcio in Asia, America Latina e Africa. Quasi un milione di ragazzi ha partecipato a corsi tenuti da seimila volontari e allenatori professioni-sti. I migliori ricevono una borsa di studio per perfezionare le loro doti in un centro di allenamento sportivo in Qatar. Sono quin-dici i paesi coinvolti nel programma Aspi-

Doha, aprile 2012. Uno stadio del programma AspireVU

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re, ognuno dei quali ha una sua rete interna di “osservatori” che fanno una prima scre-matura tra i ragazzi di 13 anni. Lo scopo è selezionare ogni anno cinquanta ragazzi di ogni paese e per un mese farli giocare in squadra e sottoporli a prove individuali. Chi supera questo processo di selezione può proseguire la sua formazione in Qatar o in una scuola �nanziata da Aspire in Se-negal. L’obiettivo �lantropico è coltivare professionisti in grado di competere nei grandi campionati europei. Quello più egoistico è convincere i più bravi a diventa-re cittadini del Qatar e giocare ai Mondiali del 2022.

Aria condizionata allo stadioIl Barcellona ha bene�ciato ampiamente dei milioni del Qatar. In primo luogo per-ché persone vicine alla squadra hanno par-tecipato al programma Aspire. Gli scout del Barcellona possono scegliere i migliori giocatori di Aspire per il vivaio della loro squadra. Inoltre, il rapporto costruito at-traverso questo programma ha contribuito a rendere il Qatar il maggior �nanziatore della squadra catalana. Dal 2011 sulla ma-glia del Barcellona spicca il nome della Qa-tar foundation, presieduta dalla moglie dell’emiro. In cambio della pubblicità, che dalla prossima stagione sarà sostituita con quella della Qatar airways, la squadra rice-ve trenta milioni di euro all’anno. A Barcel-lona è nata una polemica dopo l’annuncio che la squadra avrebbe avuto uno sponsor, dato che �no a quel momento sulla maglia non c’era mai stata pubblicità. Ma è risulta-to chiaro a tutti che se il Barcellona voleva continuare a pagare il miglior giocatore del mondo, Lionel Messi, non c’era altra solu-zione.

In Francia Al Jazeera ha ottenuto i dirit-ti per trasmettere il campionato di calcio francese, portando così la cifra degli inve-stimenti dell’emirato arabo nel calcio fran-cese a più di un miliardo di euro. I quarti di �nale della Champions league del 2013 tra il Barcellona e il Paris Saint-Germain (Psg) sono stati una s�da Qatar contro Qatar. Il Psg nel 2012 è stato comprato dalla Qatar investment authority, il fondo sovrano del paese diretto dal primo ministro Hamad bin Jassim al Thani.

Tutto questo è niente in confronto al gol messo a segno dall’emirato aggiudi-candosi i Mondiali del 2022. La Fifa ha scelto il Qatar, nonostante la presenza di contendenti importanti come gli Stati Uni-ti, grazie all’appoggio di personalità tra cui l’allenatore spagnolo Pep Guardiola e l’ex calciatore francese Zinedine Zidane, ma

soprattutto grazie all’enorme quantità di denaro di cui dispone. Circolano voci che i voti siano stati comprati. Ma se il Qatar è riuscito a far prendere in considerazione la sua candidatura è perché ha assicurato di poter rimediare al principale argomento a suo sfavore, le alte temperature, che a giu-gno possono raggiungere i cinquanta gra-di. Doha installerà impianti di aria condi-zionata in tutti gli stadi, sulle gradinate e in campo. I qatarioti, musulmani devoti, di-cono di sapersi imporre sulle leggi naturali volute da Dio grazie alle più so�sticate tec-nologie terrene. Ma non tutti ne sono con-vinti. Oltre al caldo intenso, all’aria condi-zionata e alle conseguenze sulla salute dei giocatori, si discute anche su come un pae-se di due milioni di abitanti riuscirà a riem-pire gli stadi.

Come diceva Oscar Wilde “c’è al mon-do una sola cosa peggiore del far parlare di

sé: il non far parlare di sé”. E il mondo parla del Qatar. Del calcio e degli altri sport che in Qatar si giocano a livelli di eccellenza, come il tennis, il golf e la pallamano. A Do-ha si è da poco concluso il mondiale di mo-tociclismo. Come spiega un diplomatico europeo residente nell’emirato, lo sport è la miglior vetrina per far conoscere il nome del Qatar nel mondo.

Dietro allo sport c’è molto altro. C’è la volontà di Doha di trasformarsi in una Londra o in una New York a livello econo-mico, o nella Washington mediorientale. Il Qatar ha usato la sua ricchezza per attirare i migliori talenti della tecnologia e dell’ar-chitettura, i migliori ingegneri per costrui-re nuovi grattacieli di lusso nella capitale, concepita dall’emiro e dai suoi abitanti co-me la città del futuro. La potenza economi-ca del Qatar si manifesta anche nelle gran-di città lontane dal deserto. Europei e sta-tunitensi fanno i loro acquisti in locali di proprietà del Qatar: da Harrods, i famosi grandi magazzini di Londra, nella gioielle-ria Ti�any’s di New York, nelle boutique di Valentino, nelle concessionarie Porsche. Tutti noi contempliamo la presenza del Qatar negli antichi edi�ci degli Champs-Élysées di Parigi o nel grattacielo Shard di Londra, l’edi�cio più alto d’Europa, da po-co ultimato grazie al denaro qatariota.

Da dove nasce tutto questo fervore? Qual è l’obiettivo di questa strategia ipe-rattiva? L’obiettivo esplicito riguarda la volontà del Qatar di prepararsi per un futu-ro in cui le risorse naturali che possiede, soprattutto gas, non o�riranno più le attua-li garanzie di autosu�cienza per un paese che importa il 93 per cento degli alimenti e che ottiene acqua potabile con un costosis-simo procedimento di desalinizzazione. È un tentativo di diversi�care l’economia, realizzando importanti investimenti in aziende straniere e stringendo alleanze durature con paesi importanti. “Investia-mo per le generazioni future”, spiega Ah-mad al Sayed, della Qatar Holding.

Le alleanze sono utili se sono durature. “L’emiro ritiene che il Qatar debba pensa-re alla sopravvivenza futura e per questo investe nei grandi centri �nanziari europei e asiatici”, a�erma un diplomatico euro-peo esperto del mondo arabo. “Sopravvi-vere signi�ca anche stringere legami forti con paesi forti, perché il Qatar è un paese piccolo in una regione instabile”. L’emiro punta anche alla modernizzazione. Spinto forse in parte dal complesso del vicino po-vero che il Qatar ha so�erto per tutto il no-vecento, l’emiro vuole governare un paese famoso in tutto il mondo per la sua intra-prendenza nel campo dell’innovazione.

Ed è qui che entrano in gioco i Mondiali di calcio che il Qatar ha voluto per due mo-tivi. Il primo è il desiderio di riconoscimen-to internazionale. Il secondo, il fattore tec-nico: un programma d’investimenti infra-strutturali da oltre cento miliardi di dollari, che prevede un nuovo aeroporto, autostra-de, ponti, una rete ferroviaria, oltre ai grat-tacieli alti e moderni che ogni settimana spuntano dalla sabbia.

Il Qatar oltre alla fortuna economica vanta la fortuna politica di essere un paese stabile, con una maggioranza musulmana omogenea. L’emiro e la sua famiglia sim-patizzano con i protagonisti delle rivolte arabe in Egitto e in Libia, ma in Qatar non si levano voci a favore della democrazia. La ricchezza non accende la ribellione né il pensiero critico, ma piuttosto il desiderio che la situazione rimanga così com’è. O che si consolidi sempre di più. Tutti i citta-dini del Qatar conoscono bene la risposta che i collaboratori dell’emiro danno a chi gli chiede perché spendano soldi in tutto il mondo. “Perché no?”. �

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In copertina

L’AUTORE

John Carlin è un giornalista britannico esperto di sport e politica. In Italia ha pubblicato Ama il

tuo nemico (Sperling & Kupfer 2009).

30milioni di euro è la cifra che la Qatar foundation paga ogni anno dal 2011 come sponsor della squadra di calcio del Barcellona

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Guatemala

Nella comunità di Agua-scalientes, nella valle del Polochic, un luogo paradisiaco a nordovest di Città del Guatemala, i galli razzolano e canta-

no fuori orario con voce roca. Forse sono stati contagiati dalla tristezza delle perso-ne, i contadini cacciati dalle loro terre nel marzo del 2011 dall’azienda Chabil Utzaj (la buona canna da zucchero). Sono maya q’eqchi’. Sono stati costretti ad abbandona-re le terre dove coltivavano mais, fagioli, peperoncini e cardamomo. Per loro l’ex dit-tatore José Efraín Ríos Montt (la cui con-danna per genocidio è stata annullata il 21 maggio) e il potere assoluto che rappresen-ta non sono un passato lontano, ma un pre-sente continuo.

Enrique Quib mostra le cinque pallotto-le raccolte da terra durante lo sgombero di Aguascalientes. La mano è ferma, ma la voce è rotta dall’emozione. Parla di soldati armati, di spintoni, di camion che traspor-tavano persone come se fossero bestiame, di terre rubate e umiliazioni.

A Juancho Chokool manca la gamba de-stra. Ascolta all’ombra di un albero il rac-conto di Quib, appoggiandosi alle stampel-le. Juancho fa il barcaiolo, attraversa il �u-me Polochic su una canoa di legno che fa acqua da tutte le parti. I contadini vogliono mostrare i danni causati dall’azienda Cha-bil Utzaj, oggi di proprietà della multinazio-nale nicaraguense del Grupo Pellas. Rac-contano che sono stati usati macchinari pesanti per sradicare le coltivazioni di mais, fagioli e peperoncini dall’altra parte del �u-me, due settimane prima del raccolto. An-che se la terra appartiene all’azienda, la legge guatemalteca stabilisce che i primi cento metri dalle due sponde di un �ume sono suolo pubblico. Nessuno ha denuncia-to il Grupo Pellas. Non c’è �ducia in un pa-ese senza catasto né tribunali rurali e dove il 97 per cento degli omicidi resta impuni-to.

Il paesaggio è bello, con la Sierra de las Minas sullo sfondo. Lì si trovano le miniere che fanno gola alle industrie minerarie. Al-cune persone attraversano a piedi il �ume in un punto dov’è meno profondo. L’acqua

gli arriva alla vita: tengono le mani in alto come se fossero prigionieri. Candelaria in-dica il terreno smosso: “Cosa guadagnano togliendoci di che vivere? Perché non ci la-sciano in pace?”, chiede.

InvisibiliIl Guatemala si vanta della cultura maya: è un’immagine da esibire, l’impronta digita-le di un paese dove la maggioranza della popolazione è indigena. Sembra un luogo accogliente per il milione e ottocentomila turisti che lo visitano ogni anno e lasciano nelle sue casse circa un miliardo e trecento milioni di dollari. Insieme alle rimesse de-gli emigrati (il 10 per cento del pil) il turi-

La pacerimandata

Ramón Lobo, Jot Down, SpagnaFoto di Miquel Dewever-Plana

Gli accordi del 1996 sono rimasti lettera morta. La questione della terra non è stata risolta e il Guatemala lotta ancora tra impunità e corruzione. Reportage dalla valle del Polochic

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smo è una delle principali fonti di ricchezza nazionali. Gli antichi maya, la loro cultura millenaria e le piramidi di Tikal sono una pubblicità. Invece i maya che vivono vicino al �ume Polochic non appaiono mai sui ca-taloghi delle agenzie di viaggio né sui ma-nifesti pubblicitari all’aeroporto. Sono invi-sibili al turismo.

All’interno di questo Guatemala pieno di bellezza ce n’è un altro duro e violento: trentotto omicidi ogni centomila abitanti (una cifra superata solo dall’Honduras), negozi protetti da sbarre di ferro, commer-cianti impauriti e guardie private più nume-rose dei poliziotti. All’interno di questi due paesi, come in una matrioska russa, se ne

nasconde un terzo: quello che non demor-de, che esercita quotidianamente la violen-za economica contro i più poveri e contro le donne, il Guatemala dei latifondisti e delle multinazionali che si accaparrano la ric-chezza e i terreni fertili (il 70 per cento della terra è in mano al 3 per cento della popola-zione), quello dei militari che sono ancora un potere a sé stante quasi diciassette anni dopo la �rma degli accordi di pace nel 1996. È un Guatemala che minaccia, sequestra e uccide leader contadini, sindacalisti, gior-nalisti e attivisti per i diritti umani.

In�ne, ancora più sotto, c’è un Guate-mala molto ristretto che mantiene vivo un �lo di speranza.

Efraín Ríos Montt è il primo ex dittatore processato nel suo paese per genocidio. Ogni mattina, davanti alla corte suprema di giustizia, si forma una �la colorata di per-sone silenziose. Sono maya ixil: madri, pa-dri, mogli, mariti, sorelle, fratelli e familia-ri delle vittime dei massacri compiuti tra il marzo del 1982 e l’agosto del 1983, che si chiusero con un saldo di più di millesette-cento morti, 1.465 minorenni stuprate e ventinovemila famiglie sfollate.

“Non avremmo mai pensato di poter arrivare così lontano”, a�erma Alejandra Castillo, vicedirettrice del Centro para la acción legal en derechos humanos (Cal-dh), che o�re consulenza alle famiglie del-

Guatemala 2003. Cerimonia funebre per le vittime di cui sono stati ritrovati e identi�cati i resti

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Guatemala

le vittime. “Sono stati dodici anni di lotta. Per la prima volta possiamo ascoltare il racconto delle persone che hanno subìto un genocidio”. Castillo parla con emozio-ne. Sono le otto di mattina e dall’ascensore del terzo piano esce Ríos Montt, a�ancato da un drappello di guardie del corpo. Guar-dandolo sembra che resti poco del militare che nel 1982 minacciava di fucilare i suoi nemici.

Un problema storicoDaniel Pascual è il leader della lotta per la difesa delle terre indigene e il coordinatore generale del comitato di unità contadina. Ha 41 anni, indossa un poncho rosso e in testa ha sempre un cappello di paglia. Il co-mitato ha organizzato una manifestazione nel centro della capitale per ricordare lo sgombero del Polochic, cominciato nel 2002, e protestare contro il presidente Otto Pérez Molina, che non ha mantenuto la promessa di ridare le terre ai contadini. I passanti si fermano, danno un’occhiata e continuano per la loro strada. La legge del silenzio domina ancora in questo paese, dove il 25 per cento dei reati contro i difen-sori dei diritti umani è commesso dalle for-ze di sicurezza dello stato.

Secondo Pascual, il problema della terra in Guatemala è storico: “È cominciato con gli invasori che colonizzarono le terre 520 anni fa e si è aggravato alla �ne dell’otto-cento con la ridistribuzione delle terre ordi-nata dal presidente Ru�no Barrios”, spiega. Quella mossa colpì i privilegi e le proprietà della chiesa, ma non i grandi latifondisti, e non andò a vantaggio dei contadini.

Pascual vuole creare una piattaforma comune di rivendicazioni dei contadini per fare pressione sulle autorità e ottenere dei cambiamenti reali. Nel marzo del 2012 il comitato ha organizzato una marcia conta-dina e indigena di oltre duecento chilome-tri �no a Città del Guatemala. Hanno ade-rito migliaia di persone. Il successo della marcia ha costretto le autorità a prendere in considerazione le richieste del comitato. Sono state organizzate riunioni con il go-verno, con la corte suprema e con la procu-ra generale. Ma quando si sono spenti i ri-�ettori è entrata in gioco la burocrazia e l’impatto della marcia, come quello degli accordi di pace, è sfumato.

Pascual denuncia un clima di impunità permanente e sostiene che la corruzione ha raggiunto anche il Fondo de tierra (Fontier-ra) creato nel 1999. Quello che era nato co-me uno strumento di riconciliazione si è trasformato in un disastro. Le terre sono state comprate per dare un posto dove vive-

re ai contadini sfollati durante la guerra ci-vile. I contadini hanno pagato con un anti-cipo e hanno ottenuto crediti che non sono più in grado di restituire. È stata un’idea della Banca mondiale: l’esperimento è noto come “accesso alla terra via mercato”. Oggi il debito dei contadini ammonta a 331 mi-lioni di quetzales (33 milioni di euro).

I partecipanti alla marcia hanno chiesto al presidente Molina il condono del debito. Il governo ha promesso una soluzione, ma non esiste una trattativa collettiva e si pro-cede caso per caso.

Jacobo Árbenz Guzmán è stato l’unico presidente guatemalteco (1950-1954) che abbia provato a realizzare una vera riforma agraria. Fu rovesciato nel 1954 da un colpo di stato che gli Stati Uni-ti organizzarono dall’Honduras con la scusa del pericolo comuni-sta. Erano in gioco gli interessi della multinazionale statuniten-se United Fruit Company, il cui smisurato potere in America Centrale dette vita all’espressione “repubblica delle banane”. Il suo peso in Guatemala era così forte che l’unica linea ferroviaria del paese fu costru-ita per trasferire i prodotti dell’azienda dal-le piantagioni �no a Puerto Barrios, sull’A- tlantico.

Con Árbenz �nì il decennio democrati-co, l’unica parentesi di libertà in secoli di barbarie. Nel 1960 scoppiò la guerra civile che durò trentasei anni e provocò duecen-tomila morti e più di quarantamila desapa-recidos. Il con�itto lasciò una società spez-zata e malata, che ha perso il senso dell’one-stà. I massacri avvenuti durante la guerra coincidono con le dispute per la terra. Ai latifondisti si unirono i militari, trasformati in un’altra classe predatrice. “Oggi nella

valle del Polochic”, spiega Pascual, “assi-stiamo agli sviluppi di eventi passati. Molte terre rubate nelle stragi sono state vendute ai loro attuali proprietari. Appartenevano ai bisnonni, ai nonni e ai genitori dei conta-dini che oggi le lavorano”.

La proprietà della terra è il grande osta-colo che rischia di rompere la pace �rmata nel 1996. Lo ammette l’alto rappresentante delle Nazioni Unite in Guatemala, l’italia-no Alberto Brunori. Uno dei pilastri di que-gli accordi doveva essere la legge sullo svi-luppo rurale integrale, destinata a promuo-vere “una struttura agraria più democratica e una minore concentrazione della terra”. Finora la legge non è stata approvata e non

si prevede che lo sarà nei prossi-mi mesi. Anche se Brunori non si addentra in un terreno così deli-cato, gli imprenditori la conside-rano un’espropriazione. Il parla-mento, dominato dalle élite eco-

nomiche e militari, blocca qualsiasi tentati-vo di riforma della terra. Nonostante le di�coltà, secondo Brunori “è eccessivo af-fermare che gli accordi di pace sono stati svuotati del loro contenuto”.

Alcuni contadini sognano di tornare alla lotta, ma non ci sono armi né soldi né voglia né entusiasmo. C’è solo una società esau-sta, dove l’estrema destra militare si sente forte e minaccia un colpo di stato se uno dei suoi uomini viene condannato.

Un’altra mentalitàAl con�itto tradizionale per la terra si ag-giunge quello dell’industria mineraria: le multinazionali bussano alla porta del go-verno per accaparrarsi lo sfruttamento del-le ricchezze. Non esiste trasparenza in que-sto tipo di concessioni. L’ex presidente Al-fonso Portillo (2000-2004), del partito di Ríos Montt Frente republicano guatemal-teco, è stato estradato negli Stati Uniti per riciclaggio di denaro sporco. La sua ammi-nistrazione è stata la più corrotta della sto-ria del Guatemala. Il terzo giorno del pro-cesso contro l’ex dittatore Montt decine di lavoratori giornalieri si sono fermati davan-ti all’ingresso secondario del ministero del-le finanze. “Perché è qui, signora?”, ha chiesto un giornalista. “Credo per qualcosa che riguarda Portillo, ma non sono sicura”, ha risposto. “Da dove viene?”. “Dal termi-nal degli autobus”. Per questi “difensori” di Portillo è stata una buona giornata di la-voro: 100 quetzales (10 euro), compresi vitto e trasporto.

Nella tenuta Los Alpes, che si trova tra le montagne nel dipartimento di Alta Vera-paz, si respira preoccupazione: più di due-

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Nel 1954 il presidente Jacobo Árbenz Guzmán, promotore di una riforma agraria, viene spodestato da un golpe militare. Seguono vari regimi dittatoriali.

Nel 1985 il governo torna ai civili, ma i militari condizionano la vita politica del paese e la guerriglia riprende.

Nel 1996 il governo e l’Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca �rmano gli accordi di pace.

Il 10 maggio 2013 l’ex dittatore Efraín Ríos Montt, accusato di genocidio e crimini contro l’umanità, viene condannato a ottant’anni di carcere. Il 20 maggio la corte costituzionale annulla la sentenza per errori di procedura.

Il 24 maggio l’ex presidente Alfonso Portillo (2000-2004) viene estradato negli Stati Uniti per riciclaggio di denaro sporco.

Da sapere

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centocinquanta famiglie stanno per essere cacciate dalle terre dei loro antenati. Non c’è una scuola e manca l’acqua corrente. Il centro medico più vicino è a La Tinta, a quarantacinque minuti in fuoristrada. Sono contadini poveri che sopravvivono a stento coltivando prodotti tradizionali. Marcelino Chen è il più anziano e non ha la pensione.

Clotilde è madre di otto �gli. Anche lei ha uno sguardo che oscilla tra la s�da e la tristezza. Ha appena parlato in un’assem-blea dove ha esposto le novità della lotta e ha invitato i contadini a unirsi al comitato di Pascual per difendere i loro diritti. Dopo aver ascoltato il suo appello alla resistenza gli uomini hanno applaudito, un gesto non da poco in una società profondamente ma-schilista.

I contadini di Los Alpes sostengono di essere proprietari delle terre dove vivono e lavorano, ma non hanno documenti rico-nosciuti dallo stato. Gran parte di loro di-scende dai mozos colonos, lavoratori che restavano legati alla terra anche se questa cambiava proprietario. Alcuni proprietari terrieri pagavano uno stipendio ai lavorato-ri, altri gli permettevano di raccogliere il necessario per sopravvivere in cambio di un lavoro quasi da schiavi. Il salario mini-mo in Guatemala è di 2.421 quetzales al me-

se (242 euro). Secondo Pascual, dovrebbe essere chiamato salario massimo: quasi nessuno arriva a guadagnare tanto. I lavo-ratori che raccolgono la canna da zucchero guadagnano un dollaro a tonnellata. Posso-no lavorare solo i più forti e i più giovani. È un mestiere duro e a trent’anni si è già vec-chi.

Il proprietario di Los Alpes è morto in un incidente aereo. Ha lasciato trentaquattro milioni di dollari di debiti e vari dipendenti orfani. Il “señor Hans” – di origine tedesca, come molti altri proprietari terrieri della zona – non era popolare, perché la sua mor-te è stata festeggiata come una benedizione degli dèi. Il nuovo acquirente di Los Alpes vuole che la proprietà sia “pulita”, senza persone. Nella valle la moda è piantare la palma africana e la canna da zucchero. I proprietari si sono messi a produrre le ma-terie prime vegetali per i biocombustibili.

I contadini chiamano pachamama (ma-dre terra in lingua quechua) la terra che li alimenta e li protegge. È il centro della loro cultura e della loro cosmologia. Anche se sono la metà della popolazione del paese, non hanno nessun peso politico. Il loro ri-�uto delle istituzioni formate da bianchi e meticci e la frammentazione linguistica (ci sono ventidue lingue maya, spesso senza

nulla in comune tra loro) li escludono dal sistema.

“El Salvador è diverso perché lì non c’è una questione indigena”, assicura una fon-te che da quarant’anni è in Centroamerica e vuole restare anonima. “Nel Salvador gli accordi di pace hanno funzionato perché l’antica guerriglia era forte e si è assicurata una voce nelle nuove istituzioni. In Guate-mala la guerriglia ha raggiunto degli accor-di di pace straordinari sulla carta, ma poi è rimasta senza forze”.

“Per gli indigeni il mais non è solo un alimento: è un collegamento con la terra, una questione religiosa”, sostiene Enrique Naveda, fondatore ed editore di Plaza Pú-blica, un’eccezione in un paese dove i mez-zi d’informazione sono controllati dalle famiglie più ricche. Naveda cita l’opera più importante dello scrittore guatemalteco Miguel Ángel Asturias, Uomini di mais: “Li accusano di bloccare il progresso, di oppor-si all’industria mineraria, alle monocolture di zucchero e di palma africana, ma per loro il progresso è che la montagna resti com’è. È un altro tipo di vita, un’altra mentalità”.

La redazione di Jot Down ha cercato di intervistare il ministro dell’agricoltura, El-mer López. Ma l’incontro è stato sempre rimandato e lui non ha risposto alle doman-

Guatemala 2003. Lucía ha perso la �glia adottiva durante una strage nel suo villaggio, ma ha votato per Ríos Montt

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de che la rivista gli ha inviato via email.La comunità di Los Alpes non ha �ducia

nel governo del presidente Molina. Il suo leader, Santiago Rax, sostiene che il gover-no sta cercando di ri�lare ai contadini dei terreni brulli e improduttivi. “Siamo preoc-cupati. Sappiamo cos’è successo in altre zone e come avvengono gli sgomberi”.

Padre Darío Caal è minuto, ha 56 anni e un’energia inesauribile. Da lui dipendono più di settanta comunità, che lui ascolta, aiuta e per le quali celebra la messa. È il re-sponsabile della speranza a Los Alpes. “Nelle comunità più lontane vado solo una o due volte all’anno. La mia area pastorale copre due montagne”, afferma e indica dall’altra parte della valle del Polochic. “La globalizzazione ci ha portato solo il cellula-re e la Coca-Cola”, dice ridendo. Padre Darío ha ricevuto delle lettere minatorie in cui lo accusano di incitare alla violenza.

Nella località La Tinta, al centro della valle, due scritte orientano il visitatore: “Viva Zapata!”, “I politici sono delle mer-de!”. I contadini “senza documenti” dello stato sono espulsi dalle terre che apparte-nevano ai loro antenati. Chi ha i documenti è costretto a vendere le terre con una tratta-tiva senza scappatoie. Un altro guatemalte-co che preferisce restare anonimo mi spie-ga qual è il metodo: “È meglio che tu mi venda il tuo terreno ora o verrò a trattare con la tua vedova”. Le minacce non sono uno scherzo in un paese dove la violenza è un modo di fare politica.

Processo all’esercitoDopo aver attraversato un ponte sul Polo-chic e aver guadato altri due �umi si arriva a La Constanza, una comunità circondata da alberi di hule (caucciù nella lingua náhuatl). La luce del giorno penetra a fatica nel bosco. Gli alberi hanno dei tagli a spira-le che servono a estrarre la linfa. I lavorato-ri vivono in povertà, in capanne prese in a�tto da altri contadini. Pagano 150 quet-zales al mese. Gli uomini vendono legna per dieci quetzales al giorno a La Tinta e a Telemán e le donne lavano i panni nel �u-me per 15 quetzales.

Il racconto di Olga Chu è quello della sua comunità: decine di militari e di poli-ziotti, armi, violenza, insulti, case e vestiti bruciati. Sono stati cacciati senza avere il tempo di portare via niente, solo con i vesti-ti addosso. A un estremo della capanna che serve per le riunioni c’è un tavolo coperto con la bandiera del comitato e una candela accesa. Accanto, una ragazza giovanissima allatta il �glio. Si limita ad ascoltare e a sor-ridere, ma non parla. Ogni famiglia di La

Constanza deve pensare alla propria esi-stenza, al lavoro e a come guadagnare qual-cosa. Non c’è un leader comunitario che stabilisca i compiti di ciascuno. Tutti pro-vengono dalla tenuta Tinajas, dove si colti-va la canna da zucchero. Descrivono un’epoca felice in cui aravano le loro terre e mangiavano quello che producevano. “Non potevamo immaginarci che sarebbe �nita così”, dice Chu.

Mari Paz Gallardo lavora all’Unità di protezione dei difensori dei diritti umani in Guatemala (Udefegua), �nanziata anche dall’Onu, dagli Stati Uniti e dai Paesi Bassi. Ha un lavoro a cottimo in un paese dove il partito di Pérez Molina, un ex generale, considera nemici della patria le organizza-zioni nazionali o internazionali che difen-dono i diritti delle persone. Il linguaggio è lo stesso dell’epoca della guerra civile,

mentre la presentazione ha una patina di democrazia per attirare gli investitori.

In questi giorni l’ong Intermón Oxfam, che ha decenni di esperienza in Guatemala, sta pensando di riattivare un vecchio pro-gramma per la protezione dei leader dei diritti umani, sindacali e contadini. È un segnale di involuzione.

Dov’è avvenuta una violazione di massa dei diritti umani è impossibile avere giusti-zia. Il giudice spagnolo José Ricardo de Prada, magistrato per i crimini di guerra del tribunale della Bosnia Erzegovina a Sarajevo dal 2005 al 2007, sostiene che “è necessario ottenere una quantità su�ciente di giustizia affinché le vittime sentano che ci sia stata una riparazione. Per questo è fondamentale processare i respon-sabili”.

È importante ascoltare la testimonianza delle vittime e dare spazio alle loro voci, come sta succedendo nel processo a Ríos Montt. Secondo Mari Paz Gallardo, serve a “restituire la dignità ai morti, ai vivi e ai lo-ro familiari. Ma in Guatemala non è ancora successo”. Il processo all’ex dittatore “è un processo all’esercito” e a un modo di agire, sostiene l’editore di Plaza Pública. Ma alcu-ne fonti diplomatiche non sono d’accordo: “È pericoloso che resti l’impressione di un processo contro le forze armate”.

Sui mezzi d’informazione guatemalte-

chi è in corso una battaglia parallela al pro-cesso contro l’ex dittatore. L’associazione dei veterani militari del Guatemala �nan-zia pagine di pubblicità per difendere una tesi: non c’è stato un genocidio, sono episo-di del passato già sottoposti ad amnistia e non bisogna tirarli di nuovo in ballo. Anche il presidente Molina, un ex generale che in-viò un’unità militare nel dipartimento del Quiché durante il governo di Montt, si è pronunciato in merito. Tutti proteggono il loro passato e hanno paura di �nire sul ban-co degli imputati.

Li rivogliamo vivi“Ríos Montt non è l’unico importante. Mol-ti altri politici come lui non sono stati pro-cessati”, a�erma l’esperto di Centroameri-ca che vuole restare anonimo. Il libro di Francisco Goldman, El arte del asesinato

político, è il risultato di un’inchiesta sull’omicidio del vescovo Juan José Gerardi avvenuto il 26 aprile 1998, sul comporta-mento della polizia e dei magistrati giunti sulla scena del crimine, più impegnati a eli-minare le prove che a cercarle, e sul proces-so che ne seguì.

La morte del sacerdote avvenne qua-rantott’ore dopo che l’ufficio dei diritti umani dell’arcivescovado, proprio su ini-ziativa di Gerardi, aveva presentato il rap-porto sul recupero della memoria storica del Guatemala, un documento chiave per la denuncia degli abusi dei militari. Nel li-bro si espongono i metodi dei servizi di spionaggio e dello stato maggiore presi-denziale (di cui Pérez Molina diventò capo, con Ramiro de León Carpio). La loro mi-gliore specialità era depistare, confondere

le prove, comprare testimoni, giudici e giornalisti, disorientare l’opinione pubblica perché alla �ne nessuno fosse sicuro di quel-lo che era successo.

Nella chiesa di San Sebastián c’è confusione. Uno dei sacerdoti con la stola al collo, responsabile delle confessio-ni, mi dedica qualche minuto. “L’omicidio di Gerardi sconvolse tutti. Ci manca mol-to”, sussurra a voce bassa per non importu-nare i fedeli che pregano. “Fu un crimine politico. Gerardi era un uomo scomodo per il potere”. Una volontaria di ottantadue an-ni ci accompagna al garage vicino a dove fu ucciso Gerardi. Una foto del vescovo, una corona di �ori di plastica e una croce indi-cano il luogo preciso del crimine. Ai due lati ci sono murales con scene di vita del sa-cerdote e alcuni proclami di una lotta che non è �nita: “No all’industria mineraria”, “Vogliamo solo essere umani”, “Se li sono

70per cento delle terre in Guatemala è in mano

al 3 per cento della popolazione

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presi vivi, li rivogliamo vivi”. Contrapposto al Guatemala ottimista e impegnato a so-stenere la speranza c’è un paese disfattista, convinto che manchi poco per dichiarare il fallimento di uno stato dove comandano le gang e il narcotra�co.

Molti dei crimini più recenti, segnati da decapitazioni e smembramenti dei cadave-ri, portano il timbro degli Zetas, potenti narcotra�canti messicani. A lavorare per loro sono stati anche i sicari provenienti da una delle unità più sanguinarie dell’eserci-to, i Kaibiles, di cui Pérez Molina è stato istruttore e con cui ha avuto rapporti il capi-tano Byron Lima Oliva, condannato nel 2006 a vent’anni di carcere per l’omicidio di Gerardi.

Alla violenza tradizionale si aggiunge quella dei cartelli colombiani o messicani e delle maras. La procuratrice generale dello stato, Claudia Paz y Paz, è diventata il gran-de �agello dei narcotra�canti e dei milita-ri. L’estrema destra la odia e la considera colpevole dei processi contro i militari. Lei gira sempre sotto scorta. Il presidente Mo-lina ha cercato di allontanarla, ma Paz y Paz è protetta dall’Onu e dagli Stati Uniti, che apprezzano il suo lavoro.

Sofía Menchú è giornalista: conosce il caso Byron Lima, e il funzionamento delle

carceri e dei servizi segreti. Poco tempo fa ha pubblicato su El Periódico, il giornale più battagliero insieme a La Hora, una de-nuncia sui privilegi del capitano Lima, che può entrare e uscire di prigione quando vuole oltre a controllare varie attività al suo interno. Ora Menchú è sotto scorta. Come il leader contadino Pascual, la giornalista parla di “involuzione”: “I primi giorni dopo essere stata minacciata ero nervosa e avevo paura. Poi ho pensato che dovevo continua-re a fare il mio lavoro facendo �nta di nien-te”. A volte le minacce sono sottili: una chiamata di notte, un’auto sospetta davanti alla porta di casa e piccoli dettagli che con-tengono un messaggio: sappiamo dove vivi e cosa fai. Altre volte non ci sono giri di pa-role e si passa subito all’azione.

Un posto maledettoLa città di Panzós è un luogo buio e triste. Ci si arriva da Telemán, il paese preferito della Chabil Utzaj, attraverso una strada in costruzione. È grazie ai soldi della coopera-zione giapponese che le strade sterrate, impraticabili nella stagione delle piogge, stanno per essere sostituite da altre di asfal-to. Gli operai lavorano mentre i trattori e le macchine raccolgono canna da zucchero per caricarla sui camion. La nuova strada

non è per gli indigeni né per i paesi vicini, ma per la Chabil Utzaj. I tempi della United Fruit Company non sembrano lontani.

Nel 1978 a Panzós ci fu il primo massa-cro della guerra civile. Decine di contadini furono convocati dal sindaco, Walter Over-dick García, per una riunione. Quando arri-varono l’unico interlocutore era l’esercito, che li costrinse a stringersi nella piazza principale. La donna che guidava i contadi-ni, Adelina Caal Maquín, a�rontò il capo dell’esercito. Morirono più di cento perso-ne: trentaquattro in piazza, il resto in ospe-dale, altri perseguitati sulle montagne o a�ogati nel �ume Polochic.

L’attuale sindaco di Panzós si chiama Jaime León e appartiene al Partido patriota di Pérez Molina. Quando gli chiedo se in Guatemala c’è stato un genocidio, risponde di sì. Ora è impegnato in una battaglia lega-le contro la Chabil Utzaj, a cui cerca di im-porre una tassa municipale per la pianta-gione di canna da zucchero. “Non possia-mo chiederle nessuna tassa perché quella coltivazione non esisteva e non è prevista dalla legge. È necessario che i deputati ap-provino una legge per autorizzarla. Siamo andati �no al parlamento per chiederla, ma il procedimento è bloccato”. Sono le impre-se a bloccare le leggi che considerano con-

Guatemala 2003. Maria Chacaj, fondatrice dell’associazione Conavigua, con i familiari delle vittime della guerra

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trarie ai loro interessi? “Proprio così”, ri-sponde. León dice che gli abitanti della zo-na si lamentano del rumore, perché le mac-chine e i camion lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro. “Abbiamo convinto l’im-presa e tre delle famiglie principali di Pan-zós a costruire una deviazione e un ponte accanto al comune per evitare che i camion attraversino il centro”.

A casa di María Maquín, 48 anni, si re-spira la stessa atmosfera di tristezza che c’è nella piazza di Panzós. È la nipote di Adeli-na, la leader contadina che a�rontò l’eser-cito. Il giorno del massacro, il 29 maggio 1978, accompagnò sua nonna a Panzós. Sporca di sangue, �nse di essere morta in mezzo ai cadaveri mentre i soldati cercava-no i sopravvissuti per ucciderli. Quando ri-uscì a muoversi, scappò attraverso il �ume Polochic verso le montagne. Aveva tredici anni e non sapeva nuotare. Si rifugiò in al-cune case e tra i monti. L’esercito l’ha per-seguitata, perché non voleva testimoni né simboli. María parla lentamente, mastican-do i sentimenti. È una storia che ha ripetuto mille volte, ma si emoziona quando la rac-conta. Dice che il sacerdote di Panzós le ha parlato di un vescovo che voleva la sua te-stimonianza. Era Gerardi, quando la chiesa raccoglieva le prove di quello che era suc-cesso per documentare la memoria storica. Il figlio di María Caal Maquín ascolta il racconto della madre mentre finisce i compiti. In un angolo sono appese le foto dei suoi eroi: Cristiano Ronaldo, Fa-bio Cannavaro, Diego Forlán. Forse sono i simboli di una normalità che non arriva e altri esempi della globalizza-zione che padre Darío, il parroco di Los Al-pes, ha dimenticato di citare. Come le ma-gliette del Barcellona, che invadono tutto il paese.

È passato molto tempo, ma María evita Panzós. È una zona maledetta. La valle del Polochic continua a essere un territorio in-giusto, di contadini espulsi dalle terre e di grandi a�ari. “La buona canna da zucche-ro?”, ironizza qualcuno. “Sarà buona per loro. Per noi non lo è di certo”.

Fredy Peccerelli è il direttore e fondato-re della Fundación de antropología forense de Guatemala. Con la sua équipe di esperti è riuscito a identi�care 6.500 desapareci-dos. “Non lavoriamo per i morti, ma per i vivi”, spiega. “Quando abbiamo annuncia-to alla stampa che avevamo aperto la prima banca nazionale del dna per identi�care gli scomparsi, ho pensato che ci sarebbe stata una �la lunghissima, invece non è venuto nessuno. Poi ci siamo resi conto che è una

decisione di�cile: signi�ca smettere di cer-care la persona scomparsa tra i vivi e co-minciare a cercarla tra i morti”.

“Il mio nome non è XX. Il tuo dna può identi�carlo”, dice la campagna della fon-dazione. XX è un cadavere senza nome, un signor nessuno. L’équipe di Peccerelli è una delle migliori al mondo. Ha lavorato a Viso-ko e a Srebrenica, in Bosnia Erzegovina. Il Guatemala è forse il paese con il più alto numero di desaparecidos in rapporto alla popolazione. “Poco tempo fa è venuto un giornalista del New York Times e mi ha chiesto scusa a nome dei suoi colleghi sta-tunitensi per non essersi interessati al con-flitto in Guatemala. Tutti andavano nel Salvador e in Nicaragua”, dice Peccerelli.

“L’esercito guatemalteco è stato il più violento del Centroamerica”, sostiene la fonte che vive nella regione da più di qua-rant’anni. “Quando gli statunitensi hanno messo un freno agli aiuti, all’epoca di Jim-my Carter, i militari si sono rivolti a Israele

e all’Argentina della dittatura mi-litare. È duro dirlo, ma è un eser-cito brutalmente efficace”. Gli Stati Uniti hanno una parte di re-sponsabilità nei crimini commes-si in Guatemala. Bill Clinton ha

chiesto perdono alle vittime della guerra civile, ma l’atto di contrizione è durato po-co. Il presidente successivo, George W. Bush, è tornato a sbandierare il pericolo co-munista. Peccerelli a�erma che le ossa non sempre parlano e raccontano com’è avve-nuta la morte. “Quelli che uccidevano in questo paese sapevano come fare per non lasciare segni sulle ossa”.

Dignità collettivaIl cimitero della Verbena è una miniera di disgrazie: qui sono sepolte più di tremila persone non ancora identi�cate. Sono mor-ti nel 1981, nel 1982 e nel 1983, gli anni in cui la repressione è stata più violenta. “La cifra è la prima cosa che ha attirato la nostra at-tenzione. Il numero normale di morti in questo cimitero non supera i 180 all’anno. Sono indizi che mettono in guardia sul fatto che ci possano essere dei desaparecidos”, spiega Peccerelli. “Quando riusciamo a identi�care dei resti e li consegniamo alla famiglia è un momento di�cile. Molti fa-

miliari hanno passato la vita a cercare la persona scomparsa e a quel punto non san-no più come andare avanti, cosa fare senza quell’obiettivo e il motivo di tutti quegli an-ni di lotta. Devono imparare a vivere con la certezza che chi amano è morto”.

Alla porta della fondazione è appeso un telo con un testo commovente. È della fa-miglia di Sergio Saúl Linares Morales, il primo identi�cato dall’équipe della fonda-zione. “Grazie per avermi trovato e avermi identi�cato”.

Rebeca Lane è una forza della natura, come Candelaria, la contadina del Polochic che difende la terra, e la procuratrice Clau-dia Paz y Paz. Le armi di Lane sono la voce e il rap. Scrive testi impegnati, di s�da, fem-ministi, un pugno nello stomaco in una so-cietà maschilista e xenofoba che rimuove il passato. Nella canzone Políticamente incor-recta Lane dice che nelle sue vene scorre sangue guerrigliero e rivela di avere una zia scomparsa negli anni ottanta. Il suo ac-count Twitter, RebecaLane66, lancia un’al-tra provocazione: “Così è la mia terra, così è la mia gente. Uccidono duecentomila persone e ne fanno sparire altre quaranta-cinquemila, ma continuano a negare il ge-nocidio”.

Enrique Naveda, di Plaza Pública, met-te in guardia contro una caratteristica tipi-camente guatemalteca: il pessimismo esa-sperato. Ma nonostante la disperazione alimentata da anni di storia cruenta, nel paese c’è chi lotta per andare avanti. Gli ot-timisti sperano che il processo a Ríos Montt sia un’opportunità per mettere in pratica gli accordi di pace del 1996. “Mi hanno inse-gnato ad avere paura e a non parlare. Invece io dico ai miei �gli che non devono avere paura di niente”, a�erma la vicecoordina-trice del comitato di Unità contadina, María Josefa Macz. Restano le minacce, i morti e l’impunità, ma qualcosa sta cam-biando.

Forse è solo una questione di tempo. E di certo non aiutano la crisi economica e la poca attenzione degli organismi interna-zionali e dei mezzi d’informazione. Guar-dare da un’altra parte è un’espressione di complicità nei confronti delle ingiustizie e dei massacri. Informare, educare, dissot-terrare i morti, processare, chiedere perdo-no e non dimenticare è l’unico modo per ritrovare la dignità collettiva. fr

Nonostante la disperazione, nel paese c’è chi lotta per andare avanti

L’AUTORE

Ramón Lobo è un giornalista spagnolo. Dal 1992 al al 2012 ha lavorato per El País. In Italia ha pubblicato Isla África (Nutrimenti 2005).

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interculturalità

cambiamenti clim

atici

i bambini

sovranità alimentare

diritti delle donne

al lavoro

antirazzismo

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Da trentèanni facciamo la differenza. Perché la facciamo insieme.

Questxanno COSPE compie 30 anni. Fin dalla sua nascita, nel 1983, opera nel sud del

mondo, in Italia e in Europa per il dialogo interculturale, lo sviluppo equo e sostenibile,

i diritti umani, la pace e la giustizia tra i popoli. COSPE è oggi impegnato nella realizzazione

di 150 progetti in 30 Paesi del mondo.

Il programma dellxevento per lxanniversario su www.cospe.org

30 anni in 3 giorniFirenze, 6-8 giugno 2013

Robert F. Kennedy Center

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Kirghizistan

Nel �lm Salam, New York!, del regista Ruslan Akun, un giovane kirghiso arri-va nella Grande Mela per frequentare la Co-l u m b i a u n i v e r s i t y.

Quando il suo progetto fallisce, rimane in città cercando di mantenersi come può. Al-la �ne conosce una ragazza kirghisa perfet-tamente integrata e si innamora. Il film, uscito a febbraio, sta avendo un grande suc-cesso in Kirghizistan, forse perché tocca un nervo scoperto tra tanti giovani che sogna-no di cercare fortuna all’estero. Dal 2005 al 2011 quasi 300mila persone hanno lasciato il paese. Le cifre del saldo migratorio (cioè la di�erenza tra chi parte e chi arriva) sono inferiori, ma il Kirghizistan ha comunque il tasso di crescita della popolazione più bas-so tra i paesi della regione. Secondo i ricer-catori, l’emigrazione contribuisce in modo signi�cativo alla stagnazione e sta sottraen-

I nomadidi BishkekDina Tokbaeva, Transitions online, Repubblica Ceca

Medici, insegnanti, giornalisti, manager. Da vent’anni l’emigrazione sta privando il Kirghizistan dei suoi talenti migliori

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Un bar nella città di Uzgen, in Kirghizistan, giugno 2010

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do al paese le sue menti migliori. Ai ritmi attuali, “presto perderemo altri 300mila cittadini”, dice Sergej Masaulov, analista di un istituto di ricerca di Bishkek. “Conside-rate la giovane età e la loro mentalità, si può immaginare che questi immigrati si trasfe-riranno in paesi diversi dalla Russia, �no a oggi la destinazione più popolare”. Esatta-mente quello che ha fatto Ak-Maral Arzy-baeva, che ha lasciato il Kirghizistan nel 2012, subito dopo la laurea all’Università americana dell’Asia centrale. Arzybaeva ha scelto Boston, dove studia management della moda e ha già avviato una piccola azienda di abbigliamento. Racconta di aver scelto gli Stati Uniti perché o�rono maggio-ri opportunità di lavoro. Non sa ancora se tornerà in Kirghizistan, ma punta ad aprire delle boutique nel suo paese oltre che in America. “Nel frattempo continuerò a ven-dere i miei vestiti online e a partecipare a s�late in tutti gli Stati Uniti”, spiega.

In Kirghizistan, intanto, gli e�etti delle numerose ondate di emigrazione si fanno sentire. Il paese non si è mai ripreso dall’eso-do di manager, insegnanti, professori e operai della metà degli anni novanta, spie-ga Pavel Djatlenko, del Polis Asia research. Quegli emigrati erano soprattutto cittadini non di etnia kirghisa, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica si erano ritrovati a far parte di minoranze etniche in una terra or-mai straniera. La perdita di questa élite di lavoratori ha trasformato l’economia del paese, che è tornata a essere essenzialmen-te agricola, spiega Djatlenko. Quell’esodo è stato seguito, nei primi anni 2000, da un’altra partenza in massa di lavoratori, specializzati e non, soprattutto verso la Russia e il Kazakistan. Calcolare il numero esatto di quanti sono partiti non è facile, anche considerato che molti lavorano in nero. Secondo Nurbek Omurov, dell’Orga-nizzazione internazionale per la migrazio-ne, circa il 64 per cento dei 5,5 milioni di abitanti del Kirghizistan riceve ogni anno rimesse dagli emigrati: nei primi nove mesi del 2012 nel paese sono arrivati 1,4 miliardi di dollari.

Stando alle cifre dell’u�cio statistico di Bishkek, da quando il Kirghizistan ha otte-nuto l’indipendenza, nel 1991, è partito circa un milione di persone.

Negli ultimi tempi se ne vanno soprat-tutto persone istruite, poliglotte e giovani. Rappresentano una minoranza prevalente-mente urbana, ma la loro partenza ha con-seguenze gravi. Le industrie faticano a tro-vare dirigenti, nei giornali mancano repor-ter preparati e nelle aree rurali c’è una ter-ribile carenza di medici e insegnanti. Se-

condo le statistiche del ministero della sa-nità, nel 2012 circa 1.200 medici hanno la-sciato il paese. La penuria più grave si regi-stra nelle province di Naryn, che ha bisogno di 146 dottori, e Issyk-Kul, dove ne servono 165, spiega il deputato Talant Omurbekov. Entrambe le province sono a diverse ore di viaggio dalle città più grandi, Bishkek e Osh. Anche nella capitale, tuttavia, manca-no 150 pediatri e 200 medici di pronto soc-corso con specializzazioni diverse.

Secondo Saidulla Nyshanov, deputato del partito socialista Ata Meken, i medici emigrano per fuggire dai miseri stipendi del Kirghizistan, che ammontano in media a settemila som (146 dollari) al mese per un infermiere e diecimila per un medico. Oltre ai magri salari, alla corruzione diffusa e all’instabilità politica (nel 2005 e nel 2010 il Kirghizistan è stato teatro di violente pro-teste di piazza, che hanno portato in en-trambi i casi alle dimissioni del governo), pesano anche le divisioni in clan e il campa-nilismo, che frenano la mobilità sociale e spingono i giovani a fuggire. “La nostra so-cietà sta tornando a essere molto tradizio-nalista, e le divisioni in clan contano sem-pre di più. Ai candidati alle più alte cariche amministrative viene prima chiesto da qua-le parte del paese arrivano e solo dopo se hanno l’esperienza necessaria per svolgere un determinato lavoro”, aggiunge Djatlen-ko. Per chi resta indietro le conseguenze sono prevedibili: “La competizione tra i giovani è diminuita sensibilmente. All’uni-versità vedo sempre più matricole che han-no addirittura problemi a leggere”.

Patrioti a distanza

Maksim Stepanenko ha 22 anni ed è nato nel villaggio di Khaidarkan, nel sud del pa-ese, ma vive e lavora a San Francisco. È uno dei quattro laureati del Massachusetts insti-tute of technology che hanno fondato Locu, un sistema molto diffuso per la gestione online dei menù dei ristoranti. Per il mo-mento vuole continuare a occuparsi di Lo-cu, ma in futuro potrebbe fondare un’altra startup. È felice di essere nella Silicon val-

ley. “Non prevedo di tornare in Kirghizistan nel prossimo futuro, ma voglio contribuire alla crescita del nostro sistema informatico, che si sta sviluppando in fretta”, dice. “I kir-ghisi che vivono all’estero possono avere un impatto positivo sullo sviluppo del paese”.

Roza Otunbaeva è stata presidente del Kirghizistan tra il 2010 e il 2011. Prima d’al-lora aveva ricoperto diversi incarichi diplo-matici all’estero. Per questo nel 2005 le fu impedito di candidarsi al parlamento con il pretesto che non aveva più la cittadinanza kirghisa. Oggi dirige una fondazione che, oltre a occuparsi di istruzione, arte, cultura, donne e giovani, ha tra le sue priorità il raf-forzamento dei legami tra il Kirghizistan e la diaspora. L’esodo di personale specializ-zate non deve creare panico, a�erma: “Se la gente vuole fare esperienze diverse e guadagnare di più, perché impedirglielo? Quando saranno pronti per aiutare il loro paese, torneranno”.

In realtà la diaspora può anche rappre-sentare un’opportunità per il paese, sostie-ne Otunbaeva. Non mancano gli esempi di emigrati che hanno ricevuto un’ottima istruzione all’estero e poi sono tornati e hanno investito le loro competenze nel pa-ese. Tuttavia c’è anche chi pensa che il Kir-ghizistan dovrebbe cercare di trattenere i suoi talenti e di riportare a casa chi è partito. Per riuscirci, si potrebbe collegare meglio il sistema dell’istruzione al mondo del lavoro, propone Sergej Masaulov: “Non basta ga-rantire l’istruzione. Dobbiamo capire di quali specialisti ha bisogno il paese e poi formarli”, spiega. “Se ci servono ingegneri altamente specializzati, perché continuia-mo a sfornare eserciti di avvocati ed econo-misti che poi non trovano lavoro?”. L’anno scorso le facoltà più gettonate sono state quelle di legge, management, �nanza, con-tabilità, medicina, informatica e lingue. Il settore dell’agricoltura – la priorità naziona-le, secondo la ministra dell’istruzione Ka-nat Sadykov – è rimasto a bocca asciutta.

Danijar Derkembaev vive in Germania, dove ripara strumenti di misura industriali, si occupa di alimentazione e dirige l’asso-ciazione Manas, che raccoglie i membri della diaspora kirghisa in Europa. Torna spesso in patria, per tenere lezioni di cucina e per fornire consulenze alle organizzazioni che aiutano gli emigrati. Derkembaev so-stiene che anche la politica ha le sue colpe: ai partiti, infatti, fa comodo rivolgersi agli emigrati come blocco sociale unico, spesso proprio con il tramite di organizzazioni co-me Manas. “Anche per questo il ritorno degli emigrati non è tra le priorità della po-litica”, conclude Derkembaev. gc

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Scienza

Sono seduto alla mia scrivania all’università di Washington e sto cercando di conservare energia. In realtà, non sono io a perderla ma le simulazioni del mio computer. Probabil-

mente però i colleghi in fondo al corridoio pensano che sto sprecando energie: quan-do dico che sto studiando la materia oscu-ra, la gente comincia a studiare me. Non tutti quelli che lavorano qui credono che questa forza esista.

Nelle mie presentazioni sottolineo sem-pre che la materia oscura ci aiuterebbe a risolvere molti misteri del cosmo. Il mio as-so nella manica è il rasoio di Occam: l’idea che un unico postulato possa spiegare tante cose. Poi cito tutto quello che la teoria stan-dard sulla materia oscura non spiega: a quanto pare non ci sono abbastanza galas-sie satellite intorno alla nostra Via Lattea e la forma interna delle piccole galassie è in-coerente. Invoco di nuovo il rasoio di Oc-cam e sostengo che questi problemi si pos-sono risolvere aggiungendo alla materia oscura una debole auto-interazione, un �e-bile scattering (di�usione) in cui le sue par-ticelle entrano in collisione tra loro. A quel punto qualcuno mi chiede se ci credo vera-mente. Bella domanda.

Il mondo che vediamo è un’illusione, anche se permanente. Ci siamo gradual-mente abituati all’idea che in realtà la natu-ra è costituita da campi quantistici incerti, quindi quello che vediamo non è necessa-

riamente quello che è. La materia oscura è un’estensione di questo concetto. Sembra che la maggior parte della materia dell’uni-verso ci sia stata nascosta. Questo mette sia i �sici sia la gente in una situazione di�ci-le. I fisici sono preoccupati di non poter confermare la teoria né individuare chiara-mente l’oggetto della questione, e la gente fa fatica ad accettare un concetto così vago e sfuggente. Questa situazione ricorda in modo inquietante la controversia sull’etere di un secolo fa.

Alla fine dell’ottocento, gli scienziati cominciarono a chiedersi come facevano le onde elettromagnetiche (per esempio la luce) ad attraversare il vuoto. Dato che le onde che ci sono più familiari usano come mezzo l’acqua – è l’acqua che le forma – sembrava ovvio che dovesse esserci un mezzo attraverso il quale passavano anche le onde elettromagnetiche. Gli scienziati ipotizzarono quindi l’esistenza dell’“ete-re”, un campo impercettibile che si riteneva permeasse tutto lo spazio.

Nel 1887, gli scienziati americani Edward Morley e Albert Michelson con-dussero un famoso esperimento per veri�-care l’esistenza dell’etere. Se la luce aveva bisogno di un mezzo per propagarsi, dice-vano, la Terra doveva muoversi attraverso quello stesso mezzo. Perciò costruirono un ingegnoso apparato per veri�care questa ipotesi, costituito da una lastra di pietra che galleggiava sul mercurio liquido, in modo da poter ruotare in ogni direzione, e da un

sistema di specchi. L’idea era quella di con-frontare la lunghezza d’onda dei raggi di luce che viaggiavano in direzioni diverse mentre l’apparato ruotava o mentre la Ter-ra girava intorno al Sole. Quando il nostro pianeta viaggiava lungo la sua orbita in di-rezione opposta a quella del vento d’etere, i raggi di luce avrebbero dovuto incontrare una resistenza e la loro lunghezza d’onda avrebbe dovuto accorciarsi. Sei mesi dopo, la direzione dell’impedenza avrebbe dovu-to invertirsi e la lunghezza d’onda allungar-si. Ma con grande sorpresa di molti, la lun-ghezza d’onda non cambiava, qualunque fosse la direzione in cui viaggiavano i raggi. Non c’era traccia del mezzo che si aspetta-vano di trovare. L’ipotesi dell’etere era sba-gliata.

La metafora di ZwickyMa non tutti i �sici ne esclusero l’esistenza. Il disaccordo sulla questione continuò al-meno �no a quando alcune delle persone che avevano proposto quella teoria non morirono. Lo stesso Morley non credeva ai risultati che aveva ottenuto. Solo in seguito ci si sarebbe resi conto che l’esperimento di Michelson e Morley non solo dimostrava l’assenza dell’etere ma era anche la confer-ma della più radicale teoria della relatività di Albert Einstein.

Materia oscura, energia oscura, denaro oscuro, mercati oscuri, biomassa oscura, lessico oscuro, genoma oscuro: sembra che gli studiosi aggiungano questo aggettivo a

Una forzanel buioAlexander B. Fry, Aeon, Regno Unito

Non potremo mai toccarla, e forse non conosceremo mai la sua vera natura. Potrebbe essere molto comune nel nostro universo, ma anche molto sfuggente. La materia oscura è la grande questione irrisolta della �sica. Eppure sarebbe una soluzione semplice a un problema complicato

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qualsiasi fenomeno importante che non riescono a spiegare del tutto o che sfugge almeno in parte alla percezione diretta. L’oscurità, in altre parole, è metaforica. In origine, tuttavia, era intesa in senso piutto-sto letterale. Negli anni trenta, l’astronomo svizzero Fritz Zwicky osservò un ammasso di galassie legate tra loro dalla gravità che orbitavano l’una intorno all’altra troppo ra-pidamente. Solo la forza gravitazionale di una grande massa invisibile sembrava in grado di spiegare perché non si allontana-vano. Zwicky ipotizzò la presenza di un qualche tipo di materia “oscura” nel senso più banale possibile. Pensava semplice-

mente che ci fosse qualcosa che non riusci-va a vedere. Ma gli astronomi hanno conti-nuato a trovare la �rma di una massa invisi-bile in tutto il cosmo. Per esempio, anche le stelle all’interno delle galassie ruotano troppo rapidamente. Anzi, sembra che la materia oscura sia la forma di materia più comune nel nostro universo.

Ma è anche la più sfuggente. Non pre-senta un’interazione forte con se stessa né con la materia che si trova normalmente nelle stelle, nei pianeti o in noi. La sua pre-senza si deduce solo dai suoi e�etti gravita-zionali, e la gravità, purtroppo, è la più de-bole delle forze fondamentali. Ma è anche

l’unica a lungo raggio, ed è per questo che la materia oscura predomina nell’architettura dell’universo.

Negli ultimi cinquant’anni, abbiamo sviluppato un modello cosmologico stan-dard che descrive abbastanza bene l’uni-verso osservato. All’inizio, un big bang ad altissima temperatura ha provocato la rapi-da espansione dello spazio e ha gettato le basi per le �uttuazioni della densità della materia in tutto l’universo. Nei 13,7 miliardi di anni successivi, quella densità è aumen-tata grazie all’azione instancabile della for-za di gravità, �no a formare l’impalcatura cosmica della materia oscura, che con la

Un’immagine della nebulosa elica, a circa 700 anni luce dalla Terra, catturata dal telescopio Vista

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Scienza

sua forza d’attrazione gravitazionale tiene sospese le galassie che vediamo.

Questo modello è supportato da molti dati, tra cui la radiazione di fondo dell’uni-verso, la distribuzione delle galassie e le collisioni tra ammassi di galassie. Queste osservazioni nascono dalla combinazione di competenze e analisi indipendenti in molti settori dell’astronomia. Tutto sembra confermare un modello cosmologico che prevede la materia oscura. Non è solo una bellissima teoria della quale ci siamo inna-morati, c’è anche il fatto che non esiste un’alternativa coerente che abbia lo stesso valore predittivo. Ma niente di tutto questo spiega cos’è esattamente la materia oscura. È il grande problema irrisolto della �sica.

Perciò la caccia continua. Gli accelera-tori di particelle setacciano dati, i rilevatori aspettano pazientemente sottoterra e i te-lescopi �ssano il cielo. Gli esperimenti de-gli ultimi anni hanno già imposto forti limi-ti alle teorie possibili. A voler essere ottimi-sti, potremo capire la vera natura della materia oscura entro qualche decennio. A voler essere pessimisti, non la capiremo mai.

L’epoca d’oro della cosmologiaSiamo in un’era di scoperte. Esiste una teo-ria ben confermata per tutte le particelle fondamentali che abbiamo già osservato. La stessa teoria prevede l’esistenza di altre particelle che non sono state ancora sco-perte. Qualche decina d’anni fa, i teorici si resero conto che poteva esistere una cosid-detta “weakly interacting massive particle” (o wimp), cioè un’ipotetica particella dotata di massa che interagisce con la materia normale tramite la gravità e la forza nucle-are debole. Questa generica particella avrebbe tutte le caratteristiche per essere de�nita materia oscura, e potrebbe nascon-dersi proprio sotto il nostro naso. Se la ma-teria oscura fosse veramente costituita da wimp, interagirebbe così debolmente con la materia normale che potremmo indivi-duarla solo grazie a speci�ci esperimenti che i �sici stanno appena cominciando a progettare. Il più promettente potrebbe es-sere quello con il Large underground xenon (Lux) del South Dakota, il più grande rive-latore di materia oscura del mondo. L’im-pianto è stato inaugurato a febbraio del 2013 in un’ex miniera d’oro e riesce a rileva-re la presenza delle particelle subatomiche più sfuggenti. Tuttavia, nonostante l’estre-ma sensibilità del Lux, �nora le uniche par-ticelle che sono cadute nella sua trappola sono pezzetti di rumore cosmico, niente di più.

Il successo ottenuto in passato dai para-digmi standard della �sica teorica ci spinge a cercare un’unica generica particella di materia oscura: la materia oscura. Ma qual-cuno potrebbe obiettare che non abbiamo nessun motivo per supporre che ci sia qual-cosa da trovare. Come disse il �sico inglese John Barrow nel 1994: “Non c’è ragione di pensare che l’universo sia stato progettato per noi”. Tenendo presente questo, sembra che le possibili alternative siano le seguen-ti. La materia oscura esiste o non esiste. Se esiste, possiamo rilevarla oppure no. Le os-servazioni che hanno portato gli astronomi a ipotizzarla sono troppo solide per non es-sere prese in considerazione, quindi l’argo-mento principale contro l’esistenza della materia oscura è che non capiamo ancora bene la gravità, e che la gravità forse non si comporta come sosteneva Einstein. Sareb-be un drastico cambiamento nella nostra visione della �sica, che pochi sono disposti ad accettare. D’altra parte, se la materia oscura esiste e non siamo in grado di veder-la, ci troveremmo in una posizione piutto-sto scomoda.

Ma siamo nell’epoca d’oro della cosmo-logia. Negli ultimi vent’anni abbiamo sco-perto tante cose: abbiamo misurato le va-riazioni della radiazione residua del big bang, scoperto che l’espansione dell’uni-verso sta accelerando, intravisto i buchi neri e le esplosioni più luminose dell’uni-verso. Nei prossimi dieci anni probabil-mente osserveremo le stelle più antiche, riusciremo a ricostruire quasi l’intera di-stribuzione della materia, e percepiremo la fusione dei buchi neri grazie alle onde gra-vitazionali. Nonostante tutte queste mera-vigliose prospettive, lo studio della materia oscura rimane particolarmente invitante perché si colloca alla con�uenza tra nuove osservazioni, teoria, tecnologia e (si spera)

nuovi �nanziamenti. Le proposte che sono state avanzate per misurarla rientrano più o meno in tre categorie: la creazione arti�-ciale (in un acceleratore di particelle), il ri-levamento indiretto e il rilevamento diret-to. Quest’ultimo, il tentativo cioè di cattu-rare al volo le wimp, è il più esaltante. Quel-lo con il rilevatore sotterraneo Lux è uno dei primi di una nuova generazione di espe-rimenti ultrasensibili. Conta sul fatto che la wimp interagisca con il nucleo di un norma-le atomo. Questi esperimenti in genere si basano sul ra�reddamento a temperature estremamente basse di un elemento puro come il germanio o lo xenon e sulla scher-matura da particelle estranee. Il problema è che qualche particella riesce comunque a in�ltrarsi. Le interazioni con queste intruse sono attentamente controllate. La riduzio-ne del rumore, la schermatura e un attento rilevamento statistico sono l’unico modo per essere sicuri che certi eventi siano vere interazioni con la materia oscura e non falsi allarmi.

I teorici hanno considerato vari modi in cui questo potrebbe verificarsi con una wimp standard. In e�etti, la prima genera-zione di esperimenti ha già escluso la cosid-detta interazione con scattering del bosone z. Quello che rimane è lo scattering media-to dal bosone di Higgs, che coinvolgerebbe la particella scoperta lo scorso novembre al Cern di Ginevra. Questo signi�cherebbe un’interazione molto debole, ma su�cien-te per essere rilevata dalla nuova genera-zione di esperimenti.

Ancora una volta, fare scienza non si-gni�ca tanto stabilire quello che c’è quanto quello che non c’è, e le numerose rilevazio-ni mancate hanno imposto alcuni limiti abbastanza interessanti alla materia oscu-ra. Come nel caso dell’etere, hanno anche evidenziato alcune anomalie che devono essere chiarite. Usando un rivelatore diver-so dal Lux, gli scienziati che si occupano dell’esperimento italiano Dama (che sta per dark matter) nei laboratori Infn del Gran Sasso sostengono di aver trovato una modulazione annuale nel loro segnale di materia oscura. I loro detrattori mettono per�no in dubbio che abbiano un segnale. Come nel caso dell’etere, ci aspettavamo di vedere questo tipo di variazione annuale, dato che la Terra orbita intorno al Sole, che a volte segue la più grande rotazione galat-tica e a volte va in direzione contraria. I �si-ci del Dama hanno misurato questa modu-lazione annuale. Quelli di altri progetti (Xenon, Cdms, Edelweiss e Zeplin, per esempio) non l’hanno rilevata, ma tutti questi esperimenti non possono essere

Nel bene o nel male, vivere in un universo che è per la maggior parte inaccessibile signi�ca vivere in un mondo di in�nite possibilità

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confrontati direttamente, quindi probabil-mente dovremmo aspettare a giudicare.

La natura può essere crudele. I �sici po-trebbero prendere la non rilevazione come un invito a desistere, ma c’è sempre la stuz-zicante possibilità che serva solo un esperi-mento migliore. O forse la materia oscura si rivelerà un tipo di materia complessa quanto quella normale. Gli esperimenti precedenti hanno imposto limiti piuttosto precisi a quanta complessità ci possiamo aspettare – non c’è la possibilità che esista-no persone fatte di materia oscura e nean-che una chimica della materia oscura – ma potrebbero comunque esisterne diverse varietà. Potremmo scoprire un tipo di par-ticella che spiega solo una minima parte della sua massa complessiva.

Mondo paralleloIn un certo senso, questo è già successo. I neutrini sono misteriosi ma molto comuni (ogni secondo ne passano 60 miliardi attra-verso una zona delle dimensioni del nostro dito mignolo). Non interagiscono quasi mai con la materia normale, e �no al 1998 pen-savamo che non avessero alcuna massa. In realtà, i neutrini costituiscono una piccolis-sima percentuale della massa dell’univer-so, e si comportano come uno strano tipo di

materia oscura. Non sono “la” materia oscura che stiamo cercando, ma non è det-to che ne esista un unico tipo.

Dire che siamo in un’era di scoperte si-gni�ca semplicemente dire che siamo in un’era di profondo interesse per la struttura del cosmo. I �sici sostengono che se riu-scissimo a stabilire che la materia oscura non è fatta di wimp, saremmo già a buon punto. Non sarebbe anche quella una sco-perta? Al tempo stesso, il settore è tutto un fermento di idee e teorie rivali. Alcuni stan-no esplorando la possibilità che la materia oscura abbia delle interazioni, ma che non le vedremo mai. Se così fosse, la loro scala sarebbe così microscopica che non cambie-rebbe la cosmologia. Potrebbe anche avere un intero universo tutto suo: un mondo oscuro. Per i �sici, questa possibilità è al tempo stesso terrificante e affascinante. Potremmo ipotizzare un intricato regno della materia oscura che sfuggirà per sem-pre alla nostra osservazione, salvo che per le interazioni che ha con il nostro universo tramite la gravità. Il mondo oscuro sarebbe una sorta di universo parallelo.

È facile giocare con l’idea di base della materia oscura quando tutte le modi�che che applichi sono molto deboli. Ed è esatta-mente quello che stanno facendo i suoi te-

orici. Ho anche accarezzato l’idea che la materia oscura possa interagire con se stes-sa e ho provato a veri�carlo avviando simu-lazioni delle galassie in un supercomputer. Su vasta scala, dove le predizioni della co-smologia sono molto precise, non succede nulla, ma su scala più piccola, dove la teoria della materia oscura mostra segni di cedi-mento, si risolvono diversi problemi. Le si-mulazioni sono belle da vedere e le loro previsioni sono ragionevoli. Ma ci sono troppi parametri liberi, e quindi i risultati possono sembrare fatti apposta per confer-mare le osservazioni. Per questo evito di esprimere qualsiasi giudizio, e vi consiglio di fare la stessa cosa.

Probabilmente non sapremo mai per certo se la materia oscura interagisce con se stessa. Nel migliore dei casi, possiamo stabilire un limite alla massima forza che queste interazioni possono avere. Perciò, quando mi chiedono se penso che la teoria corretta sia quella dell’autointerazione, di-co di no. A�ermo solo quello che è possibi-le, non quello che è. Un po’ deludente, ve-ro? Alla base della cosmologia dovrebbe esserci qualche verità profonda che possia-mo sperare di comprendere.

Forse un giorno il Lux o un altro progetto troverà quello che stiamo cercando. O for-se, su qualche supercomputer scoprirò una verità nascosta sulla materia oscura. Co-munque, questa scoperta rimarrà lontana da noi, mediata da tutta una serie di fanta-smi nelle macchine. L’universo della mate-ria oscura fa parte del nostro universo, ma non ci sembrerà mai il nostro universo. La natura ci fa uno strano scherzo epistemolo-gico. Tutte le cose che osserviamo hanno un unico tipo di esistenza, ma quelle che non siamo in grado di osservare potrebbero avere un numero in�nito di tipi di esistenza. Una buona teoria dovrebbe avere il giusto grado di complessità. E la materia oscura è la soluzione più semplice a un problema complicato, non una soluzione complicata a un problema semplice. Ma non abbiamo nessuna garanzia che prima o poi ne cono-sceremo la natura. E anche se gli astro�sici la comprenderanno a livello concettuale, non potremo mai toccarla. Rimarrà sempre fuori della nostra portata. Nel bene e nel male, vivere in un universo che è per la maggior parte inaccessibile signi�ca vivere in un mondo di in�nite possibilità. bt

La Ngc 4945, una galassia spirale nella costellazione del Centauro

ESO

L’AUTORE

Alexander B. Fry si sta specializzando in astronomia all’università di Washington a Seattle. È il responsabile del blog The Astronomist.

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Sara Naomi Lewkowicz ha co-nosciuto Maggie e Shane nel settembre del 2012 al festival del mais a Millersp or t , nell’Ohio. Ha visto Shane con una bambina in braccio e

ha chiesto se poteva fargli una foto. Poi ha fatto amicizia con Maggie, la compagna di Shane. C’erano anche i due �gli avuti da Maggie con il marito da cui si era separata. Shane ha raccontato a Lewkowicz della sua dipendenza dalle droghe e degli anni passati in prigione. La fotografa ha così pensato a un progetto sul reinserimento dei detenuti nella società, in particolare la di�coltà di trovare lavoro, e ha cominciato a ritrarre Shane e Maggie nella vita quoti-diana.

Tutto è cambiato due mesi dopo, quan-do Shane ha aggredito Maggie davanti alla fotografa. La coppia aveva cominciato a litigare in un locale e aveva continuato a

casa, dove sono avvenute le violenze. Po-chi minuti dopo è arrivata la polizia, chia-mata da un coinquilino, che ha arrestato Shane. Da quel giorno Lewkowicz ha con-tinuato a seguire Maggie, che sta cercando di ricostruire la sua vita. Poche settimane dopo la donna è partita per l’Alaska dove ha riallacciato i rapporti con il marito Za-ne. L’uomo è un militare tornato da poco dall’Afghanistan.

È in corso al congresso un dibattito sul-la proroga della legge sulla violenza contro le donne, approvata nel 1994, che permet-te alla polizia di arrestare gli aggressori anche se le vittime non collaborano.

Sara Naomi Lewkowicz è una fotografa statunitense. Questo reportage è stato realizzato tra settembre e dicembre del 2012. Negli Stati Uniti ha suscitato un acceso dibattito e molti si sono chiesti se la fotografa sarebbe dovuta intervenire.

Testimone

oculare

Doveva essere un reportage sul reinserimento dopo il carcere, si è trasformato in un racconto sulla violenza domestica. Le foto di Sara Naomi Lewkowicz

Portfolio

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Sopra: Maggie, 19 anni, e Shane, 31, con Memphis, 2, e Kayden, 4. Sopra il titolo: Shane e Memphis. Shane si è fatto tatuare sul collo il nome di Maggie. Qui accanto, da sinistra: Maggie e Shane; i due insieme a Kayden.

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Shane aggredisce Maggie in presenza di Memphis (mentre Kayden dorme)

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Portfolio

Nella foto grande: Shane spinge Maggie contro i fornelli. In seguito l’uomo ha anche messo le mani intorno al collo della sua compagna, quasi a so�ocarla. Qui sopra, dall’alto: Shane durante la lite che ha preceduto l’aggressione; l’uomo viene portato via dalla polizia. Qui accanto, da sinistra: Kayden e Memphis in macchina (Maggie li sta portando a casa di Amy, la sua migliore amica, dove hanno passato la notte dopo l’aggressione); Maggie a casa di Amy la mattina dopo; Memphis all’aeroporto di Columbus in attesa di imbarcarsi con la madre e il fratello per l’Alaska. Il padre di Kayden e Memphis, un militare, vive ad Anchorage.

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Viaggi

Lasciate la piazza all’altezza dell’angolo nordest e seguite Sophienstraße oltrepas-sando la Katholische Ho�irche, l’impo-nente cattedrale cattolica di Dresda.

Svoltate a destra su Schlossplatz , salite i gradini per la Brühlsche terrasse e godete-vi il panorama: le spire dell’Alstadt alle spalle, in basso l’Elba e il Neustadt.

Shopping Nell’Alstadt si trovano diversi negozi interessanti come Deutsche Weine & Mehr su Kleine Brüdergasse 1, specializ-zato in vini. Alcuni dei migliori negozi di Dresda sono nel Neustadt. A Metzer straße, il grande mercato di Neustädter markthalle vende merce di ogni genere, dai �ori ai giocattoli (è chiuso la domenica, ma nei giorni feriali è aperto dalle 8 alle 20, e �no alle 18 il sabato). La boutique di mo-da di Gabriele Häfner, su An der Dreikö-nigstraße 10, testimonia dell’eleganza del quartiere . Anche Dorothea Michalk è sullo stesso genere, e si trova in Obergraben 15. Invece, in Obergraben 8, c’è la galleria d’ar-te Koenitz.

Pranzo di corsa Al numero 36 della stri-scia pedonalizzata di Hauptstraße, nel Neustadt, lo Schwarzmarkt café serve gnocchi con noci e gorgonzola per 8 euro.

Un giro in barca Alle due del pomeriggio, dal molo della Sächsische Dampfschi�ahrt (saechsische-dampfschi�ahrt.de), in Ter-rassenufer 2, nell’Alstad, partono le escur-sioni sull’Elba con il battello a vapore. La gita prevede anche una visita al castello. Risalendo il �ume, dopo una quindicina di chilometri c’è lo schloss Pillnitz, (il castello di Pillnitz) la settecentesca residenza esti-va in stile barocco di molti re della Sasso-nia. La gita dura cinque ore. Aperitivo L’Aussere Neustadt (una parte della città nuova) si lascia alle spalle l’ar-

chitettura barocca per dare spazio alla vita notturna. Il Pinta, su Louisenstraße 49, è uno dei migliori bar della zona, anche per-ché serve cocktail come lo Scorpion (rum, cointreau, succo di limone) a 8,50 euro.

A cena A Dresda non manca la buona cu-cina. Villandry, su Jordanstraße 8 (villan-dry.de) è un ristorante molto di moda che o�re del �letto di persico con �nocchi per 17,50 euro. Altrimenti c’è il Planwirtschaft, su Louisenstraße 20 (planwirtschaft.de), un locale più retrò che o�re lo schnitzel a

Dresda, capitale del län-der della Sassonia, si trova nella parte orien-tale della Germania, a circa cento chilometri dal con�ne con la Re-

pubblica Ceca. Il nucleo storico della città, che risale in gran parte al diciottesimo se-colo, è diviso in due dal �ume Elba. Le im-ponenti chiese e i musei dell’Altstadt (città vecchia) sono sulla riva meridionale, men-tre a nord ci sono le strade eleganti e i nego-zi del Neustadt (la città nuova). Le attrazio-ni principali sono facilmente raggiungibili a piedi, ma chi non ama camminare può contare sull’e�cientissimo trasporto pub-blico.

Primo giorno Si può cominciare la pas-seggiata partendo dai giardini che si trova-no nel cuore dello Zwinger (forti�cazione tra le mura cittadine), il grande complesso architettonico in stile barocco. Il palazzo fu fatto costruire dal monarca sassone Fede-rico Augusto I di Sassonia ed è abbondan-temente decorato. La bellezza di Dresda si deve soprattutto a lui e al suo gusto dello sfarzo. Il palazzo è stato seriamente dan-neggiato nel 1945 durante i bombardamen-ti aerei degli alleati. Uscite a nord su Thea-terplatz. Il teatro dell’opera Semperoper, al numero 2 della piazza, risale al 1841, ma è stato ricostruito dopo la seconda guerra mondiale. Gli orari variano, ma ogni gior-no alle tre del pomeriggio parte una visita guidata in inglese che costa 9 euro (sempe-roper-erleben.de).

Due giornia Dresda

Chris Leadbeater, The Independent, Regno Unito Foto di Gerhard Westrich

La città tedesca o�re gite in battello sul �ume Elba, architettura barocca e musei con opere di artisti come Ra�aello, Tiziano e Rembrandt

Le chiese Kreuzkirche e Frauenkirche raccontano più di qualunque altra cosa la storia della distruzione di Dresda nel 1945

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9,80 euro. Tornando nell’Alstadt, il restau-rant Henricus (restaurant-henricus.de), su Neumarkt 12, serve coscio di coniglio al ra-gù di albicocche a 17,90 euro.

Secondo giorno Due chiese raccontano meglio di qualunque altra cosa la storia del-la distruzione di Dresda nel 1945. All’angolo sudest dell’Almarkt, la vasta Kreuzkirche (kreuzkirche-dresden.de) è sopravvissuta ai bombardamenti. Le foto sul retro della chiesa mostrano questo importante monu-mento del protestantesimo ridotto in cene-re, ma ancora pieno di forza vitale (la messa domenicale comincia alle 9.30; l’orario di apertura per le visite è dalle 10 alle 18 nei giorni feriali, dalle 12 alle 18 il sabato). La chiesa settecentesca di Frauenkirche , inve-ce, è stata rasa al suolo. L’elegante struttura su An der Frauenkirche, al confine della piazza Neumarkt (frauenkirche-dresden.de), è una ricostruzione architettonica com-pletata nel 2005. L’interno è l’incarnazione

Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo dall’Italia (Lufthansa, Airberlin) per Dresda parte da 249 euro a/r. Per raggiungere il centro della città si può prendere l’autobus (linee 77 e 97) o il treno (la linea S2 della S-Bahn) che parte ogni trenta minuti (dalle 4.47 alle 23.47) e in 18 minuti arriva alla stazione di Mitte. Una corsa singola per qualsiasi percorrenza all’interno della rete costa due euro. Un biglietto valido per quattro corse costa cinque euro. Una tageskarte (biglietto giornaliero) valido per la zona 1 (il centro) costa 5,50 euro ( vvo-online.de).

Dormire Lo Swissotel (intern.az/16ejgQ6) è stato inaugurato nel 2012 e si trova nel centro storico di Dresda. Il prezzo di una doppia parte da 108 euro a notte.

Leggere Edgardo Cozarinsky, Ultimo

incontro a Dresda, Guanda 2012, 14,50 euro.La prossima settimana Viaggio a Roma

per visitare il Pantheon. Avete suggerimenti su tari�e, posti dove mangiare, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

della quiete, con una testimonianza antimi-litarista: l’antica croce della guglia recupe-rata dalle macerie nel 1993 praticamente intatta (l’orario di apertura per le visite è dalle 10 alle 18 dal lunedì al sabato e dalle 12. 30 alle 18 la domenica).

Brunch all’aperto Fuori della Kreuzkir-che, al numero 6 di Altmarket, il Café cen-tral serve la colazione all’aperto dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio: la “colazione abbondante” a base di a�ettati, crema di formaggio, pane di segale, frutta fresca, succo d’arancia e ca�è costa 7,30 euro (central-dresden.de).

Pomeriggio culturale Lo Zwinger ospita una serie di musei come la Gemäldegalerie Alte Meister (pinacoteca degli antichi ma-estri) nell’ala Semperbau del palazzo (skd.museum; martedì-sabato dalle 10 alle 18; prezzo 10 euro). All’interno ci sono opere di Ra�aello, Tiziano, Botticelli, Rubens, Van Dyck e Rembrandt. Il Porzellan samm-lung è accessibile dal Glockenspielpavillon (padiglione del carillon). Ospita una colle-

zione di porcellane Meissen prodotte in Sassonia a partire dal 1710 (per gli orari si può consultare il sito della pinacoteca, l’in-gresso costa 6 euro). Dall’altra parte del �ume, a Palaisplatz 11, c’è il Japanisches palais, un altro esempio della vanagloria di Federico Augusto I. Al suo interno c’è il Völkerkundemuseum, con oggetti (incisio-ni della Micronesia e armi indonesiane) di provenienza orientale (voelkerkunde-dre-sden.de; dalle 10 alle 18, dal martedì al sa-bato; prezzo 2,50 euro).

Passeggiata nel parco Il Grosser garten risale al 1676 ed è un intreccio di sentieri ricoperti di foglie. Il Dresdner Parkeisen-bahn (dresdner-parkeisenbahn.de), una specie di ferrovia in miniatura, aggiunge una nota di stravaganza.

Ciliegina sulla torta Si può concludere il viaggio in pieno stile tedesco al Louisen garten, su Louisenstrasse 43 (biergarten-dresden.de). Nel suo giardino si serve la birra Radeberger Pilsner, a partire da 2,50 euro. fas

Dresda, Germania. Il �ume Elba e l’Accademia di belle arti

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Nel retro del ristorante Carnegie Deli di Man-hattan Don King mangia un panino al pastrami staccandone piccoli pez-zi con le dita. Qualcuno

gli ha appena fatto una domanda sui suoi capelli “elettrizzati”, per la prima volta in una lunga giornata piena di interviste alla tv e alla radio. King resta un attimo in silenzio, e nei suoi occhi un po’ opachi passa una luce prudente. Probabilmente la pausa gli serve per scegliere una delle vecchie leggende sull’origine della sua pettinatura. Prende un pezzo di pastrami tra due unghie ben curate e immerge la carne in un lago di mostarda. “I miei capelli sono l’aureola di Dio”, dice masticando il suo boccone. “Sono schizzati su quando sono tornato a casa dal carcere. Una notte mi sono steso a letto accanto a mia moglie, e i capelli hanno cominciato a rizzarsi, uno per uno. Sapevo che era Dio. Voleva dirmi di restare sulla retta via, così un giorno avrebbe potuto portarmi in para-diso con lui”. King sorride, ma non è il sorri-so che tutti conoscono, la sfavillante ma-schera di ottimismo che ha sfoggiato per tutta la settimana. Adesso, al sicuro del Carnegie, si è �nalmente lasciato sopra�a-re dalla stanchezza. “Quando sto bene i ca-

pelli sono perfettamente dritti”, spiega con una punta di rammarico. “Ora che le cose sono complicate si sono un po’ abbassati”.

Ho seguito Don King per due settimane tra Boca Raton, in Florida, e New York, e non l’ho mai visto così vicino ad ammettere di non essere più lo stesso di una volta. Fra tre giorni Tavoris “Thunder” Cloud, l’unico dei suoi pugili che abbia una qualche rile-vanza, salirà sul ring del Barclays Center di Brooklyn per sfidare Bernard Hopkins. Normalmente l’attenzione sarebbe tutta per Hopkins, che a 48 anni prova a diventa-re il più vecchio campione della storia della boxe. Ma la vera attrazione è Don King, con il suo carisma e il suo futuro incerto. Se Cloud perderà contro Hopkins – e soprat-tutto se lo farà in modo noioso – la sua breve carriera di s�dante in incontri di cartello potrebbe interrompersi, e Don King non avrebbe più molto da promuovere. Hopkins, che come molti altri pugili ha lavorato con

Don KingCadutodal trono

Per trent’anni ha dominato il mondo della boxe. Organizzava i migliori incontri e guadagnava milioni di dollari. Oggi, a 81 anni, ha perso quasi tutto il suo potere, e gli resta solo un grande campionario di battute

Jay Caspian Kang, Grantland, Stati Uniti

King prima dell’inevitabile rottura, ha pro-messo che pianterà “l’ultimo chiodo sulla bara di King. Chi avrebbe mai detto che sa-rei stato io a mandarlo in pensione?”.

Don King non è più seduto sul trono del-la boxe, ma la sua poltrona d’onore nella storia di questo sport non può levargliela nessuno. Oggi il modo migliore per godersi un incontro di boxe è mettere su un vecchio �lmato, e questo signi�ca che se volete ve-dere Muhammad Ali, Larry Holmes, Mike Tyson o Julio César Chávez alzare le braccia in segno di trionfo alla �ne di un combatti-mento vi ritroverete davanti anche la �gura imponente di un uomo con i capelli dritti. Nel 1975 Don King era nelle Filippine sul ring del famoso “Thrilla in Manila”, insie-me a un Muhammad Ali più morto che vivo. Quindici anni dopo, con l’aspetto sostan-zialmente immutato, era in Giappone il giorno in cui Mike Tyson ha perso per la pri-ma volta. In passato ha negoziato con Mo-butu Sese Seko, dittatore dello Zaire, e ha stretto un’amicizia profonda con il presi-dente venezuelano Hugo Chávez. Nessun uomo vivente, tranne forse un paio di poli-tici, è stato immortalato così tante volte in-sieme ai leader mondiali e alle celebrità. Da appassionato di boxe cresciuto negli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta, non riesco a ricordare un singolo incontro in cui alla �ne non sia apparso sul quadrato Don King con il suo sigaro stretto tra i denti.

Per questo stasera mi sento un po’ triste a starmene seduto davanti a lui al Carnegie Deli, mentre i turisti fanno la �la per scatta-re una foto e intanto parlano di lui al passa-to, come se fosse già morto. Anche se pro-babilmente Don King non merita la nostra compassione, osservare il declino e la scomparsa di un’istituzione americana è sempre straziante. I polsini della sua giacca di jeans “Only in America”, la stessa che in-dossava la sera del “Thrilla in Manila”, sono logori. A volte inciampa sulle parole. Sulla sua faccia un tempo imperturbabile è com-parsa una curvatura verso il basso, qualcosa di simile a una resa. Don King non ha mai pensato che sarebbe vissuto �no a 50 anni. Oggi ne ha 81, ed è sotto i ri�ettori dall’ini-zio degli anni settanta.

Genio dei numeriNato a Cleveland nel 1931, da giovane Don King si è fatto strada nel racket della ri�a clandestina, un gioco che lui stesso descrive come “una fonte di speranza per persone che non avevano nessuna speranza”. Da ragazzo voleva essere come Clarence Dar-row, un avvocato dell’Ohio impegnato nel campo dei diritti civili tra l’ottocento e il no-

20 agosto 1931 Nasce a Cleveland, negli Stati Uniti.

1966 Picchia a morte un ex dipendente di un suo locale. È condannato a tre anni e mezzo di carcere.

1970 Poco dopo essere uscito di prigione, organizza il suo primo incontro di pugilato.

1974 Organizza in Zaire The rumble in the

jungle, un incontro tra Muhammad Ali e George Foreman. Negli anni successivi organizza incontri con i pugili più importanti, come Mike Tyson, Evander Holy�eld, Julio César Chávez.

Marzo 2013 Tavoris Cloud, l’ultimo dei suoi pugili ad avere ancora delle possibilità di vincere il titolo, perde a New York contro Bernard Hopkins.

Biogra�a

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vecento, e così si è iscritto alla facoltà di leg-ge della Kent State university. L’estate pri-ma di immatricolarsi, però, suo fratello maggiore Connie l’ha assoldato per “pren-dere i numeri” della ri�a. In pratica doveva andare in giro per i quartieri neri di Cleve-land a raccogliere le puntate da un dollaro. Gli scommettitori comunicavano un nume-ro di tre cifre al giovane Don, che in qualche modo riusciva a tenere a mente tutte le pun-tate. Alla �ne della giornata, se il numero di un giocatore corrispondeva alle tre cifre centrali di una determinata serie, il vincito-re si portava a casa 600 dollari. La fantasti-ca memoria di Don e la sua straordinaria loquacità lo rendevano perfetto per la ri�a,

e così poco tempo dopo ha deciso di metter-si in proprio.

Nonostante il suo coinvolgimento nelle attività del crimine organizzato, da ragazzo King è riuscito a evitare grossi guai con la legge. Fino al 2 dicembre 1954, quando ha sparato e ucciso Hillary Brown, un uomo che insieme a due complici aveva tentato di svaligiare una delle sue case da gioco a Cle-veland. Il giudice disse che si era trattato di legittima difesa, e classi�cò il crimine come omicidio giusti�cabile, ordinando il rilascio di Don King, che poco dopo ricominciò a gestire la ri�a. Nei 12 anni successivi, King ha continuato a espandersi inglobando di-verse attività come la Corner Tavern, un

locale poi incluso nella Rock and Roll Hall of Fame, ma alla �ne ha dovuto di nuovo fare i conti con la giustizia. Il 20 aprile del 1966 ha pestato a morte un suo ex dipen-dente di nome Sam Garrett per un debito di 600 dollari. Dopo un processo contrasse-gnato da testimoni corrotti e bizzarre ri-chieste giudiziarie, King è stato condannato per omicidio colposo di primo grado. “Quando hanno letto la sentenza mi hanno detto che sarei uscito subito di galera e che mi ci mandavano perché speravano che una breve esperienza in carcere mi traumatiz-zasse e mi riportasse sulla retta via. Alla �ne sono rimasto in galera per quattro anni”.

Don King divide la sua vita in due parti:

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Don King a Londra, nel settembre del 2001

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Ritratti

prima e dopo il carcere. Gli anni dietro le sbarre non hanno fatto altro che alimentare la sua ambizione. In galera Don ha letto una quantità impressionante di libri, e quando è uscito aveva ormai costruito il campionario di citazioni e frasi oscure che l’avrebbe tra-sformato in uno dei grandi intrattenitori della sua epoca.

Un anno dopo il rilascio, Don stava già organizzando il suo primo incontro di boxe. Con l’aiuto di Lloyd “Mr Personality” Price, amico e musicista che suonava spesso alla Corner Tavern, King convinse Muhammad Ali a combattere in un incontro d’esibizione a Cleveland per raccogliere fondi per un ospedale per neri. Per l’occasione King or-ganizzò un concerto a cui parteciparono Marvin Gaye, Lou Rawls e Wilson Pickett. Quel giorno è nato il modello per i megae-venti alla Don King: un pugile superstar, un abbozzo di bene�cenza e molta buona mu-sica. Da quel momento Muhammad Ali è diventato la prima gallina dalle uova d’oro di King, e anche se l’entourage del pugile non si è mai �dato di King, il campione è sempre rimasto a�ascinato dalle sue grandi intuizioni.

Nel 1973 King era a Kingston, in Giamai-ca, a guardare l’incontro per il titolo dei pesi massimi tra Joe Frazier e George Foreman. Secondo la leggenda, King è arrivato all’in-contro a bordo della limousine di Frazier, e dopo l’incontro in cui “Smoking Joe” è an-dato al tappeto al secondo round è salito sul ring, ha abbracciato Foreman ed è tornato negli Stati Uniti insieme al nuovo campio-ne. Un anno dopo Don King ha organizzato “The rumble in the jungle”, probabilmente l’evento sportivo più indimenticabile del ventesimo secolo. Tutto il resto – la fama, il “Thrilla in Manila”, i milioni di dollari, le indagini della Cia e dell’Fbi, i processi, Lar-ry Holmes, Mike Tyson, Julio César Chávez e Tito Trinidad – è stato una diretta conse-guenza della sua impresa impossibile nello Zaire. Un ex criminale cresciuto con la ri�a clandestina e in libertà da appena tre anni è riuscito in qualche modo a mettere d’accor-do Mobutu Sese Seko, Muhammad Ali, George Foreman, James Brown, lo stato della Liberia e la banca Barclays, superando una serie in�nita di ostacoli per un incontro che ha rischiato costantemente di essere cancellato o riportato negli Stati Uniti.

La stanza dei cimeliAlla �ne degli anni ottanta la Don King pro-ductions si è spostata dall’Upper East Side di Manhattan alla Florida del sud. Oggi King lavora in un palazzo di due piani a Deer�eld Beach. Dalla sua �nestra si vede il

classico panorama della Florida, fatto di al-beri tropicali e prati poco curati. La vegeta-zione proietta una luce verdastra e in qual-che modo inquietante sulla sua Rolls-Royce Phantom blu e acciaio. La sede della Don King productions mostra tutti i segni di de-cadimento tipici degli edi�ci nei climi tropi-cali. I tappeti sono stati attaccati dalla muf-fa, e le piante sembrano so�ocare. Alla �ne degli anni novanta e all’inizio degli anni duemila, quando King gestiva gli incontri di pugili come Felix Trinidad, Bernard Hopkins, Roy Jones Jr. e Hasim Rahman, alla Don King productions lavoravano circa 50 impiegati. Oggi sono meno di dieci.

L’u�cio di Don King occupa due grandi stanze al secondo piano. I cimeli sono dis-seminati ovunque. In un angolo si vede una collezione di dipinti di LeRoy Neiman, mentre in un altro sono ammucchiate alcu-ne spade di varie epoche e paesi.

Seduto a una scrivania piena di sacchet-ti di caramelle e gomme da masticare, Don King riceve telefonate e �rma contratti per un incontro che vuole organizzare in Ger-mania. Durante le pause parla con me. Do-vremmo a�rontare argomenti diversi, ma lui riporta costantemente la conversazione verso quella che chiama “la barriera del co-lore della pelle”. Le nostre chiacchierate tornano regolarmente alla storia del razzi-smo. Mi sorprende che un uomo così pian-tato nel presente sembri preoccuparsi solo del passato. King parla di se stesso come di un eroe rivoluzionario, un uomo che grazie al suo acume, al duro lavoro e alla determi-nazione ha superato il razzismo (anche quello istituzionale) e ha regalato a molti giovani neri la ricchezza e il riconoscimento del mondo. Il problema di Don King è che nessuno l’ha mai considerato un attivista per i diritti civili. La gente pensa che sia un gangster, e in quanto tale deve rispettare il copione dei �lm di genere. Don King ha ru-bato alla sua gente senza mostrare alcuna pietà o pentimento, e per un gangster spie-tato non c’è perdono.

Don King parla a ruota libera di Frede-rick Douglass, Adolf Hitler, Martin Luther King, Simon Wiesenthal, Porfirio Díaz e Shimon Peres. Tutti i suoi aneddoti e riferi-menti hanno l’aria di un’ennesima ripeti-zione provocata da una stanchezza farneti-cante e insistente. Come molti uomini arri-vati alla soglia degli ottant’anni, sembra che parli solo perché non riesce a credere che il ragazzo seduto davanti a lui sia così stupido. Durante la nostra prima intervista, per esempio, mi ha costretto ad ascoltare una lezione di dieci minuti su Joseph Goebbels e la propaganda nazista. Quando ha �nito

avevo ormai dimenticato la domanda che aveva innescato la sua digressione storica. Poi ci ho ripensato e mi sono ricordato di avergli chiesto qualcosa su Jay-Z, Beyoncé e il nuovo Barclays Center.

L’arte della guerraPer Don King tutto si riduce a due concetti: strategia e guadagno. Molti pensano che sia un bu�one solo perché non sa pronunciare bene il nome di Nietzsche, ma di sicuro è un bu�one che sa come uscire vincitore da una trattativa. Anche se le sue citazioni di Sun Tzu non sono sempre a�dabili, King ha as-similato L’arte della guerra meglio di tutti quelli che sottolineano i suoi errori. “Nella vita, niente mi dà più soddisfazione che prendermi gioco di un bigotto”, mi ha ripe-tuto più di una volta durante le nostre chiac-chierate. Personalmente non credo che gli piaccia più di tanto impartire lezioni sulla storia di Willie Lynch o Joseph Goebbels, ma di sicuro gode immensamente a demo-lire chiunque lo sottovaluta solo perché è un ex allibratore nero cresciuto nelle strade di Cleveland. King mi ha raccontato che appe-na arrivato a New York, a metà degli anni settanta, ha fatto in modo di far sapere a tutti che era stato in prigione. “Tanto, quel-li ti sottovalutano comunque, e poi provano a usare il tuo passato contro di te. Quindi tanto vale sfruttare la situazione a tuo van-taggio, perché loro non cambieranno mai”.

L’intelligenza strategica pervade ogni aspetto della vita di Don King. Non rispon-de mai alle domande, ma le aggira e le di-storce fino allo sfinimento. Eppure nelle nostre ultime conversazioni è capitato che citasse parola per parola una domanda che gli avevo posto molti giorni prima. Ricorda ancora i numeri scommessi negli anni cin-quanta dalla gente del suo vecchio quartie-re di Cleveland, e può recitare a memoria ogni riga di ogni contratto �rmato in vita sua. Norman Mailer ha incontrato Don King in Zaire nel 1974, e l’ha descritto come una sorta di genio autoproclamato che rico-priva ogni trattativa con una nube di stron-zate sparate a raffica. Nel suo libro sul “Rumble in the jungle”, Mailer ha scritto che “di�cilmente si può sostenere che Don King non è un genio”. In e�etti è di�cile dargli torto. Anche a 81 anni, Don King pos-siede quel particolare tipo di vivacità prepo-tente che ti fa capire che non riuscirai mai a raggirarlo.

Quattro giorni prima dell’incontro tra Cloud e Hopkins, King è arrivato al Barclays Center per l’ultima conferenza stampa. La sera precedente era a Panama per discutere

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i dettagli di un incontro che vuole organiz-zare in Russia nei prossimi mesi. Il suo volo è atterrato a New York alle quattro del mat-tino. Quando mi vede davanti al Barclays mi chiama a gran voce: “Jay, baby, vieni qui, ascolta. Ieri la notizia della morte del mio hermano Hugo Chávez mi ha rattristato profondamente. L’ho incontrato per la pri-ma volta nel 1971, quando era un luogote-nente dell’esercito venezuelano. Faceva parte della mia scorta quando abbiamo aperto il Poliedro de Caracas”.

Una volta entrato nel palazzetto, King si intrattiene con i reporter, che sono una ven-tina. Parla di Chávez e dell’assistenza sani-taria che l’ex presidente ha garantito ai po-veri delle montagne venezuelane. Un gior-nalista dall’aria vagamente europea gli punta la telecamera in faccia e gli chiede: “La sua storia sarebbe stata possibile in un altro paese?”. King sta al gioco e strilla “On-ly in America!”. Durante la conferenza stampa, Cloud parla con voce bassa ma ri-soluta, mostrandosi fiducioso per l’esito dell’incontro. Come molti pugili, trasmette una specie di ra�nata modestia, e non si capisce se gli piaccia boxare o se lo fa solo per mantenere la sua famiglia. Mentre Cloud risponde alle domande, Don King puntella ogni frase con esclamazioni come “Yes” o “That’s right”.

Il primo fallimentoOggi Don King è sinonimo di accordo se-greto e imbroglio sui compensi, e il suo no-me salta fuori ogni volta che un promotore avido manda sul ring un pugile impreparato a farsi massacrare. Nel mondo della boxe tutti sono ipocriti e bugiardi, ma agli occhi dell’opinione pubblica l’unico ipocrita e bu-

giardo è Don King. Da sempre gli uomini famosi e potenti hanno la tendenza a gua-dagnarsi una pessima reputazione. Nei trent’anni che ha passato sulla cresta dell’onda, Don King è stato calunniato un’in�nità di volte, ma come tutti i self made men ha sempre risposto sfoggiando il suo potere. Per anni non c’è stato bisogno di chiedersi se un uomo nero poteva arrivare ai vertici del mondo della boxe, perché ba-stava guardare in alto e trovare Don King in cima alla piramide. Quegli anni, però, sono lontani. Oggi i contatti e i legami costruiti durante la sua carriera non esistono più, e Don King ha cominciato a pensare al signi-�cato della sua parabola. Un giorno, nel suo u�cio, mi parla “del crepuscolo della car-riera” e del suo progetto di aiutare i poveri bianchi a capire che i neri non sono il nemi-co. Dopo aver ascoltato la sua classica rispo-sta di dieci minuti, gli rivolgo un’altra do-manda: “Don, ora che sei arrivato alla �-ne…”. Mi interrompe subito: “Alla �ne? Ho parlato del crepuscolo, non della �ne”. Im-provvisamente si rivolge a uno dei suoi con-siglieri che è appena entrato nella stanza portando una pila di documenti. “Questo coglione sta cercando di seppellirmi, ma non ho ancora �nito. Non ci sono neanche vicino”.

Nello spogliatoio del Barclays, prima dell’incontro tra Cloud e Hopkins, Don King se ne sta seduto vicino a Thomas Hau-ser, ex avvocato, scrittore e profondo cono-scitore della boxe. Nel 1992 Hauser e Joseph Ma�a, ex capo del settore �nanziario della Don King productions, hanno presentato una serie di deposizioni che hanno portato al rinvio a giudizio di Don King per frode. All’inizio delle indagini, un avvocato della

commissione del senato che indagava sulla corruzione nel mondo della boxe intervistò Ma�a e gli chiese se Don King era colluso con il crimine organizzato. Hauser, che in quel momento era presente come consu-lente legale di Ma�a, disse all’avvocato: “Lei non capisce, Don King è il crimine or-ganizzato”.

Oggi però quel passato è molto lontano. King è seduto su una sedia vicino alla porta dello spogliatoio, con un iPod che quasi scompare tra le sue mani enormi. Mostra a Hauser una serie di fotogra�e che coprono quattro decenni, e per ognuna gli impone una lunga e vaneggiante didascalia. Rac-conta di Christie Brinkley, Henry Kissinger, Ali, Martin Scorsese, Michael Jackson e Jac-ques Chirac. Mentre i due uomini attempa-ti osservano le piccole immagini digitali in preda alla nostalgia, Cloud si prepara a combattere. Indossati i guantoni, si siede in un angolo e cerca di trovare la concentra-zione. King continua a parlare con Hauser di Shimon Peres e Israele. “Don, stai conce-dendo un’intervista proprio adesso?”, lo interrompe Cloud. King sorride e non ri-sponde, poi ricomincia a parlare del suo progetto di portare Cloud a combattere in Corea del Nord dopo la vittoria di stasera, “Sarà il mio spettacolo, un vero show per il popolo”.

Cloud ha perso. Sul ring, appena �nito il combattimento, Bernard Hopkins urla ver-so Don King qualcosa che nessuno del suo entourage avrà poi voglia di ripetere. Du-rante la conferenza stampa Hopkins attac-ca: “Nessuno avrebbe scommesso nemme-no in sogno che Bernard Hopkins sarebbe stato l’uomo capace di far fallire Don King. Ho fatto un favore all’umanità. Don King, che vi piaccia o no, non esiste più”. Nella sala stampa King non c’è. È rimasto nello spogliatoio con Cloud e i dipendenti della Don King productions. Bisogna pagare tut-ti quelli che hanno lavorato all’incontro, compreso Cloud.

Dopo circa un’ora King e Cloud escono dallo spogliatoio. Chiedo a Don quali sono i suoi piani. “È un contrattempo. Bisogna ri-alzarsi, togliersi la polvere di dosso e rico-minciare. Ray Charles ha scritto una canzo-ne intitolata Drowning in my tears, ma non ti puoi mai permettere di a�ogare nelle lacri-me. Devi riprenderti, raddoppiare gli sforzi e perseverare”. Nelle nostre conversazioni precedenti, Don ha parlato spesso di con-trattempi. Ogni volta, immancabilmente, ha ripetuto la stessa frase: “Ho completa-mente cancellato la parola ‘fallimento’ dal mio vocabolario”. Questa volta non ce la fa, resta in silenzio. as

Don King e Muhammad Ali in Pennsylvania, nell’ottobre del 1975PAU

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Graphic journalism Cartoline dagli Stati Uniti

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Peter Kuper è un autore di fumetti statunitense. Il suo ultimo libro è Stop forgetting to remember (Crown 2007).

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Cultura

Musica

A ll’inizio di maggio è stato inaugurato un grandioso progetto: la sala principale della seconda scena del tea-tro Mariinskij di San Pietro-

burgo. La storia del Mariinskij-II si è trasci-nata per quindici anni, solo metà dei quali sono stati necessari per i lavori di costruzio-ne. Il resto è stato sprecato per scandali, intrighi, indagini. L’epopea del Mariinskij è paragonabile a quella della ristrutturazione del teatro Bolšoj di Mosca per l’ambiziosità del progetto, per le polemiche che ha inne-scato e per lo strascico di scandali.

E anche per i fondi destinati ai lavori. Per il Bolšoj erano stati spesi poco più di 35 miliardi di rubli (poco più di 860 milioni di euro), per il Mariinskij-II quasi 22 miliardi.

La costruzione del secoloPer la ristrutturazione del Bolšoj ci sono voluti cinque anni e mezzo, mentre il Mari-inskij-II è stato costruito da zero in quasi otto anni. Per aprire il cantiere le autorità di San Pietroburgo hanno dovuto demolire degli edi�ci, tra i quali alcuni di valore sto-rico e culturale come il Palazzo della cultu-ra e parte del mercato di Litovsk.

Ci sono altre di�erenze. Per il Bolšoj so-no stati ripristinati i precedenti interni, mentre il Mariinskij-II è un edi�cio radical-mente nuovo sia nella forma sia nel conte-nuto, progettato �n dal principio in base ai criteri tecnici più moderni. L’aspetto esteti-co della nuova scena è in completa con-

traddizione con quello del suo modello storico. Il teatro Mariinskij è sempre stato un esempio dello stile imperiale. Nel nuovo edi�cio non c’è alcuna traccia di glamour. La parte che risalta di più è nel foyer: la pa-rete esterna della sala è rivestita di pannelli di onice di un caldo color ambra con vena-ture scure. Grazie al posizionamento delle luci, l’onice risplende come oro. Questo spettacolo fantastico può essere osservato anche dall’esterno, attraverso le enormi �-nestre del foyer. Ma se i pannelli non sono illuminati dall’interno, l’onice è più simile a una plastica gialla di poco valore. Quindi i preziosi pannelli devono essere illuminati costantemente.

L’interno si distingue per un altro ele-mento, i cristalli Swarovski e i lampadari realizzati appositamente per il Mari-inskij-II. Danno una nota particolare al fo-yer principale, dove i �li di cristallo pendo-no dal so�tto a una grande altezza, mentre una ghirlanda accecante decora la loggia riservata ai vip nella sala.

L’onice e i cristalli di Swarovski sono le uniche decorazioni di questo enorme tea-tro, e sono un simbolo del potere lobbistico e del talento manageriale di Valerij Ger-giev, direttore artistico del Mariinskij dal 1988.

Nonostante il suo ascetico aspetto esterno, la nuova scena del Mariinskij è stata costruita con una ra�natezza tecnica che, secondo le parole di Gergiev, non ha

Tra polemiche e ritardi è stata inaugurata a San Pietroburgo la seconda scena dello storico teatro Mariinskij

Una scena imperfettaNatalija Škurenok, Itogi, Russia

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Il teatro Mariinskij

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rivali in nessun altro teatro di fama inter-nazionale. La superficie complessiva dell’edi�cio è di quasi 80mila metri quadri. La sala può accogliere duemila spettatori e da ogni poltrona si ha una visuale completa del palco.

Nel nuovo teatro c’è tutto quello che serve per una piena realizzazione dello spi-rito teatrale: il palcoscenico principale, quello per le prove e le quinte, che in caso di necessità possono essere uniti in un unico spazio, grazie alle tecnologie multimediali e all’ingegneria moderna. E ci sono molte altre sale di prova per i balletti, per le opere, per il coro e per l’orchestra. Nel foyer ci so-no alcune piccole aree dove, anche mentre sul palcoscenico principale si svolgono gli spettacoli, è possibile e�ettuare concerti da camera o proiezioni cinematogra�che. E sul tetto del Mariinskij-II c’è un an�tea-tro, che accoglierà alcuni eventi del festival “Stelle delle notti bianche”.

Le soluzioni tecniche adottate per il pal-coscenico consentono al teatro di funzio-nare a ciclo continuo: gli spettacoli, le prove e i lavori di montaggio possono svolgersi 24 ore su 24 per tutto l’anno.

La profondità del palcoscenico princi-pale è di 80 metri, in pratica si tratta di un teatro nel teatro. Dispone anche di alcune piattaforme mobili, ognuna delle quali ha una super�cie pari a quella di un normale palcoscenico. In altre parole è possibile montare contemporaneamente le sceno-

gra�e per quattro spettacoli diversi. Que-sto consentirà al teatro di eliminare i lun-ghissimi intervalli tra le diverse rappresen-tazioni. Un esempio evidente è il ciclo operistico dell’Anello del Nibelungo di Wa-gner, ma un problema analogo esiste per Guerra e pace di Prokof ’ev: il montaggio delle scenografie richiede alcuni giorni, così come il loro smontaggio. Il risultato è che per un teatro di solito è necessaria qua-si una settimana per organizzare una rap-presentazione.

L’acustica e il parcheggioIl golfo mistico può accogliere �no a 120 musicisti. È stato costruito con pannelli acustici speciali che consentono di modi�-care la con�gurazione dello spazio a secon-da della quantità dei musicisti e del tipo di spettacolo. E i suoi undici metri di profon-dità creano un’acustica straordinaria.

La prova a cui hanno potuto assistere anche i giornalisti ha evidenziato qualche problema. Le voci dei solisti che eseguiva-no una scena della Chovanščina di Musorg-skij si riuscivano a sentire perfettamente da ogni punto della sala, ma quando sul palco è salito il mezzosoprano Ekaterina Semenčuk, con un’aria di Ol’ga dall’Evgenij Onegin, gli spettatori delle ultime dieci �le dell’an�teatro non hanno sentito quasi nul-la. Solo dopo un intervento di Gergiev, che con un gesto ha chiesto alla solista di spo-starsi dal fondo del palcoscenico, la sua

voce si è fatta sentire. Gli archi di un fram-mento della quinta sinfonia di Mahler ave-vano un suono splendido, ma nel Requiem di Verdi gli ottoni so�ocavano il tenore An-drej Zorin e per�no il coro. Non è più possi-bile modi�care lo schema acustico dell’edi-�cio, quindi bisognerà abituarsi alle sue caratteristiche.

Queste asperità saranno appianate con il tempo. C’è una cosa però a cui chi ha pro-gettato la nuova scena del teatro Mariinskij non ha assolutamente pensato: il parcheg-gio. A di�erenza del Bolšoj, il Mariinskij è lontano dalla metropolitana e parcheggiare vicino al teatro nei giorni in cui ci sono gli spettacoli è impossibile. Quando la “co-struzione del secolo” era stata avviata i re-sponsabili del progetto avevano promesso di risolvere il problema dei trasporti, ma poi non è stato fatto niente. Quindi per la folla che dopo lo spettacolo si dirige in cor-teo verso la metropolitana questo rimarrà il biglietto da visita del Mariinskij.

È chiaro che inaugurando la nuova sce-na alla vigilia dell’inizio dell’alta stagione turistica, del Forum economico mondiale e della stagione delle notti bianche, Valerij Gergiev ha ogni motivo per fare a�damen-to su un’alta presenza di pubblico e su buo-ni incassi. Ma non c’è il rischio che le tre sale del Mariinskij rimangano vuote quan-do in città ci saranno pochi turisti? Speria-mo proprio che l’energico maestro abbia pensato anche a questa eventualità. af

Il canale tra il Mariinskij e il Mariinskij-II

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76 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Cultura

CinemaItalieni I �lm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Lee Mar-shall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen Inter-national.

La grande bellezzaDi Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo. Italia 2013, 150’

È un po’ come la Roma che in-quadra, La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Al Fontano-ne un’ora prima del tramonto t’innamori; poi dopo, magari per un cameriere sgarbato o per un marciapiede indecen-te, ti senti deluso, tradito. Ho visto il �lm due volte. La se-conda mi è piaciuto di più. Un po’ perché ho colto il pathos nel protagonista mondano ma stanco del mondo, interpreta-to da Toni Servillo. Mentre la prima volta ero distratto dai suoi manierismi. Un po’ per-ché, la seconda volta, ho ap-prezzato il tentativo di distilla-re l’essenza onirica di Roma. Non è esattamente la città che conosco, ma la potrei sognare così. Bisogna dire, poi, che Sorrentino regala dei momen-ti di grande cinema. I primi 15 minuti del �lm sono esilaran-ti; non ho visto niente a Can-nes quest’anno con lo stesso impatto audiovisivo, con lo stesso livello di virtuosismo. Ma il debito a Fellini rimane enorme. La satira religiosa ab-binata alla sete di un riscatto spirituale; scrittori che spreca-no il loro talento in modo ma-sochista tu�andosi nella mon-danità; l’aristocrazia nera mummi�cata. La grande bel-lezza fa grande cinema, ma c’è poco nella visione sorrentinia-na di Roma che il maestro Fe-derico non abbia azzeccato con più acutezza e rabbia, più di cinquant’anni fa.

Una notte da leoni 3

In uscita

Una notte da leoni 3Di Todd Phillips. Con Zack Gali-�anakis, Bradley Cooper, Ed Helms. Stati Uniti 2013, 100’

La buona notizia è che Una notte da leoni 3 non è costruito sulla falsariga del primo capi-tolo come invece era stato con il secondo episodio. La cattiva notizia è… tutto il resto. Stavol-ta non c’è nessuna sbornia da cui riprendersi, ma soltanto una serie di malintesi che por-tano i nostri eroi prima verso il Messico e poi indietro a Las Vegas. Nonostante tutte le promesse di caos e di risate, Una notte da leoni 3 vi colpirà con tutta la potenza di una lat-tina di birra analcolica calda. Assistere a questo �lm è come trovarsi alla riunione di classe del liceo, lontanissimi dal bar

e chiusi in un angolo dal più noioso dei vostri ex compagni che vi intrattiene con un rac-conto incredibilmente ricco di dettagli sulle abitudini della sua collezione di criceti. In-somma un incubo. Kyle Smith, New York Post

Tutti pazzi per RoseDi Regis Roinsard. Con Romain Duris, Déborah François. Fran-cia 2012, 111’

Come ha dimostrato il succes-

so di Il piccolo Nicolas, i france-si nutrono una grande nostal-gia per gli anni felici del dopo-guerra. Tutti pazzi per Rose sfrutta quella nostalgia per da-re una versione dinamica, tut-ta rosa e un po’ arti�ciale dei tempi in cui l’aspirazione mas-sima delle ragazze era diven-tare brave segretarie. E lo fa attraverso il prisma di una sto-ria d’amore casta e inverosimi-le. Il regista ha scelto come re-gistro una miscela di Rocky e di commedie rétro per raccon-tarci la storia di una segretaria quasi disastrosa che però è ve-locissima a battere a macchi-na, una qualità che la porterà a partecipare a un concorso e a conquistare l’amore di un prin-cipale solo apparentemente ci-nico seduttore. Il tutto è un po’ frustrante ma leggero. E la commedia funziona. Thomas Sotinel, Le Monde

Dieci �lm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

Massa critica

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Legenda: Pessimo Mediocre Discreto Buono Ottimo

EFFETTI COLLATERALI -

HANSEL & GRETEL - -

SOLO DIO PERDONA - - -

QUALCUNO DA AMARE - - - - -

COME UN TUONO - -

IRON MAN 3 - -

IL GRANDE GATSBY - - -

NOTTE DA LEONI 3 - - -

LA CASA - - -

EPIC - -

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Cannes 2013

In concorso

La vie d’AdèleDi Abdellatif Kechiche. Con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Salim Kechiouche. Francia/ Belgio/Spagna 2013, 177’

Quello che si spera sempre di vedere durante un festival è un �lm che s’innalzi sopra gli al-tri, un grande �lm capace di farci dimenticare tutto il resto, soprattutto in annate partico-larmente cupe. Ed eccolo qui, dopo otto giorni di proiezioni a Cannes (un periodo che in ter-mini di festival equivale a un secolo), un �lm che vale anche come gesto di riconciliazione. Riconciliazione con il concor-so di Cannes, �no a quel mo-mento ancora in cerca di ec-cellenza, ma soprattutto con il cinema di Kechiche, dopo le ultime deludenti esperienze. Un cinema di cui La vie d’Adèle costituisce allo stesso tempo l’opera più ri�essiva e più sconvolgente. Sembra quasi che Kechiche, dopo il falli-mento della sua Venere nera, sia voluto tornare alle fonti della sua poetica, nel territorio marivaudiano di La schivata, il �lm del 2004 che l’ha rivelato al grande pubblico. Un tu�o nel passato, necessario per po-ter andare avanti. Ed è proprio grazie alla ferocia con cui ha a�rontato questa operazione

che è riuscito a raggiungere una dolcezza e una pienezza mai sperimentate prima.Julien Gester, Libération

Le passéDi Asghar Farhadi. Con Bereni-ce Bejo, Ali Mosa�a, Tahar Ra-him. Francia/Italia 2013, 130’

Il regista iraniano Asghar Farhadi continua la sua esplo-razione dei concetti di colpa, scelta e responsabilità con un solido dramma, scritto, diret-to e interpretato molto bene, e che richiede attenzione e cau-tela a ogni passo. Anche in questo caso, Farhadi sceglie di ambientare la sua storia in una famiglia tradizionale, do-ve ci sono dei bambini che su-biscono le decisioni degli adulti, avvelenati dal clima in cui sono costretti a vivere. Farhadi rinuncia a qualsiasi scorciatoia spettacolare e anzi svela con lentezza le motiva-zioni dei vari personaggi sen-za cedere a giudizi sommari. In questo è aiutato dalle sobrie interpretazioni degli attori e dal potente lavoro dietro la macchina da presa di Mah-moud Kalari, che riesce ad ag-giungere intensità alla storia e colpisce gli spettatori con vir-tuali pugni simbolici, pratica-mente in ogni scena. Deborah Young, The Hollywood Reporter

Solo Dio perdonaDi Nicolas Winding Refn. Con Ryan Gosling. Francia/Dani-marca 2013, 142’

Il nuovo �lm di Nicolas Win-ding Refn, accolto con salve di �schi entusiasti sulla Croiset-te, è un nauseante spettacolo pornogra�co di violenza. E in questo caso il giudizio va inte-so come un sincero compli-mento. Il successo dei �lm porno non si misura dalla loro trama, e Solo Dio perdona ne fornisce un’ulteriore prova. La trama, sempre che se ne voglia individuare una, suona più o meno così: a Bangkok, Julian gestisce un locale e tra�ca in stupefacenti. Suo fratello Billy uccide una prostituta di sedici anni e viene a sua volta ucciso dal padre di lei. A questo pun-to sbarca a Bangkok la madre dei due ragazzi, Crystal, per ri-

prendersi il corpo del �glio e piani�care insieme a Julian l’uccisione del padre della pro-stituta, delle forze di polizia tailandesi e di chiunque altro capiti a tiro. Crystal è interpre-tata da una Kristin Scott Tho-mas “come non l’avete mai vi-sta”: è come vedere il vostro amato gattino che si è trasfor-mato in un coccodrillo albino. Il �lm mi è piaciuto? No, ma ho adorato il modo in cui Win-ding Refn l’ha realizzato. Do-po il successo di Drive aveva una battuta libera e l’ha usata per realizzare un assurdo incu-bo al neon che sputa in faccia alla coerenza e prende a schia� il buon gusto. I mo-menti più esaltanti delle corse automobilistiche sono gli inci-denti. E Solo Dio perdona è un meraviglioso disastro.Robbie Collin, The Daily Telegraph

La vie d’Adèle

L’image manquanteDi Rithy Panh. Raccontare l’indicibile sulla macchina da morte khmer. Un documentario potentemente poetico, autobiogra�co, stra-ziante: l’unico vero capolavoro del festival.

Tian Zhu DingDi Jia Zhangke. Da un giovane maestro del ci-

nema cinese, quattro episodi che raccontano la Cina degli umili ormai “fuori di testa”. Tarantino alla rovescia.

La vie d’AdèleDi Abdellatif Kechiche. Toccante storia d’amore lesbi-co tra due ragazze �lmate con il massimo del naturale e sen-za manierismi. Magistrale.Francesco Boille

Scelti da InternazionaleL’image manquante

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Libri

Amazon ha annunciato la creazione di Kindle Worlds, piattaforma com-merciale per la fan�ction Nel 2006 una grande appas-sionata di Star Wars mise in vendita su Amazon il romanzo Another hope, una versione al-ternativa del primo �lm della saga, a�ermando che il suo scopo non era commerciale, ma che aveva scritto quel libro solo per passione. George Lu-cas chiese di fermarne le ven-dite. Oggi la Disney, proprieta-ria dei diritti di Star Wars, an-drebbe meno per il sottile. Ma Amazon in questi giorni ha an-nunciato la nascita di Kindle Worlds, una piattaforma pen-sata per commercializzare la fan�ction, romanzi e racconti ispirati a celebri �lm, libri o se-rie, scritti dai loro appassiona-

Dagli Stati Uniti

L’universo parallelo

Angelo FerracutiIl costo della vitaEinaudi, 212 pagine, 19 euro

Se i giornali italiani difettano di vere inchieste (preferendo investire denaro su opinionisti ipocriti e divi), l’editoria cerca di supplire, ma di rado andando oltre la super�cialità dei denunciatori di successo. È il caso di questo libro, inserito in una collana che ospita narratori. Ferracuti, giornalista e scrittore con morale, vi ricostruisce una vicenda delle più nere tra le migliaia che hanno segnato di

croci anno per anno la storia del lavoro in Italia.

A marzo del 1987 nel porto di Ravenna 13 uomini, in maggior parte molto giovani e uno di essi egiziano, morirono as�ssiati o bruciati dentro una nave da trasporto di gpl. Ricostruendo quella vicenda attraverso interviste e sopralluoghi, Ferracuti ci accosta a una tragedia esemplare, e in apertura cita non a caso un cinico personaggio di Clint Eastwood in un cinico �lm di Leone: “Il mondo si divide in

due: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi.” Ma cita anche i maestri che si è scelto, l’Orwell dei minatori di Wigan Pier e Kapuściński, e titola i due primi capitoli “Tempi di�cili” (Dickens) e “Uomini e topi” (Steinbeck). Le interviste si susseguono, coi buoni, coi cattivi e con gli incerti, con i sopravvissuti e con le famiglie dei “sommersi”, e lo ieri e l’oggi �niscono per confondersi, perché questa è una storia che non ha �ne, in Italia assai più che altrove in Europa.

Il libro Go�redo Fo�

Tragedia esemplare

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana l’australiano Desmond O’Grady.

Pupi Avati La grande invenzioneRizzoli, 389 pagine, 18 euro

Nella sua autobiogra�a, Pupi Avati racconta di essere anda-to a San Pietro per confessarsi, sperando di trovare papa Gio-vanni Paolo II nel confessiona-le. Già questo rivela un pecca-minoso desiderio di scalata so-ciale. Trovò invece un prete ir-landese al quale parlò del suo egoismo e della sua invidia. Questi gli disse di rivolgersi a uno psichiatra. Non �dandosi degli psichiatri, La grande in-venzione è diventata il sostituto del divano dell’analista. Avati riconosce il suo egoismo, ma la maggior parte dei lettori sa che, nel caso degli artisti, lo si può perdonare se il loro lavoro dona qualcosa agli altri; quan-to all’invidia, c’è n’è poca nei suoi ritratti di �gure come Pier Paolo Pasolini, Federico Felli-ni, Ugo Tognazzi, Margherita Buy, Mariangela Melato, Die-go Abatantuono e Mario Moni-celli. Comunque Avati non è tormentato dai sensi di colpa. Il libro è il racconto del suo amore sbocciato prima per il jazz e poi per il cinema, nel quale ha trionfato grazie alla tenacia. Dopo l’insuccesso dei primi �lm girati nella nativa Bologna, si trasferì a Roma do-ve riuscì a sfondare. Questo li-bro è più di una biogra�a di vip scritta in fretta. È il quadro convincente di una famiglia unita, di una certa familiarità con l’altro mondo, del calore e delle costrizioni di una città come Bologna e della casuali-tà, creatività e precarietà del mondo del cinema romano.

ti. Amazon si pone come me-diatore tra i detentori dei dirit-ti del materiale originale e i fan autori. Per molti appassio-nati è un sogno che si avvera, anche se è un terreno com-plesso perché una cosa come Kindle Worlds sembra una strada senza ritorno. Del resto

la fan�ction è sempre esistita e Amazon ha intuito l’enorme potenziale commerciale del settore: una fonte pressoché inesauribile di prodotti a basso costo. Tutto sta nel mettere d’accordo autori, editori e fan. Mathilda Gregory, The Guardian

Cultura

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BIS L’impero colpisce ancora

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Colombe SchneckLe madri salvateEinaudi, 136 pagine, 17 euro

È la storia di una ragazzina, Salomé. Una bambina di sei o sette anni presa nell’ottobre 1943 nel ghetto lituano di Kov-no, poi gasata ad Auschwitz. È anche la storia di un’elegante giornalista parigina alla quale, sessant’anni dopo, la madre fa promettere, in ricordo di que-sta cugina scomparsa, di dare lo stesso nome alla sua futura �glia. Le madri salvate di Co-lombe Schneck sbroglia la ma-tassa del passato familiare per comprendere la storia che la �-glia porta, suo malgrado, in eredità. È qui, senza dubbio, la forza del racconto: in questo lascito che lo rende urgente, necessario; e anche nella sen-sibilità con la quale la narratri-ce intreccia il suo presente e il passato lituano che sonda. Che cos’è successo a Salomé nel 1943? Colombe Schneck interroga lo zio, le zie, incontra una cugina negli Stati Uniti, un’altra in Israele, torna sulle tracce della sua famiglia a Kov no, ritrova delle lettere e delle fotogra�e. Avida, ma as-salita da un dubbio perpetuo sulla propria legittimazione a condurre una tale indagine. “Mi dicevo è troppo facile”, scrive, “tu porti dei sandali do-rati, ti compiaci nelle storie d’amore impossibili, ti piace fare i bagni nel Mediterraneo, e credi che una ragazza come te possa scrivere sulla Shoah”. Eppure Colombe Schneck può farlo, e anche bene.Marion Cocquet, Le Point

Mathias MalzieuL’uomo delle nuvoleFeltrinelli, 133 pagine, 14 euro

Mathias Malzieu scrive delle favole per adulti. Il suo oniri-smo, i suoi personaggi perduti

in un mondo spaventoso o in-decifrabile evocano l’universo poetico di Lewis Carroll, di Roald Dahl e soprattutto del cineasta Tim Burton. I suoi li-bri invitano il lettore a riallac-ciare i legami con il bambino che porta in sé. L’uomo delle nuvole, il suo terzo romanzo, è la storia di Tom Cloudman, il peggior acrobata del mondo. Un mattino, dopo l’ennesima acrobazia sbagliata, Tom si ri-sveglia in un letto d’ospedale nel reparto di cancerologia. Esaminando la sua costola rot-ta, il medico gli ha scoperto un tumore. Cloudman decide di non lasciarsi inghiottire da questo male incurabile. La notte deambula nelle corsie e sui tetti, ai bordi del cielo. Qui fa la conoscenza di una creatu-ra metà donna e metà uccello, che dice di chiamarsi Endor-phine. Lei gli propone di tra-sformarlo in uccello per sal-vargli la vita, poiché solo una trasformazione completa gli permetterà di sfuggire all’avanzamento del suo can-cro. Per compiere questa me-tamorfosi, Cloudman dovrà unirsi alla donna-uccello. Fa-cendo ciò, rinuncerà alla sua condizione umana. E correrà il rischio che un �glio nasca da questo strano amplesso. Ma-thias Malzieu �irta con il me-raviglioso, ma non con la le-ziosità. Su un fondo di dispera-zione, dipinge gli sforzi acca-niti di un uomo-bambino per prendere il volo e lottare con-tro la fatalità.Claire Julliard, Le Nouvel Observateur

Douglas CouplandIl ladro di gommeIsbn, 317 pagine, 17,50 euro

A metà dei suoi quarant’anni, Roger è il commesso più at-tempato di Staples, un mega-store di forniture per u�cio, in

Santiago GamboaPreghiere notturne (e/o)

Thomas BernhardGoethe muore(Adelphi)

Zeruya ShalevQuel che resta della vita (Feltrinelli)

I consigli della

redazione

Alejandro ZambraModi di tornare a casaMondadori, 154 pagine, 16,50 euro

Modi di tornare a casa comin-cia con le conseguenze del terremoto in Cile del 1985 e termina con quello del 2010. L’andamento cronologico va dal passato al presente, dalla dittatura di Pinochet �no al governo di Piñera.

Tra le due scosse, Zambra costruisce due storie struttu-ralmente �essibili e capaci di invertirsi i ruoli da principale a secondaria. In quattro capi-toli si intrecciano due raccon-ti, due voci, attraverso un pa-stiche di espedienti narrativi (diario, poesia, racconto, cita-zione, salti cronologici) che trova la sua forma esatta nella deformazione dell’assetto tra-dizionale del genere.

Nel racconto che apre il li-bro, un suggestivo narratore ricorda la sua infanzia in un quartiere della classe media – che si presume – alieno alla congiuntura politica.

All’epoca il bambino di no-ve anni doveva spiare un suo vicino su richiesta di Claudia, la sua innamorata. Pur igno-randone i motivi, lo fa con im-pegno e disciplina, come se da quello dipendesse l’esito della sua prima conquista senti-mentale. Ma quando scoppia il con�itto, l’avventura s’inter-rompe di colpo, lasciando spa-zio alla voce – e al diario – dell’autore. Nella seconda sto-ria l’autore parla del processo creativo e sensoriale alla base della storia precedente. Come nei pezzi jazz classici, la trama e la forma del romanzo si van-

Il romanzo

Le colpe dei padri

no componendo mentre si scrive. In questo modo l’auto-re rielabora la sua traiettoria ed esplora un terreno poco frequentato dalla letteratura: la voce dei �gli di quei padri che rimasero in silenzio du-rante gli anni del terrorismo di stato. Che hanno da dire quel-li che lo videro lateralmente, senza vittime e carne�ci nelle loro cerchie intime? Cos’han-no fatto i loro genitori? Fu per codardia o per connivenza che restarono con le braccia incro-ciate? Così Zambra mette a nudo l’ingenua complicità ci-vile di uno strato sociale che accompagnò Pinochet giusti-�candolo con il benessere economico. Modi di tornare a casa mostra un Cile sconquas-sato da fenomeni naturali e politici. La letteratura di Zam-bra, a un tempo classica e spe-rimentale, ci lascia con la sen-sazione che là dove giacciono macerie sparpagliate sorge-ranno le pareti della casa in cui abiteremo domani. Damian Huergo, Página12

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Alejandro Zambra

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Cultura

Libri

Riccardo Colombo

e Vincenzo Comito

L’Ilva di Taranto e cosa farne Edizioni dell’Asino, 100 pagine, 10 euro L’Ilva di Taranto è un ginepra-io tipicamente italiano. Chiu-derla immediatamente non si può. Non solo si toglierebbe il lavoro a moltissime persone, ma si lascerebbe a lungo intat-to un impianto che ha bisogno di una radicale boni�ca. Te-nerla così com’è, d’altra parte, è altrettanto impossibile; non solo perché continua a provo-

care gravissimi danni ambien-tali, ma anche perché, come si dimostra in questo rapporto, il gruppo Riva non ha voluto adottare né potrà verosimil-mente promuovere in futuro investimenti adeguati a ri-strutturare la produzione, competere con la concorrenza e dunque garantire lavoro nei prossimi anni. L’unica cosa certa è che questo gruppo in-dustriale e la politica che a Ta-ranto l’ha sostenuto hanno fatto insieme danni enormi: i primi in�schiandosene dell’impatto ambientale,

mentre nel resto del mondo le altre industrie siderurgiche andavano studiando e appli-cando soluzioni alternative, la seconda consentendo questo andazzo, speculando su corru-zione e consenso.

Oggi, a leggere il rapporto, sembra che le soluzioni per in-vertire la rotta ci siano e siano anche chiare. Il problema è che costano molto. Distribuire tali costi è un problema politi-co. Bisognerebbe dunque che i magistrati non fossero i soli chiamati a ri�ettere su chi debba pagare, e come.

Non �ction Giuliano Milani

Boni�care tutto

un’anonima cittadina nel Paci-�co nordoccidentale. Quando era giovane e sciocco, Roger voleva scrivere un romanzo in-titolato Stagno del guanto. Ora tiene un diario, ma di genere insolito e potenzialmente sini-stro: parti di esso, infatti, sono scritte facendo �nta di essere una delle sue colleghe, una ra-gazza di 24 anni che si chiama Bethany. Un giorno Bethany scopre il diario di Roger, e ag-giunge un appunto: “Roger, sei così s�gato che hai lasciato il diario nella ca�etteria del negozio… Mi hai terrorizzato con la descrizione che hai fatto di me e di mia madre e della mia vita”. Ma la ragazza è an-che oscuramente lusingata del fatto che qualcuno abbia pro-vato a immaginare come dev’essere il mondo visto at-traverso i suoi occhi. E così i due avviano una corrispon-denza sempre più intima, an-che se platonica. I personaggi di Coupland sono circondati da strumenti progettati per rendere possibile la comunica-

zione – penne, carta, palmari, cartucce d’inchiostro – eppure la maggior parte di loro trova pressoché impossibile comu-nicare con gli altri, sebbene si capiscano abbastanza bene da poter essere reciprocamente crudeli.Tom Jones, The Daily Telegraph

Andrew Blackwell

Benvenuti a ChernobylLaterza, 329 pagine, 18 euro

Alla moda banale dell’ecoturi-smo Andrew Blackwell prefe-risce il più interessante turi-smo degli ecodisastri. L’autore ha visitato sette dei posti più degradati e devastati del pia-neta. Oltre alla città fantasma di Chernobyl, luogo del fami-gerato incidente nucleare del 1986, Blackwell viaggia attra-verso le foreste pluviali dell’Amazzonia e naviga sui sacri �umi indiani, carichi di liquami. Cerca un’isola galleg-giante di ri�uti di plastica nel Paci�co, assiste un ragazzino

cinese di otto anni che fuma sigarette e smonta computer rottamati. Non si tratta di un libro troppo eterodosso; Black-well non sottovaluta i proble-mi ecologici che a�iggono i suoi luoghi di villeggiatura maledetti né mette in dubbio l’esistenza e i pericoli del ri-scaldamento globale creato dall’uomo. Ma il suo approccio è equilibrato e scettico. A dif-ferenza dei libri su temi am-bientali scritti da autori il cui obiettivo principale è spingere i lettori all’attivismo, Black-well propone una comprensio-ne sfumata del degrado am-bientale. Ed evita ogni senti-mentalismo. È uno scrittore intelligente e spesso diverten-te, che ha prodotto un reso-conto sfaccettato in un genere che di solito preferisce l’indi-gnazione immediata alla com-plessità. Ma senza le solite apocalittiche profezie sul col-lasso ambientale, qualcuno gli darà ascolto? Michael C. Moynihan, The Wall Street Journal

Austria

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Eva Menasse

Quasikristalle Kiepenheuer & WitschLa storia di una donna osser-vata attraverso un caleidosco-pio di punti di vista: amici, pa-renti, professori, amanti, suo marito e il suo ginecologo. Eva Menasse, nata a Vienna nel 1970, vive a Berlino.

Robert Schindel

Der Kalte SuhrkampRomanzo epico ambientato nel mondo politico della Vien-na di �ne anni ottanta. Prota-gonista è un sopravvissuto di Auschwitz. Robert Schindel è nato a Bad Hall nel 1944.

Michael Köhlmeier

Die Abenteuer des Joel Spazierer Carl HanserRomanzo picaresco che segue Joel Spazierer, maestro di tra-sformismo, dall’Ungheria de-gli anni cinquanta in Austria, Svizzera e Cuba negli anni ses-santa e settanta, �no alla Ger-mania Est. Köhlmeier è nato nel 1949 a Hard, sul lago di Costanza.

Isabella Straub

Südbalkon Au�auRuth ha interrotto gli studi in medicina, scrive necrologi per un giornale, non è convinta del �danzato e non ha buoni rap-porti con i genitori. La sua mi-gliore amica Maya, invece, sembra avere tutto quello che desidera. Isabella Straub è na-ta a Vienna nel 1968.Maria Sepausalibri.blogspot.com

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Cultura

LibriRicevutiRagazzi

Fumetti

Incertezze d’amore

Ciro e il rom

Bastien VivèsLa macelleriaDiàbolo edizioni, 90 pagine, 15,90 euro Bastien Vivès, giovane astro del fumetto francese, ci propone un piccolo gioiello, una meraviglia sui dolori dell’amore. Quanta leggerezza, quanta delicatezza, nella sua spietatezza d’analisi. Vi divertirete, anche se non è un fumetto umoristico. Sognerete, anche se non è un fumetto d’evasione. E questo malgrado ci sia qualcosa che appartiene alla morte. L’autore sembra �ssare per sempre alcuni momenti salienti di vita amorosa. C’è vicinanza col cinema di Tru�aut, ma tras�gurato da una poetica impressionistica. Questo stile impressionistico trova la sua quintessenza in un albo che tiene a battesimo una nuova casa editrice la cui politica editoriale si annuncia stimolante. Lo stile narrativo impressionistico, nel

Fabrizio SileiSe il diavolo porta il cappelloSalani, 267 pagine, 13,90 euroCiro è un �glio della seconda guerra mondiale, frutto dell’amore fugace di un soldato americano e di una ragazza toscana. La mamma l’ha chiamato Ciro per omaggiare quel suo padre, quel soldatino yankee, che prima di arrivare in Toscana era di stanza a Napoli. Quelle svenevolezze puzzano di bruciato al ragazzo. Lui al contrario della madre sa che quel soldato non tornerà più. Sono tredici anni che lo aspetta, quasi tutta la sua vita. Per questo Ciro, così straniero a tutti con i suoi occhi azzurri e i suoi capelli biondi, diventa un selvaggio. Si aggira per una Toscana rurale e un po’ magica in cerca di amici e un po’ d’a�etto. Ma tutti lo scansano, ne hanno paura. Sarà l’incontro con Salem, un rom, ad aprirgli le porte della vera amicizia. Attraverso la cultura romanì e sinti Ciro riesce a trovare quell’amore che gli è sempre mancato. Fabrizio Silei costruisce una storia per adolescenti intensa, dinamica e ricca di colpi di scena. Il suo protagonista �losofeggia e ri�ette sul mondo. Lo stile immagini�co e la ricerca storica accuratissima fanno il resto. Il romanzo o�re ai ragazzi uno spaccato storico a�rontato poco dai programmi scolastici, ovvero quello del Porrajmos, la Shoa che ha colpito rom e sinti d’Europa.Igiaba Scego

montaggio delle sequenze e delle vignette all’interno delle tavole, è tale che le brevi scene che si susseguono paiono procedere secondo la logica dei sogni, sogni del “mal d’amore”. La loro stessa espressione gra�ca, un po’ bozzetti con tocchi leggeri ma perfettamente controllati di colori a matita che creano un e�etto materico simile al pastello, ne accrescono la dimensione impressionistica. E�etto accentuato dalle vignette, del tutto scontornate e circondate dal bianco della pagina, che paiono avere la stessa labilità dei sogni, o essere degli ectoplasmi di momenti di vita. In�ne sono impressionistici i movimenti aerei del segno gra�co, guizzi veloci e sicuri in dialettica con spaccature che ne rivelano la fragilità, e i dialoghi naturali e teatrali (ottima la traduzione). Dialoghi il cui momento d’inizio e �ne non è mai chiaro. Proprio come l’amore. Francesco Boille

Alessandra ChiricostaFiloso�a interculturale e valori asiaticiObarrao, 330 pagine, 14 euro La �loso�a interculturale for-nisce strumenti per a�rontare le principali s�de del pensiero contemporaneo: comprendere la diversità e confrontarsi con le questioni aperte dall’emer-gere di “culture altre”.

Gian Enrico RusconiMarlene e LeniFeltrinelli, 204 pagine, 16 euro Marlene Dietrich e Leni Rie-fenstahl: due icone del cinema del loro tempo, dalla Germa-nia di Weimar a Hollywood.

Adam J. SilversteinBreve storia dell’islamCarocci, 142 pagine, 12 euro La nascita e l’espansione dell’islam, da quella che era originariamente una ristretta comunità di credenti �no a di-ventare una religione con oltre un miliardo di fedeli.

Alessandro BartolettiLo studente strategicoPonte alle Grazie, 196 pagine, 15 euroCome risolvere rapidamente i problemi legati allo studio.

John McPheeTennisAdelphi, 222 pagine, 15 euroUn libro in grado di dividere i lettori fra chi rischia di con-trarre in una forma o nell’altra il morbo del tennis, e chi inve-ce ne risulta immune.

Alfredo SomozaOltre la crisiEdizioni CentoAutori, 111 pagine, 10 euroAlla �ne di questa lunga crisi, quali scenari prenderanno for-ma in Europa e nel resto del mondo?

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Cultura

1 Mark Lanegan & Duke Garwood Sphinx

È un vulcano attivo da trent’anni l’ex cantante degli Screaming Trees che fa vibrare midolli spinali col suo vocione beltenebroso, attraversando progetti mai troppo allegri e quasi sempre di fascino. Aspet-tando l’eruzione con un com-pagno di viaggio inglese poli-strumentista vagabondo, per-corre una fetta di americana sul vagone merci di Black pud-ding, colonna sonora per la de-pressione di�usa (un giorno la chiameremo così: meno spet-tacolare ma più profonda della grande). Fagioli e cotiche e blues sul binario della ruggine.

2 The Cyborgs Hi ha doobie do ha Si presentano Daft

Steam punk, con maschere da saldatori e veterogrisaglie, due robot galeotti fuggiti da una Rebibbia reinventata da Tim Burton. Ruggine e ossa si riani-mano in presenza di adeguata ampli�cazione; il nuovo album Electric chair (sì, l’elettrocuzio-ne è per loro simbolo di vita) li mostra in tutto il loro voltaggio vintage rock boogie blues e an-che un po’ ragtime; due dyna-mo con una pronuncia inglese for beginners ma un’expertise Black Keys nel trasformare in bella energia quel che in altre mani sarebbe mero lavorìo di seghe elettriche.

3 Ceramic Dog Masters of the internet“Scaricate musica a gra-

tis / ci piace quando lo fate / non abbiamo case né famiglie da sfamare / non siamo umani come voi”. Alzata d’ingegno di un altro chitarrista vagabondo, il quasi sessantenne Ribot, uno che reinventò il sound di Tom Waits e migliorò quello di Vini-cio Capossela. Da Your turn, nuovo album del suo trio Cera-mic Dog, tra rockacci in punta di plettro e dolore elettri�cato, un arabeggiante atto di sotto-missione alle masse fameliche di suoni scroccati dai tubi, tor-rent e ciberspazio tutto. Orgo-gliosa, asserragliata dichiara-zione di stenti.

MusicaDal vivoGreen Day+ All Time Low, Roma, 5 giugno, rockinroma.com; Bologna, 6 giugno, unipolarena.it

Chromatics + Glass Candy, Ravenna, 3 giugno, bronsonproduzioni .com; Torino, 4 giugno, astoria-studios.com

Funeral For A Friend Olgiate Molgora (Lc), 31 maggio, sbiellata.com

All Time Low Milano, 7 giugno, factorymilano.com

Mudhoney Firenze, 31 maggio, viperclub.eu

Ibrahim Maalouf Bari, 1 giugno, fondazionepetruzzelli.it

Dead Can Dance Fiesole (Fi), 2 giugno; Roma, 5 giugno, auditorium conciliazione.it; Padova, 6 giugno, granteatrogeox.com

Nick Waterhouse Segrate (Mi), 1 giugno, circolomagnolia.it; Torino, 2 giugno, spazio211.com

Palma Violets Roma, 4 giugno, ilcircolodegliartisti.it

L’Estonia è un’isola felice, grazie a manifestazioni come il Tallinn music week

Tallinn, capitale dell’Estonia, si trova in una posizione stra-tegica. A sud del golfo di Fin-landia, il braccio orientale del mar Baltico, è a due ore di tra-ghetto da Helsinki. Tallinn è stata uno sbocco commercia-le per l’Estonia dall’inizio del secondo millennio. Oggi la città sta esportando un nuovo prodotto: la musica. Al suo quinto anno, il Tallinn music week mette in mostra il rock, il pop e la musica classica del paese. Attira appassionati da Finlandia, Russia, Lettonia e Lituania. Tra gli ospiti c’è

Seymour Stein, storico disco-gra�co statunitense e fonda-tore della Sire Records.

Poi ci sono gruppi come i Prāta Vētra, rocker lettoni che in patria riempiono gli stadi. Nel discorso inaugurale, il presidente estone Toomas Hendrik Ilves ha reso omag-gio alle Pussy Riot, invitando a non dimenticare il loro arre-

sto. Anche se l’Estonia ha meno di un decimo della po-polazione di Londra ed è già sede di una �orente econo-mia digitale (che ha partorito Skype), nuota in un mare di canzoni. Come quelle degli Elephants From Neptune, una band a metà strada tra Kings Of Leon e Led Zeppe-lin, o quelle di Mari Kalkun, cantante che mescola il jazz al folk tradizionale estone. Il paese può ritagliarsi la sua nicchia nel panorama mon-diale, proprio come ha fatto l’Islanda. Con il Tallinn music week come megafono, l’Estonia ha un’ottima possi-bilità di farsi ascoltare. Kieron Tyler, Mojo

Dall’Estonia

Tallinn caput mundi

Playlist Pier Andrea Canei

Boogie electric

RA

DA

7

Chromatics

Elephants From Neptune

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Album

The NationalTrouble will �nd me(4Ad)

Dopo cinque album pieni di angoscia e disagio sociale i National non sembrano ancora pronti a trovar pace. Lo si può capire, visto che il successo di High violet li ha trasformati da oggetto di culto indie a una band da grandi arene. Per que-sto il nuovo album Trouble will �nd me era circondato da una strana aspettativa. Ma il grup-po è cresciuto, e ormai è a suo agio anche fuori dagli scanti-nati di Brooklyn. Il risultato è una collezione di inni e fanfa-re che, come al solito, mettono a nudo le emozioni del cantan-te Matt Berninger. Nascosta in fondo all’album c’è anche Pink rabbits, una delle più belle can-zoni d’amore mai scritte dal gruppo. I detrattori diranno che i National sono troppo au-toreferenziali, ma le emozioni che raccontano sono le stesse che proviamo tutti noi, ogni giorno. Jenny Stevens, Nme

LoveBlack beauty(High Beauty)

Talentuoso ma incline all’auto-distruzione, all’inizio degli an-ni settanta Arthur Lee era alle corde. Ma proprio in quel pe-riodo l’autore di uno dei mi-gliori album di tutti i tempi (Fo-rever changes dei Love) stava forgiando un nuovo stile: un misto di hard rock rovente fe-dele allo spirito del suo amico Jimi Hendrix, funk urbano alla Curtis May�eld, un po’ del suo passato folk-rock, e un pizzico di blues e di reggae. Realizzato con il produttore Paul Rothchild, insieme a una band nuova di zecca formata solo da

ora Kuperus e Miller si siano trasformati in artisti leggeri. In tutto l’album resta sempre quel disagio in cui sono specializza-ti. Solo che ora lo propongono con più stile. Miles Raymer, Pitchfork

Public Service

Broadcasting

Inform - Educate - Entertain(Test Card Rec.)

Diamo il benvenuto a uno de-gli album più originali degli ul-timi anni. I Public Service Broad casting prendono in giro la forma duo, spesso suonando come se fossero in sei in una stanza. In realtà Wriggles-worth cura le percussioni e la parte ritmica mentre J. Will-goose Esq. pensa al resto. Il risultato è teso e intrigante, prodotto per metà con stru-menti veri e per l’altra con un impressionante numero di campionature. Tra i ri� post punk, spesso i due usano gli stessi frammenti sonori in di-verse canzoni, creando una narrazione per tutta la durata del disco. Prendono ispirazio-ne da spot televisivi e registra-zioni militari, ma rimangono sempre concentrati sulla melo-dia, dimostrandosi in grado di scrivere eccellenti canzoni pop strumentali. Decisamente una delle uscite da non perdere per il 2013. Gareth O’Malley, The 405

Artisti variFinders keepers. Motown Girls 1961-1967(Kent)

Il brano più famoso di questa splendida compilation di voci femminili della Motown è What’s so easy for two is so hard for one di Mary Wells, pubbli-cata nel 1963. È di�cile capire perché a segnare la carriera della cantante di Detroit non sia stato questo brano ma il singolo successivo, My guy. Esempi perfetti del songwri-ting di Smokey Robinson, en-trambi i pezzi sono cantati son-tuosamente, come del resto anche la rarissima (Like a) Nightmare, delle Andantes di Ann Bogan. Simile a Heatwave, il singolo è stato un �op, e oggi ne esistono appena dieci copie. Flo Ballard compare inve ce in due canzoni delle Supremes, Buttered popcorn e Long gone lo-ver, anche queste due clamoro-si �op. Le undici canzoni inedi-te, tra cui Dance yeah dance di Thelma Brown e I gotta right to sing the blues di Liz Land, sono altrettanto valide e dimostrano che alla Motown anche i brani scartati funzionavano perfet-tamente.Lois Wilson, Mojo

Artisti variWagner at the Met (1936-1954)Artisti vari. Registrazioni live al Metropolitan di New York(Sony)

A partire dalla metà degli anni trenta il Metropolitan diede vi-ta, con cantanti come Lauritz Melchior e Kirsten Flagstad, a una vera età dell’oro wagneria-na, che contribuì a salvarlo dal-la bancarotta. Lo splendido panorama di questo cofanetto è il vertice discogra�co del bicentenario. André Tubeuf, Classica

musicisti neri, Black beauty non fu mai pubblicato per il fallimento dell’etichetta Bu�a-lo Records. L’album, pubblica-to oggi con quarant’anni di ri-tardo, si apre con il punk-funk di Good & evil (young & able) e prosegue con il garage di Stay away. Ma la vera perla è Skid, un brano disperato e spettrale esaltato dalla voce di Lee. Black beauty è un album eclet-tico che cambia passo con gra-zia, suggerendo una miriade di direzioni musicali che un Ar-thur Lee più in salute avrebbe sicuramente intrapreso.Luke Torn, Uncut

Adult.The way things fall(Ghostly)

Gli Adult. non si sono mai tro-vati a loro agio con gli altri gruppi electroclash a cui ven-gono accostati �n dal loro esor-dio. Il duo di Detroit formato da Adam Lee Miller e Nicola Kuperus ha lo stesso mix di musica dance ed estetica punk, ma in più è caratterizzato da un profondo senso di aliena-zione, comunicato da tastiere e drum machine algide e dal canto monotono di Kuperus. Lo stile si conferma anche in questo quinto album in studio, che però è più pulito e lineare e ha un tratto più pop. L’apoteosi di questo nuovo approccio è Tonight, we fall, un agile pezzo new wave con una melodia ac-cattivante. Certo, non è che Public Service Broadcasting

STG

A

The NationalTrouble will �nd me(4Ad)

Daft PunkRandom access memories(Columbia)

Noah and The WhaleHeart of nowhere(Mercury)

The National

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HT

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Pop/rockScelti da

Luca Sofri

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Cultura

Khodorkovsky, l’oligarca ha s�dato PutinDomenica 2 giugno, ore 21.15 Rai5La vicenda di Michail Chodor-kovskij è esemplare della Rus-sia contemporanea: fautore del socialismo prima e brillan-te al�ere del nuovo capitali-smo poi, ha pagato con l’arre-sto e la prigionia la s�da al po-tere di Vladimir Putin.

Anonymous: l’esercito degli hacktivistiDomenica 2 giugno, ore 23.05 Lae�eL’evoluzione del movimento che ri�utando identità e gerar-chie ha ride�nito il concetto di disobbedienza civile nell’era di internet. Dalle origini go-liardiche e i gruppi progenitori, �no agli attacchi più noti, con il ruolo nelle rivolte della pri-mavera araba.

Fiamme di GaddaMartedì 4 giugno, ore 0.30 SkyArteIn occasione del quarantesimo anniversario della morte di Carlo Emilio Gadda, un �lm documentario di Mario Sesti su uno dei geni della letteratu-ra italiana del novecento.

Witness: JuárezMercoledì 5 giugno, ore 22.00 Lae�eQuattro documentari inediti di Michael Mann dedicati al lavo-ro dei fotoreporter in alcune delle zone più calde della cro-naca internazionale. Nel pri-mo episodio seguiamo Eros Hoaglan a Ciudad Juárez.

Senza respiroGiovedì 6 giugno, ore 21.00 Rai StoriaStoria della strage dell’amian-to in Italia, in seguito alla stori-ca sentenza del febbraio 2012, che ha condannato a 16 anni i proprietari dell’Eternit.

Video

vimeo.com/65749550 L’attuale legislazione italiana sulla cittadinanza e sullo ius soli, senz’altro uno tra i temi più discussi nel dibattito politico recente, crea situazioni paradossali. Come quella di Melina, nata in Italia 19 anni fa da genitori immigrati dall’Ecuador, che quando è diventata maggiorenne ha chiesto il riconoscimento della cittadinanza italiana ma se l’è vista negare perché da bambina ha passato quasi un anno nel paese di origine della sua famiglia. Del suo caso si è interessata una giornalista peruviana anche lei vittima dell’attuale legge sulla cittadinanza: infatti lavora in Italia da più di vent’anni, ma non può assumere u�cialmente la direzione di una testata perché è ancora cittadina straniera.

In rete

L’irriverente artista contem-poraneo Ai Weiwei è stato ca-pace di diventare uno dei po-chi protagonisti della scena politica e culturale cinesi rico-nosciuti dall’opinione pubbli-ca occidentale. Questa noto-rietà, frutto di mostre nei mu-sei più importanti del mondo, gli ha permesso di prendere posizioni sempre più aperta-

mente critiche nei confronti del governo di Pechino. Alison Klayman ha passato al suo �anco gli anni più caldi, dal 2008 al 2011, realizzando Ai Weiwei. Never sorry, uscito in dvd accompagnato da un libro con una lunga intervista e una selezione di post dal blog cen-surato dell’artista.aiweiweineversorry.com

Dvd

Al �anco di Ai Weiwei

Italeñas

Dal festival di Cannes, come da tanti altri festival cinemato-gra�ci, spesso ci arrivano qua-si esclusivamente le immagini delle star che s�lano sul tappe-to rosso, dei �ash dei fotogra�, della �otta degli yacht dei super ricchi che in quei giorni incrociano nella baia della cit-tadina francese, ospitando fe-ste a cui tutti cercano dispera-tamente di farsi invitare.

Quest’anno la casualità della programmazione ha fat-to sì che si succedessero le proiezioni di due �lm: L’image

manquante del cambogiano Rithy Panh, che faceva parte della sezione Un certain re-gard, e Le dernier des injustes del francese Claude Lanz-mann, presentato fuori con-corso. Che Rithy Panh abbia vinto un premio non è impor-tante. Quello che unisce i due �lm, e che vale la pena di dire, è molto più importante di qualsiasi palma. Sono due uo-mini che hanno dedicato in-stancabilmente la loro opera (e la loro vita) a indagare su due grandi genocidi del nove-

cento: quello messo in atto dai nazisti nei confronti degli ebrei e quello perpetrato dai cambogiani marxisti contro il loro stesso popolo.

Le dernier des injustes e L’image manquante sono due �lm consumati da un’unica grande questione: quale esteti-ca è accettabile per fare del ci-nema su queste grandi trage-die? Qual è “l’immagine giu-sta”? C’è solo una cosa, troppo spesso messa da parte, che può portare a una risposta va-lida: l’etica.

Fotogra�a Christian Caujolle

L’immagine giusta

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Il bunker di TitoD-0 Ark underground, Konjic, bijenale.baUn rifugio antiatomico di Tito costruito nelle viscere di una montagna in Bosnia, è stato trasformato in museo e ospita trenta artisti di paesi diversi. Il bunker fu completato nel 1979, dopo 26 anni di lavori, e costò 4,5 miliardi di dollari. Oltre seimila metri quadrati, la pianta a ferro di cavallo, per una capienza di 350 persone, era stato pensato come centro di comando in caso di un at-tacco nucleare. La scelta degli artisti tiene conto della speci�-cità di questo luogo carico di memoria, completamente di-verso dallo spazio asettico di una galleria. Ai trenta artisti selezionati per l’apertura u�-ciale se ne aggiungeranno altri a cadenza biennale, che an-dranno a consolidare la colle-zione permanente di questo strano museo.Libération

L’ultima fatica di SalgadoGenesi, Londra, �no al 28 set-tembre, nhm.ac.ukL’ultimo e più monumentale progetto di Sebastião Salgado (in mostra anche all’Ara Pacis di Roma) consiste in duecento fotogra�e ed è il risultato di dieci anni di lavoro, una visio-ne enorme e onnicomprensi-va. Sono le sue “lettere d’amo-re al pianeta” e meritano ri-spetto. Il suo manierismo par-ticolare rimane intatto: usa il bianco e nero con una grana che esalta la modulazione del tono, anche sacri�cando il ni-tore. Quando fotografava tra-gedie, questo suo stile era in costante contrasto con i sog-getti scelti. Genesi non contie-ne orrori: è il tentativo di foto-grafare l’idillio prima del pec-cato originale, e lo stile tende talvolta allo sdolcinato.Financial Times

Graham Ovenden È giusto o sbagliato mostrare le opere di Graham Ovenden? Alcuni commentatori della scena artistica britannica han-no ri�utato di risponderci, per�no la Tate Gallery. Nato nel 1943, l’artista britannico si è fatto conoscere per le sue fo-togra�e di ragazzi di strada prima di diventare una �gura di spicco della pop art. Il 2 aprile è stato condannato per pedo�lia con sei capi d’ac-cusa per indecenza e uno per molestie sessuali a un minore. Quattro donne, che avevano posato per lui da bambine tra

il 1972 e il 1985, lo hanno accu-sato. Hanno dichiarato di es-sere state bendate per orga-nizzare dei “giochi di degusta-zione”. La sentenza non è an-cora stata emessa e poi Oven-den, che si dichiara innocente, può presentare ricorso. Ma due giorni dopo la condanna, la Tate, che possiede 34 opere dell’artista, ha deciso di non mostrarle più. Queste foto di bambine più o meno vestite, con pose spesso ambigue, non erano state esposte, ma erano visibili sul sito della Tate. Oggi non è più così. Opere giudica-te interessanti prima del pro-

cesso, sembrano aver perso improvvisamente il proprio valore artistico, ma le modelle hanno il diritto morale di non voler essere esposte. L’impor-tante è, secondo il �losofo Matthew Kieran, non distrug-gere o censurare il lavoro di Ovenden. Anche se l’autore non avesse fatto nulla di male, queste immagini sarebbero state inquietanti perché gli impulsi oscuri possono esiste-re in ciascuno di noi. E poi, co-noscere i mali dell’artista cambia qualcosa nella valuta-zione della sua opera?Le Monde

Regno Unito

Arte perversa

Cultura

Arte

DR

Graham Ovenden, Ophelia

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Sono passati due anni da quando ho deciso di separarmi dall’uomo che stavo per spo-sare. In una serata mite, con una leggera brezza che agita le foglie alle nostre spalle, ci ritroviamo seduti al tavolo di un risto-rante. Passato il dolore, l’amicizia è intatta.

Parliamo delle cose che abbiamo condiviso, delle ra-gioni che ci hanno spinto a separarci, e poi lui mi stupi-sce dicendo: “Sai, l’unica cosa che rimpiango è che avremmo avuto dei bambini bellissimi e tu saresti sta-ta meravigliosa, sei una madre nata”. Io? Una madre nata? Su cosa basava questo suo giudi-zio, mi sono chiesta, e cosa intendeva dire? È vero che ho sempre adorato i bambini, allora come oggi. In e�etti, mi basta vederne uno per la strada cammi-nare per mano o in braccio a un genitore, per dirigermi “naturalmente” da quella parte. Ma è su�ciente, questo, per dire che sarei stata una buona madre? Non ne sono a�atto sicura.

Trent’anni dopo. Sono sempre single e adoro i bambini. Ormai sono abituata a sentirmi chiedere: perché non ti sei mai sposata? Non senti il bisogno di avere un compagno? Non ti senti sola? Non vuoi dei �gli? Anche se alcuni dei collegamenti mi sfuggono, sono domande che mi faccio spesso anch’io: desidero avere dei �gli? Mi per-do qualcosa se non divento madre? La maggior parte delle mie amiche lo desiderano intensamente: voglio-no sentire la vita crescere dentro di loro, essere incinte, “donare” la vita, amare incondizionatamente, avere qualcuno che un domani si prenderà cura di loro (e del loro compagno), vivere la gioia della maternità. Io non provo nessuna di queste cose. Signi�ca che sono un’in-sensibile? Che non ho sentimenti? Mento a me stessa quando dico che non provo alcun desiderio di avere dei �gli? Lo dico solo perché in realtà li desidero, ma non voglio sentirmi in alcun modo in difetto e quindi im-magino di non volerne? È di�cile dirlo. Ma sono sem-pre molto di�dente verso me stessa, e mi preoccupo: sono davvero la persona soddisfatta che credo di esse-re, o sto solo �ngendo?

Quella frase del mio amico non mi ha più abbando-nata. Ogni tanto ci ripenso e comincio a chiedermi: se sono così portata per diventare madre, allora perché non ho mai sentito un desiderio attivo di maternità? Ripenso alle mie amiche che parlano di un sentimento di amore incondizionato. Be’, non è una cosa che mi sia

del tutto sconosciuta: perché, allora, la gente la imma-gina associata solo ai �gli? Le mie amiche con �gli par-lano di notti insonni, di mariti irresponsabili, di sorelle e fratelli poco collaborativi, di iscrizioni scolastiche, di carriere abbandonate, di voti e università, non sento altro. E poi il solito commento, buttato lì: “Ma tu che ne sai? Non sei mai stata madre”.

Ho appena avuto il mio primo lavoro, in una casa editrice. Mio padre va dal direttore generale, un ben-galese gioviale, per a�dargli la sua �gliola. Il direttore mi dice che è la prima volta che assume una donna per

un posto di dirigente. Di solito la sua azienda preferisce non farlo perché poi le donne si sposano e fanno �gli. Lo dice come se fosse un crimine. Io gli promet-to che non lo farò. E mantengo la pro-messa, anche dopo aver lasciato quel lavoro. Niente matrimonio, niente �gli.

Mia madre e io stiamo parlando. Mi preoccupo per te, dice, come farai da vecchia? Tutti abbiamo bisogno di qual-cuno. Se non vuoi sposarti, perché non adotti un bambino? Ma è davvero una buona ragione per adottare un bambino,

le chiedo, avere qualcuno che ti faccia compagnia quando invecchi? E quali garanzie avrei, comunque? No, no, cambia subito registro lei. Non è per questo che dovresti adottare. Solo, pensa che nonni meravigliosi si perde questo bambino potenziale! Un buon motivo per adottare, non credi? Forse ne sa più di me, mi dico, e comincio a informarmi sulle possibilità di adozione. Per un po’, sono eccitata dal cambiamento di vita che mi aspetta, ma alla �ne mi manca il coraggio, o la mo-tivazione. E rinuncio.

Ho fondato una mia casa editrice, che pubblica libri di donne e sulle donne. È un lavoro che faccio con grande passione, che mi dà gioia, che mi coinvolge to-talmente. So che è quello che voglio fare per tutta la vita. Desidero in qualche modo lasciare un segno nel modo in cui la gente considera le donne, voglio essere parte del cambiamento. È una follia questa ossessio-ne? Perché non ho mai provato la stessa cosa per la ma-ternità? O sto solo compensando un desiderio inappa-gato? Mi dicono che la maternità è il destino di una donna, è quello che la completa. Allora perché pubbli-care libri è così importante? Eppure non mi sento in-completa, o inadeguata. Ho qualcosa che non va?

Da molti anni la mia amica Judith cerca di avere dei �gli. Ha avuto una serie di aborti spontanei ed è pro-

Naturalmente senza �gli

Sono sempre single e adoro i bambini. Ormai sono abituata a sentirmi chiedere: perché non ti sei mai sposata? Non senti il bisogno di avere un compagno? Non ti senti sola? Non vuoi dei �gli?

URVASHI BUTALIA

è un’editrice e femminista indiana. Questo articolo è uscito su Live Mint con il titolo Childless,

naturally. È tratto da Of mothers and others, a cura di Jaishree Misra, pubblicato da Zubaan con Save the Children Fund, India.

Urvashi Butalia

Pop

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GA

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fondamente depressa. I rapporti con suo marito stan-no diventando sempre più tesi. Entrambi desiderano ardentemente avere dei �gli, ma sembra proprio che non ci riescano. Un bel giorno io e lei ne parliamo, in una fredda città europea. Perché non adotti? le chiedo Come faccio? risponde. Non so neanche che cosa pro-verei per un bambino non mio. Ma sarà tuo, le assicuro. Anche se non lo avrai partorito sarà sempre tuo. Con-tinuiamo a parlare. Mi lancio in una difesa appassiona-ta dell’adozione, della sua importanza, della maternità che non è solo quella biologica. Tornata a casa in India,

le scrivo una lunga lettera, persuasiva, eloquente. Lei mi dice che è stata fondamentale, nella scelta che ha fatto. Oggi ha due belle bambine, sorelle, adottate nel-lo stesso paese, e ha scritto un libro sulla maternità che è diventato un best seller. Perché sono stata così con-vincente? A dire il vero non lo so.

Sono con la mia amica Mona Ahmed, una hijra, nel-la sua casa di Mehendiyan, a Delhi, un complesso resi-denziale con due moschee, una madrassa, due cimite-ri, un dhobi gat (lavatoio) e molte abitazioni. Maschio �no a 18 anni e poi castrato, Mona è diventata donna

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dopo essersi sottoposta all’intervento di cambio di ses-so. Aveva sempre desiderato avere un �glio, mi dice. Volevo stringere un bambino tra le braccia, crescerlo, imparare a essere madre. Oggi ha da poco passato i settant’anni, e una ventina d’anni fa ha realizzato il suo sogno, quando una vicina di casa è morta di parto e il marito non sapeva che farsene della bambina appena nata. Mona, allora, ha “creato” una famiglia dove lei era il padre, abbu, la sua amica trans Neelam era la ma-dre, ammi, e il suo maestro spirituale, Chaman, era la nonna, dadi. Nella realtà, però, i ruoli erano mescolati. Era Mona la vera madre di Ayesha, la bambina: l’ha nutrita, le ha dato un nome, una data di nascita e un’identità. Ho scelto il 26 gennaio come data di nasci-ta, mi ha detto, perché volevo che fosse libera come l’India. E ho imparato a fare la madre, ha aggiunto. An-davo tutti i giorni dalla pediatra e le chiedevo di inse-gnarmi come dovevo darle da mangiare, farle fare il ruttino, lavarla, cambiarla, quali erano le cose a cui do-vevo stare attenta, come dovevo fare per capire quan-do era il caso di alzarmi la notte, e così via. A essere madri si impara, dunque? Per le donne è un fatto istin-tivo, e per una persona come Mona, un padre che in realtà è una madre?

La �glia di Mona, Ayesha, viene a trovarmi. Parlia-mo della sua vita: una giovane donna cresciuta in una famiglia di transessuali, con un padre (Mona) che in realtà era la madre, e una nonna (Chaman) a cui tutti si rivolgevano al maschile, tranne Ayesha che la chiama-va nonna. Riesci a immaginare come può essere stato? mi chiede. Mi hanno dato tanto amore, ma una ragaz-zina ha bisogno anche di altre cose, crescendo, si fa tante domande su se stessa, sul suo corpo. A chi potevo rivolgermi? Non c’erano altre donne, solo questi uomi-ni-donna, queste persone dalla sessualità inde�nita. Mi sentivo così sola. Forse la maternità non è una cosa che si impara, dopo tutto.

Un giovedì mattina, Bina, la �glia del presswallah (lo stiratore) di fronte a casa mia, scappa di casa. Nessuno sospetta niente �no al pomeriggio. Era andata a scuola dove aveva un esame, forse dopo è uscita con gli

amici a festeggiare. Ma Bina è una “brava” ragazza, non esce senza prima avvertire i genitori, e così quan-do arriva la sera i genitori cominciano a preoccuparsi. Tornati a casa nella loro comunità, si chiedono se sia il caso di rivolgersi alla polizia. Temono uno scandalo: e se fosse solo un’evasione innocente? Magari la ragazza è andata da qualche parte e poi si è addormentata. Per-ché rendere pubblica la sua scomparsa? Ma quella sera manca da casa un altro ragazzo, il �glio di un vicino. I sospetti cominciano a trasformarsi in certezze, e i ge-nitori decidono di sporgere denuncia. Un paio di giorni dopo, la polizia ritrova i due ragazzi in una città vicina e li riporta a casa. Giurano che la loro è stata una fuga innocente: hanno solo fatto un giro allo zoo, sono stati al cinema e poi, per paura di essere sgridati dai genito-ri, hanno preso un autobus e sono andati a casa di un parente. Avete dormito insieme? chiedono i genitori

Storie vereChristina Mercado è stata eletta al provveditorato di Lytle, in Texas, con un voto di margine: l’unico. Solo 33 persone si sono recate alle elezioni della cittadina, che ha 2.500 abitanti, e un solo votante veniva dal distretto per il quale era candidata Mercado. Né lei né il suo rivale per il posto potevano votare, perché sono residenti in un altro distretto. “È una dimostrazione concreta del fatto che ogni voto è importante”, ha dichiarato il portavoce del provveditorato di Lytle.

preoccupati, usando degli eufemismi. Non esiste un modo diretto di chiedere a due ragazzini se hanno fatto sesso, non c’è un vocabolario adatto. No, no, rispondo-no loro con forza. I genitori non smettono di chiedere quello che i due ragazzi hanno capito benissimo che vogliono sapere.

Un mese dopo Bina è incinta. Sua madre e io la ac-compagniamo in una clinica vicina. Tentiamo di dire al medico che è stato un incidente, ma Bina è più velo-ce di noi. No, dice, non era la prima volta con quel ra-gazzo. Noi ammutoliamo. È chiaro che ha mentito a sua madre e a me. Sua madre è distrutta. Ho fatto così tanto per lei, ed è questa la ricompensa? Io capisco il suo dolore, ma mi chiedo anche: dov’è �nito l’amore incondizionato? Quand’è che è entrato in gioco il fat-tore ricompensa? In che modo i �gli devono ricompen-sarti? Bina abortisce e resta persona sgradita. Il ragaz-zo scompare dalla sua vita e poco dopo sposa un’altra. I peccatucci dei maschi sono più tollerati.

Due anni dopo Bina scappa di nuovo. Questa volta con un uomo sposato. Sua moglie è sterile, e lui sposa Bina e la porta a vivere nella sua casa. Bina gli dà due �gli, rendendolo l’uomo più felice del mondo. Ora è sposata, e anche madre. I suoi genitori sono sollevati e felici. Tutto risolto. È madre. Nessuno oserà più dire niente, ora. E oltretutto il marito è benestante. Legitti-mità e ricchezza: una combinazione vincente. In se-guito, Bina aiuterà il fratello ad avviare un servizio di taxi �nanziando l’acquisto di un’auto.

È venuta a trovarmi un’amica occidentale. Parlia-mo a cena. È il compleanno di suo �glio e lei non sa se chiamarlo o no. Hanno un rapporto di�cile, teso. Il �-glio ce l’ha con la madre perché pensa che lei non gli dedichi abbastanza tempo e attenzione, da quando si è separata dal padre. La madre è preoccupata perché il �glio non ha ancora trovato un lavoro. Alla �ne lo chia-ma. Tanti auguri, gli dice. Parlano, in tono a�ettuoso e poi, di colpo, esplodono rabbia, risentimento, quasi una sorta di odio. Lo sapevo, dice lui, fai sempre così, vuoi sempre morti�carmi. Lei cerca di spiegare, lui non vuole ascoltare, lei è sconvolta ma cerca di non troncare la conversazione. La telefonata �nisce male. Sono una cattiva madre? mi chiede. Faccio male a de-siderare una carriera? Ho fatto quello che ho potuto per lui, gli voglio bene, ma non sarebbe ora che prendesse in mano la sua vita? Secondo te che cosa dovrei fare? Non ho una risposta a questa domanda.

Sono a casa. Mia madre, novant’anni, non sta bene. Diventa ogni giorno più debole, non riesce a mangiare, dev’essere accompagnata al bagno. Un giorno, mentre l’aiuto a lavarsi mi chiede, come potrò mai ripagarti? E io chiedo a me stessa e a lei come le venga in mente un pensiero del genere. Ha passato gran parte della sua vita a crescere non uno ma quattro �gli, certamente le dobbiamo qualcosa. Di nuovo la storia della ricompen-sa. Via via che diventa più debole, mi ritrovo a organiz-zare la mia vita intorno ai suoi bisogni: lascio l’u�cio per tornare a casa a pranzo perché lei non resti sola, la metto a letto la sera e resto con lei, mano nella mano, �nché non si addormenta tranquilla, le faccio il bagno, l’accudisco, le dò da mangiare, la porto a passeggio,

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trascorro del tempo con lei… in altre parole, le faccio da madre. Un amico commenta, sei diventata tu, la ma-dre. Ne parlo con le amiche e scopriamo che ci trovia-mo tutte in situazioni simili, madri delle nostre madri. Diventiamo le nostre madri. È questo che s’intende, quando si parla di naturalità dell’essere madri?

Stiamo cercando di organizzare una riunione del direttivo di una ong di cui faccio parte. Siamo in sei e dobbiamo trovare una data che vada bene per tutti. Uno di noi, un uomo, dice che per lui andrebbe meglio un �ne settimana, perché ha un �glio che sta per spo-sarsi ed è molto occupato. Un’altra annuncia che sta per diventare nonna, e all’improvviso tutti cominciano a scambiarsi storie di �gli e nipoti, e a dire quanto sia meraviglioso. Io mi intrometto per dire che non so niente di queste cose, e loro mi consolano, non preoc-cuparti, ti nomineremo nonna onoraria. Niente �gli, niente preoccupazioni. È vero, penso, sono fortunata. Non dovrò mai preoccuparmi della scuola a cui iscrive-re mio �glio, o della media con cui sarà ammesso al college. Non dovrò neanche a�rontare le angosce più profonde che vivono tutte le madri.

Ma non c’è solo il sollievo. Le preoccupazioni resta-no. Ho appena visto un’amica letteralmente distrutta per la perdita del �glio ventenne morto in un inciden-te. È inconsolabile, si sente come se le avessero strap-pato una parte di sé, un pezzo del suo stesso corpo. La maternità è anche questo, l’attaccamento profondo e intenso che ti lega a un �glio, la disperazione terribi-le e devastante quando lo perdi. E io? Sarei riuscita a

sopravvivere a un così grande dolore, se fosse succes-so a me? Inutile fare congetture, ma il solo pensiero di una madre che perde un �glio mi riempie il cuore di angoscia: non può esserci lutto peggiore. Non avere �gli è una consolazione, ma solo da un punto di vista egoistico.

E poi m’interrogo. Per anni mi sono de�nita una donna single. Una de�nizione importante, per me: es-sere single è una condizione positiva, che non implica una mancanza o una negazione, come nella formula-zione “non sposata”. Per la condizione di chi non ha avuto �gli, invece, non esistono formulazioni positive. Sentiamo parlare solo di coppie “senza” �gli, e di don-ne “sterili”. Perché? Io non ho fatto la scelta di non ave-re �gli, ma è andata così. Non provo un senso di perdi-ta per questo, la mia vita è stata grati�cante in tanti altri modi. Perché dovrei de�nirla nei termini di una man-canza? Sono una donna sterile? Non riesco a conciliare questa de�nizione con quello che so di me stessa.

Ricordo una delle autrici che abbiamo pubblicato, una domestica che si chiamava Baby Halder. Aveva avuto il suo primo �glio quando aveva solo tredici anni. Lei stessa una bambina, era diventata madre senza quasi rendersene conto. A un certo punto, ripensando alla sua infanzia, aveva osservato quanto fosse stata breve ed e�mera. Un pomeriggio, s�nita dopo aver accolto in casa e servito i pretendenti di sua sorella, si lasciò scivolare a terra lungo una parete, e si mise a ri-�ettere sulla sua vita. La sua infanzia era stata così bre-ve che la vide scorrere tutta davanti ai suoi occhi in

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Dal 1972 al 1977, ogni primavera anda-vo a Praga una settimana o dieci giorni per incontrare un gruppo di scrittori, giornalisti, storici e profes-sori che all’epoca erano perseguitati dal regime totalitario cecoslovacco

sostenuto dall’Unione Sovietica.Ero seguito quasi sempre da un uomo in borghese,

nella mia camera di albergo c’erano microspie e il tele-fono della stanza era intercettato. Ma fu solo nel 1977, mentre stavo lasciando un museo dove ero andato a vedere una ridicola mostra di pittura sul realismo so-cialista sovietico, fu solo al sesto anno che la polizia mi fermò. L’intervento mi fece paura e il giorno dopo, ascoltando il loro consiglio, lasciai il paese.

Anche se mi tenni in contatto per posta – a volte po-sta cifrata – con alcuni degli scrittori che avevo cono-sciuto e aiutato a Praga, non riuscii a procurarmi un visto per tornare in Cecoslovacchia per dodici anni, �no al 1989.

In quell’anno i comunisti furono cacciati e salì al potere il governo democratico di Václav Havel, in mo-do pienamente legittimo (non diversamente dal gene-rale Washington e dal suo governo nel 1788) per voto unanime dell’assemblea federale e con il sostegno schiacciante del popolo ceco.

A Praga passavo molto del mio tempo con il roman-ziere Ivan Klíma e sua moglie Helena, che è psicotera-peuta. Ivan e Helena parlavano inglese, e insieme a molti altri – tra cui i romanzieri Ludvík Vaculík e Milan Kundera, il poeta Miroslav Holub, il professore di let-teratura Zdenek Strybyrny, la traduttrice Rita Budino-va-Mylnarova, che in seguito Havel ha nominato sua ambasciatrice negli Stati Uniti, e lo scrittore Karol Si-don, dopo la Rivoluzione di velluto capo rabbino di Praga e poi della Repubblica Ceca – questi amici mi dettero un’ampia formazione su cos’era la feroce re-pressione governativa in Cecoslovacchia.

Questa formazione prevedeva anche visite, in compagnia di Ivan, ai luoghi dove i suoi colleghi – co-me lui privati dei loro diritti dalle autorità – svolgevano gli umili lavori a cui l’onnipresente regime li aveva malevolmente assegnati. Una volta sbattuti fuori dall’Unione degli scrittori, gli avevano proibito di pub-blicare e insegnare e guidare una macchina e guada-gnarsi da vivere decentemente ciascuno secondo la sua vocazione. Per sicurezza, ai loro �gli, i �gli del seg-mento pensante della popolazione, era stato proibito di frequentare le istituzioni accademiche.

Alcuni di quelli che conobbi e con cui parlai vende-vano sigarette nei chioschi agli angoli delle strade, certi maneggiavano una chiave inglese nell’azienda idrica pubblica, altri passavano le giornate in bicicletta

pochi istanti. Ne leccai ogni attimo, disse, come la mucca lecca il suo vitello, per assaporarla e farne teso-ro. Anche se la legge lo vieta, per tante delle nostre ra-gazze la maternità arriva prima che abbiano smesso di essere bambine. È una cosa giusta? Perché è tanto va-lorizzata?

Niente è semplice, però. Recentemente, sui gior-nali si è parlato molto della storia di una coppia benga-lese residente in Norvegia: le autorità norvegesi gli hanno tolto i due bambini. Stando alle cronache, uno dei bambini soffrirebbe di un cosidetto “disturbo dell’attaccamento”: comincia a sbattere la testa contro il muro ogni volta che vede la madre. I giornali parlano di un rapporto teso, con�ittuale e a volte violento tra madre e �glio. Alla �ne, la madre è stata giudicata ina-datta a occuparsi dei bambini, che sono stati a�dati a uno zio. Quando i bambini sono arrivati in India, la questione ha assunto connotazioni completamente diverse, di carattere politico e nazionalistico. Ora il problema è se la Norvegia debba decidere cosa è giu-sto e cosa non lo è per i nostri bambini. Nel Bengala, la commissione per i diritti dei minori ha stabilito che i due bambini devono essere riconsegnati alla madre. Nessuno degli articoli apparsi sui giornali dice niente sulla e�ettiva capacità della donna di occuparsi dei �-gli, o degli e�etti che questo continuo tira e molla può avere su di loro.

La mia conoscenza dei fatti si basa solo su quel che riferiscono i giornali e non saprei dare un giudizio sui torti e le ragioni delle parti coinvolte. Il problema che mi pongo è un altro. Nel forum di discussione online Feministsindia circola un’aria di soddisfazione per la decisione di restituire i �gli alla madre. Si dà per scon-tato che la madre sia la tutrice “naturale” dei �gli (tor-niamo alla storia della “naturalità”), la persona più adatta a prendersi cura di loro. Perché? Come femmi-niste abbiamo sempre messo in discussione la “natu-ralità” della maternità, eppure eccoci qua a darla per scontata, senza neppure prendere in considerazione l’idea che le madri possano essere violente, incapaci di occuparsi dei loro �gli e per�no poco disposte a farlo. Mi chiedo: come stanno le cose veramente? Le autori-tà norvegesi non hanno tenuto conto delle diverse sensibilità culturali? O, come spesso accade, hanno creduto soltanto alla versione del padre? Tutto quello che hanno scritto i giornali sulle presunte violenze del-la madre sarebbe falso, dunque? Oppure noi, come femministe, stiamo ria�ermando il mito della mater-nità? Dove sta la verità? Il rapporto tra una madre e un �glio è sempre meraviglioso? Non ho risposte a queste domande.

Allora, quali conclusioni trarre? La maternità è un fatto naturale? Non avere �gli è una maledizione? La sterilità è qualcosa di spaventoso, una vita di mancan-za, di perdita di quello che avrebbe potuto essere? O solo un altro modo di vita? Una scelta, un caso, una cir-costanza, chiamatela come volete, ma per me è una vita felice e appagante nonostante sia – o forse proprio perché è – come si suol dire “senza �gli”. Per quelle co-me me che avessero ancora dei dubbi, state tranquille, si vive benissimo. dic

Quando andavo a Praga

Philip Roth

PHILIP ROTH

è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo libro è Nemesi

(Einaudi 2011). Questo articolo è il discorso per l’accettazione del Pen/Allen foundation literary service.

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La stampa francese sta dando in-consueta risonanza a una tesi di dottorato discussa in novembre all’università di Borgogna, autrice Annie Lasne, titolo: La singulière réussite scolaire des enfants d’ensei-gnants: des pratiques éducatives pa-rentales spéci�ques? Scavando nel-le statistiche e integrandole con sondaggi qualitativi, la tesi (tutta leggibile in rete) analizza i perché del successo scolastico dei �gli di insegnanti, maggiore di quello di �gli di altri appartenenti al ceto dirigente e intellettuale. Quasi

mezzo secolo fa gli alunni di don Lorenzo Milani nella Lettera a una professoressa disegnarono impie-tosamente l’immagine di “Pierino del dottore” o, meglio, il ritratto di una scuola che fa studiare Pierino e non sa fare altrettanto con “Gianni”, �glio di chi non ap-partiene al Pil, Partito italiano laureati.

Ancora oggi a qualcuno come Ernesto Galli della Loggia queste paiono “demenzialità”, ma è male informato. Le statistiche naziona-li e le indagini comparative inter-

nazionali si sono accumulate, in Italia le avviò Fiorella Kostoris, e sappiamo che dal più al meno i si-stemi scolastici stentano a garan-tire (come in Finlandia o Corea del Sud) equità di percorsi e risul-tati ad allievi che vengono da fa-miglie e classi sociali di diversa le-vatura culturale. I �gli di inse-gnanti risultano i più avvantaggia-ti �no alle medie superiori. Lasne scarta ipotesi ovvie e in�ne addita la causa nella particolare contigui-tà di atmosfere e informazioni tra la scuola e l’ambito familiare.

Scuole Tullio De Mauro

Genitori che insegnano

consegnando ciambelle ai negozi, altri ancora lavava-no �nestre o impugnavano la scopa come aiuto custo-de di qualche sperduto museo della città. Queste per-sone, come ho lasciato intendere, erano la crema dell’intellighenzia del paese.

Così era e così è al tempo di un sistema totalitario. Ogni giorno porta un nuovo crepacuore, una nuova scossa, maggiore impotenza, e l’ennesima riduzione della libertà e del libero pensiero in una società censu-rata già oppressa e imbavagliata.

I soliti rituali dell’umiliazione: la perdita progressi-va della tua identità, la soppressione della tua autorità personale, l’eliminazione della tua sicurezza. Un in-tenso desiderio di solidità, di equilibrio, di fronte a una pervasiva incertezza. L’imprevedibilità come nuova norma e l’angoscia continua come suo e�etto oltrag-gioso.

E l’ira. La farneticazione maniacale di un essere ammanettato. Deliri di rabbia inutile che devastano solo te stesso. Insieme a tua moglie e ai tuoi �gli, im-pregnarsi di tirannia con il ca�è del mattino. Il costo dell’ira.

La macchina spietata e traumatizzante del totalita-rismo che tira fuori il peggio da tutto e, con il tempo, tutto diventa più di quanto si possa sopportare.

Una storiella divertente da un tempo grigio e noio-so, e poi me ne starò buono e zitto.

La sera del giorno successivo al mio incontro con la polizia, quando lasciai saggiamente Praga in tutta fretta per tornarmene a casa, Ivan fu prelevato a casa sua e, come altre volte, interrogato per ore. Solo che quella volta non lo torchiarono tutta la notte sulle sue attività sediziose e clandestine o su quelle di Helena e della schiera di dissidenti piantagrane e disturbatori della quiete totalitaria. Invece – con un cambiamento piacevole per Ivan – gli chiesero dei miei annuali viag-gi a Praga.

Come poi mi raccontò in una lettera, ebbe solo una

risposta – una sola – da dare a tutta la loro accanita in-quisizione notturna sul perché ogni primavera me ne andavo a zonzo per la città.

“Non leggete i suoi libri?”, chiese Ivan ai poli ziotti.Come prevedibile, loro furono presi in contropiede

da questa domanda, ma Ivan si a�rettò a illuminarli.“Viene per le ragazze”. gc

In�nito calpestare. Andare a ritroso nei ruscelli

o giacere a fondo, come pesci.

I regolatori in questo blu

dirigono l’imbrunire sulla mia pelle.

Ruggine dai palazzi alti. Silenzio.

La forza prosegue, ipnoticamente

come geometria. È uno scomparire.

Gli animali della pianura posano

il loro pelo febbrile accanto alle pietre.

Il mio cuore è pieno di sangue.

E tutti i luoghi mai raggiunti

sono in me, uno spiraglio

di �nestre aperte.

Ste�en Popp

Poesia

Respirare, non smettere

STEFFEN POPP

è un poeta e scrittore tedesco. È nato a Greifswald nel 1978 e vive a Berlino. Questa poesia è raccolta in Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino (Scheiwiller 2011), a cura di Theresia Prammer. Traduzione di Theresia Prammer.

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Scienza

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Il progetto della Herakles Farms, una �liale di un fondo speculativo di New York, di realizzare una piantagione di palme da olio in Camerun sembra de-

stinato a fallire. Dopo che due ong, Green-peace e l’Oakland institute, hanno accusato la Herakles Farms di aver mentito e corrotto diverse persone, il 18 maggio l’azienda ha annunciato la sospensione delle sue attività in Camerun.

Nel 2009 la sua �liale camerunese, la Sithe Global Sustainable Oils Cameroon (Sgsoc), aveva ottenuto dal ministero dell’economia una concessione di 73mila ettari di terreno nel sudovest del paese, alla frontiera con la Nigeria, per produrre olio di palma. Ora Greenpeace e l’Oakland institu-te sperano di aver dato il colpo di grazia all’iniziativa, rendendo pubblico il 22 mag-gio un rapporto che rivela le contraddizioni

tra i discorsi pubblici della Herakles Farms e il contenuto di documenti interni dell’azienda, interviste ed email dei suoi dipendenti.

Il contrasto è particolarmente forte tra il modo in cui Bruce Wrobel, amministratore delegato della Herakles Farms, presentava l’azienda nel settembre 2012 in una lettera aperta e il contenuto di documenti destina-ti ad attirare gli investitori. Nel testo Wro-bel, che si de�nisce “un difensore dell’am-biente e un militante nella lotta alla pover-tà”, parlava di “un progetto commerciale di olio di palma di dimensioni modeste desti-nato a favorire l’occupazione, lo sviluppo sociale e a migliorare la sicurezza alimenta-re”. Il tono era molto diverso in un docu-mento interno �nito nelle mani delle due ong, in cui la Herakles Farms descrive tutti i vantaggi di un investimento in Camerun rispetto alla Malesia, primo produttore mondiale di olio di palma: a�tti bassissimi (tra 0,1 e 1 dollaro per ettaro rispetto ai “tre o quattromila” della Malesia); esenzione �scale per dieci anni dopo l’entrata in pro-duzione della piantagione; stipendi più bas-si della metà e così via. In totale un rispar-mio valutato in 450 milioni di dollari (350 milioni di euro) nel corso del ciclo di vita

della piantagione. Inoltre “la disoccupazio-ne di massa in Camerun fa pensare che non ci saranno pressioni salariali ancora per molti anni”, osservava la Herakles Farms.

“La cosa più incredibile è il cinismo. Quando si guarda il sito internet della He-rakles Farms, sembra quello di un’ong, mentre le loro intenzioni sono chiaramente quelle di spremere il Camerun come un li-mone”, osserva Frédéric Mousseau, diret-tore politico dell’Oakland institute, che as-sicura che tutti i documenti sono stati rico-nosciuti come autentici.

Un segnale ai mercati Il rapporto mette in evidenza una dichiara-zione di Wrobel del settembre 2012, secon-do cui il legno ottenuto dal disboscamento della concessione doveva essere venduto per donare il ricavato al governo cameru-nese, e un documento del marzo 2013 nel quale la Herakles Farms a�erma che “la vendita del legno potrebbe permettere un immediato aumento dei pro�tti”.

Alcune testimonianze ottenute dalle ong parlano di un ricorso frequente alla cor-ruzione delle autorità locali. In un’intervi-sta, un alto funzionario del catasto cameru-nese ha raccontato di come gli fossero stati promessi dei posti di lavoro per i suoi paren-ti da Hamilton Jones, all’epoca direttore operativo della Herakles Farms in Came-run. In gennaio un rapporto del ministero delle Foreste a�ermava che la Sgsoc aveva ottenuto delle terre “ricorrendo spesso all’intimidazione e alla corruzione, soprat-tutto nei confronti dei capi e dei responsa-bili delle varie comunità locali”. Da mesi le ong accusano la Sgsoc di essere nell’illega-lità perché non ha ottenuto il decreto presi-denziale richiesto per le concessioni di terre demaniali superiori a 50 ettari, e perché im-pedisce agli abitanti l’accesso ai campi e alle risorse forestali. La decisione della He-rakles Farms di sospendere le attività in Camerun e di mettere in cassa integrazione 690 dipendenti locali fa seguito a un’in-giunzione del ministero delle foreste. Quest’ultimo aveva già registrato nel 2012 molti disboscamenti illegali, che avevano costretto la Sgsoc a pagare una multa di 24,5 milioni di franchi Cfa (37.350 euro).

Questa sospensione pre�gura la �ne del progetto? Per Brendan Schwartz, di Green-peace, “l’esito della vicenda, qualunque sia, sarà un segnale per i mercati e gli farà capire quand’è che un progetto come questo può o meno essere realizzato”. adr

Un vivaio di palme da olio della Herakles Farms in Camerun

Alla conquista delle terre d’Africa

Mentre il prezzo dell’olio di palma sale, i produttori cercano nuove terre per piantare i loro alberi. In Camerun un gigantesco progetto è al centro di molte polemiche

Gilles van Kote, Le Monde, Francia

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IN BREVE

Biologia Il mantello bianco del-le tigri, molto raro in natura, di-pende dalla mutazione di un ge-ne chiamato SLC45A2. Secondo Current Biology, la mutazione è una normale variazione del co-lore della pelliccia di tigri altri-menti sane. Se le tigri bianche sono così rare in India, è perché sono state attivamente cacciate. Salute Sembra che il virus dell’in�uenza aviaria H7N9 possa trasmettersi attraverso il contatto diretto, almeno tra i furetti, scrive Science. Il virus si trasmette invece male per via aerea. Evoluzione L’avversione per lo zucchero degli scarafaggi Blat-tella germanica è stata acquisita di recente. La presenza di trap-pole con esche dolci, introdotte una trentina di anni fa, avrebbe modi�cato il sistema neurosen-soriale degli insetti: alcuni sca-rafaggi non sono più attirati dal glucosio delle trappole, spiega Science.

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BIOLOGIA

I funghi che ci popolano Più o meno 200 tipi di funghi soggiornano paci�camente nei nostri piedi: un’ottantina colo-nizzano il tallone, circa 60 le un-ghie e 40 la pelle tra le dita. Al-tre comunità risiedono sul pal-mo della mano, sull’avambrac-cio e nell’interno del gomito do-ve si contano tra i 18 e i 32 diversi funghi. Torace e addome sono invece le regioni meno abitate. Il censimento fungino è opera di un gruppo di biologi del Natio-nal human genome research in-stitute di Bethesda, che ha se-quenziato il dna dei funghi iso-lati in 14 diversi punti del corpo di dieci persone sane. Media-mente queste comunità convi-vono in equilibrio tra di loro e in simbiosi con l’ospite, spiega Na-ture. Quando l’equilibrio si rompe i funghi nocivi possono prendere il sopravvento e dar luogo a micosi, come il piede d’atleta.

ANTROPOLOGIA

L’allattamento di Neandertal Le donne neandertaliane allat-tavano la prole in modo esclusi-vo per sette mesi e la svezzava-no dopo circa 14 mesi. È quanto risulta dall’analisi delle concen-trazioni di bario e calcio in denti moderni e fossili, elementi che variano a seconda dell’alimen-tazione del bambino. Se confer-mato, scrive Nature, sarebbe un tempo di allattamento più breve che nella popolazione umana moderna.

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Gran parte degli zuccheri in eccesso che assumiamo viene dalle bibite?

Dagli anni settanta la percen-tuale media di calorie giorna-liere che viene dalle bibite è più che raddoppiata negli Stati Uniti. I nuovi dati dei Centri per il controllo e la prevenzio-ne delle malattie, però, dimo-strano che la maggior parte degli zuccheri in eccesso pre-senti nella dieta statunitense non deriva dalle bibite ma da-

gli alimenti. Pur essendo ovvi bersagli delle campagne sani-tarie, le bevande gassate e zuccherate rappresentano in media un terzo delle calorie degli zuccheri in eccesso con-sumati negli Stati Uniti in un giorno normale. Quasi il 70 per cento delle calorie degli zuccheri in più assunti quoti-dianamente vengono invece da prodotti trasformati come pane, marmellata, dolci e ge-lato, ma anche salsa di pomo-doro, condimenti vari, cracker

e cereali misti. In genere sulle etichette gli ingredienti sono elencati per peso in ordine de-crescente. Per capire se un prodotto è molto zuccherato dovrebbe bastare controllare se lo zucchero, in una forma o nell’altra, compare ai primi posti. Conclusioni La maggior parte degli zuccheri in eccesso con-sumati negli Stati Uniti in un giorno normale viene dagli alimenti e non dalle bibite.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Da dove arriva lo zucchero

Neuroscienze

Quel prurito irresistibile

Il prurito cronico, come quello indotto da farmaci o malattie, può essere di�cile da eliminare. Alcuni antidolori�ci, come la mor�na, creano una sensazione di prurito così intensa e non trattabile da costringere a modi�care la terapia. È stato però individuato un composto chimico speci�co che fa da mediatore

della percezione del prurito. Già si sapeva che la sensazione è trasmessa da alcune cellule nervose, quelle del tipo TRPV1, coinvolte anche nella trasmissione della percezione del calore e del dolore. Queste cellule inviano al cervello la sensazione di prurito grazie alla produzione della molecola Nppb. Se i neuroni non possono produrre la Nppb, anche la sensazione di prurito scompare. I topi che mancano arti�cialmente del neuropeptide Nppb non si grattano neanche quando vengono a contatto con sostanze che inducono il prurito, come l’istamina. Ci sono inoltre altre fasi nella trasmissione della sensazione di prurito, che coinvolgono i neuroni nel midollo spinale. Rimane comunque lontana una cura, perché l’Nppb è essenziale per altri processi vitali e non si può quindi bloccare le sue l’azione. Conoscendo però tutti i meccanismi della trasmissione sensoriale, dovrebbe esser possibile immaginare nuove terapie.

Science, Stati Uniti

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96 Internazionale 1002 | 31 maggio 2013

Il diario della Terra

Stati UnitiUragano Sandy

776mila CubaUragano Sandy

343mila

CiadAlluvionistagionali500mila

NigerAlluvionistagionali530mila

NigeriaAlluvionistagionali6,1 milioni

Sud SudanAlluvionistagionali340mila

IndiaPrimi monsoni

6,9 milioniSecondi monsoni

2 milioniCiclone Nilam

210mila

PakistanAlluvioni

da monsoni1,9 milioni

BangladeshAlluvioni

da monsoni600mila

Corea del NordAlluvioni

da monsoni212mila

GiapponeAlluvioni

a Kyushu e frane250mila

FilippineTifone Pablo

1,9 milioniMonsoni ed e�etti

del tifone 1,6 milioni

Terremoto di Negros187mila

CinaTifone Hakui

21 milioniMonsoni giugno

1,4 milioniTifoni Saola&Damrey

867milaTifone Kai-Tak

530milaMonsoni aprile

443milaTerremoto nello Yunnan

185mila

MadagascarCiclone Giovanna

190mila

PerùAlluvioni legate

alla Niña138mila

Totale32,4 milioni

di sfollati

Paesi con nuovi sfollati Paesi con almeno 50mila sfollati Paesi dove gli sfollati sono almeno l’1% della popolazione

Ambiente Un mondo di sfollati

Alluvioni Le alluvioni che hanno colpito il sudest della Norvegia hanno costretto cen-tinaia di persone a lasciare le loro case. Due persone sono morte negli allagamenti nel nord dell’Algeria.

Terremoti Un sisma di magni-tudo 8,3 è stato registrato nel mare di Okhotsk, al largo della Russia. Non ci sono state vitti-me. Scosse più lievi sono state registrate a Tonga, nello Ye-men, in Algeria e in Canada. Vulcani Il risveglio del vulca-no Copahue, al con�ne tra il Cile e l’Argentina, ha costretto il governo cileno a trasferire duemila persone.

Tornado Sedici persone sono rimaste ferite nel passaggio di un tornado a sud di Mosca, in Russia.

Cetacei L’Islanda ha autoriz-

zato la ripresa a giugno della caccia alle balenottere.

Cavalli L’Australia ha avviato l’abbattimento di decine di mi-gliaia di cavalli selvaggi consi-derati nocivi per l’ambiente. Dighe La Repubblica

L’economia dello scambio sembra non piacere alle auto-rità di New York, che hanno chiuso, almeno per ora, tre so-cietà per la condivisione di be-ni e servizi: la SideCar Techno-logies, che permetteva lo scambio di passaggi in auto gratuiti, per una violazione dei regolamenti sul noleggio di au-toveicoli; la RelayRides, un si-stema per noleggiare la propria auto ad altre persone, per pub-

blicità ingannevole e violazio-ne della legge sulle assicura-zioni; e la Airbnb, un sito che mette in contatto i viaggiatori con chi vuole a�ttare la sua casa per brevi periodi, che avrebbe violato le leggi sugli alberghi. Non è solo New York a contrastare l’economia della condivisione, scrive Grist. Già la California aveva cominciato a chiedersi come inserire que-ste iniziative nelle attuali strut-

ture normative ed economi-che. Ma i servizi peer-to-peer spesso s�dano le aziende esi-stenti e le amministrazioni, e non si adattano ai regolamenti. Bloccarli signi�ca penalizzare chi, escluso dall’economia tra-dizionale, ha trovato un’alter-nativa nell’economia della condivisione. Il consumo col-laborativo è alle prime battute e si dovrà adattare alle leggi o dovrà cercare di cambiarle.

Ethical living

L’economia della condivisione

Democratica del Congo sta progettando la costruzione di un’enorme diga sulle casca-te Inga del �ume Congo. Avrà una capacità di 40mila megawatt, superando il primato mondiale della diga cinese delle Tre gole. Il �usso dell’acqua è così forte che

non sarà necessario creare un grande bacino per far girare le turbine. Ma la maggior parte dei congolesi non bene�cerà dell’energia perché vive in aree rurali lontane dalle reti elettriche. La diga potrebbe fornire energia alla Nigeria, all’Egitto e anche all’Europa.

Più di 32 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case nel 2012 a causa di alluvioni, tempeste, terremoti e altri disastri naturali. La maggior parte dei disastri è legata ai cambiamenti climatici, denuncia il nuovo rapporto dell’Internal displace-

ment monitoring centre fondato dal Norwegian refugee council. L’Asia e l’Africa centroccidentale sono state le regioni più colpite. Le alluvioni in India e in Nigeria sono responsabili del 41 per cento degli sfollati nel mondo.

Fonte: Dmc/Nrc

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 97

Il 18 maggio 2013 gli astro-nauti della Stazione spaziale in-ternazionale hanno fotografato l’eruzione del vulcano Pavlof. L’angolazione obliqua della sta-zione permette di vedere bene il pennacchio di cenere. La visua-le dall’alto verso il basso dei sa-telliti non permette di vederlo

con la stessa chiarezza. Situato nell’Arco aleutino,

circa mille chilometri a sudo-vest di Anchorage, in Alaska, il vulcano Pavlof ha cominciato a eruttare il 13 maggio 2013, libe-rando nell’aria lava e una nube di cenere alta seimila metri.

Quando è stata scattata la

foto piccola a sinistra, la Stazio-ne spaziale internazionale si trovava a 760 chilometri dal vulcano, a sudovest (49,1° di la-titudine nord, 157,4° di longitu-dine ovest). Il pennacchio si estendeva sull’oceano Paci�co settentrionale verso sudest. –Robert Simmon

Il pianeta visto dallo spazio 18.05.2013

Il vulcano Pavlof, in Alaska, Stati Uniti

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Tecnologia

Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 99

Forse per prevedere la reazione della società all’arrivo dei compu-ter da indossare basta leggere il libro per bambini La battaglia del

burro, scritto dal Dr. Seuss. Il libro racconta lo scontro tra due specie di uccelli. Da un lato ci sono gli Zighi, che mangiano il pane con il burro spalmato sotto. Dall’altro gli Zaghi, che preferiscono spalmare il burro sopra. Le di�erenze tra i due popoli portano alle soglie di una guerra. Lo scontro ideolo-gico tra Zighi e Zaghi assomiglia a quello tra i fan e i detrattori dei computer da indossa-re.

L’anno scorso, dopo la presentazione dei Google Glass, gli occhiali progettati da Mountain View che contengono un compu-ter in miniatura, li ho provati e mi hanno impressionato. Pochi mesi dopo, però, a una festa aziendale ho incontrato delle per-

sone che li indossavano. Le telecamere dei Google Glass si muovevano sopra i loro oc-chi, invadendo la privacy di tutti. C’erano solo due scelte: stare davanti all’obiettivo o andarsene. Il problema non riguarda solo Google. Memoto, per esempio, è una picco-la macchina fotogra�ca automatica che può essere indossata sulla camicia come una spilla. Può scattare due immagini al minuto e caricarle in rete in pochi secondi. Anche la Apple sta lavorando a prodotti simili: ha re-gistrato dei brevetti per un display a sovrim-pressione, come quello dei piloti dell’avia-zione, collegato a una macchina fotogra�-ca. Entro la �ne dell’anno, l’azienda dovreb-be poi presentare il suo iWatch. Nel frat-tempo diverse startup della Silicon valley stanno costruendo degli apparecchi capaci di scattare foto in ogni momento.

Pubblico e privatoChi non vuole essere fotografato cosa deve fare? Per i fan dei computer da indossare gli altri dovrebbero semplicemente adattarsi. “Quello che succede in pubblico è patrimo-nio di tutti. Non voglio chiedere il permesso per scattare una foto in situazioni simili”, spiega Je� Jarvis, professore di giornalismo alla City University di New York. Secondo

Jarvis, la società occidentale ha già vissuto qualcosa di simile nell’ottocento, con l’arri-vo delle prime macchine Kodak. Nell’ago-sto del 1899 il New York Times pubblicò un articolo su un gruppo di fotogra� che si di-vertivano a immortalare le ragazze. “Tra i villeggianti è in corso una ribellione contro l’uso promiscuo delle macchine fotogra�-che”, scriveva il corrispondente da Newport, nel Rhode Island, “e alcuni han-no minacciato di punire chiunque continui a usarle in modo così sregolato”. Secondo un altro articolo una donna aveva puntato un coltello contro un uomo che aveva cerca-to di fotografarla, “distruggendo” la mac-china fotogra�ca prima di andarsene per la sua strada.

La storia ricorda un po’ lo scontro tra Zi-ghi e Zaghi. Con il tempo la società si è adat-tata alla presenza delle macchine fotogra�-che, ma ci sono volute molte lenti spaccate e azioni legali. Oggi viviamo in un mondo popolato da un miliardo di smartphone con macchina fotogra�ca integrata. Ma c’è una di�erenza importante tra un cellulare e un computer da indossare: il telefono si tiene in tasca o in borsa, mentre l’altro è attaccato al corpo. “La maggior parte delle persone non pensa alla privacy, ma al decoro socia-le”, spiega Thad Starner, consigliere tecni-co del Google Glass team. Starner ha speri-mentato diversi computer da indossare, e racconta che, nonostante lo scetticismo ini-ziale, le persone si abituano in fretta alla macchina fotogra�ca piazzata sopra l’oc-chio del loro interlocutore. Nel corso degli anni i dispositivi di Starner sono diventati sempre meno invadenti. Secondo lui il con-cetto di protezione della privacy deve esse-re incluso nella progettazione dei computer da indossare.

“I Google Glass hanno un display tra-sparente, così tutti possono vedere cosa sta facendo l’utente”. E Starner ha l’abitudine di s�larsi gli occhiali prima di entrare in un luogo pubblico, per rispetto ai presenti. Non tutti sono così premurosi. Ne ho avuto la prova questo mese alla conferenza Google I/O, dove la gente se ne andava in giro un po’ ovunque (anche nei bagni) indossando occhiali in grado di scattare una foto con un battito di ciglia. Alla �ne di La battaglia del burro tutti e due i popoli si trovano tra le ma-ni una bomba che può distruggere il mondo intero. Due anziani, Zigo e Zago, discutono su cosa fare. E la storia �nisce con queste parole: “Dobbiamo solo avere pazienza. Vedremo, vedremo”. as

Occhiali indiscreti

I Google Glass sono solo il primo passo. I computer da indossare stanno per invadere il mercato. Molti utenti sono entusiasti, ma altri sono preoccupati per gli e�etti che avranno sulla privacy

Nick Bilton, The New York Times, Stati Uniti

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Alla conferenza I/O di San Francisco, il 15 maggio 2013

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Economia e lavoro

Qualche mese fa il Fondo moneta-rio internazionale (Fmi) aveva fatto mea culpa sui suoi interven-ti nell’eurozona. Uno studio

dell’istituto puntava il dito contro i molti-plicatori �scali, i coe�cienti con cui si cal-cola l’e�etto dei tagli alla spesa pubblica sul pil, de�nendoli un po’ troppo ottimisti-ci. Il 23 maggio è arrivato un secondo rav-vedimento con una ricerca dal titolo sopo-rifero: “Ristrutturazione del debito pubbli-co. Recenti sviluppi e implicazioni per l’inquadramento politico e normativo dell’Fmi”.

Il documento è diviso in due parti: la prima è un’analisi del passato, incentrata in particolar modo sulla ristrutturazione del debito greco, mentre la seconda deli-nea uno scenario futuro. Alla base c’è l’idea che nella crisi dell’euro la ristrutturazione

del debito pubblico (la rinegoziazione del debito da parte di uno stato insolvente at-traverso modi�che alle condizioni del pre-stito) debba avvenire il prima possibile. Secondo il Fondo, invece, la ristrutturazio-ne del debito greco di un anno fa è stata fatta con un ritardo preoccupante e danno-so. Gli europei hanno convinto l’istituto ad accettare una visione ottimistica del futuro del debito greco. Come mai?

Il motivo è che alcune grandi banche dell’eurozona erano troppo esposte al de-bito della Grecia per sostenere una ristrut-turazione prima del maggio del 2012. I go-verni e le istituzioni europee temevano che se la riduzione del debito greco fosse stata anticipata, Atene si sarebbe rilassata sul fronte delle riforme e avrebbe potuto cau-sare gravi problemi al Portogallo e all’Ir-landa o, peggio ancora, alla Spagna e all’Italia. L’eurozona, dice il Fondo, doveva istituire un solido fondo di salvataggio �n dall’inizio ed evitare il contagio della ri-strutturazione greca iniettando subito li-quidità nei paesi in crisi. Un ragionamento sorprendente, visto che l’istituto ha modi-�cato le regole sull’emissione dei �nanzia-menti il 9 maggio 2010, proprio mentre approvava il salvataggio della Grecia. È

stata una cattiva idea? La risposta, a quanto pare, è sì. Ma non c’era l’analisi di sosteni-bilità a garantire che il debito pubblico di un paese fosse gestibile e che l’Fmi poteva partecipare al salvataggio? Sì. E, a quanto pare, le analisi sulla sostenibilità del debito greco sono state “rigorose”. Ma poi nello studio si legge: “Si può dire che in alcuni casi le valutazioni sono state troppo ottimi-stiche”. In parole povere, l’Fmi ha cambia-to le regole sui suoi prestiti per tranquilliz-zare l’Europa, ma questa scelta si è rivelata sbagliata.

Cosa succederà ora? Il Fondo potrebbe limitarsi ad annunciare che in futuro non interverrà in nessun paese che non abbia ristrutturato il suo debito nel caso in cui questa misura risultasse chiaramente ne-cessaria. L’istituto rilancia la proposta di un meccanismo di ristrutturazione del de-bito pubblico. Un’idea interessante è il co-siddetto O�cial sector involvement (Osi), cioè la possibilità che nella ristrutturazione del debito pubblico sostengano le perdite anche i paesi che hanno concesso �nanzia-menti allo stato in di�coltà. Nel caso della Grecia, sostiene l’istituto, l’Osi è in vista: ai tedeschi e ad altri elettori stanchi dei salva-taggi questo sembrerà un anatema, ma secondo il Fondo è inevitabile.

Caos drammaticoIl documento dell’istituto delinea anche una possibile strategia per superare la crisi, basata su un meccanismo di ristrutturazio-ne del debito pubblico, sul ra�orzamento del fondo salvastati e sull’emissione di tito-li di stato dell’eurozona. È interessante no-tare come l’Fmi assuma il tono di un osser-vatore esterno che abbia assistito da fuori agli avvenimenti degli ultimi tre anni. Ep-pure, durante la crisi l’istituto ha spesso appoggiato le posizioni di Berlino. I recenti negoziati per Cipro sono un esempio lam-pante. Non è molto convincente, quindi, l’idea che l’Fmi sia stato trascinato contro la sua volontà nel drammatico caos dell’eu-ro. Il parlamento tedesco, quello olandese e quello �nlandese hanno approvato il ver-samento delle tranche di aiuti, a condizio-ne che il Fondo monetario convalidasse la sostenibilità del debito del paese in crisi.

In ogni caso, questo nuovo riesame dell’intervento dell’istituto nell’eurozona mette in luce il desiderio di dare un senso all’accaduto, di assolvere l’Fmi e passare oltre. Ma molti si chiedono quale sarà il prossimo mea culpa. fp

Nuovo mea culpadel Fondo monetario

Prima ha ammesso che le sue stime sugli e�etti dell’austerità erano troppo ottimistiche. Ora l’Fmi dice che nell’eurozona bisognava ristrutturare subito i debiti pubblici dei paesi in crisi

Matina Stevis, The Wall Street Journal, Stati Uniti

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Atene, Grecia

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 101

CINA

Meno statonell’economia Il governo cinese vuole dare più spazio ai privati nell’economia, scrive il New York Times, con l’obiettivo di migliorare le con-dizioni di vita della classe media e di rendere il paese un protago-nista ancora più forte a livello globale. Il 24 maggio le autorità di Pechino hanno presentato una serie di proposte che sem-brano confermare la svolta. Per esempio, sarà permesso al mer-cato di determinare i tassi d’in-teresse bancari e il cambio dello yuan. Inoltre, saranno sviluppa-te delle politiche che favoriran-no l’ingresso dei privati nella �-nanza, nella sanità e in altri set-tori. I leader cinesi, spiega il quotidiano statunitense, sono spinti al cambiamento dal fatto che l’economia nazionale conti-nua a rallentare, mostrando tutti i limiti di un sistema dominato dallo stato. Non ultimo l’elevato livello dei debiti contratti dalle aziende cinesi, dal governo cen-trale e dalle amministrazioni provinciali.

IN BREVE

Aziende Secondo il 2013 World lottery almanac, realizzato da La Fleur’s Magazine, l’anno scorso il settore delle lotterie e delle scommesse ha registrato un fatturato a livello globale di 275 miliardi di dollari, il 7 per cento in più rispetto al 2011. Il principale operatore per fattura-to è l’italiana Lottomatica, con 25,1 miliardi di dollari.

BRASILE

Debiti africani cancellati Il 25 maggio, ai margini delle ce-lebrazioni per i cinquant’anni dell’Unione africana, il Brasile ha annunciato che cancellerà 900 milioni di dollari di debito verso dodici paesi africani. I maggiori bene�ciari saranno il Congo, la Tanzania e lo Zambia, scrive Jeune Afrique. La deci-sione è in linea con la strategia di ra�orzare i rapporti commer-ciali con l’Africa, che nell’ultimo decennio sono aumentati di cin-que volte, passando dai cinque miliardi di dollari del 2000 ai 26,5 miliardi del 2012. Nella foto: la presidente brasiliana Rousse�

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Il numero Tito Boeri

31,5 milioni

Secondo l’Associazione italia-na editori (Aie), sono 31,5 mi-lioni gli italiani che in un anno non leggono neanche un libro. È il 54,7 per cento della popo-lazione di potenziali lettori. In Italia la di�usione dell’editoria di massa è coincisa di fatto con la nascita della tv e il numero di lettori non ha mai superato il 50 per cento.

Un ulteriore problema ri-guarda la segmentazione: non più del 15 per cento dell’intero campione è formato dai cosid-detti lettori voraci, cioè da chi legge almeno un libro al mese. Il quadro negativo è in parte

mitigato dal recente studio dell’Aie sulla lettura infantile, dal quale emerge che bambini e ragazzi leggono più degli adulti e che la di�erenza tra i giovanissimi e gli adulti è in crescita. Dopo i 14 anni la dif-fusione della lettura diminui-sce di pari passo con la crescita dell’uso di internet. La pro-gressiva �essione della lettura dopo l’adolescenza, e il succes-sivo crollo nell’età adulta, sug-geriscono l’esistenza di forme di utilizzo del tempo competi-tive rispetto alla lettura.

Come osservano Luciano Canova ed Enzo di Giulio su

lavoce.info, rincarano la dose alcuni dati sul livello di dealfa-betizzazione degli adulti scola-rizzati, contenuti nel Program-me for the international assess ment of adult compe-tencies, uno studio promosso dall’Ocse. In Italia il 5 per cen-to dei nativi non è in grado di decifrare singole cifre o lettere (alfabetizzazione elementare) e il 33 per cento non è in grado di capire o scrivere una frase breve. Forse queste informa-zioni avrebbero dovuto essere tenute in conto nel dibattito politico specialmente durante le campagne elettorali.

La Germania si oppone all’imposizione di pesanti dazi doganali ai pannelli solari cinesi proposta dalla Commissione europea. Anche se le imprese del settore fotovoltaico tedesche sono tra le prime vittime della concorrenza dei pannelli a buon mercato prodotti in Cina, Berlino ritiene che “i prodotti cinesi abbiano reso possibile il boom dell’energia solare” in Germania e la transizione energetica in corso nel paese, spiega Die Tageszeitung. Gli imprenditori tedeschi, dal canto loro, sono favorevoli a un accordo di libero scambio con la Cina.

Germania

No ai dazi per Pechino

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China Sports Lottery, Cina

Française des Jeux, Francia

Loterías y Apuestas Estado, Spagna

Mizuho Bank, Giappone

The National Lottery, Regno Unito

New York Lottery, Stati Uniti

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Fatturato dei principali operatori di lotterie e scommesse, 2012

Miliardi di dollari

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“LA SCOPA DI UNA STREGA”.

“LA FRUSTA DI UNA STREGA”. “LA GRATTUGIA DI UNA STREGA”?

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“IL PIUMINO DI UNA STREGA”.

PECCATO, IO AVEVO SEMPRE PENSATO CHE LE STREGHE FOSSERO

COMPLETAMENTE EMANCIPATE.

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L’oroscopo

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Internazionale 1002 | 31 maggio 2013 105

BILANCIA

La venerazione è uno dei sentimenti più preziosi.

Quando riconosci e rispetti la su-blime bellezza di qualcosa che è più grande di te, fai un enorme fa-vore a te stessa. Generi autentica umiltà e sincera gratitudine, che fanno bene al tuo corpo e alla tua anima. Ti prego di notare che la venerazione non riguarda solo la religione. Un biologo può venera-re il metodo scienti�co. Un ateo può provare un senso di devozio-ne nei confronti dei geni che ci hanno lasciato in eredità le loro idee. E tu che cosa veneri, Bilan-cia? Che cosa suscita la tua vene-razione? È un ottimo momento per esplorare i profondi misteri di questo stato di coscienza alterato.

SCORPIONE

Nel 1914, quando stava progettando la sua spedi-

zione all’Antartide, l’esploratore Ernest Shackleton pubblicò que-sto annuncio sui giornali londine-si: “Cercasi uomini per una spedi-zione azzardata. Bassa paga, fred-do pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ri-torno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”. Risponderesti a un invito simile se lo leggessi og-gi? Spero di no. È vero che il tuo senso dell’avventura è in crescita. E ho il sospetto che tu muoia dalla voglio di stabilire un rapporto più intenso con il tipo di oscurità posi-tiva che in passato ti ha ispirato tanta saggezza. Ma penso che tu possa soddisfare questa esigenza senza metterti in situazioni peri-colose o so�rire gravi privazioni.

SAGITTARIO

“Preferisco non cantare piuttosto che cantare a bas-

sa voce”, diceva Janis Joplin. Il suo atteggiamento mi ricorda un po’ quello di Salvador Dalí, che dice-va: “Dipingere non è mai di�cile. O è facile o è impossibile”. Ho idea che presto voi Sagittari vi tro-verete di fronte a un’alternativa si-mile. Vorrete dare tutto quello che avete, o niente. Sarete in uno stato di grazia e tutto andrà per il verso giusto oppure sarete completa-mente bloccati. Per fortuna, pre-

vedo che la voglia di dare tutto e lo stato di grazia saranno predomi-nanti.

CAPRICORNO

Nelson Mandela cominciò la sua battaglia per mettere

�ne all’apartheid in Sudafrica nel 1948. Qualche anno dopo fu arre-stato per attività rivoluzionaria e condannato all’ergastolo. Rimase in prigione �no al 1990, quando il suo governo cedette alle pressioni della comunità internazionale e lo liberò. Nel 1994 il sistema dell’apartheid crollò. Mandela fu eletto presidente del suo paese e vinse il premio Nobel per la pace. Eppure nel 2008 negli Stati Uniti era ancora considerato un terrori-sta e aveva bisogno di un permes-so speciale per entrare. Probabil-mente non hai una regola antiqua-ta o un’abitudine obsoleta così or-ribile, Capricorno. Ma è ora che tu smetta di rimanere attaccato a tutto quello che è superato.

ACQUARIO

L’artista, fotografo e dise-gnatore di moda Karl La-

gerfeld esprime la sua rigogliosa creatività da 50 anni. Anche se non ha limiti, la sua fantasia è estrema-mente concreta. A proposito delle sue sfavillanti creazioni dice: “Ri-mango sempre con i piedi per ter-ra, solo non su questa terra”. Scegli questa frase come mantra per le prossime settimane. Cerca anche tu di essere concreto nel tuo modo unico. Segui il tuo eccentrico intui-to, ma sempre con l’intenzione di incanalarlo in modo costruttivo.

PESCI

Una volta lo scrittore fran-cese Georges Perec ha

scritto: “Quello che dobbiamo ri-mettere in discussione sono i mat-toni, il cemento, il vetro, come ci comportiamo a tavola, il modo in cui passiamo il tempo, i nostri rit-mi. Tutto quello che sembra aver smesso per sempre di stupirci”. Una ri�essione del genere potreb-be esserti utile e per�no entusia-smarti, Pesci. Ti consiglio di incre-mentare la tua capacità di rimane-re sinceramente stupito davanti al-le meraviglie piccole e ovvie che a volte dai per scontate.

GEMELLIIn Giappone non è maleducazione fare rumore mentre si mangiano gli spaghetti di riso da una ciotola. O alme-no così dice la guida della Lonely Planet. Anzi, i vostri

ospiti giapponesi si aspettano che facciate qualche rumore con la bocca. È segno che vi piace quello che state mangiando. In questo spirito, Gemelli, questa settimana ti consiglio di essere più disini-bito che puoi, non solo quando mangi gli spaghetti, ma in tutte le situazioni in cui devi esprimerti liberamente per sfruttare appie-no un’occasione piacevole.

COMPITI PER TUTTI

Qual è la convinzione di cui potresti fare benissimo a meno ma alla quale

non riesci a rinunciare?

ARIETE

Negli anni venti, la governa-trice del Texas voleva a tutti

i costi vietare l’insegnamento delle lingue straniere nelle scuole pub-bliche. A sostegno di questa propo-sta invocava la Bibbia. “Se l’ingle-se andava bene per Gesù Cristo”, diceva con la massima serietà, “va bene anche per noi”. Temo che presto avrai a che fare con persone che hanno le idee altrettanto con-fuse. E forse sarà impossibile igno-rarle perché hanno una certa in-�uenza sulla tua vita. Qual è il mo-do migliore per risolvere questo problema? Ti consiglio di prender-la a ridere. Rimani calmo. E racco-gli sistematicamente le prove di quella che sai essere la verità.

TORO

Qualche settimana fa il pre-side di una scuola di Bel-

lingham, nello stato di Washing-ton, ha annunciato che il giorno dopo non ci sarebbe stata lezione. Per quale motivo? Un tornado in arrivo? Un allarme bomba? Un’epi-demia? Niente di tutto questo. Aveva semplicemente deciso di dare un giorno di vacanza a stu-denti e professori perché potessero godersi il bel tempo appena arriva-to. Ti consiglio di fare qualcosa di simile nei prossimi giorni, Toro. Prenditi una lunga vacanza di pia-cere, anzi più di una. Concediti il permesso di svignartela e di dedi-carti a celebrazioni spontanee. Cerca di essere creativo e di sfrut-tare �no in fondo i doni che la vita ti sta o�rendo.

CANCRO

Voglio citarti una ri�essione del �losofo Ludwig Wittgen-

stein: “Se a una persona viene in mente di spingere piuttosto che ti-

rare, si sente imprigionata in una stanza anche se la porta non è chiusa a chiave ma si apre verso l’interno”. Mi sembra che in que-sto momento si adatti perfetta-mente a te, Cancerino. Che cosa intendi fare? Dirmi che mi sbaglio? Che a pensarci bene sei d’accordo con me? Ho un’idea migliore. Non è necessario che tu accetti o re-spinga la mia idea, puoi semplice-mente adottare un atteggiamento neutrale e fare un esperimento. Vedi che succede se tiri la porta.

LEONE

Se stavi aspettando il mo-mento giusto per perfezio-

nare la tua arte dei festeggiamenti, credo che quel momento sia arri-vato. Cosa puoi fare per compor-tarti in modo più disinibito? Sei di-sposto a scivolare almeno tempo-raneamente in uno stato di diverti-mento cronico? Sei pronto a lan-ciarti nelle danze, a raccontare sto-rielle spassose e a giocare? Secon-do la mia lettura dei presagi astrali, il cosmo ti sta spingendo nella di-rezione della baldoria più sfrenata.

VERGINE

Quali sono esattamente i luoghi che ti danno forza,

Vergine? Forse il tuo letto, dove ringiovanisci e ti reinventi ogni notte? Un ambiente naturale nel quale ti senti a casa tua e in pace con il mondo? Un certo edi�cio in cui prendi regolarmente decisioni giuste e avvii azioni e�caci? Qua-lunque essi siano, ti consiglio di dedicargli ancora più attenzione. Stanno per dimostrarsi più utili del solito, e dovresti fare qualcosa per assicurarti che questo succeda. Ti consiglio anche di cominciare a cercarne uno nuovo. È lì che ti aspetta.

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L’ultima

Le regole Bagaglio a mano1 L’unico vero limite di peso è una spalla slogata. 2 Al controllo bagagli non ti lasciano passare i cetriolini sottaceto? Ingurgitali uno a uno sotto lo sguardo della polizia. 3 Per quanto sia rigida la regola delle low cost, due valigie non diventeranno mai una. 4 Se il tuo volo prevede scali, ci sono ottime probabilità che il bagaglio a mano sia l’unica cosa che avrai per i primi quattro giorni di vacanza. 5 Oltre al computer, lo smartphone, il tablet, la console e il lettore mp3, magari mettici anche uno spazzolino da denti. [email protected]

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“Ci rimproverano di aver comprato l’organizzazione dei Mondiali di calcio”. “Vedrai che ci accuseranno anche di aver già

prenotato il posto per la �nale”.

Obama e la nuova politica sui droni: “Da osservare scrupolosamente: mai colpire i civili, ok?”.

Casting per le Femen: “Non possiamo mica essere proprio noi a fare discriminazioni”. “No, ma non si legge niente”.

L’Europa sospende l’embargo per i ribelli siriani.

“Non ricordo: non mi parli oppure non mi ascolti?”.

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