Intervista a David Makovsky L’apertura saudita - cfr.org · Olmert ha detto di sperare e credere...
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La Lega araba ha chiuso il vertice di Riad (28-29 marzo) con una dichiarazione ab-
bastanza moderata e aperta nei confronti di Israele, proponendo in sostanza la coesi-
stenza pacifica se Israele accetterà la vecchia risoluzione 242 del Consiglio di Sicurez-
za – che prevede il ritorno ai confini del 1967 – e se “risolverà” il problema dei profu-
ghi. La reazione ufficiale di Tel Aviv è stata abbastanza cauta, anche se ho letto le in-
terviste del primo ministro Ehud Olmert alla stampa israeliana e mi è sembrato molto
disponibile. Secondo lei cosa succederà?
Quando c’è la volontà, tutto si può fare. Stando a una intervista rilasciata da Olmert
a Haaretz prima della pasqua ebraica, è evidente che egli è pronto a sedersi intorno
a un tavolo con i sauditi e con tutti gli Stati arabi disposti a negoziare. Del resto, è
ciò che ripete da novembre, sottolineando gli ele-
menti positivi contenuti nell’iniziativa araba, pre-
sentata dall’allora principe ereditario saudita (attua-
le re) Abdullah nel 2002, e rilanciata dalla Lega
araba a Riad. Nel 2002, Israele pensava che l’ini-
ziativa fosse un trucco, un sistema escogitato dai
sauditi dopo l’11 settembre per sottrarsi alla con-
danna della comunità internazionale, dal momento che i terroristi che colpirono gli
Stati Uniti erano per la maggior parte sauditi.
Secondo lei l’atteggiamento di Israele è davvero meno intransigente rispetto a prima?
Gli israeliani adesso pensano che esista una base comune su cui lavorare. Il punto,
secondo me, non è capire se Israele sia pronto a negoziare con gli arabi, ma piutto-
sto se loro sono pronti a negoziare con Israele. Se questa proposta equivale a una sor-
ta di “prendere o lasciare”, allora perderanno un’occasione. Ma se le voci ufficiose
L’apertura sauditaIntervista a David Makovsky
David Makovsky, direttore del progetto sul
processo di pace nel Medio Oriente al
Washington Institute for Near East Policy, è
stato anche capo redattore del quotidiano
Jerusalem Post.
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che circolano sono veritiere e si costituirà un gruppo di lavoro arabo, il cosiddetto
Quartetto arabo – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania – per di-
scutere e negoziare sulla base di questa posizione iniziale, allora penso che si po-
tranno raggiungere importanti risultati.
Olmert ha detto di sperare e credere che si possa arrivare a una pace globale con tut-
ti gli Stati arabi nell’arco dei prossimi cinque anni. La gente dice sempre che a es-
sere pessimisti sul Medio Oriente non si sbaglia mai, ma in realtà le divergenze po-
litiche si sono ridotte in modo significativo. In sostanza, Israele e gli arabi ammetto-
no che si potrebbero prevedere degli scambi di territori, per esempio compensando i
trasferimenti di terre da una parte e dall’altra dei confini precedenti al 1967. Questo
consentirebbe a Israele di mantenere la maggior parte dei coloni entro i propri con-
fini, e di restituire quasi tutte le terre occupate allo Stato palestinese. La questione
della terra, malgrado quello che pensa l’ex presidente americano Jimmy Carter, è la
parte più semplice della faccenda.
E allora qual è la parte complicata?
Il punto più ostico è la questione dei profughi. E qui penso che circoli molta disin-
formazione. Siamo naturalmente tutti d’accordo sul fatto che nessun profugo debba
vivere in condizioni di miseria, ma che tutti abbiano diritto a una vita dignitosa e a
un futuro migliore. Il tentativo di ricercare una soluzione basata sull’esistenza dei
due Stati, quello israeliano e quello palestinese, poggia proprio sull’idea che i profu-
ghi palestinesi possano essere trasferiti nella nuova Palestina. Per i profughi che in-
vece vogliono restare dove stanno, a condizione che lo Stato di accoglienza accon-
senta, sarà previsto un indennizzo finanziario. Oppure potranno andare in un paese
terzo. Su questo non ci sono problemi.
Il punto è il seguente: i profughi devono essere autorizzati soltanto a stabilirsi nel
nuovo Stato palestinese, oppure dovrebbero anche essere autorizzati a stabilirsi in
Israele? Un intellettuale palestinese ha detto una volta che questo per Israele sareb-
be un suicidio, poiché significherebbe la sua fine come stato ebraico. È qui che co-
mincia la disinformazione. I palestinesi sostengono di avere il “diritto al ritorno”, e
citano la risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Il fatto è che si tratta di una risoluzio-
ne dell’Assemblea generale, non del Consiglio di Sicurezza, e quindi non è vinco-
lante. E se esaminiamo la 194, non dice che i profughi hanno il diritto di tornare – o
che devono o dovranno tornare – ma suggerisce che sarebbe una buona idea permet-
tere loro di tornare. (Il testo originale recita: “[…] stabilisce che i profughi che vo-
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gliono tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero poterlo fa-
re nella data più vicina praticabile, e per le proprietà di coloro che non vogliono tor-
nare, e per perdite o danni a tali proprietà, dovrebbero essere versati indennizzi che,
in base a principi di giustizia e del diritto internazionale, dovrebbero essere effettuati
dai governi o dalle autorità responsabili”.)
Esistono tonnellate di risoluzioni dell’Assemblea generale su qualsiasi argomento
possibile e immaginabile. Queste risoluzioni non sono vincolanti. Quindi, in realtà,
il problema dei profughi è il vero oggetto del contendere, e scaturisce in buona par-
te dalla disinformazione. Non appena avremo chiarito questo punto sul piano storico
e analitico, arabi e israeliani potranno sedersi intorno a un tavolo e, con un po’ di
buona volontà, trovare una soluzione. Israele ha permesso i ricongiungimenti fami-
liari di moltissimi palestinesi dal 1967 a oggi. Accetterebbe anche di far tornare al-
cuni profughi, in nome dei principi umanitari.
È evidente che questo dovrebbe essere uno dei punti più importanti nei negoziati.
Certo, ma gli arabi devono dimostrarsi disposti a negoziare. Amr Moussa, segretario
generale della Lega araba, dice: “Prima accettate tutto e poi cominciamo a trattare”.
Questo è ridicolo. Nessun paese accetterebbe di negoziare su quella base. Loro han-
no una posizione di partenza, e anche Israele ha una posizione di partenza. Dovrem-
mo sederci intorno a un tavolo, negoziare e mettere fine a questo conflitto spavento-
so, che ha davvero consumato entrambi i popoli.
Non ha menzionato i palestinesi parlando della commissione negoziale. Dove si collo-
cano in questo contesto?
Anzitutto bisognerebbe capire di quale governo palestinese stiamo parlando. L’ac-
cordo della Mecca che ha dato vita a un governo palestinese di unità nazionale gui-
dato da Fatah e Hamas è stato un passo avanti oppure no? A mio parere, l’accordo
della Mecca e il governo di unità nazionale a cui ha dato vita sono stati un grande
passo indietro. E lo dimostra la ripresa della violenza.
Le linee programmatiche di questo governo non fanno mai riferimento a Israele in
quanto tale: parlano solo di “aggressione israeliana”. C’è chi dice: “Be’, dovete fare
la pace con tutti i palestinesi, e quindi anche con Hamas”. Questo può essere auspi-
cabile, ma si tratta di capire se sia anche fattibile. Fino a che loro non riconoscono
l’esistenza di Israele, come si può negoziare? Non è un caso che la tregua sia conti-
nuamente messa in discussione.
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Ma se Israele si sedesse intorno a un tavolo con i sauditi, non sarebbe un grande pas-
so avanti visto che in passato i sauditi rifiutavano addirittura di considerare Israele
uno Stato legittimo?
Certamente. A mio parere, tuttavia, il tempo non gioca a favore dei moderati. È im-
portante che i moderati si incontrino rapidamente e producano dei risultati concreti,
proprio per evitare di lasciare il futuro nelle mani del fronte del rifiuto.
Esiste un calendario per i negoziati? C’è qualcuno che in questo momento si sta dando
da fare per far avanzare la situazione?
Negli ultimi tempi Condoleezza Rice visita tutti i mesi la regione per parlare di quel-
lo che lei chiama l’“orizzonte politico”. È l’espressione attualmente più in voga nel
linguaggio della diplomazia mediorientale. La gente dice: “Che differenza c’è tra que-
sto e i ‘negoziati sullo status finale’ che aveva tentato Bill Clinton a Camp David nel
2000?”. C’è chi sostiene che in realtà Rice stia riproponendo l’iniziativa lanciata da
Clinton sette anni fa. E ci sono voluti sei anni perché questa amministrazione si de-
cidesse a farlo. Ma un “orizzonte politico” è un argomento di conversazione, non un
negoziato a Camp David. Se mi chiede in quale campo diplomatico stia la palla, allo-
ra la palla sta nel campo di Condi Rice, che sta cercando di mettere a fuoco questo
“orizzonte politico”, sperando che serva per uscire dal vicolo cieco. Non solo: il se-
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gretario di Stato pensa che in questo modo si creerebbe spazio per una coalizione ara-
ba che possa cercare di contenere e bloccare i progetti nucleari dell’Iran.
Cosa pensa di un’intesa tra Israele e Siria per arrivare a un accordo di pace simile a
quelli che Israele ha firmato con l’Egitto e la Giordania?
Ai vertici della difesa israeliana sono in molti a desiderare un negoziato con i siria-
ni, per andare a vedere se Damasco è davvero pronta a modificare la sua strategia
prendendo le distanze dall’Iran e da altri alleati islamici come Hezbollah, Hamas e
la Jihad islamica.
E qual è la posizione americana su questo, specie dopo l’incontro a Baghdad fra Rice
e il ministro degli Esteri siriano?
Washington è interessata a stabilizzare l’Iraq ma per il resto teme che la Siria non
abbia alcuna reale volontà negoziale, e che in realtà sia più interessata al processo
che non alla pace. Insomma: che voglia servirsi di questo processo per recuperare
la sua reputazione dopo lo scandalo dell’omicidio di Rafiq Hariri in Libano. Si po-
trebbe aggiungere, e a ragione, che è molto difficile che il sistema politico israelia-
no possa portare avanti una diplomazia a doppio binario, negoziando con i palesti-
nesi e i siriani contemporaneamente, anche se c’è chi sostiene che negoziando con
entrambi si può dare l’impressione agli arabi che una delle due parti sia sul punto
di firmare, e quindi l’altra sarebbe più incline a fare concessioni. Io non sono di
questo parere.
Parliamo della situazione interna di Israele. Tutti dicono che Olmert è talmente impo-
polare che in realtà non può decidere praticamente nulla. Lei cosa ne pensa?
Effettivamente, i sondaggi indicano che la sua popolarità è scesa a livelli molto bas-
si. E la sua crisi è sicuramente aggravata dal responso della Commissione Winograd
– l’organismo indipendente di inchiesta presieduto da un autorevole ex giudice, af-
fiancato da autorevoli accademici israeliani – che ha esaminato la gestione del con-
flitto libanese e ha emesso, a fine aprile, un giudizio molto severo sull’operato del go-
verno e in particolare del primo ministro. Alcuni pensano che l’inchiesta decreti la
fine politica di Olmert.
Altri non ne sono convinti. È evidente che se gli arabi mostrassero qualche apertura
nei confronti del centro israeliano e di Olmert, potrebbero aiutarlo a superare questo
momento di grande difficoltà.
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Secondo lei, in che formato potrebbero avvenire i colloqui con gli arabi?
Circolano delle voci su una formula detta del “2+4+4”, in cui il segretario generale
dell’ONU riunirebbe il Quartetto – Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Uni-
te – più il Quartetto arabo – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania
– insieme a israeliani e palestinesi, tutti intorno allo stesso tavolo. Questo potrebbe
lanciare un segnale di speranza all’opinione pubblica israeliana. E se la gente pen-
sasse che gli arabi sono sinceramente intenzionati ad arrivare a un risultato, questo
potrebbe rafforzare la posizione politica di Olmert più di ogni altra cosa. In Israele,
la gente vuole la fine di questo terribile conflitto, e questo sentimento potrebbe aiu-
tare i negoziati. Se invece gli Stati arabi cominceranno a fare l’elenco di tutte le pre-
condizioni, allora la carriera politica di Olmert può considerarsi finita.
La mia tesi è che la speranza di sopravvivenza di Olmert sia legata al negoziato po-
litico con gli arabi. Amir Peretz, leader del partito laburista, ha dichiarato di essere
pronto a lasciare il suo incarico. Penso che questo annuncio arrivi con mesi di ritar-
do. Il nostro popolo sa che la regione in cui vive è pericolosa e violenta e pensa che
Peretz non abbia competenze sufficienti in materia di sicurezza nazionale: del resto
anche il ministro – come Olmert – è uscito a dir poco malconcio dall’inchiesta della
Commissione Winograd. La gente teme un altro conflitto con Hezbollah e forse un
eventuale conflitto con l’Iran. Penso che, sul fronte arabo, abbiamo di fronte un ap-
puntamento da non mancare. Mi auguro che i leader arabi non lo perdano e che gli
Stati Uniti si diano da fare perché si verifichi.
Questa intervista è stata realizzata da Bernard Gwertzman per il Council on Foreign Relationsil 2 aprile 2007 (www.cfr.org). Traduzione autorizzata.
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