Internazionale 1112

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Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo Germania Notizie da non credere Slavoj Žižek Il coraggio della disperazione internazionale.it Attualità La Grecia dopo l’accordo 3,00 € 24/30 luglio 2015 n. 1112 • anno 22 PI, SPED IN AP, DL 353/03 ART 1, 1 DCB VR de Ɨ,ƐƐ ƌ • be Ɩ,ƐƐ ƌ • ch Ɩ,ƐƐ chF • uk Ɣ,Ɣ ƍ A un anno dalle proteste di Ferguson, le tensioni razziali sono sempre più forti. E il paese afronta un’altra estate di icile Stati uniti La stagione delle rivolte

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Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

Germania Notizieda non credere

Slavoj Žižek Il coraggiodella disperazione

internazionale.it

AttualitàLa Greciadopo l’accordo

3,00 €24/30 luglio 2015 n. 1112 • anno 22

PI,

SP

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A un anno dalle proteste di Ferguson, le tensioni razziali sono

sempre più forti. E il paese afrontaun’altra estate diicile

Stati unitiLa stagione

delle rivolte

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 5

Sommario

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io

La settimana

24/30 luglio 2015 • Numero 1112 • Anno 22

AttuAlità16 La Grecia

dopo l’accordo The Guardian

europA20 Regno Unito The Guardian

AfricA e medio orieNte22 Iran Foreign Policy

Americhe26 Bolivia El País

AsiA e pAcifico28 Giappone The Economist

visti dAgli Altri30 A pranzo

con Beppe Grillo Financial Times

società46 Spose precoci Le Monde

germANiA52 Notizie

da non credere Die Zeit

scieNzA58 Cosa impariamo

durante il sonno New Scientist

portfolio62 Il fotografo

dentro lo scatto Zhang Kechun

ritrAtti68 Vojislav Šešelj Libération

viAggi70 Il concerto

della natura Le Soir

grAphic JourNAlism

72 Milano Chiara Dattola

libri74 Un continente

di lettori Ventures Africa

pop84 Il coraggio

della disperazione Slavoj Žižek

scieNzA90 L’isola di Guam

invasa da due milioni di serpenti

Le Monde

iN copertiNA

La stagione delle rivolte A un anno dalle proteste di Ferguson, le tensioni razziali sono sempre più forti. E il paese afronta un’altra estate diicile. L’articolo di Gary Younge sul Guardian (p. 38). Foto di Samuel Corum (Anadolu Agency/Getty Images).

ecoNomiA e lAvoro

94 Il Big Mac più economico si trova a Mosca

The Economist

cultura76 Cinema, libri,

musica, arte

Le opinioni

12 Domenico Starnone

24 Amira Hass

34 Paul Kennedy

36 Ivan Krastev

77 Gofredo Foi

78 Giuliano Milani

80 Pier Andrea Canei

89 Tullio De Mauro

Le rubriche

12 Posta

15 Editoriali

96 Strisce

97 L’oroscopo

98 L’ultima

The Guardian È un quotidiano britannico progressista. Sul sito ha creato una sezione dedicata ai lunghi reportage. L’articolo a pagina 38 è uscito il 1 luglio 2015 con il titolo Farewell to America. Le Monde Fondato nel 1944, è uno dei più prestigiosi quotidiani francesi. L’articolo a pagina 46 è uscito il 12 giugno 2015 con il titolo Le cartable de la mariée. New Scientist È un settimanale britannico di divulgazione scientiica. L’articolo a pagina 58 è uscito l’11 giugno 2015 con il titolo Why learning in your sleep is an idea that’s reawakening. Ventures Africa È un sito nigeriano di notizie e approfondimento

sulla politica, l’economia e la società africana. È diretto dallo scrittore statunitense d’origine nigeriana Uzodinma Iweala. L’articolo a pagina 74 è uscito il 5 luglio 2015 con il titolo Africa’s literary scene: new trends in publishing. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

Le principali fonti di questo numero

Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo

GermaniaNotizieda non credere

Slavoj ŽižekIl coraggiodella disperazione

internazionale.it

AttualitàLa Greciadopo l’accordo

3,00 €24/30 luglio 2015 n. 1112 • anno 22

A un anno dalle proteste di Ferguson, le tensioni razziali sono

sempre più forti. E il paese af rontaun’altra estate dii cile

Stati UnitiLa stagione

delle rivolte

“Quella che si deve svegliare non è la Grecia, ma l’Europa”

slAvoJ ŽiŽek, pAgiNA

Articoli in formato mp3 per gli abbonati

possibilità

Volevano costruire una biblioteca, piantare degli alberi, attrezzare un campo giochi. Il più giovane del gruppo si chiamava Okan Pirinç, aveva diciassette anni e veniva da Antakya. I trentadue ragazzi uccisi il 20 luglio a Suruç, in Turchia, militavano nella Federazione delle associazioni dei giovani socialisti. Quando la bomba è esplosa si trovavano nel giardino del centro culturale Amara. Arrivavano da tutto il paese e stavano per andare a Kobane, dall’altra parte del conine, in territorio siriano, per dare una mano nella ricostruzione della città. Okan Pirinç, Uğur Özkan, Kasım Deprem, Hatice Ezgi Saadet, Cemil Yıldız, Çağdaş Aydın, Nazlı Akyürek, Ferdane Ece Dinç, Mücahit Erol, Murat Yurtgül, Emrullah Akhamur, İsmet Şeker, Nartan Kılıç, Ferdane Kılıç, Serhat Devrim, Met Ali Barutçu, Erdal Bozkurt, Süleyman Aksu, Koray Çapoğlu, Cebrail Günebakan, Veysel Özdemir, Nazegül Boyraz, Alper Sapan, Alican Vural, Osman Çiçek, Dilek Bozkurt, Büşra Mete, Yunus Emre Şen, Ayda Ezgi Şalcı, Polen Ünlü, Duygu Tuna, Nurcan Kaçmaz: sono i nomi delle vittime identiicate inora. Erano ragazze e ragazzi che credevano nella possibilità di cambiare il mondo attraverso l’impegno politico. È per questo che li hanno uccisi. u

Giovanni De Mauro

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Immagini

Giovani vittimeSuruç, Turchia21 luglio 2015

I funerali di alcuni dei ragazzi morti il 20 luglio a Suruç, nel sudest della Turchia. Un kamikaze si è fatto esplodere nel giardino del centro culturale Amara, dov’era in corso un raduno di militanti socialisti che si preparavano a partire per Kobane. Volevano partecipare alla ricostruzione della città liberata dai jihadisti del gruppo Stato islamico lo scorso gennaio. Il bilancio delle vittime è di 32 morti e 104 feriti. Il governo turco ha dichiarato che l’attentatore era un turco di vent’anni e ha attribuito la stra-ge al gruppo Stato islamico. Foto di Bu-lent Kilic (Afp/Getty Images)

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Immagini

Carceri condannateEl Reno, Stati Uniti16 luglio 2015

Il presidente statunitense Barack Oba-ma nel carcere di El Reno, in Oklahoma. È la prima visita di un presidente degli Stati Uniti a una prigione federale. Oba-ma ha tenuto un discorso in cui ha ri-chiamato l’attenzione sulla necessità di riformare il sistema penale e carcerario. I penitenziari statunitensi ospitano 2,3 milioni di detenuti, il 25 per cento della popolazione carceraria mondiale. La maggioranza di loro sta scontando con-danne per crimini non violenti, come il furto e lo spaccio di droga. Foto di Doug Mills (The New York Times/Contrasto)

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Immagini

Luci della memoriaZermatt, Svizzera13 luglio 2015

Una scia di luci alimentate con l’energia solare lungo la cresta di Hörnli, sul ver-sante svizzero del Cervino. In questo modo il villaggio svizzero di Zermatt ha celebrato i 150 anni dalla prima scalata del monte, compiuta il 14 luglio 1865 da una squadra di scalatori guidata dal bri-tannico Edward Whymper. Una luce rossa verso la cima indica il punto in cui quattro compagni di Whymper persero la vita durante la discesa. Il 14 luglio sia sul versante svizzero del Cervino sia su quello italiano sono state vietate le atti-vità di alpinismo per ricordare le oltre cinquecento persone che sono morte cercando di scalare la vetta. Foto di De-

nis Balibouse (Reuters/Contrasto)

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[email protected]

Buono, economico e industriale u La storica britannica Rachel Laudan parla della “crociata morale e politica” di chi sostie-ne una dieta tradizionale (In-ternazionale 1110), spiegando ed esaltando le origini storiche del cibo industriale. Ma non le inserisce nel contesto di oggi. Da brava storica, parla del Mc-Donald’s quando vuole rac-contare le origini del fast fo-od, dimentica però che se que-sta multinazionale viene tanto criticata non è solo perché pro-muove il fast food ma anche, e soprattutto, perché contribui-sce alla rovina ambientale e al divario economico tra ricchi e poveri. Alla lunga lista di orrori causati dal “modernismo culi-nario” compilata da Tom Phil-pott, aggiungerei gli immigrati sfruttati, maltrattati e sottopa-gati (circa 15 euro al giorno) che in Puglia, e in altre regioni del sud, coltivano i pomodori che poi tanto comodamente – come direbbe Rachel Laudan – arrivano sulle tavole degli ita-liani. Valentina Laudadio

u Anche l’alimentazione, co-me moltissimi altri ambiti della mia vita, ha una base culturale ben deinita, dove con cultura non s’intende un falso tradizionalismo, che è stato adeguatamente messo all’angolo dall’articolo di Ra-chel Laudan, bensì un’analisi nutrizionale dei cibi: le vita-mine contenute in frutta e verdura, l’apporto di ferro e proteine provenienti da carne e pesce, l’attenzione a possibi-li pesticidi e ormoni che l’in-dustria alimentare sommini-stra a ortaggi e animali. È in base a questa analisi che pre-ferisco alimenti ritenuti più “sani” perché raccolti di re-cente – e quindi più ricchi di nutrienti – o coltivati facendo un uso limitato di quelle so-stanze che le rendono meno sane. In conclusione, a farmi preferire un tipo di coltura piuttosto che un’altra non è la tradizione dei miei nonni o dei miei genitori, ma quello che mi aspetto di ricevere da un determinato alimento, e come questo ha delle riper-cussioni sul mio corpo. Alberto Bianchi

Srebrenica fu abbandonata u L’articolo “Srebrenica fu abbandonata” (Internaziona-le 1110) è molto commovente. Ho 32 anni, all’epoca non ca-pivo molto e ho vaghi ricordi di quel periodo caratterizzato dal cinismo e dal ritorno della brutalità umana nel cuore della civilissima Europa. Stefano Veneziano u Grazie per aver ricordato ogni singolo fatto di quella dolorosa guerra e di quel ge-nocidio premeditato. Questo articolo ha consentito anche a chi non conosceva la vicen-da di averne una visione. Veronica Tedeschi Errori da segnalare? [email protected]

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Dopo due maschi, farei un terzo iglio solo se fossi certa che sarà una femmi-na. Hai qualche consiglio in proposito?–Gaia

Normalmente la tua doman-da mi metterebbe in crisi, ma la buona stagione gioca a tuo favore: in questi giorni sono sdraiato in riva al mare e cir-condato da vicini di ombrello-ne che sanno tutto e hanno opinioni su tutto (e su tutti). La dottoressa Ciancarelli, la prima a cui ho posto la que-stione, mi ha fatto un compli-catissimo discorso sulle varia-zioni del ph ormonale di cui

ho capito solo la conclusione: più anni aspetti dal tuo ultimo iglio e maggiore è la probabi-lità che il successivo sia di sesso diverso. Sdraiata alla mia destra, Elisabetta dice che il sesso del bambino di-pende soprattutto dal padre e quindi il trucco è cambiarlo: “Io ho un maschio e una fem-mina, e non è un caso che li abbia avuti con due uomini diversi”. Karen, americana in vacanza in Italia, spiega inve-ce che negli Stati Uniti attra-verso la fecondazione assisti-ta si può scegliere il sesso del nascituro con una certezza dell’85 per cento, ma quando

le ho fatto notare che questa pratica è molto apprezzata da certi genitori cinesi che ci ten-gono ad avere un maschio, abbiamo inito per litigare. Alla ine di questo estenuante giro di opinioni, mi sono mes-so a leggere un articolo su Caitlyn Jenner, nuova ma au-tentica identità femminile dell’ex campione olimpico Bruce Jenner, e mi sono ricor-dato che a volte le cose sono più complesse di quanto sem-bra. E se per caso tu avessi già una iglia femmina e ancora non lo sapessi?

[email protected]

Dear Daddy Claudio Rossi Marcelli

Chiacchiere sotto l’ombrellone

Professionepilota

u Bisogna avere rispetto e comprensione per chi gover-na. I governanti sono timonie-ri, sono piloti, hanno le nostre vite nelle loro mani. E questa responsabilità grava loro ad-dosso siancandoli, special-mente in tempi di tempesta. Vorrei vedere voi al posto loro. Devi stringere la cinghia ma anche slacciartela. Lo spread va su, tienilo giù. Tappi una voragine nei conti pubblici, se ne apre un’altra. Sei di un par-tito con una bella tradizione di pulizia, scopri che necessita di polizia. Hai appena trovato una soluzione coi migranti, ne arrivano folle. Ti industri per fronteggiare l’emergenza sbarchi, quasi vai in guerra. Vuoi distribuire quote di esseri umani qua e là per l’Italia e l’Europa, non li vuole nessuno. Pensavi di aver risolto i proble-mi della scuola, la scuola di-venta il tuo ennesimo proble-ma. Riformi tutto a tambur battente, non c’è un’anima che sia contenta. Avevi una squa-dra di giovani pimpanti, si sve-lano più spompati dei vegliar-di. La disoccupazione dovreb-be scendere in fretta, invece sale più in fretta di prima. Sviolinavi sulle bellezze di Ro-ma capitale, e ti ritrovi con la bruttezza di maia capitale. Ah è proprio arduo pilotare, lo di-co senza ironia. Unica notazio-ne: che pilota è quello che mentre l’aereo attraversa tur-bolenze a ripetizione, molla tutto e, in camicia o tuta mi-metica, va a fare discorsi ai passeggeri su come sta pilo-tando alla grande?

Parole Domenico Starnone

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 15

Editoriali

Per la seconda volta in un mese i tentativi dell’Unione europea di afrontare la crisi dei rifu-giati si sono risolti in un fallimento. A giugno i leader dei paesi europei avevano riiutato la ripar-tizione obbligatoria dei richiedenti asilo in fuga dalle guerre e dalle persecuzioni in Nordafrica e Medio Oriente. Ora i ministri dell’interno non sono riusciti ad accordarsi su come suddividere la quota volontaria di 40mila rifugiati provenien-ti dalla Siria, dall’Eritrea e dall’Iraq che aspettano in Grecia e in Italia (una piccola parte dei 600mi-la che chiedono asilo ogni anno). Solo 35mila di loro saranno riallocati a partire da ottobre.

Le pressioni di Francia e Germania non sono bastate a vincere la resistenza dei molti partner contrari a questo sforzo di solidarietà. L’immigra-zione è diventata il tema più discusso della politi-ca comunitaria e ha evidenziato le enormi falle e l’incoerenza del modo in cui l’Europa afronta l’immigrazione. Il fatto che i governi nazionali

abbiano mandato all’aria i piani della Commis-sione europea per alleviare la situazione in Grecia e in Italia dimostra ino a che punto le speranze di creare una politica migratoria europea siano ine-sistenti. Dal rifiuto categorico dell’Austria e dell’Ungheria alle reticenze dei paesi baltici e dell’Europa orientale, tutti hanno trovato argo-menti, in gran parte legati all’economia, per evi-tare l’impegno.

La meschinità dell’Europa lancia un pessimo messaggio al resto del mondo. È vero che le di-mensioni dell’emigrazione verso l’Unione euro-pea sono enormi, come enormi sono le cause che la favoriscono. Ma nonostante le crepe aperte nella cultura del benessere dalla crisi economica, e nonostante le restrizioni alle politiche di acco-glienza imposte dai partiti populisti e xenofobi che fanno parte di alcuni governi, l’Europa aveva fatto della solidarietà e dell’accoglienza una delle sue bandiere. u gac

Un altro fallimento sui rifugiati

El País, Spagna

Il terrore in Turchia

Mustafa Akyol, Hürriyet Daily News, Turchia

Il barbaro attacco terroristico che ha ucciso 32 in-nocenti a Suruç, a pochi chilometri dal conine siriano, ha profondamente scosso la Turchia, di-mostrando che le iamme che divampano oltre le nostre frontiere meridionali possono bruciare anche noi. Finora nessuno ha rivendicato l’atten-tato, ma quasi tutti lo attribuiscono al gruppo Sta-to islamico. L’obiettivo era un gruppo di giovani turchi laici e socialisti che stavano organizzando una campagna di aiuti umanitari per i curdi di Ko-bane. Anche l’attentato contro un raduno eletto-rale del partito ilocurdo Chp a Diyarbakir, poco prima delle elezioni del 7 giugno, era stato com-piuto da un terrorista dello Stato islamico.

Naturalmente tutti i partiti hanno condannato la strage. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che “il terrore non ha religione né raz-za”. Simili afermazioni sono molto frequenti in Turchia, ma rischiano di nascondere la verità. Il terrore non ha religione né razza, ma ha sempre un’ideologia. E nel caso del gruppo Stato islami-co, questa ideologia è il salaismo jihadista. Ora bisogna porsi una domanda concreta: qual è il rapporto tra lo Stato islamico e il governo del Par-tito della giustizia e dello sviluppo (Akp) in Tur-chia? Una parte dell’opposizione turca ha una ri-sposta semplice: l’Akp sostiene lo Stato islamico,

anzi, lo ha creato. Non sono d’accordo con questa tesi. Ci sono molte prove che l’Akp abbia armato e sostenuto vari gruppi ribelli in Siria, compresi gruppi salaiti come Ahrar al Sham, ma non ci so-no prove di un sostegno pianiicato della Turchia allo Stato islamico.

Questo non signiica che Ankara non abbia le sue responsabilità. Il governo turco ha sottovalu-tato la minaccia jihadista, ostinandosi a vedere nel regime di Bashar al Assad “il vero problema” e considerando i curdi un nemico più pericoloso per la Turchia. Inoltre l’Akp, un partito islamista moderato, non è riuscito a fare i conti con il jiha-dismo del gruppo Stato islamico. Un po’ come i comunisti moderati che durante la guerra fredda non riuscivano ad accettare che Stalin fosse un dittatore sanguinario. I mezzi d’informazione vi-cini all’Akp hanno preferito una visione semplici-stica secondo cui il gruppo era solo una marionet-ta dei servizi segreti occidentali. Pochi giorni fa un opinionista ha deinito lo Stato islamico “un subappaltatore del sionismo”.

Con la sua cecità, l’Akp si sta trincerando in una pericolosa illusione. È ora di svegliarsi, ren-dersi conto della vera natura dello Stato islamico, capire perché alcuni giovani musulmani ne sono attratti e prendere le necessarie precauzioni. u f

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniEditor Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Gabriele Crescente (opinioni), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Stati Uniti), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio Oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura, caposervizio)Copy editor Giovanna Chioini (web, caposervizio), Anna Franchin, Pierfrancesco Romano (coordinamento, caporedattore), Giulia ZoliPhoto editor Giovanna D’Ascenzi (web), Mélissa Jollivet, Maysa Moroni, Rosy Santella (web)Impaginazione Pasquale Cavorsi (caposervizio), Valeria Quadri, Marta RussoWeb Giovanni Ansaldo, Annalisa Camilli, Andrea Fiorito, Francesca Gnetti, Lucia Magi, Stefania Mascetti (caposervizio), Stella Prudente, Martina Recchiuti (caposervizio), Giuseppe RizzoInternazionale a Ferrara Luisa Cifolilli, Alberto EmilettiSegreteria Teresa Censini, Monica Paolucci, Angelo Sellitto Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Giuseppina Cavallo, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Federico Ferrone, Antonio Frate, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Irene Sorrentino, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, China Files, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anita Joshi, Andrea Pira, Fabio Pusterla, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale spa Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Emanuele Bevilacqua, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli, Alessia SalvittiConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 6953 9313, 06 6953 9312 [email protected] Download Pubblicità srlStampa Elcograf spa, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 22 luglio 2015

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Attualità

16 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

Nella settimana in cui il dramma economico della Grecia ha raggiun-to l’apice, sei uomini hanno celebrato un ri-tuale nel luogo che rap-

presenta tutto quello che l’Europa ha di più caro. Il 15 luglio, all’alba e poi di nuovo al tramonto, sono saliti sull’Acropoli marcian-do in perfetta sincronia. Con rara solennità hanno cantato l’inno nazionale, hanno fatto il saluto alla bandiera greca e sono ridiscesi. Questo rito sembrava stridere con quello che stava succedendo sotto l’Acropoli: un voto su un accordo cruciale al parlamento greco, l’economia al collasso, le banche chiuse, i capitali sotto controllo, la popola-zione confusa e i gli scontri tra i manifestan-ti e la polizia. “Oggi abbiamo bisogno so-prattutto di ridurre l’insicurezza”, dice Yan-nis Caloghirou, che insegna economia al Politecnico di Atene. “Il sistema bancario deve tornare a essere stabile, dobbiamo ri-prendere la strada della normalità”.

Il 20 luglio le banche greche hanno ria-perto dopo essere rimaste chiuse per tre settimane. Questo fatto – unito alla decisio-ne di concedere ad Atene un prestito ponte di sette miliardi di euro, essenziale per im-pedire il default che sarebbe arrivato al mo-mento di rimborsare alla Banca centrale europea i 3,5 miliardi di euro in scadenza quel giorno stesso – ha riportato alla norma-lità, almeno apparente, un paese che ri-schiava di diventare uno stato fallito.

Il desiderio di stabilità dei greci non va sottovalutato. Perino per gli standard di quella che è diventata un’epica lotta per evi-tare la bancarotta, l’ultimo mese è stato

particolarmente drammatico. Le emozioni hanno oscillato con la stessa violenza degli eventi. Dopo l’iniziale atteggiamento di de-terminazione e di sida, con la vittoria del no nel referendum del 5 luglio, i greci sono stati costretti a fare un bagno di umiltà quando il primo ministro Alexis Tsipras, sotto la minaccia dell’espulsione dall’euro, ha ceduto alla richiesta dei creditori di au-mentare l’iva, tagliare le spese e riformare il sistema pensionistico.

Mentre il 15 luglio davanti al parlamento i manifestanti lanciavano molotov contro gli agenti, i deputati greci hanno approvato le misure pretese dai creditori per aprire i negoziati su un nuovo piano di aiuti. Anche se era il più duro mai imposto al paese (in tre anni Atene dovrà risparmiare 12 miliardi di euro), il pacchetto di riforme è stato ap-provato con la maggioranza più ampia dall’inizio della crisi, nel 2009. “La maggior parte di noi si rende conto che questa è l’ul-tima possibilità che abbiamo per ricomin-ciare da capo”, dice Anna Asimakopoulou, deputata del partito conservatore Nea di-mokratia, che ha votato a favore dei provve-dimenti proposti.

Dissenso internoDiversamente da tutti i suoi immediati pre-decessori, Tsipras oggi ha l’appoggio di quasi tutti i partiti dell’opposizione, detta-glio importante in un periodo di crisi che ha fortemente diviso il panorama politico. “Ma se non renderà efettive le riforme de-cise, la Grecia non cambierà”, sottolinea Asimakopoulou. “Tsipras ha detto di non credere a queste riforme, e non è stato il so-lo: un terzo del suo partito ha votato contro e vorrebbe il ritorno alla dracma”.

I corridoi del parlamento di Atene sono coperti di quadri che rievocano le glorie dell’antica Grecia. E probabilmente fu pro-prio quel passato il fattore che nel 1981 con-vinse quella che allora si chiamava Comu-nità economica europea ad accogliere il

paese al suo interno. In quanto “madre di tutte le democrazie” e culla della civiltà eu-ropea, sosteneva l’allora presidente france-se Valéry Giscard d’Estaing, Atene non po-teva essere esclusa dal più grande progetto politico del continente. “L’ingresso in Euro-pa è stato il secondo evento più importante della storia greca dopo la guerra d’indipen-denza”, dice Thanos Veremis, professore di storia all’università di Atene. “Se lasciassi-mo l’eurozona, dovremmo adottare politi-che che porterebbero molto rapidamente all’uscita dall’Unione. Sarebbe una cata-strofe nazionale”.

Anche Tsipras sembra essere arrivato alla stessa conclusione. Ma dopo cinque mesi di negoziati con i creditori, che dal 2010 hanno sorretto l’economia greca con 240 miliardi di euro, l’ultimo, spettacolare voltafaccia gli è costato molto caro.

Lo spiraglio di speranza oferto dalla ri-apertura delle banche e dalla decisione del-la Bce di aumentare le iniezioni di liquidità

La Greciadopo l’accordo

Il paese torna a respirare con la riapertura della banche e l’inizio delle trattative per il nuovo piano di aiuti. Ma i problemi più gravi non sono ancora risolti

Helena Smith, The Guardian, Regno UnitoFoto di Chris Stowers

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 17

d’emergenza è stato ofuscato dalla durezza dell’accordo. Il dissenso interno a Syriza (38 deputati non hanno sostenuto l’intesa in parlamento) ha sconcertato Tsipras. Ma le condizioni imposte al paese sono così pe-santi che i ribelli hanno più di una ragione per cercare di bloccare le nuove leggi, a par-tire da quella sull’aumento dell’iva.

Dopo il voto di Atene e dei parlamenti europei che dovevano esprimersi sul tema, la Grecia e i creditori potranno deinire i dettagli del terzo pacchetto di salvataggio da 86 miliardi. Ma pochi economisti pensa-no che il piano basterà a rimettere in sesto il paese. Molti sostengono che le misure sono così recessive da essere destinate ad aggra-vare ulteriormente la depressione econo-mica greca, anche se riconoscono che la ri-forma del sistema pensionistico e le altre misure strutturali avrebbero dovuto essere introdotte da tempo. Diversamente da Spa-gna, Portogallo e Irlanda, paesi che sono usciti incolumi dagli interventi di salvatag-

gio, la spirale verso il basso di Atene conti-nuerà. “Per tornare a crescere servono le esportazioni. E le nostre, ferme al 27 per cento del pil, non sono suicienti per risol-levare l’economia”, dice Panagiotis Petra-kis, che insegna economia all’università di Atene. “Gli efetti negativi non dureranno quanto quelli dei programmi precedenti perché i settori ancora da distruggere sono ormai pochi. Ma molto dipenderà anche dalla stabilità politica e da come i greci rea-giranno quando le conseguenze dei nuovi provvedimenti si faranno sentire”.

Troppe pressioniLa prospettiva dell’instabilità politica, il maggior ostacolo agli investimenti stranie-ri, è raforzata anche dall’ipotesi che una volta raggiunto l’accordo per il terzo bailout Tsipras convocherà nuove elezioni. E i par-lamentari di Syriza che hanno approvato con riluttanza le riforme oggi puntano so-prattutto a trasformare quella sconitta in

una vittoria alle urne. Nonostante la riaper-tura delle banche, i capitali continuano a essere sotto controllo e ci sono ancora limi-ti sui prelievi. Ma comunque un po’ di liqui-dità è tornata sul mercato. “La pressione politica, ideologica e psicologica oggi è for-tissima”, dice Makis Balaouras, un veterano della sinistra greca e tra i protagonisti della resistenza al regime dei colonnelli. “Ma quest’accordo ofre la promessa di una ri-duzione del debito, e ci permette di guada-gnare tempo per afrontare problemi come l’evasione iscale, la corruzione, gli interes-si consolidati: quello che deve fare la sini-stra quando va al governo”.

Ma Balaouras teme anche che le solleci-tazioni sul paese siano eccessive. Nel clima attuale non si può escludere nulla, meno che mai un ritorno dei neonazisti di Alba dorata, che stanno cercando di afermarsi come l’unica forza credibile contro l’auste-rità. “L’Europa si sta comportando stupida-mente”, dice. “Il livello di vità crollerà an-cora, la gente reagirà e, se penserà che Syri-za abbia fallito, alle prossime elezioni vote-rà i fascisti di Alba dorata”.

Anche Konstantinos Tsoukalas, il più importante sociologo greco, è convinto che il paese sia a un bivio. “L’età dell’innocenza e dell’ottimismo seguita alla caduta del re-gime militare è inita”, ammette. “Il grande errore è stato pensare di poter continuare a marciare verso il paradiso materiale, con l’economia e gli standard di vita sempre in crescita. Ma la promessa dell’eterno pro-gresso non può essere data per scontata”.

Tsoukalas, che è stato eletto in parla-mento con Syriza, è in troppo consapevole dell’ironia della storia: quelli che pensano di poter controllare gli eventi, sostiene, ri-mangono inevitabilmente delusi. “Non credo che supereremo mai questa crisi. Un popolo non supera mai del tutto i momenti che cambiano la mentalità collettiva”, dice. “I greci non hanno mai superato il trauma della ‘catastrofe’ dell’Asia Minore del 1922, i francesi non hanno mai mandato giù l’umiliazione inlitta loro da Bismarck nel 1870, gli statunitensi non hanno mai di-menticato la crisi del 1929 e i tedeschi non hanno mai digerito la sconitta nella secon-da guerra mondiale. Cose come queste la-sciano il segno per sempre”. È probabile che in Grecia i prossimi anni portino ulteriore caos economico. Ma almeno il paese è stato salvato dallo spettro della guerra civile. E prima o poi ai piedi dell’Acropoli la vita tor-nerà a scorrere normale. u bt

Alla periferia di Atene, il 14 luglio 2015

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Attualità

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Se c’è un messaggio che la Grecia può cogliere dallo scontro con i creditori è che non avrà mai tutto l’aiuto che le serve. Oggi Atene de-

ve evitare il collasso totale dell’economia. E per farlo ha bisogno di uno stimolo ai con-sumi e di una politica monetaria meno rigi-da. Nessuna delle due cose le è stata oferta. E anche se otterrà un taglio del debito, i prossimi anni saranno comunque diicili.

Cosa fare quindi? C’è una sola via d’usci-ta: rendere più produttiva l’economia e, soprattutto, esportare di più. Perché, come spiega Yannis Ioannides, economista della Tufts university, negli Stati Uniti, “il debito è il problema minore. La produttività e la competitività delle esportazioni sono molto più importanti”. A rendere questi problemi di diicile soluzione sono le carenze strut-turali. La Grecia non è mai stata un paese industriale: la metà delle sue fabbriche ha meno di 50 dipendenti, il che ne limita la produttività e l’eicienza. Il paese ha anche un sistema giudiziario e commerciale che scoraggia gli investimenti, in particolare quelli esteri. Inoltre, avviare e gestire un’im-presa è molto diicile, e un’ininità di nor-me difendono dalla concorrenza chi ha già

un’attività. Tutti i paesi hanno leggi simili, ma la Grecia è un caso limite. I paniici, per esempio, possono produrre pane solo in al-cuni formati e, di recente, il primo ministro Alexis Tsipras ha dovuto promettere di “li-beralizzare il mercato delle palestre”.

Le dimensioni di questi problemi fanno pensare che la Grecia non riuscirà mai a portare a termine il suo compito, ma qual-che semplice riforma potrebbe dimostrarsi di grande impatto. Contrariamente a quan-to pensa l’Europa, Atene ha già fatto passi in avanti: tra il 2013 e il 2014 ha scalato 111 po-sizioni nell’indice della Banca mondiale sulla facilità di avviare un’impresa. Le rifor-me non signiicano che la Grecia debba ri-nunciare alle sue particolarità. Anzi, nel caso delle esportazioni il paese ha impor-tanti risorse non ancora sfruttate appieno. Il 60 per cento dell’olio greco, da molti con-siderato il migliore al mondo, è venduto in blocco all’Italia, che poi lo rivende a prezzo maggiorato. La Grecia dovrebbe commer-cializzare quell’olio da sola, discorso che vale anche per la feta e lo yogurt. Secondo uno studio dell’istituto di ricerche McKin-sey, l’esportazione di prodotti alimentari potrebbe aggiungere miliardi di euro al pil

Come far ripartirel’economia greca

James Surowiecki, The New Yorker, Stati Uniti

Kathimerini, Grecia

L’opinione

Il parlamento greco ha approva-to con una maggioranza senza precedenti l’accordo con i part-

ner e i creditori europei. Ma questo è solo l’inizio del diicile tentativo di garantire la permanenza del paese nell’euro. I prossimi due mesi saran-no determinanti per capire se ci riu-sciremo. Il primo ministro Alexis Tsipras ha gravi problemi da risolve-re all’interno di Syriza, il suo partito. La sua priorità, tuttavia, deve essere perfezionare l’accordo entro set-tembre, garantire il inanziamento del paese, far ripartire l’economia reale e assicurare il funzionamento delle banche. Forse neanche lui im-magina quanto sia diicile l’impresa che ha davanti. La maggior parte dei membri del governo, compresi quel-li che hanno votato a favore dell’ac-cordo, non può né vuole fare tutto il possibile per evitare che il paese si ritrovi presto sull’orlo del precipizio.

Tsipras ha di fronte una scelta: da una parte può organizzare una “squadra kamikaze” per portare a termine questa missione. Se decide-rà di aidarsi ai soliti compagni di partito, il fallimento sarà inevitabile. Se invece aprirà le porte a uomini che hanno esperienza e competen-ze, le probabilità di successo sono elevate. L’altra possibilità è formare un governo completamente nuovo, aperto a politici di tutti i partiti. L’esecutivo annunciato dopo il rim-pasto del 17 luglio, tuttavia, è delu-dente e diicilmente riuscirà a fare quello che serve. Il premier ha pochi giorni per prendere una decisione. Una cosa, però, è certa: la sua iner-zia e l’eccessiva attenzione agli equilibri interni di Syriza rischiano di far tornare d’attualità l’ipotesi di una Grexit, che pensavamo di esser-ci lasciata alle spalle. u anf

La sceltadi Tsipras

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Lungo la strada da Atene a Salonicco, il 14 luglio 2015

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del paese. Anche il turismo, che già costitu-isce il 18 per cento del pil, potrebbe crescere ancora. Ma bisognerebbe sfruttare meglio il boom del settore a livello globale, e per farlo servono investimenti nelle infrastrut-ture e nel marketing. I vantaggi sarebbero enormi. Un’altra cosa da fare è fermare l’at-tuale fuga dei cervelli. La Grecia sforna un gran numero di scienziati e ingegneri, ma spende poco per la ricerca e lo sviluppo, perciò i talenti migliori emigrano. Per il cli-ma e la forza lavoro qualiicata, la Grecia sarebbe anche la sede ideale di istituti di ri-cerca e succursali di università straniere.

Il pane e le palestrePer introdurre questi cambiamenti, il paese dovrà prima superare altri problemi. Le ri-forme funzionano quando c’è iducia nelle istituzioni. E oggi lo stato greco non gode di buona reputazione tra i cittadini, che lo ve-dono come un luogo dominato dagli inte-ressi privati. A questo si aggiunge il fatto che inora la principale sostenitrice delle rifor-me è stata l’odiata troika, la cui ossessione per l’austerità ha reso inaccettabile per i greci l’idea stessa di riforma. Ma l’apertura dell’economia favorirebbe soprattutto i cit-tadini comuni, dato che la miriade di regole in vigore serve soprattutto a difendere gli interessi dei ricchi e di chi ha un posto nell’amministrazione pubblica.

Certo, è diicile convincere della neces-sità di cambiare chi è preoccupato e ha pau-ra di perdere tutto. Ma Tsipras dovrebbe provarci. Come mi ha detto Ioannides, “guardando gli altri paesi, abbiamo capito che le riforme funzionano se il governo e la gente le condividono”. E in questo momen-to in Grecia nessuno le appoggia veramen-te. Eppure Tsipras dispone di un grande capitale politico. Potrebbe usarlo per resta-re in carica inveendo contro l’austerità. Ma la Germania gli ha fatto capire che non fun-zionerà. Il premier deve smettere di pensa-re a quello che l’Europa non farà e concen-trarsi su quello che può fare la Grecia. Insi-stere sull’importanza delle esportazioni, rendere più facile per i giovani trovare lavo-ro e avviare imprese, e perino permettere che le pagnotte non abbiano tutte lo stesso peso e liberalizzare le palestre. Non è il pro-gramma con cui ha vinto le elezioni, ma è quello di cui la Grecia ha bisogno. u bt

James Surowiecki è un giornalista statu-nitense. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (Fusi orari 2007).

L’opinione pubblica greca è divisa tra chi ha iducia nel governo e chi è convinto che il paese sia spacciato

In Grecia gli ottimisti stanno comin-ciando a vedere il bicchiere mezzo pieno. Valutano positivamente la de-cisione presa all’ultimo momento da

Alexis Tsipras di irmare l’accordo propo-sto dall’Unione europea. Al primo mini-stro riconoscono anche un certo coraggio, dopo la decisione di rinunciare alle sue convinzioni per il bene del paese e di anda-re allo scontro con lo zoccolo duro del suo partito, mettendo in pericolo la sua stessa carica.

Gli ottimisti, inoltre, pensano che in questo modo Tsipras abbia scongiurato per sempre l’ipotesi di un ritorno alla drac-ma e abbia confermato che Atene intende rimanere in Europa a qualunque costo.

Queste stesse persone invitano le altre forze politiche a facilitare il compito del governo e a sostenerlo in parlamento sen-za sollevare polemiche inutili, così da con-sentire l’approvazione dei discussi provve-dimenti di legge che dovrebbero garantire al paese la permanenza nell’eurozona.

I più ottimisti, inoltre, sostengono an-che che l’attuale governo deve restare in carica almeno dodici mesi per attuare le riforme necessarie e creare le condizioni per la ripresa dell’economia che, se tutto andrà secondo i piani, dovrebbe comin-ciare nell’estate del 2016.

Ma ci sono anche i pessimisti, che non sperano più in nulla. Pensano che Tsipras abbia miseramente fallito, che abbia di-strutto l’economia del paese negoziando per cinque mesi un programma incomple-to, senza garanzie, senza condizioni preci-se e senza alternative. E lo accusano di es-sersi fatto prendere dal panico all’ultimo momento e di aver accettato un accordo punitivo. I pessimisti sono anche convinti che il primo ministro non sia in grado di gestire il paese, che il nuovo governo ri-letta la sua debolezza e che durante i ne-goziati delle prossime settimane l’esecuti-vo crollerà, trascinando il paese in una di-sonorevole Grexit, immaginata e pianii-cata dal ministro delle inanze tedesco Wolfgang Schäuble, con il consenso dell’ex ministro delle inanze greco, Yanis Varoufakis, e di metà del precedente con-siglio dei ministri.

Secondo i pessimisti, sotto la guida di Tsipras la Grecia non uscirà mai dalla cri-si: l’unica cosa che il premier può fare è so-stenere la nascita di un governo di unità nazionale che difenda il paese dal pericolo di un ritorno alla dracma.

Oggi nessuno può schierarsi con con-vinzione dalla parte degli uni o degli altri. Ma un mio amico mi ha ricordato un detto profondamente radicato nella memoria degli ebrei di origine europea: quelli che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, erano pessimisti decisero di emigrare e si ritrovarono a New York. Gli ottimisti ini-rono ad Auschwitz. u bt

Ottimisti e pessimisti

Antonis Karakousis, To Vima, Grecia

L’opinione

16 luglio 2015 Il parlamento greco approva con 229 voti a favore e 64 contrari la prima tranche delle misure richieste dai creditori per aprire le trattative per il terzo piano di salvataggio da 86 miliardi di euro. Il premier Alexis Tsipras ottiene i voti di tre partiti dell’opposizione (Nea dimokratia, To potami e Pasok), ma Syriza, il suo partito, si spacca: 32 deputati votano contro e sei si astengono. Scontri tra polizia e manifestanti ad Atene. Il piano di salvataggio per la Grecia è approvato anche dal parlamento tedesco. 17 luglio Tsipras modiica la composizione del governo, rimuovendo dall’incarico i ministri e i viceministri contrari al piano. Bruxelles sblocca i 7,16 miliardi del prestito ponte provenienti dal Meccanismo europeo di stabilità (Esm). 20 luglio Riaprono le banche, che erano rimaste chiuse per tre settimane. Il governo greco rimborsa oltre sei miliardi di euro alla Banca centrale europea e al Fondo monetario internazionale. Il controllo sui capitali e le limitazioni ai prelievi di denaro rimangono in vigore.

Da sapere L’ultima settimana

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Europa

Dieci settimane dopo le elezioni legislative, i laburisti si stanno ancora chiedendo perché han-no perso. Semplice: perché i

conservatori sono stati più bravi a fare poli-tica. David Cameron aveva un messaggio più chiaro e l’ha comunicato meglio. Prima del voto il leader laburista Ed Miliband era il netto favorito. “Eppure siamo riusciti a perdere”, mi ha confessato un suo assisten-te. Forse proprio perché pochi mesi fa la vittoria è sembrata molto vicina, il Labour fa fatica a rendersi conto dei suoi problemi. E si consola denigrando la superiorità degli avversari sul piano pratico: la disprezzata arte di vincere le elezioni. Questa è una grande diferenza culturale tra le due tribù politiche britanniche. Per i conservatori go-vernare è una vocazione, e ogni sconitta equivale a un tradimento della missione del

partito. Per il Labour, invece, il successo e la virtù politica sono due cose diverse. Così, specialmente per la sinistra del partito, la sconitta può essere positiva e la vittoria un tradimento. Con Tony Blair questa tenden-za era stata marginalizzata, con Miliband è tornata alla ribalta. Così, la lotta per la lea-dership laburista è diventata un modo per evitare di afrontare due verità che riguar-dano l’elettorato. La prima è che a maggio i britannici hanno votato in maggioranza per i tory. La seconda è che se l’hanno fatto, avevano un motivo. E se il Labour dimo-strerà disprezzo per le loro posizioni, di cer-to questi elettori non cambieranno idea.

Giovani idealistiL’unica candidata alla guida del partito ad averlo capito è Liz Kendall. E per questo sui social network è stata bollata come traditri-ce e criptoconservatrice, tutte accuse infon-date. Eppure anche chi è d’accordo con Kendall non riesce a farsi entusiasmare dal-la sua campagna elettorale. Kendall non ha capito qual è il conine tra dire delle verità scomode e provocare i militanti, cosa che solleva dei dubbi sul suo intuito politico. Anche per questo alcuni potenziali sosteni-tori di Kendall hanno deciso di sostenere

Yvette Cooper, la candidata che, sotto un proilo puramente pratico, sembra più pron-ta ad assumersi la guida del partito. La sua strategia è stata tentare di smarcarsi dall’an-gusta lotta tra destra e sinistra del partito per concentrarsi sulle side economiche che il paese dovrà afrontare. Ma questi argo-menti non hanno trovato grande seguito.

C’è poi Andy Burnham. L’ex ministro della sanità potrebbe aver avuto la tentazio-ne di provare a capire le ragioni dei conser-vatori, ma la voglia gli è sicuramente passa-ta quando Jeremy Corbyn, della sinistra del partito, ha deciso di candidarsi. Il ruolo di favorito di Burnham, infatti, è stato rafor-zato dal fatto che, al secondo scrutinio, molte delle preferenze alternative dei so-stenitori di Corbyn potrebbero inire pro-prio a lui.

Per ora è diicile valutare il sostegno re-ale a Corbyn, ma l’impressione è che l’inte-ro partito si sia spostato a sinistra. La popo-larità di Corbyn ha radici ideologiche, ma deriva soprattutto dalla frustrazione per la mancanza di coraggio degli altri candidati, considerati residui del New Labour. I vecchi militanti e una nuova generazione di ideali-sti vogliono impegnarsi in una nuova cro-ciata per la giustizia sociale. E la risposta alle loro domande è Corbyn, che non è compromesso da nessuna partecipazione a governi passati e non ha la prospettiva di dover fare diicili scelte di governo. È in quest’ottica che Burnham ha aggiustato la sua posizione, lodando Corbyn e ipotizzan-do di includerlo nel prossimo governo om-bra. Per questo molti temono che un’even-tuale leadership di Burnham sia troppo le-gata, per debito di riconoscenza, alla sini-stra più intransigente del partito.

Secondo i suoi sostenitori, tuttavia, Bur-nham può vincere per la sua capacità di co-municare con gli elettori. E perché il fatto di essere un outsider, che ha fatto le scuole pubbliche nel nord del paese, mette in evi-denza le ingiustizie di un sistema popolato soprattutto da ricchi giovani istruiti nelle esclusive scuole private del sud. Ma come dimostrano le ultime elezioni, la provenien-za da una famiglia ricca non impedisce di conquistare voti. Oggi il segno degli errori del Labour è la riluttanza a discutere di ciò che si deve fare per confrontarsi con gli elet-tori che hanno scelto i tory, la convinzione che si possa fare politica senza cercare di parlare a tutti. Miliband ha dimostrato che è impossibile. E Burnham rischia di fare un errore simile. u

Il Partito laburistacerca una strategia

Per battere i tory il Labour deve scegliere un leader coraggioso e abbandonare l’idea che la sconitta sia un segno di integrità politica. L’opinione di un columnist del Guardian

Rafael Behr, The Guardian, Regno Unito

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Yvette Cooper e Andy Burnham a Stevenage, il 20 luglio 2015

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Paesi Bassi

La veritàimpossibile A un anno dalla tragedia del Bo­eing MH17 della Malaysian Air­lines, abbattuto nei cieli ucraini con 298 persone a bordo, la veri­tà sui responsabili è ancora lon­tana. Il governo dei Paesi Bassi, da cui proveniva la maggior par­te delle vittime, insieme a quelli di Malesia, Australia, Ucraina e Belgio, ha richiesto la creazione di un tribunale internazionale incaricato di indagare sul disa­stro. Il consiglio di sicurezza dell’Onu deciderà il 27 luglio, ma – come scrive Nrc Handel-sblad – con ogni probabilità la Russia farà valere il suo potere

di veto. Secondo il presidente Vladimir Putin, l’iniziativa è “prematura e controproducen­te”. Secondo l’inchiesta interna­zionale in corso, guidata dai Pa­esi Bassi, l’aereo è stato abbattu­to da un missile terra­aria parti­to da un villaggio controllato dai separatisti ilorussi. Mosca, in­vece, ha sempre accusato l’eser­cito ucraino. “Se la Russia vuole salvare la faccia”, scrive il sito russo Gazeta, “deve dimostrare di voler accettare la creazione del tribunale internazionale. Anche perché con ogni probabi­lità l’abbattimento dell’aereo non è stato intenzionale ma è stato un errore. Tragico, irrepa­rabile, crudele, ma pur sempre un errore, come spesso ne ven­gono compiuti in un conlitto”.

Tutte le leggi sulle quote rosa non potranno cambiare una regola antica quanto ingiusta eppure ancora valida: le donne devono scegliere tra i igli e la carriera, scrive New Statesman. Sulla copertina della rivista britannica campeggiano quattro donne tra le più inluenti al mondo, accomunate dal fatto di non avere igli: la irst minister

scozzese Nicola Sturgeon, la candidata alla guida del Labour Liz Kendall, la ministra dell’interno britannica Theresa May e soprattutto la cancelliera tedesca Angela Merkel. Anche se le donne che occupano posizioni di spicco in politica sono sempre di più, il fenomeno “nasconde una verità scomoda”, sottolinea New Statesman: tra le donne di maggior successo in politica la maggior parte non ha igli. Il dato “rilette la discriminazione strutturale che colpisce le donne” e che è legata alla “trappola della maternità”: le donne con igli sono discriminate perché ritenute non abbastanza dedite al lavoro, mentre a quelle che non hanno igli viene rimproverato di non avere una vita al di fuori del lavoro”. Per cambiare le cose, scrive Helen Lewis, bisogna “mettere ine alla cultura che vede le donne senza igli come delle egoiste, lottare per i propri diritti e ottenere maggiori tutele per chi ha igli”. ◆

Regno Unito

Le leader senza igli

New Statesman, Regno Unito

tURchia

L’ofensivadei jihadisti Il 20 luglio 32 persone sono mor­te e più di cento sono rimaste fe­rite in un attentato suicida nella città di Suruç, nel sudest della Turchia, vicino al conine con la Siria. Le vittime sono giovani militanti socialisti che si prepa­ravano a partire per lavorare alla ricostruzione di Kobane, la città siriana liberata a gennaio dopo una lunga battaglia con i com­battenti del gruppo Stato islami­co. Ankara ha subito accusato i jihadisti, e secondo la polizia a farsi saltare in aria è stato uno studente d’ingegneria venten­ne. Pur riconoscendo la respon­sabilità dei jihadisti, il quotidia­no Cumhuriyet, critico verso il partito di governo, l’Akp del pre­sidente Recep Tayyip Erdoğan, scrive che la forza dei terroristi è anche il risultato delle scelte strategiche di Ankara: “Da quando il governo ha intrecciato rapporti con il gruppo Stato isla­mico, sui giornali dell’opposi­zione sono uscite decine di arti­coli su come i jihadisti stavano estendendo le loro attività in Turchia, raccogliendo soldi, re­clutando combattenti. L’esecu­tivo ha sempre negato ogni coinvolgimento. Il presidente e il premier Ahmet Davutoğlu si sono resi conto troppo tardi che la loro politica stava facendo precipitare il paese in una spira­le senza ine. Per combattere Assad sono andati a letto con il nemico. Gli hanno oferto ospi­talità, trasformando la Turchia in una complice”. Nella foto il fu-nerale delle vittime a Gaziantep.

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Un accordoal ribasso I ministri degli esteri dei paesi dell’Unione europea hanno tro­vato un accordo sulla distribu­zione dei migranti arrivati sulle coste italiane e spagnole. Ma l’intesa, spiega De Volkskrant, riguarda solo 32. 256 persone (quasi tutte provenienti da Eri­trea e Siria), circa ottomila in meno rispetto al numero stabili­to a giugno. L’Austria e l’Unghe­ria hanno riiutato di accogliere i rifugiati, la Spagna, la Polonia e i tre paesi baltici ne ospiteranno meno del previsto, mentre solo la Germania e l’Irlanda ne acco­glieranno più di quanti gliene avesse aidati la commissione europea. Anche se i leader euro­pei non hanno il coraggio di spiegare ai cittadini che serve un approccio diverso e più uma­no alla questione dei rifugiati, scrive il quotidiano olandese, “un piccolo passo avanti è co­munque stato fatto”.

in BReve

Russia È cominciato a Rostov sul Don il processo al regista Oleg Sentsov (nella foto) e all’anarchico Aleksandr Kolčenko, entrambi cittadini ucraini, accusati di aver pianii­cato atti di terrorismo in crimea dopo l’annessione alla Russia. Secondo le organizzazioni uma­nitarie indipendenti, i due sono vittime di un processo politico. turchia Due agenti di polizia sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco a ceylanpınar, vicino al conine con la Siria.

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Africa e Medio Oriente

22 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

dollari). Se l’Iran non rispetterà gli impegni, gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali avranno la possibilità di reintrodurre le san-zioni. Ma se Teheran non violerà l’accordo sul nuclea re, non dovrà più preoccuparsi di essere criticato per l’arricchimento dell’ura-nio, anche se dovrà limitare quest’attività ai livelli consentiti dall’intesa di Vienna.

Ancora avversari

Per il momento non è dato sapere in che mi-sura il patto sul nucleare riuscirà a cambiare le relazioni dell’Iran con gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali. Il presidente sta-tunitense Barack Obama e la guida supre-ma iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, han-no messo le mani avanti, afermando che il riavvicinamento non comporta un cambia-mento sostanziale dei rapporti tra i due pa-esi, che sono nemici storici. L’Iran ha fatto sapere di voler continuare a sostenere i suoi alleati regionali, come l’organizzazione sci-ita libanese Hezbollah e il gruppo palestine-se della Jihad islamica, che Washington considera gruppi terroristi. Dal canto loro, gli Stati Uniti continueranno a fornire so-stegno militare e politico a Israele e all’Ara-bia Saudita, i due principali nemici di Tehe-

Per nove anni l’Iran è stato un paria della comunità internazionale, il bersaglio di numerose sanzioni imposte dopo che Teheran aveva

palesemente e sistematicamente violato le risoluzioni delle Nazioni Unite che mirava-no a fermare il suo programma nucleare. Il 20 luglio, però, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una nuova risoluzione che riprende i punti prin-

Il ritorno dell’Iran

sulla scena mondiale

L’accordo sul nucleare non garantisce che le relazioni tra Iran e Stati Uniti cambieranno. Ma potrebbe essere un primo passo verso la costruzione di un rapporto di iducia

Colum Lynch, Foreign Policy, Stati Uniti

cipali del patto irmato a Vienna il 14 luglio da Teheran e dai paesi del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, più la Germania). D’ora in poi l’Iran non sa-rà più considerato un trasgressore seriale delle disposizioni dell’organizzazione in-ternazionale. Inoltre la risoluzione contie-ne un piano d’azione, appoggiato dall’Onu, per far rientrare l’Iran nel sistema inanzia-rio internazionale.

L’Iran continuerà a subire una serie di sanzioni e limitazioni temporanee alle sue attività nucleari, e sarà sottoposto al pro-gramma di ispezioni più invasivo del mon-do. Inoltre nei prossimi tre mesi dovrà met-tere in atto le misure necessarie a ridimen-sionare le sue attività nucleari, in cambio di un alleggerimento delle sanzioni (del valo-re complessivo di più di cento miliardi di

Festeggiamenti per l’accordo sul nucleare a Teheran, 14 luglio 2015

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ran in Medio Oriente. “Siamo ancora avver-sari”, ha dichiarato il segretario di stato americano John Kerry a Fox News. “Siamo convinti che l’accordo garantirà la sicurezza di Israele. Se il congresso di Washington non ratiicherà l’intesa, l’Iran non avrà più freni, non ci saranno più sanzioni, i nostri alleati ci abbandoneranno e saremo visti come coloro che hanno sprecato l’opportu-nità di impedire all’Iran di sviluppare la bomba atomica”.

Trita Parsi, il fondatore del National ira-nian american council e uno dei più convin-ti sostenitori dell’accordo, si aspetta che gli Stati Uniti e l’Iran continuino ad attaccarsi pubblicamente, ma allo stesso tempo fa no-tare che dovranno lavorare insieme per mettere in atto l’intesa sul nucleare. Questo processo durerà almeno dieci anni. Secon-do Parsi, i due rivali di lungo corso saranno costretti a incontrarsi regolarmente e que-sto alla lunga potrebbe far nascere una idu-cia reciproca. “C’è un interesse politico a fare in modo che i problemi siano risolti”, aferma Parsi. Sia l’Iran sia gli Stati Uniti “hanno preso la decisione strategica di co-struire un nuovo rapporto”.

I soliti sospettiEppure il sospetto che l’Iran continui a nu-trire l’ambizione di costruire la bomba ato-mica è ancora radicato. “L’Iran non è anco-ra nella lista dei buoni”, commenta Richard Gowan, un esperto di Nazioni Unite del Center on international cooperation della New York university. “Gli Stati Uniti, i paesi europei e Israele terranno gli occhi aperti per cogliere gli eventuali segnali di rottura dell’accordo”. Secondo Gowan, l’intesa po-trebbe anche introdurre nuovi elementi di tensione. Per esempio, l’Iran potrebbe con-tinuare a ingaggiare “varie battaglie ideolo-giche con gli Stati Uniti su questioni come i diritti umani per dimostrare che non ha su-bìto un’umiliazione”.

Anche a Washington c’è chi vuole mina-re l’accordo. La decisione di far approvare una risoluzione dal Consiglio di sicurezza dell’Onu ha irritato i parlamentari repubbli-cani e democratici scettici sul patto nego-ziato a Vienna e convinti che il congresso statunitense avrebbe dovuto avere la possi-bilità di discutere per primo il testo dell’in-tesa. I repubblicani hanno criticato alcune misure contenute nella nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, come quella che abolisce, nel giro di cinque anni, il divieto di vendere armi convenzionali

all’Iran e, nel giro di otto anni, quello di ven-dere missili balistici. O come quella che concede all’Iran ventiquattro giorni per contestare le ispezioni dei funzionari dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Questa parte dell’accordo contrasta con le precedenti rassicurazioni dell’amministrazione Obama sul fatto che gli ispettori avrebbero avuto accesso agli impianti nucleari iraniani “ovunque e in qualsiasi momento”.

Negli ultimi giorni il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha imperversato nei talk show statunitensi per convincere gli Stati Uniti a negoziare un nuovo accordo, più duro, che impedisca all’Iran di inanzia-re il terrorismo in Medio Oriente e di mi-nacciare la sicurezza di Israele. “La cosa giusta da fare è bloccare l’accordo”, ha di-chiarato Netanyahu alla tv Cbs. “È un catti-vo accordo stretto con un cattivo regime”.

Gli esperti di proliferazione nucleare sono divisi sui meriti del patto. Alcuni lo hanno deinito “decisamente buono”. Altri hanno trovato dei difetti. David Albright, fondatore dell’Institute for science and in-ternational security, è preoccupato che gli Stati Uniti abbiano concesso troppo su que-stioni non connesse al programma nucleare iraniano. Albright teme inoltre che i con-trolli siano troppo deboli. Il comitato di esperti delle Nazioni Unite incaricato di sorvegliare le importazioni illegali di tecno-logia nucleare sensibile sarà sciolto. A ere-ditarne alcune funzioni sarà l’Agenzia inter-nazionale per l’energia atomica, che però ha un’autorità limitata nel suggerire modi per raforzare le ispezioni. u gim

u “La risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 20 luglio garantisce all’Iran un nuovo status all’interno della comunità internazionale”, commenta con soddisfazione il quotidiano iraniano Shargh. La stampa iraniana sottolinea inoltre che, il 21 luglio, la discussione dell’accordo sul nucleare al parlamento iraniano ha suscitato meno critiche del previsto da parte dei deputati conservatori che si oppongono al governo Rohani. I parlamentari hanno deciso di creare un comitato che dovrà esaminare il testo dell’intesa. Quindi il parlamento iraniano non ratiicherà l’accordo prima di 80 giorni, scrive il New York Times. Il congresso statunitense ha invece sessanta giorni per approvare il patto.

Da sapere Discussione in parlamento

Uri Savir, Al Monitor,Stati Uniti

L’opinione

Tra tutti i paesi mediorientali, Israele e Palestina sono pro-babilmente i più interessati

alle conseguenze dell’accordo sul nucleare iraniano. Entrambi hanno molto da guadagnare e molto da perdere. Il governo israeliano, che considera l’accordo una minaccia per la sicurezza nazionale, farà di tutto per sabotare il patto in vista del dibattito al congresso statuni-tense. Allo stesso tempo sta pen-sando di chiedere una specie di ri-sarcimento agli Stati Uniti. Secon-do fonti vicine al governo di Benja-min Netanyahu, il premier israelia-no chiederà all’amministrazione Obama di non sollevare più la que-stione palesti nese.

D’altra parte, la leadership pale-stinese aspetta con impazienza la ine del dibattito sull’accordo al congresso statunitense per poter lanciare una nuova ofensiva diplo-matica per la nascita dello stato pa-lestinese. Secondo alcune fonti, il presidente Abu Mazen sarebbe pronto a coordinarsi con la Francia per rilanciare i negoziati e presen-tare una nuova proposta al Consi-glio di sicurezza delle Nazioni Uni-te. In questa iniziativa i palestinesi sembrano avere il sostegno di un numero crescente di paesi eu ropei.

Non è chiaro se queste mosse diplomatiche riusciranno a rimuo-vere gli ostacoli nei negoziati tra israe liani e palestinesi. Una volta che l’accordo iraniano entrerà in vi-gore, e con l’inizio delle primarie presidenziali negli Stati Uniti nei primi mesi del 2016, Washington avrà ben poco tempo per dedicarsi alla questione israelo-palestinese, che rimarrà relegata in secondo piano. u

Quali speranzeper i palestinesi

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24 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

Abu Khalil al Hilou è un com-merciante di frutta secca. Il suo negozio principale si trova nel quartiere di Shujaiyya, nel-la città di Gaza, alla ine di via Al Nazaz e davanti alla mo-schea Al Salaam. Ha un secon-do negozio nel quartiere di Ri-mal, all’angolo con l’ospedale Al Shifa. Tutte queste infor-mazioni le ho trovate sull’eti-chetta incollata su una scatola di ichi secchi, albicocche e datteri. Me l’ha mandata S, un mio amico di Gaza, approit-tando di un giornalista stranie-ro che diversamente da me ha

ottenuto da Israele l’autorizza-zione a entrare nella Striscia.

Ho chiamato Abu Khalil al numero che ho trovato sull’eti-chetta. Volevo sapere se il suo negozio a Shujaiyya esisteva ancora, visto che il quartiere era stato quasi completamente distrutto nel corso dell’ofensi-va israeliana dell’estate scorsa. Ha risposto al telefono con un cordiale salam aleikum. All’ini-zio le mie domande gli sono sembrate sospette, ma sono ri-uscita a rassicurarlo e ho sco-perto che, come temevo, il suo negozio non c’è più. La piccola

“azienda” dove lui e suo fratel-lo imballavano e incartavano la frutta importata dalla Tur-chia era stata colpita da una bomba e aveva preso fuoco. Neanche i magazzini si erano salvati. E neanche la moschea.

I suoi prodotti ora sono esposti solo nel negozio di Ri-mal. “Vogliamo che i nostri clienti continuino a fare rega-li”, mi ha detto, facendo nota-re che la guerra ha colpito du-ramente l’economia della Stri-scia. “Del resto, chi è morto è andato in cielo per volere di Dio”. u

Da Ramallah Amira Hass

La frutta secca di Gaza

Dopo mesi di proteste che hanno causato più di ottanta morti, il 21 luglio il Burundi ha votato per le elezioni presidenziali. Il voto si è svolto in un’atmosfera di tensione ed è stato boicottato dall’opposizione, che considera anticostituzionale la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di candidarsi a un terzo

mandato. Ai seggi non erano presenti gli osservatori internazionali, e Stati Uniti e Belgio hanno deinito le elezioni “non credibili”. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio un poliziotto e un civile sono stati uccisi nella capitale Bujumbura. Secondo la commissione elettorale del Burundi l’aluenza alle urne è stata del 74 per cento ma, come scrive il settimanale indipendente Iwacu, la percentuale reale potrebbe essere molto più bassa. Nkurunziza è il grande favorito. “Negli ultimi mesi il presidente uscente non si è fermato davanti a nulla pur di restare al potere”, si legge nell’editoriale. Le pressioni degli altri leader africani e i tentativi di mediazione tra il governo e l’opposizione sono stati inutili. “Sappiamo bene come inirà: con anni di guerra e di miseria. La guerra è la maledizione del Burundi”. u

Burundi

Elezioni non credibili

Iwacu, Burundi

YEMEN

Il primo carico di aiuti Per la prima volta in quattro mesi, il 21 luglio una nave delle Nazioni Unite (nella foto) ha po-tuto raggiungere il porto di Aden per portare aiuti umanita-ri come cibo e medicine, scrive Al Araby al Jadeed. La nave è stata accolta da alcuni ministri del governo in esilio, che erano rientrati ad Aden pochi giorni prima annunciando la “libera-zione” della città dai guerriglie-ri houthi. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, dalla ine di marzo il conlitto nello Yemen ha cau-sato 3.640 morti, tra cui 1.693 civili. Inoltre più di dieci milio-ni di yemeniti sofrono per la carenza di cibo e acqua.

STRISCIA DI GAZA

Lotte intestine Il 19 luglio sono state fatte esplodere le auto di cinque esponenti del braccio armato di Hamas e dell’organizzazione Jihad islamica. Gli attacchi non sono stati rivendicati, ma sono stati attribuiti ai simpatizzanti del gruppo Stato islamico. Pochi giorni prima il lea der di Hamas, Khaled Meshaal, aveva incon-trato il re saudita. Secondo Now, “è stata una visita signii-cativa perché Hamas e l’Arabia Saudita avevano interrotti i rap-porti nel 2012. Potrebbe essere il segno che Riyadh cerca nuovi alleati nella regione”.

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MALI

I mausolei ricostruiti Il 19 luglio è stata completata la ricostruzione di otto mausolei di Timbuctù andati distrutti nel 2012. I mausolei, che risalgono al tredicesimo secolo, sono il simbolo di un islam tollerante, molto lontano da quello profes-sato dai jihadisti che li hanno demoliti. Il progetto di restauro, scrive Sahelien, è stato inan-ziato dall’Unione europea e da altri partner del Mali.

IN BREVE

Libia Quattro tecnici italiani dell’azienda di costruzioni Bo-natti sono stati rapiti il 20 luglio vicino a Mellitah.Senegal Si è aperto il 20 luglio il processo contro l’ex dittatore ciadiano Hissène Habré, accu-sato di crimini contro l’umanità.Siria Il 22 luglio Washington ha annunciato di aver ucciso con un raid aereo Muhsin al Fadhli, presunto leader del gruppo Kho-rasan, una cellula di Al Qaeda specializzata in attentati contro gli Stati Uniti e l’Europa.

Africa e Medio Oriente

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Americhe

26 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

In Bolivia le proteste dei minatori di Potosí sono arrivate alla capitale La Paz. Il 20 luglio centinaia di persone hanno bloccato il centro della città

per chiedere al presidente Evo Morales di ricevere i leader della protesta, che dura or-mai da quindici giorni. I minatori avanzano 26 rivendicazioni, tra cui la costruzione di un aeroporto internazionale, di una centra-le idroelettrica e di fabbriche di vetro e ce-mento. Inoltre chiedono a Morales di man-tenere le promesse fatte in campagna elet-torale, come quella di migliorare la rete stradale nella regione di Potosí. Il presiden-te sostiene che il 95 per cento delle richieste delle popolazioni locali sono state accolte, e che sul restante 5 per cento (che comprende l’aeroporto e la centrale idroelettrica) non c’è spazio per negoziare.

Il conlitto s’inserisce nel contesto della

crisi dell’attività mineraria, la principale fonte di ricchezza di Potosí, dovuta al crollo dei prezzi internazionali. La ine del boom dei consumi ha fatto esplodere il malcon-tento sociale e ha fatto emergere igure po-litiche che non fanno parte della struttura di governo fedele a Evo Morales. Come Jhon-ny Llally, il leader delle proteste.

Parole surreali

Anche se non ci sono stati episodi violenti, il ministro dell’interno Carlos Romero ha accusato i manifestanti di aver cercato lo scontro tentando di entrare nella piazza dove si trova il palazzo del governo, il cui ingresso è strettamente sorvegliato. Se-condo Romero, il fatto che i manifestanti volessero raggiungere il centro del potere nazionale dimostra che dietro le proteste c’è un obiettivo che va al di là degli interes-si locali. Le forze di sicurezza hanno messo in guardia il governo su un presunto piano per distruggere le torri elettriche di Potosí – città ormai isolata, paralizzata e destabi-lizzata – e hanno sottolineato che se scop-pieranno scontri la responsabilità sarà da attribuire al comitato regionale che orga-nizza lo sciopero.

Il comitato ha incoraggiato le manife-

stazioni del 20 luglio, respingendo per l’ot-tava volta l’invito del governo a dialogare con le autorità, e ribadendo di voler discu-tere direttamente con il presidente. Questa pretesa nasce dall’idea che i ministri “non dicono la verità” a Morales sulle opere rea-lizzate. Ma il governo ha fatto sapere che un incontro con il presidente è fuori di-scussione.

La situazione è paradossale, perché i manifestanti chiedono l’intervento della persona che si è mostrata più intransigente nei loro confronti. Morales li ha accusati di essersi lasciati manipolare dal Cile, che se-condo il presidente vuole usare le proteste per oscurare i successi diplomatici del go-verno boliviano sulla questione dell’acces-so all’oceano Paciico. Il presidente si riferi-sce alle parole di papa Francesco, che du-rante la sua visita in Bolivia ha invitato i due paesi ad aprire un dialogo. La Paz continua a rivendicare lo sbocco al mare perso dopo la guerra combattuta contro il Cile alla ine dell’ottocento. Attualmente la questione è in discussione presso la Corte internazio-nale di giustizia dell’Aja. Heraldo Muñoz, ministro degli esteri cileno, ha definito “surreale” l’accusa di Morales.

Le autorità boliviane sostengono che i-nora il conlitto è costato alla città di Potosí cinque milioni di dollari. Senza contare il danno d’immagine come meta turistica: decine di stranieri sono rimasti bloccati in città per più di una settimana. Inoltre, il 10 luglio i manifestanti hanno occupato le strutture della miniera d’argento gestita dalla Manquiri, filiale della statunitense Coeur Mining. Secondo il ministro delle attività minerarie, la miniera sta per dichia-rare fallimento a causa dei disagi provocati dalle proteste. u as

I minatori boliviani

bloccano La Paz

I lavoratori delle miniere di Potosí, colpiti dalla crisi del settore, chiedono al governo più risorse. Il presidente Morales li accusa di essere manipolati dal governo cileno

Fernando Molina, El País, Spagna

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La Paz, 17 luglio 2015

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 27

BRASILE

Le prime condanne “Un terremoto si è abbattuto su Brasilia”, scrive Época com-mentando gli ultimi sviluppi dell’inchiesta sullo scandalo Pe-trobras, l’azienda petrolifera di stato. La polizia federale e la procura hanno emanato un or-dine di perquisizione e seque-stro nei confronti di alcuni sena-tori di spicco, tra cui l’ex presi-dente Fernando Collor de Mel-lo. Negli stessi giorni sono arri-vate le prime sentenze per cor-ruzione e riciclaggio contro im-prenditori e funzionari coinvolti nello scandalo. Paulo Roberto Costa, ex funzionario di Petro-bras, è stato condannato a 12 an-ni, mentre tre dirigenti del con-

glomerato Camargo Correa so-no stati condannati a quindici anni. Nel frattempo, un altro i-lone dell’inchiesta ha aggiunto Luiz Inácio Lula da Silva, presi-dente del paese dal 2003 al 2011, nel registro degli indagati. Se-condo la procura, Lula avrebbe favorito gli interessi del colosso dell’edilizia Odebrecht in gare di appalto internazionali in cambio di tangenti. Lo scandalo non ha risparmiato neanche il presidente della camera Eduar-do Cunha, che dopo essere stato accusato di aver ricevuto una tangente da cinque milioni di dollari ha annunciato la rottura con il governo. “Questo terre-moto ha provocato una grave crisi politica ma potrebbe anche segnare l’inizio di un processo di risanamento del paese”, con-clude Época.

Negli ultimi anni migliaia di migranti centroamericani sono morti nel tentativo di entrare negli Stati Uniti. La maggior parte di loro è stata identiicata e i corpi sono stati consegnati alle famiglie. Ma di tanti altri non è stata stabilita l’identità. In questi casi i cadaveri sono stati seppelliti nei cimiteri delle città

statunitensi. Le autorità dovrebbero seguire determinate procedure nel trattamento dei resti, ma non sempre succede, scrive il Texas Observer. “Nella contea di Brooks, in Texas, l’antropologa forense Lori Baker ha trovato 70 resti di cadaveri di migranti che erano stati sepolti dentro sacchi della spazzatura e in molti casi impilati l’uno sopra l’altro in una singola tomba”. Dopo la difusione della notizia, le autorità locali sono inite sotto accusa e hanno promesso delle veriiche. Le indagini, durate due giorni, hanno escluso qualsiasi violazione da parte dei funzionari. Ma l’inchiesta del Texas Observer rivela che le autorità hanno ripetutamente violato la legge: le autopsie e le sepolture non erano state svolte in modo corretto, e non è stata data alle famiglie che stanno cercando i loro cari la possibilità di identiicare i resti. ◆

Stati Uniti

Le fosse della vergogna

Texas Observer, Stati Uniti

STATI UNITI

Attacco ai marines Il 16 luglio un uomo armato ha attaccato due complessi militari a Chattanooga, nel Tennessee, uccidendo quattro marines e fe-rendone altri tre. Uno dei feriti è morto due giorni dopo. L’atten-tatore è Mohammad Youssuf Abdulazeez, un cittadino statu-nitense nato in Kuwait. È stato ucciso dalla polizia durante lo scontro a fuoco. “Dalle indagini dell’Fbi”, scrive The Nation, “è emerso che Abdulazeez era sta-to per sette mesi in Giordania nel 2014. Gli investigatori stan-no cercando di capire se in quei mesi fosse entrato in contatto con qualche gruppo terrorista”. Ma inora non hanno trovato le-gami di questo tipo.

VENEZUELA

Scontropolitico Il 15 luglio María Corina Macha-do, esponente di spicco dell’op-posizione al governo di Nicolas Maduro, è stata sospesa per un anno dai pubblici uici. “Non è chiaro su quali basi le autorità abbiano preso questa decisio-ne”, scrive El Universal. Se-condo gli oppositori del gover-no, con il provvedimento si vuo-le impedire a Machado, che in passato è stata parlamentare e ha guidato le manifestazioni del 2014, di candidarsi alle elezioni parlamentari che si terranno a dicembre. Machado ha quindici giorni per fare ricorso.

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STATI UNITI

La morte di Sandra Bland Il 10 luglio Sandra Bland, un’afroamericana di 28 anni, è stata fermata per un’infrazione stradale in Texas. Dopo uno scontro verbale con un agente, è stata arrestata per resistenza a pubblico uiciale. Tre giorni do-po la donna è stata trovata mor-ta nella sua cella. “Non è chiaro cosa sia successo in quei tre giorni”, scrive The New York Times. “Secondo l’autopsia Bland si è suicidata, ma la fami-glia non crede a questa versio-ne”. Il 21 luglio le autorità hanno pubblicato un video in cui si ve-de il poliziotto chiedere alla donna di uscire dall’auto e di gettare la sigaretta, Bland che riiuta e lui che la obbliga a usci-re minacciandola con un taser. Dopo la difusione del video, la famiglia ha chiesto una nuova autopsia.

IN BREVE

Messico Sette persone tra guardie carcerarie e funzionari penitenziari sono state arresta-te nell’ambito delle indagini sulla fuga di Joaquín Guzmán detto El Chapo dalla prigione El Altiplano, avvenuta l’11 luglio.Stati Uniti-Cuba Il 20 luglio Cuba ha riaperto la sua amba-sciata a Washington.Stati Uniti Nell’ultima setti-mana una serie di incendi ha colpito il sud della California. A Cajon Pass, nel parco nazionale di San Bernardino, le iamme hanno raggiunto la strada e de-cine di macchine hanno preso fuoco.

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Durata della stagione degli incendi in California, giorni

Chattanooga, 17 luglio

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28 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

Asia e Paciico

Il parlamento giapponese ha discusso per mesi una delle riforme più impor­tanti dai tempi della seconda guerra mondiale, e il 16 luglio la camera bas­

sa l’ha approvata. Ora manca il voto della camera alta, atteso entro settembre. Il pri­mo ministro Shinzō Abe vuole consentire alle forze armate del paese di partecipare ad attività militari all’estero e di difendere gli alleati in caso di attacco, in particolare gli Stati Uniti. Ma la maggioranza dei giap­ponesi è contraria all’idea di allentare i vin­coli imposti dalla costituzione paciista del paese, anche se la riforma non implichereb­be un cambiamento enorme. Il Giappone non manderebbe truppe all’estero e non parteciperebbe a missioni di pace. Potrebbe usare la forza militare per proteggere i suoi alleati, ma ‘solo se la sopravvivenza del pa­ese è minacciata’. Il tasso di popolarità di

Shinzō Abe sida la costituzione paciista

La riforma per estendere l’azione delle forze armate all’estero voluta dal governo potrebbe essere approvata anche se aggira la costituzione e il parere dei giapponesi

The Economist, Regno Unito

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Manifestazione contro Abe fuori dal parlamento a Tokyo, 18 luglio 2015

Abe, tuttavia, è calato ulteriormente, scen­dendo sotto il 40 per cento. Secondo un sondaggio recente della tv di stato nhk qua­si la metà della popolazione non capisce la proposta di legge. Perino secondo il Sankei Shimbun, un quotidiano apertamente schierato con il governo, quasi il 60 per cen­to della popolazione è contrario alla rifor­ma. Le difficoltà per Abe sono emerse a giugno, quando tre costituzionalisti sono intervenuti in parlamento dichiarando che il disegno di legge violerebbe l’articolo 9 della carta, che sancisce la rinuncia del Giappone alla guerra. Abe sostiene di non voler coinvolgere il paese in conflitti all’estero, ma gli Stati Uniti insistono per­ché l’alleato giochi un ruolo più consistente nell’ambito della sicurezza. tokyo e Wash­ington temono entrambi l’ascesa della Cina e la minaccia della Corea del nord. nessu­no dei due vuole che il Giappone si trovi con le mani legate in caso di emergenza, per esempio se una nave statunitense impegna­ta a difendere il Giappone fosse attaccata dalla Cina. Uno degli obiettivi è raggiunge­re una cooperazione con le forze statuni­tensi, adeguandosi alle nuove linee guida per le relazioni militari tra i due paesi dei­nite lo scorso aprile a Washington. In

quell’occasione Abe ha fatto arrabbiare i parlamentari giapponesi assicurando di fronte al congresso statunitense che la ri­forma sarebbe stata approvata dal parla­mento entro la ine dell’estate.

Libera interpretazioneIl dibattito sulla questione è incentrato sull’articolo 9 della costituzione, a cui gran parte dei giapponesi non vuole rinunciare. Chi accusa Abe di violarlo, però, ignora il fatto che da tempo quell’articolo è inter­pretato liberamente. La clausola, per esempio, vieta al Giappone di avere un esercito, una marina o un’aviazione milita­ri. Ma il paese possiede queste forze fin dagli anni cinquanta: il divieto è stato aggi­rato chiamandole “forze di autodifesa”. È stato il predecessore di Abe, Yoshihiko no­da del Partito democratico, a proporre di consentire l’impegno del Giappone nella “sicurezza collettiva”, come viene deinita la difesa di alleati in caso di attacco. Abe vorrebbe rendere il Giappone una potenza militare normale, ma inora non è riuscito a convincere i cittadini della necessità di questo passaggio. Uno dei motivi è la resi­stenza del premier a descrivere gli scenari che potrebbero richiedere una “difesa col­lettiva”. Finora ha fatto un solo esempio: il blocco dello stretto di Hormuz, in Iran, at­traverso cui passa gran parte del petrolio da cui dipende il paese. u gim

u “Il problema della riforma sulla sicurezza, oltre alle sue dubbie basi legali, è che non sembra essere come il governo la dipinge”, scrive il Japan Times. “Il premier Shinzō Abe continua a dire che il Giappone potrà intraprendere azioni militari di autodifesa collettiva ‘solo se la sopravvivenza del paese è minacciata’. Ma i disegni di legge non issano parametri chiari in merito alle inalità di queste azioni, lasciandole alla discrezione del governo”. L’Asahi Shimbun critica la scelta di Abe di usare la maggioranza in parlamento per far passare una riforma che molti esperti giudicano incostituzionale e che, per stessa ammissione del premier, i cittadini non hanno compreso. “Visti i cambiamenti del panorama internazionale è giusto che i leader politici vogliano ripensare le leggi sulla sicurezza. Ma dovrebbero emendare la costituzione illustrando ai cittadini le loro proposte e indire un referendum. Altrimenti si indebolisce l’identità del Giappone come stato di diritto”.

Da sapere Serve un referendum

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 29

giappone

Scuseparziali Il 19 luglio la Mitsubishi Mate-rials (nella foto, a sinistra, Hikaru Kimura, un dirigente dell’azien-da) ha chiesto pubblicamente scusa ai prigionieri di guerra statunitensi costretti ai lavori

forzati nelle sue fabbriche in Giappone durante la seconda guerra mondiale. All’epoca circa 12mila militari americani furono portati nell’arcipelago e obbliga-ti a lavorare nelle miniere e in fabbriche pubbliche e private del paese. È la prima volta che un’azienda presenta scuse for-mali, e il gesto è stato visto co-me un contributo per creare un clima amichevole tra Giappone e Stati Uniti in vista del 70° anni-versario della resa di Tokyo, il 15 agosto. Peccato, però, scrive il quotidiano coreano Dong-a Il-bo, che la Mitsubishi Materials non si sia scusata anche con i co-reani e i cinesi costretti ai lavori forzati come i marines. L’azien-da ha fatto sapere che l’omissio-ne delle vittime coreane non è stata intenzionale.

Nelle periferie di Guangzhou, Huizhou e di molte altre città del delta del iume delle Perle aumentano i giovani che scelgono di lavorare nell’agricoltura. Rispetto ai contadini tradizionali, scrive il Nanfeng Chuang, questi sono giovani, istruiti e hanno grandi capacità sia nel campo delle tecniche

di produzione sia nella vendita e nella raccolta di fondi. Per molto tempo anche chi aveva studiato agraria preferiva stare lontano dai campi, scegliendo lavori più redditizi e socialmente più gratiicanti. La nuova generazione di agricoltori e allevatori punta su produzioni sicure, aidandosi a internet per attirare clienti. I nuovi contadini fanno un uso limitato di pesticidi e fertilizzanti non organici, contestando l’enorme impiego che ne viene fatto nel paese. Secondo il settimanale infatti, solo il 7 per cento delle terre coltivate del mondo sono in Cina, ma il paese impiega il 30 per cento dei fertilizzanti usati globalmente. Inine i nuovi agricoltori cercano di tenersi lontani dalle certiicazioni governative sui prodotti bio, i cui costi sono troppo elevati. Vogliono al contrario instaurare un rapporto diretto con i clienti “creando iducia reciproca tra produttori e consumatori”. ◆

Cina

i nuovi contadini

Nanfeng Chuang, Cina

pakiStan

Senza ministrodegli esteri Quando Nawaz Sharif formò il suo governo nel maggio del 2013, scelse di tenere per sé la gestione della difesa e degli af-fari esteri. La ragione, si disse allora, era che il primo ministro voleva occuparsi personalmente di questioni chiave come i rap-porti delicati con l’India e l’Af-ghanistan e, internamente, dei rapporti con i militari. Ma la rete diplomatica internazionale è tessuta intorno ai ministeri degli esteri, scrive Dawn. Il fatto che il Pakistan non ne abbia uno è un danno per il paese.

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giornalistiminacciati Un tribunale birmano ha con-dannato due giornalisti del Myanmar Herald per aver viola-to la nuova legge sui mezzi d’in-formazione. L’ex direttore Kyaw Swa Win e il suo vice Ant Khaung Min dovranno pagare una multa pari a 730 euro per aver difamato il presidente Thein Sein in un’intervista a un analista politico del principale partito d’opposizione, la Lega nazionale per la democrazia. L’intervistato criticava il presi-dente perché non chiariva se nelle elezioni di novembre si sa-rebbe candidato. Secondo il giu-dice “il presidente è come un nostro genitore, l’intervista non era da pubblicare”, scrive la Bbc. In vista del voto le pressio-ni sui mezzi d’informazione stanno aumentando. Il 15 luglio l’associazione Pen Myanmar ha denunciato le continue minacce alla sicurezza dei giornalisti fat-te con la complicità del governo, scrive Myanmar Eleven.

in breve

Pakistan Il 22 luglio la corte su-prema ha sospeso la condanna a morte di Asia bibi (nella foto), la donna cristiana in carcere dal 2009 con l’accusa di blasfemia, e disposto il riesame del caso.Australia Una barca con a bor-do 30 vietnamiti è arrivata vici-no alla costa australiana ed è stata scortata fuori dalle acque australiane dalla marina milita-re. È la prima barca di profughi arrivata in Australia in un anno.

afghaniStan

Un percorsodiicile Nel suo messaggio annuale in occasione della ine del Rama-dan, il leader dei taliban afgani mullah Omar ha dichiarato “le-gittimi” i colloqui di pace con il governo di Kabul, che dovreb-bero mettere ine alla guerra in Afghanistan. L’incontro in Paki-stan tra i delegati delle due parti il 7 luglio ha segnato un impor-tante passo in avanti dopo mesi di “colloqui sui colloqui”. “È l’inizio di un processo lungo e diicile”, scrive The Diplomat. “C’è ancora una parte dei tali-ban contraria a ogni forma di negoziazione”. Il 22 luglio, un at-tacco suicida in un mercato nel-la regione di Faryab, nel nord del paese, ha ucciso 17 persone e ne ha ferite 30 (nella foto).

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Visti dagli altri

30 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

Per un incontro con uno dei princi-pali leader populisti d’Europa non penseresti mai alla terrazza di un circolo di golf della Costa

Smeralda, in Sardegna. La vista si apre sul campo curato alla perfezione e annidato tra le alture ricoperte di macchia mediterra-nea. In lontananza il mare azzurro e gli yacht. I clienti del ristorante, poco più di

una decina, sono soprattutto ricchi stranie-ri. Beppe Grillo, comico di successo e oggi leader del Movimento 5 stelle – un partito di protesta, sostenuto da quasi un italiano su quattro – ha scelto questo posto perché è qui in vacanza per due settimane. Ma lui non gioca a golf perché, spiega, “per farlo devi essere calmo”.

L’abbigliamento di Grillo, 67 anni, è estivo e classico: camicia bianca a maniche corte con il colletto aperto, jeans blu chia-rissimi con un piccolo strappo sopra al gi-nocchio. Sfoggia una chioma bianca e riccia e indossa occhiali irmati. Riesco a sentire il profumo della sua acqua di colonia. La suo-neria del suo cellulare è il rif di Bad to the

bone, un brano rock del 1982. Alla chitarra George Thorogood con i Destroyers.

Lo sfondo può sembrare fuori luogo,

considerato che Grillo ha fama di essere ne-mico della classe dirigente politica e inan-ziaria d’Europa, ma non sembra preoccu-parsene. “Questo posto mi dà una sensazio-ne di benessere, e quindi mi porta a una vi-sione del mondo meno drammatica”, dice. Comunque non facciamo in tempo a rag-giungere il nostro tavolo che lui ha già sco-dellato un esempio di quella sarcastica cri-tica sociale ed economica che l’ha reso fa-moso già molto prima di entrare in politica. “Qui è tutto into”, dice di questa località incantevole ed esclusiva.

Quando ci sediamo Grillo vuole ordi-nare subito. Come fanno tanti italiani, non chiede il menù e parla direttamente al ca-meriere. Per sé negozia un’insalata mista con tonno, uova e mozzarella. A me consi-glia l’antipasto freddo di mare. Lui non be-ve alcol, quindi ordina una minerale friz-zante. Io cedo alla tentazione di un calice di Vermentino di Gallura, un vino bianco del posto.

Afronto subito il tema della crisi greca. Il nostro incontro avviene poche ore dopo che i leader dell’eurozona hanno raggiunto un accordo per la concessione di un nuovo pacchetto di aiuti. La prima reazione di

A pranzo con Beppe Grillo

Il leader dei cinquestelle dice che i creditori della Grecia usano la “tattica del terrore” e che la vera rivoluzione è dare spazio alle persone oneste. Il corrispondente del quotidiano britannico lo ha incontrato

James Politi, Financial Times, Regno Unito

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Perugia, 9 maggio 2015. Beppe Grillo alla manifestazione per il reddito di cittadinanza

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suo datore di lavoro di allora ha raccontato a Repubblica: “Vendere non vendeva mol-to, ma faceva morire tutti dal ridere”.

Dopo gli esordi da cabarettista, verso la ine degli anni settanta fu scoperto dal pre-sentatore televisivo Pippo Baudo, che gli diede una partecipazione issa nella sua tra-smissione in onda in prima serata sulla Rai. Prima di venire in Sardegna ho visto alcuni dei suoi vecchi show televisivi, compreso quello del 1982 intitolato Te la do io l’Ameri-ca, dove si vede Grillo in giro per New York in giubbotto jeans che fa il verso ai turisti italiani dell’epoca, ma al tempo stesso fa notare il degrado urbano negli Stati Uniti. “Qui siamo sulla 42ª, la fogna di New York”, dice a un certo punto. “C’è tutto: corruzio-ne, prostituzione, abigeato, tratta dei mo-scerini, c’è tutto. Qualsiasi cosa viziosa lì si può trovare. Una via dove io mi trovo subito a mio agio”.

Grillo mi dice che anche allora, “senza saperlo, facevo politica nei miei spettacoli”. Di certo però sapeva di mettersi nei guai quando, nel 1986, fece quella battuta al ve-triolo – forse una delle più famose – sulla corruzione nella cerchia di Bettino Craxi, l’allora presidente del consiglio socialista: “Ma se in Cina sono tutti socialisti, a chi ru-bano?”. Fu cacciato della Rai.

Poi, una decina d’anni fa, la sua critica del sistema politico italiano ha assunto una forma nuova. Grillo ha lanciato un blog che è diventato un luogo di dibattito sulle ener-gie rinnovabili, la giustizia economica, le catene alimentari sostenibili, gli illeciti del-le grandi aziende e la libertà della rete. Il blog è diventato uno dei più letti in Italia e, alla ine del 2009, ha portato alla fondazio-ne del Movimento 5 stelle. Cavalcando l’on-da del malcontento popolare nei confronti dei politici, il movimento ha dato la scossa al sistema politico italiano. A una delle gior-nate di protesta intitolate “V-day”, dove la V sta per vafanculo, hanno partecipato ot-tantamila persone. In seguito Grillo ha in-trodotto un sistema per cui la metà degli stipendi degli eletti dei cinquestelle va a i-nanziare le piccole e medie imprese, per dare corpo al suo desiderio di una rivoluzio-ne anche civica.

Ordiniamo la frutta: Grillo prende le fra-gole e io la macedonia con gelato. La lotta contro la corruzione pubblica, che in Italia produce quasi quotidianamente scandali nelle alte sfere e arresti eccellenti, è stata un argomento vincente per Beppe Grillo. “Alla ine, è questa la nostra rivoluzione: mettere

Grillo, su Twitter e sul suo blog, è stata du-ra. Ha scritto che i creditori europei, guidati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, hanno usato la “tattica del terrore”, umi-liando il premier greco Alexis Tsipras per indurlo ad accettare nuove misure di auste-rità molto severe.

Però, quando gli chiedo apertamente cosa pensa dell’accordo, Grillo mi sembra più scoraggiato che arrabbiato. “Non so, è sempre la stessa storia. Tutte le nazioni hanno perso la loro sovranità”. E qui attacca la prima digressione: “Abbiamo delegato la politica ai banchieri. La Banca centrale eu-ropea sta dentro la Deutsche Bank e la Deutsche Bank sta dentro la Bundesbank”, dichiara. Poi se la prende con il modello di produzione just-in-time del Giappone e con i contratti a zero ore del Regno Unito che, secondo lui, “servono solo a ingannare le statistiche, visto che risulti occupato anche se lavori un’ora sola”.

Diicoltà a capire le emozioniMentre sgranocchiamo del pane carasau, un prodotto tipico sardo, cerco di ricondur-lo alla domanda iniziale. Grillo ha dichiara-to il suo appoggio alla Grecia andando a manifestare in piazza Syntagma, ad Atene, dopo che Tsipras aveva indetto a sorpresa un referendum per chiedere ai greci se era-no d’accordo sulle condizioni del pacchetto di aiuti proposto da Bruxelles. Quella sera il “no” sostenuto da Tsipras ha ottenuto una vittoria schiacciante ma, nel momento in cui parliamo, l’impressione è che quel ple-biscito di sida non sia servito a niente: la Grecia ha ancora bisogno di soldi per evita-re il fallimento, e per averli Tsipras è stato costretto a cedere su molti punti.

Ne è valsa la pena? Grillo, che aveva chiesto a gran voce un referendum sull’euro anche in Italia, esita. “Credo sia servito a chiarire che queste decisioni vanno prese dal popolo e da nessun altro”, dice. E a pro-posito di Tsipras aggiunge: “Se svende il paese, è proprio quello che i greci non vo-gliono”.

Arrivano i piatti e il grosso del mio anti-pasto consiste in tonno scottato alla salsa di pesca e salmone marinato. Grillo sala molto la sua insalata e questo sembra dar-gli la carica. Comincia ad attaccare “quelle persone” che tengono per il collo l’econo-mia europea. “Hanno una specie di malat-tia”, dichiara. “Si chiama alessitimia, cioè diicoltà a capire le emozioni del prossi-mo: dolore, piacere, gioia”. Sta parlando di

persone come Angela Merkel e Jean-Clau-de Juncker, il presidente della Commissio-ne europea? “Sì”, risponde Grillo. “A loro non importa se per far quadrare i conti de-vono ridurre alla fame milioni di persone: sono danni collaterali. Abbiamo messo in mano la nostra vita a gente che non sa nulla della vita”, aggiunge. Gli faccio notare che gli italiani potrebbero non essere interes-sati a un referendum sull’euro, viste le sce-ne di emergenza economica cui hanno as-sistito nelle ultime settimane ad Atene. Ma secondo Grillo mi sbaglio, perché per l’Ita-lia l’esperienza della moneta unica è stata disastrosa.

L’economia italiana ha appena ripreso a crescere (dello 0,3 per cento nel primo tri-mestre di quest’anno) dopo tre periodi di recessione che si sono susseguiti in breve tempo. Il tasso di disoccupazione resta alto: 12,4 per cento, ma tra i giovani supera il 40 per cento. “Siamo entrati nell’unione mo-

netaria da un giorno all’altro”, spiega Grillo, “e ci hanno detto che era per il nostro bene. Ma da allora tutti gli indicatori economici, sociali e inanziari sono peggiorati”.

Secondo Grillo, il caos economico di Atene è stato ingigantito. “Per dare una mano ho portato ad Atene pane, formaggio e calze di nylon. Ero convinto di trovare gente buttata per terra che gridava. Invece ho trovato una città pulita e splendida, con i ristoranti pieni e molti turisti. Dove si mangia bene con una ventina di euro. Sono sicuro che se la Grecia tornasse alla drac-ma avrebbe un’annata dura, ma poi diven-terebbe un paradiso in terra con dieci mi-lioni di abitanti”. Chiedo a Grillo com’è diventato un comico. Lui mi blocca subito: “Ma io sono un comico! Comici si nasce, non si diventa”. È nato nel 1948 a Genova, suo padre era titolare di una fabbrica di cannelli per iamme ossidriche, usate so-prattutto nella demolizione delle navi. Di qui la sua familiarità in da ragazzo con il lato più crudo della grande città portuale del Norditalia: “C’era la coca, i sacchi di zucchero, di cafè, c’erano marinai e trave-stiti”, racconta. Per qualche tempo ha lavo-rato come rappresentante di blue jeans. Il

“Per dare una mano ho portato ad Atene pane, formaggio e calze di nylon”

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Visti dagli altri

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le persone oneste dove devono stare. A quel punto loro si circonderanno di altre persone oneste”, dice.

Azzardo che, purtroppo, il problema mi sembra irrisolvibile e gli chiedo perché è così, secondo lui. “Perché i corrotti non pensano di essere corrotti”, mi risponde. “Chi usa soldi pubblici per farsi i suoi cazzo di afari è convinto che quei soldi gli appar-tengano, e quindi ci compra lo champagne, le cene, i vibratori e i buoni benzina”.

Alle elezioni politiche del 2013 il Movi-mento 5 stelle ha preso il 25,5 per cento dei voti alla camera dei deputati, diventando il terzo partito del parlamento italiano per numero di seggi. Ma forse quella vittoria è stata un’arma a doppio taglio. Infatti Grillo ha deciso di non allearsi con nessuno dei due principali schieramenti, contribuendo a una situazione di instabilità e di stallo po-litico durata due mesi. Lui però non è anda-to in parlamento: glielo impedisce la regola dell’M5s, secondo cui chi è stato condanna-to in sede penale non può assumere cariche politiche. Grillo è stato condannato per omicidio colposo per via di un incidente stradale avvenuto nel 1981 (l’auto che gui-dava precipitò in un burrone uccidendo i tre passeggeri). A sentir lui, però, il motivo non è questo: “Non ho nessun desiderio di fare il politico di professione. Non fa per me”, spiega.

L’anno scorso, quando Matteo Renzi, il giovane ed energico ex sindaco di Firenze, è diventato presidente del consiglio, il par-tito di Grillo ha perso consensi: chi lo critica dice che i suoi parlamentari fanno solo ostruzionismo e che il movimento non ha nessuna intenzione di governare. Ma in questi ultimi mesi i cinquestelle hanno gua-dagnato consensi sulla scia di un grave scandalo di corruzione a Roma e anche per la diicoltà del governo a gestire le migliaia di migranti che dal Nordafrica sbarcano sulle coste italiane. Secondo gli ultimi son-daggi, il Movimento cinque stelle ha tra il 23 e il 26 per cento dei consensi.

Chiedo a Grillo cosa pensa di Renzi, a cui molti attribuiscono il merito di star i-nalmente rilanciando l’Italia. La risposta, c’era da aspettarselo, è sferzante: “È solo un curatore fallimentare con un po’ più di verve degli altri”, aferma. “E poi è un bu-giardo. Lui dice una cosa in tv, noi andiamo a verificare, e scopriamo che i fatti sono completamente diversi. Renzi è moralmen-te ritardato”.

Mentre due cafè vengono posati delica-

tamente sul nostro tavolo, mi domando se Grillo possa avere un’opinione più benevola di papa Francesco, che al cuore del suo pon-tiicato ha messo i poveri e l’ambientalismo. “Noi siamo francescani”, mi dice Grillo in tono entusiasta. “Il nostro movimento si basa sulla solidarietà, e sull’idea di non la-sciare indietro nessuno. Ci sono un sacco di ainità. Il papa ha copiato molto da noi”, aggiunge scherzosamente. È uno dei rari momenti di questo colloquio in cui scoppio a ridere. Per lo più l’umorismo di Grillo non ha proprio niente di leggero: è asciutto, sar-castico, spesso rabbioso. Per giunta lui con-fessa che si sta trattenendo un po’, perché è a pranzo con il Financial Times e sta cer-cando di fare bella igura. Mi incuriosisce sapere in cosa crede. È cattolico? “Non so

cosa signiica, ma sì”, risponde. Insisto an-cora un po’: va in chiesa? “Sì, ma sono pieno di dubbi, sto in un limbo. Forse credo più alla ragione, alla passione, che alla religio-ne”. In tema di economia, uno dei cavalli di battaglia di Grillo è l’idea di introdurre un reddito di cittadinanza di 7.200 euro all’an-no per tutti i cittadini che cercano attiva-mente un impiego. A questa misura aggiun-gerebbe una radicale ristrutturazione del sistema iscale, l’abolizione delle imposte sul reddito e l’introduzione di un’imposta unica sui consumi. “Quello che ti inserisce

nella società è il reddito, non il lavoro, quin-di va garantito dalla nascita”, dice Grillo. “Il mio sogno è un reddito universale inanzia-to da un sistema iscale completamente di-verso”. Il fatto che queste sue proposte eco-nomiche non siano prese sul serio sembra scoraggiarlo. “Se io do voce a una teoria di Piketty, nessuno l’accetta perché sono un comico”, dice. “Stiglitz può dire ‘usciamo dall’euro’, ma se lo dico io sono solo un co-mico che spara cazzate”, aggiunge.

Pollo al cloroOrmai la tavola è sparecchiata e Grillo sem-bra diventare più irrequieto. Sta tutto girato da una parte e quando parla non mi guarda in faccia. A un certo punto mi chiede se ho abbastanza materiale. Rispondo di sì, ma che ho ancora qualche domanda da fare. Sarei curioso di sapere che ne pensa del pre-sidente statunitense Barack Obama, visto che ogni tanto alcuni militanti del Movi-mento cinque stelle se la prendono con l’imperialismo americano. “Io pensavo che Obama fosse un tipo fantastico, ma ora ho un po’ calmato i miei entusiasmi”, dice Gril-lo prima di lanciarsi in una tirata contro il Partenariato trans-atlantico per il commer-cio e gli investimenti (Ttip), il trattato al centro di diicili negoziati tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. “Questo Ttip è una co-sa folle. Non possiamo assolutamente ir-marlo. Le multinazionali faranno causa ai governi e vinceranno. Ci ritroveremo a mangiare formaggio grana fatto con il latte in polvere e pollo al cloro. Per gli statuniten-si le leggi ostacolano i proitti. È una menta-lità diversa”.

Invece Grillo approva una delle più grandi conquiste diplomatiche di Obama, l’accordo con l’Iran sul nucleare. Sua mo-glie Parvin è italoiraniana e i due vorrebbe-ro visitare l’Iran: “Sono un popolo straordi-nario”, dice. “Hanno un senso dell’amicizia e dell’ospitalità che noi abbiamo dimenti-cato”. La sua ammirazione va in particolare alle donne iraniane: “Hanno un senso paz-zesco della sessualità e della sensualità. Sono un po’ coperte, il che signiica che c’è un senso della scoperta che noi abbiamo perso. Qui hanno tutte le tette di fuori, giu-sto?”. Non ho una risposta su questo, e così ci salutiamo dopo quasi due ore di collo-quio. E in questa giornata che, con l’accordo sul prestito alla Grecia, bene o male segna una svolta nella storia politica ed economi-ca dell’Europa, Grillo si alza e si dirige verso la spiaggia. u ma

L’umorismo di Grillo non ha proprio niente di leggero: è asciutto, sarcastico e rabbioso

u “Pranzo con” è una rubrica pubblicata ogni weekend dal Financial Times, nel supplemento Life and Art: un giornalista intervista un personaggio del mondo della cultura, degli afari o della politica. Il pranzo con Beppe Grillo si è svolto al Pevero Golf club, di Cala di Volpe, in Sardegna. Ecco il conto. euroInsalatona 16Antipasto di mare 25Acqua minerale San Pellegrino 5Calice di vino bianco 7Macedonia piccola 8Fragole 8Espresso x 2 4 Totale (servizio compreso) 79

Da sapere Il conto

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Roma è sull’orlo del collasso. A dirlo è il presidente della came-ra di commercio Giancarlo Cre-monesi. Secondo Cremonesi, le

cause che hanno portato la città eterna a questo punto sono varie: monumenti la-sciati in stato di abbandono da anni, la ge-stione diicile dei migranti e la paralisi del-le istituzioni provocata dalla corruzione.

La città eternaè sull’orlo del collasso

Roma è all’ultimo posto tra le capitali europee per quanto riguarda l’eicienza dei servizi, i suoi monumenti non vengono restaurati e molti funzionari sono indagati per corruzione

Caroline Mortimer, The Independent, Regno Unito

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Roma, 25 febbraio 2015. Il restauro della fontana di Trevi

“È inaccettabile che una grande città, che si deinisce moderna, possa trovarsi in un tale stato di decadimento”, ha dichiarato Cremonesi alla Reuters. “le preghiere del papa non basteranno. Qui abbiamo bisogno di un vero miracolo perché Roma possa ri-mettersi in sesto”. Con una popolazione di 2,8 milioni di persone, la capitale italiana è una delle più grandi città d’europa e vanta alcune delle più famose attrazioni turisti-che al mondo, dai monumenti del suo anti-co impero a quelli che l’hanno resa il centro della cristianità occidentale.

Ma dopo anni di abbandono e di inqui-namento molti monumenti hanno un di-sperato bisogno di essere restaurati. Il go-verno italiano, che sta appena emergendo dalla recessione più lunga dai tempi della

seconda guerra mondiale, è a corto di liqui-di e l’anno scorso ha chiesto il contributo di aziende private per preservare monumenti come il Colosseo e la fontana di Trevi. Ma con un’amministrazione alitta dalla cor-ruzione dilagante, un’economia debole e servizi pubblici ineicienti, non è solo l’of-ferta culturale della città a essere in perico-lo. un sondaggio condotto dalla Commis-sione europea nel 2013 collocava Roma all’ultimo posto tra le capitali europee per quanto riguardava l’eicienza dei servizi. A causa degli scioperi, della burocrazia e del clientelismo nell’aggiudicare gli appalti pubblici, le infrastrutture di Roma stanno cominciando a scricchiolare. I macchinisti delle due linee della metropolitana che at-traversano il cuore della città hanno orga-nizzato una serie di proteste contro la nuova richiesta di passare un badge elettronico all’inizio e alla ine del turno, rallentando ulteriormente il servizio.

La situazione si è aggravataMarcello lazazzera, il proprietario di un bed and breakfast, dice che l’ineicienza dei servizi sta danneggiando l’industria del turismo. “Tutti i miei clienti dicono che Ro-ma è bella, ma tutti, immancabilmente, si lamentano dei servizi. le metropolitane non sono mai in orario, le stazioni brulicano di borseggiatori, le strade sono piene di spazzatura. Invece di migliorare, la situa-zione si è aggravata”. e per i residenti le co-se non vanno molto meglio. “negli ultimi anni le cose sono peggiorate”, ha dichiarato al Telegraph Costanza Cagni, che vive nella città dal 2000. “Tutti si lamentano, ma nes-suno propone soluzioni. la qualità della vita è davvero scaduta. Mi dispiace dirlo, ma vorrei lasciare Roma e trasferirmi da qualche altra parte. “

Il 13 luglio, in una lettera aperta al Cor-riere della Sera, il sindaco Ignazio Marino ha afermato che sta cercando di far appro-vare riforme “profonde e radicali”, ma si è scontrato con il “cancro” del favoritismo.

l’anno scorso la città è stata al centro di un grosso scandalo di corruzione e dalle indagini è emerso che alcuni amministra-tori locali avevano collaborato con orga-nizzazioni criminali per impadronirsi dei fondi destinati a servizi pubblici come la raccolta dei riiuti. lo scandalo ha spinto il Vaticano, che è uno stato autonomo all’in-terno della capitale, a dire che la città corre il rischio di una totale crisi dell’ordine e della legalità. u bt

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Le opinioni

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Come ogni anno, il 4 luglio ho festeggia-to il giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti con i miei parenti in Virgi-nia. Eravamo una quindicina di perso-ne, tutti progressisti con una buona istruzione e con molti viaggi alle spalle.

Abbiamo parlato molto di politica: i miei familiari erano entusiasti delle ultime notizie, che sembravano sugge-rire che gli Stati Uniti stessero diventando più aperti e rispettosi dei diritti civili. La corte supre-ma aveva da poco stabilito che i matri-moni omosessuali dovevano essere lega-lizzati in tutti gli stati dell’unione e aveva deinito legittimi i sussidi federali previ-sti dalla riforma sanitaria. E dopo la stra-ge razzista di Charleston, la bandiera confederata era stata rimossa da tutti gli ediici governativi. Nel complesso, sem-brava che il paese avesse improvvisa-mente fatto un enorme balzo in avanti.

Tornando a casa mi sono reso conto che non avevamo parlato afatto di poli-tica estera o di qualsiasi cosa stesse succedendo al di fuori del paese. Mentre ero in Virginia, il conlitto in Ucraina orientale continuava, e la Cina consolidava la sua inluenza sulle isole Spratly. L’Egitto, la Nigeria e l’Iraq erano sconvolti dagli attentati e sempre più per-sone fuggivano dalle guerre in Siria e nel Sud Sudan. Forse avremo parlato per qualche istante del debito greco, ma poco in confronto alla riforma sanitaria sta-tunitense.

Il fatto che gli statunitensi siano più attenti al pro-gresso dei diritti sociali e civili nel loro paese è un fatto positivo. È sicuramente meglio rispetto ai tempi dell’os-sessione anticomunista, della paura di un conlitto nu-cleare, delle polemiche sulla guerra in Vietnam o, più recentemente, dell’occupazione dell’Iraq e dell’Afgha-nistan. Oggi tutto sembra molto più calmo. Gli Stati Uniti sembrano quasi un paese normale, come la Dani-marca o l’Irlanda, i cui abitanti pensano all’economia, alla disoccupazione, ai diritti dei gay e all’istruzione, e non alla politica globale.

Si potrebbe perino immaginare che l’America sia solo un’enorme Irlanda. Dopotutto è alla stessa latitu-dine, è abbastanza verde e si parla inglese. Gli Stati Uniti potrebbero essere l’Irlanda, solo con una popo-lazione circa settanta volte maggiore. Non avrebbero un vero esercito né un arsenale nucleare, e non sareb-bero alleati con Israele, l’Arabia Saudita, il Giappone e la Corea del Sud. Sarebbero un grande paese paciico e tutto sommato neutrale, che non ha alcuna intenzio-ne di fare del male ad altri.

Certo, sarebbe bello. Mi sembra quasi di sentire al-cuni miei parenti: “E perché no? Perché non possiamo essere normali? Perché non possiamo riportare a casa i nostri soldati? Perché non possiamo smettere di essere i numeri uno? Perché non possiamo essere come erava-mo 130 anni fa, alla ine dell’ottocento, prima che co-minciassimo a espanderci verso l’esterno?”.

Purtroppo non è possibile. Questa spinta verso l’esterno ci ha portato ad attraversare il Paciico e il ma-

re dei Caraibi e ci ha condotto in Europa. Negli anni venti siamo tornati indietro, ma solo per riattraversare di nuovo l’At-lantico a partire dagli anni quaranta. Ne-gli anni sessanta eravamo in Medio Oriente. Oggi siamo ancor più lontano. Nonostante tutti gli sforzi di Obama per tirarci fuori dall’Afghanistan e, con meno successo, dall’Iraq, nuove frontiere d’in-sicurezza (Ucraina, Sud Sudan) stanno emergendo.

Ai democratici questo non piace. E neanche, credo, a un numero sempre

maggiore di repubblicani. Ma non è facile trovare un modo per invertire la rotta, semplicemente perché gli Stati Uniti sono davvero i numeri uno e lo sono da or-mai oltre settant’anni. Come un titano ormai stanco, però, oggi barcollano sotto il peso eccessivo del loro fardello.

Verrà un giorno, tra venticinque o quarant’anni, in cui tutto questo cambierà. Questo paese conta solo il 4,5 per cento della popolazione del mondo e produce solo il venti per cento della sua ricchezza. L’idea che gli Stati Uniti possano continuare a reggere il peso di tutte le questioni internazionali per sempre è pura fantasia, come quegli strani libri con titoli tipo “Il ventunesimo secolo sarà il secolo americano”.

Bisognerà fare alcuni aggiustamenti intelligenti. Collaborare con gli alleati, fare appello alle organizza-zioni internazionali, negoziare realisticamente con le potenze regionali: Washington deve correggere la rot-ta, e questo signiica che dovrà fare un sacco di conces-sioni e concentrarsi su quello che è veramente impor-tante. Con una guida giudiziosa, e con lungimiranza, non è una cosa impossibile.

Gli Stati Uniti non sono l’Irlanda, e non lo saranno mai. Sono una potenza mondiale che ha un grandissi-mo bisogno di ricalibrare la sua posizione internazio-nale per diventare un po’ più normale, un passo alla volta. Solo ai lunghissimi pranzi del 4 luglio si possono permettere di concentrarsi solo sulle questioni nazio-nali. Normalmente, invece, non possono essere così normali. u f

Quando gli Stati Uniti saranno un paese normale

Paul Kennedy

PAUL KENNEDY

è professore di storia all’università di Yale. Il suo ultimo libro è Il parlamento dell’uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale (Garzanti 2007).

Il paese conta solo il 4,5 per cento della popolazione mondiale. L’idea che possa continuare a reggere il peso di tutte le questioni internazionali per sempre è pura fantasia

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Le opinioni

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Alexis Tsipras si definisce marxista, quindi dovrebbe conoscere la teoria secondo cui la storia si presenta due volte, la prima come tragedia, la se-conda come farsa.

Il 31 ottobre 2011 l’allora primo mi-nistro greco George Papandreou annunciò l’intenzione di indire un referendum sul programma di salvataggio proposto dalla troika (Unione europea, Banca centrale euro-pea e Fondo monetario internazionale). Ma il referendum non ebbe mai luogo. Dopo la furibonda reazione di Berlino e Bruxelles, il governo greco abbandonò l’idea e le riforme furono votate in parla-mento. In seguito i socialisti di Papan-dreou persero le elezioni e oggi sono qua-si scomparsi dalla politica.

L’idea del referendum è riapparsa una seconda volta su iniziativa di Tsipras. Stavolta si è votato davvero, e un’ampia maggioranza ha riiutato le condizioni della troika. Ma la resistenza della Grecia è durata solo sette giorni, poi Tsipras ha dovuto cedere.

La soluzione temporanea della crisi greca dimostra che, ainché la moneta unica europea sopravviva, gli elettori delle nazioni debitrici dovranno essere privati del loro diritto di cambiare la politica economica, pur mantenendo il loro diritto a cambiare i governi.

Con la ribellione di Atene, i leader europei si sono trovati di fronte a una scelta diicile. Potevano lasciare che la Grecia andasse in bancarotta, mettendo così in pericolo la moneta comune, distruggendo l’economia greca e facendo passare il messaggio che in un’unione politica di creditori e debitori non c’è posto per la soli-darietà. Oppure potevano salvare il paese alle condizio-ni di Tsipras, mostrando così che i ricatti politici funzio-nano e raforzando i partiti contrari all’austerità in tutto il continente. Ma i leader europei hanno trovato una terza opzione: salvare la Grecia, ma a condizioni tal-mente pesanti che nessun altro governo avrà la tenta-zione di seguirne l’esempio. Tsipras è così diventato la prova vivente che “non c’è alternativa” alle attuali poli-tiche economiche dell’Unione europea.

Gli efetti immediati dell’accordo sono una maggio-re serenità dei mercati, la sconitta dei greci e lo scetti-cismo dei tedeschi. L’Europa dovrebbe quindi festeg-giare? È possibile che questa vicenda possa servire non a umiliare i greci ma a rieducarli?

Anche se molti a Bruxelles sperano che i greci abbia-no imparato la lezione, è molto probabile che il nuovo pacchetto di riforme favorirà la radicalizzazione di al-

cune forze politiche in Europa e il difondersi dell’apatia in Grecia.

La sinistra greca non è riuscita a ottenere condizio-ni migliori, ed è molto probabile che a trarne vantaggio non saranno i moderati, ma la destra antieuropea. I leader europei possono essere ieri di aver tenuto in-sieme l’Unione, ma il prezzo per aver salvato econo-

micamente la Grecia perdendola politi-camente è la trasformazione di un pro-getto sostenuto da speranze e aspirazio-ni in uno che sopravvive grazie alle pau-re e alla confusione.

La cancelliera Angela Merkel è con-vinta che la Grecia possa essere trasfor-mata come è successo all’Europa centro-orientale. Ma questa idea sembra infon-data, almeno per ora. Le misure adottate dalla Germania dopo la crisi inanziaria del 2009 sono state pesantemente in-luenzate dall’esperienza degli anni no-

vanta, quando Berlino aiutò i paesi ex comunisti a rea-lizzare importanti cambiamenti economici e politici.

Ma la situazione della Grecia oggi è molto diversa da quella della Polonia o della Bulgaria di allora. È vero che l’Europa centrale e orientale attraversò una recessione paragonabile a quella greca degli ultimi cinque anni, e che molte delle riforme richieste ai greci sono state por-tate avanti con successo dai paesi ex comunisti. Ma c’è un fattore che distingue nettamente questi ultimi dalla Grecia di oggi: le aspettative che i cittadini avevano per il futuro.

Anche se le economie dell’Europa centrale e orien-tale erano nel caos, i loro abitanti erano ottimisti: vede-vano le riforme come un tappa dolorosa ma relativa-mente breve sulla strada per un futuro migliore. In Grecia invece regnano la siducia e il pessimismo: le riforme sono viste come la negazione del futuro. I son-daggi indicano che la maggioranza dei cittadini si aspetta che i loro igli vivranno peggio di loro.

Questa diferenza spiega perché nell’Europa post-comunista le riforme furono fortemente sostenute dai giovani, mentre in Grecia l’85 per cento delle persone tra i 18 e i 24 anni e il 72 per cento di quelle tra i 25 e i 34 anni hanno votato no al referendum. Negli anni novan-ta i politici diedero la colpa della catastrofe economica ai vecchi regimi comunisti. Nel caso della Grecia, il vec-chio regime è l’Unione europea. In Europa centrale Bruxelles era considerata un’amica e un’alleata. In Gre-cia è considerata una creditrice e una potenza ostile.

Per farla breve, le riforme che hanno funzionato in un’epoca di ottimismo non possono avere successo quando regna il pessimismo. u f

La Grecia non seguiràl’esempio dell’est

Ivan Krastev

IVAN KRASTEV

dirige il Centre for liberal strategies di Soia. Il suo ultimo libro è Democracy

disrupted. The politics

of global protest (Penn Press 2014).

Anche se le economie dei paesi ex comunisti erano nel caos, i loro abitanti vedevano le riforme come una tappa verso un futuro migliore. In Grecia invece regna la siducia

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In copertina

glianti e sorvegliati è stata un fattore deter-minante. In deinitiva ancora non sappia-mo perché la morte che scatenerà la prossi-ma rivolta catturerà l’attenzione dell’opi-nione pubblica più di altre. Ma sappiamo, con terribile certezza, che il suo momento arriverà: presto negli Stati Uniti un uomo sarà assassinato a sangue freddo da un po-liziotto (anche in questo caso probabilmen-te sarà un uomo) che dovrebbe proteggere lui e la sua comunità. Lo sappiamo perché è statisticamente inevitabile e conosciamo i precedenti storici. Lo sappiamo perché gli Stati Uniti non solo funzionano così, ma è così che sono stati costruiti. Come un ura-gano, sappiamo che sta per arrivare, ma ancora non sappiamo quando e dove colpi-rà e quanti danni farà.

L’estate è una stagione di rivolte. Fu in estate che negli anni sessanta scoppiarono le proteste a Los Angeles, a Newark e a De-troit, innescate dagli abusi commessi dalla polizia. È la stagione in cui le scuole sono chiuse, si organizzano feste in piscina e la vita quotidiana, soprattutto nei centri urba-ni, cambia completamente: si passa dal sa-lotto alla veranda, dal divano alla strada. La gente è più nervosa e il risentimento si gon-ia come l’asfalto della strada. È la stagione in cui, per parafrasare il poeta Langston Hughes, i sogni diferiti esplodono.

Il mio non è un augurio, è una previsio-ne. Sento montare quel risentimento a ogni nuovo post su Facebook, a ogni video virale o commento rabbioso su Twitter. Lo percepisco ogni volta che parlo con uno sconosciuto all’uicio postale, in un nego-zio di liquori o in un bar. È una previsione spiacevole perché in fondo queste rivolte

Da qualche anno negli Stati Uniti le estati, co-me gli uragani, hanno un nome. Non nomi semplici, come Katrina o Floyd, ma nomi e co-

gnomi come Travyon Martin e Michael Brown (i due ragazzi neri uccisi da un vigi-lante di quartiere e da un poliziotto). Come gli uragani, queste morti erano prevedibili ed erano state previste. Eppure, quando so-no arrivate, l’efetto è stato comunque de-vastante. Non sappiamo ancora quale nome sarà associato a quest’estate. Prenderà il nome di qualcuno che in questo momento sta giocando a un videogioco, sta cercando il modo di sfamare la sua famiglia o sta lavo-rando per ripagare il prestito universitario. Lui (perché probabilmente sarà un lui) non sa ancora che i suoi giorni sono contati, e noi non abbiamo idea di quanti saranno quei giorni.

Non è ancora chiara l’esatta alchimia che rende una morte politicamente simbo-lica mentre tante altre vengono ignorate da tutti tranne che dalle famiglie delle vittime e dalla loro comunità. I video difusi su in-ternet aiutano, ma non sono fondamentali. Le immagini di poliziotti che girano per le strade come squadroni della morte e ucci-dono persone che non rappresentavano un vero pericolo non accendono quasi mai la fantasia popolare. Ma quando le autorità non prestano attenzione al disagio di deter-minati gruppi sociali, non indagano sugli abusi commessi dalla polizia e, meno che mai, rimettono in riga gli agenti, la situazio-ne può diventare esplosiva. In alcuni casi, la continua e crescente tensione tra sorve-

mettono in evidenza un problema che, da sole, non possono risolvere. Ed è una pre-visione facile da fare perché, come ha detto una persona che all’inizio dell’anno ha as-sistito ai disordini scoppiati a Baltimora, “se la riempi troppo, prima o poi la pentola a pressione scoppia”.

Questa è l’estate in cui lascerò gli Stati

Gary Younge, The Guardian, Regno Unito Foto di Gareth Smit

La stagione deDopo dodici anni negli Stati Uniti, il corrispondente del Guardian torna a casa. Nel suo ultimo articolo racconta un paese lacerato dalle divisioni e dalle disuguaglianze. E dove le tensioni razziali rischiano di portare a una nuova estate di scontri

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Uniti dopo dodici anni come corrisponden-te del Guardian. A spingermi a tornare a Londra sono stati banali motivi personali che non hanno niente a che vedere con la situazione negli Stati Uniti. Se volessi fuggi-re dalla violenza della polizia e dal razzi-smo, di certo non tornerei ad Hackney, il quartiere dove vivo a Londra. Ma anche se

non sono stati decisivi per la mia scelta, gli eventi degli ultimi anni mi hanno rassicura-to sulla decisione che ho preso. Ed è per questo che non ho mai avuto ripensamenti. Se dovevo scegliere un’estate per andarme-ne, questa è l’estate giusta. Un’altra stagio-ne di genitori neri in lutto, di capi della poli-zia che provano a dare spiegazioni e di gior-

Le foto di queste pagine sono state scattate a Staten Island, New York, nell’ aprile del 2015, durante le manifestazioni in ricordo di Eric Garner, un afroamericano morto nel luglio del 2014 durante un arresto.

e delle rivolte

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nalisti televisivi che esprimono opinioni senza sapere di cosa stanno parlando. Un’altra stagione in cui bisogna ricordare agli statunitensi che anche la vita dei neri conta e che non è normale che lo stato uc-cida le persone. Un’estate matura per la rabbia.

Dodici anni intensiSono arrivato a New York qualche mese pri-ma dell’inizio della guerra in Iraq nel 2003. Gli statunitensi sembravano arrabbiati con il resto del mondo e con se stessi. I cinque libri in cima alla classiica dei best seller del New York Times nel mese in cui ho comin-ciato a lavorare come corrispondente era-no: La guerra di Bush, racconto agiograico di Bob Woodward sulla reazione della Casa Bianca agli attacchi dell’11 settembre; The right man, in cui David Frum, ex autore dei discorsi di Bush, raccontava il suo primo anno al ianco del presidente; Ritratto di un assassino di Patricia Cornwell, sul caso di Jack lo squartatore; The savage nation, in cui Michael Savage, conduttore di un program-ma radiofonico di destra, metteva in guar-dia gli americani “dall’assalto della sinistra alle nostre frontiere, alla nostra lingua e alla nostra cultura”; e Leadership. Una storia di coraggio e di successo, dove Rudolph Giulia-ni, ex sindaco di New York, raccontava la sua risposta vincente agli attacchi delll’11 settembre.

Da allora non c’è praticamente mai stato un momento di tranquillità: lo sciovinismo alimentato dalla guerra in Iraq, la rielezione di George W. Bush nel 2004, l’uragano Katrina nel 2005, la delusione della guerra in Iraq, le ronde contro i migranti al conine con il Messico, le proteste del movimento “Sí se puede!” per difendere i migranti, Ba-rack Obama, Sarah Palin, la crisi economi-ca, Occupy Wall street, il Tea party, la riele-zione di Obama e l’attuale ondata di mani-festazioni antirazziste. Da straniero trovavo tutti questi fenomeni afascinanti. Tendevo a prendere posizione, sia politicamente sia moralmente. Ma quando scrivevo mi senti-vo più che altro un antropologo. Pensavo che il mio compito fosse cercare di capire gli Stati Uniti: perché i bianchi poveri vota-vano contro i loro interessi economici? Com’era possibile che i discendenti di im-migrati fossero diventati xenofobi? Perché Obama aveva deluso tante persone anche se aveva promesso così poco? Cercare le ri-sposte a queste domande è stato illuminan-te, anche quando non le ho trovate o non mi sono piaciute.

Come inglese in un paese straniero, la distanza culturale che avvertivo era un mi-

sto di invincibilità e invisibilità. Mi conside-ravo più uno spettatore che un partecipante. Nel 2003, mentre ero nelle campagne del Mississippi per preparare un articolo, mi sono fermato davanti alla casa di una cop-pia di anziani bianchi per chiedere indica-zioni, e loro hanno minacciato di spararmi. L’ho trovato divertente. Sono tornato in gran fretta alla mia macchina e me ne sono andato, ma non ho pensato neanche per un attimo che mi avrebbero sparato davvero. Sarebbe stata una follia. Quando sono tor-nato a casa ho raccontato l’episodio a mia moglie e a mio cognato, che sono afroame-ricani. I loro genitori sono cresciuti nel sud ai tempi della segregazione. Ancora oggi mia suocera non si fermerebbe mai con la

macchina in Mississippi, se non per fare benzina. Non pensavano afatto che fosse divertente: come mi era venuto in mente di chiedere indicazioni a due vecchi bianchi nelle campagne del Mississippi?

Poi, a un certo punto, sono rimasto coin-volto. In parte è stata una questione di tem-po: quando ho cominciato a conoscere le persone, e non solo a intervistar-le, mi sono sentito più partecipe. Quando qualcuno che conosci non può curarsi perché non ha l’assistenza sanitaria, ha i vetri della cucina bucati dai proiettili o non può tornare nel suo paese perché non ha i documenti in regola, il tuo rapporto con problemi come la riforma sanitaria, il con-trollo delle armi e l’immigrazione cambia. Ma il mio coinvolgimento era legato soprat-tutto a circostanze speciiche. Nel 2007, nel weekend in cui Barack Obama ha annun-ciato la sua candidatura alla presidenza, è nato mio iglio. Sei anni dopo abbiamo avu-to una bambina.

Una sera d’estate, un paio di anni dopo che ci eravamo trasferiti a Chicago, mia i-glia non voleva calmarsi e così mia moglie ha deciso di fare una passeggiata ino al su-permercato per farla addormentare. Men-tre tornava ha sentito degli spari nella stra-da e si è rifugiata con la bambina nel nego-zio di un barbiere. Tempo dopo, quando la neve si è sciolta, hanno trovato una pistola nella stradina dietro al parco del nostro quartiere e un’altra dietro alla scuola di mio iglio. Ormai non potevo più essere un os-

servatore. Avevo a che fare con asili, centri estivi, scuole, visite mediche, parchi e altri genitori. Il giorno in cui abbiamo portato a casa mio iglio appena nato, il New York Ti-mes ha pubblicato un articolo in cui spiega-va che negli Stati Uniti “un ragazzo nero che abbandona la scuola superiore ha sessanta probabilità in più di ritrovarsi in carcere ri-spetto a uno che riesce a laurearsi”. Prima avrei trovato quell’informazione interes-sante e preoccupante. Ora mi toccava da vicino. Come nero rischiavo personalmen-te, e le carte erano truccate contro di me.

Come il presidenteIl successo di Barack Obama, mi dicevano spesso durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008, avrebbe cambiato le cose. Ma quando chiedevo in che modo sarebbe successo, nessuno sapeva dirmelo con precisione. Con la sua stessa presenza, sostenevano, Obama avrebbe segnato uno spartiacque per mio iglio e per tutti quelli come lui. Non ci ho mai creduto. Prima di tutto perché il successo di una singola per-sona, per quanto importante dal punto di vista simbolico, non può cancellare secoli di discriminazioni. In secondo luogo, per-ché Obama avrebbe agito all’interno di isti-tuzioni – il Partito democratico e la Casa Bianca – dove non avrebbe potuto fare più di tanto per cambiare le cose. Aspirava a raggiungere il vertice di un sistema condi-

zionato dalle lobby delle grandi aziende, dove i collegi elettorali sono ritagliati su misura per far vincere determinati interessi e dove il 41 per cento del senato può praticamente bloccare qual-

siasi progetto di legge. Obama era il candi-dato più progressista in gara, e questo era già tanto, viste le alternative, ma non signi-icava che sarebbe riuscito a spostare in mo-do significativo l’ago della bilancia delle disuguaglianze e delle discriminazioni con-tro le minoranze.

A livello simbolico, i vantaggi dell’ele-zione di Obama erano evidenti. Per due anni ho portato in giro mio iglio nel suo passeggino circondato da immagini di un nero associate a parole come “speranza” e “cambiamento”. Circa un anno dopo la sua elezione, mio iglio stava giocando con un amichetto bianco di quattro anni che a un certo punto ha alzato la testa dalle sue mac-chinine e gli ha detto: “Tu sei nero”. Era un’osservazione comprensibile: non ne fa-ceva una questione di razza, stava solo no-tando che erano diversi. Ma quando mio i-glio mi ha guardato per capire cosa rispon-dere, mi sono reso conto che avevo una

L’ultima ondata di proteste antirazziste sta durando più delle precedenti

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nuova freccia al mio arco per allontanare qualsiasi possibile imbarazzo. “Certo”, ho detto. “Proprio come il presidente”.

Ma i vantaggi concreti erano più diicili da deinire. Obama aveva ereditato una cri-si economica che aveva colpito gli afroame-ricani più di chiunque altro. Nei primi anni della sua presidenza, il divario tra neri e bianchi in termini di occupazione e benes-sere è aumentato, e dopo la ine della crisi economica non è diminuito di molto. Nel 2010 ho raccontato l’aneddoto di mio iglio e del suo amichetto in un articolo in cui so-stenevo che il valore simbolico di avere un presidente nero in fondo è limitato. “Una volta rimesse a posto le macchinine e passa-to quel momento, capisci che non cambia poi molto. Perché, nonostante tutto il chias-so che sta facendo il Tea party, sono stati i neri a sofrire di più da quando Obama è presidente. Negli ultimi 14 mesi il divario tra le opportunità di vita di mio iglio e quel-le del suo amichetto è aumentato”.

Questa afermazione era innegabilmen-te vera ma a quanto pare faceva discutere. Non avevo detto che mio iglio se la sarebbe cavata male nella vita, ma solo che le sue possibilità di successo erano decisamente inferiori a quelle del bambino con cui stava giocando, e che il divario tra loro stava ulte-

riormente aumentando. Uno studio del 2014 ha dimostrato che un laureato nero ha le stesse probabilità di trovare lavoro di un ragazzo bianco che ha abbandonato la scuola. “Con il prolungarsi della recessio-ne”, aveva scritto il New York Times un paio di mesi prima , la disparità tra il livello di oc-cupazione dei neri e dei bianchi “sta diven-tando ancora più evidente nel caso delle persone laureate. L’istruzione, a quanto pa-re, non livella il terreno di gioco. Al contra-rio, lo rende ancora più disuguale”. Ma insi-stere sul fatto che il razzismo avrebbe avuto efetti concreti sulla vita di mio iglio aveva indispettito alcuni lettori. “Sciocchezze”, mi aveva scritto uno di loro. “Appartiene alla classe media, quindi il suo futuro sarà più simile a quello dei suo amici bianchi che non a quello di qualsiasi nero povero”. Un altro aveva detto: “È scorretto da parte sua considerarsi una vittima solo a causa del colore della sua pelle. Molto probabilmente suo iglio se la caverà benissimo. Ha quasi tutti i vantaggi del mondo”.

Queste reazioni dimostravano una tota-le ignoranza delle dinamiche razziali negli Stati Uniti. Naturalmente la classe sociale di appartenenza fa una grande diferenza: possiamo avere l’assistenza sanitaria, tro-vare lavoro, andare all’università e compra-

re una macchina; viviamo in una comunità dove ci sono scuole, supermercati e risto-ranti. Abbiamo tutte le risorse e quindi pos-siamo scegliere.

Ma non possiamo scegliere di non esse-re neri. E negli Stati Uniti, di questi tempi, non è una cosa irrilevante. Non si tratta di “considerarsi una vittima”, ma di ricono-scere un fatto. L’appartenenza a una deter-minata classe sociale garantisce una serie di privilegi, ma non protegge da tutto il re-sto. Se così fosse, le donne ricche non ver-rebbero mai violentate e in tutto il mondo le coppie gay benestanti potrebbero sposarsi.

Per condurre la vita dorata a cui allude-vano i miei lettori non basterebbe un grosso conto in banca né un buon livello d’istruzio-ne. Dovremmo anche vivere in una zona dove ci sono pochi afroamericani, perché i quartieri neri sono controllati da poliziotti che hanno poco rispetto per la vita e per la libertà delle persone; dovremmo mandare i nostri igli in una scuola frequentata da po-chi studenti afroamericani, perché gli isti-tuti a maggioranza nera non ricevono inan-ziamenti; dovremmo dire ai nostri igli di non indossare niente che possa essere asso-ciato alla nostra cultura, perché altrimenti sarebbero subito etichettati; dovremmo chiedergli di non mescolarsi con gli altri ra-

Erica Garner, la iglia di Eric Garner

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gazzi afroamericani, perché probabilmente vivono proprio in quei quartieri e frequen-tano proprio quelle scuole da cui vorremmo fuggire; e non dovremmo mai farli uscire di casa di sera, perché spesso i ragazzi neri che passeggiano per strada dopo il tramonto sono visti dai poliziotti come dei potenziali criminali. L’elenco potrebbe continuare. Nessuno di questi comportamenti di auto-censura, naturalmente, sarebbe una garan-zia. Il razzismo è arbitrario nella scelta della vittima quanto è sistematico nella sua ap-plicazione. E anche se non opera mai da solo (quasi sempre è associato alla classe o ai pregiudizi sessuali), può agire in modo indipendente. Nessuno va a controllare quanti soldi ho in banca o che lavoro faccio quando vede i miei igli. Travyon Martin passeggiava in un quartiere residenziale quando George Zimmerman, un vigilante di quartiere, gli ha sparato pensando che fosse un teppista, nel febbraio del 2012. Cle-menta Pinckney, un senatore del South Ca-rolina, era in una delle più belle chiese di Charleston quando Dylann Roof, un supre-matista bianco, ha assassinato lui e altre otto persone, nel giugno del 2015.

Non ho mai conosciuto un afroamerica-no che pensasse di potersi liberare degli svantaggi dei neri semplicemente con i sol-di. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di ridurre le probabilità. Ma se un ragazzo nero su tre nato nel 2001 è destinato a inire in prigione, le probabilità sono molto alte. E il fatto che ci sia un nero alla Casa Bianca non ha cambiato le cose.

Aria da teppistiPer la maggior parte del tempo, il parco vi-cino a casa nostra è multicolore come una puntata di Sesame street. Bambini bianchi, neri e gialli si arrampicano, scivolano e sal-gono sulle altalene. Ogni tanto, soprattutto nel tardo pomeriggio dei giorni feriali, arri-vano dei ragazzi più grandi. Come tutti gli adolescenti del mondo occidentale, sono annoiati, squattrinati, arrapati e sperduti. Non vogliono stare a casa, ma non hanno i soldi per fare quello che vorrebbero, così se ne vanno al parco, dove s’inilano a fatica in altalene troppo piccole per loro, scherzano, lirtano e si punzecchiano. Ogni tanto dico-no qualche parolaccia e fanno un po’ di ca-sino, ma non creano problemi che non si possano risolvere chiedendogli di stare at-tenti perché in giro ci sono dei bambini pic-coli. Questi ragazzi sono quasi sempre afro-americani. Naturalmente la loro presenza cambia l’atmosfera. Ma la situazione diven-ta tesa solo quando arriva la polizia. Gli agenti più ragionevoli chiacchierano con

loro, quelli più aggressivi cominciano a in-terrogarli. In entrambi i casi, la presenza di uomini armati in uniforme in uno spazio per bambini è inquietante e inutile. I più piccoli e quelli che sono arrivati da poco nel quartiere immaginano che se c’è la polizia dev’essere successo qualcosa di veramente grave; i più grandi (signiica che hanno al-meno sette anni) e quelli che ci sono abitua-ti non ci fanno troppo caso. Non saprei dire qual è la reazione peggiore.

Un pomeriggio, mentre osservavo un gruppetto di adolescenti abbastanza tran-quillo, ho attaccato discorso con una signo-ra bianca. Suo iglio aveva più o meno la stessa età del mio, e anche loro vivevano a due passi dal parco. Abbiamo cominciato a chiederci a che età sarebbe stato opportuno lasciarli venire da soli. “Il fatto è che non possiamo sapere se sarà tutto tranquillo o ci saranno in giro i teppisti”, ha detto lei indi-cando gli adolescenti sulle altalene. Sono rimasto senza parole. Ogni volta che scrivo degli omicidi della polizia almeno un letto-re mi ricorda che è più probabile che un nero sia ucciso da un altro nero. Questo è vero, ma è anche irrilevante. Prima di tutto, per-ché qualunque statunitense ha più probabi-lità di essere ucciso da una persona che ap-partiene al suo stesso gruppo etnico. Ma anche perché i neri non hanno il compito di proteggere e servire la gente. È un compito della polizia. Negli ultimi dieci anni il lavoro mi ha portato a visitare molti quartieri po-veri, abitati da persone di tutte le etnie, e non sempre mi sono sentito al sicuro. Ma non avevo paura dei neri o di qualsiasi altro gruppo etnico: ero sconcertato dalla pover-tà e dalla cultura delle armi, perché è questa pericolosa combinazione che genera la vio-

lenza e la rende letale. Io e quella donna stavamo guardando gli stessi ragazzi ma vedevamo qualcosa di molto diverso. “Cosa le fa pensare che diventeranno teppisti?”, le ho chiesto. Lei ha alzato le spalle. In quel momento la conversazione si è spenta.

Fuori dai ghettiNegli Stati Uniti c’è una fetta di società bianca – una grossa fetta di cui fanno parte le mamme gentili disposte a parlare con un estraneo afroamericano al parco – che con-sidera i ragazzi neri un pericolo in sé. Fuori dai ghetti dove pochi bianchi hanno il co-raggio di avventurarsi, la presenza di adole-scenti afroamericani indica non la possibi-lità di guai ma il loro arrivo imminente. Quando George Zimmerman ha incontrato Travyon Martin non ha visto un ragazzo di 17 anni che tornava a casa. Ha visto una per-sona “sospetta”, “che stava combinando qualcosa” e probabilmente era responsabi-le di alcuni furti avvenuti di recente nelle case della zona. “Fottuti ladruncoli”, ha detto alla polizia riferendosi al ragazzo. “Quegli stronzetti se la cavano sempre”.

A dire la verità, i ragazzi neri spesso non sono neanche considerati ragazzi. A Goose Creek, in South Carolina, la polizia che cer-cava un indiziato di 32 anni ha chiesto i cam-pioni di dna a due studenti afroamericani delle scuole medie. Dopo la morte di Tamir Rice – un ragazzo di 12 anni ucciso nel 2014 dalla polizia di Cleveland, che era interve-nuta perché qualcuno aveva denunciato la presenza di un ragazzo con una pistola “probabilmente inta” – un portavoce delle forze dell’ordine ha detto che era stata col-pa sua. “Tamir Rice era pericoloso”, ha det-to. “Aveva l’aria minacciosa. Era alto un

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Staten Island, aprile 2015

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metro e settanta, pesava 80 chili. Non era quel ragazzino che si vede nelle foto. Era un dodicenne nel corpo di un adulto”. Quando ha testimoniato davanti al gran giurì dopo aver sparato a Michael Brown a Ferguson, nel Missouri, il poliziotto Darren Wilson ha descritto il suo aggressore come un anima-le. “Aveva un’espressione intensa, aggressi-va. L’unico modo in cui posso descriverlo è che sembrava un demone”. Anche se Brown era disarmato, Wilson l’ha dipinto come un uomo dalla forza sovrumana ma emotiva-mente subumano. “Sembrava quasi che si esaltasse andando incontro alle pallottole. Dall’espressione che aveva sembrava che mi attraversasse con lo sguardo, come se non fossi neanche lì”.

Testimonianze come questa sono abba-stanza comuni. Nel 2014 l’American psy-chology association ha pubblicato uno stu-dio secondo cui gli statunitensi bianchi danno in media quattro anni e mezzo in più ai ragazzi neri che hanno più di dieci anni. Inoltre, è emerso che gli intervistati bianchi davano per scontato che i ragazzi neri fos-sero più spesso colpevoli dei bianchi o degli ispanici, soprattutto di reati gravi. “Nella maggior parte dei paesi i ragazzi sono con-siderati una categoria a parte, caratterizzata dall’innocenza e dal bisogno di protezio-ne”, scrive Phillip Atiba Gof dell’università della California a Los Angeles. “Ma dalla nostra ricerca è emerso che i giovani neri sono considerati responsabili delle loro azioni a un’età in cui per i loro coetanei bianchi si dà ancora per scontato che siano fondamentalmente innocenti”. Mio iglio è alto per la sua età: queste sono le cose di cui comincio a preoccuparmi.

Io e mia moglie non ci abbiamo messo molto ad accorgerci che alcuni adulti bian-chi si sentivano autorizzati a sgridare i bambini neri, per strada o durante le gite scolastiche, per trasgressioni irrilevanti o inesistenti. L’estate scorsa, il pomeriggio in cui sono tornato a casa dopo aver segui-to i disordini di Ferguson, nel parco davan-ti a casa avevano organizzato un barbecue. C’era anche la musica, così ho deciso di portare i bambini. Nel parco c’è una specie di fontana che spruzza getti d’acqua dal terreno sui bambini che giocano nelle va-sche tutto intorno. I più piccoli si spoglia-no, mentre i più grandi ci entrano vestiti. Era una giornata torrida e mio iglio stava giocando nell’acqua con tanti altri bambi-ni. A un certo punto, mentre inseguiva uno dei suoi amici, ha schizzato la gamba di una donna, che lo ha rimproverato come se l’avesse colpita con un mattone.

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Gli ultimi episodi di razzismo hanno spinto il presidente ad afrontare con più convinzione la questione dei diritti dei neri

Il 15 luglio Barack Obama è arrivato a Oklahoma City e ha trovato uno spettacolo indecente: davanti all’in-gresso del suo albergo nel centro

della città una decina di manifestanti agi-tava le bandiere confederate dell’esercito sudista durante la guerra civile, conside-rate un simbolo razzista. Riservare una si-mile accoglienza al primo presidente nero del paese sarebbe stato disgustoso in qua-lunque circostanza, ma è stato ancora più ripugnante per via di quello che era suc-cesso tre settimane prima a Charleston (dove un suprematista bianco aveva ucci-so nove afroamericani in una chiesa) e per quello che sarebbe successo il giorno do-po: la visita di Obama a un carcere federa-le di El Reno, in Oklahoma.

In quell’occasione il presidente ha de-nunciato il cattivo funzionamento della giustizia, per colpa del quale i penitenzia-ri del paese sono pieni di delinquenti co-muni che non sono violenti e che nella grande maggioranza dei casi sono afroa-mericani. “I neri corrono più rischi di es-sere fermati, perquisiti, interrogati, accu-sati e arrestati”, ha detto in seguito alla convention dell’Naacp, l’associazione na-zionale per la promozione dei diritti dei neri. “Corrono più rischi di inire in pri-gione e di scontare pene più lunghe per lo stesso reato”. Dal momento che un nero su trentacinque si trova dietro le sbarre (per gli uomini bianchi il rapporto è di uno su 214), “circa un bambino afroame-ricano su nove ha un genitore in carcere”.

Quello dell’Oklahoma è stato solo l’ul-timo segnale degli scarsi progressi com-piuti in quelli che sette anni fa, dopo l’ele-zione di Obama, erano stati ingenuamen-te deiniti gli “Stati Uniti postrazziali”. A maggio Obama ha aperto un account su Twitter ed è stato accolto da un’ondata di messaggi razzisti. Dopo la strage di Char-leston, quando il South Carolina ha inal-mente deciso di rimuovere la bandiera confederata dallo spiazzo davanti al par-

lamento dello stato, al congresso i repub-blicani hanno proposto un emendamento per garantire il diritto di esporre la ban-diera confederata nei parchi e nei cimite-ri. Intanto la popolarità di Donald Trump, il miliardario che si è candidato alle presi-denziali del 2016 con il Partito repubbli-cano, continua ad aumentare dopo i suoi attacchi contro gli immigrati di origine ispanica.

Riforma necessariaL’ondata interminabile di abusi commes-si dalla polizia contro neri disarmati è sconcertante. Ma quegli eventi hanno an-che coinciso con un cambiamento nel modo in cui Obama afronta la questione razziale. Per gran parte del suo mandato il presidente è stato timido sull’argomen-to. Oggi, come ha scritto Janell Ross sul Washington Post, Obama sembra essere diventato “più simile al presidente nero che alcuni statunitensi bianchi di tutti gli schieramenti politici temevano (o spera-vano) di avere”.

Mettere ine al razzismo non è compi-to di Obama, ma è rassicurante vedere il presidente che afronta l’argomento con lo stesso slancio di chi alimenta l’odio. Il 22 giugno, nel corso di un’intervista ra-diofonica, Obama ha detto che porre ine al razzismo “non è solo questione di con-siderare sgarbata la parola nigger”. Qual-che settimana dopo, alla Naacp, il presi-dente ha parlato del “retaggio di centina-ia di anni di schiavitù e segregazione, e di disparità strutturali che si sono accumu-late di generazione in generazione”. La riforma del sistema penale di cui ha par-lato Obama è fondamentale per fare dei passi avanti. Il progetto ha il sostegno dei repubblicani, e questo rende più probabi-le la sua realizzazione alla ine del man-dato presidenziale.

Nessuno pensa che questa legge possa far sparire il razzismo. Ma come ha di-chiarato Obama, “se continuiamo a fare passi verso un’unione più perfetta e col-miamo il divario fra quello che siamo e quello che vorremmo essere, gli Stati Uniti andranno avanti”. È stata la risposta perfetta a quelli che sventolavano la ban-diera confederata. u fp

Obama al contrattacco

Dana Milbank, The Washinton Post, Stati Uniti

L’opinione

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Avevo visto tutta la scena e mi sono avvi-cinato di corsa. “Che problema c’è?”, ho chiesto. “Guardi. Mi ha bagnata tutta”, ha urlato lei.

L’ho guardata. Non era afatto bagnata. “Siamo in un parco dove i bambini gio-

cano con l’acqua, è una giornata calda, e lei è vicina alla fontana”, le ho detto. “Si rasse-gni e smetta di sgridarlo”.

“Non mi dica quello che devo fare”, ha abbaiato lei.

“Adesso sta sgridando me, la smetta”.“Chi diavolo è lei?”, ha urlato.“Sono suo padre, ecco chi sono”.“Lei non è nessuno, ecco chi è”, ha stril-

lato. “Nessuno”.Uno dei primi articoli che ho scritto co-

me corrispondente dagli Stati Uniti era sul funerale di Mamie Till Mobley, la madre di Emmett Till. Nell’estate del 1955 Mamie aveva mandato il iglio di 14 anni nelle cam-pagne del Mississippi per passare le vacan-ze estive con i parenti. Prima che partisse lo aveva avvertito: “Se devi metterti in ginoc-chio e inchinarti quando passa un bianco”, gli aveva detto, “non fare storie”. Ma Em-mett non aveva seguito il suo consiglio. Mentre era nella cittadina di Money, nella regione del delta, aveva detto “ciao bella” o forse aveva ischiato a una donna bianca in un negozio di alimentari. Tre giorni dopo il suo corpo era stato trovato nel iume Talla-hatchie con una pallottola nel cranio, senza un occhio e con una ferita alla tempia.

Crescere un iglio nero in una società razzista comporta una serie di problemi molto particolari. Da una parte, vorremmo che fosse orgoglioso di essere nero. Dall’al-tra, dobbiamo spiegargli che è più vulnera-bile degli altri proprio per via del colore del-la sua pelle, perché la consapevolezza di questa vulnerabilità può salvargli la vita. Cerchiamo di crescere ragazzi sicuri di sé che riescano a vivere a lungo, non dei bersa-gli mobili. Spiegare i complessi fattori stori-ci e sociali che rendono necessaria questa consapevolezza non è facile, ma farli capire a un bambino è quasi impossibile senza sempliicare e prendere qualche scorciato-ia. Una volta, durante la nostra passeggiata di dieci minuti per andare a scuola, mio i-glio mi ha chiesto se potevamo fare un’altra strada. “Perché?”, ho chiesto. “Perché lì fermano tutti i ragazzi neri”, ha detto.

Aveva ragione. Circa due volte alla setti-mana ci capitava di assistere a scene in cui un giovane nero era perquisito o arrestato, di solito mentre tornava a casa. Mio iglio aveva solo quattro anni, e ino a quel mo-mento non mi ero accorto che lo avesse no-tato. Ho cercato di rassicurarlo.

“Non ti preoccupare. Sei con me, nessu-no ci fermerà”, gli ho detto.

“Perché no?”, mi ha chiesto.“Perché non abbiamo fatto niente”, ho

risposto. “E loro che cosa hanno fatto?”. Aveva vinto lui. Da quel giorno abbiamo cambiato strada.

Nel 2002 ho intervistato Maya Angelou, poetessa, attrice e ballerina statunitense. Secondo lei, gli attacchi dell’11 settembre hanno avuto un signiicato diverso per gli afroamericani. “Per molti bianchi vivere nel terrore era una novità”, mi ha detto. “Ma in questo paese i neri vivono nel terrore da più di quattrocento anni”. Ed è proprio que-sto stato di terrore che è stato messo a nudo negli ultimi anni. Ogni tanto l’opinione pubblica e i mezzi d’informazione “scopro-no” questa realtà quotidiana più o meno come gli adolescenti scoprono il sesso: in modo ansioso, vorace e distratto, con molta autoindulgenza e pochissima consapevo-lezza di sé. Hanno sempre saputo che il raz-zismo esiste, ma quando se lo trovano di fronte sono sempre colti di sorpresa.

Dopo la strage di Charleston, in South Carolina, in alcuni stati del sud si è comin-ciato a discutere se lasciar sventolare la bandiera dell’esercito confederato nei luo-ghi pubblici: c’è voluta la morte di nove afroamericani per ricordare a tutti le con-notazioni razziste di quella bandiera. È co-me se la secolare storia della discriminazio-ne razziale sia troppo noiosa e scontata per essere afrontata. Fino a quando non si mo-stra in modo drammatico, come dopo l’ura-gano Katrina o dopo le proteste di Ferguson. A quel punto la noia si trasforma in indigna-zione. In un paese che si vanta di andare sempre avanti, l’idea di dover “ancora par-lare di questo” è un afronto al carattere na-

zionale. È per questo che la candidatura di Obama ha esercitato tanto fascino sugli americani. Come mi ha detto nel 2007 An-gela Davis, l’icona intellettuale del radicali-smo degli anni settanta, la vittoria di Oba-ma rappresentava “la diferenza che non fa nessuna differenza, il cambiamento che non porta nessun cambiamento”.

L’ultima ondata di proteste antirazziste sta durando più delle precedenti. Negli ulti-mi due anni la brutale banalità della vita quotidiana di alcuni cittadini di questo pae-se è diventata più visibile agli occhi di quel-li che non la conoscono direttamente. Ma in realtà non è successo niente di nuovo. Non c’è stato un aumento degli abusi della poli-zia. L’unica novità è che ora le persone li vedono con i loro occhi. E grazie alle tecno-logie (soprattutto alla possibilità di registra-re video e pubblicarli facilmente in rete), hanno molto da vedere. Di conseguenza, una fetta signiicativa dell’America bianca si indigna alla vista di quello che inora ha preferito ignorare, mentre un’altra fetta, che sta diminuendo ma resta consistente, si riiuta ancora di credere ai suoi occhi.

Non svenireHo più cugini negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Stanno tutti benissimo. A un certo punto ho pensato di trasferirmi deinitiva-mente qui. E anche se ormai ho messo com-pletamente da parte quell’idea, ancora oggi non mi sembra una follia. Da quando sono negli Stati Uniti, nessuno mi ha sparato, ar-restato o messo in prigione, e lo stato non mi ha mai creato nessun grave problema. Non vivo nelle zone depresse dalla dispera-zione economica urbana, dove molti afroa-mericani sono stati abbandonati. Sono sta-to aggredito verbalmente in un parco, ho cambiato strada per andare a scuola con mio iglio e a volte ho avuto a che fare con funzionari pubblici fanatici. Mentre attra-versavo in macchina il Mississippi per inda-gare sulle conseguenze dell’uragano Katri-na, per esempio, sono arrivato a un posto di blocco che tutti gli altri giornalisti avevano superato facilmente. Il poliziotto ha messo mano alla pistola e mi ha rimandato indie-tro. Ma, nonostante queste seccature, la mia vita non è mai stata in pericolo.

Io non sono Michael Brown. Ma nean-che lui era Michael Brown prima che gli spa-rassero e lasciassero a terra il suo corpo per quattro ore. Prima che un poliziotto di Sta-ten Island lo aferrasse al collo ino a farlo sofocare, Eric Garner era solo un uomo che cercava di vendere sigarette per strada. Ta-mir Rice era solo un ragazzo vivace che va-gava per un parco prima che un agente arri-

Da sapere Redditi a confronto

Ricchezza mediana netta dei nuclei familiari negli Stati Uniti, in migliaia di dollari

Fonte: Pew research center

2007

2010

2013

Bianchi

192.500

138.600

141.900

2007

2010

2013

Neri

19.200

16.600

11.000

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vasse con la sua volante e gli sparasse nel giro di pochi secondi.

Essere uccisi dalla polizia, o da chiun-que altro, non fa parte dell’esperienza quo-tidiana dei neri statunitensi. Ma come è emerso dall’inchiesta del dipartimento di giustizia sulla polizia di Ferguson, i neri so-no presi di mira in modo sproporzionato. Per esempio: tra il 2007 e il 2014 una donna di Ferguson è stata arrestata due volte, ha passato sei giorni in prigione e si è ritrovata con un debito di 550 dollari, il tutto a causa di una multa per divieto di sosta che all’ini-zio era di 151 dollari. Aveva chiesto di poter-la pagare a rate, 25 o 50 dollari alla volta, ma il giudice aveva respinto la richiesta. Sette anni dopo l’infrazione, aveva ancora un de-bito di 541 dollari. Quello era il metodo che il comune usava per fare cassa. Non era un difetto del sistema, era il sistema in azione.

Poi c’è il caso del nero trascinato fuori di casa dalla polizia perché qualcuno aveva detto che all’interno era in corso una rissa. Secondo le testimonianze, mentre lo porta-vano fuori l’uomo ha detto: “Non avete nes-suna ragione per sbattermi dentro”.

L’agente ha risposto: “Un motivo lo tro-vo, negro”. “Buona fortuna”, ha replicato l’uomo. L’agente gli ha sbattuto la faccia contro il muro e lui è caduto a terra. “Non

svenire, iglio di puttana, non ho nessuna intenzione di portarti in macchina in brac-cio”, ha urlato l’agente. È successo ad ago-sto del 2014, lo stesso mese in cui è stato ucciso Michael Brown. Se non fosse stato per i disordini scoppiati dopo la sua morte, non ci sarebbe stata nessuna inchiesta. Non avremmo mai saputo quello che era succes-so, e i poliziotti di Ferguson avrebbero con-tinuato a commettere abusi nella totale impunità. Ferguson è una cittadina del Mid west di cui quasi nessuno aveva mai sentito parlare. Non aveva niente di specia-le, ed è proprio per questo che quell’episo-dio era particolarmente importante. Se è successo lì, potrebbe succedere in qualsiasi altra città statunitense.

È estenuante. Quando i video che mo-strano gli abusi della polizia diventano vi-rali non riesco a guardarli a meno che non debba scrivere un articolo. Non ho bisogno di essere sconvolto, e comunque ormai quei video sono così frequenti che hanno smesso di essere sconvolgenti. Se non fos-se per la felicità di vedere che le nuove ge-nerazioni non si lasciano scoraggiare e stanno riportando in vita le lotte antirazzi-ste del passato, sarei disperato. I litigi al parco, i cambi di percorso per andare a scuola, le seccature della vita quotidiana

sono solo le note più basse di un rullo di tamburo sordo e continuo che ogni tanto aumenta di volume e si trasforma in uno scontro violento o perino in una conla-grazione sociale. Con l’arrivo dell’estate, il volume continua a salire. “Il terrore”, scri-ve l’antropologo Arjun Appadurai nel libro Fear of small numbers , “è essenzialmente terrore del prossimo attacco”. Il terrorismo non ci spaventa solo perché può succedere qualcosa, ma perché dobbiamo essere pre-parati all’idea che possa succedere qualco-sa in qualsiasi momento. Negli Stati Uniti ogni giorno sono uccisi in media sette bambini o adolescenti. Ho appena inito di scrivere un libro in cui ho preso un giorno a caso e ho intervistato i familiari e gli amici delle vittime. Nel giorno che avevo scelto le vittime erano state dieci. Otto erano ne-re. Tutti i genitori neri mi hanno confessa-to che davano per scontato che potesse succedere al loro iglio. Un padre disperato mi ha detto: “Non saresti un buon padre se non ci pensassi”. u bt

Nella chiesa battista di Stapleton, a Staten Island

L’AUTORE

Gary Younge è un giornalista britannico, corrispondente del Guardian dagli Stati Uniti tra il 2003 e il 2015. Sarà al Festival di Internazionale a Ferrara dal 2 al 4 ottobre.

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così. Il dovere di una donna è prendersi cu-ra del marito”.

Jasvinder non poteva sperare di sottrar-si a quel destino. Nella comunità indiana di Derby non sono ammesse eccezioni. Eppure l’annuncio della madre le fece l’ef-fetto di uno schiafo. Ah no! Non se ne par-lava, non si sarebbe sposata così. Era nata in Inghilterra nel 1965, e voleva scegliere liberamente cosa fare della sua vita, come le donne occidentali. Se sua madre, nata in un villaggio del Punjab, a 15 anni era stata costretta a sposare il vedovo della sorella maggiore – un sikh – e a raggiungerlo in In-ghilterra dove lui lavorava in una fonderia, questo non signiicava che lei dovesse con-dividere la stessa sorte. Guardò di sfuggita la foto, trovando l’uomo “basso” e molto più vecchio di lei, e poi guardò la madre che scoppiò a ridere. Le sembrava tutto ir-reale, ma il disegno presto prese forma.

Le allusioni diventarono sempre più frequenti, la foto dell’uomo fu sistemata sul caminetto del salone così che, tornando da scuola, Jasvinder si ritrovasse tutti i giorni davanti agli occhi l’immagine di quell’estraneo. E la madre, emozionata, cominciò a riempire la cassapanca con il corredo che avrebbe seguito la ragazza nel-la sua nuova famiglia. Acquistò perfino uno sfavillante abito da sposa rosso e Ja-svinder, sempre più angosciata, perse il sonno. La madre si arrabbiò, il padre an-che: “Inutile lottare. Ci dobbiamo passare

Non dimenticherà mai il momento in cui la sua vita è precipitata, i suoi genitori sono diventati all’improvviso dei ne-mici e l’adolescente al-

legra che era stata ino a quel momento si è trasformata, agli occhi di tutta la famiglia, in una ribelle insolente e scapestrata. Ave-va appena compiuto 14 anni e tornava da scuola con la cartella sulle spalle e la divisa un po’ sgualcita. Si era sistemata nel sog-giorno della sua casa a Derby, nel Regno Unito, per fare i compiti. La madre, con in-dosso il sari tradizionale, le aveva chiesto di sedersi accanto a lei sul divano e le aveva mostrato la foto di un gruppo di uomini, tutti indiani, indicandogliene uno: “È l’uo-mo che sposerai”.

Dentro di sé Jasvinder Sanghera sapeva che prima o poi quel momento sarebbe ar-rivato. Aveva assistito alla stessa scena già altre quattro volte, quando la madre aveva presentato alle sorelle più grandi i “pro-messi sposi” su una foto. Dopo poco tempo le quattro ragazze erano partite per l’India, più precisamente per il Punjab, ed erano tornate con un marito. Violento e autorita-rio. O almeno era questo che Jasvinder im-maginava quando, andando a trovare la sorella, captava lacrime e tracce di percos-se, ma anche i rimproveri corrucciati di sua madre: “Basta con queste lamentele! Non mi fate vergognare di voi! Gli uomini sono

tutti”. La ragazza si fece cogliere dal pani-co. Il conto alla rovescia era cominciato e lei non sapeva più a chi rivolgersi. I suoi in-segnanti? Impossibile: i genitori le avevano imposto di erigere un muro ermetico tra “l’esterno” e la famiglia.

Un giorno, mentre alcune donne am-miravano la preparazione del corredo, lei gridò: “Non ci penso proprio a sposarmi. Voglio andare all’università”. La madre gridò e aferrò come una furia le forbici da sarta, per colpirla. Poi la portò in un tempio indù per farla esorcizzare, convinta che una simile ribellione poteva spiegarsi solo con un malocchio che qualcuno le aveva

Spose precociAnnick Cojean, Le Monde, Francia Foto di Pieter Ten Hoopen

Le donne costrette a sposarsi ancora minorenni sono più di settecento milioni in tutto il mondo. Colpa di un’usanza ancora molto difusa in Africa e in Asia. E anche tra gli immigrati in Europa

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fatto. E quando scoprì che la iglia frequen-tava il fratello di una compagna di classe, fu colta da una crisi isterica. Ritirò Jasvin-der da scuola, la picchiò, la rinchiuse in camera sua pretendendo che tutta la fami-glia (sei sorelle e un fratello) si coalizzasse contro la ragazza. A quel punto la fuga era l’unica soluzione.

Esclusa per sempreIl racconto della sua evasione le fa venire i brividi ancora oggi, trentacinque anni do-po. “Quella fuga folle ha signiicato la mia esclusione deinitiva dalla famiglia, che mi ha rinnegato uicialmente, e dalla comu-

nità degli indiani immigrati, che mi hanno messa al bando”. Riiutando un matrimo-nio combinato Sanghera aveva commesso qualcosa di imperdonabile. “Per noi sei morta”, le disse sua madre quando si deci-se a telefonare a casa. “Spero che un giorno avrai una iglia come te: allora saprai cosa signiica crescere una prostituta”. Isolata, infelice, privata dei suoi afetti, Jasvinder ha cercato due volte di togliersi la vita. Ma ha anche visto i danni dei matrimoni impo-sti sulle altre donne, e soprattutto su sua sorella Robina, che dopo un primo marito violento ne ha avuto un altro altrettanto manesco e sadico, ha implorato invano i

suoi genitori di riaccoglierla e inine si è data fuoco.

“È stata la svolta della mia vita”, rac-conta oggi Jasvinder Sanghera. È una don-na bella e carismatica, ha 49 anni e da tren-ta denuncia senza mai stancarsi i matrimo-ni forzati nelle comunità sikh e musulmane del Regno Unito. “Bisognava spezzare il silenzio su questo assurdo codice d’onore che strumentalizza le ragazze, le trasforma in esseri subumani privi di libero arbitrio e totalmente sottomessi alle loro famiglie e poi le consegna – in catene – a un marito. Le ritorsioni per chi non rispetta questo codi-ce sono inimmaginabili”. Percosse, rapi-

Matrimonio di massa a Vadia, nel Gujarat. India, 2012

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Società

menti, ricatti, esclusioni, o perino l’omici­dio, come è capitato alla diciassettenne Shailea Ahmed, di Warrington, nel Che­shire, strangolata nel 2003 dai genitori da­vanti ai fratelli e alle sorelle perché aveva riiutato un matrimonio combinato in Pa­kistan e sognava di vivere “all’occiden­tale”.

“È quello che viene deinito un delitto d’onore. Ma io ci vedo solo disonore”, esclama Sanghera. “La ragazza sognava di diventare avvocata e rivendicava i diritti fondamentali di una cittadina britannica. Quando ha cercato aiuto, le istituzioni si sono fatte da parte per timore di apparire ‘razziste’ e per rispetto nei confronti di ‘un’altra cultura’. Un inaccettabile abban­dono da parte dello stato”. Dopo Shailea, altre 140 adolescenti che avevano riiutato un matrimonio combinato all’interno della loro comunità sono state uccise nel Regno Unito. Sanghera ha ottenuto dal governo di Londra che il 14 luglio fosse dedicato al­la loro memoria e a tutte le vittime di delit­ti d’onore.

Nel 1993 ha fondato un’organizzazione, Karma Nirvana, per dare una mano alle giovani immigrate in diicoltà e sensibiliz­zare l’opinione pubblica, gli insegnanti, i poliziotti e i politici sul tema dei matrimoni forzati. L’associazione ofre un numero te­lefonico di sostegno che negli ultimi otto anni ha ricevuto più di 48mila chiamate. E mette a disposizione avvocati, psicologi, assistenti sociali, oltre che strutture per accogliere le adolescenti o le giovani spose in fuga. “Le vacanze estive favoriscono traici di ogni genere”, spiega Sanghera. “Migliaia di ragazze spedite ‘in vacanza’ in India o in Pakistan non tornano più”.

Il trucco del cucchiainoKarma Nirvana fa molte campagne di pre­venzione. E alle ragazze che temono di partire per sposarsi contro la loro volontà raccomanda di nascondere sotto gli abiti un cucchiaino. L’allarme dei metal detec­tor all’aeroporto obbligherà i poliziotti a portarle in una stanza privata dove potran­no raccontare la loro storia e chiedere aiu­to. Sanghera è stata nominata dalla regina commendatrice dell’ordine dell’impero britannico nel 2013, e nel giugno del 2014, dopo essere riuscita a richiamare l’atten­zione del primo ministro David Cameron sul tema dei matrimoni forzati, ha ottenu­to che venissero considerati un reato. A circa seimila chilometri dal Regno Unito, nel Rajasthan, la giovane Usha Choudary ha vissuto un dramma simile a quello di Sanghera. Era la primogenita di una fami­

glia con quattro igli e sapeva che nei vil­laggi indiani si possono incontrare spose bambine anche di nove o dieci anni. Sua madre si era sposata a 14 anni, sua zia a 13, le sue cugine a 12. Era cosciente del fatto che la madre, spesso picchiata dal marito alcolista, era ossessionata dall’idea di far sposare le iglie, sapendo che più la sposa è giovane, più è modesta la dote da versare. Tuttavia Usha pensava di poter evitare quel destino. Adorava la scuola, aveva “un miliardo di sogni da realizzare” e cercava di rassicurare se stessa ripetendosi che in città le abitudini erano diverse da quelle della campagna, che un padre che lavorava per il governo doveva per forza essere mo­derno.

Un giorno tutta la famiglia andò in va­canza nel villaggio natale dei nonni, e pre­sto fu raggiunta da numerosi invitati vesti­ti a festa. Usha, 14 anni, giocava in cortile

con altri bambini e non sospettava niente. Vennero a cercarla, le dissero di avvolgersi in un sari da cerimonia e di indossare gio­ielli, anelli, bracciali. “Nonostante ogni evidenza”, racconta oggi Choudary con il distacco dei suoi 38 anni, “continuavo a non capire quello che stava succedendo”. A un certo punto però le applicarono sulla fronte il sindoor, il puntino di polvere rossa che indica che una donna è sposata, e gli invitati la applaudirono, prima di dileguar­si rapidamente. Solo a quel punto la ragaz­zina si rese conto della situazione e scoppiò a piangere: “Mia madre mi aveva tradita! Mia madre, che aveva conosciuto sulla sua pelle umiliazioni e violenze! Non riuscivo a calmarmi. Non volevo neppure sapere chi fosse il mio promesso sposo. Non vole­vo avere niente a che fare con lui. Non vo­levo sposarmi, punto e basta”.

La vera cerimonia del matrimonio avrebbe dovuto tenersi due mesi dopo. Usha decise perciò di agire con astuzia. Disse di voler tornare in città per salutare le amiche e, una volta lì, chiarì che niente e nessuno l’avrebbe mai costretta a sposarsi, preferiva il suicidio. Fu picchiata, insultata e lasciata senza cibo. Oggi è una maestra elementare e fa la copista. Ha escogitato diversi trucchi per rincasare solo a notte fonda, tanto l’ambiente familiare è un in­ferno. E la domenica fa lezione a bambine che le loro madri tengono a casa: “Le con­vinco che possono avere dei sogni e che per realizzarli devono studiare. E mostro alle madri che una iglia istruita interrompe il ciclo della povertà, contribuisce al reddito familiare e rende dinamico il paese”.

Bambine, non sposeI fratelli e le sorelle di Choudary sono scampati ai matrimoni precoci. È un moti­vo di vanto per lei, come lo è l’associazione Vikalp, che ha creato nel Rajasthan e attra­verso cui ha già salvato centinaia di ragaz­ze dai matrimoni forzati, aiutandone altre migliaia a continuare la scuola. Riceve re­golarmente minacce ma resiste. Organizza dei campeggi in cui le ragazze seguono dei corsi d’inglese, d’informatica e di autodi­fesa, e cerca di coinvolgere anche i ragazzi, ainché diventino i principali sostenitori delle loro sorelle. Incita le adolescenti a non aver mai paura di esprimere le loro scelte: “Alzatevi in piedi! Reclamate i vo­stri diritti. E se i vostri genitori non capi­scono, allora interverremo noi, andremo a trovarli, in due, in dieci, in venti se sarà ne­cessario, ve lo prometto, impediremo il matrimonio!”.

Nel mondo migliaia di donne che spes­

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Da sapere Il primato dell’India

India

Asia orientale e Paciico

Asia meridionale

America Latina e Caraibi

Africa occidentale e centrale

Africa orientale e meridionale

Medio Oriente e Nordafrica

Europa centrale e orientale e Csi

Paesi industrializzati

33

25

9

9

7

6

5

4

2

%

Donne che si sono sposate prima dei 18 anni nel mondo, percentuale

Fonte: Un children’s fund, Ending child marriage: progress and prospects, Unicef, New York, 2014

Sua madre era ossessionata dall’idea di far sposare le sue iglie, sapendo che più la sposa è giovane, più è modesta la dote da versare

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so sono state vittime di un matrimonio precoce o che sono riuscite a evitarlo sono impegnate nella lotta contro questa prati-ca, difusa principalmente in India, al pri-mo posto per numero di matrimoni di mi-norenni. E di recente anche per la comuni-tà internazionale afrontare il problema è diventato una priorità. Negli ultimi mesi il matrimonio precoce è stato al centro di una risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, di una campagna pro-mossa dall’Unione africana, che durante il vertice di Johannesburg di giugno ha adot-tato una posizione comune in merito, di un piano d’azione regionale dei governi dell’Asia meridionale e del primo “vertice mondiale della bambina”, organizzato dal governo britannico e dall’Unicef nel 2014.

A fine maggio l’organizzazione Girls not brides (bambine, non spose) ha raccol-to a Casablanca più di 250 attivisti prove-nienti da 63 paesi e ha chiesto alla comuni-tà internazionale di intensificare i suoi sforzi per eliminare questa usanza che col-pisce ogni anno 15 milioni di bambine. “Quindici milioni!”, insiste l’avvocata per i diritti umani e ambasciatrice di buona vo-lontà perso l’Unione africana Nyaradzayi Gumbonzyanda. “Che fallimento per i no-

stri governi, incapaci di proteggere le bam-bine! Perché dietro questa pratica si na-scondono rapimenti, sequestri, stupri, schiavitù. Tutte violazioni dei diritti uma-ni, a cui si attribuisce dignità chiamandoli ‘matrimonio’. Smettiamola di chiudere gli occhi evocando la cultura, le tradizioni o la religione”. Gumbonzyanda, nata in Zim-babwe nel 1967 da una madre costretta a sposarsi a 15 anni e che prima di lei aveva già avuto tredici igli, oggi guida l’organiz-zazione World Ywca, impegnata nella dife-sa delle donne. “Da un giorno all’altro ognuna di quelle bambine deve spogliarsi davanti a uno sconosciuto molto più vec-chio di lei che la violenterà più e più volte. Ecco la verità su questi matrimoni precoci! Non sono né più né meno che crimini orga-nizzati! E si tratta di un importante argo-mento politico, un tema su cui qualsiasi candidato a una qualsiasi elezione, com-prese quelle interne alle Nazioni Unite, dovrebbe essere costretto a prendere posi-zione”.

È anche un problema di ordine sanita-rio, spiegano gli attivisti di Girls not brides. Le adolescenti sono molto più esposte a complicazioni come, per esempio, la isto-la ostetrico-vaginale e a decessi legati alla

gravidanza e al parto. Le bambine che par-toriscono prima dei 15 anni rischiano la vita cinque volte di più rispetto alle donne di età compresa tra i 20 e i 24 anni. E i loro igli hanno una probabilità di nascere prematu-ri, morire nelle prime settimane di vita o avere problemi in seguito molto più alta rispetto agli altri.

Campi di iniziazioneÈ diicile ascoltare senza provare orrore i racconti provenienti dai diversi paesi del mondo. In Mozambico e in Zambia, alle prime mestruazioni le bambine tra gli otto e i tredici anni vengono spedite in campi di iniziazione sessuale per imparare a “soddi-sfare un uomo” e a badare alla famiglia. Se le mestruazioni tardano ad arrivare, alcuni genitori chiedono addirittura a un uomo di avere un primo rapporto sessuale con la loro iglia nella speranza di facilitare l’ini-zio del ciclo mestruale. Capita perino che i capi della comunità rendano obbligatori questi corsi di iniziazione e rimproverino i genitori refrattari. D’altro canto, la mag-gior parte degli uomini si riiuta di sposare una ragazza “non iniziata”. Al termine dell’addestramento le bambine vengono date in spose immediatamente e rimango-

Vadia, India, 2012

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no presto incinte, anche se nei due paesi la legge issa a 18 anni l’età minima per il ma-trimonio. Ma visto che poche bambine hanno un certiicato di nascita, “una ra-gazza di 16 anni può tranquillamente avere già sei igli”, lamenta il sacerdote anglica-no Jackson Jones Katete. “Tocca a noi, ai religiosi, convincere i genitori che la scuola garantirà alle loro iglie un avvenire mi-gliore”. Le scuole però sono poche e lonta-ne dai villaggi, fa notare. Bisognerebbe costruirne altre. E reclutare delle inse-gnanti per mostrare alle ragazze che la scuola non è una cosa riservata ai maschi.

Il futuro rubatoAll’estremo nord del Camerun, Djenabou era in quinta elementare quando nel suo quartiere hanno cominciato a circolare vo-ci sul suo matrimonio. Nessuno nella sua famiglia gliene aveva parlato. Ma un gior-no, tornata a casa da scuola, ha trovato ad attenderla un uomo sulla quarantina, che aveva già due mogli e sei igli. È stata obbli-gata a seguirlo in un altro villaggio, e lì ha dovuto afrontare l’ostilità delle altre due mogli, le prime percosse perché non era abbastanza brava in cucina e i primi stupri. Quando durante la gravidanza si è amma-lata, suo marito era terrorizzato all’idea che potesse morire in casa sua e l’ha riman-data dal padre, che si è riiutato di aprirle la porta. “Quando si dà in sposa una iglia, è per sempre”. Solo dopo che lei ha minac-ciato di suicidarsi e grazie all’intercessione dei vicini l’uomo ha accettato di riacco-glierla, furibondo. Djenabou ha partorito un bambino, non ha mai più rivisto suo marito ma è stata aiutata da un’associazio-ne che le ha spiegato i suoi diritti e le ha insegnato a cucire, rendendola economi-camente indipendente.

“La maggior parte delle mie amiche ha vissuto la stessa esperienza”, racconta ele-gante nel boubou che lei stessa ha confe-zionato. “Allora, insieme ad altre donne, ho creato anch’io la mia associazione. An-diamo nei villaggi a parlare con i capi e i genitori, a raccontare le diicoltà delle no-stre vite e la responsabilità dei nostri padri. Alcuni temono di essere denunciati”. Pie-ga la testa sotto lo sguardo della sua madri-na, Billé Siké, l’instancabile paladina di queste ragazze che ascolta, inquadra, istruisce e incoraggia. “Si dice che in Africa non esistono le malattie psicosomatiche, ma nei nostri villaggi ci sono milioni di gio-vanissime traumatizzate a cui è stato ruba-to il futuro nella più assoluta impunità!”.

Quando si veriica un disastro naturale, una guerra, un maremoto o un’epidemia,

la reazione delle famiglie è ancora oggi, nel 2015, quella di far sposare prima le iglie femmine. Per proteggerle da aggressioni sessuali, evitare la vergogna di una bambi-na incinta senza marito o semplicemente sbarazzarsi di una bocca in più da sfamare. In Sierra Leone, per esempio, l’esplosione dell’epidemia di ebola ha avuto efetti pro-fondi sull’organizzazione della società: le scuole sono rimaste chiuse per nove mesi, gli orfani sono aumentati e le ragazze, più isolate, sono diventate anche più vulnera-bili. In primavera ci sono state più di un migliaio di gravidanze tra le adolescenti, un dato che ha suscitato la reazione scan-dalizzata del ministro dell’istruzione che le ha cacciate dalle scuole. Un modo in più per escluderle dal sistema.

In Nepal, uno dei paesi con il più alto tasso di matrimoni precoci, il terremoto

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del 25 aprile ha provocato più di ottomila morti, 16mila feriti e la distruzione di più di duecentomila case e ha messo le bambi-ne in una situazione particolarmente peri-colosa. “Ogni giorno”, spiega Anand Ta-mang, che coordina Girls not brides in Nepal, “bambine di tutte le età vengono violentate nelle tende in cui sono ammas-sati gli sfollati, soprattutto a Kathmandu. Nei villaggi distrutti i traicanti ingannano le orfane e le ragazze più povere promet-tendogli un buon lavoro e portandole inve-ce in India o nei paesi del Golfo, dove fanno le schiave o le prostitute”. È dunque per proteggerle che i genitori fanno sposare le iglie il prima possibile. La distruzione del-le scuole non potrà che accelerare questa tendenza.

In Nigeria, inine, con le ofensive di Boko Haram, i genitori non si idano più a lasciare le figlie nei collegi. Solo alcune scuole sono state saccheggiate, ma molte famiglie hanno comunque fatto rientrare le iglie a casa e per proteggerle le hanno fatte sposare. Anche le famiglie di rifugiati o sfollati che sono sistemate in accampa-menti o in case private accettano facilmen-te di dare le giovani iglie a chi le ospita o in cambio di cibo.

Investire nell’istruzione“Più di 700 milioni di donne oggi in vita so-no state date in moglie prima dei 18 anni, e saranno 1,2 miliardi entro il 2050 se non tro-veremo un modo per arginare il fenomeno”, spiega con rabbia Nyaradzayi Gumbonz-yanda, che ha lavorato in molti paesi africa-ni. “Ci sono forze che si mobilitano un po’ ovunque, le stesse donne si ribellano, uo-mini come il premio Nobel Desmond Tutu hanno preso posizione contro questa ingiu-stizia. Servirebbe però che altri leader reli-giosi alzassero la voce e denunciassero l’ipocrisia degli uomini che stanno dietro a questi matrimoni vergognosi. L’Africa, e non solo, potrebbe guadagnare moltissimo investendo sull’istruzione delle ragazze”.

Campagne di denuncia contro i matri-moni precoci delle bambine vengono orga-nizzate un po’ ovunque, anche in Nepal. Secondo l’ambasciatrice Gumbonzyanda, ossessionata dal ricordo di sua madre Rosa-ria, che ha lottato perché lei avesse una vita diversa, il fenomeno potrebbe essere fer-mato nel giro di una generazione. “Baste-rebbe una forte volontà politica”.

Jasvinder Sanghera, che in Inghilterra è diventata nonna e attraverso la sua organiz-zazione riceve ancora 500 richieste di aiuto al mese da ragazze minacciate dalle fami-glie, vuole credere che sia possibile. u gim

Fonte: Un children’s fund, Ending child marriage: progress and prospects, Unicef, New York, 2014

Da sapere Più mogli che mariti minorenniUomini e donne sposati prima dei 15 e dei 18 anni, in milioni

156 milioni

720 milioni

Femmine

Sposatiprima dei 15 anni

Sposati tra i 15 anni e i 18 anni

Maschi

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6

4

2

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In Nigeria, con le ofensive di Boko Haram, molte famiglie hanno ritirato le iglie da scuola e le hanno fatte sposare

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Preparate le valigie: dal 31 luglio in tutte le edicole c’è un numero speciale di Internazionale

Centocinquantasei pagine di reportage, racconti di viaggi e immagini dai quattro angoli del pianeta

Viaggio

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Germania

a ogni articolo e a discuterne insieme.Steffen Burkhardt, uno studioso dei

mezzi d’informazione che lavora ad Am-burgo, fa notare che con l’arrivo di internet “persone senza particolari qualiiche han-no potuto parlare per la prima volta alle masse e denunciare tutto quello che consi-derano scandaloso”. È una delle maggiori conquiste del mondo digitale e ha abbattu-to il vecchio ordine che separava la fonte dal destinatario e rendeva i giornalisti delle autorità indiscusse. D’altra parte, non sono le nuove tecnologie ma le persone a essere buone o cattive. Così sono aumentati in modo esponenziale non tanto i commenti intelligenti, quanto quelli sconclusionati e ofensivi. “Su internet c’è sempre qualcuno

è un messaggio che potrebbe essere stato lanciato dal grup-po Stato islamico: “C’è da au-gurarsi che qualcuno gli spezzi o gli mozzi le mani”. In realtà non lo ha scritto il gruppo ter-

roristico, ma un cittadino tedesco che si è abbandonato a queste fantasie di mutila-zione dopo aver letto sul sito della Zeit un articolo di Stefen Dobbert sul presidente russo Vladimir Putin. Uno spettatore ha chiamato “brutta sobillatrice” Katrin Ei-gendorf, una giornalista della tv pubblica Zdf che segue il conlitto in Ucraina. Attac-chi particolarmente violenti sono stati indi-rizzati a Golineh Atai, la corrispondente del secondo canale della tv pubblica, l’Ard, che segue regolarmente le vicende ucraine: “Quella donna fa schifo”, “È un ripugnante fantoccio della propaganda”, “È vomito po-litico”.

Tutte queste aggressioni verbali sono state lanciate pubblicamente su internet. Non bisogna essere degli esperti di diritto per sapere che se gli autori di quelle frasi non si fossero nascosti dietro uno pseudo-nimo sarebbero initi da tempo in tribunale. Quello che scrivono è esagerato, ofensivo e spregevole. E il fenomeno non è limitato alla rete: anche i lettori della carta stampata lanciano insulti terribili. Ma su internet si commenta di più che altrove. Twitter e Face book sono luoghi in cui le opinioni, i consigli e le valutazioni non iniscono mai. I mezzi d’informazione online invitano i loro lettori a scrivere cosa pensano in fondo

che grida allo scandalo e riscuote rapida-mente consensi. Si è sviluppata una vera mania dell’indignazione”, spiega Bur-khardt.

Oggetto di questa indignazione sono sempre più spesso i giornalisti: gli attacchi citati all’inizio erano diretti a chi si occupa della Russia, ma qualunque argomento può scatenare le ire del pubblico. Nel mirino i-niscono sia i giornalisti che criticano il Par-tito pirata o il partito populista ed euroscet-tico Alternative für Deutschland, sia quelli che chiedono una maggiore apertura verso i profughi. Un giornalista del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung che ritiene sensata una variante più moderata della legge sulla conservazione dei dati è stato deinito sui social network “portavoce della lobby della polizia”.

Una giornalista è stata addirittura mi-nacciata di morte. Quando Ronja von Rön-ne ha pubblicato sul quotidiano Die Welt un saggio sul femminismo organizzato, il pastore francofortese Hans-Christoph Stoodt le ha rivolto queste parole: “Gli ari-stocratici appesi al lampione. Si farà, von Rönne”. Il messaggio del teologo era una variazione del canto rivoluzionario france-se in cui si esprime la speranza che i nobili muoiano tutti appesi a un albero o al pati-bolo. I responsabili del mobbing online, osserva Burkhardt, cercano sempre di “uc-cidere simbolicamente la vittima isolando-la sul piano pubblico”.

Sembra proprio che qualcosa di fonda-mentale sia andato storto. È come se oggi

Notizieda non credereGötz Hamann, Die Zeit, Germania. Foto di Gilles Coulon

In Germania il giornalismo sta perdendo sempre più credibilità. Molti lettori e spettatori si lamentano dell’informazione di giornali e tv. Non solo a causa degli errori dei giornalisti, ma anche per la tendenza a spettacolarizzare le notizie

Da sapere Centinaia di giornaliQuotidiani pubblicati in diversi paesi europei

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Fonte: Bundesverband deutscher Zeitungsverleger

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non valesse più un presupposto che per molto tempo è stato dato per scontato: che i mezzi d’informazione sono dalla parte dei cittadini e della democrazia in generale, un quarto potere che controlla in modo più o meno attendibile i tre poteri dello stato (il governo, il parlamento e la giustizia) e, no-nostante tutti i suoi errori, gode della idu-cia delle persone.

Un sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca Infratest Dimap per Die Zeit tra-sforma questo sospetto in certezza: la pro-fonda delusione nei confronti dei mezzi d’informazione cresce anche tra le persone che s’informano e seguono assiduamente la politica. In altre fasce della popolazione, poi, gli insoddisfatti sono in netta maggio-ranza. Se volessimo riassumere le critiche in un’unica domanda, sarebbe: possiamo ancora idarci di voi?

Alcuni lettori della Zeit ci chiedono re-golarmente: siete davvero indipendenti? Veriicate le notizie? Da quali fonti proven-gono le vostre informazioni? Anche il no-

stro settimanale, insomma, è direttamente coinvolto. A cosa è dovuta questa rabbia? Quali sono le conseguenze della perdita di iducia? E cosa si può fare per risolvere il problema?

Negli ultimi anni molti giornali e tv han-no investito sulla qualità, anche se la crisi ha colpito duramente le inserzioni pubbli-citarie e le vendite. Oggi si assumono più giornalisti d’inchiesta, e molti reportage uniscono un giornalismo ricco di informa-zioni a un buon livello di scrittura. Inoltre le redazioni, anche quella della Zeit (e della Zeit online), hanno adottato nuovi codici etici per garantire la loro indipendenza. È quindi sbagliato accusare il giornalismo in blocco o vederne solo la crisi.

Ma è comunque vero che negli ultimi anni i giornalisti hanno fallito in momenti decisivi. Per esempio, prima e durante l’in-vasione statunitense dell’Iraq. All’epoca, nel 2003, molti mezzi d’informazione, so-prattutto statunitensi, davano voce fonda-mentalmente solo alla propaganda della

Casa Bianca e per questo hanno inito per sentirsi anche loro in guerra. Pubblicavano notizie manipolate dal fronte e video pro-pagandistici sui presunti bombardamenti “chirurgici”, mentre lontano dalle teleca-mere i prigionieri venivano torturati in car-ceri segrete.

Poi c’è stata la crisi inanziaria: alcuni giornalisti autorevoli, che pure avevano analizzato e criticato gli eccessi della inan-za prima del 2008, non sono riusciti a pre-vedere il grande crollo. In quel periodo sui mezzi d’informazione tedeschi dominava-no le idee neoliberiste, così è rimasta l’im-pressione che i giornalisti economici non solo avessero dedicato poca attenzione alla questione, ma stessero addirittura promuo-vendo quel capitalismo sfrenato.

Ora, però, i giornali hanno imparato dai loro errori e hanno cominciato a collabora-re con organizzazioni come WikiLeaks e persone come Edward Snowden, hanno imparato a esaminare attentamente l’atti-vità delle banche e hanno ripensato il modo

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in cui trattano i temi della politica. Tuttavia gli errori del passato continuano a pesare, e probabilmente questo spiega molte delle critiche e perino l’odio scatenati dalle noti-zie sull’Ucraina. Una fetta di opinione pub-blica nutre evidentemente il sospetto che nel raccontare l’annessione della Crimea da parte della Russia i mezzi d’informazio-ne abbiano ripetuto ancora una volta in mo-do acritico solo quello che era nell’interesse degli Stati Uniti o della Nato.

Ma la iducia non è stata erosa solo dagli errori del passato. Ha inluito anche un fat-tore più recente: la spettacolarizzazione quotidiana. Bernhard Pörksen, uno studio-so di comunicazione che insegna all’uni-versità di Tubinga, deinisce i mezzi d’in-formazione delle “macchine da allarmi-smo”. Nella feroce battaglia per accapar-rarsi l’attenzione dei lettori, i mezzi d’infor-mazione invitano il pubblico quasi ogni ora a indignarsi per qualcosa. E anche quando in un primo momento reagiscono, i lettori e

gli spettatori conoscono da tempo questo meccanismo e sanno già come andrà a ini-re: all’inizio si getta luce su un problema grazie a uno scoop che spesso è goniato; poi si scatena l’indignazione dei giornalisti e del pubblico; seguono le fasi inevitabili dell’elaborazione, con il riiuto di commen-tare da parte delle persone implicate; poi arrivano le spiegazioni e inine le pubbliche scuse. Fine della storia. Quello che resta sono “sempre le persone innocenti o quasi innocenti private della loro dignità”, con-clude Pörksen.

Invece di fornire strumenti per orientar-si e capire, invece di spiegare un problema e valutarlo, alla ine della carneicina i gior-nalisti si limitano a tirare avanti insieme alla loro carovana, lasciandosi alle spalle la loro credibilità. Nel passato recente il di-sgusto verso i mezzi d’informazione è emerso in modo particolarmente evidente dopo l’incidente dell’aereo della Ger-manwings, avvenuto nel sud della Francia alla ine di marzo. Fin dal primo istante una grossa fetta di opinione pubblica ha critica-to aspramente il ritmo frenetico delle noti-zie. Nella sezione dei commenti dei siti d’informazione i lettori hanno subito accu-sato i giornalisti di riempire di ipotesi il lus-so delle notizie in tempo reale, e hanno

spiegato che chi difonde mezze informa-zioni come verità assolute viola tutte le re-gole deontologiche e calpesta la dignità delle vittime. Il consiglio della stampa te-desca ha ricevuto il più alto numero di pro-teste degli ultimi sessant’anni. I lettori han-no criticato soprattutto il modo con cui i giornalisti si sono messi alle costole dei so-pravvissuti e degli abitanti di Montabaur, il paese dov’era cresciuto Andreas Lubitsch, il copilota che ha fatto precipitare l’aereo.

Anche Die Zeit ha ricevuto delle critiche severe. Più di mille lettori hanno protestato per la decisione della redazione di mettere in prima pagina il disastro aereo anche se il numero del settimanale era stato chiuso la sera stessa dell’incidente. La vicenda non era stata ancora chiarita e Die Zeit ha inti-tolato l’articolo di copertina “La caduta di un mito”. L’articolo si chiedeva se la nuova strategia della Lufthansa – ristrutturare la sua ailiata Germanwings per trasformarla in una compagnia di voli low cost – non

avesse provocato delle falle nel sistema di sicurezza. Seguendo l’impulso a fare quello che ogni giornalista ha imparato a fare in caso di avvenimenti di rilievo, cioè riferire le notizie subito, il giornale ha imboccato la strada sbagliata. Lo ha scoperto poco dopo, quando si è venuto a sapere che l’incidente non era stato causato da una falla del siste-ma di sicurezza, ma dal copilota. A quel punto, però, Die Zeit non poteva più cor-reggere il suo articolo di coper tina.

Forse un giorno si dirà che il disastro della Germanwings è stato il punto di svol-ta, perché da quel momento l’opinione pubblica ne ha avuto abbastanza degli scandali e i giornalisti si sono comportati in modo più responsabile. È più probabile, tuttavia, che il dibattito sulla Germanwings sia solo il segnale più chiaro di quant’è divi-sa l’opinione pubblica: da una parte ci sono i lettori che vogliono equilibrio e orienta-mento, dall’altra quelli che hanno un insa-ziabile desiderio di scandali. In mezzo ci sono tutti gli altri, quelli che oscillano tra l’attrazione e il ribrezzo nei confronti dei mezzi d’informazione e occasionalmente anche di se stessi. Com’è ovvio, infatti, l’opinione pubblica sa bene che di regola i giornalisti scrivono e dicono cose che pos-sono accontentare, scuotere e interessare i

lettori. In efetti anche le tanto criticate no-tizie in tempo reale sul disastro della Ger-manwings sono state molto seguite. Il nu-mero di clic sui siti di notizie è aumentato vertiginosamente, e nei giorni successivi i giornali scandalistici che riferivano parti-colari sul copilota e sulle sue malattie han-no venduto molte copie.

Personaggi televisiviC’è quindi, paradossalmente, un’enorme voglia di scandali e allo stesso tempo una difusa delusione nei confronti dei mezzi d’informazione che soddisfano questa vo-glia. In tv soprattutto si moltiplicano i pro-grammi satirici che sfruttano questo mec-canismo. Così l’avversione e la diidenza continuano ad aumentare.

Il personaggio televisivo tedesco che incarna questo fenomeno è Oliver Welke. Tutti i venerdì il comico va in onda con la trasmissione Heute-show, durante la quale si scaglia contro i politici, gli imprenditori e i giornalisti, gridando di continuo allo scan-dalo. E gli spettatori lo seguono: ormai il venerdì Welke raggiunge 3,4 milioni di spettatori, in media più persone dei tre principali telegiornali tedeschi, Heute, Ta-gesschau e Tagesthemen. La satira batte l’indagine giornalistica, la befa batte gli editoriali e Welke batte Kleber (per tutti quelli che non se lo ricordano più, Claus Kleber è il conduttore del programma di approfondimento della Zdf Heute-journals).

La satira può tutto, è chiaro: può essere cattiva, parziale, cinica. Ma il fatto che si sposti dai margini al centro del dibattito la dice lunga. Se la satira diventa una fonte d’informazione fondamentale, significa che c’è un divario sempre più ampio tra l’opinione pubblica e i giornalisti che si oc-cupano tradizionalmente di politica, eco-nomia e cultura.

Solo per fare un esempio, ad aprile Wel-ke ha commentato così le nuove previsioni sulla crescita economica tedesca: “Oggi ci sono più bambini che dipendono dai sussi-di statali rispetto a cinque anni fa, e questo succede nonostante la ripresa economica. Non è imbarazzante? Eppure nessuno se ne preoccupa”. Il comico è stato subito applau-dito da un pubblico esultante. Welke parla spesso di problemi reali, ma le conclusioni che trae sono sempre distruttive, com’è ti-pico della satira, che si concentra solo su quello che giudica condannabile.

Allo Heute-show nessuno fa ricerche ap-profondite sulle notizie, come invece suc-cede per alcuni dei modelli statunitensi a cui la trasmissione si ispira. Negli Stati Uni-

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Nella feroce battaglia per accaparrarsi l’attenzione dei lettori, i mezzi d’informazione invitano il pubblico a indignarsi quasi ogni ora

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ti conduttori famosi come John Oliver im-piegano risorse immense per studiare at-tentamente gli argomenti trattati, mandare i loro giornalisti sul campo e poi raccontare le loro scoperte con i mezzi della satira. Al contrario Welke soddisfa solo la voglia di scandalo e il semplice desiderio del suo pubblico con un preciso ordine morale.

Nell’interpretazione satirica della vita i mezzi d’informazione sono considerati da tempo parte integrante di quell’élite di cui bisogna sempre sospettare. Per Welke tutti i poteri, dal primo al quarto, sono fusi insie-me in un connubio inscindibile, e lui li trat-ta come elementi del “sistema”. È un modo di pensare che si ritrova anche in molte let-tere dei lettori e nei commenti su Twitter e Face book. “Mezzi d’informazione del si-stema” è sinonimo di “stampa bugiarda” e di “giornalisti prezzolati”. Di solito chi par-la e chi scrive formula la questione in modo più gofo di Welke, ma il concetto è sempre lo stesso: voi giornalisti ci avete tradito. Così Welke è diventato il cittadino medio

con la licenza di andare in onda.La stessa ricetta è stata ormai adottata

da una decina di altri programmi di satira: la Ard lo fa con Extra 3, la Rtl ha scelto per la sua trasmissione il comico Mario Barth e l’attore Olli Dittsche, che impersona l’alter ego dell’ex calciatore Franz Beckenbauer per farsi befe del giornalismo d’inchiesta. Così la satira sui mezzi d’informazione fa crescere l’ostilità verso le stesse emittenti che hanno deciso di inserirla nei loro palin-sesti.

Sui mezzi d’informazione lo scandalo è da tempo “onnipresente, è la nuova norma-lità”, commenta Stefen Burkhardt. La ten-denza a creare scandali per attirare l’atten-zione può spodestare politici come l’ex presidente tedesco Christian Wulf, ma può anche coinvolgere dei giornalisti, come di-mostra il caso di due colleghi della Zeit, Jo-chen Bittner e Josef Jofe. Insieme ai redat-tori di altri giornali, sono stati accusati dalla trasmissione Die Anstalt, che va in onda sul-la Zdf, di essere così legati ad alcune orga-

nizzazioni internazionali da non poter più lavorare come giornalisti indipendenti. Da allora sono stati travolti dal fango della rete, anche se Bittner non fa parte del consiglio d’amministrazione e non è neanche un consulente delle istituzioni tirate in ballo, mentre Jofe collabora solo con due di que-ste organizzazioni e non con otto, com’è stato sostenuto nel corso del programma.

Di Bittner è stato detto anche che aveva contribuito alla stesura di un discorso del presidente federale tedesco Joachim Gauck e che “quello che scrive per Gauck” non si può distinguere chiaramente da “quello che scrive per la Zeit”. In realtà Bittner non ha mai scritto per il presidente: ha solo par-tecipato a una tavola rotonda sui nuovi temi della politica estera. Tuttavia, un accenno a quell’evento è affiorato in un articolo di Bittner e di altri colleghi per decisione della redazione. Un errore grave, certo, ma non di Bittner, e un errore che per di più è stato goniato dalla rete con un’immensa energia isterica, anche se è stato subito corretto nel

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numero successivo. Prossimamente co­mincerà il processo d’appello per la causa di Bittner e del condirettore della Zeit, Jof­fe, contro la Zdf.

Tutto questo non ha più niente a che fa­re con l’ideale di un dibattito pubblico civi­le. Il sensazionalismo permanente com­porta una rinuncia al chiarimento e a un confronto autentico. Ma era questa la spe­ranza? Il sapere e l’intelligenza della folla che s’incontra sulle piattaforme digitali avrebbero dovuto creare una nuova capaci­tà di controllo, un quinto potere.

Il quinto potereQuesto potere oggi esiste e non sparirà più. Il mutamento strutturale dell’opinione pubblica a cui stiamo assistendo è destina­to a durare. Sarebbe anche sbagliato soste­nere che il quinto potere abbia sostanzial­mente un efetto distruttivo. Spesso è grez­zo, ma suscita anche dibattiti interessanti. In reazione a commenti dei lettori sono sta­

ti scritti molti articoli, anche sulla Zeit. I post scritti da non giornalisti sui social net­work sono importanti fonti d’informazioni per i giornalisti.

Il quinto potere alimenta quindi enor­memente il quarto e per certi versi gli fa perino concorrenza. Sui social network si è sviluppato un universo di notizie alternati­vo in cui la iducia si basa su altri parametri. Qui non è tanto importante se qualcuno è un giornalista professionista: quello che conta è idarsi delle persone che si seguono su Facebook e su Twitter e da cui ci si aspet­ta che segnalino avvenimenti importanti e contenuti interessanti. In queste reti si con­sigliano e si condividono articoli di giorna­listi, che continuano a essere la principale fonte d’informazione ma guadagnano cre­dibilità soprattutto grazie a chi li cita.

Il problema è che inora il quinto potere è stato piuttosto inaidabile e non ha sapu­to ofrire un quadro attendibile di quello che succede nel mondo. Su Twitter, per esempio, i tweet che non sono condivisi e aggiunti ai preferiti migliaia di volte scom­paiono subito: il giudizio sul loro valore vie­ne emesso nell’arco di pochi secondi. Quel­lo che resta in circolazione obbedisce alle leggi dell’euforia e dell’oblio anche più che sui mezzi d’informazione tradizionali. Dal

momento che in rete i fatti non sono verii­cati e nel breve tempo necessario a pubbli­care le notizie non è possibile farlo, le in­chieste serie e le teorie del complotto si difondono allo stesso ritmo e con la stessa pretesa di veridicità.

E a diferenza dei primi quattro poteri, il quinto non deve giustiicarsi o attenersi a regole deontologiche di qualche tipo. Resta nella maggior parte dei casi anonimo e si mobilita spontaneamente. La sua forza è incalcolabile, il suo effetto notevole. Di fronte alle spirali sensazionalistiche in cui sfociano ultimamente i dibattiti pubblici, le forze razionali del quarto e del quinto pote­re devono allearsi.

Per i giornalisti questo vuol dire non esagerare. Il loro ruolo è cambiato. Prima erano responsabili del sensazionalismo, dovevano indignarsi pubblicamente per­ché altrimenti non lo avrebbe fatto nessu­no. Oggi l’indignazione esiste comunque, e a giudicare dalle reazioni di molti lettori e

spettatori dopo i servizi sul disastro della Germanwings, bisogna concludere che buona parte dell’opinione pubblica vuole che i giornalisti assicurino un maggiore equilibrio nell’ambito del dibattito pub­blico.

Per i protagonisti del quinto potere si­gniica invece prendersi le proprie respon­sabilità. Le avete volute, ora fatevene cari­co. Una strada potrebbe essere quella di ri­pensare l’anonimato. Forse agli esordi di internet era giusto che ci fosse, perché così ognuno ha potuto sperimentare cosa si pro­va a esprimersi nello spazio pubblico. Ma quei tempi sono passati, e oggi l’anonimato produce soprattutto un efetto distruttivo. Perciò è tempo di fare in modo che tutti i protagonisti del quinto potere mostrino la loro faccia nel dibattito pubblico. Su Face­book sta già succedendo, su Twitter molti usano il loro nome uiciale, ma su piatta­forme come YouTube e nella sezione dei commenti dei siti d’informazione quasi tut­ti indossano il mantello dell’invisibilità. Perché le cose devono restare così?

L’esperienza dimostra che spettatori e lettori che dichiarano il loro nome vogliono quello che è sempre importato e che impor­ta tuttora agli idealisti del mondo digitale: il dialogo. u fp

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Grecia

Oltre ai debiti e all’ineicienza del­la pubblica amministrazione, uno degli aspetti che caratterizza la

crisi della Grecia è la scarsa credibilità dei mezzi d’informazione locali. Come spiega Costas Eimeros sul sito The Press

Project, “è così radicata nella coscienza dei greci, che nei sondaggi più recenti i giornalisti superano addirittura i politici negli indici di impopolarità”.

I cittadini greci credono così poco a quello che raccontano i grandi mezzi d’in­formazione che di solito sono pronti a fare esattamente il contrario. Un esempio ecla­tante è la copertura della campagna per il referendum del 5 luglio sulla proposta di accordo tra il governo e i creditori interna­zionali. “Il 30 giugno ad Atene si è svolta una grande manifestazione per il no, men­tre il giorno dopo c’è stata quella a favore del sì. Le grandi tv nazionali hanno parlato per 8 minuti e 33 secondi della prima ma­nifestazione e per 47 minuti e 32 secondi della seconda. Mega Channel ha descritto gli efetti dei controlli di capitali parlando di lunghe ile fuori dalle banche, citando numeri esagerati e usando immagini che – si è scoperto più tardi – erano state girate anni prima in Sudafrica”. Tutto questo di­spiegamento di mezzi a favore del sì, evi­dentemente, non ha convinto i greci, visto che il 61,3 per cento ha votato per il no.

Quello dell’informazione, scrive Ei-

meros, è un settore in cui la capacità di condizionare i giornalisti è aumentata con i tremila licenziamenti causati dalla crisi, che “hanno fatto aumentare la paura e l’incertezza”. Ma il problema fondamen­tale è che i principali mezzi d’informazio­ne sono concentrati nella mani di poche potenti famiglie, “i proprietari delle azien­de edili che hanno vinto quasi tutti gli ap­palti pubblici per la costruzione di infra­strutture e gli armatori che controllano le importazioni e le esportazioni”. Queste aziende, con la complicità dei governi pas­sati, hanno usato i mezzi d’informazione per “inluenzare l’opinione pubblica e as­servirla ai loro interessi”. Tra i loro obietti­vi c’era quello di far accettare i pacchetti d’austerità dei creditori, che spesso non si preoccupano delle tasse evase dagli arma­tori o del fatto che in Grecia le tv trasmet­tono senza una regolare licenza. u

Le bugiedella tv

Il sensazionalismo permanente comporta una rinuncia al chiarimento e a un confronto autentico. Era questo che volevamo?

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Scienza

Cosa impariamo durante il sonnoMegan Scudellari, New Scientist, Regno Unito

Possiamo raforzare i ricordi, fare associazioni, superare le paure. Alcuni scienziati stanno cercando di capire come far lavorare il cervello mentre dormiamo

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Anche come fantascienza, l’idea di poter imparare durante il sonno ha sem-pre suscitato opinioni contrastanti. Nel roman-zo Il mondo nuovo di Al-

dous Huxley, pubblicato nel 1932, alcune voci registrate inculcano pregiudizi di clas-se nei bambini addormentati per spingerli ad adeguarsi al ruolo che dovranno svolge-re nella società. Nonostante gli obiettivi malvagi immaginati da Huxley, all’epoca l’idea di ottenere un risultato senza fatica sembrò irresistibile. Dopo la pubblicazione del libro ci fu un grande interesse per l’ap-prendimento nel sonno. Ma c’era qualche fondamento in questa storia?

Nel 1951 due ricercatori della George Washington university, a Washington, de-cisero di scoprirlo. Reclutarono trenta vo-lontari e misero dei registratori e degli alto-parlanti nelle loro camere. Una notte, men-tre i volontari dormivano, gli scienziati fe-cero partire per mezz’ora delle registrazio-ni: un gruppo sentiva della musica e l’altro alcune parole cinesi con la traduzione in in-glese. La mattina dopo il secondo gruppo ottenne i risultati migliori in un test di cine-se. Gli scienziati conclusero che si poteva imparare anche da addormentati. Successi-vamente altri studiosi confermarono la loro tesi. Alcuni sostennero di aver insegnato il codice Morse nel sonno a un gruppo di stu-denti dell’accademia navale. Altri scopriro-no che i bambini smettevano di mangiarsi le unghie se ascoltavano la frase “le mie un-ghie sono terribilmente amare” sei volte a notte per 54 notti.

Ma questi risultati furono presto messi in discussione. I partecipanti non erano sta-ti monitorati, perciò mancava la prova che fossero veramente addormentati durante l’esperimento. Nel 1955 i ricercatori svolse-ro nuovi studi, e questa volta misurarono l’attività cerebrale dei volontari con l’elet-troencefalogramma per essere certi che stessero dormendo. Ma non riuscirono ad accertare nessun tipo di apprendimento. Le precedenti ricerche furono accantonate e l’idea di imparare nel sonno fu relegata al mondo della fantascienza. Ma oggi, dopo più di cinquant’anni, si è risvegliato un nuo-vo interesse per questo settore di ricerca grazie ad alcuni esperimenti che hanno ri-velato come, nelle circostanze giuste, il no-stro cervello possa assorbire nuove infor-mazioni mentre dormiamo.

Attività inconscia

Oggi sappiamo molto di più su quello che avviene nel cervello durante il sonno. “Fino a dieci anni fa si pensava che non succedes-se granché”, spiega Sid Kouider, neuro-scienziato cognitivo all’École normale supérieure di Parigi, in Francia. Poi, con l’elettroencefalogramma gli scienziati han-no scoperto che alcune parti del cervello rimangono sorprendentemente attive, per-ino quando siamo incoscienti. Sembra che il cervello nel sonno riveda e immagazzini i ricordi, ripetendo alcuni momenti della giornata per conservare le informazioni im-portanti.

La scoperta che il consolidamento della memoria si verifica durante il sonno ha spinto alcuni a chiedersi se sia possibile controllare questo processo. Nel 2007 il neuroscienziato Jan Born e i suoi colleghi

dell’università di Lubecca in Germania hanno invitato diciotto volontari a fare un gioco prima di andare a dormire. Dovevano memorizzare la posizione di quindici cop-pie di carte sullo schermo di un computer. Durante quest’attività gli veniva fatto senti-re un profumo di rosa, lo stesso che avreb-bero sentito di nuovo dopo essersi addor-mentati. Born era convinto che l’odore avrebbe attivato nei volontari il ricordo di quello che avevano imparato. I ricercatori avevano scelto un richiamo olfattivo perché i profumi non ci fanno svegliare e sono strettamente associati ai ricordi. Le parti del cervello che elaborano gli odori sono direttamente collegate all’ippocampo, che ha un ruolo importante nella formazione dei ricordi. E infatti, se durante il sonno sentivano il profumo, al risveglio i parteci-panti ricordavano più coppie di carte.

Questi risultati hanno incuriosito Ken Paller, direttore del programma di neuro-scienze cognitive della Northwestern uni-versity, nell’Illinois. Paller voleva capire se si potevano ottenere gli stessi risultati usan-do i suoni invece degli odori. Ai volontari della sua ricerca è stato chiesto di imparare la posizione sullo schermo di cinquanta im-magini, ognuna associata a un suono speci-ico, come un miagolio per la foto di un gat-to o un fischio per quella di un bollitore. Successivamente l’équipe di Paller ha ripe-tuto la metà dei suoni ai volontari, mentre facevano un sonnellino. Al risveglio i parte-cipanti ricordavano meglio la posizione de-gli oggetti di cui avevano sentito il suono.

Nel 2011 i ricercatori del laboratorio di Born hanno fatto un’altra scoperta. I volon-tari dovevano imparare una serie di coppie di parole. Alcuni sapevano che avrebbero dovuto sostenere un test la mattina dopo, altri no. Chi era stato informato ha ottenuto risultati migliori di chi non sapeva del test e di chi era stato informato ma non aveva dormito. Questo fa pensare che la semplice aspettativa che un ricordo possa essere im-portante in futuro sia suiciente per spinge-re il cervello a ripeterlo e raforzarlo durante il sonno. Ma dormire non ci permette solo di imparare. Paller e i suoi colleghi dell’uni-versità del Texas a Austin hanno scoperto che l’associazione di suoni nel sonno può anche aiutare a cancellare alcuni pregiudi-zi, come l’idea che le donne non siano por-tate per le materie scientiiche.

Katherina Hauner della Northwestern university è riuscita a far dimenticare alcu-ni brutti ricordi nel sonno. Ha mostrato del-le immagini di volti a dei volontari che con-temporaneamente venivano sottoposti a una piccola scossa elettrica e a un odore

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Scienza

(menta, limone o pino). Dopo aver impara-to ad associare alcuni volti al dolore, i vo-lontari hanno dormito mentre Hauner ha continuato a fargli sentire solo gli odori. Ini-zialmente i profumi scatenavano nelle per-sone addormentate un senso di ansia (mi-surato da un piccolo aumento della sudora-zione), ma il timore pian piano diminuiva, e quando i volontari si sono svegliati la loro reazione alle immagini è stata meno ansio-sa. Chi si era sottoposto alla stessa procedu-ra senza poi dormire ha continuato ad avere paura.

Una volta accertato che è possibile au-mentare o diminuire la forza di alcuni ricor-di durante il sonno, alcuni studiosi sono tornati sul vecchio interrogativo: nel sonno il cervello può apprendere nuove informa-zioni? Forse gli scienziati degli anni cin-quanta avevano davvero scoperto qualcosa. Due esperimenti recenti sembrano confer-marlo.

Odori e suoni

Anat Arzi e i suoi colleghi dell’istituto Weiz-mann, in Israele, hanno cercato di insegna-re a un gruppo di volontari una semplice associazione durante il sonno: legare un suono a un odore. Senza rendersene conto, gli esseri umani inalano profondamente se sentono un profumo e respirano appena se l’odore è sgradevole. Partendo da questa considerazione, Arzi e la sua équipe hanno esposto i volontari addormentati a un suo-no accompagnato da un profumo (deodo-rante o shampoo) e un secondo suono asso-ciato a un odore sgradevole (pesce o carne marcia). Al risveglio i volontari respiravano a fondo quando sentivano il suono associa-to al profumo durante il sonno e respirava-no più debolmente quando sentivano l’al-tro. “Ci siamo resi conto che è possibile im-parare un’associazione nel sonno e ricor-darla da svegli”, osserva Arzi. “Questo stu-dio ha fatto nascere una lunga serie di do-mande”.

La prima era questa: un’associazione appresa durante il sonno può inluenzare il comportamento da svegli? In un secondo esperimento Arzi ha invitato 66 fumatori a dormire in laboratorio e gli ha fatto sentire l’odore di sigaretta associato a quello di pe-sce o uova marce. Una settimana dopo, chi aveva partecipato al test ha fumato il 30 per cento delle sigarette in meno rispetto alla settimana precedente. Com’era successo

durante lo studio di Hauner sulla paura, sottoponendo gli stessi odori a persone che rimanevano sveglie non si era ottenuto lo stesso efetto. Tutto ciò fa pensare che il modo in cui il nostro cervello elabora i ricor-di durante il sonno abbia qualcosa di spe-ciale, anche se non sappiamo ancora cos’è.

Arzi, Hauner e altri studiosi hanno sco-perto che l’apprendimento raramente si veriica durante la fase di movimento rapi-do degli occhi del sonno, la fase rem (rapid eye movement). Si registra soprattutto du-rante il sonno a onde lente, una forma di sonno profondo in cui le cellule cerebrali passano lentamente dall’attività all’inatti-vità e viceversa. Lo stesso vale per la riatti-vazione dei ricordi indotta dall’odore, come nell’esperimento di Born con il profumo di rosa. Una possibile spiegazione è che le len-te oscillazioni delle cellule cerebrali issino la memoria, spiega Arzi. Oppure potrebbe trattarsi di un meccanismo di protezione per impedire che i ricordi si formino duran-te la fase rem, destinata ai sogni. “Non vo-gliamo ricordare i nostri sogni come cose reali”, osserva la scienziata. “Po-trebbe essere pericoloso”.

Dopo aver appurato che il cer-vello nel sonno può imparare del-le associazioni elementari, gli scienziati vogliono capire se può arrivare a livelli più complessi. Sappiamo che la parte del cervello che elabora i suoni è attiva durante il sonno e reagisce soprat-tutto in presenza d’informazioni verbali si-gniicative, cioè è più probabile che ci sve-gliamo se qualcuno pronuncia il nostro no-me o grida “al fuoco!”. Tenendo questo in mente, Kouider ha cercato di scoprire se il cervello è in grado di elaborare informazio-ni verbali signiicative durante il sonno.

Kouider ha chiesto ad alcuni volontari svegli, sottoposti a elettroencefalogramma, di classiicare una serie di vocaboli come animali o oggetti premendo un bottone con la mano destra per “animale” e con la sini-stra per “oggetto”. Pigiare un bottone con la destra fa accendere la parte sinistra del cer-vello e viceversa. Poi Kouider ha fatto sdraia re i volontari in una stanza buia per-ché si addormentassero lentamente men-tre continuavano a catalogare le parole. A un certo punto hanno smesso di premere i bottoni, ma i loro cervelli non hanno smes-so di classiicare: gli emisferi cerebrali con-tinuavano ad accendersi correttamente.

Signiica che stavano ancora assorbendo ed elaborando informazioni signiicative, an-che se più lentamente che da svegli.

“Durante il sonno non solo siamo in gra-do di cogliere il signiicato d’informazioni acustiche presenti nell’ambiente, ma pos-siamo anche prepararci a reagire”, dice Kouider. La scoperta più importante, pro-segue, è che il cervello continua a lavorare a un compito cominciato prima di addor-mentarsi. Questo fa pensare che un’azione che può essere svolta in modo automatico, come classiicare le parole, possa continua-re durante il sonno. Inoltre implica che il nostro cervello elabora nuove informazioni anche mentre dormiamo. Perciò, se riuscis-simo a trovare il modo giusto per trasmette-re queste informazioni, i nostri cervelli ad-dormentati, ma attivi, sarebbero pronti e capaci di apprendere.

La ricerca è ancora agli inizi, e perino i più entusiasti ammettono che serve caute-la. “Bisogna sempre stare attenti a non di-sturbare il sonno”, dice Susanne Diekel-mann, che in passato ha lavorato nel labora-

torio di Born e oggi è all’universi-tà di Tübingen, in Germania. Questo perché il sonno è una ne-cessità. Se non dormiamo ci de-primiamo, tendiamo a dimenti-care più facilmente e siamo più

soggetti a ictus, cardiopatie e morte prema-tura.

“Tutto ha un costo”, dice Simon Ruch, che studia il sonno e la memoria all’univer-sità di Berna, in Svizzera. “Se bisogna im-parare qualcosa, è meglio restare svegli po’ di più per memorizzarla, e poi andare a dor-mire”. Ma Diekelmann è più ottimista. Pen-sa che in futuro l’apprendimento nel sonno potrebbe contribuire a migliorare le capaci-tà musicali, linguistiche o atletiche. Ma ci sono altre possibilità, più allettanti. Un giorno potremmo sfruttare il sonno per li-berarci di pregiudizi radicati, per modiica-re cattive abitudini come il fumo o per ela-borare nuove associazioni, come sensazio-ni positive su alcuni alimenti o determinate esperienze.

Paller e la sua équipe stanno già cercan-do di raforzare il ricordo di alcuni vocaboli, usando segnali uditivi durante il sonno. “Dobbiamo fare altri esperimenti prima di poter dire con precisione quanto possiamo cambiare la nostra mente durante il sonno”, dice Paller. “Ma la strada è aperta”. u gc

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Un giorno potremmo sfruttare il sonno per liberarci di pregiudizi radicati o per modiicare cattive abitudini, come il fumo

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Il fotografodentrolo scatto

Zhang Kechun ha documentato i paesaggi della Cina, un paese sospeso tra immutabilità e cambiamenti inarrestabili. E ha deciso di entrare nell’inquadratura

“Le montagne e i iumi sono molto importanti per il popolo cinese. Le prime rappresentano la virtù, i secondi la moralità”, dice il fotogra-fo cinese Zhang Kechun. “La Cina sta cam-biando a una velocità incredibile e lo sviluppo

economico sembra inarrestabile. In questo contesto, il singolo appare piccolo e insigniicante. Per questo le montagne e i iumi, che ci sono da sempre, assumono un grande valore. Così come le persone che ancora apprezzano questi paesaggi”.

Zhang ha scelto alcuni scenari che hanno per lui un signiicato particolare. Ma invece di limitarsi a ritrarli, ha deciso di entrare nell’inquadratura, confondendosi tra altre persone o con la natura sullo sfondo. Dopo aver piazzato la sua macchina fotografica e averla preparata per lo scatto, è entrato in scena e ha chiesto a qual-cun altro di fare la foto (foto MoST). u

Zhang Kechun è nato a Chengdu, nel Sichuan, nel 1980. Questo reportage s'intitola Between the mountains and water.

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Manipolatore, incen-diario, provocato-re. Gli aggettivi non mancano per definire il leader dell’estrema de-

stra serba Vojislav Šešelj, che il tribunale dell’Aja incaricato di giudicare i crimini di guerra nella ex Jugoslavia ha rilasciato a novembre, per un cancro in fase terminale, dopo dodici anni di reclusione.

A prima vista Šešelj non mostra alcun segno della malattia. A sessant’anni, con i capelli meno folti e un po’ più bianchi, sembra invecchiato ma ha ancora una sta-tura imponente e una gran voglia di semi-nare zizzania. E ci riesce ancora come negli anni novanta. Di recente Kolinda Grabar-Kitarović, la nuova presidente della Croa-zia, ha avvertito la Serbia che ostacolerà il suo ingresso nell’Unione europea se Bel-grado non riuscirà a tenere a bada quest’agitatore: Šešelj ha bruciato la ban-diera croata in pubblico.

Nell’uicio che ha ancora a Zemun, un piccolo borgo alla periferia di Belgrado di cui è stato sindaco negli anni novanta, Šešelj, che ha da poco ricevuto un’onorii-cenza dalla chiesa ortodossa, fa finta di niente: “Credevano che sarei morto entro luglio. Si sono sbagliati. La politica mantie-ne in forma”. Nonostante due operazioni e

diversi cicli di chemioterapia, corre da un incontro politico all’altro. Il suo obiettivo sono le elezioni amministrative del prossi-mo autunno e poi quelle legislative, previ-ste l’anno prossimo. Il suo programma è semplice: abbasso l’Europa, viva la Rus-sia.

Šešelj è uno di quei personaggi strava-ganti che le guerre producono in quantità: che siano paramilitari, ideologi, sadici o perversi di qualche genere, vanno avanti sfoggiando il loro odio e gridando forte. Originario della Bosnia, è stato amico e av-versario dell’ex presidente serbo Slobodan Milošević. Tutti gli riconoscono un’intelli-genza fuori dal comune e ottime doti reto-riche.

Rientrato in Serbia, il leader di estrema destra, che è stato giurista e insegnante di diritto, si presenta come l’uomo che ha sconitto la giustizia internazionale, “una giustizia antiserba”, secondo lui. “Il tribu-nale non è mai riuscito a provare che io o i miei uomini fossimo direttamente impli-cati in crimini di guerra. Dopo che ho sma-scherato i falsi testimoni, il tribunale ha ripiegato accusandomi d’incitamento all’odio, un’accusa per cui nemmeno in Francia si fa più di un anno di prigione”. Così Šešelj, che si è difeso da solo, inter-preta la sua scarcerazione. “Non mi hanno chiesto niente. Non ho irmato niente. Mi hanno accompagnato all’aeroporto, diret-

Accusato di crimini di guerra dal tribunale dell’Aja, l’ex leader ultranazionalista serbo è stato scarcerato per motivi di salute. Ma ne ha subito approittato per riprendere la sua attività politica

Hélène Despic-Popovic, Libération, Francia. Foto di Kristina Maslarević

tamente sulla pista, e mi hanno messo su un aereo di linea, senza passaporto e senza la minima sorveglianza”.

Qualche mese prima il tribunale dell’Aja aveva deciso di liberarlo ad alcune condizioni, imponendogli in particolare gli arresti domiciliari, ma Šešelj aveva riiuta-to. “L’unica cosa che ho accettato è il divie-to di lasciare il paese”. Dice di non capire perché a marzo il tribunale abbia deciso che dovrà tornare in carcere: “Non ci an-drò certo di mia spontanea volontà”. Šešelj ritiene che i suoi diritti siano stati calpesta-ti e che il suo processo si sia prolungato senza motivo.

Amici imbarazzanti Diverse ong, come il Centro per il diritto umanitario (Fhp), un’associazione serba che, nonostante le pressioni e le minacce, indaga dagli anni novanta sui crimini di guerra, respingono le sue argomentazioni. L’imputato ha fatto di tutto per allungare il processo, spiega la direttrice esecutiva dell’Fhp, Sandra Orlović: scioperi della fa-me, insulti al tribunale, pressioni sui testi-moni (alcuni dei quali hanno preferito riti-rarsi) e la ricusazione di uno dei tre giudici: “Solo per le ofese alla corte e per aver rive-lato i nomi di testimoni protetti è già stato condannato a cinquanta mesi di prigio-ne”.

Šešelj non è stato condannato per cri-mini di guerra ma, a diferenza di quanto sostiene, non è detta l’ultima parola. Le accuse sono pesanti: avrebbe comandato una milizia responsabile di campagne di pulizia etnica in Croazia e in Bosnia nel 1991 e nel 1992, e sarebbe stato uno degli ideologi della “grande Serbia”. Le udienze del processo sono terminate, ma dopo la sostituzione di uno dei giudici il tribunale

◆ 1954 Nasce a Sarajevo, in Jugoslavia.◆ 1991 Diventa presidente del Partito radicale serbo. ◆ 20o3 È incriminato dal Tribunale penale per la ex Jugoslavia.◆ 2014 Viene rilasciato per motivi di salute.

Biograia

Vojislav ŠešeljL’irriducibile

Ritratti

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ha dovuto aspettare due anni perché il suo sostituto potesse studiare il caso. La sen-tenza è prevista per il 2016. “E Šešelj dovrà in ogni caso andare all’Aja per la lettura del verdetto”, spiega Orlović.

Il governo serbo, a cui il tribunale dell’Aja può chiedere in qualsiasi momen-to di arrestare Šešelj, è in una posizione diicile. Il presidente Tomislav Nikolić e il premier Aleksandar Vučić vengono dal Partito radicale serbo (Srs), fondato da Šešelj all’inizio del 1991. I due hanno la-sciato l’Srs nel 2008 per fondare il Partito serbo del progresso (Sns), che ha un pro-gramma europeista. Ma fino ad allora Nikolić e Vučić hanno fatto parte del grup-po di esperti designato dall’Srs per aiutare la difesa di Šešelj all’Aja. Forse l’imputato potrebbe rilasciare dichiarazioni scomode, ma per ora si accontenta di far ischiare i suoi ex amici durante i comizi e accusarli di essere dei traditori.

Il caso di Šešelj rivela ino a che punto la Serbia non sia riuscita a interrogarsi sui crimini commessi in suo nome nella ex Ju-goslavia. Per un decennio Šešelj si è servito del suo processo, le cui udienze sono state trasmesse in televisione, come di una tri-buna. Invece di rilettere sui crimini, l’opi-nione pubblica si è comportata come gli

spettatori di una partita di calcio, apprez-zando le battute del leader nazionalista, le sue frecciatine ai giudici (deiniti “servi della Nato”) o il suo riiuto di alzarsi in pie-di davanti alla corte.

Un balsamo per le ferite di una nazione che non ha digerito la sconitta del 1999 contro l’alleanza atlantica, i tre mesi di bombardamenti che l’avevano preceduta e inine l’indipendenza del Kosovo. “L’unica volta in cui l’opinione pubblica si è scanda-lizzata per le dichiarazioni di Šešelj dopo il suo ritorno a Belgrado”, racconta Sandra Orlović, “è stata quando ha dichiarato che avrebbe piantato un paletto nella bara di Zoran Đinđić”, l’uomo che ha fatto cadere Milošević ed è stato poi assassinato nel 2003 da ex paramilitari. “Una dimostra-zione del fatto che l’opinione pubblica pro-va empatia solo per i compatrioti”.

Eppure Šešelj non ha lasciato solo buo-ni ricordi in Serbia, dove si è trasferito nel 1986 dopo aver scontato 22 mesi di prigio-ne per propaganda anticomunista. A Ze-mun molti ricordano che quando era sin-daco ha privatizzato tutti gli spazi pubblici e le proprietà comunali.

“Non permetterò che un bambino usta-scia (un termine spregiativo per indicare i croati, in riferimento ai ilonazisti della se-

conda guerra mondiale) s’iscriva alla scuo-la elementare”, dichiarò una volta. Le sue parole risuonano ancora nelle orecchie delle associazioni di cittadini che difesero la famiglia Barbalić, espulsa dal proprio appartamento perché croata. E non le han-no dimenticate né i giornalisti dell’opposi-zione, che furono inseriti in liste pubbliche di proscrizione per essere messi alla gogna, né l’avvocato Nikola Barović, pestato dalle guardie del corpo di Šešelj dopo un diver-bio in televisione.

A Zemun l’Srs occupa ancora un edii-cio barocco di inizio ottocento, preso in aitto per trent’anni “a un prezzo di favo-re”, sostengono alcuni abitanti che accusa-no il governo salito al potere dopo la caduta di Milošević nel 2000 di non aver voluto perseguire Šešelj per le malversazioni commesse quando era sindaco. I Barbalić invece non hanno mai riavuto il loro appar-tamento.

Questa transizione a metà, che ricalca quanto è successo nel resto del paese, ha risparmiato i partiti vicini a Milošević e ha prodotto un sistema fondato sulla rimozio-ne del passato. In questo modo degli ex compagni di Šešelj hanno potuto prendere il potere al grido di “viva l’Europa”, nell’in-diferenza generale. u f

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Viaggi

re una fattoria di duemila ettari nel Panta-nal. Da allora si batte contro i bracconieri, la soia transgenica, la canna da zucchero, la Monsanto, la deforestazione, i ponti, le strade, lo sfruttamento del carbone di le-gna, gli allevatori di bestiame. Il barone non teme le side. È molto stimato nelle univer-sità e tra le ong ambientaliste, e viene spes-so invitato alle conferenze sulle violenze inlitte alla natura per produrre i biocarbu-ranti. Oggi è conosciuto e apprezzato, ma è stato a lungo solo nelle sue battaglie.

Le paludi del Mato Grosso, tra Brasile, Bolivia e Paraguay, sono più ostili delle co-ste frastagliate nell’est del paese. La vasta pianura interna è allagata per quattro mesi all’anno e arida per altri quattro mesi. Cu-iabá, la capitale dello stato, ha le tempera-ture più alte del Brasile e il tasso di umidità più alto del mondo. È una città piatta e tri-ste. C’è un museo della cultura indigena e qui si organizzano tour in mongoliera per sorvolare la regione e osservare dall’alto lo splendido labirinto di terra e acqua.

A Poconé, più a sud, assaporo davvero l’atmosfera del far west. I gauchos, i man-driani della pianura brasiliana, vengono qui a spendere un po’ della loro paga, mentre i cercatori d’oro tracannano d’un iato la ca-chaça, l’acquavite ottenuta dalla canna da zucchero. Nelle sale interne dei botequin (bar), gli speculatori cercano di corrompere gli agricoltori che hanno aderito alla carta per la tutela ambientale redatta da André. Qui comincia anche la Transpantaneira, e dopo una trentina di chilometri arriviamo all’Araras ecolodge, in una zona di grandi pianure e piccole giungle. La poussada (pen-sione) di André è la più conosciuta, ma nella zona sta aumentando il numero di fattorie che accolgono i turisti. Molti agricoltori, cacciatori e proprietari terrieri hanno mes-so da parte armi e forconi per trasformare le loro fattorie in alberghi. Portano a cavallo turisti increduli e intanto conducono man-drie di bufali o vacche. Di notte prendono la jeep per seguire le tracce del giaguaro e del

puma e scattare foto. Navigano sulla canoa per incontrare l’anaconda giallo: non attac-ca quasi mai, ed è lungo solo sei metri, a diferenza di quello dell’Amazzonia che può raggiungere i dodici metri. O vanno a pe-scare i piranha, con un pezzetto di pollo ap-peso a un ilo di nylon: sono poco aggressivi e molto gustosi cotti alla griglia, ma bisogna sputare i denti.

Quando arrivò qui André pagava i pan-taneiros perché smettessero di appiccare incendi e cacciare di frodo. “Gli ho spiegato che si può guadagnare anche con la natura allo stato selvaggio. Che invece di dissoda-re le terre per l’agricoltura intensiva si può valorizzare questo ecosistema. Che posso-no guadagnare di più ricavando delle came-re d’albergo nei loro ranch che ingrassando un vitello per due anni”.

André ha convinto i bracconieri che se-guire le tracce degli animali e farli vedere agli appassionati procura più soldi che ucci-derli. Gli ha insegnato a curare gli uccelli invece di catturarli. Gli ha spiegato come usare gli alberi – per mobili e oggetti di arre-damento – riciclando gli scarti. Quando

andré abbraccia il “suo” albero, un ico strango-latore, e rimane lì immo-bile. Io resto in equilibrio su liane secolari e osser-vo una gigantesca for-

mazione di nuvole Morning glory che si di-rada con il sorgere del sole. Il primo giorno un enorme tapiro di trecento chili ci è pas-sato davanti sulla Transpantaneira (la stra-da sterrata che attraversa la regione) per raggiungere una lontra di due metri e mez-zo stravaccata sull’argine del rio Cuiabá, lasciando la sua enorme impronta con tre dita nella terra rossa e umida e adagiandosi non lontano da un centinaio di caimani che mi osservavano con la bocca che aiorava dall’acqua. Da quel momento ho capito di essere in un posto unico al mondo, dove puoi sognare di essere tra i primi a calpesta-re una terra sconosciuta. Le scoperte sono in agguato dietro ogni albero e per fortuna quello prediletto da André non è un pau-de-novato: i pantaneiros (allevatori di bestiame) non si avvicinano a questa pianta indigena perché è piena di formiche.

André, cappello alla Indiana Jones, pelle abbronzata e il sorriso di chi sa approittare della sua fortuna, viene tutti i giorni a medi-tare qui. “Alcuni lo trovano assurdo, ma questo posto mi fa sentire legato alla terra”. André von Thuronyi è soprannominato il “barone verde” perché proviene da una fa-miglia di aristocratici ungheresi innamora-ti della natura brasiliana. A 18 anni conosce-va già sei lingue e ha cominciato a nutrire i primi dubbi sul turismo. A vent’anni è anda-to alla ricerca di se stesso in un ashram in India e a 22 è tornato in Brasile per compra-

Il concerto della natura

Béatrice Demol, Le Soir, Belgio

Nella giungla del Pantanal, in Brasile, una regione lontana dal turismo di massa, dove si rifugiano molti animali a rischio d’estinzione

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André smette di parlare, il sottofondo mu-sicale torna in primo piano. La musica è co-minciata prima dell’alba, con i sibili in mo-derato cantabile della garzetta nivea dai piedi gialli. Poi, è diventata più stridula con il risveglio della jacana nera e del tucano. E alla ine è addirittura chiassosa, quando si uniscono il seriema e il caracara. In questa riserva naturale protetta dall’Unesco vivo-no 650 specie di uccelli, 80 specie di mam-miferi e più di 400 pesci diversi e una cin-quantina di specie di rettili.

Il trucco delle formicheAl tramonto il concerto viene eseguito al contrario: decresce ino al silenzio e a quel punto il testimone passa ad André, un’enci-clopedia appassionata e appassionante. Sa bene che per far funzionare l’ecoturismo ci vuole un interesse autentico, capace di an-dare oltre l’aspetto commerciale. Per que-sto passa la maggior parte del tempo a spie-gare la sua sida. “L’85 per cento dei visita-tori non è mai montato a cavallo, ma noi li incoraggiamo, con i nostri migliori cavalie-ri e con piccoli cavalli ben addestrati”, spie-

ga André. Roberto, originario del posto, mi insegna come spalmarmi delle formiche schiacciate per tenere lontane le zanzare e mi tiene per mano sui ponti sospesi che of-frono viste impareggiabili. Di sera, quando le chitarre tacciono e ci si conosce davvero, mi racconta delle storie intorno al fuoco.

Roberto è orgoglioso dell’evoluzione dei suoi compagni, che “da predatori sono di-ventati protettori”. E adora rassicurare i tu-risti che all’alba lasciano la loro stanza cli-matizzata per l’amaca del loro terrazzo e lanciano un urlo quando si trovano davanti un capibara, un criceto di ottanta chili lungo un metro, il più grande roditore del mondo. Nella regione ce ne sono seicentomila e so-no assolutamente innocui. Roberto spiega con passione che il tetto della fattoria è stato costruito con confezioni di latte riciclate e che André mette il ranch e i suoi cavalli a disposizione dei migliori cavalieri della re-gione. Alcuni animali hanno anche vinto dei concorsi e tra i giovani cavalieri potreb-bero esserci futuri fantini destinati a diven-tare famosi in tutto il mondo.

Gli altri continueranno ad accompagna-

re i rari visitatori. Oppure a preparare con loro un succo di guaranà o a condividere una birra nell’unico bar del posto, e a mo-strargli l’opera più spettacolare di André: l’Ara project. Si tratta di una stazione per il ripopolamento dell’ara giacinto, la specie di pappagallo più grande del pianeta.

Sul rio Claro, in canoa, le specie più belle si lasciano ammirare sull’acqua: cormorani, ibis, aironi, nandù e soprattutto la cicogna jabiru – simbolo del Pantanal – sono un inno a questo universo colorato, melodioso, estremamente viscerale, una lezione di na-tura e di umanità dove gli esseri umani sono poco presenti. Anche le scimmie urlatrici, che si avvicinano arrampicandosi sulla tor-re di osservazione alta 25 metri nel mezzo della boscaglia, non riescono a turbare il senso di pienezza. Questo risveglio dei sen-si richiede a volte un piccolo sforzo. Alzarsi prima anche se si è in vacanza, camminare un po’, riattivare odorato e udito, osare sen-za paura. Anche lasciarsi andare è un’arte. È il contrario del ‘no, attento!’ che sentiamo tutti i giorni. Un turismo così fa bene anche alla salute mentale. u gim

u Arrivare e muoversi Il prezzo di un volo dall’Italia (American Airlines, Iberia, British Airways) per São Paulo parte da 538 euro a/r. Da lì si possono prendere dei voli interni (Gol Linhas Aéreas) per Cuiabá. Il prezzo parte da 128 euro a/r. u Clima È tropicale: in estate (da dicembre a marzo) ci sono in media 32 gradi e piove molto. In inverno (da giugno a settembre) la stagione è secca e ci sono in media 21 gradi.u Dormire L’Araras ecolodge ofre pacchetti da due, tre e quattro notti. Per avere informazioni su prezzi, escursioni e sul progetto per tutelare l’ambiente e sviluppare l’ecoturisno: araraslodge.com.br.u Leggere Stefan Zweig, Brasile. Terra del

futuro, Elliot 2013, 18,50 euro.u Dopo il numero estivo Viaggio in Alaska. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri da leggere? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

Brasile. Il parco nazionale del Pantanal Matogrossense

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Graphic journalism Cartoline da Milano

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Chiara Dattola è nata a Varese nel 1978 e vive e lavora a Milano. Dal 2007 insegna illustrazione all’Istituto europeo di design.

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Cultura

Libri

Cassava Republic e Faraina in Nigeria. Modjaji Books, Chi-murenga e Jungle Jim in Su-dafrica. Kwani? in Kenya. Nel nascente mercato letterario

africano stanno spuntando editori indipen-denti un po’ ovunque. Il problema è che ci troviamo in uno dei periodi più diicili per l’editoria globale. E oltre a dover afrontare problemi comuni a tutti gli altri, gli editori africani hanno problemi speciici. Oltre alle infrastrutture inadatte, i 14 dollari necessa-ri a comprare un tascabile Penguin sono la cifra che molti africani guadagnano in una

settimana. Senza contare che l’ambiente culturale è monopolizzato da Nollywood e dall’industria della musica pop. Secondo l’Unesco, in Nigeria c’è una biblioteca ogni milione di abitanti. A diferenza degli edito-ri occidentali, che dipendono da bibliote-che e librerie, gli editori africani dipendono da un mercato discontinuo e senza regole.

Un futuro roseo

Eppure Bibi Bakare, fondatrice di Cassava Republic, è convinta del fatto che il futuro dell’editoria letteraria africana sia roseo. “La nostra età dell’oro deve ancora arriva-re”, dice. La soluzione sta nel prendere sul serio i mutamenti che sta vivendo la scena letteraria africana contemporanea.

Cominciamo sfatando il mito che gli africani non leggono. La cultura della lettu-ra non dipende necessariamente da un mercato librario standardizzato. L’Africa ha

sempre avuto una vivace cultura della lettu-ra, alimentata da un’economia informale fondata sulla pirateria e sul prestito. La dif-fusione dei dispositivi mobili in Africa ha allargato ulteriormente la varietà di testi: romanzi d’amore, libri ediicanti, testi reli-giosi e così via. E gli editori devono impara-re a sfruttare questa cultura della lettura poco ortodossa.

“Oggi il pubblico letterario è più accor-to”, spiega Bakare. “Pretende di più. Non si aspetta di essere trattato dall’alto in basso. Sente di poter scegliere e non si vergogna di manifestare i suoi gusti come in passato”. Per la generazione di Chinua Achebe, il ro-manzo aveva soprattutto uno scopo educa-tivo e il lettore era immaginato prima di tutto come uno studente.

Oggi i lettori africani sono diventati con-sumatori e cominciano a inluenzare la cre-azione di contenuti. Secondo uno studio recente, adorano i romanzi d’amore, che leggono usando soprattutto dispositivi mo-bili. Cassava Republic ha scommesso su questa possibilità già qualche anno fa, lan-ciando una nuova casa editrice, la Ankara Press, che ofre “un nuovo tipo di romanzo d’amore”. I sei libri in catalogo, in formato elettronico e a un prezzo accessibile, hanno avuto grande successo. Ankara Press è indi-cativa di una tendenza sempre più eviden-te. Le riviste pulp di Jungle Jim, i romanzi di Mukoma wa Ngugi e i racconti erotici scrit-ti sotto pseudonimo da Sarah Lotz sono altri

Il mercato editoriale africano sta crescendo, ma deve trovare il modo per avvicinare il grande pubblico alla letteratura

Un continente

di lettori

Ainehi Edoro, Ventures Africa, Nigeria

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Chimamanda Ngozi Adichie

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esempi di come l’editoria si adegui ai gusti del pubblico.

Il keniano Binyavanga Wainaina da tempo sostiene che gli editori africani non possono costruire un mercato basandosi sui libri scritti dalle Chimamanda e dai Teju Cole sparsi per il mondo. “Questi libri non possono sostenere da soli un intero setto­re”, dice. Secondo Wainaina, tutto cambie­rà quando l’editoria africana diventerà pop. “Si costruirà un settore economico quando avremo migliaia e migliaia di romanzi d’amore, di libri per bambini, di testi in gra­do di rapire i nostri igli. Come succede con i ilm di Nollywood”.

Il paragone tra un’editoria potenzial­mente redditizia e Nollywood, snobbata dai grandi della letteratura e ritenuta l’emble­ma di tutto quello che non va nella cultura pop africana, è interessante. Secondo Wai­naina, Nollywood è capace di catturare l’immaginazione popolare. E scrivere storie che parlano alle masse non signiica solo vendere libri, ma assicurarsi che la lettera­tura africana sia rilevante in quanto espres­sione della coscienza popolare. La lettera­tura può rappresentare le persone, proprio come fanno Nollywood o l’industria della musica pop.

Oggi in Africa c’è una cultura letteraria meno restrittiva e dogmatica, e lo spettro di ciò che può essere considerato letteratura africana si è ampliato. L’antologia di fanta­scienza curata da Ivor Hartmann, la storia

di un incontro con alieni di Nnedi Okorafor, il noir a base di magia nera di Lauren Beu­kes, i frammenti di storie di E.C. Osondu, il racconto kakiano di Igoni Barrett, Kintu di Jennifer Nansubuga Makumbi, i thriller horror di Sarah Lotz, l’esplorazione dell’amore omosessuale di Diriye Osman, il romanzo ilosoico di Teju Cole e quello distopico di Ahmed Towik: sono tutti risul­tati di una cultura che ha inalmente accet­tato la diferenza, la sperimentazione e il rischio.

E tutto questo non esclude per forza i classici. Scrittori del novecento, da Thomas Mofolo a Ben Okri, formano un enorme ca­talogo delle storie più belle e piacevoli che danno conto della crescita e delle trasfor­mazioni dell’Africa. Mentre gli editori esplorano nuove opportunità di investi­mento, il canone africano può essere ricon­testualizzato e reintrodotto perché parli a una generazione più giovane di scrittori, più o meno come succede con i classici della letteratura inglese o americana.

I blogger e ChimamandaQuesto discorso sarebbe incompleto senza parlare della critica. Oggi il ruolo del critico è stato usurpato dai blogger. I blog di notizie e commenti letterari sono sempre più se­guiti. E i blogger – molto spesso critici auto­didatti – hanno una doppia funzione: cura­no i contenuti editoriali per i lettori e con­temporaneamente indirizzano il mercato.

La loro passione per la letteratura è conta­giosa e il loro potere di spingere le vendite mentre cercano nuove modalità per aiuta­re i lettori a connettersi con gli scrittori è immenso. Quindi i blogger sono fonda­mentali nell’evoluzione della scena lettera­ria africana. Questo va di pari passo con la necessità di vedere gli scrittori africani co­me qualcosa di più di semplici persone bra­ve a scrivere. Con una produzione holly­woodiana tratta da un suo romanzo, una collaborazione con l’edizione britannica di Vogue e un’apparizione in un album di Be­yoncé, Chimamanda Ngozi Adichie rap­presenta adesso un’ideale che trascende i suoi romanzi. Essere considerata una cele­brità le ofre accesso a un pubblico vastissi­mo e la rende un’ambasciatrice globale della letteratura africana.

Il mercato letterario è un vasto ecosiste­ma in cui scrittori, editori, lettori e critici sono solo alcuni anelli della catena. Il com­pito di costruire in Africa una cultura lette­raria indipendente e libera richiede un’in­terazione tra tutti gli anelli di questo siste­ma. Al di là degli aspetti pratici e commer­ciali, comunque, c’è un elemento molto semplice: una nuova generazione di africa­ni vuole una letteratura africana che veico­li in modo eicace i contesti sociali ed emo­zionali di un continente in continua muta­zione. Una letteratura accessibile a tutti grazie anche agli strumenti che la tecnolo­gia mette a disposizione. u gim

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Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

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Poltergeist 1111111111 - 11111 11111 11111 11111 11111 - 11111 -

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giovani si Diventa 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

Media

In uscita

Fuochi d’artiicio in pieno giornoDi Yinan Diao. Con Fan Liao, Lun Mei Gwei. Cina 2014, 110’●●●●● Lo spirito di Raymond Chand­ler e James M. Caine scorre molto forte in Fuochi d’artiicio in pieno giorno, una detective story tetra ma potente, e per­fettamente controllata dal suo regista. Come nei migliori thriller noir, non ci sono eroi buoni o criminali cattivi, ma solo diversi livelli di compro­messo. Quello di Yinan Diao, che ha cominciato la sua car­riera come sceneggiatore per Yang Zhang, è un curioso ibri­do tra ilm di genere e ilm d’autore. Nella scena d’aper­tura, in una fabbrica del nord della Cina, riemergono i resti di un operaio. A indagare sul suo omicidio arriva un detec­tive (Fan Liao) che individua subito un sospetto. Ma quello che dovrebbe essere un arre­sto di routine si trasforma in una più delle assurde sparato­rie mai viste. E siamo solo all’inizio. scott Foundas, variety

Il luogo delle ombreDi Stephen Sommers. Con Anton Yelchin, Willem Dafoe. Stati Uniti 2013, 100’●●●●● Nell’adattamento del primo romanzo della serie Odd Tho-mas di Dean Koontz, il regista e sceneggiatore Stephen Som­mers privilegia lo stile sul sen­so. Il risultato è uno strano ilm che allo stesso tempo ri­sulta comico, tragico, gofa­mente romantico e che si ai­da troppo alla voce narrante di Thomas per chiarire le cose senza senso a cui troppo spes­so dobbiamo assistere. jeanette catsoulis, the new York times

sPY 11111 - 11111 11111 - - 11111 11111 - 11111 11111

babaDook 11111 - 11111 11111 11111 11111 11111 11111 11111 - 11111

Much loved di nabil ayouch, presentato a can-nes, inisce in tribunale Nella tradizione musulmana, durante il Ramadan, chi com­batte dovrebbe osservare una tregua (hudna), a meno che non sia minacciato l’islam stesso. Quest’anno, secondo l’associazione marocchina Défense du citoyen, la minac­cia era un ilm. L’associazione ha denunciato Nabil Ayouch e Loubna Abidar, rispettiva­mente regista e interprete di Much loved, la pellicola pre­sentata a Cannes nella Quin­zaine des réalisateurs, che racconta con una certa cru­

dezza la vita di quattro prosti­tute di Marrakech. L’accusa è di “pornograia, attentato al pudore e corruzione di mino­ri”. La prima udienza era stata issata per il 15 luglio, pochi giorni prima della ine del Ra­madan, ma gli imputati non si sono presentati (il regista ha

fatto sapere di non aver rice­vuto nessuna notiica né un invito a comparire) e se ne ri­parla a settembre. Dopo la presentazione di Much loved a Cannes erano stati pubblicati su YouTube alcuni spezzoni piratati del ilm che avevano scatenato in Marocco le rea­zioni indignate dei difensori della morale, tanto da convin­cere le autorità a vietare la proiezione del ilm. Non è il primo episodio che preoccupa le associazioni impegnate nel­la difesa delle libertà indivi­duali, ma gli islamisti si difen­dono appellandosi ai “valori morali e religiosi”. le monde

Dal Marocco

Attentato al pudore

Much loved

Cultura

Cinema

il ragazzo Della… 11111- - 11111 11111 11111 - 11111 11111 11111 11111

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LibriCultura

Bapsi SidhwaLingua d’amoreNeri Pozza, 222 pagine, 16 euro

●●●●●In questa raccolta di racconti Bapsi Sidhwa ricrea un mondo perduto, il Pakistan degli anni sessanta. Le protagoniste di queste storie sono donne che appartengono per lo più ai ceti

I racconti

Donne del Pakistan

Enrico DeaglioStoria vera e terribile tra Sicilia e AmericaSellerio, 214 pagine, 14 euroMolti ex leader dei passati mo-vimenti si sono riciclati nel giornalismo, un campo sicuro ma sempre meno attendibile. Hanno scritto tanto di inutile ma a volte anche cose buone, come questa. Racconta una storia terribile, ma frequente negli annali statunitensi. Un medico uccide una capra di immigrati siciliani che ha sconinato sul suo terreno, uno degli immigrati ferisce il

medico, la popolazione acciuf-fa cinque siciliani (di Cefalù) e li impicca. Siamo a Tallulah, in Louisiana, nel 1899, tra bian-chi, neri e italiani che hanno anche il torto di solidarizzare con i neri. Sei anni prima la po-polazione infuriata di Aigues Mortes in Francia aveva mas-sacrato dai 14 ai 20 e forse più italiani colpevoli di far concor-renza ai francesi (come rac-conta Il massacro degli italiani di Gérard Noiriel, Marco Tro-pea). Le storie si ripetono, ma quelle americane hanno un sa-pore particolare, ché il linciag-

gio negli stati del sud era un’abitudine, quasi uno sport a danno soprattutto dei neri (e Deaglio fa bene a inserire in questa appassionata e ambi-ziosa, ampia e solida ricostru-zione il testo di Strange fruit di Billie Holiday, che di questo parla). Era un’America barba-rica (nel sud vennero linciate 4-5mila persone solo tra il 1887 e il 1907) ma perfetta-mente capitalista, ché sul fon-do sempre di economia si trat-ta, di sfruttamento. Né fanno una bella igura i rappresen-tanti del governo italiano. u

Il libro Gofredo Foi

Un linciaggio come tanti

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Frederika Randall che scrive per The Nation.

Giacomo SartoriRogoCartaCanta, 199 pagine, 14 euro

●●●●●C’è un argomento più femmi-nile della maternità? Le gioie e i terrori della gravidanza, spesso derivati dalla famiglia d’origine o dalle condizioni sociali, il parto e la dolorosa separazione dal iglio. Giaco-mo Sartori ha osato invadere questo territorio femminile con un romanzo originale e inquietante. Rogo si occupa della conseguenza più crudele della maternità, l’infanticidio. Tre donne – Anna, immatura e viziata, nel 2012, Lucilla, mammana nei primi anni set-tanta, Gheta, sotto tortura per stregoneria nel seicento – so-no testimoni della solitudine della donna incinta, di come la felicità può diventare ambi-gua e sfociare in tragedia. Tre voci che si alternano: tre don-ne non eroiche, non belle, non amate, ma neanche mostri. Sono accomunate da un pen-siero magico che riempie i bu-chi dove la ragione non può o non vuole andare, un sentire le voci, una fede nella chiaro-veggenza, una disposizione all’amnesia. Che concepire e partorire siano processi più grandi della nostra psicologia e ilosoia, fatti della natura, dell’animale in noi, è diicile da accettare. E sono soprattut-to le donne a doverci fare i conti. Sartori, scrittore che meriterebbe un riconosci-mento più vasto, dimostra una simpatia non comune per le sue protagoniste maledette.

alti della società pachistana. Sono principalmente parsi, ma ci sono anche musulmane e altre residenti all’estero. Queste donne intelligenti e colte vivono in ambienti pro-tetti i cui conini, tuttavia, non possono ripararle dagli eventi del mondo esterno. Le rela-zioni dei personaggi con un

mondo maschile pericoloso, incontrollato e spesso violen-to sono al centro di molte di queste storie raccontate con grande abilità. Oltre a descri-vere le conseguenze della guerra del 1965 tra Pakistan e India, Bapsu Sidhwa rivela gli orrori subìti da una donna sul conine tra i due paesi, fa allu-sioni agli eventi in Afghani-stan e mette un’altra delle sue protagoniste faccia a faccia con dei dirottatori sikh. Un al-tro tema ricorrente di questo libro, così come di altri ro-manzi dell’autrice, sono le in-quietanti diferenze all’inter-no del nuovo mondo della dia-spora. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Roshni, una giovane moglie, deve fare i conti simultaneamente con il suo nuovo paese e con Nav, l’uomo che ha appena sposato

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Cultura

Libri

Giorgio Agamben StasisBollati Boringhieri, 84 pagine, 14 euro A un mese dall’11 settembre 2001 Giorgio Agamben tenne a Princeton due conferenze sulla nozione di guerra civile nella ilosoia politica. Questo libro le pubblica oggi, riviste e corrette. La prima prende le mosse dalle ricerche di Nicole Loraux sul concetto di stasis (guerra civile) nel mondo gre-co e inisce per deinire questo tipo di conlitto come una sor-ta di soglia attraverso cui, in

alcuni momenti, le relazioni private si trasformano in rela-zioni politiche, mentre in altri momenti avviene il contrario, secondo un alternarsi di fasi di politicizzazione e depoliticiz-zazione della società.

La seconda comincia con l’analisi dell’immagine del frontespizio della prima edi-zione del Leviatano di Thomas Hobbes, dominata da una i-gura gigantesca di sovrano, formata a sua volta da molti piccoli individui, e propone un’interpretazione di quest’opera nel contesto della

teologia escatologica: lo stu-dio delle sacre scritture che parlano della ine del mondo. Rispetto a questa tradizione, spiega Agamben, Hobbes sembra proporre l’idea di uno stato che invece di frenare la ine dei tempi, attraverso la cura della sicurezza dei citta-dini, contribuisce a provocar-la. Per molti aspetti (il riferi-mento ai grandi ilosoi del no-vecento, la connessione tra te-ologia e politica) questi saggi sono un’ottima introduzione al pensiero di questo inluente ilosofo. u

Non iction Giuliano Milani

Siamo in guerra civile

e che conosce a malapena. Bapsi Sidhwa dimostra di ave-re una comprensione sottile e profonda delle relazioni uma-ne. Per tutto il corso del libro esplora le distanze e i punti di contatto tra gli individui, uo-mini e donne, marito e mo-glie, madre e iglia. In un altro racconto che ofre molti spun-ti umoristici e che mostra i danni emotivi non premedita-ti che un essere umano può in-liggere a un altro, una madre parsi conservatrice scopre con orrore che la iglia non solo sta convivendo con un ebreo americano che ha un debole per i pantaloncini corti, ma è anche determinata a sposarlo. Nelle sue pagine Sidhwa non spreca una sola parola e le sue storie scorrono senza intoppi, come un iume. Lingua d’amo-re conferma che è una delle migliori scrittrici del subcon-tinente, anche se una delle tante che vivono al di là dell’Atlantico. Il libro conqui-sterà senza dubbio i suoi già entusiasti lettori, sia in Paki-

stan sia nel resto del mondo. Gillian Wright, India Today

Caroline BlackwoodLa duchessaCodice, 297 pagine, 16,90 euro●●●●●Questo libro sulla duchessa di Windsor è un po’ giallo, un po’ biograia, un po’ stroncatura e un po’ commedia di costume. Comincia con l’incarico che la giornalista e scrittrice Caroline Blackwood ha ricevuto dal Sunday Times di Londra nel 1980: scrivere un articolo sulla leggendaria duchessa, la di-vorziata statunitense Wallis Simpson che conquistò il cuore di Edoardo VIII e gli costò il trono d’Inghilterra. Più che una biograia convenzionale, è un resoconto degli sforzi dell’autrice alle prese con un argomento sfuggente. Tanto che alla ine si ha la sensazione di saperne di più dell’autrice e dell’avvocato della duchessa che della stessa duchessa. Nel-

le prime pagine, Blackwood racconta la sua infanzia nell’Ulster e il clamore che la duchessa suscitò alla ine degli anni trenta: “Per una batta-gliera comunità protestante la cui identità stessa dipendeva dalla lealtà alla corona britan-nica, la signora Simpson era una igura da guardare con or-rore. Era una minaccia per la chiesa e la monarchia. Rappre-sentava il sesso e il male”. Al termine delle sue indagini, tut-tavia, Blackwood è arrivata a tutt’altra conclusione. La du-chessa le appare come una i-gura tragica, ingenua vittima del suo avvocato connivente e poi patetica prigioniera nella sua enorme casa parigina. Combinando le sue rilessioni insieme a materiale tratto da una serie di interviste e di altri libri, Blackwood ofre al lettore un ritratto acuto e a volte mol-to divertente del frivolo mon-do di ricchezza e di lusso abita-to dai Windsor. Michiko Kakutani, The New York Times

Dag SolstadLa notte del professor AndersenIperborea, 192 pagine, 16 euro●●●●●È il giorno di Natale, e gli Hal-vorsen danno una cena. La conversazione è scorrevole e piena di risate. Ma per uno de-gli ospiti, il professor Ander-sen, l’occasione è più oppri-mente che piacevole. Il moti-vo è che lui solo è stato testi-mone di un omicidio la notte della vigilia. Andersen faceva i conti con la sua solitudine guardando dalla inestra del suo appartamento verso le ca-se dirimpetto, per spiare nelle vite degli altri. Ha visto una giovane donna comparire nel-la inestra illuminata di uno degli appartamenti più picco-li. E ha visto un uomo entrare nella camera, metterle le ma-ni attorno al collo e stringere. “Devo chiamare la polizia”, ha pensato. Si è avvicinato al te-lefono ma non ha sollevato il ricevitore. Il pensiero di que-sta inerzia non lo abbandona. Passano le settimane, ma non ci sono notizie che riguardino la scoperta del cadavere di una ragazza. Andersen viene presto a conoscere il nome e l’aspetto dell’uomo nel cui ap-partamento si è consumato il delitto. Poi, per caso, lo incon-tra in un sushi bar. Malgrado la centralità dell’omicidio e la vivida ambientazione di Oslo, questo romanzo non è un tipi-co noir nordico. I suoi proge-nitori sono l’esistenzialismo francese, il nouveau roman e un autore come Thomas Bern hard, le cui lunghe frasi seguono le contorsioni di una mente che sida le intenzioni razionali. Dag Solstad è un in-stancabile esploratore della condizione dell’umanità civi-lizzata davanti all’inspiegabi-le. Paul Binding, The Independent

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Francia

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Jean-Christophe RuinCheck-point GallimardUna ragazza di 21 anni va in Bosnia durante la guerra al se-guito di una ong. È accompa-gnata da quattro uomini che le riveleranno le loro ferite segre-te. Jean-Christophe Ruin è un medico e scrittore francese na-to a Bourges nel 1952.

Isabelle AutissierSoudain, seuls StockRivisitazione del mito di Ro-binson Crusoe: una coppia di parigini trentenni rimane in-trappolata su un’isola del sud dell’Atlantico, una riserva na-turale popolata di pinguini, le-oni ed elefanti marini. Autis-sier è nata a Parigi nel 1956.

Justine AugierIdées noires Actes SudNel 1942, un ragazzo di 14 anni assiste per caso al suicidio di una coetanea che si getta da un balcone gridando delle parole di protesta. Decide allora di di-ventare corriere per la resi-stenza. Justine Augier è nata a Parigi nel 1978.

Frédéric BadréLa grande Santé SeuilNel giugno del 2012, durante una visita di routine, lo scritto-re apprende di avere la sclerosi laterale amiotroica. Di fronte a questa terribile notizia deci-de di reagire, di spiegare quel che gli succede, di raccontare i suoi rimedi. Frédéric Badré è nato a Versailles nel 1965.Maria Sepa usalibri.blogspot.com

Fumetti

Notti nella pampa

Mauro Boselli e Pasquale FrisendaTex. PatagoniaBao Publishing, 268 pagine, 22 euroQuesto Tex Willer speciale, ri-proposto da Bao in uno splen-dido cartonato, è uno straordi-nario romanzo storico e d’av-ventura, ma anche politico senza essere “militante”. Risa-le al 2009 ed è frutto di tre an-ni di lavoro, nato su espresso desiderio dell’editore Sergio Bonelli: grande viaggiatore – spesso in Sudamerica (dal Bra-sile all’Argentina) – e grande biblioilo, Bonelli ha trovato negli anni volumi dimenticati, da cui è emersa un’antica map-pa, all’origine della storia, “sulla straordinaria linea di-fensiva fatta di fortini e avam-posti” che si estendeva sul ter-ritorio argentino. Gli autori si sono impegnati nell’impresa e ne è venuto fuori un capolavo-ro. Al centro igura l’etica della giustizia, lontana dal giustizia-lismo ottuso oggi imperante:

Tex, ranger e capo degli india-ni Navajo con il nome di Aqui-la della Notte, non può che agire su una linea di demarca-zione labile e scivolare dalla legalità all’illegalità non ap-pena la dignità dell’uomo vie-ne colpita. In Patagonia sono questi, disertori compresi, gli uomini migliori. Boselli riesce a costruire un romanzo avvin-cente pieno di continui ribal-tamenti e un afresco storico su una tragedia poco cono-sciuta: lo sterminio delle po-polazioni indiane della Pam-pa. Frisenda, iglio spirituale dei grandi disegnatori argen-tini (ma anche ilippini, da Al-fredo Alcala ad Alex Niño), costruisce immagini potenti che paiono quasi concepite in uno stato di trance, emana-zioni di una memoria ance-strale che sarebbero potuti piacere ai surrealisti. Un’ope-ra sognante di rilessione sul-la storia e sull’uomo, perfetta per le notti stellate dell’estate. Francesco Boille

Ragazzi

Un cane tra le bombe

David Circi MuschioIl Castoro, 111 pagine, 13,50 euro. Illustrazioni di Federico AppelCome vivono gli animali le guerre degli umani? Male, na-turalmente. Sono doppiamen-te vittime di una cattiveria che non capiscono. Certo il mon-do animale è duro, aspro, a tratti crudele. Ma il ciclo di vi-ta e morte ha sempre un sen-so, segue una logica. La guer-ra degli umani invece è fuori controllo. Ne è convinto Mu-schio, un cane nero dal pelo riccio, che come tanti ci ini-sce in mezzo. Prima la vita di Muschio era bella. Aveva due padroncini che adorava, Mi-rek e Janinka, e non gli man-cava nulla. Poi lo scompiglio. Prima gli allarmi aerei, poi le fughe, inine una bomba che cade sulla casa dei padronci-ni. Tutto cambia.Muschio si ritrova solo e precipita dentro una vita che non aveva previ-sto. Diventa cane da circo, ca-ne da guardia, cane nomade. Passa di avventura in avventu-ra, ma conserva il ricordo dei padroncini, diventati per lui una scia di odori familiari. A ogni pagina il suo musetto an-sioso annusa l’aria per capire cosa sia successo alle creature che amava di più al mondo. Lo scrittore catalano David Cirici crea una narrazione scorrevo-le e commovente. I disegni dolci ed evanescenti di Fede-rico Appel fanno il resto. Ed ecco la seconda guerra mon-diale raccontata da una pro-spettiva inedita, a quattro zampe. Igiaba Scego

Enrique Vila-MatasKassel non invita alla logica(Feltrinelli)

Helen HumpreysIl canto del crepuscolo(Playground)

Stefano RicciLa storia dell’orso (Quodlibet)

I consigli della

redazione

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Cultura

1BoomDaBash A tre passi da te (feat. Ales-sandra Amoroso)

Leggendo Lascia stare la galli-na, giallone di Quit the Doner che pare Fruttero & Lucentini remixato dai Sud Sound System, ecco i BoomDaBash che nel nuovo Radio revolution pompano la prosopopea de lu munnu. Danze e impegno con birra gelata stretta nel pugno, ma il meglio è l’amore terrone tra lu mare e i summer days I will always remember, ukulele e cornamusa e la Amoroso stel-lare nell’evocare passioni in-tense che divampano su sabbie tiepide all’alba per evaporare nel meriggio ai gate easyJet del Brindisi airport.

2 I Musicanti del Vento Partu Ci godiamo il zumpa

zumpa della formazione folk pop del cosentino, che suona qui in stile De André light ma reca quell’imprinting strug-gente nella voce, quella digni-tosa mestizia che fa scegliere Preferisco la cantina come tito-lo, con le implicazioni del caso rese più esplicite dai disegni di copertina, tutto un manga di isarmoniche, tovaglie a qua-dretti, salami e iaschi. Ma è con traccia inale dell’album, l’unica in dialetto, che nei Mu-sicanti si scoprono dei piccoli Pogues nascosti, pronti a zom-pare da una festa di paese a ra-duni assai più underground.

3Raffaele Casarano Lo rosciu de lu mare (feat. Giuliano Sangiorgi)

La canzone tradizionale salen-tina in versione da festival jazz estivo per sax, accendini, lam-pare e display luccicanti; pro-prio come quel Locomotive fe-stival diretto dallo stesso Casa-rano, che dal 26 luglio percorre il Salento quale brivido lungo il dorso. Il pezzo, di un paio d’an-ni fa, è in Give me ive by foot! Doppia antologia della Tuk, etichetta messa in piedi cinque anni fa da Paolo Fresu come una raccolta di sonorità jazz che veleggiano nella musicali-tà mediterranea. Un tesoretto di sogni altrui da portarsi in va-canza, come una carta nautica.

MusicaDal vivoBjörk Roma, 29 luglio auditorium.com

Calexico Cesena (Fc), 18 agosto acieloaperto.it

dEUS Sestri Levante (Ge), 24 luglio mojotic.it; Roma, 25 luglio villaada.org; Sesto San Giovanni (Mi), 26 luglio carroponte.org

Savages Azzano Decimo (Pn), 30 luglio, ieradellamusica.it; Ferrara, 31 luglio ferrarasottolestelle.it

Mark Lanegan Band Cesena (Fc), 11 agosto acieloaperto.it; Sestri Levante (Ge), 12 agosto, mojotic.it

Tame Impala + Nicholas Allbrook, Sestri Levante (Ge), 25 agosto mojotic.it; Roma, 26 agosto rockinroma.com

Camilla Sparksss Sesto San Giovanni, 4 agosto carroponte.org; Pesaro, 7 agosto, periferica.eu

Ariano folk festival Calexico, Lord Sassafrass, Hollie Cook, Dead Combo, Orkesta Mendoza, Dj Scratchy e altri, Ariano Irpino (Av), 20-23 agosto, arianofolkfestival.it

Il racconto di Lloyd Cole, che ha appena curato la ri-stampa di tutte le registra-zioni della sua prima band

Quando abbiamo cominciato ero sempre io che avevo mol-te idee interessanti. Poi sia-mo diventati una band più democratica e non posso la-mentarmene, perché avevo sempre meno idee. Era bello far parte dei Commotions, ma più passavano gli anni e meno ci divertivamo. È stato naturale durare poco, ma ho riascoltato tutti i dischi e il materiale inedito per questa raccolta e devo dire che era-vamo decisamente bravi. Un momento chiave è stato

quando ho scritto Are you ready to be heartbroken? nel settembre del 1983, perché ho capito che ci sapevo fare.

Un mese dopo ho portato a casa un registratore e in due giorni abbiamo buttato giù Forest ire e Perfect skin. Poi siamo initi su Nme e ci han-no invitato a Top of the pops, e l’obiettivo era quello: David Bowie era stato lì, Morrissey

c’era appena arrivato e vole-vamo esserci anche noi. Do-po il successo di Rattlesnakes il problema è stato che pen-savamo di dover fare come Bowie e cambiare completa-mente stile a ogni album, e quella è stata la nostra male-dizione. Nel 1985 ragionavo come se sapessi che stavo per diventare una superstar. Non è mai successo. Quando nel 1987 è uscito Mainstream, il nostro ultimo album, l’idea era che se non vendevamo qualche milione di copie era un iasco. È andata così. Non credo che oggi torneremmo insieme, ma non abbiamo rimpianti. Graeme Thomson, Uncut

Dal Regno Unito

I Commotions trent’anni dopo

Playlist Pier Andrea Canei

Amores terrons

DR

Björk

Lloyd Cole & The Commotions

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Album

Tame ImpalaCurrents(Interscope)●●●●●

Il grande problema della psi-chedelia oggi è che tratta Revolver e The piper at the gates of dawn come se fossero dei manuali. Ma il motivo per cui sono dei grandi album è pro-prio l’assenza di istruzioni: so-no lavori di persone che han-no superato i conini e si sono avventurate nell’ignoto. Kevin Parker l’ha capito. La musica dei Tame Impala è quella me-no indebitata in maniera pigra con gli anni sessanta. Lonerism doveva molto ai Beatles e a Syd Barrett, ma le canzoni erano vestite da di-storsioni aliene e digitali, co-me se le moderne macchine del suono avessero comincia-to a fare cose sbagliate. Il pri-mo singolo di Currents, Let it happen, sembra prendere spunto più dai Daft Punk e da Weeknd che da Tomorrow never knows. Potrebbe essere una canzone pop ma non ci sono chitarre, e in otto minuti prende strane direzioni in cui diventa un canto ipnotico con le armonie dei Beach Boys il-trate con AutoTune. Parker lotta tutto il tempo contro gli stereotipi e le classiicazioni. Come nella grande tradizione psichedelica, Currents evoca stati alterati della mente, ma più dal dolore che dagli acidi. La musica ci porta tra colonne sonore di ilm romantici anni ottanta, poi tra rumori elettro-nici puri, poi a momenti lenti e nebulosi, e poi ricomincia da capo. Chi ascolta si ritrova confuso e afascinato, una re-azione che, tolti i cliché del genere, ci dice cos’è veramen-te la psichedelia. Alexis Petridis, The Guardian

due brani potenti e innovativi – ma sono più autoindulgenti e con cover meno riuscite.Neil Spencer, Uncut

Seven Davis jr.Universes(Ninja Tune)●●●●● Seven Davis jr. è un musicista a suo agio nel passato come nel futuro. Il suo stile disco house farcito di funk ricorda Frankie Knuckles ma anche Gil Scott-Heron. In Universes, album d’esordio di questo can-tante e produttore, sotto lo strato elettronico di ogni trac-cia si trova un colloide di mille generi, con molecole di jungle, pop, rnb e reggae che scoppia-no in supericie. Dall’acid jazz di Imagination, il brano che apre il disco, l’artista si fa stra-da attraverso la delirante mu-zak di Freedom e il trip hop e le trombe di Sunday morning, ed è appena a metà percorso. Eve-

rybody too cool è il funk delle Stargard e dei Rose Royce uni-to al boogaloo e lanciato nel presente, ino alla palpitante post disco di Good vibes. Uni-verses è ancora lontano dalle nebulose più belle, ma Seven con il suo multistile di certo guarda in quella direzione. Olivia Cheves, The Quietus

Eileen Tackney

Towards the sun(Eileen Tackney)●●●●●

A due anni dal disco d’esordio South, la musicista e composi-trice elettronica Eileen Tack-ney torna con un nuovo album frutto dell’ainamento dei rit-mi elettronici epici e meravi-gliosi che caratterizzavano il predecessore. Mentre South aveva come punto di riferi-mento, anche nell’immagine di copertina, il krautrock, Towards the sun è più comples-so, riinito e molto più con-temporaneo. Tracce come Sirens, Dogstar e Renewal po-trebbero anche passare alla radio, se solo certe orecchie volessero ascoltarle, mentre la title track, l’unico pezzo con voce dell’album, è semplice-mente una hit in attesa di spiccare il volo. Tony Clayton-Lea, The Irish Times

Sophie-Mayuko VetterBrahms: pezzi per pianoSophie-Mayuko Vetter, pianoforte (Hänssler)●●●●●

Sophie-Mayuko Vetter compo-ne, improvvisa e sta studiando l’arte del canto difonico. È an-che una pianista dallo stile molto personale, e afronta il tardo Brahms con grande li-bertà nei tempi e nel fraseggio, senza perdere mai il senso del-la forma. Non è per tutti i gusti, ma merita di essere ascoltata.Jed Distler, ClassicsToday

Bobby WomackThe preacher(Charly)●●●●●

Celebrato dopo la morte, nel 2014, come l’ultimo grande soul man, Bobby Womack era un musicista più complesso e sperimentatore di quanto il ti-tolo possa suggerire. Cresciuto in una famiglia di cantanti go-spel, conosceva bene anche il pop e la musica di Tin Pan Al-ley. La sua voce poteva ricor-dare quella dolce e rainata di Sam Cooke, suo eroe e mento-re, mentre il suo stile chitarri-stico spaziava dal rock più grezzo alle ricercatezze acusti-che. Questi cinque album illu-strano splendidamente l’in-luenza della sua opera. Fly me to the moon, del 1968, è un de-butto delizioso con improbabi-li ma riuscitissime cover di Si-natra e di California dreamin’. Con My prescription, uscito due anni dopo, l’esperimento del primo disco si ripete con successo, mentre The Womack “live”, registrato in un piccolo club, è un passeggiata tra i suoi successi, con spazio anche per una versione di Everybody’s talkin’. Communication, del 1971, e Understanding, del 1972, registrati agli studi Muscle Shoals, contengono ot-time hit – That’s the way I feel about cha e I can understand it,

WilcoStar wars(dBpm)

Joshua RedmanThe Bad plus Joshua Redman(Nonesuch)

The Bros. LandrethLet it lie(Slate Creek Records)

DR

Pop/rockScelti da

Luca Sofri

Seven Davis jr.

DR

Tame Impala

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Paradiso verde The land art of Charles Jencks, Garden museum, Londra, ino al 31 agosto Ci sono diversi modi di costru­ire l’universo. Uno è trovare una qualche divinità e seguire la sua agenda per sei giorni. L’altro è mettere insieme un paio di leggi della isica, fare due passi indietro e godersi il proprio big bang. Oppure si può mettere insieme un ricco duca, un architetto di giardini dalle ambizioni cosmo­logicamente avanzate e una miniera di carbone abbando­nata, e vedere cosa ne viene fuori. Quest’ultima possibilità, raccontata dalla mostra, è sta­ta realizzata nella piccola citta­dina di Sanquhar, nel sud della Scozia, dove un enorme e am­bizioso pezzo di land art, il Crawick multiverse, ha aperto al pubblico a luglio. Il duca è Richard Scott, proprietario di uno dei più grandi latifondi privati del Regno Unito. Il pro­gettista è Charles Jencks cono­sciuto dal 1980 come critico dell’architettura. Finanziato dal duca con un milione di sterline, Jencks nel corso di quattro anni ha trasformato una miniera a cielo aperto nel­la rappresentazione di alcuni dei più eccezionali traguardi della isica moderna – come il multiverso, la tesi secondo cui ci sono svariati universi – o di fenomeni astronomici. L’obiettivo era curare una ter­ribile cicatrice nel paesaggio e contribuire a rilanciare l’eco­nomia locale danneggiata dall’abbandono della miniera. In mezzo ai pascoli sono sorte due colline alte venti metri percorse da spirali di pietre che culminano con un trono. Sem­brano torte nuziali del neoliti­co. Pietre, percorsi e piscine di acqua stagnante punteggiano tutto il sito. Financial Times

Cultura

Arte

Zoe Leonard Analogue, Moma, New York ino al 30 agosto La serie di fotograie di Zoe Leonard appese alle pareti nell’atrio del Moma è un com­movente aggiornamento del realismo sociale. Prodotte tra il 1998 e il 2009, le 412 imma­gini mostrano piccoli esercizi commerciali economici da New York all’Africa, che rap­presentano indirettamente ma suggestivamente il bilancio umano della globalizzazione. Leonard, 53 anni, con un curri­culum stellare, da sempre è af­fascinata dai meccanismi della

fotograia analogica. Alla Bien­nale del Whitney del 2014 ha trasformato una sala in una grande camera oscura. Con Analogue, tratta i soggetti co­me un dipendente pubblico che deve fare dei rilevamenti per scopi forensi o burocratici. Nel primo gruppo di foto si ve­dono vetrine chiuse di bar, piz­zerie, negozi di abbigliamento, studi legali. Se siano chiusi per la notte o per le ferie non è chiaro, ma la certezza è che presto chiuderanno deinitiva­mente. Seguono un gruppo di immagini di negozi di barbieri, vetrine segnate da scritte e

graiti, vetrine con le insegne rimosse, merci imballate, ban­carelle di vestiti usati appesi a cielo aperto. Da un testo infor­mativo apprendiamo che Leo­nard ha viaggiato in Africa, Europa dell’est, Cuba, Messi­co, Medio Oriente, ma non sappiamo dove sono state scattate le singole fotograie. Sono state tutte realizzate con una vecchia Rolleilex del 1940 e stampate con la gelati­na d’argento. Una macchina analogica per creare immagini analoghe alla realtà, uno stile analogico, romantico e perso­nale. The New York Times

New York

Sguardo analogico

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Zoe Leonard, Analogue

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Il ilosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione”: un’intuizione particolarmente adatta al nostro momento storico, in cui perino la diagnosi più pessimistica di regola si conclu-de con un’allusione incoraggiante alla prover-

biale luce alla ine del tunnel. Il vero coraggio non è immaginare un’alternativa, ma accettare le conse-guenze del fatto che non esiste un’alternativa chiara-mente individuabile: il sogno di un’alternativa è un segno di vigliaccheria teorica, è un fetic-cio che ci impedisce di esaminare a fon-do il punto morto della nostra situazione. In breve, il vero coraggio è ammettere che la luce alla ine del tunnel con ogni probabilità è il faro di un altro treno che avanza verso di noi dalla direzione oppo-sta. La Grecia di oggi è un esempio per-fetto della necessità di questo coraggio.

La doppia inversione a U della crisi greca nell’ultimo mese non è tanto un passaggio dalla tragedia alla commedia quanto, come ha osservato Stathis Kou-velakis, professore di ilosoia politica al King’s college di Londra, da una tragedia piena di risvolti comici al teatro dell’assurdo: esiste un qualunque altro modo per caratterizzare questo incredibile rovesciamento di un estremo nel suo opposto, che confonderebbe peri-no il ilosofo hegeliano più speculativo? Stanco degli ininiti negoziati con i leader dell’Unione europea in cui si succedevano umiliazioni su umiliazioni, il gover-no guidato da Alexis Tsipras ha indetto un referendum per domenica 5 luglio chiedendo al popolo greco se sosteneva o respingeva la proposta dell’Unione di nuove misure di austerità. Il governo aveva aperta-mente dichiarato di appoggiare il no, ma il risultato è stato comunque una sorpresa: inaspettatamente, il no al ricatto europeo ha ottenuto una maggioranza schiacciante superiore al 61 per cento. È cominciata a circolare la voce che il risultato – una vittoria del gover-no – fosse una brutta sorpresa per lo stesso Tsipras, che segretamente sperava di perdere perché una sconitta gli avrebbe permesso di arrendersi alle richieste euro-pee salvando la faccia (“dobbiamo rispettare la volon-tà degli elettori”). Invece l’indomani Alexis Tsipras ha subito annunciato che la Grecia era pronta a riprende-re le trattative e qualche giorno dopo ha negoziato una proposta europea che è sostanzialmente identica a quella respinta dagli elettori (e per certi aspetti ancora

Il coraggio della disperazione

Syriza dovrebbe civettare spudoratamente con la Russia e la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia per farne una base militare nel Mediterraneo

più dura). In breve, ha agito come se il governo avesse perso il referendum che invece aveva vinto. Kouvela-kis ha scritto: “Com’è possibile che uno strabiliante no alle politiche di austerità dell’accordo sia interpretato come un semaforo verde per un nuovo accordo? Il sen-so dell’assurdo non è solo una conseguenza di questo imprevisto capovolgimento. Deriva soprattutto dal fatto che tutto ciò avviene sotto i nostri occhi come se il referendum fosse una sorta di allucinazione colletti-va che improvvisamente è inita, lasciandoci liberi di

continuare quello che stavamo facendo prima. Ma facciamo almeno un breve riepilogo di quello che è successo in quei giorni. Lunedì 6 luglio mattina, ancora prima che le grida di vittoria sulle piazze del paese si fossero completamente spente, è cominciato il teatro dell’assur-do. L’opinione pubblica, ancora frastor-nata dall’euforia della domenica, vede i rappresentanti del 61 per cento che, su-bito dopo una clamorosa vittoria, si sot-tomettono al 38 per cento. Ma il referen-dum c’è stato. Non è un’allucinazione da

cui tutti ormai si sono ripresi. Al contrario, l’allucina-zione è il tentativo di svilirlo a uno sfogo temporaneo prima di riprendere la strada in discesa verso un terzo accordo”.

Le cose sono andate avanti proprio così. La notte del 10 luglio, il parlamento greco ha dato ad Alexis Tsipras il mandato di negoziare un nuovo salvataggio con 250 voti a favore contro 32, ma 17 parlamentari di Syriza, il suo partito, non hanno approvato il piano. Qualche giorno dopo la segreteria politica di Syriza, dominata dalla sinistra interna, ha concluso che le ulti-me proposte dell’Unione sono “assurde” e “superano i limiti della capacità di sopportazione della società gre-ca”. Estremismo di sinistra? Ma lo stesso Fondo mone-tario internazionale (che in questo caso è la voce di un capitalismo minimamente razionale) ha sostenuto esattamente la stessa tesi: uno studio dell’Fmi pubbli-cato il giorno prima indicava che la Grecia ha bisogno di un alleggerimento del debito molto superiore a quel-lo che i governi europei sono stati disposti a prendere in considerazione inora. L’Europa dovrebbe concedere alla Grecia una moratoria di trent’anni sugli interessi di tutti i suoi debiti europei, nuovi prestiti compresi, e un’ampia proroga delle scadenze issate per i rimborsi. Non stupisce che lo stesso Tsipras abbia pubblicamen-te dichiarato i suoi dubbi sul piano di salvataggio: “Non

SLAVOJ ŽIŽEK

è un ilosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’islam e la modernità. Rilessioni blasfeme (Ponte alle grazie 2015). Questo articolo è uscito sul New Statesman con il titolo The courage of hopelessness.

Slavoj Žižek

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Storie vere

Darren Millar, ministro ombra della sanità del Galles, ha chiesto al governo se intende inanziare delle indagini sull’avvistamento di ufo all’aeroporto di Cardif. La risposta del governo è stata “jang vIDa je due luq. ‘ach ghotvam’e’ QI’yaH devolve qaS”. Non è una frase in gallese: la comunicazione del governo è stata scritta in klingonese, la lingua parlata da una razza aliena di Star

trek. La traduzione è: “Il ministro risponderà tra breve, ma la questione non è di competenza del governo locale”. “Ho sempre sospettato che i ministri laburisti vivessero su un altro pianeta”, ha risposto Millar. “Questa risposta è la conferma”.

crediamo nelle misure che ci sono state imposte”, ha detto in un’intervista televisiva, chiarendo che le so-stiene per pura disperazione, per evitare un tracollo economico e inanziario. Gli eurocrati usano queste confessioni con consumata peridia e, ora che il gover-no greco ha accettato le loro dure condizioni, mettono in dubbio la sincerità e la serietà del suo impegno: co-me può Tsipras lottare ino in fondo per un programma in cui non crede? Com’è possibile che il governo greco sia impegnato davvero a rispettare un accordo che con-traddice l’esito del referendum? Quelle afermazioni dell’Fmi dimostrano però che il vero dubbio è un altro: l’Unione europea crede davvero nel suo programma di salvataggio? Crede davvero che quelle misure imposte con tanta brutalità rimettano in moto la crescita econo-mica e quindi consentano il pagamento dei debiti? E se il motivo della feroce pressione estorsiva sulla Grecia non fosse solo economico, considerata la sua evidente irrazionalità in termini economici, ma politico-ideolo-gico? Per citare un intervento di Paul Krugman sul New York Times, “una resa sostanziale non è abbastanza per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e un’umiliazione totale, e c’è una parte consistente che vuole semplicemente cacciare la Grecia dall’euro e ve-drebbe quasi con favore uno stato fallito come monito per gli altri”. Bisognerebbe sempre tener presente qua-le orrore rappresenta Syriza per l’establishment euro-peo: un deputato conservatore polacco all’europarla-mento si è addirittura appellato all’esercito greco nella speranza di un colpo di stato che salvasse il paese.

Perché questo orrore? Ai greci ora si chiede di paga-re un prezzo altissimo, ma senza una prospettiva rea-listica di crescita. Devono aggravare le loro soferenze reali per sostenere il sogno degli eurocrati. Gilles De-leuze disse decenni fa: “Si vous êtes pris dans le rêve de l’autre, vous êtes foutus”, se siete intrappolati nel sogno dell’altro, siete fottuti. E questa è la situazione in cui si trova oggi la Grecia: non le si chiede di ingoiare molte pillole amare per un piano realistico di rilancio econo-mico, gli si chiede di sofrire perché gli altri possano continuare a coltivare indisturbati il loro sogno. Quella che si deve svegliare non è la Grecia, ma l’Europa. Chiunque non sia prigioniero di questo sogno sa bene cosa ci attende se verrà attuato il piano di salvataggio: nel paniere greco si getteranno un’altra novantina di miliardi, facendo salire il debito del paese intorno a quota quattrocento miliardi (e buona parte di questi miliardi torneranno presto all’Europa occidentale: il vero salvataggio è quello delle banche tedesche e fran-cesi, non della Grecia), e possiamo aspettarci che la stessa crisi riesploda tra un paio d’anni.

Ma questo esito è davvero un fallimento? Sul piano immediato, se si confrontano il piano e le sue conse-guenze efettive, la risposta ovviamente è sì. Ma a un livello più profondo, non si può sfuggire al sospetto che il vero obiettivo non sia dare un’opportunità alla Grecia ma trasformarla in un semistato economicamente co-lonizzato e tenuto in condizioni di povertà e dipenden-za permanenti come monito per gli altri. E a un livello ancora più profondo c’è un altro fallimento, non della Grecia ma della stessa Europa, del nucleo emancipato-

re dell’idea di Europa. Il no del referendum è stato sen-za dubbio un grande atto etico-politico: contro una propaganda nemica ben coordinata che difondeva paure e menzogne, senza una prospettiva chiara di co-sa l’attendeva, contro ogni calcolo pragmatico e reali-stico, il popolo ellenico ha eroicamente rifiutato la pressione brutale dell’Unione. Il no greco è stato un autentico gesto di libertà e di autonomia, ma la grande questione è, naturalmente, cosa succede il giorno do-po, quando dall’estatica negazione dobbiamo tornare alle sporche pratiche di ogni giorno. Qui è emersa un’altra unità, quella delle forze “pragmatiche” (Syriza e i grandi partiti di opposizione) contro Alba dorata e la sinistra di Syriza. Questo signiica forse che Syriza ha combattuto invano, che il no al referendum è stato solo un vuoto gesto sentimentale destinato a rendere più palpabile la capitolazione?

La cosa veramente catastroica della crisi greca è che nel momento in cui la scelta è apparsa come quella tra l’uscita dall’eu-ro e la capitolazione a Bruxelles la batta-glia era già perduta. Entrambi i termini di questa scelta si muovono all’interno

della visione eurocratica dominante (ricordate che i falchi tedeschi antigreci come Wolfgang Schäuble pre-feriscono la Grexit!). Il governo Syriza non stava lottan-do solo per un maggiore alleggerimento del debito e per altri soldi, ma per il risveglio dell’Europa dal suo sonno dogmatico.

L’autentica grandezza di Syriza è qui: l’immagine simbolo del malcontento popolare erano le proteste di piazza Syntagma, e Syriza si è impegnata in una fatica erculea per attuare il passaggio da sintagma a paradig-ma, nel lungo e paziente lavoro di tradurre l’energia della ribellione in misure concrete che potessero cam-biare la vita quotidiana della gente. Dobbiamo essere molto chiari: il no del referendum greco non era un no all’austerità nel senso dei sacriici necessari e del duro lavoro, ma un no al sogno dell’Unione di continuare per la sua strada. Quando era ministro dell’economia Yanis Varoufakis ha più volte chiarito il suo obiettivo: non più prestiti, ma una ristrutturazione generale ne-cessaria per dare all’economia greca una possibilità di riprendersi. Il primo passo in questa direzione dovreb-be essere una maggiore trasparenza democratica dei meccanismi di potere. I nostri apparati statali demo-craticamente eletti vengono sempre più spesso dupli-cati da una itta rete di accordi e di organismi esperti e non eletti che esercitano il vero potere economico (e militare).

Ecco il racconto di Varoufakis su un momento par-ticolarmente signiicativo delle sue trattative con Jero-en Dijsselbloem: “C’è stato un momento in cui il presi-dente dell’eurogruppo ha deciso di procedere contro di noi e di fatto ci ha chiusi fuori, facendo sapere che la Grecia sostanzialmente stava uscendo dalla zona euro. La convenzione vuole che i comunicati siano approvati all’unanimità, e il presidente non può semplicemente convocare una riunione dell’eurozona escludendo uno stato membro. Ma lui ha detto: ‘Sono sicuro di poterlo

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fare’. Io ho chiesto un parere legale, cosa che ha creato un po’ di confusione. La riunione si è bloccata per una decina di minuti. Impiegati e funzionari parlavano tra di loro al telefono, e alla ine un funzionario, un esperto di diritto, si è rivolto a me dicendo le seguenti parole: ‘L’eurogruppo legalmente non esiste, non esiste un trattato che abbia istituito questo gruppo’. Quindi c’è un gruppo inesistente che ha un potere assoluto sulla vita degli europei. Dato che per legge non esiste, non deve rendere conto a nessuno, non è tenuto a stendere verbali, tutto si svolge in modo conidenziale. Nessun cittadino può sapere cosa si dice al suo interno. Le de-cisioni che prende sono quasi di vita o di morte, e nes-suno dei suoi membri deve renderne conto”.

Suona vagamente familiare? Sì, a chiunque sappia come funziona oggi il potere cinese, da quando Deng Xiaoping ha introdotto un doppio sistema, unico nel suo genere: l’apparato statale e il sistema legale sono duplicati dalle istituzioni del partito, che sono letteral-mente illegali. He Weifang, un professore di diritto di Pechino, lo ha riassunto così: “Come organizzazione, il partito è al di fuori e al di sopra della legge. Dovrebbe avere una personalità giuridica, cioè una persona da citare in giudizio, ma non è neppure registrato come associazione. Il partito esiste totalmente al di fuori del sistema giuridico”.

È come se, per usare le parole di Richard McGregor, la violenza fondatrice dello stato rimanesse presente, incarnata in un’organizzazione con uno stato giuridico indeinito: “Sembrerebbe diicile nascondere un’or-ganizzazione così grande, ma il Partito comunista cine-se coltiva con cura il proprio ruolo dietro le quinte. I grandi dipartimenti del partito che controllano il per-sonale e i mezzi di comunicazione mantengono delibe-ratamente un proilo pubblico basso. I comitati di par-tito (noti come ‘piccoli gruppi dirigenti’) che guidano e dettano la linea politica ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di attuarla, lavorano senza farsi vede-re. I mezzi d’informazione controllati dallo stato rara-mente alludono alla composizione, o all’esistenza, di tutti questi comitati, e tanto meno mettono in discus-sione il modo in cui arrivano alle decisioni”.

Non stupisce che quel che è successo a Varoufakis sia identico a quel che è toccato a un dissidente cinese che qualche anno fa portò formalmente in giudizio il Partito comunista cinese accusandolo del massacro di piazza Tiananmen. Dopo un paio di mesi, ricevette una risposta dal ministero della giustizia: non si poteva da-re seguito a questa accusa poiché in Cina non esiste un’organizzazione chiamata “Partito comunista cine-se” uicialmente registrata. Ed è essenziale notare che il risvolto di questa non-trasparenza del potere è il falso umanitarismo: dopo la sconitta greca c’è tempo, ov-viamente, per le preoccupazioni umanitarie. In un’in-tervista, Jean-Claude Juncker si è afrettato a dichiara-re di essere molto lieto per l’accordo sul salvataggio perché allevierà immediatamente le soferenze del po-polo greco che lo preoccupavano moltissimo. Lo sce-nario classico: dopo una repressione politica arrivano la sollecitudine e gli aiuti umanitari, come il rinvio del rimborso del debito.

Cosa bisogna fare in una situazione così disperata? Bisogna soprattutto resistere alla tentazione della Grexit come grande atto eroico per riiutare ulteriori umiliazioni e andarsene. Andare dove? In quale nuovo ordine positivo? A Krugman l’opzione della Grexit ap-pare come il “reale impossibile”, qualcosa che porte-rebbe a un’immediata disintegrazione sociale: “Tsipras evidentemente si è lasciato convincere, qualche tempo fa, che l’uscita dall’euro era completamente impossibi-le. Sembra che Syriza non abbia neppure preparato un piano di emergenza per una valuta parallela (spero di scoprire che non è vero). Questo lo ha lasciato in una posizione negoziale disperata”. La tesi di Krugman è che la Grexit può avere conseguenze imprevedibili e che, quindi, si può rischiare: “Tutti i sapientoni convin-ti che la Grexit sia impossibile, che porterebbe a una completa implosione, non sanno nemmeno di cosa par-lano. E con questo non voglio dire che abbiano necessa-riamente torto, io credo di sì, ma chiunque sia sicuro di qualcosa si fa delle illusioni. Quello che voglio dire in-vece è che nessuno ha esperienza di quello che potreb-be succedere”. In linea di principio tutto questo è vero, ma ci sono troppe indicazioni che una Grexit improvvi-sa oggi porterebbe a un’assoluta catastrofe economica e sociale. Gli strateghi economici di Syriza sono perfet-tamente consapevoli che una decisione simile provo-cherebbe immediatamente un’ulteriore caduta del te-nore di vita almeno del 30 per cento, portando la mise-ria a nuovi livelli intollerabili, con il rischio di disordini popolari e perino di una dittatura militare. La prospet-tiva di atti eroici di questa natura, quindi, è una tenta-zione a cui bisogna resistere. Poi ci sono gli appelli a Syriza perché torni alle sue radici: Syriza non dovrebbe diventare l’ennesimo partito parlamentare di governo, il vero cambiamento può venire solo dalla base, dalle persone, dalla loro capacità di autorganizzarsi, non da-gli apparati statali. Un’altra posizione vuota, perché evita il problema cruciale, che è come affrontare la pressione internazionale sul debito o, più in generale, come esercitare il potere e amministrare uno stato.

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L’autorganizzazione di base non può sostituire lo stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato statale per farlo funzionare in modo diverso.

Non basta dire che Syriza ha condotto una lotta eroica: la lotta continua, è appena cominciata. Invece di indugiare sulle “contraddizioni” della politica di Syriza e di restare intrappolati nelle recriminazioni re-ciproche su chi è il colpevole (la maggioranza di Syriza che ha opportunisticamente tradito il referendum? O la sinistra irresponsabile che preferiva la Grexit?), biso-gnerebbe concentrarsi su ciò che sta facendo il nemico: le contraddizioni di Syriza sono lo specchio delle con-traddizioni dell’establishment dell’Unione, che mina gradualmente le fondamenta stesse di un’Europa uni-ta. Ed ecco cosa dovrebbe fare ora Syriza. Con spietato pragmatismo e freddo calcolo dovrebbe sfruttare ogni minuscola crepa nella corazza dell’avversario. Dovreb-be usare tutti coloro che resistono alla politica europea, dai conservatori britannici all’Ukip. Dovrebbe civetta-re spudoratamente con la Russia e la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia per farne una base militare nel Mediterraneo, solo per spaventa-re a morte gli strateghi della Nato. Parafrasando Dosto-evskij, ora che il dio dell’Unione europea ha fallito, tutto è permesso.

Quando sentiamo dire che l’amministrazione euro-pea, nella sua cieca ossessione di umiliare e disciplina-re i greci, ignora brutalmente la sorte del popolo elleni-co, o che perino i paesi dell’Europa meridionale come l’Italia o la Spagna non hanno mostrato nessuna solida-rietà con la Grecia, la nostra reazione dovrebbe essere: c’è da stupirsi? Cosa si aspettavano? Che per magia l’amministrazione di Bruxelles comprendesse le argo-mentazioni di Syriza e agisse di conseguenza? L’Unio-ne sta semplicemente facendo quello che ha sempre fatto. Poi c’è chi accusa la Grecia di cercare aiuto dalla Russia e dalla Cina, come se non fosse l’Europa stessa a spingere il paese in quella direzione con le sue pres-sioni umilianti.

Inine c’è la tesi secondo cui fenomeni come Syriza

dimostrano che la tradizionale dicotomia destra-sini-stra è ormai superata. Syriza in Grecia viene deinita estrema sinistra, e Marine Le Pen in Francia estrema destra, eppure questi due partiti di fatto hanno in co-mune una caratteristica fondamentale: lottano per la sovranità statale e contro le multinazionali. È perfetta-mente logico, quindi, che in Grecia Syriza sia in coali-zione con un piccolo partito di destra. Il 22 aprile 2015 François Hollande ha detto in tv che Marine Le Pen og-gi somiglia a Georges Marchais, il segretario del Partito comunista francese negli anni settanta – la stessa dife-sa patriottica dei cittadini francesi sfruttati dal capitale internazionale – e che non stupisce che sostenga Syri-za. Una tesi bizzarra che non dice molto di più del vec-chio luogo comune liberal secondo cui il fascismo è anche una sorta di socialismo. Ma appena introducia-mo nel quadro il tema degli immigrati, l’intero paralle-lismo va in frantumi.

Il nocciolo del problema è molto più basilare. Nella sinistra contemporanea si ripete sempre la stessa storia: un leader o un partito eletti nell’entusiasmo universale e con la promessa di un mondo nuovo (Mandela, Lula), prima o poi, di solito dopo un paio d’anni, inciampano nel dilemma cruciale: dobbiamo azzardarci a toccare i meccanismi capitalistici, o è me-glio decidere di stare al gioco? Se si disturbano i mec-canismi, si viene rapidamente puniti dalle perturba-zioni del mercato, dal caos economico e da tutto il re-sto. L’eroismo di Syriza sta nel fatto che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo avanti per disturbare l’oliato funzionamento del capitale. La lezione della crisi greca è che il capitale, per quanto in deinitiva sia una fantasia simbolica, è il nostro reale. Le proteste e le rivolte di oggi sono soste-nute dalla fusione (sovrapposizione) di diversi livelli, e questa fusione ne spiega la forza: combattono per la democrazia (quella parlamentare “normale”) contro i regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, so-prattutto contro l’odio per gli immigrati e i rifugiati; per lo stato sociale contro il neoliberismo; contro la corru-zione in politica e in economia (le aziende che inquina-no l’ambiente e via dicendo); per nuove forme di de-mocrazia che vadano oltre i riti del multipartitismo; e inine mettono in questione il sistema capitalistico glo-bale in quanto tale e cercano di tenere viva l’idea di una società non capitalistica. Qui bisogna evitare entram-be le trappole: il falso radicalismo (“quello che conta davvero è l’abolizione del capitalismo liberalparla-mentare, tutte le altre sono battaglie secondarie”), così come il falso gradualismo (“adesso combattiamo contro la dittatura militare e per la semplice democra-zia, dimenticate i sogni socialisti, ci penseremo dopo, forse”). Quando abbiamo a che fare con una lotta spe-ciica, la questione centrale è: questo impegno (o que-sto disimpegno) come inluenzerà le altre lotte? La re-gola generale è che quando comincia una rivolta con-tro un regime oppressivo semidemocratico, come in Medio Oriente nel 2011, è facile mobilitare vaste folle con slogan accattivanti, tipo “per la democrazia contro la corruzione”. Poi ci avviciniamo a scelte più diicili: quando la nostra rivolta raggiunge il suo obiettivo im-

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 89

Ha già superato otto milioni di ir-me la petizione #UpForSchool. Lanciata da grandi organizzazioni educative non governative come A world at school e Plan interna-cional, è sostenuta da Gordon Brown, inviato speciale dell’Onu per l’educazione. Il risultato della raccolta di irme è stato annunzia-to durante la conferenza interna-zionale Educazione per lo svilup-po, ospitata a Oslo dal governo della Norvegia. La petizione è molto semplice: “Noi, giovani, in-segnanti, genitori, cittadine e cit-

tadini di tutti i paesi ci rivolgiamo ai nostri governanti perché man-tengano la promessa, da loro fatta all’Onu nel 2000, di assicurare entro il 2015 a ogni bambino e bambina di andare a scuola e rea-lizzare il suo diritto all’educazione superando gli ostacoli che impedi-scono di sprigionare attraverso la scuola il suo potenziale”.

L’obiettivo è lontano. Børge Brende, ministro degli esteri, ha annunziato che la Norvegia rad-doppierà la somma destinata alle scuole di paesi poveri. Ma tra il

2010 e il 2015 i fondi degli altri sta-ti sono diminuiti. Oslo propone di creare una commissione interna-zionale presieduta da Gordon Brown per reperire fondi ordinari e, distinti da questi, fondi per le emergenze straordinarie che oggi vivono Nepal, profughi siriani, pa-esi centroafricani. Spendiamo per difesa, cibo, salute, ma quasi nien-te in istruzione. La Norvegia ha ottenuto un summit dell’Onu in settembre per correggere questa cecità grave oggi e per il futuro di milioni di bambine e bambini. u

Scuole Tullio De Mauro

Finanziatori unitevi

mediato ci rendiamo conto che quello che detestava-mo realmente (la nostra mancanza di libertà, l’umilia-zione, la corruzione sociale, l’assenza di prospettive per una vita decente) continua in forma diversa. In Egitto, i dimostranti sono riusciti a sbarazzarsi del re-gime di Mubarak, ma la corruzione è rimasta, e la pro-spettiva di una vita decente si è ulteriormente allonta-nata. Dopo il rovesciamento di un regime autoritario, le ultime tracce di attenzione per il sostegno ai poveri possono svanire, tanto che la libertà appena conqui-stata si riduce di fatto alla libertà di scegliere la propria forma di miseria preferita. La maggioranza non solo resta povera, ma – per aggiungere al danno la befa – si sente ripetere che, poiché è inalmente libera, la mise-ria è una responsabilità sua. In una situazione del ge-nere dobbiamo ammettere che c’era un errore nel no-stro stesso obiettivo, che questo obiettivo non era ab-bastanza preciso, che la democrazia politica classica può anche costituire la forma stessa della illibertà: la libertà politica può facilmente fornire il quadro giuri-dico per la schiavitù economica, con i più bisognosi che si vendono “liberamente” come schiavi. E così ar-riviamo a chiedere di più della semplice democrazia politica: la democratizzazione va estesa anche alla vita sociale ed economica. In breve, dobbiamo ammettere che quella che in un primo momento abbiamo consi-derato incapacità di realizzare compiutamente un no-bile principio (la libertà democratica) è un’incapacità insita in questo stesso principio: imparare questo pas-saggio dalla distorsione di un’idea – la sua realizzazio-ne incompleta – alla distorsione implicita nell’idea stessa è la grande svolta della pedagogia politica.

L’ideologia dominante mobilita tutto il suo arsenale per impedirci di raggiungere questa conclusione radi-cale. Cominciano a dirci che la libertà democratica comporta una responsabilità, che ha un prezzo, che se ci aspettiamo troppo dalla democrazia non siamo anco-ra maturi. In questo modo, danno a noi la colpa del no-

stro fallimento: in una società libera, ci dicono, siamo tutti capitalisti che investono nella propria vita, deci-dendo per esempio di dare più importanza all’istruzio-ne che al divertimento se vogliamo avere successo. A un livello più direttamente politico, gli Stati Uniti hanno elaborato una strategia dettagliata su come controllare i danni imbrigliando una sollevazione popolare entro limiti capitalistici-parlamentari accettabili: è stato fatto con successo in Sudafrica dopo la caduta dell’apar-theid, nelle Filippine dopo la caduta di Marcos, in Indo-nesia dopo la caduta di Suharto. Proprio in questo con-testo la politica emancipatrice radicale afronta la sua sida più impegnativa: trovare il modo di procedere quando la prima fase di entusiasmo si è conclusa, come fare un passo avanti senza soccombere alla catastrofe della tentazione totalitaria. Insomma, come andare oltre Mandela senza diventare Mugabe.

È qui che il coraggio della disperazione diventa fon-damentale. u gc

Sahara

Mammelle di sabbia

Che portano le carezze

Delle carovane

Sahara

Mammelle di sabbia

Che avvolgono

Il tepore delle notti

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Armand Balima

Poesia

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ARMAND BALIMA

è un poeta e regista burkinabé. Questa poesia, tratta dalla raccolta del 1979 Voiles marines, è ripresa nell’antologia a cura di Amadou Lamine Sall Poèmes d’Afrique pour les enfants (Le Cherche midi, 2004). Traduzione di Francesca Spinelli.

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Scienza

90 Internazionale 1112 | 24 luglio 2014

è l’ora di pranzo alla base militare Andersen, che occupa quasi un ter-zo dell’isola tropicale di Guam, nel Paciico nordoccidentale. Gli Stati

Uniti controllano questo territorio dalla i-ne dell’ottocento, fatta eccezione per un breve periodo durante la seconda guerra mondiale, quando fu conquistato dai giap-ponesi.

Dopo aver terminato il pranzo, i dipen-denti chamorro, i cui antenati di origine asiatica furono i primi a popolare l’isola, ri-cominciano a lavorare. Devono farcire cen-tinaia di topolini bianchi congelati con compresse di paracetamolo. L’obiettivo di questa insolita procedura è lottare contro un animale che da qualche decennio ha in-vaso l’isola: il serpente arboreo bruno (Boi-ga irregularis), un costrittore il cui veleno non rappresenta un pericolo per un adulto

in buona salute, ma che con il suo appetito mette a rischio la biodiversità di Guam, do-ve non ha alcun predatore naturale. Proba-bilmente è stato introdotto per sbaglio ver-so la ine degli anni quaranta con un cargo proveniente dalle isole Salomone o dalla Papua Nuova Guinea. Questo serpente dal-le scaglie marroni e il ventre giallastro può raggiungere i due metri di lunghezza e ha già annientato dieci delle tredici specie en-demiche di uccelli, tre specie endemiche di lucertole e diversi tipi di pipistrelli.

Nei boschi cedui di Guam regna il silen-zio. Non ci sono quasi più uccelli: il serpen-te, che vive sugli alberi, ha divorato da tem-po tutte le uova lasciate nei nidi dalle madri, ignare del predatore. Poi si è avventato sulle lucertole e sui piccoli roditori, ma la nuova dieta non ha compromesso la sua salute: oggi ci sono almeno due milioni di esem-plari di serpente arboreo bruno su un terri-torio lungo 48 chilometri e largo 14, dove vivono 175mila persone. Il ko’ko (il rallo di Guam), uccello simbolo dell’isola, è stato salvato in extremis trasferendolo nella ri-serva delle isole Cocos.

Anche se non si vedono mai di giorno e raramente di notte, i serpenti sono ovun-que: si arrotolano ai cavi elettrici provocan-

do frequenti corto circuiti. Attaccano il pol-lame e i piccoli animali domestici. Se le porte non sono chiuse bene e non ci sono grate alle tubature che danno sull’esterno, a volte entrano anche nelle case a caccia di cibo. Di sicuro tutto questo non favorisce il turismo, la principale risorsa economica di Guam insieme alla base statunitense.

Allergia da paracetamoloL’unica cosa che il serpente bruno non di-gerisce è il paracetamolo: gli provoca una violenta allergia. Una dose di 80 milligram-mi lo fa cadere in uno stato di letargia e nel giro di 36 ore lo fa morire, spiega Marc Hall, responsabile del programma di controllo dei serpenti bruni all’Aphis, l’agenzia statu-nitense per la protezione dalle malattie e dalle specie invasive, che dipende dal mini-stero dell’agricoltura (Usda).

Già da vent’anni l’Usda si occupa del problema dei serpenti bruni, diventato un caso di studio per tutti gli specialisti di bio-diversità. L’idea di usare una tossina è nata solo negli anni 2000, dopo una serie di ten-tativi falliti. Nel 2013, usando gli elicotteri, le autorità statunitensi hanno lanciato nei punti più infestati di Guam ventimila cada-veri di topo imbottiti di paracetamolo, mu-niti di piccoli paracadute di cartone per far sì che restassero appesi ai rami degli alberi invece di precipitare al suolo ed essere mangiati da altri animali, come i varani.

La valutazione di questo esperimento non è ancora conclusa, ma secondo Hall i primi risultati sono incoraggianti, e l’opera-zione dovrà essere ripetuta servendosi sta-volta di macchinari adatti a lanciare quanti-tà maggiori di topi. La sua squadra ha usato anche il vecchio metodo delle trappole con esca. “Con le trappole, catturiamo ogni an-no tra gli otto e i diecimila serpenti bruni”, spiega Hall. Non è molto, ma serve a limita-re i danni e soprattutto a proteggere gli ae-rei. I serpenti infatti si inilano dappertutto: una decina di esemplari è stata trovata alle Hawaii, a 6.400 chilometri di distanza, do-ve non ci sono rettili. E altri esemplari in Alaska, dove però sono atterrati congelati.

Come se non bastasse, il traico milita-re sull’isola di Guam aumenterà, perché gli Stati Uniti hanno deciso di trasferire una parte delle truppe di stanza a Okinawa, in Giappone, verso le isole delle Marianne, al centro delle quali c’è Guam. La zona, al lar-go della Cina e della Corea del Nord, è con-siderata un punto strategico per l’aviazione statunitense. u sdf

Un serpente arboreo bruno

L’isola di Guam invasa da due milioni di serpenti

Introdotto per sbaglio verso la ine degli anni quaranta, il serpente bruno ha distrutto la biodiversità della piccola isola del Paciico, divorando uccelli, lucertole e pipistrelli

Joëlle Stolz, Le Monde, Francia

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IN BREVE

Astronomia Philae, il robot dell’Esa atterrato sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, ha interrotto le comunicazioni dal 9 luglio. La sonda Rosetta ha sorvolato la cometa a bassa quo-ta per comunicare meglio, ma è stata allontanata a causa della troppa polvere. La cometa si sta avvicinando al Sole e la sua atti-vità, compresa l’emissione di materiale, si sta intensiicando.Fisica È stato osservato per la prima volta al Large hadron collider del Cern di Ginevra un nuovo tipo di particella, il pen-taquark, composto da quattro quark e un antiquark. Il penta-quark, scrive Physical Review Letters, dovrebbe permettere di capire il comportamento del-la materia ordinaria, i protoni e i neutroni.

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MEDICINA

Remissione da hivUna francese di 19 anni, nata sieropositiva, non mostra se-gnali dell’infezione anche se ha interrotto qualsiasi terapia da dodici anni. nel suo sangue il vi-rus hiv non è rilevabile. aveva assunto il farmaco azt appena nata e in seguito gli antiretrovi-rali, poi interrotti. Il suo caso è stato presentato alla conferenza della International aids society in corso a Vancouver, in Cana-da. Secondo i ricercatori, la re-missione non si può considerare una guarigione e si ignora la possibile evoluzione del caso.

Biologia

L’asprezza della paura

Le grida di terrore usano un “canale riservato” dello spettro sonoro, cioè delle frequenze in genere inutilizzate quando si parla. In questo modo comunicano il pericolo in modo chiaro, universale e veloce. I ricercatori hanno analizzato le grida di terrore in alcuni video di YouTube e altre registrate in laboratorio con la

collaborazione di volontari. analizzando le caratteristiche isiche dei suoni, hanno scoperto che le urla sono caratterizzate da una qualità descritta come roughness (ruvidità, asprezza), che le rende sgradevoli all’ascolto. I suoni di questo tipo occupano le frequenze fra i 30 e i 150 hertz, considerate inora prive di valore comunicativo. La componente aspra è assente nelle conversazioni normali come nei canti a cappella, mentre è presente nei segnali di allarme naturali e artiiciali. Usando la risonanza magnetica, i ricercatori hanno scoperto che questa caratteristica delle grida attiva una regione cerebrale, l’amigdala, coinvolta nella percezione delle situazioni di pericolo. Per questo motivo le urla sono così eicaci nel comunicare il pericolo in modo inconfondibile, rapido ed evidente a chiunque. Gli altri suoni attivano invece la corteccia uditiva, un’altra parte del cervello, scrive Current Biology. u

Current Biology, Stati Uniti

Letargo estivoGli orsi bianchi della costa settentrionale dell’alaska e della banchi-sa del mare di Beaufort hanno diicoltà ad afrontare i periodi di di-giuno estivo, sempre più lunghi a causa dell’aumento globale delle temperature. Uno studio mostra che in estate gli animali, a causa del diradamento delle loro prede preferite, le foche, consumano molte riserve energetiche. Si è infatti scoperto che gli orsi bianchi entrano in una forma di letargo estivo, caratterizzato dall’abbassamento del-la temperatura corporea e del livello di attività, scrive Science. u

Biologia

ASTRONOMIA

Monti e pianure di Plutone La sonda della nasa new hori-zons ha inviato nuove foto di Plutone e dei satelliti Caronte, notte e Idra. Su Plutone è stata osservata una vasta pianura di ghiaccio di monossido di carbo-nio, punteggiata da piccoli am-massi di materiale e buche, e percorsa da canali. Sul pianeta nano sono presenti anche alcuni crateri e catene di montagne di formazione forse recente. Dopo avere analizzato l’atmosfera ric-ca di azoto e molto estesa di Plu-tone, la new horizons ha prose-guito il suo viaggio nello spazio, esplorando la “coda” del piane-ta nano, una regione di gas io-nizzati, strappati al corpo cele-ste dal vento solare.

Adulti e bambini contagiati dall’hiv, stime 2013

Milioni

PALEONTOLOGIA

Il più grandedinosauro alato Zhenyuanlong suni è il più gran-de dinosauro pennuto con le ali mai trovato. Il suo scheletro, rinvenuto quasi completo in Ci-na, risale a 125 milioni di anni fa. Era lungo 1,65 metri e pesava venti chilogrammi. La stazza e le zampe corte, scrive Scienti-ic Reports, fanno ipotizzare che non fosse in grado di vola-re. ali e penne avevano forse una funzione diversa dal volo, come attrarre il partner o pro-teggere le uova.

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u Questa foto della laguna Co-lorada, sulle Ande boliviane, è stata scattata dagli astronauti della Stazione spaziale interna-zionale. L’assenza di caligine in altitudine – questo lago salato si trova a 4.300 metri sul livello del mare – permette di ottenere immagini della zona particolar-mente nitide.

Il lago appare marrone-ros-sastro per via delle alghe che crescono nelle sue acque poco

profonde, ma a volte si tinge di verde grazie alla presenza di un altro tipo di piante. La varietà di alga, che cambia a seconda del periodo dell’anno, dipende dal-la variazione della salinità e dal-la temperatura. L’evaporazione rende infatti l’acqua più salata e i segni degli antichi litorali di-mostrano anche che un tempo il lago era più grande.

La laguna Colorada è il cuo-re di una riserva naturale che

nel 1990 è stata inclusa nell’elenco delle zone umide d’importanza internazionale tu-telate dalla convenzione di Ramsar. Ospita una nutrita po-polazione di fenicotteri.

Nella foto si vedono un vul-cano coperto di neve (in basso a sinistra) e le strade d’accesso al lago, percorse ogni anno dai molti turisti che vengono a visi-tare questo paesaggio lunare. –M. Justin Wilkinson (Nasa)

La laguna Colorada è lunga 10,7 chilometri e larga 9,6 e ha una supericie di 60 chilometri quadrati.

Il pianeta visto dallo spazio 16.04.2015

La laguna Colorada in Bolivia

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Il diario della Terra

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Economia e lavoro

Anovembre il McDonald’s di piazza Puškin a Mosca ha ria-perto dopo una chiusura di tre mesi imposta dagli ispettori sa-

nitari. A molti è sembrata una ritorsione contro le sanzioni occidentali per il conlit-to in Ucraina. Il fast food era un bersaglio prevedibile. Quando è stato inaugurato, nel 1990, simboleggiava il trionfo del capitali-smo statunitense sull’Unione Sovietica. Oggi, invece, rispecchia un’altra vittoria economica degli Stati Uniti: la ripresa del dollaro. In base all’indice Big Mac dell’Eco-nomist, solo quattro monete risultano più economiche del dollaro, e tra queste il rublo è la più economica di tutte.

L’indice si basa sul concetto della parità di potere d’acquisto, secondo cui i tassi di cambio dovrebbero orientarsi verso un li-vello tale che il prezzo di un paniere di mer-ci diventi identico in tutti i paesi. Il paniere dell’Economist contiene un solo prodotto: un panino Big Mac. Se al cambio con la mo-neta statunitense il costo di un Big Mac in un determinato paese supera i 4,79 dollari (il prezzo negli Stati Uniti), la moneta è ca-ra, mentre se costa meno è economica. A Mosca un Big Mac costa 107 rubli, cioè 1,88 dollari secondo il tasso attuale. Il rublo, quindi, è sottovalutato del 61 per cento.

La parità del potere d’acquisto, in realtà, si realizza solo nel lungo periodo. A breve termine le monete si allontanano dal giusto valore a causa dei lussi di capitali interna-zionali, che a loro volta sono inluenzati da tendenze più generali dell’economia globa-le. Una di queste è la ripresa del dollaro. Questa tendenza è cominciata nel maggio del 2013, quando Ben Bernanke, allora pre-sidente della Federal reserve (Fed, la banca

centrale statunitense), ha lasciato intende-re che l’acquisto di titoli da parte della stes-sa Fed (il cosiddetto alleggerimento quanti-tativo) avrebbe potuto rallentare. La pro-spettiva di un aumento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti ha prodotto una fuga dalle monete dei mercati emergenti. Intanto le cose cambiavano anche in altri paesi ricchi. Il valore dello yen è inferiore del 38 per cen-to a quello che sarebbe giusto in base all’in-dice del Big Mac, soprattutto a causa dei piani di alleggerimento quantitativo della banca centrale giapponese. Anche la Banca centrale europea ha deciso di ricorrere all’acquisto di titoli, e da allora l’euro è pre-cipitato da 1,30 a 1,05 dollari e ora è sottova-lutato del 15 per cento.

Il 15 luglio la moneta statunitense si è ulteriormente apprezzata rispetto all’euro e allo yen dopo che Janet Yellen, la nuova pre-sidente della Fed, ha detto che verso la ine del 2015 i tassi d’interesse potrebbero au-

mentare. Yellen ha poi aggiunto che questo aumento sarà graduale. Probabilmente la cautela della Fed eviterà che il dollaro con-tinui ad acquistare valore. Secondo gli ana-listi della Morgan Stanley, in Giappone il surplus commerciale è spinto verso l’alto dall’aumento dei redditi derivanti dalle enormi riserve di titoli esteri del paese. Il surplus commerciale dell’eurozona rappre-senta un baluardo simile contro un ulteriore deprezzamento.

Esportatori penalizzatiPer le monete dei mercati emergenti il prez-zo ridotto del Big Mac non è necessaria-mente un segno di un apprezzamento im-minente. Il motivo è che è inluenzato an-che da elementi come gli aitti e i salari, che in genere sono più bassi nei paesi poveri. Non tutti i mercati emergenti, però, sono uguali. I paesi che di recente hanno regi-strato una maggiore svalutazione della loro moneta sono i produttori di materie prime. In efetti il fatto che la fame di materie pri-me della Cina stia diminuendo ha colpito gli esportatori. Il prezzo del greggio e di al-cune materie prime industriali come il mi-nerale di ferro è di nuovo in calo. La conse-guenza sono i tagli agli investimenti e un indebolimento del pil. Anche i debiti accu-mulati per inanziare miniere e pozzi petro-liferi sono più gravosi.

Il Brasile è un grande esportatore di ma-terie prime e il real sembra sopravvalutato rispetto a monete simili, ma gli alti tassi d’interesse del paese rendono costose le vendite al ribasso della moneta da parte de-gli speculatori e attirano gli investitori in cerca di rendite consistenti. Il ringgit male-se, invece, è secondo solo al rublo per valo-re, ma George Papamarkakis, dell’hedge fund North Asset Management, ritiene pro-babile che diventi ancora più economico a causa della sua dipendenza dalle materie prime e anche per il fatto che molti volubili investitori stranieri detengono obbligazioni malesi. Il dollaro canadese si attesta nei pressi del suo giusto valore, ma dovrebbe essere meno costoso. La crisi delle sabbie bituminose è solo uno dei problemi che il 15 luglio hanno spinto la banca centrale a ri-durre i tassi d’interesse allo 0,5 per cento.

Alla ine le monete pesantemente svalu-tate saranno a buon mercato e attireranno compratori, perino quelle trascurate dagli investitori, come il rand sudafricano e il ru-blo russo. Chi può resistere a uno sconto del 60 per cento? u fp

Il Big Mac più economicosi trova a Mosca

Secondo l’indice dell’Economist che misura il valore delle monete partendo dal panino di McDonald’s, il rublo russo è la moneta più svalutata rispetto al dollaro statunitense

The Economist, Regno Unito

Da sapere Alti e bassiIndice Big Mac. Monete sottovalutate o sopravvalutate rispetto al dollaro, %

*Al cambio del 15 luglio 2015. Fonte: The Economist

Prezzo del Big Mac*, in dollari

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Norvegia

Stati Uniti

Canada

Regno Unito

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Internazionale 1112 | 24 luglio 2015 95

brics

Una banca per lo sviluppo Il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica – il gruppo di economie emergenti noto come Brics – hanno lanciato a Shanghai la New Development Bank, un istituto creato per i-nanziare progetti infrastruttura-li nei paesi in via di sviluppo. Come scrive la Bbc, “la banca è un’alternativa alla Banca mon-diale (Bm) e al Fondo monetario internazionale (Fmi). Negli ulti-mi anni, infatti, i Brics hanno più volte accusato la Bm e l’Fmi di non assegnare abbastanza pe-so ai paesi in via di sviluppo”. Proposta inizialmente nel 2012, la New Development Bank do-vrebbe cominciare a prestare soldi l’anno prossimo, partendo da un capitale di cinquanta mi-liardi di dollari, che dovrebbe raddoppiare negli anni seguenti. Il principale azionista dell’istitu-to è la Cina, che è a capo di un altro progetto simile, la creazio-ne dell’Asian Infrastructure De-velopment Bank.

regno Unito

Financial times in vendita Secondo l’agenzia di notizie statunitense Bloomberg, “la casa editrice Pearson sta pen-sando di vendere il prestigioso quotidiano inanziario Finan-cial Times dopo aver ricevuto dei segnali d’interesse da parte di potenziali acquirenti”. L’afa-re potrebbe raggiungere il valo-re di 1,6 miliardi di dollari. “Non è ancora in corso nessuna trattativa formale”, aggiunge Bloomberg, “ma il Financial Ti-mes ha attirato l’attenzione dell’editore tedesco Axel Spring e di altri investitori europei, asiatici e mediorientali”. L’eventuale vendita sarebbe le-gata alla diicoltà della sezione istruzione del gruppo Pearson, di cui fa parte il quotidiano. F

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globalizzazione

i poveri danno ai ricchi I soldi che dai paesi ricchi vanno a quelli poveri sono meno dei capitali che fanno il percorso in-verso. A questa conclusione, scrive Die Tageszeitung, è ar-rivato uno studio dell’ong belga european network on debt and development (eurodad), “che è stato realizzato sulla base di dati uiciali, come quelli delle Na-zioni unite, della Banca mon-diale e dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici”. Secondo eurodad negli ultimi sette anni i paesi po-veri hanno perso più di due dol-lari per ogni dollaro ricevuto. Nel 2012 dai paesi poveri sono usciti, legalmente e illegalmen-te, duemila miliardi di dollari, che sono initi nei paesi ricchi. A loro volta le nazioni industrializ-zate hanno mandato a quelle in via di sviluppo aiuti, investi-menti e rimesse degli emigrati per mille miliardi di dollari. I soldi usciti dai paesi poveri com-prendono capitali frutto di atti-vità illegali (630 miliardi), i pro-itti di investitori stranieri (500 miliardi) e il pagamento di debi-ti (circa mille miliardi).

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conti truccatiIl 21 luglio Hisao Tanaka (al centro nella foto), l’amministratore dele-gato della Toshiba, si è dimesso in seguito a uno scandalo. Come spiega il Guardian, l’azienda ha truccato i bilanci degli ultimi anni per goniare i suoi proitti. Le dimissioni di Tanaka sono arrivate do-po che il ministro delle inanze giapponese, Taro Aso, ha detto che lo scandalo rischiava di minare la iducia dei mercati nel paese.

germania

“Il settore assicurativo si sforza di sottolineare la sua aidabilità, per esempio con slogan pubblicitari come ‘un solido partner al tuo ianco’ o ‘Sicurezza in ogni aspetto della vita’”, scrive Der Spiegel. “Le compagnie assicurative si presentano come amici pronti ad aiutarti in caso di emergenze, incendi, furti, guasti e

malattie. Ma quando gli assicurati si trovano davvero in diicoltà, l’aiuto promesso viene ritardato o negato. entrano in gioco perino l’indignazione e l’intimidazione, e i clienti che non vogliono accontentarsi di promesse vane devono essere furbi e trovarsi un buon avvocato che conosca la materia”. In Germania le associazioni dei consumatori protestano da tempo perché “le assicurazioni sfruttano il loro potere per cercare di non pagare. Ma inora le azioni di queste associazioni non hanno prodotto efetti”. In un’indagine condotta su 1.250 avvocati, il 70 per cento del campione ha dichiarato che la situazione dei risarcimenti assicurativi è peggiorata negli ultimi cinque anni. ◆

Der Spiegel, Germania

assicurazioni inaidabili

giappone

Flussi di capitali nei paesi in via di sviluppo, % sul pil, 2008-2011

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Pagamento dei debiti

Proitti delle aziende straniere

Attività illegali

Prestiti

Flussi in entrata

Rimesse degli emigrati Donazioni

Altri

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96 Internazionale 1112 | 24 luglio 2015

Strisce

l’ombelico del mondo è vicino!

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Capitano... Cosa c’è lì?

si sarà formata della lanugine!

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L’oroscopo

Rob Brezsny

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sembra un ottimo modo di riassu-mere la prova più stimolante che ti aspetta nelle prossime settimane, Vergine. Sei pronta a raccogliere la sida? Se lo sei, cimentati con la tua ferita più profonda. Sforzati in ogni modo di guarirla ma al tempo stes-so usala come stimolo. E, contem-poraneamente, individua la tua su-blime speranza e compi un passo decisivo per realizzarla.

BILANCIA

L’attrice e musicista Carrie Brownstein è nata con cin-

que pianeti in Bilancia. Qualsiasi astrologo la deinirebbe equilibra-ta, attenta ai bisogni degli altri e facilmente adattabile ai continui cambiamenti della vita. Ma di re-cente l’artista ha detto: “Non so veramente cosa fare quando la mia vita non è caotica”. Come interpre-tare questa frase? Ho il sospetto che nella sua attuale afannosa ri-cerca del caos, Brownstein stia im-parando a diventare un’intenditri-ce dell’eleganza e dell’armonia e stia cominciando a capire quanto è complicato essere equilibrata e at-tenta ai bisogni degli altri, emozio-narsi davanti alla bellezza e adat-tarsi al cambiamento. Mi sembra-va importante che tu lo sapessi.

SCORPIONE

Stai entrando in una fase instabile del tuo ciclo astra-

le. Nelle prossime settimane po-tresti diventare un mostro sedu-cente che si lascia alle spalle una gran confusione. Ma potresti an-che attivare tutte le potenzialità della tua intelligenza animale per rendere più interessante e intenso tutto quello che tocchi. Natural-mente, io tifo per la seconda pos-sibilità. Ti svelo un segreto: per essere sicuro che si realizzi, sfor-zati di controllare il tuo lato oscu-ro con la stessa determinazione che riservi a quello che succede nel tuo mondo.

SAGITTARIO

Sono un grande sostenitore dell’atteggiamento che po-

trebbe essere riassunto nella frase “Sii qui ora”. Il mondo somiglie-rebbe più a un rifugio sicuro che a un campo di battaglia se tutti si concentrassero sul momento at-

tuale invece che sui ricordi del pas-sato e le fantasie del futuro. Ma in conformità con i presagi astrali, ti esento provvisoriamente da que-sto imperativo. Hai la licenza poe-tica di sognare e progettare come vorresti che fosse la tua vita futura. La tua parola magica è “domani”.

CAPRICORNO

Un ilantropo aveva oferto centomila dollari alle scout

della Western Washington, ma aveva posto come condizione che quei soldi non fossero usati per aiutare giovani transessuali. Le scout hanno respinto l’oferta, di-chiarando che intendono aiutare tutte le ragazze, indipendente-mente dalla loro “identità di gene-re”. Sei coraggioso come loro, Ca-pricorno? Riiuteresti un regalo che va contro i tuoi princìpi? Presto potresti essere messo alla prova. Ho il sospetto che restando fedele ai tuoi valori, anche se ti costa, alla ine attirerai una benedizione al-trettanto preziosa che non ti co-stringerà a tradirli.

ACQUARIO

Considera la possibilità di aprire la mente, almeno per

un breve periodo, alle stimolanti inluenze che inora hai tenuto lontane. Anche se ti creano dei problemi, potresti aver bisogno di riscoprire potenziali risorse alle quali hai opposto resistenza o che hai ignorato. Non sto dicendo che le dovresti accogliere a braccia aperte. Forse hai ancora qualche buon motivo per tenerle a distan-za. Ma penso che per te sarebbe saggio e salutare rivedere il tuo rapporto con loro.

PESCI

In America del nord cresco-no più di diecimila specie di

funghi. Circa 125 di queste, cioè l’1,25 per cento, hanno un gusto piacevole e non sono pericolose. Tutte le altre hanno un sapore sgradevole e sono velenose o non commestibili. Secondo i miei cal-coli, una statistica simile si potreb-be applicare alle inluenze che lut-tuano intorno a te. Ti consiglio di concentrarti sulle poche piacevoli e rivitalizzanti, e di stare alla larga dalle altre.

LEONEUn ricercatore dell’università di Amsterdam ha creato un software che legge le emozioni sul viso delle perso-ne. Lo ha usato per analizzare l’espressione del volto

della Gioconda, di Leonardo da Vinci. Secondo i risultati, la don-na ritratta nel quadro era all’83 per cento contenta, al 9 per cento disgustata, al 6 per cento spaventata e al 2 per cento arrabbiata. Non so se l’analisi è corretta, ma mi piace perché trasmette l’idea che gli esseri umani non provano quasi mai un’unica emozione. In questo spirito, ho calcolato la tua probabile combinazione per i prossimi giorni: il 16 per cento di sollievo, il 18 per cento d’inno-cenza, il 12 per cento di confusione, il 22 per cento di liberazione, il 23 per cento di ambizione e il 9 per cento d’impazienza.

COMPITI PER TUTTI

Scrivi una iaba o una parabola che colga il senso della tua vita ino al 2015.

ARIETE

Secondo lo scrittore Nichol-son Baker, il motto latino

carpe diem non dovrebbe essere tradotto “aferra l’attimo”. Non è un grido di battaglia che esorta ad “agguantare l’attimo e stringerlo in mano come un hamburger per dargli un morso”. La traduzione corretta, secondo Baker, è “cogli l’attimo”. In altre parole, “dovrem-mo tirare delicatamente lo stelo dell’attimo, come se fosse un iore, tenendolo con tutta l’attenzione possibile tra l’indice e il pollice, che sanno come non schiacciare le cose facili a rompersi, così che la tensione lo faccia spezzare nel punto più debole ino a lasciare il iore nella nostra mano”. Spesso sei tentato di aferrare, ma di que-sti tempi ti conviene cogliere.

TORO

Quando parlo della “più grande storia che sia mai

stata raccontata”, non mi riferisco al documentario sulla cantante Lana Del Rey né al primo album del rapper Saigon, ma a una parte del tuo passato che non hai mai posseduto e compreso a fondo, a una sua fase che hai parzialmente rimosso, a una serie d’intensi ri-cordi che non hai completamente assimilato. È arrivato il momento di afrontare queste ombre. Sei pronto per accettarle e considerar-le uno degli aspetti fondamentali del tuo viaggio dell’eroe.

GEMELLI

Talete, ilosofo dell’antica Grecia, è considerato uno

dei primi scienziati e matematici.

Era un grande pensatore, la sua se-te di conoscenza non si spegneva mai. Su di lui si racconta una bufa storia: una notte uscì a fare una passeggiata; teneva gli occhi issi al cielo e meditava sui misteri delle stelle quando, a un certo punto, cadde in un pozzo. Non si fece ma-le, ma la situazione fu piuttosto imbarazzante. Facciamone il tuo antimodello, Gemelli. Mi piace-rebbe invitarti a scatenare la tua brama di conoscenza, istruzione e ispirazione, ma solo se starai at-tento a dove metti i piedi.

CANCRO

Charles Darwin è famoso soprattutto per L’origine del-

le specie, in cui espone la sua teoria della biologia evoluzionistica. Ma mentre era in vita, il suo libro che vendette di più fu La formazione della terra vegetale per l’azione dei lombrichi con osservazioni intorno ai loro costumi. Si tratta di un tribu-to al nobile lombrico e al ruolo fon-damentale che svolge per mante-nere in buona salute la terra e le piante, e rappresenta un punto di vista diverso sul tema che interes-sava di più a Darwin: i monumen-tali efetti causati dai piccoli cam-biamenti progressivi nel corso del tempo. Si dà il caso che questo sia anche uno dei tuoi temi chiave dei prossimi mesi.

VERGINE

“Cosa signiica essere eroi-ci?”, si chiedeva il ilosofo

Friedrich Nietzsche. E si risponde-va così: “Muovere incontro al pro-prio supremo dolore e insieme alla propria sublime speranza”. Mi

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L’ultima

Le regole Souvenir1 Che sia la torre Eifel, il Big Ben o il Partenone, qualunque monumento diventa più bello se sta sotto una palla di vetro in cui cade la neve. 2 Non importa quant’è carina la calamita da frigo che gli hai portato, tuo iglio non dimenticherà che gli avevi promesso un tablet. 3 No, quella statuina di avorio non è afatto una buona idea. 4 Hai comprato il simpaticissimo grembiule da cucina con stampato sopra il David di Michelangelo? Adesso te lo metti tutte le sere. 5 Piuttosto che portare una maglietta con scritto I NY è meglio niente. Davvero. [email protected]

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“ok, il sole è là, quindi la direzione è ‘su’”.

“ogni tanto abbiamo inondazioni di acqua passata”.

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Proteste in south Carolina dopo l’eliminazione della bandiera confederata dagli ediici pubblici. “la mia gente è morta

per questa bandiera”. “Anche la mia”.

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Più in là, in questo secolo. “Eppure pensavo che avremmo trovato una soluzione migliore per il riscaldamento globale che

tute con l’aria condizionata alimentate a gas”.

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Migranti d’Africa, i nuovi schiavisti. “spero di arrivare vivo in Italia e trovare un lavoro da schiavo in Inghiletrra”.

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