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Interferenze Collana di diritto e cultura umanistica diretta da E. Conte, R. D’Orazio, M.R. Marella, G. Resta 1/Collettanee

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Interferenze

Collana di diritto e cultura umanistica

diretta da E. Conte, R. D’Orazio, M.R. Marella, G. Resta

1/Collettanee

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Riparare Risarcire Ricordare

Un dialogo tra storici e giuristi

a cura di

GIORGIO RESTA e VINCENZO ZENO-ZENCOVICH

Editoriale Scientifica Napoli

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Il presente volume è pubblicato con il contributo del Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca - Fondi PRIN 2008 delle Università di Roma Tre, di Bari “Aldo Moro”e del Salento

Tutti i diritti sono riservati

© Editoriale Scientifica srl ottobre 2012 Via San Biagio dei Librai, 39

80138 Napoli

ISBN 978-88-6342-415-7

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Indice

I. La storia e le regole La storia “giuridificata” 11 Giorgio Resta – Vincenzo Zeno-Zencovich I custodi della memoria: la disciplina degli archivi e la ricerca storica 43 Paola Carucci La storia sotto chiave: il segreto di Stato e il terrorismo degli anni Settanta 59 Miguel Gotor

II. Accertare la storia in giudizio Giustizia e storia: metodologie a confronto 73 Antonino Intelisano Lo storico come consulente 83 Paolo Pezzino

III. Risarcire i pregiudizi della storia Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali: l’esperienza italiana 115 Giuseppe Speciale Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell’istituto della discriminazione (1944-1950) 139 Silvia Falconieri Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation 156 Noah Vardi

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Historical injustices: legittimazione passiva e forme della riparazione nel diritto internazionale ed europeo 173 Mario Carta Cosa resta di Auschwitz? Il genocidio ruandese e il superamento del passato attraverso il diritto 209 Pietro Sullo

IV. Costruire la memoria del passato Rielaborare il passato. Usi pubblici della storia e della memoria in Italia dopo la prima Repubblica 241 Filippo Focardi Memoria, identità e uso pubblico della storia: l’invenzione del derecho indiano 273 Luigi Nuzzo La costruzione mediatica dei processi storici: il caso del processo di Norimberga 299 Silvia Leonzi La diffamazione dei partigiani: il caso Bentivegna 317 Giuseppe Tucci

V. Raccontare la storia The dark side of historical writing: reflections on the censorship of history worldwide (1945-2012) 343 Antoon De Baets Diritto penale e libertà dello storico 371 Luigi Cajani La memoria doverosa. L’esperienza francese delle lois mémorielles 411 Roberto D’Orazio Negare le ingiustizie del passato: libertà o divieto? 447 Claudia Morgana Cascione

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VI. Il paradigma della verità La madre, il figlio e la piastra elettrica 475 Olivier Cayla Il diritto alla verità 497 Stefano Rodotà Notizie sugli autori 517

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Il presente volume raccoglie alcuni dei risultati di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale finanziato dal Ministero per l’Università, promosso e svolto dalle Università di Roma Tre, di Bari “Aldo Moro”, di Napoli “Federico II” e del Salento, con la collaborazione della Fondazione Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei, sul tema “Le ferite della storia e il diritto riparatore: un’indagine storico-comparatistica”. Il PRIN è stato caratterizzato da una forte interdisciplinarietà, non soltanto fra i proponenti (comparatisti e storici del diritto) ma sopratutto fra giuristi e storici, i quali, pur così vicini per cultura, raramente dialogano fra di loro. Il PRIN ha prodotto un sito ricco di documentazione e di riferimenti bibliografici e giurisprudenziali [https://www.sites.google.com/site/-storiaediritto/] e questo volume che – nello spirito di ogni ricerca finanziata con fondi pubblici – è liberamente disponibile on-line con licenza creative commons (dal sito della Editoriale Scientifica e quello del PRIN). La particolare impostazione metodologica del progetto di ricerca, connotata da un approccio realistico ed interdisciplinare ai fenomeni giuridici, ha suggerito l’inclusione del presente volume nella collana “Interferenze. Collana di diritto e cultura umanistica”, le cui caratteristiche programmatiche sono rappresentate dalla concezione unitaria della cultura e dall’apertura delle scienze giuridiche agli altri campi del sapere umanistico. Un particolare ringraziamento va alle dr.sse Claudia Morgana Cascione e Margherita Colangelo, che hanno sovrainteso all’organizzazione dei due incontri pubblici nei quali le tematiche della ricerca sono state approfondite e le varie tesi confrontate e discusse; e che hanno curato l’edizione del volume.

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I La Storia e le regole

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LA STORIA “GIURIDIFICATA”

Giorgio Resta – Vincenzo Zeno-Zencovich*

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. La storia oggetto del diritto – 3. Le regole della ricer-

ca storica – 4. Lo storico nel processo – 5. La libertà dello storico e i suoi limiti – 6. La storia (e la memoria) come risultato del diritto – 7. Conclusioni.

1. Introduzione

Da sempre la storia permea il diritto e ne costituisce parte inte-grante. Il diritto è un insieme di regole, le quali si collocano in uno spazio temporale – l’inizio e la fine della loro vigenza – più o meno nettamente definito. All’interno di tale spazio si presentano inter-pretazioni e applicazioni in genere riferite a casi concreti, i quali pure hanno una loro dimensione temporale. Mutuando un’efficace formula di Carl Friedrich, si potrebbe dire che “law is frozen history”1. In po-che parole, non vi è diritto senza storia del diritto e da sempre il giuri-sta, anche senza alcuna vocazione o competenza di storico, indaga e ricostruisce le regole nella loro genesi e nel loro sviluppo nel corso del tempo2. Anche per questa ragione, si è osservato, quella giuridica è la più past-dependent tra tutte le professioni intellettuali3. A ben vedere, però, tale attenzione non è propria soltanto del giurista, ma di tutti co-loro i quali vogliano conoscere il passato, o utilizzarne le vicende, e lo fanno (anche) attraverso la presentazione degli istituti giuridici. È dav-vero difficile, per uno storico, trovare degli ambiti non toccati dal di-ritto o rispetto ai quali possa ignorare il contesto giuridico in cui gli eventi o i fenomeni si svolsero: il diritto è parte integrante dell’assetto istituzionale di qualsiasi comunità ed oltre ad esserne condizionato, ne condiziona profondamente lo sviluppo.

Quando, però, il binomio storia/diritto viene invertito e si pone l’accento non più sulla “storia del diritto”, bensì sul “diritto della sto-ria”, il quadro diviene immediatamente più complesso e problematico.

* Questo saggio costituisce il frutto della ricerca e della riflessione comune dei due

autori. Ai fini dell’imputazione del testo, i paragrafi 1, 3-5 debbono ascriversi a Gior-gio Resta, mentre i paragrafi 2 e 6-7 a Vincenzo Zeno-Zencovich.

1 C.J. Friedrich, Law and History, in 14 Vanderbilt L. Rev. 1027 (1961). 2 La dimensione essenzialmente storica del fenomeno giuridico è ben scolpita nel-

la pagina di P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2004, 43. 3 R. Posner, Past-dependency, Pragmatism, and Critique of History in Adjudication

and Legal Scholarship, in 67 U. Chi. L. Rev. 573 (2000).

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È ben vero che l’ampia diffusione della formula “giuridificazione della storia” nell’ambito dei discorsi contemporanei sembrerebbe testimo-niare la definitiva emersione di uno specifico terreno di indagine aper-to alle riflessioni, oltre che del giurista e dello storico, di molti altri scienziati sociali4. Tuttavia, non appena si rivolga a tale fenomeno uno sguardo più approfondito, si potrà constatare come la formula in og-getto, benché indubbiamente efficace, sia affetta da una fondamentale indeterminatezza ed ambiguità. Sotto l’ampio e piuttosto generico mantello di “giuridificazione della storia” si adagiano una pluralità di problematiche non necessariamente connesse e talora eterogenee. In queste pagine vorremmo cercare di sciogliere, o quanto meno ridurre, l’ambiguità semantica di tale espressione.

Una prima chiarificazione necessaria attiene alla nozione di “giuri-dificazione”. Come equivalente della tedesca Ver-rechtlichung, essa viene spesso impiegata – e così la utilizzeremo in questo scritto – nel senso di sottoposizione di una serie di attività umane, in precedenza libere, o soggette soltanto a convenzioni sociali, a regole formali tanto nella fonte da cui promanano, quanto nel loro contenuto prescrittivo5.

Una seconda precisazione è relativa all’espressione “storia” la qua-le può essere intesa secondo un’accezione più ampia ed una più ristret-ta. Posta in correlazione con il concetto di “giuridificazione”, la for-mula può assumere due diversi significati.

(a) Di giuridificazione della storia si può innanzitutto discorrere nel senso di giuridificazione degli eventi del passato, visti nella loro di-mensione prettamente fattuale. Tale formula è spesso impiegata per descrivere il processo di progressiva attrazione nella sfera della giuridi-cità degli accadimenti storici, in quanto fonti di specifiche conseguen-ze rilevanti per l’ordinamento, sotto il profilo penale, amministrativo, ed in misura crescente anche civile. In particolare, si è molto discusso

4 Circa il fenomeno in oggetto, talora definito in maniera ancora più puntuale

come “judiciarisation de l’histoire”, v. D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, in L’autorité (a cura di J. Foyer – G. Lebreton – C. Puigelier), Paris, 2008, 51 ss., 52; A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, Paris, 2008, 13; A. Melloni, Per una storia della tribunalizzazione della storia, in O. Marquard – A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-Bari, 2008, 30.

5 Per una puntuale disamina dei significati generalmente ascritti alla formula “giu-ridificazione” si veda in particolare G. Alpa, Diritto e giuridificazione, in Oltre il diritto (a cura di M. Costanza), Padova, 1994, 177 ss. V. inoltre per un’indagine ad ampio raggio S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, 9-72; G. Teubner (a cura di) Juridification of Social Spheres. A Comparative Analysis in the Are-as of Labor, Corporate, Antitrust and Social Welfare Law, Berlin-New York, 1987; R. Kreide, Re-embedding the Market through Law? The Ambivalence of Juridification in the International Context, in Karl Polanyi, Globalisation and the Potential of Law in Transnational Markets (a cura di C. Joerges – J. Falke), Oxford-Portland, 2011, 41 ss.

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in questi ultimi anni circa la possibilità di “réparer l’histoire”6, guar-dando dunque agli eventi storici – e segnatamente alle ingiustizie della storia – come illeciti produttivi di obbligazioni di risarcimento, restitu-zione o riparazione in capo ad individui, gruppi o stati7. In questo sen-so, l’espressione in oggetto pone l’accento su uno dei fenomeni mag-giormente rilevanti per lo sviluppo delle società contemporanee; un fenomeno connotato, essenzialmente, dall’attrazione nella sfera del di-ritto di una serie di vicende e controversie un tempo rimesse alla pote-stà regolatoria della politica (o di altri sub-sistemi) ed oggi divenute sempre più il termine di riferimento di norme, procedure ed istituzioni di natura formale8.

(b) Alla formula in questione può poi attribuirsi un significato più ristretto, alludendo non già alla giuridificazione della storia (come in-sieme di fatti accaduti nel passato), bensì alla giuridificazione della sto-riografia (come insieme delle attività volte alla ricostruzione ed inter-pretazione dei fatti storici)9.

Si tratta, all’evidenza, di due fenomeni strettamente correlati: alla crescente giuridificazione del passato corrisponde generalmente una più intensa giuridificazione dei processi volti all’attribuzione e alla tra-smissione di significati relativamente a tale passato (basti pensare al rapporto tra ricostruzione giudiziale del genocidio ebraico e repressio-ne civile e penale del negazionismo). Tuttavia essi rimangono fonda-mentalmente distinti sul piano teorico. Per questa ragione tratteremo separatamente di ciascuno di essi, svolgendo prima alcune considera-zioni sulla giuridificazione degli eventi del passato, appuntando la no-stra attenzione principalmente sul fenomeno della ricostruzione giudi-

6 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., 9. 7 In questa prospettiva si vedano esemplarmente il volume di M. du Plessis – S.

Peté (a cura di), Repairing the Past? International Perspectives on Reparations for Gross Human Rights Abuses, Antwerpen-Oxford, 2007; e i saggi di C.J. Ogletree, Repairing the Past: New Efforts in the Reparations Debate in North America, in 38 Harvard Civil Rights-Civil Liberties L. Rev. 279 (2003); E.A. Posner – A. Vermeule, Reparations for Slavery and Other Historical Injustices, in 103 Colum. L. Rev. 689 (2003). Su questi temi si soffermano i saggi contenuti nella sezione terza del presente volume; tra questi si vedano in particolare N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento di illeci-ti storici. Il caso della Holocaust litigation; e M. Carta, Historical injustices: legittima-zione passiva e forme della riparazione nel diritto internazionale ed europeo.

8 Tale passaggio dalla ‘politica’ al ‘diritto’, e segnatamente al diritto civile, è criti-camente ricostruito da A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, cit., 13 ss. Ma a tal proposito è bene ricordare che i confini tra le due logiche sono meno nitidi e stabili di quanto potrebbe apparire: a questo riguardo è sempre istruttiva la lettura di O. Kirchheimer, Political Justice. The Use of Legal Procedure for Political Ends, Princeton, 1961, 25, 304 ss.

9 Sulle due accezioni del termine “storia” ripercorse nel testo si veda soprattutto J. Le Goff, Histoire, in Id., Histoire et mémoire, Paris, 1988, 180.

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ziaria della storia, per poi passare al problema della giuridificazione dei discorsi sul passato.

2. La storia oggetto del diritto Quando si discorre di giuridificazione degli eventi del passato si

guarda alla storia, fondamentalmente, come “oggetto del diritto”. Tale prospettiva è forse la più vicina alla tradizione del giurista, il quale, proprio con riferimento alla concretezza del fenomeno giuridico, ap-plica a determinati fatti (l’esecuzione di un contratto, un omicidio, una procedura amministrativa) regole giuridiche10. Nella stragrande mag-gioranza dei casi tali fatti non rientrano nella “storia”, così come co-munemente la si intende. Ma non di raro, invece, essi vi rientrano a pieno titolo: un attentato, un disastro, un gravissimo dissesto finanzia-rio vengono ricostruiti nelle aule di giustizia per accertare le responsa-bilità e irrogare sanzioni. La distinzione fra singolo fatto e vicenda sto-rica non è determinabile con esattezza e dipende da fattori tanto sog-gettivi quanto estrinseci. Se però si vuole individuare l’archetipo di questa prospettiva, esso lo si rinviene nel processo di Norimberga, non a caso unanimemente considerato uno spartiacque fondamentale per la comprensione del diritto contemporaneo11.

Non è un singolo fatto a cadere sotto la lente dei giudici bensì un lungo periodo – 12 anni, di cui gli ultimi sei di guerra totale – visto nel suo insieme, nelle sue cause, nel suo svolgersi, nei suoi effetti, per giungere ad una condanna – anche capitale – di singole persone per il loro ruolo storico, prim’ancora che individuale, giudicato criminale. Il cambiamento rispetto al passato risulta evidente se si confrontano No-rimberga con il Trattato di Versailles di un trentennio antecedente: lì determinazione della responsabilità degli imperi centrali nello scatena-

10 Tuttavia è opportuno ricordare che, come sottolineato da Y. Thomas, La verité,

le temps, le juge et l’historien, in Le débat, 1998, 17 ss., 22, è proprio nell’operazione di valutazione dei fatti che emerge uno degli elementi differenziali dell’attività del giuri-sta rispetto a quella dello storico. Atteso che nel diritto “la questione di fatto intervie-ne sempre successivamente alla questione di diritto” (i fatti devono essere qualificati in base a norme), è corretto affermare che “la fattualità stessa dei fatti non è della stessa natura per lo storico e per il giurista” (22). In tema v. anche il recente volume di M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, pas-sim.

11 Cfr. ad es. A. Wieviorka, Justice, Histoire et Mémoire. De Nuremberg à Jérusa-lem, in Droit et société, 1998, 59 ; R. Teitel, Transitional Justice Genealogy, in 16 Harv. Hum. Rights J. 69 (2003), 73. Inoltre cfr. L. Douglas, The Memory of Judgment: Mak-ing Law and History in the Trials of the Holocaust, New Haven, 2005; D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Bagdad, Roma-Bari, 2006.

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re la prima guerra mondiale e imposizione di pesantissime sanzioni a loro carico. Qui la storia viene portata fuori dal chiuso di una confe-renza diplomatica e diventa il risultato di un procedimento dialettico – il processo, appunto – fra accusa e difesa12. È il giudice, non il potere politico, che accerta la storia e ne fa scaturire le conseguenze. La sen-tenza è storica in tutti i sensi del termine: è, fa, chiude la storia13.

I fatti in quel giudizio accertati producono quel che un processua-lista formalista definirebbe gli “effetti esterni del giudicato”: non solo non discutibili, ma premessa ineludibile di altre decisioni. Affermare che la storia è “justiciable” significa inserirla all’interno di un sistema complesso e raffinato i cui pilastri – pilastri di civiltà – sono la prova, il convincimento, la motivazione14. E se è doveroso chiedere al giudice il rispetto di tali criteri quando egli ‘fa’ la storia, pare inevitabile indicare lo stesso allo storico quando giudica15.

Guardando alle cose in termini più generali, da quando il giudice è entrato in campo, la storia – nel senso di ricostruzione dei fatti del pas-sato più o meno recente – non è più la stessa, non foss’altro perché de-ve distinguersi da un processo, da una sentenza. Il processo di Norim-berga, anche da questo punto di vista, rappresenta un mutamento di paradigma cruciale per la modernità: esso interrompe la fase della sto-riografia apologetica di stampo nazionale16 e inaugura un nuovo mo-dello di interazione tra giurista e storico. Se quel processo fu condotto essenzialmente da giuristi, consapevoli di fare la storia17, l’ampia messe di documenti raccolti in archivio e l’attenzione rivolta ad un segmento spaziale e temporale così ampio rappresentarono una premessa fon-damentale per lo sviluppo di una diversa sensibilità ed un nuovo orien-

12 Per un confronto con la precedente esperienza dei processi di Lipsia cfr. G.

Battle, The Trials Before the Leipsic Supreme Court of Germans Accused of War Crimes, in 8 Va. L. Rev. 1 (1921).

13 Cfr. in chiave retrospettiva le pagine di D. van Laak, Widerstand gegen die Ge-schichtsgewalt. Zur Kritik an der ‘Vergangenheitsbewältigung”, in N. Frei – D. van Laak – M. Stolleis (a cura di), Geschichte vor Gericht. Historiker, Richter und die Suche nach Gerechtigkeit, München, 2000, 11 ss.

14 V. in generale J.P. Jean, Le procès et l’écriture de l’histoire, in Tracés. Rev. sc. Hum., Hors-série 2009, 61 ss., spec. 71 ss.; Y. Thomas, La verité, le temps, le juge et l’historien, cit., 17 ss.

15 Sul punto v. B. Edelman, L’office du juge et l’histoire, in Droit et société, 38, 1998, 52.

16 Cfr. K. Grosse Kracht, Kriegsschuldfrage und zeithistorische Forschung in Deutschland. Historiographische Nachwirkungen des Ersten Weltkriegs. Wirkungen und Wahrnehmungen des Ersten Weltkrieges, in Historisches Forum, 3, 2004, 61 ss.

17 Come ha ricordato, da ultimo, V. Petrović, Historians as Expert Witnesses in the Age of Extremes, diss. Budapest, 2009, 110, il processo di Norimberga – “the greatest historical seminar ever held”- “was a seminar held in the absence of historians”.

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tamento degli studi storici18, contribuendo anche – come si vedrà me-glio in seguito – ad un dialogo sempre più stretto tra il giudice e lo sto-rico.

Non si tratta, necessariamente, di approcci antagonistici, ma l’epistemologia che vi è sottesa è diversa19. Il processo è, e deve rima-nere, un imbuto nel quale una molteplicità di fatti vengono immessi, filtrati, cerniti per giungere, alla fine, ad una decisione in ordine alla responsabilità di un singolo. Tale finalismo è assente dalla ricerca sto-rica, che, libera nei mezzi e nei fini, può anche presentarsi in una for-ma antitetica, di imbuto rovesciato; dalla sicura responsabilità di un individuo ad una catena di eventi che si pongono in posizione causale risalendo – per giungere al paradosso – al peccato originale e all’omi-cidio di Caino.

Ma la storia non è solo “justiciable”: è anche giudicabile, e si chie-de ormai a gran voce che essa venga stabilita in Tribunale20. A poco rilevano le – pur fondate – distinzioni fra giudizio storico e storia giu-dicata21. Quel che interessa è che ormai sembra non potersi fare a me-no di una sentenza che non solo stabilisca le responsabilità, ma soprat-tutto verifichi e certifichi. In questo vi è il riflesso di una generale ten-denza verso la tutela giudiziale dei diritti, la quale costituisce insieme un logico portato del costituzionalismo postbellico e della crisi con-temporanea dei meccanismi di prevenzione e risoluzione dei conflitti sociali alternativi al diritto22. Ma vi è, soprattutto, la diffusa percezione del processo (e della sentenza che lo conclude) come uno degli stru-menti – socialmente, individualmente, psicologicamente – più idonei

18 V. con particolare riferimento all’interazione tra documentazione probatoria

raccolta nei processi e ricerca storica, M. Cattaruzza, La ricerca storica sul nazionalso-cialismo e le fonti giudiziarie, in 7 Cromhos 1 (2002); D. van Laak, Widerstand gegen die Geschichtsgewalt. Zur Kritik an der ‘Vergangenheitsbewältigung”, cit., 15 ss.; A. Wieviorka, Justice, Histoire et Mémoire. De Nuremberg à Jérusalem, cit., 62.

19 Sul punto si vedano, in generale, P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in Riv. dir. proc. civ., 1939, I, 105-128; Y. Thomas, La vérité, le temps, le juge et l’historien, cit., 17 ss.; M. Stolleis, Der Historiker als Richter – der Richter als Historiker, in N. Frei – D. Van Laak – M. Stolleis (a cura di), Geschichte vor Gericht. Historiker, Richter und die Suche nach Gerechtigkeit, cit., 173, 177-179; J.P. Le Crom – J.C. Martin, Vérité his-torique, verité judiciaire, in Vingtième Siècle. Rev. Hist., 1995, 196; J.C. Martin, La dé-marche historique face à la vérité judiciaire. Juges et historiens, in Dr. et soc. 1998, 13 ss.; M. Borrello, Sul giudizio. Verità storica e verità giudiziaria, Napoli, 2011.

20 Cfr. A. Melloni, Per una storia della tribunalizzazione della storia, in O. Mar-quard – A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, cit.

21 Su queste distinzioni si vedano in particolare i saggi di A. Intelisano, Giustizia e storia. Metodologie a confronto, e P. Pezzino, Lo storico come consulente, entrambi in questo Volume.

22 In generale v. ad es. R. Badinter e S. Breyer (a cura di), Judges in Contemporary Democracy. An International Conversation, New York – London, 2004, passim.

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per sancire e porre rimedio alla ingiustizia23. Tutti conoscono gli orrori della seconda guerra mondiale e la loro paternità è consegnata a tutti i libri di storia: ma ciò non può soddisfare le vittime, i sopravissuti, i lo-ro parenti. La sentenza – e cioè la storia scritta o riscritta dal giudice – costituisce il passaggio necessario per far sì che la storia sia tale, e cioè passato. Il suo valore, da questo di vista, è soprattutto simbolico e te-rapeutico: il giudizio diventa un vero e proprio “vettore di memoria”.

Molteplici esempi potrebbero essere addotti a questo riguardo, ma forse il caso che può ritenersi maggiormente emblematico è quello del-la giurisprudenza argentina sul “diritto alla verità”24, al quale può af-fiancarsi l’ideale contraltare del contenzioso in tema di negazionismo25. Analogamente, sarebbe difficile comprendere il recente fenomeno di moltiplicazione delle controversie in tema di risarcimento dei danni da “ingiustizie della storia” (come la schiavitù, il lavoro forzato, la colo-nizzazione, ed ovviamente i genocidi)26 soltanto ragionando nell’ottica della diffusione transnazionale del modello di adversarial legalism sta-tunitense: anche in questi casi, che pure hanno a che fare con pretese di natura prevalentemente economica, il processo svolge anche una funzione simbolica di accertamento imparziale del torto e della ragio-ne, contro i rischi di oblio e occultamento del passato.

23 Ciò non esclude, ovviamente, la possibilità di ricorrere anche ad altre tecniche

di superamento del passato – diverse dall’accertamento giudiziale della ragione e del torto – nel quadro dei molteplici modelli contemporanei di transitional justice: cfr. in luogo di molti J. Elster, Closing the Books. Transitional Justice in Historical Perspective, Cambridge, 2004, 79 ss. Si veda, ad esempio, a proposito delle importanti esperienze delle Commissioni verità e riconciliazione, lo studio curato da B. Cassin – O. Cayla – P.J. Salazar, Vérité, Réconciliation, Réparation, Paris, 2004.

24 E. Maculan, Prosecuting International Crimes at National Level, Lessons from the Argentine ‘Truth-Finding Trials’, in 8 Utrecht Law Review 106 (2012); M. Abregú, La tutela judicial del derecho a la verdad en la Argentina, in 24 Revista IIDH Instituto Interamericano de derechos humanos 11 (1996). Sul tema del diritto alla verità si veda il saggio di S. Rodotà, Il diritto alla verità, in questo Volume.

25 In tema R. Kahn, Holocaust Denial and the Law. A Comparative Study, New York - Basingstoke, 2004, passim; M. Imbleau, La négation du génocide nazi. Liberté d’expression ou crime raciste? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé, Paris, 2003; nonché, in questo Volume, il contributo di C.M. Cascione, Ne-gare le ingiustizie del passato: libertà o divieto?.

26 In tema v. M. du Plessis – S. Peté (a cura di), Repairing the Past? International Perspectives on Reparations for Gross Human Rights Abuses, cit.; L. Orland, A Final Accounting. Holocaust Survivors and Swiss Banks, Durham N.C., 2010; H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge amé-ricain: réflexions a partir des actions en justice des victimes de l’Holocauste devant les tribunaux des États-Unis, in Rev. int. dr. comp., 2003, 884 ss.; K.N. Hylton, Slavery and Tort Law, in 84 Boston University L. Rev. 1209 (2004); C. J. Ogletree, Repairing the Past: New Efforts in the Reparations Debate in North America, cit.

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Lo storico coglie subito la concorrenzialità di tale nuovo contesto. E mentre nel passato era costretto a “smontare” le falsità giudiziali (un esempio per tutti: l’affaire Dreyfus)27, ora viene “scavalcato” dal giudi-ce il quale scrive una storia non solo più “vera” – perché verificata ed accertata con procedimenti per definizione rigorosi ed imparziali28 – ma soprattutto “giusta”, il che la pone eticamente al di sopra del sine ira et studio dello storico inappuntabile.

Sempre in termini generali – proprio per il luogo ove si svolge – la storia attraverso il processo non è affatto neutrale, ma è la storia vista dal punto di vista delle vittime e in funzione della loro satisfazione, morale e/o materiale29. Il giudice intende dare una mano allo storico – e, come si vedrà, questo gliela chiede pure – ma ciò fa con un intento sicuramente elevato (rendere giustizia), eppure chiaramente finalizza-to.

Ora è ben possibile che il giudizio storico e la storia giudicata lar-gamente coincidano (si pensi al nazismo), ma possono ben registrarsi significative divergenze, in particolare in considerazione della posizio-ne e del contesto in cui si trova ed opera il giudice. È intuibile che la storia delle foibe e della pulizia etnica post-bellica sia diversa se scritta in una sentenza resa a Lubiana oppure a Trieste; del pari, un’attenta analisi dei processi civili e penali per diffamazione intentati nei con-fronti degli storici potrebbe far registrare variazioni particolarmente significative nella ricostruzione di una determinata “verità storica”, as-sunta come causa di giustificazione dell’addebito lesivo nelle varie giu-risdizioni30.

27 V. Petrović, Historians as Expert Witnesses in the Age of Extremes, cit., 57-62. 28 Cfr. ancora lo studio di M. Taruffo, La semplice verità, cit., 83 ss., da cui si rica-

vano importanti considerazioni circa la “funzione epistemica” del processo. 29 Ciò non significa che l’attività storiografica non sia essa stessa influenzata in

qualche misura dal particolare contesto culturale ed assiologico di riferimento, spe-cialmente ove si prendano in considerazione le immani tragedie del ventesimo secolo. Come ha osservato A. Liakos, How to Deal with Tormented Pasts, in Historein, 2011, 5 ss., 6, dopo le esperienze dei crimini di massa e l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, si è introdotta una “dimensione morale nel pensare e nello scrivere del passato”. La neutralità e l’oggettività imposte alla ricerca storica “have, in fact, been replaced by open sympa-thy and a sense of respect for victims, which has gone along with open public revul-sion at such acts, captured by the popular expression Never again! Historians could no longer behave as distant and indifferent observers, without taking into considera-tion the moral ethic and implications of their writings” (Ibidem).

30 N. Mallet-Poujol, Diffamation et « verité historique », in D., 2000, 226. Signifi-cativa, a questo proposito, l’esperienza in tema di giudizi per violazione dei diritti della personalità (di soggetti compromessi con il regime nazista) rispettivamente nella Re-pubblica Federale e nella Repubblica Democratica nel secondo dopoguerra: cfr. in

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Il che porta inevitabilmente a interrogarsi se il giudice sia il sogget-to posto nella migliore delle condizioni per conoscere la storia e cri-stallizzarla nella sua decisione. Non solo perché la filtra attraverso le lenti assai poco graduate delle norme; ma perché è interessato solo ad alcuni fatti prossimi e non a quelli più remoti; perché nella sua attività cognitiva è sottoposto a vincoli stringenti di carattere procedurale (specie in punto di assunzione ed utilizzazione delle prove in giudizio) e sostanziale; perché giudica sulla base di pregresse nozioni di comune esperienza non sottoposte a vaglio critico; perché in fondo egli non “conosce” della storia, ma in realtà la fa ed è dunque tutt’uno con essa, come il notaio rispetto all’atto che attesta essersi verificato in sua pre-senza31.

A ciò si aggiunga la facilità con cui due giudici possono giungere a conclusioni opposte, e non solo perché appartenenti a sistemi (giuridi-ci e/o di valori) diversi, ma anche all’interno dello stesso ordinamento e possibilmente anche nello stesso periodo temporale. Un esempio pa-radigmatico è quello delle Fosse Ardeatine: le decisioni dei tribunali militari considerano l’attacco di via Rasella un atto illecito dal punto di vista del diritto internazionale, compiuto da soggetti che non avevano la qualità di legittimi belligeranti; le decisioni civili in tema di respon-sabilità extracontrattuale dei partigiani per i danni subiti dalle vittime delle Fosse Ardeatine lo qualificano invece come un atto di guerra le-gittimo ed insindacabile in via giudiziaria; del pari, i giudizi penali de-gli anni ’40 e ’50 ammettono la facoltà dei tedeschi di agire in rappre-saglia, condannano il comandante (Kappler) ma solo per un eccesso nel numero dei fucilati ed assolvono i suoi subordinati; mezzo secolo più tardi la Corte di Cassazione condanna un subordinato (Priebke) per tutte le 335 vittime del massacro delle Ardeatine32.

Le sommarie considerazioni appena esposte servono ad evidenzia-re sia le ragioni – sicuramente meritevoli – per le quali si chiede al giu-dice di giudicare gli eventi storici e gli individui che ne furono i prota-gonisti33. Ma anche i notevoli rischi che si corrono e che sono propor- tema S. Gottwald, Das allgemeine Persönlichkeitsrecht. Ein zeitgeschichtliches Er-klärungsmodell, Berlin, 1996, 78 ss.

31 V. ancora su questi temi le insuperate pagine di P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, cit., 105-128.

32 Sul punto, per i necessari approfondimenti, sia consentito rinviare a G. Resta – V. Zeno-Zencovich, Judicial ‘Truth’ and Historical ‘Truth’: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, in corso di pubblicazione in 31 Law & History Rev., 2013; si veda inoltre, in questo Volume, il contributo di G. Tucci, La diffamazione dei partigiani: il caso Bentivegna.

33 Da ultimo in tema v. S. Buzzelli, Giudicare senza necessariamente punire, in S. Buzzelli – M. De Paolis – A. Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifa-scisti in Italia. Questioni preliminari, Torino, 2012, 3 ss.

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zionali all’importanza che si attribuisce alla pronuncia. E mentre a un libro se ne può contrapporre un altro, oppure le sue manchevolezze possono essere emendate in successive edizioni o da altri testi, una sen-tenza pone un suggello di autenticità e di definitività sulla ricostruzio-ne, la quale, oltre ad orientare il dibattito pubblico, finisce indiretta-mente per incidere sulle stesse modalità della ricostruzione degli eventi in sede storiografica34.

3. Le regole della ricerca storica Quando si discorre di giuridificazione – lo avevamo già notato in

apertura – non si fa riferimento unicamente alla moltiplicazione delle regole concernenti eventi di rilevanza storica, ma anche ad una cre-scente attrazione all’interno della sfera della giuridicità dell’attività sto-riografica. Il “mestiere di storico”, ci si potrebbe domandare in manie-ra un po’ provocatoria, si appresta forse a divenire una professione re-golamentata?

Per mettere a fuoco tale problema è utile formulare alcune pre-messe di carattere generale.

In primo luogo, quando si discorre di “ricerca storica” e di “stori-co” si fa riferimento quasi esclusivamente alla storia contemporanea e alla c.d. storia del tempo presente35. Un ambito non definibile con esattezza, ma che abbraccia poco più di un secolo. Ciò che viene pri-ma: dagli albori della civiltà fino ad una parte consistente del XIX se-colo sembrerebbe sfuggire al processo da più parti denunciato, o coin-volto in maniera indiretta quando ciò che si vuole colpire è un’ideologia (ad es. la segregazione razziale, l’inferiorità delle donne o di talune etnie ecc.). È evidente – anche per quanto si dirà fra poco – che la storia contemporanea è particolarmente interessante per il grande pubblico. Ma se non si vuole generalizzare e confondere pars pro toto, è bene avere in mente la concreta dimensione del fenomeno.

La giuridificazione riguarda, poi, soltanto un settore della ricerca: l’assoggettamento a regole puntuali, talora invasive, non coinvolge allo stesso modo ogni ricerca storica contemporanea; tale fenomeno inte-ressa unicamente determinati ambiti, che si potrebbero qualificare come “storia degli avvenimenti storici”. Tante altre aree (della lettera-

34 A proposito dell’utilizzazione da parte degli storici delle risultanze processuali

v. J. Staron, Fosse Ardeatine und Marzabotto: Deutsche Kriegsverbre-chen und Resistenza, Paderborn-München-Wien-Zürich, 2002, 22-27.

35 Su cui v. P. Lagrou, Ou comment se constitue et se développe un nouveau champ disciplinaire, in La Revue pour l’Histoire du CNRS, 9, 2003, 1.

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tura, della scienza, dell’economia, etc.) ne rimangono fuori. Il che per un verso potrebbe essere considerato discriminatorio in danno di talu-ni studiosi, ma per altro verso è un indice sia della circoscritta dimen-sione applicativa del fenomeno, sia della particolare rilevanza sociale delle questioni coinvolte. Come si vedrà meglio in seguito, la giuridifi-cazione della ricerca in storia contemporanea si spiega anche e soprat-tutto in ragione del fatto che le tematiche da essa affrontate – a diffe-renza di quanto avviene in altri ambiti disciplinari – toccano nodi sen-sibili del processo di costruzione di identità e memorie collettive e del-la tutela di diritti fondamentali di individui e gruppi36. Ciò determina conflitti e intensifica le domande sociali di intervento attraverso il di-ritto.

In terzo luogo, il fenomeno in esame non presenta caratteri omo-genei sul piano geografico e culturale. Vi sono alcuni sistemi nei quali la giuridificazione raggiunge un livello di intensità maggiore (interes-sando quindi l’intera attività dello storico in tutte le sue esplicazioni) e sistemi nei quali essa assume tratti meno pervasivi. Così, esemplifican-do, se l’Europa costituisce l’area giuridico-politica nella quale la ten-denza alla regolamentazione del mestiere di storico appare relativa-mente più incisiva, sia per ambiti applicativi, sia per tecniche adopera-te (tra le quali il diritto penale gioca spesso un ruolo cruciale)37; negli Stati Uniti il quadro appare meno univoco e caratterizzato da elementi differenti. Mentre le dinamiche dell’adversarial legalism38 fanno sì che, in quel sistema, sia massimo il livello di “giustiziabilità” delle ferite della storia (come dimostra emblematicamente la c.d. Holocaust litiga-tion e in genere il ricorso alle tecniche della responsabilità civile quale strumento di riparazione delle ingiustizie del passato)39; per contro, il rispetto quasi sacrale accordato al principio del freedom of speech di cui al Primo Emendamento della Costituzione federale40 produce un sensibile abbassamento sia della soglia di sindacabilità in via giudiziale delle opinioni espresse nell’esercizio dell’attività di storico, sia della

36 V. in generale C. Vivant, L’historien saisi par le droit. Contribution à l’étude des droits de l’histoire, Paris, 2007, 397-468.

37 Per un’analisi comparatistica dell’esperienza europea v. L. Pech, The Law of Holocaust Denial in Europe: Toward a (qualified) EU-wide Criminal Prohibition, in Genocide Denials and the Law (a cura di L. Hennebel – T. Hochmann), Oxford, 2011, 185 ss.; J. Luther, Non negare la storia dell’antinegazionismo giuridico, in Contempora-nea, 2009, 117; L. Cajani, Criminal Laws on History: The Case of the European Union, in Historein, 2011, 19.

38 Su cui v. R. Kagan, Adversarial Legalism : The American Way of Law, Cam-bridge (Mass.), 2003.

39 Cfr. supra, par. 1. 40 In tema cfr. ad es. E. Zoller, Freedom of Expression: “Precious Right” in Europe,

“Sacred Right” in the United States?, in 84 Ind. L. J. 804 (2009).

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tollerabilità costituzionale dei doveri di condotta e dei vincoli contenu-tistici imposti in via preventiva attraverso l’intervento del legislatore (“leggi memoriali” e norme penali anti-negazioniste sarebbero, in po-che parole, difficilmente concepibili nella prospettiva statunitense)41. Pertanto, se l’esperienza statunitense si connota per un’intensa “giuri-dificazione de(gli eventi de)l passato”, non può invece parlarsi di una “giuridificazione della ricerca storica” che raggiunga livelli analoghi a quelli osservabili in Europa. Che poi i vincoli posti all’autonomia e alla discrezionalità dello storico possano derivare da fattori sociali diversi – quale ad esempio la religione42 – e assumere di fatto un’intensità non minore dei vincoli giuridici, è un’altra questione, certo rilevante, ma che non inficia la validità di quanto sin qui rilevato a proposito del di-verso ruolo assunto dalle regole di natura formale e prescrittiva.

In quarto luogo, è necessario tenere presente che la giuridificazio-ne costituisce, pressoché ovunque, uno sviluppo piuttosto recente sul piano temporale. Se si volesse tentare di delineare un abbozzo di “sto-ria della giuridificazione della storia”, si dovrebbe probabilmente as-sumere la fine della seconda guerra mondiale come principale spar-tiacque teorico e distinguere ciò che si colloca prima e dopo di essa43. Nella fase antecedente – ed in particolare nell’esperienza ottocentesca – la libertà dello storico di utilizzare e diffondere i risultati della pro-pria ricerca non sembra incontrare ostacoli giuridici di particolare ri-lievo, o comunque molto diversi da quelli frapposti all’esercizio di al-tre attività professionali. Assurta al rango di autonoma disciplina scien-tifica soltanto nel corso del diciannovesimo secolo, la storiografia re-clama e ottiene una posizione di sostanziale autonomia ed indipenden-za anche sul piano giuridico.

Una spia abbastanza attendibile di tale processo è costituita dal re-gime delle controversie in materia di responsabilità civile e penale del-lo storico, in relazione alle quali diverse indagini hanno messo in luce la presenza di una significativa evoluzione degli atteggiamenti della giurisprudenza44. Mentre in una prima fase prevale un’attitudine di de-

41 In tema cfr. P.R. Teachout, Making “Holocaust Denial” a Crime: Reflections on European Anti-Negationist Laws from the Perspective of U.S. Constitutional Experience, in 30 Vt. L. Rev. 655 (2006); e, in una prospettiva più sistematica, R. Kahn, Holocaust Denial and the Law. A Comparative Study, cit., 22 ss., 121-135.

42 Si pensi ad esempio all’importante dibattito – accompagnato da un’ampia giuri-sprudenza della Corte Suprema USA – sul ruolo del “creazionismo” nei curriculum scolastici pubblici, su cui per una prima introduzione G. Shreve, Religion, Science and the Secular State: Creationism in American Public Schools, in 58 Am. J. Comp. L. 51 (2010).

43 In tema v. J.P. Le Crom, Juger l’histoire, in Droit et société, 1998, 33 ss. 44 Cfr. in particolare O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien. De la chaire au pré-

toire, Paris, 2003, 129-146 ; J.P. Le Crom, Juger l’histoire, cit., 35-46.

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ferente rispetto per ciò che a quel tempo si definiva “les franchises de l’histoire”45 (complice anche una tutela meramente interstiziale dei be-ni della personalità, quali la riservatezza e l’identità, idonei ad essere direttamente incisi dall’attività storiografica); in una seconda fase, che può farsi idealmente iniziare con i processi di Tokyo e Norimberga, si assiste ovunque ad una notevole crescita d’importanza dell’uso pub-blico della storia e – di risulta46 – ad un sensibile innalzamento della soglia della diligenza professionale richiesta allo storico47. Si intensifi-ca, pertanto, il sindacato giudiziale sulle pratiche storiografiche, ma si moltiplicano anche – come si vedrà meglio in seguito – i vincoli indi-retti posti a presidio della “scrittura della storia”: norme penali volte a contrastare talune forme di razzismo e apologia dei crimini contro

45 Per riferimenti v. J.P. Le Crom, Juger l’histoire, cit., 37. 46 Il legame tra i due fenomeni – l’aumento della rilevanza pubblica del mestiere

di storico e l’irrigidimento del sindacato giudiziario sull’esercizio di tale attività profes-sionale – è argomentato in maniera puntuale da O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien, cit., 131, 134.

47 Basti unicamente ricordare, a testimonianza del primo atteggiamento, la deci-sione della Corte d’Appello di Parigi del 26 aprile 1865, relativa alla controversia ori-ginata dal libro “La Route de Varennes” di Alexandre Dumas, ove si afferma “che non esiste verità che la storia non abbia il diritto di dire; che tutti gli avvenimenti della vita pubblica rientrano nel suo dominio” e che nel caso di controversia su versioni contra-stanti del medesimo accadimento storico lo scrittore ha libertà di scegliere quella che egli ritiene maggiormente fondata, senza incorrere in conseguenze giuridiche, atteso che “non è di fronte ai tribunali che [tale controversia] può trovare i propri giudici” (App. Paris, 26 aprile 1865, in S., 1865, 2, 289). A testimonianza del secondo approc-cio si può addurre la nota giurisprudenza anti-negazionista degli anni ’90, emblemati-camente rappresentata dalla controversa decisione della Corte d’Appello di Parigi nel caso Bernard Lewis (TGI Paris, 21 giugno 1995, in Les petites affiches, 29 settembre 1995, n. 117, 17). L’autorevole storico, invitato da un giornalista di Le Monde a espri-mere il proprio parere sul perché la Turchia non riconoscesse ancora ufficialmente il genocidio degli Armeni, aveva affermato: “Vous voulez dire reconnaître la version ar-ménienne de l’affaire. […] Mais si l’on parle de génocide cela implique qu’il y ait eu une politique délibérée, une décision d’anéantir systématiquement la nation ar-ménienne. Cela est fort douteaux. Des documents turcs prouvent une volonté de dé-portation, pas une volonté d’extermination”. Investiti di un’azione di responsabilità civile promossa ex art. 1382 c.c. da un’associazione rappresentativa degli interessi del-le popolazioni armene, asseritamente lesi dal fatto che lo storico avesse messo in dub-bio che la persecuzione turca si inserisse all’interno di un piano preordinato all’annientamento del popolo armeno (tecnicamente un genocidio), i giudici condan-nano il convenuto al risarcimento di un franco simbolico. In motivazione, essi formu-lano un principio esattamente opposto a quello espresso nella sentenza Dumas: in caso di controversia relativa all’interpretazione di un avvenimento del passato, lo storico non ha la libertà di tacere l’esistenza di letture diverse da quella ritenuta più attendibi-le, ma deve dar conto della disputa storiografica, pena la violazione dei doveri di og-gettività e prudenza ai quali egli è tenuto.

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l’umanità e a reprimere il fenomeno del c.d. negazionismo48; leggi tese ad istituire obblighi di ricordo e di memoria (talora munite di uno specifico apparato sanzionatorio, in altri casi dotate di carattere preva-lentemente simbolico) e dunque idonee a sollecitare una determinata interpretazione del passato49; disposizioni volte a rafforzare la tutela civile preventiva e successiva dei beni della personalità (quali la riser-vatezza, l’identità o la reputazione), suscettibili di essere incisi dalla rappresentazione pubblica di eventi del passato50; regole di natura pubblicistica tese a promuovere una particolare rappresentazione della storia nei programmi scolastici e nei libri di testo51.

I rilievi appena formulati consentono non soltanto di contestualiz-zare meglio, ma anche di identificare con maggiore precisione il feno-meno della giuridificazione della ricerca storica, come comunemente inteso nei discorsi contemporanei.

Due sono, a nostro avviso, i dati più importanti sui quali concen-trare l’attenzione. Il primo consiste nella crescente attrazione del-l’expertise storiografica all’interno dei meccanismi di risoluzione giudi-ziaria dei conflitti. Il secondo è rappresentato dalla proliferazione delle regole di natura formale tese a disciplinare le tre attività principali nel-le quali si concretizza il “mestiere” di storico: la ricerca delle fonti, l’interpretazione/comprensione dei fatti e la divulgazione dei risultati della ricerca.

48 V. ad es. M. Imbleau, Denial of the Holocaust, Genocide, and Crimes against Humanity: A Comparative Overview of Ad Hoc Statutes, in Genocide Denials and the Law (a cura di L. Hennebel – T. Hochmann), cit., 235 ss.; L. Cajani, Criminal Laws on History: The Case of the European Union, cit.

49 P. Weil, The Politics of Memory: Bans and Commemorations, in Extreme Speech and Democracy (a cura di I. Hare – J. Weinstein), Oxford, 2009, 562 ss.; A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, in Quad. cost., 2009, 7 ss. Su questo tema si veda anche L. Cajani, Diritto penale e libertà dello storico.

50 Per una prima introduzione v. D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, cit., 51 ss.

51 Particolarmente significativo, a questo proposito, è l’esempio delle leggi france-si “Taubira” (l. n. 2001-434, tendant à la reconnaissance par la France de la traite et de l’esclavage en tant que crime contre l’umanité) e “Mékachéra” (l. n. 2005-158, portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en faveur des Français rapatriés), che impongono la menzione degli eventi storici da esse contemplati nell’ambito dei programmi scolastici, talora influenzandone anche il concreto indirizzo (come nel caso dell’articolo 4 della legge “Mékachéra”, che prescriveva una lettura ‘positiva’ della co-lonizzazione francese, stabilendo che: “les programmes scolaires reconnaissent en parti-culier le rôle positif de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord”; tale articolo fu al centro di un’intensa polemica e fu infine abrogato nel 2006). Per un’analisi ad ampio raggio del problema della “censura della storia” – anche attraverso l’insegnamento scolare – si veda il contributo in questo Volume di A. De Baets, The dark side of historical writing: reflections on the censorship of history worldwide (1945–2012).

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4. Lo storico nel processo Il primo aspetto è stato oggetto di numerose ed importanti analisi

sia in Europa, sia nell’America del Nord52. È sufficiente evocare il di-battito aperto dal rifiuto espresso dal noto storico francese Henry Rousso di deporre in qualità di testimone nel processo a carico di Maurice Papon53 per percepire immediatamente la delicatezza e il ri-lievo sociale della questione. A questo proposito è opportuno precisa-re che, a fronte del comportamento di Rousso, ispirato ad un ideale di difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della professione di storico, moltissimi sono invece i casi nei quali gli storici hanno accettato di col-laborare all’accertamento giudiziale di fatti di rilevanza storica, confu-tando determinati elementi probatori (come nel caso del processo ai negazionisti), apportandone di nuovi e contribuendo a chiarire il “con-testo” che fa da sfondo ad un determinato avvenimento o un comples-so di avvenimenti oggetto di accertamento giudiziale. L’esempio forse più celebre ed importante di tale coinvolgimento degli storici nel pro-cesso è rappresentato dal processo di Francoforte contro diversi uffi-ciali del campo di Auschwitz-Birkenau54, dove le memorie redatte da Martin Broszat, Helmut Krausnick, Hans Buchheim e Hans-Adolf Ja-cobsen, tutti storici di professione ed operanti (ad eccezione di Jacob-sen) presso l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco, offrirono un valido ausilio all’accertamento dei fatti, nonché un importante contributo scientifico alla comprensione del funzionamento del regime nazional-socialista55. Sulla stessa scia si collocano – tra i tanti – anche i procedi-menti francesi relativi all’esperienza di Vichy56 e quelli italiani sulle stragi naziste di Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, ove assunse

52 Oltre ai già citati volumi di Dumoulin, Le rôle social de l’historien, e di Petrović, Historians as Expert Witnesses in the Age of Extremes, si vedano D. Damamme – M.C. Lavabre, Les historiens dans l’espace public, in Sociétés Contemporaines, 2000, 5, 10-16; R.J. Evans, History, Memory and the Law: The Historian as Expert Witness, in 41 His-tory & Theory 326 (2002); D. Rosner, Trials and Tribulations: What Happens When Historians Enter the Courtroom, in 72 Law & Cont. Prob’s 137 (2009).

53 In proposito v. H. Rousso, Justiz, Geschichte und Erinnerung in Frankreich. Überlegungen zum Papon-Prozeß, in Geschichte vor Gericht (a cura di N. Frei – D. van Laak – M. Stolleis), cit., 141; nonché P. Pezzino, Lo storico come consulente, in questo Volume.

54 In proposito cfr. I. Wojak, Die Verschmelzung von Geschichte und Kriminologie. Historische Gutachten im ersten Frankfurter Auschwitz-Prozeß, in Geschichte vor Gericht. Historiker, Richter und die Suche nach Gerechtigkeit (a cura di N. Frei – D. van Laak – M. Stolleis), München, 2000, 29.

55 Le memorie presentate in giudizio furono poi raccolte e pubblicate nel celebre volume Anatomie des SS-Staates, cit., 1967.

56 In tema si vedano le attente riflessioni di H. Rousso, Justiz, Geschichte und Erinnerung in Frankreich. Überlegungen zum Papon-Prozeß, cit., 141.

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grande rilievo la consulenza tenica prestata da storici quali Paolo Pez-zino e Carlo Gentile57. Non si deve, però, pensare che il ricorso agli storici quali consulenti o testimoni sia limitato all’esperienza europea e circoscritto alle ipotesi di procedimenti per crimini di guerra, o, per venire ai casi più recenti, per le vicende giudiziarie connesse alle stragi e al terrorismo degli anni Settanta58. L’esperienza nordamericana, in primo luogo quella statunitense e più recentemente anche quella ca-nadese, è altrettanto ricca di esempi di utilizzazione giudiziaria del sa-pere storiografico59. Basti soltanto richiamare, a questo proposito, il celebre caso Brown v. Board of Education 60 , ove, per sciogliere l’impasse determinatasi nel giudizio sulla legittimità costituzionale del principio separate but equal, la Corte Suprema USA sollecitò le parti a condurre un’accurata indagine storica sulle posizioni originariamente assunte dai redattori del Quattordicesimo Emendamento in ordine alla segregazione razziale61. Dopo Brown il ricorso all’expertise dello stori-co si è andato moltiplicando in misura esponenziale, come pure le di-scussioni sulla compatibilità del ruolo di consulente di parte (remune-rato) con i requisiti di autonomia, indipendenza e obiettività della ri-cerca storica62. L’osservazione di tale esperienza permette di evidenzia-re due elementi di specificità rispetto al caso europeo.

Il primo elemento è costituito dalla tipologia delle controversie nelle quali risulta più frequente il ricorso all’expertise dello storico: mentre in Europa sono preponderanti i procedimenti penali, segnata-mente per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, negli Stati Uni-ti e in Canada risultano ben rappresentate (se non prevalenti) le con-troversie di natura civile o amministrativa. In particolare, le ipotesi sta-tisticamente più rilevanti sono quelle delle cause in materia di civil rights (in particolare discriminazione razziale) e protezione dei diritti

57 Una testimonianza di prima mano su questa esperienza giudiziale è offerta da

Paolo Pezzino nel saggio Lo storico come consulente, in questo Volume; v. anche in proposito I. Rosoni, Verità storica e verità processuale. Lo storico diventa perito, in Acta Historiae, 2011, 127, 133.

58 Su queste ultime ipotesi v. le considerazioni di P. Carucci, I custodi della memo-ria: la disciplina degli archivi e la ricerca storica, in questo Volume.

59 Per una disamina approfondita v. O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien, cit., 63-106.

60 Brown v. Board of Education of Topeka, 347 US 483 (1954). 61 Gli attori si servirono a tale scopo del supporto di un team di storici autorevoli

(John Hope Franklin, C. Vann Woodward e Alfred H. Kelly), mentre il giudice Frankfurter si avvalse di un approfondito rapporto redatto da Alexander Bickel. Per i necessari approfondimenti v. V. Petrović, Historians as Expert Witnesses in the Age of Extremes, cit., 159 ss.

62 In tema v. D. Rosner, Trials and Tribulations: What Happens When Historians Enter the Courtroom, cit., 138 ss.

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delle minoranze autoctone (diritti di proprietà, particolari immunità nei confronti della disciplina statale, etc.)63.

Il secondo attiene al modo in cui si realizza il coinvolgimento degli storici nella dinamica processuale: mentre negli ordinamenti europei è più comune il ricorso alla consulenza tecnica, nel contesto adversarial nordamericano lo storico è generalmente chiamato a partecipare al giudizio in veste di expert witness, scelto da una delle parti e soggetto a tutti i vincoli processuali conseguenti, ed in primo luogo al contro-interrogatorio64. Di qui alcuni nodi problematici costantemente evocati dal dibattito in materia, come la tensione tra i due poli dell’advocacy e dell’objectivity65o la difficoltà di conciliare il presupposto processuale del divieto di hearsay con la caratteristica principale dell’indagine sto-riografica, che è quella di lavorare con e su documenti formati al di fuori del processo66.

Ulteriori considerazioni potrebbero essere svolte sul ruolo degli storici nel quadro delle varie commissioni pubbliche istituite con l’obiettivo di contribuire in via non contenziosa all’accertamento della “verità” e alla riconciliazione nazionale67.

Non potendo entrare nei dettagli, è già sufficiente in questa fase registrare l’esistenza di una tendenza in atto, la quale non può apparire sorprendente, se solo si riflette sulla crescente complessità dei feno-meni giuridici contemporanei. Il diritto – e, in maniera crescente, il giudice – ha bisogno dello storico: non soltanto in relazione ad avve-nimenti epocali o grandi fenomeni sociali, ma già con riguardo ad aspetti apparentemente minuti ma decisivi: la storia delle malattie e delle cure ad esse; la storia di un territorio ed il suo sviluppo urbano;

63 Per una discussione di alcuni casi recenti in materia di diritti dei popoli autoc-toni, ove emerge con chiarezza il problema dell’accertamento giudiziale di avvenimenti storici, v. O. Dumoulin, Des faits à l’intérpretation: l’histoire au prétoire. Un exemple canadien, in La Revue pour l’Histoire du CNRS, 16, 2007, 1; E. Reiter, Fact, Narrative, and the Judicial Uses of History : Delgamuukw and Beyond, in 8 Indigeneous L. J. 55 (2010).

64 Per una disamina dei principali modelli di expert witnessing, v. V. Petrović, His-torians as Expert Witnesses in the Age of Extremes, cit., 8 ss.; nonché M. Taruffo, La semplice verità, cit., 215.

65 O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien. De la chaire au prétoire, cit., 82 ss. 66 Tale questione ha assunto un rilievo cruciale nel quadro delle controversie di

common law in materia di negazionismo, ove la prova delle condizioni subite dai de-portati nei campi di sterminio è stata resa particolarmente problematica proprio dal divieto dell’hearsay: v. in proposito il secondo capitolo del volume di R. Kahn, Holo-caust Denial and the Law, cit., 45 ss., significativamente intitolato “The Holocaust as Hearsay?”.

67 Anche a questo tema sono stati dedicati studi particolarmente interessanti: v. in particolare M.R. Stabili, Gli storici e le Comisiones de la verdad latinoamericane, in Contemporanea, 2009, 137.

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la storia demo-etnografica; la storia delle colture e dei prodotti agro-alimentari. E la lista potrebbe continuare all’infinito. Insomma, fuori dalla luce dei riflettori, nella quotidianità, lo storico aiuta il legislatore, l’amministratore, il giudice, o direttamente, o perché il suo lavoro vie-ne utilizzato, citato, commentato. Riesce dunque difficile segnare una linea di confine, soprattutto se la si vuole collocare in base al rilievo “politico” (anziché “tecnico”) della questione.

La risposta al problema del coordinamento tra le diverse sensibilità istituzionali deve ricercarsi sul piano del metodo: sulla preliminare chiara distinzione fra ricerca e giudizio; sulla selezione, compulsazione e presentazione delle fonti; sulla non definitività dei risultati; sulla loro collocazione in contesti temporalmente, geograficamente, socialmente più ampi68. Proprio perché si tratta di problematiche ricorrenti in tutti i paesi occidentali, scelte condivise dalla comunità scientifica non ap-paiono affatto irrealizzabili e potrebbero costituire la base di un dialo-go nel quale si cercano di evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni reciproci, come quelli paventati da Ernst Forsthoff quando – all’indomani del processo di Francoforte – metteva in guardia dal ri-schio di “forensischen Historismus”69.

5. La libertà dello storico e i suoi limiti Il secondo aspetto è quello che si offre con maggiore nitidezza allo

sguardo del giurista. Esso consiste, come si è accennato, nella prolife-razione delle regole volte, direttamente o indirettamente, a governare l’attività di “scrittura” della storia nei suoi principali momenti costitu-tivi: a) l’accesso alle fonti; b) l’interpretazione dei fatti; c) la divulga-zione dei risultati della ricerca.

(a) Il primo profilo, quello dell’accesso alle fonti, è particolarmente importante in quanto evidenzia un dato talora sottovalutato nel-l’ambito delle riflessioni sullo storico “saisi par le droit”. Quando si parla di giuridificazione, si usa spesso tale formula, consapevolmente o inconsapevolmente, in un’accezione prevalentemente negativa: come se il livello ‘quantitativo’ delle regole in vigore fosse necessariamente in un rapporto di proporzionalità inversa con il grado di libertà ed auto-nomia riconosciute alla pratica storiografica. In realtà il dato della pro-liferazione delle norme è di per sé neutro sul piano contenutistico e non costituisce una spia attendibile del modello di disciplina concre-

68 V. A. Intelisano, Giustizia e storia. Metodologie a confronto, in questo Volume. 69 E. Forsthoff, Der Zeithistoriker als gerichtlicher Sachverständiger, in NJW, 1965,

574.

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tamente adottato. Può ben essere, infatti, che la presenza di un quadro regolamentare anche articolato rappresenti la precondizione istituzio-nale dell’effettivo esercizio delle libertà individuali, e segnatamente delle libertà dello storico. Se si riflette sullo statuto degli archivi, veri e propri guardiani della memoria70, ciò emerge in maniera abbastanza limpida71. Infatti, è proprio la predisposizione di un sistema formaliz-zato di acquisizione, classificazione e reperimento dei documenti che, assicurando la preservazione delle tracce del passato, rende possibile la prima fase dell’operazione di ‘scrittura della storia’72. Per un verso, dunque, le regole giuridiche che governano le attività di selezione, scarto, versamento e conservazione del materiale documentario realiz-zano una precondizione essenziale per l’esercizio della funzione di sto-rico: come si legge nel rapporto redatto da Guy Braibant nel 1967 sul-la situazione degli archivi in Francia, “il n’est pas d’histoire, pas d’administration, pas de République sans archives” 73. Per altro verso, la predisposizione di un regime di garanzie e limiti all’accesso si rivela indispensabile per un duplice ordine di ragioni: per assicurare la stessa effettività delle politiche di conservazione (un sistema di accesso indi-scriminato costituirebbe paradossalmente un potente incentivo alla sottrazione e alla distruzione di molti dei documenti più delicati) e per dirimere gli inevitabili conflitti con gli interessi altrui, di natura privata o pubblica74. La sicurezza dello stato costituisce uno degli esempi più noti75, sul quale, peraltro, la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata recentemente chiamata a confrontarsi, a margine d’una controversia relativa alla libertà dello storico di accedere a documenti originaria-mente classificati come segreti76; ma negli ultimi tempi ha assunto un

70 Si veda A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bo-

logna, 2002, 381 ss. 71 In proposito si veda il saggio di P. Carucci, I custodi della memoria: la disciplina

degli archivi e la ricerca storica, in questo Volume. 72 E. Cartier, Histoire et droit: rivalité ou complementarité?, in Rev. fr. dr. const.,

2006, 509, 516. 73 La citazione è tratta da E. Cartier, Histoire et droit: rivalité ou complementari-

té?, cit., 517. 74 Per un’attenta discussione di questi aspetti v. P. Carucci, La salvaguardia delle

fonti e il diritto di accesso, in Segreti personali e segreti di stato. Privacy, archivi e ricerca storica (a cura di C. Spagnolo), Fucecchio, 2001, 47 ss.

75 In tema v. M. Brutti, Disciplina degli archivi dei servizi e riforma del segreto di Stato in Segreti personali e segreti di stato. Privacy, archivi e ricerca storica (a cura di C. Spagnolo), cit., 111 ss.; A. Graziosi, La mappa del segreto, ivi, 133 ss. Si veda inoltre, in questo Volume, il contributo di M. Gotor, La storia sotto chiave: il segreto di stato e il terrorismo degli anni Settanta.

76 Corte eur. dir. uomo, 26 agosto 2009, App. n. 31475/05, Kenedi v. Hungary.

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rilievo preponderante il tema della protezione dei dati personali e della riservatezza77.

Se la giurisprudenza ha avuto modo, in passato, di occuparsi ripe-tutamente del conflitto tra la pretesa dell’amministrazione di acquisire documenti per fini archivistici e le esigenze di tutela delle persone coinvolte (basti ricordare le varie decisioni concernenti i carteggi di Claretta Petacci)78, la crescente valorizzazione del principio dell’au-todeterminazione informativa ha indotto lo stesso legislatore ad assu-mere importanti iniziative regolatorie in questa materia, le quali hanno profondamente innovato il quadro normativo preesistente (caratteriz-zato soprattutto dal d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409). Dopo l’introduzione della legge 675/1996, due importanti provvedimenti hanno visto la luce: il d.lgs. 30 luglio 1999, n. 281, relativo al tratta-mento dei dati per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica (poi assorbito nel Codice della privacy, d.lgs. 196/2003); e il Provve-dimento del Garante del 14 marzo 2001, il quale ha sancito l’adozione del Codice di deontologia e buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici. Tale Codice di condotta non ha un rilievo meramente interno e limitato alle categorie interessate; esso rappresen-ta invece una vera e propria fonte normativa secondaria, tanto che il rispetto delle sue disposizioni costituisce una condizione essenziale di liceità del trattamento dei dati personali (art. 6, c. 2, d.lgs. 281/1999)79. Esso si articola intorno a due plessi normativi principali: il primo (artt. 3-8) prefigura una serie di regole di condotta in capo agli archivisti, volte a bilanciare gli interessi pubblici alla comprensività, qualità, inte-grità, nonché il libero accesso agli archivi con i principi di tutela dei dati personali; il secondo (artt. 9-11) si indirizza agli utenti degli archi-vi, e quindi in primo luogo agli storici che vi accedano per scopi di ri-cerca scientifica, e, dopo aver ribadito la rilevanza dei criteri di perti-nenza e indispensabilità (art. 9), stabilisce alcune cautele soprattutto per l’ipotesi della diffusione dei dati personali estrapolati da ricerche d’archivio (art. 11).

77 S. Rodotà, Tutela della privacy e autonomia della ricerca, in Segreti personali e

segreti di stato. Privacy, archivi e ricerca storica (a cura di C. Spagnolo), cit., 37 ss. Per un’attenta analisi dell’esperienza francese in materia cfr. C. Vivant, L’historien sais par le droit. Contribution à l’étude des droits de l’histoire, cit., 89 ss.

78 Trib. Roma, 24 gennaio 1952, in Foro it., 1952, I, 244; App. Roma, 3 luglio 1953, in Foro it., 1953, I, 990; Cass. S.U. 29 marzo 1956, in Foro it., 1956, I, 699.

79 U. De Siervo, Dalla legge 675/1996 al Codice di deontologia per gli Archivi, in Segreti personali e segreti di stato. Privacy, archivi e ricerca storica (a cura di C. Spagno-lo), cit., 62-64.

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Il Codice deontologico non intende restringere l’accesso alle fonti, ma al contrario promuovere un uso responsabile di esse80. Esso appare pertanto ispirato, nel complesso, da un equilibrato bilanciamento tra i due poli del rispetto dei diritti delle persone e della salvaguardia della libertà di ricerca ed interpretazione degli accadimenti storici81. Non sempre, però, la giuridificazione della storia riflette un’attitudine al-trettanto flessibile. Talvolta l’intervento del sistema giuridico assume un carattere maggiormente invasivo, finendo per sacrificare in maniera sproporzionata una delle posizioni in conflitto e suscitando reazioni di dissenso da parte degli stessi destinatari finali delle regole.

(b-c) Particolarmente rivelatrice, a questo riguardo, è l’evoluzione che si è avuta sul tema – che coincide con il secondo profilo dianzi evocato – dei limiti della libertà dello storico di diffondere i risultati della propria ricerca. La pubblicazione di opere a carattere storiografi-co è sempre stata, a dire il vero, fonte di un elevato contenzioso. In particolare, i repertori sono ricchi di casi relativi al conflitto tra la ri-cerca storica e la tutela di interessi quali il segreto, l’onore, la reputa-zione82. Se si studia da vicino l’esperienza giurisprudenziale successiva alla fine della seconda guerra mondiale, si vedrà come, soprattutto nel-le cause di diffamazione, le corti siano state chiamate ad operare su un terreno particolarmente insidioso, dove la garanzia dei diritti indivi-duali entra fisiologicamente in collisione con la libertà dello storico di rappresentare accadimenti del passato e proporne un’interpretazione critica. In alcuni sistemi, come quello francese, i tribunali hanno godu-to di più ampi margini di manovra per sottrarsi al dibattito storiografi-co: la presenza (almeno sino a poco tempo fa)83 di una norma che esclude l’opponibilità dell’exceptio veritatis per gli addebiti diffamatori relativi a fatti risalenti a più di dieci anni addietro – disposizione in-trodotta nella loi sur la presse (art. 35) all’indomani della fine della guerra con l’intento di favorire la riconciliazione nazionale e l’oblio84 – ha neutralizzato uno dei principali fattori d’interferenza tra logica del

80 P. Carucci, La salvaguardia delle fonti e il diritto di accesso, cit., 50-51; sul tema dell’uso responsabile delle competenze dello storico merita di essere richiamato il vo-lume di A. De Baets, Responsible History, New York – Oxford, 2010, passim.

81 In questo senso S. Rodotà, Tutela della privacy e autonomia della ricerca, cit., 39 ss.

82 In tema v. A. De Baets, Responsible History, cit., 72; C. Vivant, L’historien saisi par le droit, cit., 300- 396; N. Mallet-Poujol, Diffamation et « verité historique », in D., 2000, 226; T. Hochmann, Les limites à la liberté de l’‘historien’ en France et en Alle-magne, in Droit et société, 2008, 527.

83 Nel maggio 2011 il Conseil Constitutionnel ha dichiarato tale norma costituzio-nalmente illegittima: Cons. const., décision 20 maggio 2011, n. 2011-131.

84 Si tratta dell’Ordonnance del 6 maggio 1944. Per i necessari approfondimenti v. D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, cit., 53 ss.

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giudizio e verità storica. In altri sistemi, quale quello italiano, tale rete di protezione non è mai esistita e le corti non hanno potuto esimersi dall’esercitare, sin dall’immediato dopoguerra, un sindacato piuttosto intenso su contenuti e metodi delle opere storiografiche (o delle rico-struzioni giornalistiche relative ad eventi storici)85.

In generale si deve registrare negli ultimi trent’anni un significativo incremento delle controversie che vedono, nella veste di convenuti, storici di professione o autori di opere a carattere storiografico86. Basti ricordare i casi Pacelli c. Katz87, Papon c. Jean Luc Einaudi88, Aubrac c. Chauvy89, Forum des Association Arméniennes de France c. Lewis90, per percepire immediatamente la rilevanza del fenomeno. Tale aumento del contenzioso può essere messo in correlazione con quattro fattori principali: a) l’apertura degli archivi pubblici e la scoperta di archivi privati relativi alla seconda guerra mondiale91; b) il crescente rilievo della “storia del tempo presente” come autonomo campo di ricerca e l’assottigliamento dei confini tra pratiche storiografiche professionali e storiografia prodotta dai mass media92; c) l’espansione degli strumenti processuali e sostanziali preordinati alla tutela giudiziaria dei beni del-la personalità (identità, reputazione, riservatezza, oblio, etc.); d) la moltiplicazione delle ‘leggi memoriali’ e delle disposizioni normative preordinate al contrasto del negazionismo.

Il profilo da ultimo indicato merita di essere specificamente rimar-cato. Infatti non si può trascurare come negli ultimi anni, specialmente sul terreno del negazionismo, si sia determinato un circolo, vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista, tra le risposte della giurispruden-za e l’intervento legislativo. Investiti di un numero crescente di azioni

85 Per alcuni esempi v. Trib. Roma, 22 luglio 1949, in Giust. Pen., 1950, II, 449; Trib. Roma, 17 dicembre 1951, in Arch. pen., 1952, II, 439; Trib. Milano, 4 aprile 1955, in Giur. it., 1955, I, 2, 497; Trib. Roma, 28 marzo 1967, in Riv. pen., 1968, II, 50. Per un raffronto con la giurisprudenza più recente v. Cass., 30 marzo 2010, n. 7635, in Foro it., 2011, c. 1817,

86 Cfr. D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, cit., 51ss. 87 Trib. Roma, 27 novembre 1975, in Temi rom., 1976, 636; App. Roma, 1 luglio

1978, in Temi rom., 1978, 313; Cass. pen., 19 ottobre 1979, in Foro it., 1981, II, 243; App. Roma, 2 luglio 1981, in Temi rom., 1981, 715; Cass., 29 settembre 1983, in Giust. pen., 1984, II, 325. Per una discussione dettagliata del caso Katz sia consentito il rinvio a G. Resta – V. Zeno-Zencovich, Judicial ‘Truth’ and Historical ‘Truth’: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, cit.

88 TGI Paris, 26 marzo 1999, in Les petites affiches, n. 106, 1999, 21. 89 TGI Paris, 2 aprile 1998, in Les petites affiches, n. 85, 1998, 24. 90 TGI Paris, 21 giugno 1995, in Les petites affiches, n. 117, 1995, 17. 91 D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, cit., 51. 92 Sul punto v. T. Detti, La storia in vetrina nell’Italia di oggi, in Contemporanea,

2002, 342 ss.; N. Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, in L’uso pubblico della storia (a cura di Id.) , Milano, 1995, 17 ss.; P. Ortoleva, Storia e mass media, ivi, 63 ss.

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promosse soprattutto da enti non profit (associazioni rappresentative delle vittime di vari crimini contro l’umanità) nei confronti dei fautori di tesi negazioniste93, i giudici hanno apprestato – con diversa effettivi-tà a seconda dei sistemi giuridici coinvolti – un primo meccanismo di controllo della rappresentazione pubblica di determinati accadimenti storici94. Per colmare le lacune della risposta giurisprudenziale, per sua natura necessariamente frammentaria, il legislatore è intervenuto stabi-lendo proibizioni e divieti, spesso assistiti da sanzione penale. Ciò è avvenuto non soltanto al livello del diritto nazionale (emblematica a questo riguardo è l’esperienza francese, a partire dalla Loi Gayssot in avanti)95, ma anche su quello del diritto europeo, come esemplarmente dimostrato dalla Decisione Quadro del Consiglio del 6 dicembre 2008 sulla lotta contro talune manifestazioni di razzismo e xenofobia96. In tal modo si è notevolmente allargato il compasso della tutela giurisdi-zionale, atteso che si è ampliata la legittimazione ad litem; divieti e ri-medi sono stati proiettati su un orizzonte temporale tendenzialmente indeterminato (dissociando l’azionabilità del divieto dalla concreta sussistenza di vittime degli eventi storici rilevanti)97; si è esteso il nove-ro dei comportamenti interdetti; si sono intensificate le sanzioni98. Ma il riferimento ad un siffatto fenomeno sposta necessariamente il discor-so su un altro piano, di grande rilevanza, e cioè quello delle intersezio-ni tra diritto e memoria storica.

93 E non solo: in un caso, deciso dal Tribunale di Torino, l’Unione degli Armeni in Italia e la Fondazione “Stefano Serapian” lamentavano l’omessa menzione del geno-cidio armeno in un’opera storico-letteraria a carattere divulgativo. L’azione, basata sul diritto all’identità personale, è stata rigettata: cfr. Trib. Torino, 27 novembre 2008, in Giur. cost., 2009, 5, 3949, con nota di F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la “verità storica”?.

94 Per un valido panorama comparatistico – comprensivo delle esperienze france-se, tedesca, statunitense e canadese – v. R. Kahn, Holocaust Denial and the Law, cit., 13-44.

95 Circa la quale si veda P. Nora, History, Memory and the Law in France, 1990-2010, in Historein, 2011, 10 ss.; P. Weil, The Politics of Memory : Bans and Commemo-rations, cit., 562 ss.; F. Rome, Retour sur les lois mémorielles, in D., 2007, 489; B. Ma-thieu, Les « lois mémorielles » ou la violation de la Constitution par consensus, in D., 2006, 3001.

96 In tema cfr. L. Cajani, Criminal Laws on History: The Case of the European Un-ion, cit., 27 ss.

97 E. Cartier, Histoire et droit: rivalité ou complementarité?, cit., 519. 98 Per uno sguardo d’insieme v. L. Pech, The Law of Holocaust Denial in Europe:

Toward a (qualified) EU-wide Criminal Prohibition, cit.; L. Cajani, Diritto penale e li-bertà dello storico, in questo Volume.

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6. Storia (e memoria) come risultato del diritto Un primo profilo, che merita di essere sottolineato, è quello della

formalizzazione pubblica della ricorrenza di eventi storici. Le tre grandi religioni monoteiste collegano occasioni di venerazione a vi-cende – si tratti della preparazione della fuga dall’Egitto, della crocifis-sione, della nascita del profeta – cui viene data una consistenza storica. In queste narrazioni la memoria è tipicamente legata alla preservazione di un sentimento di gratitudine99. Con la laicizzazione dello Stato an-che le ricorrenze pubbliche vengono collegate ad eventi fondanti (il 4 luglio negli Stati Uniti, il 14 luglio in Francia) o di natura bellica. Non è questa la sede per addentrarsi in un complesso discorso sulla costru-zione dell’identità di una nazione o di una comunità. È tuttavia eviden-te che dietro le molteplici occasioni vi sia l’intento di conservare il ri-cordo di un evento – per lo più un evento fausto della storia nazionale – attribuendo ad esso un preciso significato storico100. Solo per restare all’esperienza italiana, le date del 25 aprile, del 2 giugno o del 4 no-vembre sollecitano una costante rievocazione del passato e una rifles-sione sulla loro valenza a distanza di decenni e decenni dal fatto. Ciò che merita di essere sottolineato è che, nella produzione legislativa più recente, la “giuridificazione della memoria” opera non più in relazione ad eventi fausti (e ‘positivamente’ costitutivi di una memoria colletti-va), bensì tragici e traumatici101. Eventi rispetto ai quali in passato – a partire dai celebri esempi del decreto ateniese promulgato nel 403 a.C. a seguito della cacciata dei Trenta tiranni e dell’editto di Nantes – si era spesso usata la politica esattamente opposta dell’oblio e della can-cellazione del ricordo102. L’esempio più ovvio è quello dell’istituzione del giorno della memoria – il 27 gennaio – in ricordo della Shoah (l. 211/2000)103; ma uno sguardo al calendario legislativo restituisce un panorama particolarmente affollato di “tragedie della storia”: dal Giorno del ricordo per le vittime delle foibe e gli italiani espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia (10 febbraio), al Giorno della memoria de-dicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di matrice politica e ma-fiosa (9 maggio), al Giorno della libertà in ricordo dell’abbattimento

99 Cfr. A. Margalit, L’etica della memoria, Bologna, 2006, 64 ss. 100 A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 7 ss. 101 A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 19. 102 Circa gli esempi ricordati nel testo e per una profonda riflessione sul tema

dell’oblio v. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad. it., Milano, 2003, 642 ss. 103 In tema v. E. Fronza, The Punishment of Negationism: The Difficult Dialogue

Between Law and Memory, in 30 Vermont L. Rev. 609 (2006), spec. 611.

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del muro di Berlino (9 novembre)104. Un processo, questo, che trova una precisa ed influente sponda a livello europeo, come testimonia la Relazione della Commissione al Parlamento e al Consiglio del 22 di-cembre 2010, su “La memoria dei crimini commessi dai regimi totali-tari in Europa”105. Emerge immediatamente come in tal modo il ricor-do collettivo, imposto dalla legge, trapassi “da ciò che una comunità vorrebbe ricordare a ciò che dovrebbe ricordare: non debiti di ricono-scenza, quanto piuttosto esperienze che negano alla radice l’idea con-divisa di umanità, per proteggerla dai rischi della recidiva”106. Cambia, pertanto, la ragione del ricorso a tale ‘mnemotecnica giuridica’, la qua-le assume ora una funzione chiaramente terapeutica e profilattica107; cambiano i dispositivi utilizzati per realizzare tale funzione; cambiano, infine gli effetti e le implicazioni di tale intervento giuridico108.

Si è notato, in particolare, che ancorché permeata di scelte pro-priamente politiche, l’ufficializzazione di ricorrenze attribuisce ad esse – e a quel che rappresentano – una presunzione di conformità ad una certa lettura, ponendo dei vincoli quantomeno intellettuali a ricostru-zioni diverse109. Tutto ciò ha una serie di ricadute minori, di cui la più evidente è la toponomastica stradale. Il discorso si fa più complesso quando attraverso la determinazione, quasi banale, di una ricorrenza, si intende in tempi più recenti ottenere un suggello legislativo su vi-cende storiche. È dunque il legislatore a scrivere la storia o, almeno, ad attribuire la patente di autenticità ad una sua ben determinata rico-struzione110. Le finalità sono le più varie: non solo rendere giustizia come nel processo, ma ovviamente anche la promozione di taluni valo-ri, la propaganda di talune idee, l’esecrazione di condotte.

La “giuridificazione della memoria” appare al giurista carica di implicazioni assiologiche, le quali risultano assolutamente dominanti. Nell’uso giudiziale della storia questa viene forgiata e adattata alle esi-genze del processo. Qui, invece, è il diritto che viene piegato a finalità tutte politiche che, per quanto possano essere condivise, aprono la

104 A questo proposito v. il saggio di F. Focardi, Rielaborare il passato. Usi pubblici della storia e della memoria in Italia dopo la prima Repubblica, in questo Volume; cfr. altresì A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 7-8.

105 COM (2010), 783. 106 A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 13. 107 Le premesse storiche e culturali di una siffatta prospettiva sono bene indagate

da O. Lalieu, L’invention du “Devoir de mémoire”, in Vingtième Siècle. Rev. Hist., 2001, 83 ss.

108 V. ancora P. Weil, The Politics of Memory: Bans and Commemorations, cit. 109 Così, tra i molti, A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 14

ss.; e per un’attenta disamina del problema, nella prospettiva dello storico, L. Cajani, Diritto penale e libertà dello storico, in questo Volume.

110 In proposito cfr. D. de Bellescize, L’autorité du droit sur l’histoire, cit., 58 ss.

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strada ad evidenti aporie. La prima riguarda la relazione fra l’astratta immutabilità della statuizione legislativa e la costante evoluzione della ricerca storica, la quale in ipotesi – ma spesso anche in concreto – por-ta a significative modifiche, se non addirittura a ribaltamenti del qua-dro oggettivo di riferimento111. La seconda attiene all’ambiguità e poli-semia del termine “memoria” che risulta evidente nel momento in cui viene trasferito dagli individui ad una collettività112, e induce a chie-dersi se se ne possa parlare quando ormai tutte le persone che sono state in qualche modo testimoni sono scomparse. La terza concerne la questione dell’efficacia di una tale scelta di politica legislativa: non è affatto detto che l’istituzionalizzazione del ricordo, de-sacralizzata e spersonalizzata attraverso i meccanismi della burocrazia, riesca effetti-vamente a svolgere una funzione promozionale della memoria, piutto-sto che condurre, come spesso accade per tipica eterogenesi dei fini, alla sua neutralizzazione113. Infine inevitabilmente c’è da chiedersi qua-li “memorie” meritino di essere consacrate, da quale legislatore nazio-nale, se vi sia una “parità di trattamento” fra vicende storiche, se e in che modo essa debba essere collegata al principio di maggioranza, op-pure, al contrario, essa debba privilegiare le minoranze, soprattutto se vittime di persecuzioni114.

Il secondo profilo che emerge con evidenza – ed al quale si è già accennato – è quello della sanzione nei confronti di affermazioni quali-ficate come contrarie alla ‘fattualità’ storica115. Il dibattito sul negazio-nismo è troppo ampio da potersi condensare in poche righe e su di es-so si soffermeranno diversi saggi contenuti nell’ultima parte di questo volume116. Osservandolo attraverso il prisma dei rapporti fra diritto e

111 Particolarmente significativo a questo riguardo è il caso Pétré-Grenouilleau, nel quale lo storico francese, autore di un importante volume su Les traites négrières, vincitore di numerosi premi scientifici, fu citato in giudizio dal Collectif des Antillais, Guyanais, Réunionnais per violazione della legge Taubira, che dichiarava la schiavitù e il commercio Atalantico degli schiavi un crimine contro l’umanità (per riferimenti v. P. Nora, History, Memory and the Law in France, 1990-2010, cit. 11; A. Melloni, Per una storia della tribunalizzazione della storia, cit., 45).

112 Per una discussione delle tesi di Maurice Halbwachs sulla mémoire collective v. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civil-tà antiche, Torino, 1997, 10 ss.; v. anche V. ad es. J. Le Goff, Mémoire, in Id., Histoire et mémoire, cit., 105 ss., 170.

113 In generale, sul fenomeno della “memoria imposta”, v. le pagine di P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., 124 ss.

114 Su tutti questi aspetti v. A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, cit., 19-21.

115 Ma la stessa idea di “fattualità storica”, in quanto distinta dalla valutazione giu-ridica, necessita di un attento approfondimento: si veda in proposito il saggio di O. Cayla, La madre, il figlio e la piastra elettrica, in questo Volume.

116 V. in particolare i contributi di L. Cajani, C.M. Cascione e O. Cayla.

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storia si può dire che esso è frutto di una visione promozionale e risto-ratrice del diritto.

La limitazione alla libertà di ricerca e di espressione non è infatti giustificata dalla falsità dei contenuti indagati e diffusi (chiunque può affermare senza tema di sanzioni – se non quelle reputazionali – che Napoleone Bonaparte non è mai esistito o che la seconda guerra mon-diale fu scatenata dagli Stati Uniti d’America) bensì dalla esigenza di tutela del sentimento dei sopravvissuti e di riaffermazione della intan-gibilità della memoria117.

Si coglie la differenza rispetto alle tradizionali fattispecie della isti-gazione e della apologia che presentano le caratteristiche del reato di pericolo, la cui prevenzione mira ad impedire la commissione di altri e più gravi reati di evento118. Si riafferma dunque la nozione di una sto-ria “ufficiale” la quale non deve essere scalfita da rappresentazioni grossolanamente alterate119.

Dietro le più che comprensibili ragioni che spingono il legislatore a muoversi in questa direzione, si agitano questioni di principio non tra-scurabili. In primo luogo la circostanza che questo approccio è preva-lentemente (anche se non esclusivamente) europeo, dove le atrocità sono state commesse e ancora vivono nella memoria120. Esso è scono-sciuto – ed anzi fortemente contestato – negli Stati Uniti d’America, che pure avrebbero più d’una ragione per sanzionare l’oltraggio alla memoria e dove le azioni giudiziarie volte ad accertare la corresponsa-

117 Sul punto v. Y. Thomas, La verité, le temps, le juge et l’historien, cit., 24; non-

ché le considerazioni di S. Rodotà, Il diritto alla verità, in questo Volume. 118 In generale v. E. Fronza, The Criminal Protection of Memory: Some Observa-

tions About the Offence of Holocaust Denial, in Genocide Denials and the Law (a cura di L. Hennebel – T. Hochmann), cit., 155 ss. ; Id., The Punishment of Negationism: The Difficult Dialogue Between Law and Memory, cit., 613 ss., 620-624; A. Ambrosi, Libertà di pensiero e manifestazione di opinioni razziste e xenofobe, in Quad. cost., 2008, 519 ss. In prospettiva più generale v. anche A. Pizzorusso, Limiti alla libertà di manifestazione del pensiero derivanti da incompatibilità del pensiero espresso con princi-pi costituzionali, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali. Scritti in memoria di Paolo Barile, Padova, 2003, 651 ss.

119 Ma sui limiti di validità di un siffatto modello legislativo, con particolare rife-rimento alla garanzia della libertà d’espressione e di ricerca storica, si veda la recente decisione del Conseil constitutionnel francese, che il 28 febbraio 2012 ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione della libertà di comunicazione e informa-zione, l’ultima delle lois mémorielles, quella approvata dal Parlamento francese il 23 gennaio 2012 (n. 2012-647). Per un commento J.P. Camby, La loi et le négationnisme: de l’exploitation de l’histoire au droit au débat sur l’histoire, in Les petites affiches, n. 70, 2012, 11.

120 A questo proposito è particolarmente istruttiva la lettura della recentissima Re-lazione della Commissione al Parlamento e al Consiglio su La memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa, Com (2010) 783, del 22 dicembre 2010.

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bilità di istituzioni private nei crimini del nazismo hanno avuto mag-giore esplicazione e successo121. In secondo luogo esso appare selettivo – e agli occhi di taluni, discriminatorio – nella misura in cui non viene esteso ad altre vicende che vengono equiparate per gravità, durata, estensione. Ci si rende dunque conto che la storia, anche se vista dalla parte delle vittime – che differenza c’è fra morire in uno stalag oppure in un gulag? –, non può trascurare la posizione dei carnefici. Se la sto-ria deve rendere giustizia, deve anche condannare e mentre per talune espressioni essa è unanime, per altre non si riscontra una simile con-cordia. Il che finisce – del tutto contrariamente alle intenzioni – con il trasformare il rendere giustizia in un assai triste privilegio.

Qualche cenno deve infine essere dedicato alla questione della rappresentazione mediatica della storia, atteso che questa – o la sua elisione – contribuisce in maniera decisiva a stabilirne la percezione sociale e dunque a giustificare un certo regime giuridico di regolazio-ne122.

A testimonianza del possibile iato fra storia e percezione diffusa si potrebbe portare il semplice esempio dei film “western”: il genocidio degli indiani d’America, accertato nei libri di storia e nelle aule di tri-bunale, risulta invece glorificato (e non certo represso) in centinaia di pellicole cinematografiche di successo. Specularmente, si potrebbe ri-flettere sull’immagine dei tedeschi che emerge dai film sulla seconda guerra mondiale. L’esempio viene portato non certo per sminuirne l’orrenda realtà – che nessuna pellicola potrà compiutamente rappre-sentare – ma per mettere in luce come la diffusa esecrazione del nazi-smo è cresciuta col passare degli anni non tanto perché la ricerca stori-ca scoprisse la mostruosa dimensione del fenomeno, ma perché tutta la comunità attraverso la rappresentazione visiva, anche solo in finzione, ne percepiva progressivamente il disvalore, creando dunque un circui-to: storia, immagini storiche, diritto.

E sempre sul terreno della storia come percezione sociale si pone la problematica dell’insegnamento scolastico e dei libri di testo di sto-ria123. Qui le costrizioni giuridiche sono molto evidenti: così come non

121 Cfr. N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento di illeciti storici. Il

caso della Holocaust litigation, in questo Volume. 122 In tema si confrontino le considerazioni di S. Lenzotti – A. Pattuzzi, Le memo-

rie, in Interventi per la pace. Educazione, conservazione della memoria e tutela dei diritti umani in Emilia-Romagna (a cura di C. Baraldi – L. Bertucelli – M.D. Panforti), Roma, 2011, 127 ss., 145; P. Ortoleva, Storia e mass media, cit., 63 ss.; nonché il contributo di S. Leonzi, La costruzione mediatica dei processi storici: il caso del processo di Norimber-ga, in questo Volume.

123 Su questo tema si veda il saggio di A. De Baets, The dark side of historical writ-ing: reflections on the censorship of history worldwide (1945–2012), in questo Volume.

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può essere consentito di impartire nozioni errate nel campo scientifico, può legittimamente porsi la questione della sindacabilità dei contenuti di altre materie (assai banalmente, la lingua, la letteratura, la geografia e, ovviamente, la storia). Tuttavia una volta riconosciuta la ammissibili-tà della verifica si pongono in tutta la loro difficoltà le questioni di procedura e di merito.

a) A chi spetta decidere se un libro di testo scolastico possa esse-re adottato? Ai singoli docenti, ai singoli istituti oppure ad organismi posti a livelli gradatamente più elevati fino a quello nazionale? Ed in questa decisione che ruolo devono e possono svolgere gli storici?

b) Quali criteri devono essere utilizzati per stabilire che un libro ha contenuti storici errati, e se e come è possibile distinguere fra nar-razione di fatti e analisi degli stessi?

c) Quale è il punto di equilibrio fra precisione storica e sintesi didascalica? Cioè fino a che punto è possibile – se non necessario – sa-crificare il dettaglio per chiaramente rappresentarne l’insieme?

7. Conclusioni Se ci si interroga sulle premesse sottostanti al processo di giuridifi-

cazione, come sin qui tratteggiato, si dovrà probabilmente convenire sul fatto che dietro la regolazione, diretta o indiretta, della ricerca sto-rica vi sono policies in larga misura inespresse e estremamente variabi-li.

a) La storia costruisce l’identità: appare diffusa la percezione che la rappresentazione “corretta” della storia è indispensabile per la for-mazione ed il consolidamento di una identità nazionale. Dietro la bat-tuta “parlar male di Garibaldi” vi è tutto il senso della esigenza di for-nire una versione “ufficiale” della storia attorno alla quale i cittadini possano identificarsi. Tale processo – e non è un paradosso – è molto più importante in paesi democratici, che in quelli autoritari, perché es-si non dispongono di strumenti coercitivi e dunque l’identità deve es-sere frutto di una spontanea adesione. Nessun esempio potrebbe esse-re più chiaro dell’uso della storia, e dei suoi eventi, dai primi coloni in poi, nella costruzione della identità americana.

b) La storia predice (e previene) il futuro. Vi è la radicata convin-zione – altamente suggestiva e che è alla radice dell’ethos dello storico – che la conoscenza degli errori del passato è indispensabile per evi-tarne la ripetizione in futuro. Ovviamente, non vi è alcuna possibilità di provare o confutare l’assunto, anche se le ricorrenti doglianze che non si è imparato nulla dalla storia farebbero propendere verso una cinica constatazione che la storia, più che maestra, è illusione. Tuttavia

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quel che rileva è che dietro la regolamentazione pubblica della storia vi è l’idea di una funzione educatrice e ammonitrice che è compito dello Stato assicurare.

c) La storia come riparatrice. Se dagli eventi storici taluni soggetti hanno subito gravissime e ingiustificabili violenze, si ritiene che la veri-tà sia il primo e doveroso ristoro124. Tale compito viene affidato a isti-tuzioni pubbliche – le Corti, i Parlamenti, organi para-giurisdizionali – ma anche allo storico il cui compito pubblico è lenire e non urticare le ferite aperte. In termini strettamente formali riesce però difficile spie-gare perché – al di là del rapporto tributario – un soggetto sia tenuto ad una condotta intesa a riparare i danni altrui. Ma anche vedendo la questione in termini di protezione della identità di talune comunità una costruzione rigorosa porterebbe a tutelarle tutte, e non solo alcu-ne. Il discorso si colora dunque di un alto tasso di opinabilità e di va-riabilità.

Se compete al giurista cercare di squarciare il velo che avvolge la regolamentazione pubblica della storia, solo lo storico è in grado di comprenderne in pieno la portata, e di offrire argomenti rigorosi di so-stegno e di confutazione. In altri termini, se i soggetti pubblici fanno un uso funzionale (taluni direbbero, strumentale) della storia, solo lo storico può controbattere sul piano scientifico e metodologico. Ma ciò richiederebbe che dello “statuto dello storico” vi fosse una nozione condivisa, il che non è (come anche dimostra il fatto che non è possibi-le rispondere in termini rigorosi alla domanda, sollecitata da ultimo dall’introduzione del Codice deontologico per i trattamenti di dati personali per scopi storici, su chi sia uno “storico”)125.

Il giurista – ed il comparatista ancor più – ha un ulteriore compito: quello di evidenziare la varietà di approcci normativi nella regolamen-tazione della storia, indice sintomatico della sua valenza fortemente politica.

Si trovano, infatti, regimi giuridici assai diversi fra di loro che ren-dono possibile e lecito in un paese, ciò che non lo è in altri. Vi è dun-que una sorta di ‘nazionalizzazione’ della storia, ciascun paese senten-dosi legittimato a fissare dei limiti, soprattutto per la ‘propria’ storia. Ma poiché la ricerca storica non può essere riservata ai cittadini dello Stato che fissa le regole si evidenzia la loro natura extra-territoriale e dunque planetaria: il che rende necessario valutarne la appropriatezza alla luce del principio di proporzionalità. Risulta poi evidente il perico-

124 V. ancora S. Rodotà, Il diritto alla verità, in questo Volume. 125 Sul punto v. il Dibattito tra Pavone, Romanelli, Carucci, Graziosi e Rodotà ri-

prodotto in Segreti personali e segreti di stato. Privacy, archivi e ricerca storica, (a cura di C. Spagnolo), cit., 75-78.

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lo – tutt’altro che teorico, come bene evidenzia il caso del genocidio armeno126 – di “guerre storiche” (o “guerre della memoria”) ove più stati – o persino più maggioranze di un medesimo stato, come insegna l’emblematica vicenda dell’Holodomor ucraino127 – fissino regole anta-gonistiche relative ai medesimi eventi. Il fenomeno si presenta in rela-zione a rivendicazioni di territori sulla base di dati etnici, linguistici, religiosi di cui si offre una forma storica. L’uso pubblico della storia nelle relazioni internazionali si pone dunque come principio di policy della regolazione, ma anche evidenza della difficoltà di stabilire un ter-reno comune.

126 In tema v. T.R. Salomon, Meinungsfreiheit und die Strafbarkeit des Negationi-

smus, in ZRP, 2012, 48 ; D. Fraser, Law’s Holocaust Denial. State, Memory, Legality, in Genocide Denials and the Law (a cura di L. Hennebel – T. Hochmann), cit., 23-27, 39 ss.

127 Su tale vicenda si sofferma L. Cajani, Diritto penale e libertà dello storico, in questo Volume.

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I CUSTODI DELLA MEMORIA: LA DISCIPLINA DEGLI ARCHIVI E LA RICERCA STORICA

Paola Carucci

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La consulenza storica nei processi e nelle commissioni istituzionali – 3. Accesso alle fonti – 4. Interpretazione/comprensione dei fatti e divulgazione dei risultati della ricerca.

1. Premessa I limiti entro i quali si svolge la ricerca contemporanea discendono

essenzialmente dal fatto che i documenti non nascono come fonti per la storia, ma per attestare attività giuridico-amministrative, attività pra-tiche. I documenti sono uno dei mezzi per lo svolgimento delle attività dei soggetti che a vario titolo operano nella società, il fondamentale per conservarne memoria: è il decorrere del tempo, unitamente alle sempre più consistenti operazioni di selezione/scarto che li trasforma in fonti per la ricerca storica. Proprio perché i documenti rispondono a esigenze politiche, amministrative, giudiziarie, militari, a finalità pra-tiche della pubblica amministrazione, di istituzioni private, di enti ec-clesiastici e religiosi, alle esigenze di comunicazione tra persone, i loro contenuti possono riferirsi a qualsiasi argomento e a situazioni di di-verso livello di riservatezza.

La stessa funzione di conservare memoria degli eventi organizzan-do gli archivi è determinata prioritariamente da esigenze di salvaguar-dia dei titoli che attestano diritti e proprietà e per funzionalità ammini-strativa, come è ben attestato, per i secoli scorsi, dagli archivi delle corporazioni religiose o di famiglie cospicue, in cui prevale la docu-mentazione su diritti e facoltà e sulla gestione dei patrimoni. Solo nel corso dell’Ottocento si afferma l’esigenza della ricerca aperta alla col-lettività e si costituiscono gli Archivi di Stato. In anni precedenti l’accesso ai documenti veniva consentito solo a storici o eruditi graditi all’autorità di governo.

Un’indagine sulle domande di studio presentate nel sec. XIX e nei primi decenni del XX agli Archivi di Stato potrebbe evidenziare la scarsa incidenza delle ricerche di storia contemporanea. Il primo rego-lamento degli archivi in Italia, del 1875, fissa all’inizio del secolo

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l’accesso ai documenti e la successiva legge archivistica del 1939 stabi-lisce il principio di pubblicità degli atti, ma non per quelli di politica estera o interna di carattere politico e riservati posteriori al 1870 (data modificabile solo per legge), stabilendo un limite di 30 anni dalla con-clusione degli affari per gli atti amministrativi. Con la legge archivistica del 1963 si ribadisce il principio generale della libera consultabilità dei documenti conservati negli Archivi di Stato, salvo tre eccezioni per le quali è posto un limite mobile (dunque non per legge, ma per il sem-plice decorrere del tempo) di 50 e 70 anni, ed è chiaramente discipli-nata la procedura per la consultazione anticipata, ammessa per motivi di studio.

Nel dibattito sulla possibilità di conferire legittimità alla storia con-temporanea (la prima cattedra universitaria in Italia risale agli anni Sessanta) si contestava la passionalità dello storico rispetto a eventi di cui era anche testimone, la mancanza di adeguata prospettiva tempora-le, la difficoltà di stabilire un limite tra storia e politica, tra storia e cronaca. Croce scrive nel 1927 La storia d’Italia dal 1861 al 1915, so-stenendo che, superato quel limite cronologico, si entra nel dibattito politico, auspicabile ma lecito in altra sede. Marc Bloch sostiene che ogni generazione ha il diritto di scrivere per prima la propria storia degli eventi di cui è partecipe, di darne una prima sistemazione che poi diventerà fonte per gli storici successivi. Così è avvenuto per le Istorie fiorentine di Machiavelli o per la Storia civile del Regno di Napo-li di Pietro Giannone. Si pensi anche all’importanza dei Diari e della Memorialistica o delle testimonianze orali come fonti per la storia.

Perché i documenti contemporanei si possano studiare si rende necessaria una normativa archivistica che disciplini:

- la formazione e gestione degli archivi correnti delle pubbliche istituzioni;

- le operazioni di selezione e scarto e il successivo versamento agli Archivi storici;

- la conservazione; - la consultabilità dei documenti, tenendo conto delle implica-

zioni correlate alla sicurezza dello Stato, a motivi di opportunità (fatto-re questo fondamentale, quando si gestiscono fonti contemporanee, anche se raramente se ne parla), alla tutela della riservatezza delle per-sone.

Oltre al diritto alla ricerca, delineatosi nel corso del sec. XIX, si è venuta affermando negli ultimi decenni l’esigenza della società civile di

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accedere ai documenti dell’amministrazione attiva per la tutela di dirit-ti e per il controllo sull’attività della pubblica amministrazione. A tale esigenza si è risposto con norme diverse nei vari Paesi: ad esempio, nella normativa italiana sulla trasparenza del procedimento ammini-strativo del 1990 si riconosce il diritto di accesso per la tutela di inte-ressi giuridicamente protetti, ma non si riconosce il diritto di accedere ai documenti per il controllo della collettività sull’operato dell’am-ministrazione, nonostante l’affermazione della “trasparenza come ac-cessibilità” presente nella legge 150/2009, che rimane una mera peti-zione di principio.

I nodi centrali del processo di “giuridificazione” della storia sono stati individuati nella relazione introduttiva:

- nella crescente attrazione dell’expertise storiografica nei processi penali, almeno in Italia, e in Commissioni pubbliche per contribuire in via non contenziosa all’accertamento della “verità”;

- nella proliferazione delle regole di natura formale tese a discipli-nare le tre attività principali del mestiere di storico:

a) accesso alle fonti; b) interpretazione/comprensione dei fatti; c) divulgazione dei risultati della ricerca. Si tratta di temi che possono incrociarsi con l’attività degli archivi-

sti, sia pure in maniera diversa.

2. La consulenza storica nei processi e nelle commissioni istituzionali Ai fini della ricerca, la consulenza degli storici nei processi e nelle

Commissioni istituzionali ha dei riflessi sull’utilizzazione delle fonti ar-chivistiche, in quanto questi storici vengono ammessi non solo alla consultazione dei documenti accessibili a tutti i ricercatori, ma anche di documentazione che, come liberi ricercatori, non potrebbero con-sultare.

Se l’irruzione del diritto nella storia ha un momento fondamentale nei processi di Tokio e di Norimberga, è pur vero che il concetto di responsabilità degli Stati a fronte della catastrofe che è scaturita dal conflitto si delinea già dopo la prima guerra mondiale, quando si av-viano in molti paesi europei le edizioni di fonti diplomatiche, la cui se-lezione e cura è affidata ad apposite Commissioni istituzionali. Paralle-lamente si sviluppava la costruzione di monumenti ai caduti, la fre-

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quenza di cerimonie e celebrazioni, forme partecipative che diventano preciso strumento di governo durante il regime fascista e vengono rie-laborate in un più articolato concetto di uso pubblico della storia a partire dal secondo dopoguerra.

In Italia le expertises degli storici vengono richieste non solo per i processi dei crimini nazi-fascisti, ma anche per i processi di strage e terrorismo o di deviazione dei servizi, su richiesta delle Procure e delle Commissioni parlamentari per contestualizzare i fatti delittuosi nella dinamica degli eventi sociali e politici. È capitato anche agli archivisti di Stato di svolgere perizie per analizzare il rapporto tra organizzazio-ne degli uffici e produzione documentaria al fine di verificare l’entità di distruzioni lecite o illegittime di documenti o altri aspetti tecnici.

Come archivista di Stato, ho svolto funzioni di consulente della Procura generale per l’archivio Gladio e per le carte dell’Ufficio riser-vato (Ministero dell’interno, Direzione generale della pubblica sicu-rezza) sequestrate dall’Ucigos di Roma e ho fatto parte di una Com-missione governativa sul risarcimento agli ebrei per i danni subiti in conseguenza delle leggi razziali, presieduta da Tina Anselmi. Ho con-statato in questi casi una forte spinta a rappresentare solo ciò che è fondatamente provato evitando ipotesi e connessioni induttive o de-duttive non suffragate da prove evidenti e, dunque, un vincolo più stringente rispetto alla ricerca storica libera che deve fondarsi su do-cumentazione rigorosa, ma accoglie – sia pure in forma problematica – interpretazioni plausibili sul raccordo di eventi che non sempre hanno lasciato traccia.

È evidente che la collaborazione dei ricercatori nei processi e nelle Commissioni istituzionali impone un’attenzione sul dibattito teorico-storiografico in ordine al concetto di “verità”. In un prezioso volumet-to di G. Galasso dedicato alla “verità” storica, la verità è vista come un processo continuo di apprendimento e approfondimento delle cono-scenze che acquisiamo su ciò che è stato, attraverso l’uso delle fonti intese nell’accezione più vasta di ogni traccia del passato, e facendo tesoro delle metodologie di altre discipline ai fini dell’interpretazione di fonti non documentarie. Di qui l’esigenza di comprovare la rico-struzione degli eventi con un ampio apparato critico a sostegno dell’in-terpretazione per consentire ad altri verifiche dei dati o confutazioni teoriche. Serve allo storico sapersi immedesimare nel passato e, nello stesso tempo, saperne prendere le distanze. Galasso sottolinea l’importanza dell’apparato critico, l’analisi dei documenti, il rigore fi-

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lologico dell’uso e riuso di fonti note o nuove, la coerenza concettuale; contestualizzazione dei documenti nel loro processo di formazione, ma anche contestualizzazione dello storico – quando si studiano i testi del passato – ovvero degli anni in cui lo storico ha effettuato i suoi studi e delle istanze da cui era mosso. In sostanza la “verità” storica non im-plica una interpretazione storiografica univoca, anzi, ma non vi è arbi-trio nella ricerca storica, se fondata sullo stato delle conoscenze atte-stato in una documentazione adeguata.

Verità storica e verità giuridica sono concetti non coincidenti. La ricerca storica non cerca colpevoli, ma si propone di spiegare quel che accade. Se la verità storica è un processo dinamico, è evidente che im-plica la possibilità di ritornare su interpretazioni pregresse, anche alla luce di nuove fonti e di nuove e diverse prospettive di indagine: lo stesso allungarsi del tempo successivo agli eventi apre diverse ipotesi di analisi e di interpretazioni. La verità giuridica è strettamente deter-minata dalla ricerca di prove dirette all’identificazione di responsabili-tà specifiche e deve essere raggiunta entro termini cronologici definiti. Un processo può offrire una ricostruzione ragionevole di quanto è ac-caduto, ma se manca la connessione diretta tra un responsabile e i fatti in questione fallisce il suo scopo: diventa però fonte per la ricerca sto-rica.

L’uso pubblico della storia implica il rischio di un uso strumentale: sono evidenti i rischi impliciti nella ricerca di una interpretazione sto-rica univoca per costruire l’identità nazionale o una “memoria condivi-sa”. Non meno carica di rischi è l’idea di una funzione educatrice della storia, di una storia “magistra vitae” assicurata dallo Stato: a ciò si col-lega il tema dell’insegnamento della storia contemporanea nelle scuole – spesso risolto con il non impartirlo – e, soprattutto, della scelta dei testi.

Diverso, a mio avviso, è l’obiettivo della storia come riparatrice. Le Commissioni della verità istituite in molti Stati dell’America Latina mi-rano a una riconciliazione che solo in pochi casi si accompagna ad un accertamento giudiziario dei fatti (torture, detenzioni, persecuzioni va-rie) e, dunque, vi prevale una prospettiva politica che forse non sana le ferite delle vittime. D’altro canto, l’esperienza che ho fatto al Quirina-le, nella Giornata per le vittime delle stragi e del terrorismo, insieme a quella dell’iniziativa promossa dai familiari delle vittime intesa al recu-pero delle fonti nella Rete degli archivi “per non dimenticare” mi ha messo in contatto con i parenti delle vittime, tra cui emerge in genere

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un alto senso civile e un rispetto delle istituzioni che suscita un senti-mento di profonda ammirazione, specie nel contesto in cui viviamo: hanno quasi tutti sperimentato l’impossibilità di ricevere giustizia dai processi, ma in tutti è fortissima l’esigenza della “verità” storica.

3. Accesso alle fonti Il proliferare delle norme sull’utilizzazione dei documenti non

comporta necessariamente una maggiore autonomia della ricerca, anzi l’incrocio di norme, di massima non correlate tra loro, crea incertezze interpretative che possono nuocere alla ricerca.

Per quanto attiene all’acquisizione e conservazione delle fonti, dobbiamo considerare che le norme influiscono sul riconoscimento delle fonti come oggetto meritevole di tutela: ad esempio il riconosci-mento esplicito di fotografie e audiovisivi come beni culturali, e dun-que, l’esigenza di regole per la loro conservazione, si trova per la prima volta nel Testo unico dei beni culturali del 1999, poi ripresa e ulterior-mente approfondita nel Codice dei beni culturali del 2004. L’uso per fini di ricerca di fonti cinematografiche e televisive richiede, oltre a norme di tutela, un’accorta metodologia critica, tanto più se conside-riamo quanto il cinema influisce sulla costruzione della memoria e la televisione sulla formazione di una sensibilità collettiva o del suo ot-tundimento. Non meno rilevante l’uso sempre più diffuso tra le giova-ni generazioni del web, spesso senza alcuna educazione scolastica all’analisi critica dei siti.

Mentre di massima gli Archivi di Stato assicurano una conserva-zione adeguata dei documenti già acquisiti, resa tuttavia più problema-tica dai tagli di bilancio e dal mancato turn over del personale scientifi-co, diventa sempre più difficile la sorveglianza sugli archivi correnti e l’azione delle Commissioni che provvedono al flusso dei versamenti delle carte agli Archivi di Stato.

Oltre a distruzioni accidentali, per incuria o intenzionali, va rileva-to che una percentuale sempre più alta di documenti viene necessa-riamente destinata al macero, secondo quanto prescrive la normativa in materia. Di qui l’esigenza di una sempre più approfondita riflessio-ne sui criteri per la selezione e lo scarto e di una adeguata formazione degli archivisti che, nelle Commissioni di sorveglianza, rappresentano l’istanza della ricerca storica. La selezione per lo scarto prevede un de-

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terminato iter burocratico tra cui l’elaborazione di massimari di scarto o piani di conservazione, ma la decisione di salvaguardare certe fonti e distruggerne altre implica un giudizio di valore: se non vi è dubbio che certe serie documentarie debbano essere conservate e per alcune altre risulti evidente l’irrilevanza storica, la difficoltà dello scarto riguarda una grande massa di documentazione che ha comunque una qualche rilevanza, ma non tale da giustificarne necessariamente la conservazio-ne. La possibilità di una ragionevole selezione dei documenti da con-servare, rispetto a quelli da inviare al macero, si collega sia ad una cor-retta gestione degli archivi correnti, sempre meno realizzata a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e peggiorata in concomitanza con la disorganica introduzione dei protocolli elettronici e di documenti digitali, sia ai termini per il versamento dei documenti dall’amministra-zione attiva agli Archivi storici. Un congruo termine per il versamento è necessario per evitare agli Archivi di Stato il carico di ricerche per finalità amministrative connesse ai termini di prescrizione, ma in Italia il termine per il versamento è troppo lungo, 40 anni dalla conclusione degli affari, contro il prevalente limite di 30 anni per la maggior parte degli Stati occidentali o addirittura di 20, come ad esempio in Olanda.

In effetti documenti di data più recente rispetto al quarantennio sono sempre stati accolti negli Archivi di Stato italiani in virtù del comma che ne consente il versamento anticipato quando vi sia rischio di dispersione o danneggiamento, rischio, peraltro, non peregrino se si considera la scarsa cura che l’amministrazione attiva ha per la propria documentazione. Nel 2008, comunque, è stata accolta una modifica che consente il versamento anticipato previo accordo tra l’ufficio ver-sante e l’Archivio di Stato: ciò ha aperto la strada all’accoglimento del-la documentazione dei procedimenti penali – incluse anche le eventua-li consulenze degli storici – dopo la loro conclusione, senza attendere un ulteriore quarantennio. Si tratta di una importante innovazione proprio per consentire lo studio di atti processuali attinenti a stragi e fatti di terrorismo.

La presenza o meno di fonti recenti negli Archivi di Stato condi-ziona, evidentemente, la ricerca storica segnando un confine oggettivo tra storia e cronaca, ovvero tra l’uso di strumenti propri della ricerca storica e l’uso di diverse modalità di accesso alle notizie proprie dell’indagine giornalistica che non sempre fa un uso trasparente delle fonti, anzi è deontologicamente tenuta alla protezione della fonte.

Il termine per il versamento non è rispettato con rigore: pertanto la

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presenza di fonti degli ultimi cinquant’anni è per certi aspetti più ricca di quanto si possa pensare, ma frammentaria, e inoltre non è facile sa-pere quale e quanta documentazione si trovi ancora presso l’ammini-strazione attiva. Un censimento del 1960 e due altri censimenti negli anni Novanta sulle carte dei ministeri per una pianificazione dei ver-samenti hanno messo in evidenza fonti che poi non sono mai arrivate all’Archivio centrale dello Stato, ove sono pervenute invece carte, an-che molto importanti, che non risultavano censite, senza una evidente motivazione di tali discrepanze.

I costi sempre più alti per i depositi, in assenza di una politica di acquisizione di spazi demaniali, e lo stato di lenta deriva verso l’estinzione dell’Amministrazione archivistica rende meno efficace l’attività delle Commissioni di sorveglianza sugli archivi correnti che – in ordine alla valutazione per la selezione – spesso si trovano di fronte a una mole enorme di documenti, non di rado malamente ordinati, su cui non sono state fatte operazioni periodiche di scarto, con la conse-guenza di accogliere a volte quantità di carte di scarso rilievo a detri-mento dell’acquisizione di fonti più rilevanti.

Un ulteriore fattore incide sul ritardo dei versamenti. Una distorta interpretazione della legge sulla trasparenza del procedimento ammi-nistrativo e l’uso improprio del termine “secretazione” per indicare i documenti sottratti al diritto di accesso hanno creato una tendenza ad estendere l’area dei documenti riservati e ad allungare i termini per il versamento sulla base di motivi pretestuosi. Ma la debolezza politica del Ministero per i beni culturali, l’affievolimento dei poteri della Di-rezione generale degli archivi e il declassamento del sovrintendente all’Archivio centrale dello Stato non favoriscono una efficace azione di contrasto alle resistenze dell’amministrazione circa il rispetto dei ver-samenti.

Per quanto concerne il tema della consultabilità dei documenti è fondamentale riflettere in maniera distinta sul tema della trasparenza del procedimento amministrativo e delle regole che consentono o limi-tano l’accesso ai documenti dell’amministrazione attiva rispetto al principio generale di libera consultabilità, salvo alcune eccezioni di ri-servatezza, dei documenti conservati negli Archivi di Stato.

L’espressione “riservatezza” usata nella normativa archivistica, proprio perché di carattere generale, include:

a) i criteri per la “sottrazione al diritto di accesso” o “dilazione temporanea dell’accesso” per i documenti dell’amministrazione attiva,

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secondo le espressioni usate nella normativa sulla trasparenza del pro-cedimento amministrativo (legge 241/1990 e successive modifiche);

b) il segreto di Stato e i documenti classificati per la sicurezza del-lo Stato (legge 124/2007);

c) la tutela della riservatezza delle persone o privacy, che prevede per la libera consultabilità un limite di 40 anni per i dati sensibili e giu-ridici e di 70 per quelli sensibilissimi (decreto legislativo 196/2003);

d) l’opportunità di non rendere immediatamente consultabili par-te dei documenti della pubblica amministrazione o privati conservati negli Archivi storici, resa nel Codice dei beni culturali e del paesaggio in questi termini: “i documenti riservati relativi alla politica interna ed estera dello Stato” diventano liberamente consultabili 50 anni dopo la loro data (decreto legislativo 42/2004).

I quattro punti richiedono un esame specifico. a) La legge 241/1990 sulla trasparenza del procedimento ammini-

strativo riconosce il diritto di accedere agli atti dell’amministrazione attiva solo per la tutela di interessi giuridicamente protetti; stabilisce che in appositi regolamenti vengano elencate le tipologie di documenti esclusi dal diritto di accesso o soggetti a una temporanea dilazione dell’accesso per una maggiore funzionalità dell’azione amministrativa. Le modifiche a tale legge – oltre a dichiarare esplicitamente che la ri-chiesta di accesso non deve mirare al controllo sull’attività dell’am-ministrazione – hanno reso più confuse e restrittive le norme per l’accesso sempre più collegate, surrettiziamente, all’esigenza di sicu-rezza dello Stato: di qui l’uso improprio del termine “secretazione” e l’aumento progressivo delle serie documentarie sottratte in blocco all’accesso, con conseguente ritardo del versamento e preclusione di ogni forma di accesso, sia per finalità amministrative (connessa in ge-nere a una restrittiva interpretazione della tutela della privacy) che sto-riche, peraltro esplicitamente previste dal Codice dei beni culturali, ma non ancora disciplinate da alcun regolamento.

L’esigenza di un certo periodo di riservatezza, invece, deriva solo in parte – e non la più cospicua – dalla sicurezza dello Stato, ma piut-tosto da motivi di opportunità e, se i criteri di sottrazione al diritto di accesso – invece di essere considerati come uno strumento di potere – venissero stabiliti in maniera ragionevole e applicati correttamente, po-trebbero risultare non solo legittimi, ma utili anche ai fini della futura ricerca: un immediato accesso alle fonti può determinare una più dif-fusa distruzione illecita delle carte, può indurre chi scrive a forme di

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autocensura per evitare di dover pubblicamente difendere proprie va-lutazioni negative su persone, fatti e situazioni, può contribuire all’ina-sprimento dei rapporti tra le istituzioni e tra le persone. Una indiretta conseguenza della diffusione del protocollo elettronico è, ad esempio, la tendenza a non protocollare o a non scannerizzare documenti riser-vati.

In molti paesi europei ha trovato ampio sviluppo negli anni Ottan-ta e Novanta la normativa sull’accesso alla documentazione dell’am-ministrazione attiva, che parte dal Freedom of Information Act, appro-vato negli Stati Uniti nel 1966 sulla scorta di riflessioni connesse all’accesso ai documenti relativi all’assassinio di Kennedy e valido in quel paese anche per la consultabilità dei documenti conservati negli Archivi storici. La recente norma in materia emanata in Gran Bretagna sembra risultare efficace nel controllo sulla pubblica amministrazione, in particolare sulla spesa pubblica: una iniziativa in corso, promossa dalla Federazione Nazionale della Stampa, sta cercando di esercitare una forte pressione perché un provvedimento analogo venga approva-to anche in Italia (il 29 maggio si è tenuta una conferenza stampa alla Camera per illustrare l’iniziativa e chiedere l’approvazione di una legge in materia cui sta già lavorando un gruppo di lavoro). Si pensi a come sarebbe utile la pubblicazione dei curricula in occasione della nomina di cariche pubbliche, delle retribuzioni di chi esercita pubbliche fun-zioni o di tutta la documentazione sugli appalti.

Si deve, per onestà intellettuale, tener presente che ad una larga in-terpretazione dell’accesso ai documenti durante la Presidenza Clinton, ha fatto seguito un atteggiamento più restrittivo, così come sembra che anche in Gran Bretagna si vogliano ora porre alcuni limiti alla norma-tiva in vigore.

b) Il segreto di Stato, regolato dal codice penale e di procedura penale, trova nella legge 124/2007 una disciplina che ne limita la dura-ta a 15 anni con un’unica possibilità di rinnovo per altri 15 anni. La stessa legge introduce il principio della declassificazione automatica dei livelli di protezione dei documenti – segretissimo, segreto, riserva-tissimo, riservato – ma prevede una possibilità di riclassifica senza fis-sare un limite cronologico di durata. Il segreto di Stato va considerato in maniera distinta dal concetto di classificazione dei documenti per motivi di sicurezza dello Stato: il segreto di Stato, infatti, inibisce al giudice di indagare su certi fatti e accedere a certi documenti, mentre la classificazione attiene alla gestione dei documenti, fissando criteri di

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protezione di alcuni documenti o parti di essi anche in ordine alle mo-dalità di conservazione fisica e definisce a chi spetti il nullaosta di ac-cesso. Il giudice, mentre non può accedere ai documenti coperti dal segreto di Stato, può ottenere l’accesso ai documenti classificati.

La problematicità del segreto di Stato si lega al momento di inizio, rendendo poco certo il momento da cui decorrono i 15 anni di durata del segreto. La stessa apposizione del segreto su fatti e documenti può essere successiva agli eventi ed è sicuramente successiva l’opposizione del segreto al magistrato o, per essere più precisi, la conferma da parte del Presidente del consiglio all’autorità giudiziaria dell’opposizione del segreto di Stato. I regolamenti della legge finora approvati mirano a restringere ulteriormente la possibilità di chiedere l’accesso ai docu-menti per cui è venuto meno il segreto di Stato dopo la scadenza del limite, ispirandosi alle interpretazioni più restrittive della normativa sulla trasparenza del procedimento amministrativo. Il d.p.c.m. 22 lu-glio 2011, n. 4, che modifica quello del 2006 dettando nuove disposi-zioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informa-zioni classificate, rende meno operativa la declassificazione automatica dei documenti, prevista nella legge 124/2007, limitandone pertanto l’applicazione: l’autorità che detiene l’informazione applica la declassi-ficazione nei casi di “richiesta di un soggetto pubblico o istanza moti-vata di accesso da parte di un privato portatore di un interesse giuridi-camente tutelato”, dandone comunicazione all’ente originatore che può prorogare i termini di classificazione o dichiarare l’avvenuta de-classificazione. Ciò distorce nella sostanza e nella prassi il senso della declassificazione automatica.

La direttiva del Presidente del consiglio Monti del 14 marzo 2012, in attuazione di queste disposizioni approvate durante il precedente governo, pur tacendo dei limiti eccessivi posti alla declassificazione au-tomatica dei documenti classificati, richiama le amministrazioni ad una “attenta e ponderata valutazione della gravità del danno che potrebbe derivare all’integrità della Repubblica” ai fini del ricorso al segreto di Stato che non deve essere “considerato alla stregua di uno strumento ordinario di protezione delle informazioni sensibili per la sicurezza”, esistendo a tal fine le classifiche di segretezza. In considerazione della eccezionale incisività del segreto di Stato, il potere di apporlo o di con-fermarne l’opposizione è stato attribuito in via esclusiva al Presidente del consiglio che ne risponde al Parlamento, come ribadito di recente anche dalla Corte costituzionale. Seguono ulteriori puntualizzazioni

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per il monitoraggio costante della situazione dei segreti di Stato e il ri-chiamo alle amministrazioni a sensibilizzare il proprio personale – che possa essere chiamato a deporre su fatti o documenti coperti da segre-to o che potrebbero esserlo – sulla necessità di immediata comunica-zione al Presidente del consiglio per l’adozione di eventuali provvedi-menti.

Dalle considerazioni espresse in questa direttiva, si ha la netta im-pressione di un pregresso uso disinvolto del ricorso al segreto di Stato.

Un troppo ampio ricorso al segreto di Stato ostacola oggettivamen-te le indagini giudiziarie, ma probabilmente ha una incidenza sulla ri-cerca storica minore di quanto si pensi. Il complesso di documenti ac-quisito nel corso di processi o nell’attività delle Commissioni parla-mentari fornisce un ampio quadro di fonti, anche se non è facile il ri-scontro di tali fonti sugli archivi delle istituzioni da cui provengono, meno disponibili dei Tribunali a versare le loro carte agli Archivi stori-ci. Ma, in sostanza, non è detto che, aprendo gli armadi del segreto, vi si trovino effettivamente molti documenti. Ad esempio – senza ovvia-mente poter escludere l’esistenza di serie non sottoposte all’attenzione del magistrato – la documentazione su Piazza Fontana tra le serie dell’Ufficio riservato sequestrate dall’Ucigos risulta ampiamente de-pauperata. L’intero complesso della documentazione sequestrata in via Appia si trovava in un deposito usato in anni precedenti per riunirvi la documentazione destinata al macero (secondo legittime procedure di scarto).

Mi sia consentito di ricordare anche la risposta di un alto funziona-re dei Servizi di sicurezza militare, al cui interrogatorio ho assistito in qualità di consulente del procuratore. Veniva fatta distinzione tra do-cumenti formali, regolarmente protocollati e classificati, per i quali vengono prese tutte le cautele connesse alla classificazione e al tratta-mento protetto, e documenti informali, non registrati (al massimo an-notati su un brogliaccio privo di valore giuridico) né protocollati, per i quali non è previsto alcun obbligo di conservazione: evidentemente l’adozione di documenti formali o informali non è legata all’impor-tanza del contenuto.

c) Ai fini della ricerca storica, la tutela della privacy è stata raccor-data alla normativa sugli archivi e trova una funzionale disciplina nel Codice deontologico e di buona condotta per archivisti e storici. La di-sciplina relativa ai dati sensibili (o meglio di quelli sensibilissimi) non è invece correlata alla normativa sul diritto d’autore e, pertanto, risulta

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non sempre coerente la disciplina della consultabilità dei documenti, più liberale, con quella della possibilità di pubblicare lettere personali che ricadano nella protezione del diritto d’autore. Qualche dubbio si pone anche in relazione ai dati giudiziari, in quanto il Codice dei beni culturali non tiene conto delle disposizioni più liberali del Codice di procedura penale e definisce i dati giudiziari in maniera più ambigua di quanto non risulti nel Codice per la protezione dei dati personali.

d) Circa l’opportunità di non rendere immediatamente consultabili parte dei documenti della pubblica amministrazione o privati, anche se si trovino presso Archivi storici, si rileva che il principio generale della libera consultabilità dei documenti conservati presso gli Archivi di Sta-to prevede alcune eccezioni: un limite mobile di 40 anni per i dati per-sonali sensibili e per i dati giudiziari e un limite mobile di 70 anni per i dati personali sensibilissimi (salute, vita sessuale, situazioni familiari particolarmente riservate); un limite mobile di 50 anni per i documenti riservati per motivi di politica interna o estera.

Ciò significa che, ove serie documentarie siano dichiarate riservate in sede di versamento all’Archivio di Stato, per le quali cioè sussistano le esigenze di sottrazione al diritto di accesso, anche l’Archivio di Stato è tenuto ad assicurarne la riservatezza. La normativa sugli archivi di-sciplina però in maniera chiara e funzionale la possibilità di autorizzare per motivi di studio la consultazione anticipata dei documenti riserva-ti: l’autorizzazione è data dal ministro dell’interno, previo parere di una Commissione istituita nel 1998, di cui fanno parte un prefetto, un rappresentante della Commissione per l’accesso ai documenti dell’am-ministrazione attiva, un rappresentante del Garante dei dati personali, il sovrintendente all’Archivio centrale dello Stato e uno storico con-temporaneista scelto dal ministro per i beni culturali. Di massima vie-ne autorizzata la ricerca fino all’ultimo trentennio, ma non tutti gli Ar-chivi storici seguono una prassi analoga, per esempio l’Archivio storico del Ministero degli affari esteri ha una tradizione di particolare ristret-tezza.

Tuttavia, anche quando sia stata autorizzata per motivi di studio la consultazione anticipata di documenti riservati, non si può escludere che la pubblicità di alcuni singoli documenti possa risultare inoppor-tuna. In effetti, chiunque sia stato responsabile di una sala di studio sa bene che la gestione di documenti recenti richiede attenzione, non già in ordine alla sicurezza dello Stato – dal momento che documenti la cui diffusione possa recare effettivamente un danno attuale alla Re-

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pubblica non si trovano di massima negli Archivi storici – bensì in ap-plicazione della normativa sulla tutela dei dati personali (si pensi a una gestione acritica dei documenti sull’epurazione o attualmente su inda-gini relative a sospetti di terrorismo) e per la valutazione circa l’opportunità di dare in consultazione documenti riservati di data re-cente.

L’amministrazione archivistica italiana risolve la questione della ri-servatezza per la tutela dei dati personali e per ragioni di opportunità con la prassi della “scrematura”, ovvero l’esame dei fascicoli prima di darli in consultazione, sottraendo singoli documenti della cui esistenza si dà notizia allo studioso: tale valutazione risulta inevitabilmente affi-data alla discrezionalità degli archivisti. Contrariamente a quanto spes-so si sente in seminari sulla consultabilità dei documenti, non è vero che nei paesi in cui si opera la declassificazione dei documenti – come ad esempio negli Stati Uniti – questa operazione tocchi tutti i docu-menti per il semplice decorrere del tempo: la declassificazione implica la visione di tutti i documenti e la valutazione di quelli da declassifica-re. La soluzione italiana permette di valutare i documenti, via via che vengono richiesti (prendendone nota) e non preventivamente su tutta la massa documentaria conservata.

Di recente è stata elaborata da una archivista americana una bozza di linee guida per l’accesso ai documenti riservati che dovrà essere ap-provata dal Consiglio internazionale degli archivi: vi si esplicita chia-ramente il ruolo dell’archivista nella valutazione dei documenti, in so-stanza nell’operazione che noi chiamiamo “scrematura” e vi è uno sforzo di definire i criteri per la valutazione, analoghi in sostanza a quelli che vengono praticati presso l’Archivio centrale dello Stato e al-tri Archivi storici, anche se sotto il profilo teorico si fa esplicito riferi-mento alla sicurezza dello Stato e alla tutela dei dati personali e, solo indirettamente, si capisce che sussistono anche esigenze di opportunità non chiaramente qualificate. Rispetto alle indicazioni fornite in questa bozza, sostanzialmente analoga alla nostra normativa, si può rilevare invece una particolare attenzione alla conservazione e consultabilità dei documenti necessari per la difesa dei diritti umani e – grave lacuna della nostra normativa – una procedura per la tutela dei ricercatori, in caso di immotivato diniego di consultazione.

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4. Interpretazione/comprensione dei fatti e divulgazione dei risultati della ricerca

Questo tema è centrale per la ricerca storica e si può constatare

che la normativa sugli archivi non pone alcun limite all’interpretazione storiografica, ma anzi si propone di favorire la più ampia fruizione dei documenti. Il tema può tuttavia incrociarsi in maniera problematica con le questioni inerenti le consulenze storiche nei processi penali e nelle Commissioni parlamentari, con quelle della ricerca di una memo-ria condivisa o con l’antistorica pretesa di una verità storica unica e in-confutabile che, in alcuni paesi, ha portato all’approvazione di leggi, per esempio, contro il negazionismo. Alla proposizione di opinioni non convalidate dalla ricerca o in antitesi con eventi sicuramente ac-clarati non si può, a mio avviso, rispondere con una legge, ma con l’acribia della ricerca, ribattendone – ove si ritenga necessario prende-re in considerazione quelle opinioni – punto per punto l’inconsistenza.

Si pone in termini diversi il rischio di una diffusione incongrua di dati in violazione della normativa sulla tutela dei dati personali. Tale normativa tende a bilanciare due diritti garantiti dalla Costituzione, il diritto al riserbo e il diritto alla ricerca e alla libera manifestazione del pensiero: opportunamente riconosce un affieviolimento del diritto alla riservatezza per chi ricopre ruoli pubblici; si propone in sostanza di sensibilizzare il ricercatore sull’uso discreto dei dati personali e sul ri-spetto delle persone, che – nella prospettiva del Garante – vale anche dopo lo scadere della data che stabilisce la libera consultabilità dei do-cumenti contenenti dati sensibilissimi, nella consapevolezza che moda-lità di rappresentazione rispettose della dignità delle persone consen-tono un ampio uso dei documenti nella diffusione delle notizie. Il Co-dice di deontologia e di buona condotta per archivisti e ricercatori con-tribuisce in sostanza a richiamare lo studioso a utilizzare le fonti senza porsi in condizione di essere querelato. Definisce, inoltre, in maniera puntuale la distinzione tra “comunicazione” dei dati e “diffusione” dei dati, innovando rispetto alla normativa precedente. Il ricercatore, in-fatti, risponde non solo sotto il profilo penale, ma anche sotto quello civile con eventuale risarcimento del danno, dell’uso incongruo dei documenti protetti, per i quali abbia avuto l’autorizzazione alla consul-tazione anticipata.

La comunicazione consiste nell’attività dell’archivista che mette a

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disposizione di un ricercatore, cioè di una persona chiaramente indivi-duata, i documenti. Il ricercatore è responsabile della diffusione dei dati della sua ricerca, cioè di una comunicazione indiscriminata. Que-sta distinzione consente di accordare al ricercatore la visione di una maggiore quantità di documenti, necessaria per una più approfondita conoscenza dei fatti, purché nell’esposizione dei risultati operi con le necessarie cautele. Va ricordato che, a parità di condizione, l’autorizzazione alla consultazione anticipata di documenti riservati non può essere negata ad altro studioso e che per “parità di condizio-ni” si intende l’analogia del progetto di ricerca, non già la qualifica del ricercatore.

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LA STORIA SOTTO CHIAVE: IL SEGRETO DI STATO E IL TERRORISMO

DEGLI ANNI SETTANTA

Miguel Gotor

SOMMARIO: 1. La libertà dello storico e il segreto di Stato. 2. Gli arcana imperii e la

democrazia. 3. Il segreto e la verità storica: il terrorismo degli anni Settanta. 4. Considerazioni conclusive.

1. La libertà dello storico e il segreto di Stato Riflettere sui limiti giuridici posti al lavoro dello storico è un tema

affascinante, meritevole di approfondimento perché condiziona la concreta e quotidiana attività di ricerca soprattutto di quanti studiano eventi di storia contemporanea relativamente recenti come i fenomeni eversivi degli anni Settanta, in particolare il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro1.

Su questi studi si staglia una lunga ombra scura, quella del segreto di Stato2, che vorrei provare a dissipare insieme con le sue mitologie e retoriche di maniera.

Anzitutto credo sia opportuno fornire un breve inquadramento dell’attuale legislazione sul segreto di Stato e una definizione del concet-to a partire dai pronunciamenti più recenti della Corte costituzionale.

Il segreto di Stato è legato alle ragioni dello Stato e risponde a un interesse “presente e preminente su ogni altro in tutti gli ordinamenti statali, quale ne sia il regime politico”, a partire dall’articolo 52 della Costituzione quello in cui si stabilisce che “la difesa della Patria è sa-cro dovere del cittadino”. Al fine di offrire un concreto contenuto alla nozione di segreto è necessario dunque definirlo in relazione ai valori costituzionali quali l’indipendenza nazionale, l’unità e l’indivisibilità dello Stato e il carattere democratico della Repubblica.

Il contenuto del segreto di Stato, così come è stato definito nel

1 Sulla strategia della tensione in Italia, nell’ambito di una storiografia ormai mol-to estesa, si rimanda a G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, 2003, 363-410. Sul caso Moro mi sia consentito rinviare ai miei due lavori Aldo Moro, Lettere dalla prigionia (a cura di M. Gotor), Torino, 2008 e Il me-moriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Torino, 2011.

2 Rispetto alla cultura politica degli anni Settanta si veda G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, 2009, 30-39.

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1977 dalla Corte costituzionale che interveniva in merito a un proce-dimento penale riguardante Edgardo Sogno, attiene alla “sicurezza esterna e interna dello Stato, alla necessità di protezione da ogni azio-ne violenta o comunque non conforme allo spirito democratico che ispira il nostro assetto costituzionale dei supremi interessi che valgono per qualsiasi collettività organizzata a Stato e che possono coinvolgere la stessa esistenza dello Stato”. Da questa definizione estensiva deriva la necessità di un bilanciamento il più possibile equilibrato degli inte-ressi garantiti dalla nozione di segreto di Stato con gli altri principi co-stituzionali, inclusi quelli relativi all’esercizio della funzione giurisdi-zionale.

In effetti il segreto di Stato riguarda soltanto l’azione della magi-stratura e viene apposto laddove l’azione giudiziaria rischierebbe di ledere i principi che questo strumento è preposto a tutelare. L’op-posizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal Presi-dente del Consiglio dei ministri, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto. Ma il suo impiego, così come stabilito con la sentenza del-la Corte costituzionale del 1998, non deve impedire all’autorità giudi-ziaria di indagare sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis, e perciò deve limitarsi a inibire soltanto l’acquisizione e l’utilizzazione degli elementi di prova coperti dal segreto. Resta, però, fermo il prin-cipio stabilito nel 1977 che “la sicurezza dello Stato costituisce interes-se essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro in quanto tocca l’esistenza stessa del-lo Stato, un aspetto del quale è la giurisdizione”.

Come è noto, un passaggio significativo nella definizione dell’attuale dottrina sul segreto di Stato è stato stabilito dalla Legge 124 del 2007 sulla “Riforma del Sistema di informazione per la sicu-rezza della Repubblica e sulla nuova disciplina del segreto”3. Si è stabi-lito all’articolo 39 capo V che “sono coperti dal segreto di Stato gli at-ti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in rela-zione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”.

La legge è importante dal momento che stabilisce l’assoluta premi-nenza del Presidente del Consiglio in materia e definisce tre diversi

3 Su cui cfr. C. Mosca [et al.], I servizi di informazione e il segreto di Stato: (legge 3

agosto 2007, n. 124), Milano, 2008, passim e C. Bonzano, Il segreto di Stato nel processo penale, Padova, 2010, passim.

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principi. Il primo riguarda la conservazione, laddove si afferma che tutti gli atti riguardanti il segreto di Stato devono essere custoditi con accorgimenti atti a impedirne la manipolazione, la sottrazione o la di-struzione. Il secondo concerne la limitazione temporale: decorsi quin-dici anni dall’apposizione del segreto di Stato chiunque vi abbia inte-resse può richiedere al Presidente del Consiglio di avere accesso alle informazioni, ai documenti, agli atti, alle attività, alle cose e ai luoghi coperti dal segreto. Il Capo del Governo è obbligato entro 30 giorni a rispondere alla richiesta oppure può prorogare il segreto di Stato di altri 15 anni, fermo restando che la “durata complessiva del vincolo del segreto di Stato non può essere superiore a trenta anni”. Il terzo principio, certamente influenzato dalla tragica storia italiana degli anni Settanta e dal ruolo svolto nella vita nazionale dalla criminalità orga-nizzata, stabilisce che in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato documenti, notizie o cose relativi a fatti di terrorismo o eversi-vi dell’ordine costituzionale, oppure a reati di strage, di mafia e di scambio politico-mafioso.

Dopo aver posto questi rigidi paletti limitativi, la legge altresì pre-vede che il segreto di Stato non può mai essere opposto alla Corte co-stituzionale e che quando, in base ad accordi internazionali, la sussi-stenza del segreto incide anche su Stati esteri, salvo il caso in cui “ri-corrano ragioni di eccezionale gravità, e a condizione di reciprocità, è adottato previa intesa con le autorità estere o internazionali competen-ti”, che quindi hanno un potere condizionante.

La legge, infine, stabilisce all’articolo 42 un criterio di declassifica-zione automatica dei documenti riservati (ossia non quelli soggetti al segreto di Stato) al livello inferiore (da segretissimo a segreto, da riser-vatissimo a riservato) di cinque anni in cinque anni, salvo motivata op-posizione. Sia la limitazione della durata del segreto di Stato, sia la de-finizione automatica della declassificazione dei livelli di riservatezza costituiscono due principi di civiltà giuridica comuni ad altri Stati de-mocratici che si sono faticosamente affermati anche in Italia grazie a un meritorio sforzo legislativo bipartisan.

Questo quadro di apertura democratica è stato però complicato dal decreto attuativo del presidente del Consiglio dell’8 aprile 2008 con cui sono stati fissati i criteri per l’individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato.

Anzitutto si è stabilito che “la cessazione del vincolo del segreto di stato non comporta l’automatica decadenza dal regime della classifica e della vietata divulgazione”: questo vuol dire, in concreto, che, dopo i trent’anni previsti dalla normativa sul segreto di Stato, al singolo do-cumento da proteggere può essere aggiunto almeno un altro quindi-

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cennio di attesa in base ai criteri quinquennali di automatica declassi-ficazione stabiliti dalla legge 124. Tuttavia, dal momento che l’articolo 41 stabilisce che la “declassificazione automatica non si applica quan-do, con provvedimento motivato, i termini di efficacia del vincolo sono prorogati dal soggetto che ha proceduto alla classifica o, nel caso di proroga oltre il termine di quindici anni, dal Presidente del Consiglio dei ministri” i tempi previsti dalle nuove procedure di declassifica pos-sono teoricamente essere estesi a oltranza, con un’evidente lesione dei principi di trasparenza e di liberalità.

In secondo luogo il diritto di accesso ai documenti è stato di fatto limitato, perché il richiedente deve dimostrare “un interesse diretto, concreto e attuale collegato all’oggetto dell’accesso, nonché meritevole di giuridico apprezzamento in relazione alla qualità soggettiva del ri-chiedente ed alla finalità per la quale l’accesso sia richiesto”: vale a dire imputati o parenti delle vittime, ma non storici, giornalisti o comuni cittadini.

2. Gli arcana imperii e la democrazia Se questa è l’attuale situazione normativa, in cui alcuni significativi

segnali di apertura incrociano esigenze di segno diverso se non oppo-sto, vorrei comunque esprimere una nota di generale ottimismo, alme-no per quanto riguarda il cosiddetto caso Moro. Ho infatti l’impres-sione che contrariamente a quanto si creda o venga comunemente det-to, considerando che dai fatti oggetto di studio sono trascorsi soltanto trentaquattro anni, i documenti a disposizione dei ricercatori siano sufficientemente abbondanti se confrontati con analoghi episodi ri-guardanti la storia contemporanea in Italia e all’estero.

Ciò è avvenuto perché la vigilanza dell’opinione pubblica è stata particolarmente elevata proprio su questa vicenda e, accanto all’infa-ticabile attività della magistratura, – sul cosiddetto caso Moro si sono susseguiti ben cinque processi e, a quanto sembra, è attualmente in corso una nuova inchiesta – vi è stata anche un’apprezzabile attività parlamentare con tre commissioni di inchiesta bicamerali. La prima specificatamente dedicata al rapimento e all’assassinio di Moro, che ha pubblicato i suoi atti in centotrenta volumi con oltre 104 mila pagine; la seconda che si è occupata delle stragi e del terrorismo in generale, ma che ha continuato ad approfondire la questione Moro; la terza, im-pegnata a far luce sulla loggia massonica P2, ha tangenzialmente inte-ressato anche uomini ed episodi che si intrecciano con la tragica morte dell’uomo politico democristiano.

Inoltre, a quanto risulta ufficialmente, sul caso Moro, e più in ge-

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nerale sugli eventi che hanno caratterizzato il terrorismo rosso in Italia, non è stato apposto alcun segreto di Stato e dunque non dovrebbe esi-stere ulteriore documentazione secretata oggi non consultabile.

A questo proposito vorrei ricordare che la battaglia sullo sciogli-mento dei vincoli relativi al segreto di Stato è certamente giusta e di alto profilo civile, ma nel farla sarebbe necessario liberarla il più possi-bile dalle scorie di una cultura diffusa, semplificatoria nei suoi elemen-ti propagandistici, quella delle stragi e del terrorismo di Stato. Tale di-spositivo teorico, imbevuto di una cultura antipolitica e anti-istitu-zionale tipica di influenti settori del ceto intellettuale italiano, rischia di essere non soltanto fuorviante, ma caricare di aspettative immotiva-te l’opinione pubblica e gli studiosi. Come abbiamo visto, il segreto di Stato costituisce una forma di tutela per il cittadino che corpi istitu-zionali preposti a ciò appongono e regolamentano nell’ambito di una dialettica democratica. Tale dialettica, tra i diversi valori da soppesare, deve avere anche quelli relativi alla sicurezza delle informazioni sensi-bili, alla tutela della privacy dei cittadini e dei servitori dello Stato im-pegnati su fronti delicatissimi e a rischio della loro stessa vita.

Con ciò non vorrei sembrarvi ingenuo: sottolineo questo aspetto proprio per ricordare che l’ideale caro a Norberto Bobbio della demo-crazia come “casa di vetro” e luogo della massima trasparenza possibi-le è certamente un obiettivo cui tendere, ma rimane un ideale. È lo stesso filosofo del diritto a sottolineare in modo pessimistico la fisiolo-gia degli “arcana imperii”: nessun potere, neppure quello più demo-cratico potrebbe sopravvivere a se stesso, escludendo la liceità di una sua azione riservata e anche segreta. Secondo Bobbio esisterebbe una tendenza ineliminabile “di ogni forma di dominio […] a sottrarsi allo sguardo dei dominati nascondendosi e nascondendo, ovvero attraverso la segretezza e il mascheramento”4. Certo, la logica della segretezza e il prevalere della ragion di Stato, portati oltre limiti ragionevoli e con-trollabili, possono condurre all’utilizzo sistematico della menzogna che, fisiologica nelle dittature, dovrebbe invece costituire una patolo-gia nei regimi democratici, perché “la democrazia è governo del potere pubblico in pubblico dove pubblico è contrapposto sia a privato e a segreto” e “l’opacità del potere è la negazione della democrazia”5.

Al di là di questo campo di convincimenti ideali che devono resta-re fermi e orientare l’azione di governo nella gestione della cosa pub-blica, lo studioso di storia, però, non può esimersi dal rilevare che i

4 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, 1995, 104. Si leggano anche gli in-

terventi raccolti in N. Bobbio, Democrazia e segreto, (a cura di M. Revelli), Torino, 2009.

5 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., 98.

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movimenti degli uomini sono fatti anche di reticenze, opacità, rimo-zioni e falsificazioni, le quali, il più delle volte, non lasciano traccia e sfuggono a ogni volontà di regolamentazione. Insomma, si scrive solo ciò che può essere letto e dunque documentato, ma tanta parte della politica e dell’attività umana è lasciata all’oralità, la forma più alta e si-gnificativa dell’espressione pratica del potere. Anzi vi è una relazione direttamente proporzionale tra l’indicibilità di determinati comporta-menti e l’evanescenza documentaria che li caratterizza.

Questa sfera di azioni umane, seppure non è destinata a lasciare un segno documentario apprezzabile, svolge un ruolo determinante nel forgiare gli accadimenti. Da questo punto di vista, è necessario eman-ciparsi da qualunque forma di idolatria archivistica di stampo positivi-stico: un documento è sempre il racconto di ciò che è rimasto, di quanto si è sedimentato seguendo una stratificazione di poteri e di re-sponsabilità diverse, ma l’essenziale, tante e troppe volte, è perduto per sempre, tra le “quinte e le dune di sabbia” della ricerca, perché “la storia, prima ancora che venga raccontata, ha già raccontato se stessa e con un’esattezza di cui soltanto la vita è capace e che il narratore non ha né speranza né probabilità di raggiungere”6. Un documento è sem-pre anche tutto quello che non può e non sa dirci e la storia è inevita-bilmente lo studio degli avanzi lasciati dal fluire della vita, dagli acci-denti del caso e dall’usura del tempo, ma è sempre storia del tollerabi-le, di ciò che può essere raccontato e quindi sopportato da una comu-nità. Dentro questa visione della storia, consapevole dei suoi limiti co-stitutivi, pensare che l’essenziale – e quindi anche il segreto di Stato – si trovi dentro l’area di controllo del potere – comunque istituzionale e istituzionalizzante – rischia di portare a cocenti delusioni.

Il dato di fatto che sulla vicenda Moro non sia stato apposto il se-greto di Stato significa soltanto che lo Stato non ha ritenuto necessario sottomettere a una legittima tutela di riservatezza o di segreto fatti ed episodi che hanno caratterizzato quell’evento, ma ciò non deve essere visto come un dato tranquillizzante, anzi il contrario. Proprio que-st’assenza di una mano pubblica secretante è in grado di rivelarci di per sé l’esistenza di un volto demoniaco del potere, in cui si esercita lo stato di eccezione non solo in un regime totalitario, ma anche in una democrazia rappresentativa: vuol dire che in quella vicenda i margini di arbitrarietà, di indicibilità e di sovversione sono stati tali da non po-tere essere neppure secretati e dunque sottoposti all’occhio della legge

6 Dal prologo, significativo anche sul piano storiografico, di T. Mann, Giuseppe e i

suoi fratelli (a cura e con un saggio introduttivo di F. Cambi), Milano, 2000, vol. I, 5-59 (Discesa agli inferi) e vol. II, 1467-1470 (Giuseppe e i suoi fratelli. Una conferenza. 1942).

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e alla legittima attesa degli studiosi e dell’opinione pubblica7. Come ha scritto il magistrato Giovanni Salvi, il modo migliore per tenere occul-tata la verità non è l’opposizione del segreto, ma la sua negazione in quanto, in alcuni casi, “la tutela sostanziale del segreto impone la vio-lazione delle regole del segreto”8.

Ovviamente, sul piano dell’impegno civile e politico, un ambito nel quale si sono contraddistinte le associazioni dei familiari delle vittime, questa attesa va sempre incoraggiata, soprattutto se pensiamo che tan-te vicende, in particolare quelle legate allo stragismo nero, toccano an-cora oggi uomini e donne in carne e ossa che, a distanza di oltre trent’anni dai fatti, attendono giustizia e vorrebbero sapere come e perché i loro congiunti sono morti. Sotto questo profilo la funzione di stimolo e di vigilanza delle diverse associazioni delle vittime è fonda-mentale, ma non dobbiamo dimenticare che le difficoltà derivano dal fatto che stiamo parlando di terribili conflitti interni, i quali hanno at-traversato la nostra comunità nazionale: comparare le diverse legisla-zioni sul segreto di Stato e fare della conseguente esterofilia culturale non soddisfa lo storico che è ben consapevole di un’eccezionale ano-malia italiana.

3. Il segreto e la verità storica: il terrorismo degli anni Settanta

Il principale fattore condizionante la storia del segreto italiano è

stata la logica internazionale della guerra fredda, in cui una parte degli apparati dello Stato ha esercitato le sue funzioni nel controllare soprat-tutto la vita politica interna del Paese. Una logica che condizionava in modo potente non solo i rapporti tra il campo sovietico e quello at-lantico, bensì anche quelli fra il nord e il sud del bacino mediterraneo, dove l’Italia costituiva una vera e propria cerniera tra i due modi, ma anche, con le sue coste lunghe e porose, un gigantesco molo d’attracco geografico, politico, militare, commerciale, spionistico e una passerella di transito per i tanti traffici, leciti e illeciti, che collegavano i disordini del Medioriente alle geometrie dell’Europa atlantica. Dentro questo contesto geopolitico buona parte delle classi dirigenti italiane è stata

7 Per questo aspetto si veda L. Giuva, Archivi e diritti dei cittadini, in Il potere de-

gli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, 2007, 135-201, 182-183: “Classificare un documento come segreto, e quindi escluderlo dalla libera consultazione, è infatti la conseguenza dell’affermazione della pubblicità dei documenti; è una sorta di rituale identificativo attraverso il quale il segreto si materia-lizza, prende forma e quindi perde la carica dissimulatrice”.

8 G. Salvi, Occulto e illegale. La gestione degli archivi e il controllo di legalità, in Studi storici, XXXIX, 1998, 1049.

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attraversata da una “doppia lealtà”9, alimentata dal fatto che abbiamo avuto una costituzione formale antifascista, ma una materiale prevalen-temente anticomunista, con conseguenti frizioni di sistema, accresciute dal ruolo svolto da un’endemica lotta fazionaria che ha inevitabilmente caratterizzato anche la storia dei servizi segreti.

A mio parere, per quanto riguarda le vicende del terrorismo rosso degli anni Settanta, il segreto di Stato non è l’ostacolo principale alla conoscenza della sua verità storica. A quanto mi risulta esiste un solo significativo caso in cui il segreto di Stato è stato opposto e solo par-zialmente rimosso nel 2010 ed è quello riguardante la vicenda del traf-fico d’armi con l’Olp e la morte dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo, scomparsi il 2 settembre 1980 a Beirut, ove si erano recati per documentare le condizioni di vita dei profughi palestinesi. Secondo la ricostruzione del magistrato Giancarlo Armati i due italiani sarebbero stati uccisi perché sospettati di spionaggio filoisraeliano dal gruppo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina guidato da George Habbash.

Il segreto di Stato fu chiesto dal capo centro del Sismi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, e concesso dal presidente del Consi-glio Bettino Craxi nel 1984 e da allora è stato sempre confermato. È verosimile che Giovannone, uomo di fiducia di Aldo Moro che ne in-vocò in una lettera dalla prigionia la sua presenza a Roma per risolvere la sua crisi10, sapesse chi, come e perché avesse ucciso i due giornalisti, ma si sia rifiutato di rivelarlo all’autorità giudiziaria per non guastare i delicati e fiorenti rapporti politici, diplomatici, militari ed economici tra lo Stato italiano e la dirigenza palestinese.

Sullo sfondo di questa vicenda è assai probabile che aleggi lo spiri-to del cosiddetto “lodo Moro”, un accordo segreto stipulato il 19 ot-tobre 1973 tra Moro, allora ministro degli Esteri, e i rappresentanti dell’Olp, nei giorni in cui infuriava la guerra dello Yom Kippur tra Israele ed Egitto11. Il patto prevedeva la salvaguardia del territorio na-

9 F. De Felice, Doppia lealtà e doppio stato, in Studi storici, XXX, 1989, 493-563, spec. 525. Per una critica al “piccolo disastro teorico” prodotto dall’uso indebito di questa categoria si veda F. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia ita-liana e la crisi dell’antifascismo, Torino, 2003, 40. Sul mito storiografico del doppio Stato come chiave di volta interpretativa dell’intera storia repubblicana si rinvia a G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio Stato, in Miti e storia dell’Italia unita (a cura di G. Belardelli – L. Cafagna – E. Galli della Loggia – G. Sabatucci), Bologna, 1999, 203-216. Opportune puntualizzazioni in A. Giovagnoli, Un paese di frontiera: l’Italia tra il 1945 e il 1989, in Un ponte sull’Atlantico. L’alleanza occidentale 1949-1999 (a cu-ra di Id. e L. Tosi), Firenze, 2003, 98-99, note 6 e 7.

10 Sulla loro tragica vicenda si veda ora il libro inchiesta di N. De Palo, Omicidio di Stato: storia dei giornalisti Graziella De Paolo e Italo Toni, Roma, 2012, passim.

11 Su questo accordo cfr. M. Gotor, Il memoriale della Repubblica, cit., 337-343.

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zionale dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della libera-zione dei militanti palestinesi arrestati sul suolo italiano e la tolleranza da parte dell’autorità del nostro Stato nei riguardi del passaggio di ar-mi e di munizioni che sarebbero state utilizzate in Medioriente contro Israele. Il “lodo Moro” regolò una serie di episodi ripetutisi nel tempo che implicarono la liberazione riservata e illegale di vari militanti pale-stinesi per ragioni di sicurezza dello Stato e che videro protagonista proprio il colonnello Giovannone. Uno fra tutti, forse il più importan-te: il 31 ottobre 1973, nel corso della guerra dello Yom Kippur due dei cinque fedayn arrestati a Ostia il 5 settembre 1973, mentre preparava-no un attentato all’aeroporto di Fiumicino ai danni di un aereo della El Al Israel Airlines, furono scarcerati e fatti espatriare in Libia a bor-do del bimotore Argo 16, grazie a un’operazione del Sid voluta dal di-rettore Vito Miceli, anche lui uomo di fiducia di Moro.

Come è noto, il 23 novembre 1973, lo stesso aereo precipitò nei pressi del centro petrolifero Agip di Porto Marghera. Nella sciagura morirono i quattro militari italiani membri dell’equipaggio che di soli-to utilizzavano il velivolo per trasportare i civili della Stay-behind alla base sarda ove avvenivano le esercitazioni dei gladiatori. Nel corso del-la lunga inchiesta che ne seguì furono incriminati, tra gli altri, il gene-rale Zvi Zamir, capo dei servizi segreti israeliani dal 1968 al 1974 e Aba Léven, ex responsabile del Mossad in Italia, i quali poi vennero assolti. Secondo la testimonianza del generale Gianadelio Maletti, quando i 5 palestinesi vennero rinchiusi nel carcere di Viterbo, il capo della stazione del Mossad a Roma, Léven, gli propose un’azione con-giunta per sequestrarli nel corso di un trasferimento fittizio verso un tribunale: il Sid avrebbe dovuto fornire la documentazione falsa, gli agenti israeliani avrebbero assaltato il furgone e rapito i terroristi per condurli a Tel Aviv. Ma non se ne fece nulla, verosimilmente per il prevalere della linea Miceli-Moro.

In quei mesi difficili il governo italiano, nell’ambito di una condivi-sa vocazione euro-atlantica, ebbe più di una politica estera e d’intel-ligence sul fronte mediterraneo in fibrillazione e collaborò segretamen-te, come confermato dall’ammiraglio Fulvio Martini12, sia con gli arabi sia con gli israeliani, a tutela dei propri interessi nazionali sul piano po-litico ed economico, se si considera la cruciale questione dell’ap-provvigionamento energetico e petrolifero nel corso della prima grave crisi economica del dopoguerra.

La vicenda Toni-De Paolo è il punto culminante di questo campo

12 Si veda l’audizione di Fulvio Martini davanti alla Commissione parlamentare di

inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei respon-sabili delle stragi, il 6 ottobre 1999.

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di relazioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’Italia e il fronte mediorientale nel corso degli anni Settanta. È verosimile che essa sia stata secretata anche per un secondo motivo strettamente legato al primo. I documenti che la riguardano avrebbero consentito di gettare una luce anche su una serie di legami che hanno interessato il traffico d’armi internazionale e i rapporti tra il “partito armato” italiano e il Medioriente. A riprova di ciò, grazie a una relazione dei servizi segreti italiani, resa pubblica solo nella seconda metà degli anni Novanta, sappiamo che, nell’estate 1978, “venne organizzato un incontro a Pari-gi tra Mario Moretti e un rappresentante dell’Olp”13. Diversi erano gli obiettivi perseguiti da brigatisti e palestinesi. In particolare, per le Br si trattava soprattutto di ottenere armi ed esplosivi, assistenza per i lati-tanti all’estero e accesso ai campi di addestramento in Libano. Per l’Olp, invece, prioritaria era la possibilità di commissionare alle Br at-tentati contro obiettivi israeliani in Italia. Secondo la relazione, tale strategia rispondeva alla volontà dei palestinesi di non violare l’impegno “informale” a non operare direttamente sul territorio italia-no, stabilito da Moro. Le Br, inoltre, avrebbero dovuto custodire in Italia depositi di armi per conto dei palestinesi.

Il rifornimento di armi alle Brigate rosse arrivava dall’Olp, perché i palestinesi alimentavano lo sviluppo di lotte nazionali sullo scacchiere europeo, smistando gli arsenali che arrivavano dal blocco sovietico14. Su questo mercato sporco e clandestino un ruolo di cerniera e di col-legamento è stato svolto dall’area di autonomia operaia, di Metropoli e dei Comitati comunisti rivoluzionari. Gli esponenti di questa galassia fungevano da intermediari, fornivano manovalanza per i trasporti – come ha confermato l’arresto a Ortona nel novembre 1979 dell’au-tonomo Daniele Pifano bloccato mentre trasportava un missile15 – e in cambio ricevevano denaro e costruiva propri arsenali autonomi in base al principio che chi controlla i canali di rifornimento delle armi e il lo-ro commercio, controlla indirettamente anche la lotta armata. Se si riuscisse a seguire la circolazione globale delle armi e a ricostruire i tempi e i modi con cui esse furono immesse in Italia, potremmo appro-fondire gli insospettabili interessi economici e politici endogeni che

13 La rete internazionale del terrorismo italiano in Gnosis. Rivista italiana di intel-

ligence, 2005, n. 3, ma il documento era già stato utilizzato nel 1989 da S. Marchese, I collegamenti internazionali del terrorismo italiano (dagli Atti Giudiziari), L’Aquila, 1989, 125-26.

14 Si veda la ricostruzione in G. Fasanella e R. Priore, Intrigo internazionale: per-ché la guerra in Italia. Le verità che non si sono mai potute dire, Milano, 2010, 93-133.

15 La vicenda è analizzata nelle sue implicazioni internazionali da G. Paradisi – G. Pelizzaro – F. de Quengo de Tonquédec, Dossier strage di Bologna. La pista segreta, Bologna, 2010, 68-80.

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hanno alimentato la lotta armata in Italia. Si conoscerebbero meglio anche le intelligenze internazionali che, nel determinare la qualità degli armamenti messi in circolazione, sono riuscite a regolare e quindi a condizionare l’intensità e gli effetti della stessa violenza terroristica. Quest’attività, naturalmente, implicava rapporti anche con la crimina-lità organizzata italiana perché organizzare sbarchi di armi sulle coste napoletane, pugliesi, siciliane e, soprattutto, calabresi richiedeva il consenso e il lasciapassare delle organizzazioni malavitose locali. Non stupisce, quindi, che Craxi abbia posto il segreto di Stato sulla vicen-da, in grado verosimilmente di rivelare una serie di informazioni utili a ricostruire le intersezioni e i campi di interessi coincidenti con il Me-dioriente tra eversione rossa, criminalità organizzata, servizi segreti, diplomazia informale, commercio di armi e rifornimenti petroliferi, con relative tangenti, volte a finanziare l’attività delle correnti nei di-versi partiti ed esponenti politici e di governo italiani, in particolare democristiani e socialisti.

Vorrei però ribadire che la conoscenza del terrorismo in Italia non dipende dall’applicazione del segreto di Stato. Piuttosto esiste un se-greto di Stato strisciante e di fatto, alimentato dall’“accurato disordi-ne” archivistico che favorisce lo smarrimento e la conseguente irrepe-ribilità di documenti, alcuni dei quali potrebbero essere stati sottoposti al vincolo del segreto di Stato oggi non più attuale16. Basta che un do-cumento sia inserito in un fascicolo sbagliato per divenire invisibile. Non è sufficiente, quindi, che un documento sia desecretato, occorre poterne rintracciare l’esistenza e avervi materialmente accesso, oppure poter ricostruire attraverso i verbali di distruzione cosa è stato elimina-to e quando. La stessa organizzazione di un archivio corrente, come sottolineato da Paola Carucci, “prima ancora di costituire una que-stione di carattere tecnico, è una questione di natura politica e di cul-tura amministrativa”17.

Vi è poi la grande questione degli archivi fantasma come quelli dei carabinieri, da sempre inaccessibili ed esonerati dall’obbligo di versa-mento all’archivio centrale dello Stato. Purtroppo le amministrazioni consegnano le carte solo parzialmente, se non per nulla, e, quando lo fanno, i documenti non sono in condizione di essere subito consultati per lo stato di voluto disordine con cui sono stati conservati, come av-viene, ad esempio, con l’archivio del ministero degli Esteri. Per non

16 Cfr. L. Giuva, Archivi e diritti dei cittadini, in Il potere degli archivi. Usi del pas-sato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, 2007, 185-190.

17 P. Carucci, Le norme sulla trasparenza del procedimento amministrativo nel qua-dro dell’archivistica contemporanea, in Gestione di documenti e trasparenza amministra-tiva: atti del Convegno internazionale (Fermo, 6-8 settembre 1993), (a cura di O. Buc-ci), Macerata, 1994, 66-67.

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parlare delle carte dei servizi segreti, alla riorganizzazione e razionaliz-zazione delle quali l’attuale presidente del Copasir Massimo D’Alema sta dedicando parte del suo impegno istituzionale. A questo proposito D’Alema ha pubblicamente denunciato un effetto paradossale: dal momento che i servizi segreti italiani non versano regolarmente le loro carte all’archivio centrale dello Stato sono studiati soltanto sui docu-menti acquisiti dalla magistratura e di conseguenza è resa pubblica sol-tanto la storia delle loro deviazioni o reati. Al contrario, una maggiore trasparenza consentirebbe agli storici di raccontare anche quanto di buono e di utile i servizi segreti italiani hanno svolto e svolgono per garantire la sicurezza nazionale e ciò avrebbe un effetto positivo sulla stessa immagine dell’istituzione presso l’opinione pubblica italiana.

4. Considerazioni conclusive In conclusione, la ricerca della verità storica sugli anni Settanta, e

non solo, passa inevitabilmente per una buona gestione e valorizzazio-ne degli archivi pubblici, un traguardo dal quale, anche per ragioni di tagli economici e di mancato ricambio del personale, siamo partico-larmente distanti dagli standard occidentali. Una simile situazione di opacità e di disordine induce tanti ricercatori a nutrire aspettative im-motivate che contribuiscono ad alimentare la dietrologia, il qualunqui-smo e inutili sensazionalismi su questioni che invece dovrebbero essere affrontate con il massimo equilibrio e serenità. Le vittime di tutto ciò sono anzitutto la corretta informazione e la buona ricerca storica. Si tratta di un’importante questione civile che non concerne soltanto il mondo degli archivi e quello degli storici, i quali si limitano a chiedere di essere messi in condizione di svolgere al meglio il loro lavoro, ma interessa soprattutto la qualità e la trasparenza della nostra democra-zia.

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II Accertare la storia in giudizio

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II Accertare la storia in giudizio

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GIUSTIZIA E STORIA: METODOLOGIE A CONFRONTO

Antonino Intelisano

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La storia tra scienza e narrazione. – 3. Il giudice e lo sto-

rico a confronto.

1. Premessa

Il rapporto tra storiografia e giurisprudenza, tra l’attività dello sto-

rico e quella del giudice, è stato al centro, negli anni scorsi, di rifles-sioni metodologiche che, pur non essendo connotate da profili di novi-tà – si pensi alla non dimenticata lezione di Piero Calamandrei del 1939 – sono state volte ad approfondire i rispettivi paradigmi, intesi, secondo la moderna accezione epistemologica, come insiemi delle teo-rie, dei principi e delle procedure condivise nei due distinti ambiti di-sciplinari. È noto che la tendenziale pervasività della giurisdizione, in sede civile e penale, costituisce, in generale, una peculiare connotazio-ne delle società complesse, in cui l’obiettiva ipertrofia delle regole, tendenti a disciplinare i rapporti interpersonali e a governare contrap-posti interessi sezionali, trova nella giustizia come apparato momenti di inveramento, di attuazione e di composizione.

Nelle dinamiche di tipo contenzioso accade sempre più frequen-temente che al giudice sia demandato l’esame di questioni presuppo-ste, conseguenti o collaterali rispetto alla specifica domanda di giusti-zia. Certo, le valutazioni giuridiche che non investono direttamente il “petitum” sono svolte “incidenter tantum”, come recita l’accoppiata avverbiale dei manuali istituzionali di procedura, ma ciò non toglie che le pronunce richiedano, in qualche caso, ampie e accurate ricostruzio-ni, la necessità di “letture” sincroniche e diacroniche, in una unitaria configurazione tra testo e contesto di vicende sociali di ampio respiro.

Nella “comunicazione interdisciplinare”, nell’accezione della teoria dell’informazione, almeno due sono i profili di base enucleabili: l’utilizzazione in sede giuridica di sicure acquisizioni storiografiche e, per converso, la valutazione in sede ricostruttiva e analitica di provve-dimenti giudiziari quali declinazione di particolare significatività, quando ritenuti idonei a trascendere il frammentismo tipico del con-tenzioso legale.

A me pare che la fisiologia dei sistemi sia lontana dai rapporti, de-finiti “intricati e ambigui”, tra il giudice e lo storico, che, con qualche sovraccarico di emotività, sono stati ravvisati “ripetutamente”; essa ha

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nel conto, come dato prevedibilmente ineliminabile, qualche sconfi-namento dall’area di pertinenza, considerato che nell’ambito delle scienze sociali l’interazione delle varie discipline costituisce fattore tendenzialmente refrattario alla rigidità di confini, pur nella consape-volezza di possibili fraintendimenti, tali da ingenerare disaccordi signi-ficativi.

2. La storia tra scienza e narrazione Un’analisi comparativa che aspiri alla completezza, in linea di

principio, dovrebbe muovere dai problemi connessi con lo spinoso profilo dell’oggettività della conoscenza storica. Rinuncio a tentare di arrampicarmi sulle spalle dei giganti e mi limito, con un drastico ridu-zionismo, all’alternativa tra formule riassuntive: la storia come narra-zione, in passato vista anche come “arte”, o la storia come scienza, se-condo una disputa terminologica senza fine. Sorvolando sui profili diacronici della questione, oggi vi è una pressoché generale conver-genza che, pur a fronte di sfumature distintive, individua nella storio-grafia una scienza del tutto particolare, lontana dalle scienze esatte, connotata da procedure, tecniche e metodi peculiari, non necessaria-mente esclusivo appannaggio di chi, per dirla con Marc Bloch, ha op-tato per il “mestiere di storico”.

È ricca la panoplia delle teorie in materia storiografica: mera nar-razione dei fatti nudi e crudi, priva di interpretazione e commento; spiegazione degli eventi (con implicita assimilazione alle scienze esatte e naturali); comprensione degli accadimenti (con connotazioni tipiche delle scienze storico sociali); collocazione della spiegazione storica nell’ambito dei modelli deduttivi; prospettazione di una utilizzazione della cibernetica previa una rigorosa assiomatizzazione e formalizza-zione della storiografia; rinuncia a qualsiasi tentativo di razionalismo e affermazione in campo storiografico di un anarchismo epistemologico.

Riassumendo con disinvolta semplificazione dei profili diacronici: la storiografia, collocata inizialmente nei ranghi dell’arte, acquisisce un’autonomia disciplinare che coniuga elementi narrativistico-letterari con riflessioni logiche, è lambita da correnti di neopositivismo logico ed è oggetto, infine, di una visione che, a seguito della rilevazione della moltitudine di idee, procedimenti, preferenze e avversioni che resisto-no a ogni tentativo di unificazione teorica, quasi a completamento di un processo circolare, torna a paragonare l’attività dello storico, per l’inventiva che essa richiede, alla stregua della creazione artistica.

Per quel che vale mi colloco in posizione adesiva alle motivazioni programmatiche di March Bloch, che Miguel Gotor ha citato come

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viatico della sua ricerca sul Memoriale della Repubblica, ossia sugli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere politico ita-liano:

“Una parola domina e illumina i nostri studi: comprendere. Non diciamo che il buono storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Pa-rola, non nascondiamolo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze”.

E ancora: “Non comprendiamo mai abbastanza”. Per converso è giocoforza rilevare che il processo è una complessa

macchina retrospettiva, anzi, per dirla con Ferrajoli, è il solo caso di esperimento storiografico:

“in esso le fonti sono fatte giocare de vivo, non solo perché sono assunte di-rettamente, ma anche perché sono messe a confronto tra loro, sottoposte ad esami incrociati e sollecitate a riprodurre, come in uno psicodramma, la vi-cenda giudicata”.

E Capogrossi:

“Il processo è la vera e sola ricerca del tempo perduto. Il giudice deve rifare presente il passato”.

3. Il giudice e lo storico a confronto

Ma le analogie tra la figura del giudice e quella dello storico sono

più apparenti che reali, anche se il giudice e lo storico muovono da un input congetturale, soggetto a conferme e confutazioni. Il primo deve rispondere a una domanda posta dall’attore nel processo civile o dal p.m. nel processo penale. Collegando un fatto a una o più norme, è obbligato a dare una risposta di giustizia. Il “non liquet” non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento e il giudice deve comunque pronunciarsi, se non vuole incorrere nel reato di omissione di atti d’ufficio. Il secondo, lo storico, è chiamato a comprendere e non a giudicare; ha scelto l’oggetto della ricerca; è libero nella selezione delle fonti di prova; può astenersi da considerazioni finali limitandosi alla narrazione.

Entrambi possono partire da un’abduzione: per risalire dall’effetto alla possibile causa, formulano un’ipotesi, ossia trovano una congettu-ra da verificare. Entrambi, lungi dall’essere di fronte e sistemi assioma-tizzati, fanno uso di tecniche discorsive proprie della “nuova retorica”, che, com’è noto, non è una disciplina esornativa del discorso ma una

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tecnica argomentativa in funzione di “problem solving”, che si avvale anche di un apparato “topico”, di massime di esperienza. Queste ulti-me costituiscono, in certo modo, per il giurista la conferma che non solo negli ordinamenti di common law, ma anche in quelli di deriva-zione latina, l’essenza del diritto, per dirla con il giudice Oliver Wen-dell Holmes, non è la logica ma l’esperienza.

Se il giudice deve emettere la sentenza, secondo un iter procedura-le che comprende i mezzi di ricerca della prova, l’assunzione e la valu-tazione degli elementi di conoscenza acquisiti, pur sotto l’usbergo del principio del libero convincimento, lo storico – come ha rilevato il Febvre – “non si muove vagando a caso attraverso il passato, come uno straccivendolo a caccia di vecchiumi, ma parte con un disegno preciso in testa, con un problema da risolvere, un’ipotesi di lavoro da verificare”.

È difficile per chi come noi rifiuta la concezione della storia come una narrazione (Croce e Veyne tra gli altri) e ritenga, invece, che essa svolga solo funzioni di interpretare e spiegare non concordare con il Momigliano, secondo il quale le operazioni che lo storico si trova soli-tamente ad affrontare sono di quattro tipi: a) lo storico ha dinanzi a sé un fatto sicuro, che tuttavia non è in grado di spiegare; b) accerta che qualcosa è accaduto ma deve capire esattamente cosa; c) si trova di-nanzi all’affermazione di un fatto di cui è dubbia la certezza e, posto che l’acclari, egli si trova a scegliere tra diverse spiegazioni; d) infine, si trova dinanzi all’affermazione di un evento che, ove risultasse vera, po-trebbe essere spiegata in un unico modo.

In posizione di centralità sull’attività del giudice e dello storico è la ricerca delle cause, connotate da marcate differenze metodologiche.

Partirò da una bella pagina di Gadda, il quale, descrivendo il commissario di polizia Ingravallo alle prese con il “pasticciaccio brutto de via Merulana” gli attribuiva una complessa concezione secondo la quale

“(…) le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. (…) L’opinione che bisognasse ‘riformare in noi il senso della categoria di causa’ quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente. (…) La cau-sale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (…)”.

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È evidente che se il commissario-filosofo avesse dato ingresso nei suoi rapporti di servizio alle sue “teoretiche idee” sarebbe certamente incorso quantomeno in forti reprimende gerarchiche, perchè non fun-zionali al problema del collegamento causale di un comportamento umano e un dato evento, come prima tappa alla quale seguirà la valu-tazione dell’elemento intellettivo dell’azione o dell’omissione, tale da rendere applicabile, nel concorso degli altri presupposti, la norma pe-nale.

In altri termini, al giudice penale non interessa – secondo l’efficace sintesi di Federico Stella –

“ciò che può avere rilievo per altri tipi di considerazione, come quelle della filosofia, delle scienze della natura, della storia o di altre scienze della cultura. Non gli interessa conoscere l’intera situazione, nella miriade dei suoi dettagli, cioè la causa secondo il punto di vista della filosofia della scienza, che ha pre-ceduto l’evento concreto, così come non gli interessa sapere quali sono le condizioni antecedenti storicamente significative o le condizioni rilevanti dal punto di vista della fisiologia, della biologia, della fisica, della psicologia e via dicendo. Il giudice penale si appaga di accertare se, senza la condotta umana, l’evento si sarebbe o non si sarebbe verificato”.

Il suo parametro di riferimento è l’art. 40 del codice penale, che,

nella consapevolezza della possibile concorrenza di più fattori causali nella produzione di un evento, dedica al fenomeno della disciplina del-le condizioni preesistenti, simultanee o sopravvenute l’art. 41. Le chiama “concause”, che non escludono il rapporto di causalità tra la condotta (azione od omissione principale) e l’evento. Solo le cause so-pravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da so-le sufficienti a determinare l’evento. In tal caso se l’azione od omissio-ne precedentemente commessa costituisce per sé un reato si applica la pena per questo stabilita.

Non è questa la sede per approfondire i problemi che nascono dal-le formulazioni normative, non particolarmente felici, che in sede ese-getica ed applicativa hanno dato luogo alle teorie della conditio sine qua non, della causalità adeguata, della causalità umana e, per le con-cause, all’esclusione del nesso nei casi in cui l’evento lesivo non sia in-quadrabile “in una successione normale di accadimenti”.

Ben più estesa (e indeterminata) è la concezione della causa, anzi delle cause, per lo storico, che è interessato a comprendere le ragioni profonde dei modi di fare e di agire degli uomini, senza barriere me-todologiche e senza giudicare.

Altro profilo di differenziazione concerne, nell’ambito della causa-lità, i criteri che governano la valutazione delle prove e la decisione del

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giudice. Nel processo civile i richiami normativi concernono: le regole di esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.); il prudente apprezzamento delle prove (di regola proposte dalle parti o dal pubblico ministero), e del contegno delle parti nel processo (art. 116 c.p.c.); la disciplina del-le presunzioni (conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), che lascia le presunzioni non sta-bilite dalla legge alla prudenza del giudice (art. 2729 c.c.); i criteri di massima per la redazione della motivazione della sentenza (art.118 disp. att. c.p.c.).

Nel processo penale, nel nuovo processo penale, le regole sono più stringenti: esperienza, scienza, logica devono concorrere al libero con-vincimento del giudice, che, non ha, quindi, una connotazione intui-zionistica, ma deve essere la conseguenza di un ragionamento probato-rio in cui si combinano schemi di logica abduttiva (ipotesi probabile), induttiva e deduttiva. Le prove si formano nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice terzo e imparziale, secondo regole dirette ad assicurare la parità e il diritto alla difesa. Un sistema di sanzioni pro-cessuali è correlato alla nullità, assoluta o relativa, degli atti compiuti fuori dalla tipologia e dalla tempistica previste dalla legge e alla loro inutilizzabilità, secondo una categoria residuale propria del diritto processuale penale. In definitiva, la formula del libero convincimento – sorta durante la Rivoluzione francese per porre fine al sistema delle “prove legali” – è, in realtà, astretta da “lacci e lacciuoli” per il giudice, in funzione garantistica per il soggetto sottoposto a indagine o per l’imputato, mentre trova per lo storico una maggiore espansione se-mantica. Il possibile risultato è che la “verità” processuale può non coincidere con la “verità” storica, rimanendo al di sotto della soglia di quest’ultima.

Considerate le notevoli differenze tra il giudice e lo storico – pur non insistendo sul rilievo che al primo spetta giudicare e al secondo “comprendere”, nell’accezione di Bloch – siamo ora forse in condizio-ni di tentare di rispondere a un quesito: può uno storico, a seguito di investigazioni extra-processuali o comunque operazioni logico esplica-tive, verificare la correttezza dei risultati raggiunti da un giudice in re-lazione a un evento determinato?

La prima risposta, senza particolari riflessioni, è: certamente sì, considerata la portata del diritto costituzionale di libera manifestazio-ne del pensiero, che non tollera limiti e condizioni. La risposta non cambia se, in luogo dello storico, consideriamo il giornalista. Alcuni “distinguo” sono, tuttavia, necessari: se la “ragion pratica”, secondo l’accezione del Perelman, è comune al ragionamento del giudice e del-lo storico, con i corollari di controllo e rigore nelle deduzioni, si è assi-stito talvolta a discutibili “campagne” quali declinazioni di trucidi

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processi mediatici, alternativi a quelli legali, con una utilizzazione di dati in funzione fortemente condizionata dalle ideologie. Ora, se è ve-ro che lo storico è “per metà giudice e per metà scrittore”, secondo una efficace definizione, l’attributo della terzietà, della posizione “su-per partes”, è richiesto non solo per il magistrato, ma anche per lo sto-rico.

Quest’ultimo deve peraltro guardarsi dai “bias”, i tunnel della mente secondo le nuove acquisizioni delle scienze cognitive, che, an-che inconsapevolmente, possono condizionare le valutazioni per moti-vi di solidarietà amicale o ideologica verso persone inquisite o comun-que coinvolte.

Accenniamo ora ai rilievi critici che, soprattutto negli ultimi tre decenni, sono stati rivolti alla magistratura. Rammento almeno tre fi-loni: la lotta all’eversione politica alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, “Mani pulite” le collusioni tra politica e organizzazioni criminali di tipo mafioso.

Per quanto concerne la lotta all’eversione politica da destra e da sinistra è stata spesso criticata la tendenza della magistratura a fare, per usare una icastica espressione di Ferrajoli, poi utilizzata anche fuori dal contesto in cui essa era nata, “storiografia giudiziaria”. La cultura del sospetto, la filosofia della diffidenza, la tecnica dell’ipotesi multi-pla: si tratta di slogan usati contro la magistratura requirente protesa all’analisi critica degli eventi nel tentativo di individuare dietro le cause apparenti i veri disegni nascosti.

Nel contrasto e nella punizione della corruzione, centrali nel fe-nomeno “mani pulite”, è stata spesso ravvisata nella magistratura “un’istituzione convinta che non fosse necessario limitarsi a una fun-zione giurisdizionale, ma motivata a svolgere un ruolo salvifico di con-tropotere militante, una funzione di supplenza di un ceto politico irri-mediabilmente inadeguato e corrotto” (Gotor).

Aspre e articolate sono state le critiche di fuoriuscita dai limiti del-la giurisdizione per investire un’area sociologico-politica che non le compete per quanto concerne le collusioni tra politica e criminalità or-ganizzata.

Espressione sintomatica di tali problematiche è stata in maniera ri-corrente la declinazione “tecnico-giuridica” del fenomeno riassunta nel concorso esterno all’associazione mafiosa. I casi più noti sono i processi Andreotti, Mannino e, più di recente, Dell’Utri. È sintesi condivisibile la motivazione secondo la quale la criminalità organizzata è riuscita a penetrare in profondità la società civile e la politica, condi-zionando entrambe. Le incriminazioni per concorso esterno in asso-ciazione mafiosa, al di là delle aspre polemiche, sono tentativi di reci-dere i fili “che legano il mondo del crimine con le connivenze, gli am-

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miccamenti e le piccole e grandi contiguità”. Il problema specifico in questi ambiti di intervento repressivo è quello solito in diritto penale: il rapporto di causalità tra una condotta e un evento a fronte del prin-cipio di stretta legalità.

In altri termini, non sempre manifestazioni di un fenomeno certo da un punto di vista dell’antropologia culturale e sul piano sociologico possono essere sussunte nell’ambito della responsabilità penale, pur rimanendo suscettibili di valutazione sul piano etico o nell’ambito di quella particolare responsabilità allo stato diffuso che è la responsabili-tà politica.

La Corte di cassazione, a sezioni unite, con la celebre sentenza Mannino del 2005, ha fatto chiarezza sulle coordinate del concorso esterno, che rimane tuttavia un istituto giuridico controverso, tormen-tato e oggetto di complesse dispute in cui le questioni tecnico-giuridiche sono spesso emblematiche di contrapposte e irriducibili vi-sioni del mondo.

Un capitolo a sé concerne la vicenda delle stragi naziste in Italia. Note circostanze legate alla mia vita professionale mi induco-

no a un esercizio di “self restraint” per intuibili motivi di oppor-tunità. Mi limiterò solo ad alcune notazioni strettamente collega-te al tema.

Il tempo trascorso fra i tragici eventi e l’inizio dei procedimenti penali dopo l’…esumazione dei fascicoli occultati ha giocato un ruo-lo negativo rispetto alle diffuse istanze di giustizia. È noto che in di-ritto penale la morte del reo estingue il reato. Al giudice non è con-sentito, pertanto, impiegare risorse umane e finanziarie dello Stato per vicende estranee all’accertamento dei presupposti della punibilità in concreto.

Ma c’è un altro profilo da segnalare. Se si escludono i processi a carico di Priebke, Hass e Seifert, gli altri imputati sono stati giudicati, o sono ancora sotto processo, “in absentia” o, come si dice con locu-zione tecnica, in contumacia. Ciò perché la Germania non ne concede l’estradizione per motivi legati al proprio ordinamento interno (segna-tamente per la non retroattività della norma che ha abrogato il divieto di estradizione per i cittadini tedeschi, secondo la garanzia affine a quella prevista in generale in Italia dall’art. 2, comma 4, c.p.).

I procedimenti già celebrati e quelli in corso sono pertanto a carico di soggetti, molto avanti negli anni, assenti. Con una icastica, anche se ingenerosa locuzione, si è definita tale situazione come “giudizio agli ectoplasmi”.

Date le riferite circostanze, più che di processi in senso stretto, si tratta della ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia, an-che con l’apporto dell’opera di storici, con la valenza polimorfa della

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ritualità civile, storicamente inveratasi anche in passato per altre vi-cende.

In realtà è venuto meno anche l’ultimo, concreto aspetto sanziona-torio di tali processi, collegato alla condanna al risarcimento dei danni dello Stato germanico, in base al principio di immedesimazione orga-nica per fatti di reati commessi da propri militari nell’esercizio di atti-vità belliche. La Corte internazionale di giustizia, su ricorso tedesco, con la sentenza del 3 febbraio 2012, ha dichiarato contrarie al diritto internazionale consuetudinario, per violazione del principio “par in parem non habet jurisdictionem”, le sentenze di condanna al risarci-mento dei danni pronunciate in Italia. E ai nostri organi giurisdizionali non rimane che il dovere di ottemperanza.

È tempo di concludere. Abbiamo iniziato ricordando Calaman-drei. Chiudo con una sua citazione, a mo’ di viatico sia per il giudice sia per lo storico: “Le strade del giudice e dello storico, coincidenti per un tratto, divergono poi inevitabilmente. Chi tenta di ridurre la storico a giudice semplifica e impoverisce la conoscenza storiografica. Ma chi tenta di ridurre il giudice a storico inquina irrimediabilmente l’eser-cizio della giustizia”.

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LO STORICO COME CONSULENTE

Paolo Pezzino*

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Un po’ di storia: i precedenti. – 3. Giudice e storico: ana-logie e differenze. - 4. Chi è responsabile? – 5. Il vero e il falso. – 6. Non processa-re la storia.

1. Premessa Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’Italia fu rapidamente oc-

cupata, per oltre metà del suo territorio, dall’esercito tedesco. Fra le altre conseguenze dell’occupazione, circa 15.000 civili (è una mia sti-ma: la cifra esatta non è ancora accertata) furono uccisi, in azioni di cosiddetta rappresaglia, in alcuni casi con la collaborazione di gruppi armati della Repubblica Sociale1. Nello stesso periodo 6806 ebrei fu-rono arrestati e deportati: di essi 5969 morirono in campo di concen-tramento2.

A guerra finita, pochi processi furono celebrati contro i responsa-bili delle stragi di civili, e nessuno basato esclusivamente sull’accusa di avere partecipato allo sterminio degli ebrei nella penisola italiana3. Tuttavia in Italia una nuova (tardiva) stagione processuale per crimini di guerra commessi in Italia dalle truppe tedesche durante l’oc-cupazione si è aperta alla fine degli anni novanta, dopo la scoperta nel 1994, durante le indagini per il processo a Erich Priebke, di centinaia di fascicoli giudiziari relativi a crimini di guerra commessi sulla popo-lazione italiana, illegalmente archiviati dal Procuratore generale milita-

* In questa sede vengono riproposte e sviluppate le considerazioni già esposte in Experts in truth? The politics of retribution in Italy and the role of historians, in Modern Italy, 15 (2010), n. 3, 349-363

1 P. Pezzino, The German Military Occupation of Italy and the War against Civil-ians, in Modern Italy, vol. 12, n. 2, June 2007, 173-188.

2 Vedi il sito del CDEC http://www.cdec.it/home2_2.asp?idtesto=-185&idtesto1=594&son=1&figlio=877&level=2#Tavola_1.__Vittime_della_Shoah_in_Italia (consultato il 14 agosto 2012).

3 P. Pezzino, Sui mancati processi in Italia ai criminali di guerra tedeschi, con ap-pendice documentaria, in Storia e Memoria, a. 10, n. 1, 1° semestre 2001, 9-72; P. Pez-zino - G. Schwarz, From Kappler to Priebke: Holocaust Trials and the Seasons of Me-mory in Italy, in Holocaust and Justice. Representation & Historiography of the Holo-caust in Post-War Trials, (a cura di D. Bankier – D. Michman) Jerusalem, 2010, 299-328. Una statistica aggiornata in M. De Paolis, La punizione dei crimini di guerra in Italia, in La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni prelimi-nari (a cura di S. Buzzelli - M. De Paolis - A. Speranzoni), Torino, 2012, 61-155.

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re Santacroce nel 1960, e conservati in una stanza di Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare4.

Nell’ambito delle più recenti indagini condotte, sono stato nomi-nato consulente tecnico del Pubblico ministero presso il Tribunale mi-litare di La Spezia, Marco De Paolis, in quattro procedimenti penali, relativi alle stragi di Bardine di S. Terenzo, Valla e Vinca (provincia di Massa-Carrara), Sant’Anna di Stazzema (Lucca), Monte Sole (comuni di Grizzana, Marzabotto e Monzuno, in provincia di Bologna), Certo-sa di Farneta (Lucca)5. Si tratta delle due stragi con il maggior numero di vittime avvenute in Italia (quella di Monte Sole è la più grave in tut-ta l’Europa occidentale occupata dai tedeschi), dell’unico massacro che ha coinvolto una comunità religiosa, e di un’operazione terroristi-ca contro la popolazione delle Alpi Apuane, durata 4 giorni, con circa 400 vittime6. Responsabili in tutti e 4 i casi reparti della XVI SS Pan-zergrenadier Division, comandata dal generale Simon, processato e condannato a morte da un tribunale militare inglese a Padova nel 1947, successivamente graziato e liberato alla metà degli anni cinquan-ta. In Italia per tutti e 4 gli episodi vi erano stati dopo la fine della guerra procedimenti giudiziari: per la Certosa di Farneta era stato in-criminato, e assolto, un sottufficiale della divisione, gli altri 3 episodi erano confluiti nel processo celebrato presso il Tribunale militare di Bologna, all’inizio degli anni cinquanta, contro Walter Reder, coman-dante del battaglione esplorante della divisione. Reder era stato con-dannato per le stragi di Vinca e Monte Sole, assolto per le altre.

Dei quattro procedimenti giudiziari sopra indicati, tre (quelli rela-tivi a Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole e la Certosa di Farneta) sono arrivati a conclusione dell’iter (anche per la magistratura militare sono previsti tre gradi di giudizio), uno, quello relativo agli eccidi nelle Alpi Apuane, iniziato nel giugno 2008 presso il Tribunale militare di La Spezia, sospeso a seguito della soppressione di quel tribunale militare

4 Sulla vicenda dell’insabbiamento dei fascicoli per crimini di guerra si vedano le

due relazioni, di maggioranza e minoranza, della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascismi, che ha operato nella XIV legislatura, all’indirizzo http://wai.camera.it/_-bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamerali/leg14/crimini/home.htm.

5 Le date delle nomine sono state: gennaio 2002 per Bardine di S. Terenzo, Valla e Vinca, febbraio 2002 per Monte Sole, novembre 2002 per Sant’Anna di Stazzema, gennaio 2004 per la Certosa di Farneta.

6 Come riferimenti storiografici di base rimando a P. Pezzino, Crimini di guerra nel settore occidentale della linea gotica, in La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana (a cura di G. Fulvetti - F.A. Pelini), Napoli, 2006, 89-136; Id., Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, 2008; L. Baldissara - P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Bologna, 2009; G. Fulvetti, Una comunità in guerra. La Certosa di Farneta tra resistenza e giustizia, Napoli, 2006.

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e trasferito al Tribunale militare di Roma, è arrivato alla sentenza di appello. I procedimento hanno visto qualche assoluzione e la condan-na all’ergastolo della maggior parte degli imputati. Peraltro, trattando-si di procedimenti in contumacia, non vi è nessuna possibilità che i condannati vengano estradati dalla Germania, e la condanna ha un va-lore prevalentemente simbolico.

Rispetto alla cultura giuridica prevalente subito dopo la fine del conflitto, la linea del procuratore militare di La Spezia è stata quella di ampliare la ricerca dei responsabili:

“La partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di per-sone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato, realizzazione dunque che non può evidentemente re-stare limitata alla esclusiva (e simbolica) responsabilità del comandante del reparto […] un principio moderno […] che cancella definitivamente quella odiosa e ipocrita deresponsabilizzazione del militare visto come una specie di automa che deve sempre e soltanto obbedire ciecamente agli ordini del supe-riore senza pensare e senza discutere”7

Inoltre,

“poiché operazioni di massacro indiscriminato della popolazione civile come quelle descritte implicano necessariamente una preventiva preparazione, or-ganizzazione e previsione delle azioni da compiere e si realizzano con il simul-taneo concorso di tutte le singole squadre che compongono il reparto operan-te, ne discende che la partecipazione a ciascuna o a tutte queste attività con un significativo incarico tattico (ufficiale di ordinanza, aiutante maggiore di divisione, di reggimento o di battaglione) o di comando (quale è quello di comandante di compagnia, di plotone o di squadra) rende quel militare con-corrente a pieno titolo nel reato. In questo senso, è stato ritenuto sufficiente ai fini della affermazione della responsabilità penale, la prova dell’aver rico-perto quei ruoli di comando in quelle operazioni anche senza la prova diretta di aver partecipato materialmente alle uccisioni, giacché il reato si perfeziona nel momento in cui – ricevuto l’ordine di operazioni – non si obietta all’ordine illegittimo (criminoso) ma lo si accetta e si pongono in essere quelle condotte organizzative, direttive o di coordinamento (sia preparatorie che at-tuative) che concorrono alla concreta riuscita dell’operazione e dunque del

7 M. De Paolis, La punizione, cit., 127-128. Sui complessi problemi legati alla ca-

tena di comando e alla responsabilità dei singoli si veda D. Cohen, L’eredità di Norim-berga, in Giudicare e punire (a cura di L. Baldissara - P. Pezzino), Napoli, 2005, 247-256.

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massacro … Diversa, invece, è la considerazione per gli autori materiali dei reati, cioè delle uccisioni, prevalentemente commessi dai militari di truppa o dai graduati, privi di incarichi di comando […] Per affermare la loro respon-sabilità penale occorre provare concretamente e specificamente l’aver dato seguito all’ordine ricevuto”8.

Ciò ha comportato un complesso lavoro di ricostruzione degli or-

ganici dei reparti ritenuti responsabili degli eccidi – la cui identifica-zione, peraltro, era certa in base alle indagini alleate del dopoguerra – e di coloro ancora in vita. Per questo lavoro, il procuratore si è servito di uno storico di Colonia, collaboratore abituale delle autorità giudi-ziarie tedesche ed italiane, il dott. Carlo Gentile. Il mio ruolo è stato diverso.

Nel procedimento sulla Certosa di Farneta, i quesiti postimi nell’atto di affidamento dell’incarico peritale richiedevano di ricostrui-re l’emanazione di ordini e direttive da parte degli alti comandi ger-manici, indirizzati ai vari reparti dislocati in Italia dopo l’8 settembre 1943, la conduzione della lotta antipartigiana, evidenziando modalità e pratiche della condotta ordinata ai singoli comandanti e di quella da questi in concreto posta in essere; l’acquisizione della documentazione di archivio relativa a tale materia, ovvero indicazione dei siti archivisti-ci ove essa fosse reperibile. In pratica, essendo l’episodio già ben deli-neato nei suoi aspetti fattuali (ricordo che vi era già stato un procedi-mento penale alla fine degli anni quaranta) il procuratore era interessa-to ad una ricostruzione del contesto generale della cosiddetta “guerra ai civili”9, ed in particolare del sistema di ordini emanati dal comando supremo della Wehrmacht, del suo grado di coercitività, delle caratte-ristica delle operazioni antipartigiane operate nell’estate 1944 in To-scana dalla XVI divisione SS.

I quesiti relativi alle altre indagini erano invece più articolati: mi si richiedeva una ricostruzione storica dei fatti, con la indicazione delle varie località teatro degli stessi, delle circostanze spazio temporali in cui i fatti si erano verificati e delle concrete modalità di accadimento. Per la Procura ciò significava individuare le motivazioni che avevano indotto i militari a compiere quelle azioni, le eventuali connessioni fra strage e attività partigiana, la specificazione di singole circostanze, l’individuazione delle truppe e dei comandi italiani e stranieri nelle lo-calità dove si erano verificati gli eccidi, la precisazione dell’organiz-zazione gerarchica all’interno di ciascun comando/reparto, con parti-

8 M. De Paolis, La punizione, cit., 128-129. 9 M. Battini - P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massa-

cro. Toscana 1944, Venezia, 1997.

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colare riguardo all’emanazione ed all’esecuzione degli ordini rilevanti per i fatti oggetto del procedimento, l’individuazione dei militari inve-stiti di ruoli di comando e di quelli comunque presenti nei singoli luo-ghi, dei rispettivi gradi ed incarichi dagli stessi rivestiti nell’ambito di ciascun reparto o comando, notizie generali sulle SS (ideologia, com-posizione, reclutamento, finalità del corpo), rapporti con le altre forze armate tedesche, i nomi dei comandanti partigiani operanti nella zona all’epoca, la composizione delle formazioni partigiane al loro coman-do, il grado di conoscenza all’epoca dei fatti, da parte delle popolazio-ni e dei comandanti partigiani, di altre stragi o di fatti gravi di violenza ad opera dei tedeschi precedentemente commessi, l’accertamento dell’esistenza in vita di militari implicati (in realtà su questo quesito ha lavorato solo l’altro consulente, Carlo Gentile, oltre naturalmente agli organi di polizia giudiziaria), l’accertamento del numero e identità del-le vittime (civili o partigiani), l’indicazione di nominativi di testimoni in grado di riferire utilmente sui fatti, l’individuazione di eventuali pregressi precedenti procedimenti penali.

In tutti e quattro i casi ho consegnato al procuratore quattro rela-zioni scritte, che sono state quindi acquisite agli atti dei dibattimenti e sulle quali poi sono stato chiamato a deporre nel corso degli stessi.

È evidente come alcuni dei quesiti richiedessero una tipica inter-pretazione storiografica, ed investissero questioni dibattute dagli stori-ci: la natura e le motivazioni delle stragi, l’eventuale caratterizzazione ideologica delle stesse, il sistema degli ordini, le catene di comando, la ripartizione delle funzioni fra Wehrmacht e SS, il ruolo di reparti spe-cializzati in questo tipo di azioni, come la XVI SS Panzergrenadier Di-vision e la Hermann Göring, il rapporto fra stragi e attività partigiana (si trattava di rappresaglie nel senso comune del termine, o di opera-zioni di ripulitura del territorio a carattere preventivo e terroristico nei confronti delle popolazioni civili?).

Anche altri quesiti, che fino a qualche anno fa potevano apparire insoliti per la ricerca storiografica, ne fanno ormai parte a pieno titolo: le singole circostanze, di solito trascurate, sono sempre più importanti in studi che, dovendo ricostruire memorie divise, entrano anche nel merito dei conflitti di memoria, per verificarne la rispondenza o meno alla realtà fattuale (c’è stata un’azione partigiana alle origini della stra-ge? Sono mitiche o fondate le accuse ai partigiani di disinteresse per le sorti delle popolazioni civili? Quali erano i reali rapporti fra i partigia-ni e l’ambiente che li accoglieva? Cosa veramente hanno fatto i parti-giani, al di là delle narrazioni epiche che si sono imposte nel dopo-guerra?). Così, per quanto riguarda i nomi e numero delle vittime, avevo diretto una ricerca tendente a censire e dare un nome a tutte le

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vittime di stragi in Toscana10; ed anche la ricerca di testimoni oculari non è ormai insolita in studi che utilizzano ampiamente – a volte ec-cessivamente, confondendo spesso storia e memoria – le fonti orali.

2. Un po’ di storia: i precedenti Fin dalla sua fondazione come disciplina – cioè come metodo criti-

co che si applica ad un insieme di fonti, definite dall’argomento tratta-to, con una struttura narrativa, rispondente tuttavia a norme e conven-zioni generalmente accettate dagli studiosi – la storia, e gli storici, sono stati utilizzati per fissare i confini dell’appartenenza (ad una comunità, locale o nazionale), per sostenere “quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino”11. Tuttavia l’utilizzazione dello storico come consulente giu-diziario è più recente, e in essa vi è qualcosa di più: la pretesa cioè di poter operare coniugando verità e giustizia, in base all’“ethically ambi-guous role of professional interpreter of the past […] Deciding wie es eigentlich gewesen acquires a new meaning and can have an incompa-rably more profound impact, when communicated in court rather than in a lecture hall or in print”12.

Con la fine della seconda guerra mondiale gli studi storici furono subito utilizzati ai fini di un giudizio di condanna politica del regime nazista)13, ma a Norimberga gli storici non giocarono alcun ruolo di rilievo. Il processo di Gerusalemme contro Eichmann voleva essere “un corso di storia efficace, destinato tanto ai compatrioti quanto alla comunità internazionale”14: tuttavia, anche se gli inquirenti consulta-

10 Se ne vedano i risultati in G. Fulvetti - F. Pelini (a cura di), La politica del mas-

sacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, Napoli, 2006, e in G. Fulvetti, Uc-cidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Roma, 2009.

11 Y. H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, in Aa.Vv., Usi dell’oblio, Parma, 1990 [1988], 19.

12 H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad, Introduction a Contemporary history on trial. Europe since 1989 and the Role of the Expert Historian, Manchester and New York, 2007, cit., 2-3, che utilizzano su questo punto O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien, Paris, 2003.

13 M. Cattaruzza menziona il volume The Third Reich, commissionato dall’International Council for Philosophy and Humanistic Studies e patrocinato dall’UNESCO, che vide la luce nel 1955, al quale partecipò fra gli altri L. Poliakov: La Storiografia della Shoah, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo (a cura di M. Cattaruzza - M. Flores -S. Levis Sullam - E. Traverso), vol. II, La memoria del XX secolo, Torino, 83.

14 I. Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Torino, 2007 [2002], 111.

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rono gli studi allora disponibili, e si servirono dell’archivio e dello staff di Yad Vashem, “già esperto nel reperire materiale per i processi di criminali nazisti celebrati nella Germania occidentale”, l’unico profes-sore di storia chiamato a deporre (dall’accusa) fu Salo Baron, docente di storia ebraica alla Columbia University, che testimoniò sulla vita de-gli ebrei prima della distruzione operata dai nazisti15.

Invece qualche anno dopo, al processo di Francoforte contro 22 ufficiali del campo di Auschwitz-Birkenau, furono ascoltati come peri-ti dell’accusa numerosi storici dell’Institut für Zeitgeschichte di Mona-co; secondo Alberto Melloni, fu una svolta: “al posto della storia uni-versale di Norimberga o della filosofia della storia che Hannah Arendt cerca invano a Gerusalemme, qui si incontrano, formalmente, la giu-stizia del processo penale e la verità del giudizio storico”16. Tuttavia il ruolo degli storici, visto a posteriori, fu indubbiamente problematico: al processo, che iniziò nel dicembre 1963 e durò per più di 180 giorni, fu presentata una storia del campo di 300 pagine scritta da Hans Bu-cheim, Martin Broszat e Helmut Krausnick. Gli esperti furono sentiti all’inizio del dibattimento, e la loro perizia diventò subito (la prima edizione tedesca è del 1965) un libro, Anatomy of the SS State (ai 3 au-tori citati si aggiunse anche Hans-Adolf Jacobsen, direttore dell’In-stitut for the Foreign Affairs). Nella prefazioni gli autori affrontavano concisamente, ma con molta chiarezza, quello che ritenevano fosse sta-to il loro compito nel processo ormai concluso:

“In the numerous trials of National Socialist criminals now being conducted in Germany the question of the connection between political tyranny and ideological crime is inevitably a relevant issue. The importance of these trials lies more in the fact that they pose the necessity of finding an answer to this point, than in their ostensible task of meting out justice for wrong commit-ted”.

Solo passando dai singoli casi a “the whole moral, political and or-

ganizational background” il comportamento degli accusati avrebbe po-tuto essere correttamente giudicato. Compito “of the historical expert” era quindi quello di dipingere “as clearly as possible a picture of this background”, non disquisire sulla colpevolezza dei singoli individui, che rimaneva di esclusiva competenza della corte. Gli esperti si rendevano conto, tuttavia, che le loro analisi potevano avere “a decisive influence

15 D. Cesarani, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale, Milano, 2006 [2004],

301 e 320. 16 O. Marquard - A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-

Bari, 2008, 19.

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on the fate of the accused”, ad esempio, smontando le strategie difensi-ve, in atto fin dai vari processi di Norimberga, “to evade judicial esta-blishment of the facts by taking refuge in the jungle of organizational channels and overlapping authorities”: proprio per questo

“when presenting the history of the National Socialist period to a Court of Justice, a special effort must be made to do so rationally and dispassionately […] Those taking part in public discussion before a Court are in duty bound to weigh their words, and this is to the good in that it constitutes an effective counterweight to the widespread habit of painting a highly emotional picture of the past in order to highlight certain major truths, but at the price of his-torical exactitude regarding facts and circumstances […] People prefer vivid writing […] try to evade the rationalism of the historian and prefer moralistic emotional theorizing […] The strict rules of the judicial proceeding point the way to a standard of rationalism of which we are in dire need. This was the standard which the authors of these submissions strove to maintain”17.

La perizia storica doveva quindi servire ad inquadrare il contesto

generale delle atrocità per le quali erano giudicati i singoli imputati, e non si proponeva di rispondere allo scopo limitato di aiutare i giudici a definire la colpevolezza dei singoli imputati; la sede in cui questa veni-va presentata – una corte di giustizia – avrebbe consentito di imporre all’opinione pubblica un approccio razionale alla rielaborazione del passato nazista della Germania, cioè di rispondere ad una finalità più di carattere politico che giudiziario. Il processo era infatti investito di una funzione pedagogica verso l’intera collettività nazionale, a fonda-mento della quale stava, in ultima analisi, la ricostruzione che in quella sede era stata fornita dagli storici.

Questa sorta di illuminismo pedagogico mostrò rilevanti limiti, proprio sul terreno dell’analisti storiografica e del ruolo degli storici nel processo: innanzi tutto, “the entire historical background given in the indictment was irrelevant to the charges”18. Inoltre l’attenzione esclusiva allo “SS State” fornì un’interpretazione in fondo rassicurante del regime nazista e del suo radicamento sociale: “in avoiding the boundlessness of history, the court perpetuated a restrictive reading of German history and the Holocaust that systematically devalued the structural relationship between the Holocaust and German society”19.

17 H. Krausnick - H. Buchheim - M. Broszat - H. Jacobsen, Anatomy of the SS State. London, 1968 [1965], XIII-XV.

18 R. Wittmann, Beyond Justice. The Auschwitz Trial. Cambridge-London, 2005, 271.

19 D. O. Pendas, The Frankfurt Auschwitz Trial, 1963-1965. Genocide, History, and the limits of the Law, New York, 2010, 234.

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Infine muovendosi sul terreno di un’interpretazione generale del regi-me nazista, si offrì la possibilità di presentare al processo altre inter-pretazioni alternative a quella degli storici incaricati di stendere la pe-rizia, connesse all’ortodossia marxista: per lo storico della DDR Jürgen Kuczynski, che ottenne di testimoniare, i regimi fascisti erano l’espres-sione del capitale monopolistico in crisi, e il ruolo centrale ad Ausch-witz doveva essere assegnato all’IG Farben: egli portò un duro attacco al mondo capitalistico, del quale la Repubblica Federale Tedesca face-va parte a pieno titolo, arrivando a sostenere che “the wrong defen-dants were on trial. The monopoly capitalists and their helpers who now put atomic bombs in the place of gas ovens are the truly guilty ones”. Le SS sotto processo così potevano essere rappresentate “to a certain extent […]” solo come “the disciplinary executive organ of IG”20. Così il ruolo pedagogico degli storici si mutò in una contesa ideologica sull’interpretazione del passato: un caso esemplare di uso pubblico della storia, nel quale gli storici giocarono un ruolo di primo piano, che sottopose il procedimento penale ad una forte distorsione rispetto alla sua finalità principale – decidere sulla colpevolezza o me-no dei singoli imputati.

Con la fine degli anni Ottanta si affermò una nuova figura di stori-co “who choose to play the role of ‘expert’ in public debates about the past”21. Si tratta di un ruolo connesso al diffondersi di meccanismi di giustizia di transizione, sia nelle società post coloniali, sia in quelle in-teressate alla caduta del blocco sovietico22: commissioni per la verità e la giustizia, meccanismi di riparazione, restituzione di beni, politiche di riconciliazione, tutti ambiti nei quali, accanto a giuristi, politici, scienziati sociali, giornalisti, troviamo attivi professionisti della ricerca storica23. Altro ambito di intervento degli storici sono le commissioni di indagine, sia interne ad uno singolo Stato, sia miste (intestatali) per arrivare a versioni condivise di momenti particolarmente controversi del passato24, e le controversie legali relative a interpretazioni cosiddet-

20 Ivi, 151 e 153. 21 C. Fink citata da H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad, Introduction, cit., 1. 22 Sulla giustizia di transizione la bibliografia è ormai imponente: mi limito a citare

l’ottima discussione critica di P. P. Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Milano, 2011.

23 J. Torpey (a cura di), Politics and the Past. On Repairing Historical Injustices, New York, 2003.

24 Si veda M. Cattaruzza - S. Zala, Negotiated History? Bilateral historical commis-sions in twentieth-century Europe, in Contemporary history on trial (a cura di H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad), cit., 123-143. Nello stesso volume si veda R. Pupo, The Italo-Slovenian historico-cultural commission, 144-158. Nell’ottobre 2012 è prevista la presentazione ufficiale dei risultati della Commissione storico italo-tedesca (del quale lo scrivente ha fatto parte), istituita nel vertice bilaterale tenutosi a Trieste il 18 no-

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te negazioniste, là dove vi siano delle legislazioni che le puniscono pe-nalmente: qui gli storici possono essere chiamati in causa non solo in qualità di consulenti, come dimostra il caso Irving v. Penguin UK and Lipstad. David Irving citò in giudizio Deborah E. Lipstad per averlo definito, in un suo libro, “Hitler partisan wearing blinkers” who “di-stort[ed] evidence... manipulat[ed] documents, [and] skew[ed]... and misrepresent[ed] data in order to reach historically untenable conclu-sions”25. Il caso si discusse alla Royal High Court di Londra nel-l’inverno del 2000, e la Lipstad fu assolta. Le sue spese legali ammon-tarono a 1 milione e mezzo di dollari, in parte impiegati per il lavoro di un team di storici che dimostrasse fattualmente le falsità di Irving26, e furono coperte da un gruppo di sostenitori, ebrei e non ebrei.

Quel caso, provocato imprudentemente da Irving, rappresenta una pietra miliare per un giudizio, non di storici in un libero dibattito, ma in un’aula di tribunale, sulle falsità dei negazionisti27. Quindi le con-troversie storiografiche possono finire in tribunale perché si appuri la “verità” di affermazioni considerate false, o di accuse considerate ca-lunniose dagli storici che ne vengano colpiti, e ne possono essere coin-volti anche studiosi, come la Lipstad, che erano e sono contrari a legi-slazioni proibizionistiche. Ed è difficile difendersi da situazioni del ge-nere: fare bene il proprio mestiere può essere pericoloso, se non si di-spone, o si è in grado di attivare, una rete di protezione economica da chi viene minacciato di querela per aver esercitato il suo diritto di cri-tica storica.

Nel presente saggio mi limiterò a considerazioni che riguardano solo il ruolo degli storici in procedimenti penali nei quali siano impu-tati presunti responsabili di crimini di guerra. In Italia, prima dell’ultima stagione processuale, conosco un solo caso di utilizzazione

vembre 2008 dai Governi di Italia e Germania, con il mandato di un “approfondimen-to comune sul passato di guerra italo-tedesco e in particolare sugli internati militari italiani, come contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria”, e insediatasi nel marzo 2009. Informazioni sul sito http://www.villavigoni.it/-index.php?id=76&L=1 (consultato il 3 settembre 2012).

25 D. Lipstad, History on trial. My Day in Court with a Holocaust Denier, New York, 2006, XX.

26 R. Romanelli, che ringrazio, ha rilevato che “il team di storici consulenti al pro-cesso Lipstad-Irving fu guidato da R. J. Evans, autorevole storico del nazismo al quale il tribunale britannico aveva chiesto di appurare i fatti. Evans ha narrato la vicenda in Lying about Hitler. History, Holocaust, and the David Irving Trial, New York, 2002. Il compito affidatogli era tutt’altro che facile, e non privo di insidie, data l’indubbia competenza di Irving in materia e la sua conoscenza degli archivi” (e-mail al sottoscrit-to del 13 giugno 2012).

27 Si veda anche D. Kaufman - G. Herman - J. R., D. Phillips (a cura di), From the Protocols of the Elders of Zion to Holocaust Denial Trials, London-Portland, 2007.

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di uno storico come consulente: nel giudizio del 1976, presso la Corte di assise di Trieste, contro i responsabili del campo di concentramento della Risiera di S. Sabba, Enzo Collotti fu chiamato a testimoniare co-me consulente della Corte. Nella nuova stagione, che si apre con i pro-cessi contro Eric Priebke presso il Tribunale militare di Roma (1996-1998), il prof. Gerhard Schreiber, del Militärgeschichtliches Forschungs-amt (ufficio storico dell’esercito tedesco) di Friburgo ha operato come consulente tecnico dell’accusa.

Da allora sei processi sono stati celebrati fino al 2002, e 14 dal 2002 ad oggi, e spesso hanno visto gli storici chiamati come consulenti tecnici, per lo più da parte dell’accusa o delle parti civili28.

3. Giudice e storico: analogie e differenze Il lavoro dello storico e quello del giudice si avvicinano, anche se al

primo viene chiesto, di solito, di formulare un giudizio solo sul piano etico. La premessa del giudizio, tuttavia, è un’accurata ricostruzione dei fatti, e alcuni negano che questa rientri nelle possibilità dello stori-co: così per Simon Schama, nel caso affrontato nel libro citato in nota, di una duplice narrazione della morte di un personaggio storico, “ver-sioni diverse dei fatti competono per imporsi, tanto ai contemporanei quanto ai posteri” (ma, mi vien fatto di chiedere, non è così anche nel-le aule del tribunale, dove si confrontano le versioni, di solito opposte, di accusa e difesa?). Egli ritiene quindi che lo storico non possa aspira-re al ‘vero’, tutt’al più vi si può avvicinare nella consapevolezza “della propria incapacità di ricostruire un mondo scomparso nella sua inte-rezza, per quanto esaustiva e rivelatrice possa essere la documentazio-ne in suo possesso. Certo, egli cerca di cavarsela in altro modo: formu-la problemi, fornisce spiegazioni su cause e effetti. Ma la certezza delle risposte resta comunque condizionata dalla loro irrimediabile lonta-nanza dall’oggetto”29.

Più possibilista Carlo Ginzburg: gli storici che si occupano di vi-cende giudiziarie conducono “un’indagine per interposta persona – quella dell’inquisitore o del giudice”, nel corso della quale “‘vero’ e ‘verosimile’, ‘prove’ e ‘possibilità’ s’intrecciano, pur rimanendo rigoro-samente distinti”30. Ritornando successivamente sul tema, Ginzburg ha

28 I dati in M. De Paolis, La punizione, cit., Appendici al capitolo secondo, 140-155. 29 S. Schama, Le molte morti del generale Wolfe. Due casi di ambiguità storica, Mi-

lano, 1992 [1991], 260 e 258. 30 C. Ginzburg, Prove e possibilità. In margine a “Il ritorno di Martin Guerre” di N.

Z. Davis, Postfazione a N. Z. Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia iden-tità nella Francia del Cinquecento, Torino, 1984 [1982], 133 e 135.

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sostenuto che se giudici e storici hanno entrambi a che fare con “l’accertamento dei fatti e quindi della prova”, i secondi possono sup-plire alle lacune documentarie ricorrendo al “contesto, inteso come luogo di possibilità storicamente determinate” (ma anche in un tribu-nale, vorrei rilevare, quello che dà significato ad una prova è il ragio-namento indiziario nel quale questa viene inserita, l’equivalente del “contesto” utilizzato dagli storici): ne deriva “un giudizio di compati-bilità storica [...] congetture, non fatti accertati. Chi arrivasse a conclu-sioni diverse negherebbe la dimensione aleatoria e imprevedibile che costituisce una parte importante (anche se non esclusiva) della vita del singolo”31. Ciò non gli ha impedito di svolgere, proprio rivolgendosi al “contesto” e con una attenta lettura degli atti, una vera e propria con-tro inchiesta giudiziaria, nel caso in oggetto (il processo ad Adriano Sofri ed altri militanti di Lotta Continua, accusati di essere mandanti ed esecutori dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi), cioè di utilizzare le proprie competenze e abilità di storico per ribaltare un verdetto di colpevolezza pronunciato da una Corte d’Assise.

Di solito si fa riferimento ad un noto brano di Bloch per sostenere la radicale differenza fra l’atteggiamento del giudice e quello dello sto-rico: “‘A chi la colpa, o il merito?’, dice il giudice. Lo studioso si limita a domandare: ‘perché?’, e accetta che la risposta non sia semplice”. Poco prima di morire fucilato per il suo impegno nella Resistenza a Lione, trovava la forza di scrivere, quasi a conclusione del saggio dedi-cato a Lucien Febvre, e scritto “come semplice antidoto” ai “peggiori dolori e le peggiori ansietà, personali e collettive”:

“Una parola domina e illumina i nostri studi: ‘comprendere’. Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia. Persino nell’azione, noi giudichiamo troppo. È così comodo gridare: ‘Alla forca!’. Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi – straniero, avversario politico – passa, quasi necessaria-mente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. È una vasta esperienza delle varietà umane, un luogo di incontro degli uomini. La vita, al

31 C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri,

Torino, 1991, 106-108.

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pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia frater-no”32.

Eppure la contrapposizione fra comprendere e giudicare mi sem-

bra troppo netta: certamente la comprensione è fondamentale anche per esprimere un giudizio, e molti libri di storia sono infarciti di giudi-zi di tipo etico, sia pure sottintesi. Il vero problema si pone quando il giudizio è avulso, precede o si sostituisce alla comprensione storica. Antoon De Baets ha rilevato che:

“the line between explaining and judging can be extremely thin. Indeed, when you investigate the causes of a war crime and when you can identify with some certainty the perpetrators of that war crime, then you are already very close to judging. The search for the causes of crimes almost inevitably leads to statements about perpetrator responsibility. Both are closely knit, as John Toews reminded us: ‘[B]ecause the construction of causal relations is closely tied to the attribution of responsibility for particular acts, it integrates cognitive schemes with systems of ethics’. A narrative that asks for the causes of a crime almost automatically leads to the question who was guilty for it and thus to moral judgments – which does not imply that causes and responsibili-ties are necessarily identical”33.

E Todorov ha sottolineato che “l’esistenza umana è impregnata in

ogni sua parte di valori e che, di conseguenza, il voler espellere dalle scienze umane ogni legame con i valori è un compito disumano”34.

Come si vede le analogie fra il mestiere di storico e quello di giudi-ce attengono sia alla natura del ragionamento indiziario che entrambi utilizzano, sia al fatto che, più spesso di quanto non si ammetta, anche il lavoro dello storico ha a che fare con la giustizia. L’ha sostenuto con grande efficacia Charles Maier.

“Scrivere storia e rendere giustizia sono entrambe procedure squisitamente giuridiche per il tentativo di riportare i casi specifici a norme generali consi-derando le differenze tra l’evento e la regola. Giudicare un comportamento nelle aule di un tribunale o in un contesto storiografico richiede un’analisi ca-so per caso […] Moderazione, attendibilità, buon senso, attenzione al conte-sto e ai limiti dell’azione umana, esperienza di vita, capacità di evocare il par-

32 M.Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, II ed., 1969 [1949]

163 e 127. 33 E-mail di A. De Baets a chi scrive del 22 giugno 2012. Dell’autore si veda Re-

sponsible History, New York-Oxford, 2009. 34 T. Todorov, Le morali della storia, Torino, 1995 [1991], 17.

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ticolare e il generale, abilità nel ricostruire le situazioni in modo da renderle comprensibili al pubblico e non già il frutto di ragionamenti difficili ed esote-rici: sono queste le voci del catalogo di buone virtù del giurista e dello storico. Il problema è che pretendiamo plausibilità, contestualizzazione, solido buon senso, capacità di giudizio e saggezza, proprio perché affidiamo al giudice e allo storico un compito impossibile. Devono decidere quale spazio esistesse per il soggetto di scegliere fra alternative diverse, che è la condizione per at-tribuire responsabilità. In qualche modo devono decidere quale versione dei fatti fra quelle offerte dai contendenti sia più vicina alla verità […] Sia la giu-stizia che la storia presuppongono che alla fine del loro lavoro possa emergere una sola ed equilibrata versione del passato con una dose di verità maggiore di quella presente in ogni versione dei contendenti”35.

A volte, negli studi sulle stragi di civili in Italia commesse dai tede-

schi, che hanno avuto uno sviluppo notevole negli ultimi 20 anni circa, allo storico è stata affidata la responsabilità di un giudizio su episodi che hanno spesso visto le comunità che ne sono state investite riflettere e segmentarsi sull’attribuzione delle responsabilità. Se gli esecutori ma-teriali dei massacri sono rimasti nell’ombra, le memorie si sono divise sul ruolo giocato dai partigiani, accusati da parte di una parte dei so-pravvissuti, o dei parenti delle vittime, di avere provocato con azioni inutili la rappresaglia tedesca, e di avere lasciato indifese le comunità davanti ad essa36. Mi occupo di stragi dal 1993 quando, in previsione del cinquantesimo anniversario del massacro di Guardistallo, un paese in provincia di Pisa, fui incaricato dalle autorità locali e da un comitato di cittadini, dove erano rappresentate le varie “anime” del paese, di porre la parola fine all’assillo che divideva la comunità, indicando una volta per tutte a chi attribuire la “colpa” di cinquanta civili uccisi a se-guito di uno scontro fra le truppe tedesche in ritirata e la banda parti-giana del posto. Dovevo indicare, dopo un’inchiesta approfondita, chi aveva sparato per primo, ricostruire onestamente come “veramente erano andate le cose”, senza preoccuparmi di quale delle due parti sa-rebbe risultata la “vincitrice” nel conflitto di memoria che le opponeva e aveva diviso il paese.

Insomma, una comunità ricorreva alla “professionalità” dello sto-rico come “esperto di verità”. I cittadini di Guardistallo mostravano di credere veramente che “soltanto lo storico, con la sua rigorosa passio-

35 C. Maier, Fare giustizia, fare storia: epurazioni politiche e narrative nazionali do-po il 1945 e il 1989, in La memoria del nazismo nell’Europa di oggi (a cura di L. Paggi), Firenze, 1997, 245-246.

36 Si vedano, ad esempio, G. Contini, La memoria divisa, Milano, 1997, P. Pezzi-no, Anatomia di un massacro, Bologna, 1997 (seconda edizione con nuova Postfazione 2007), L. Baldissara - P. Pezzino, Il massacro, cit.

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ne per i fatti, per le prove e le testimonianze, che sono determinanti nel suo fare, può realmente montare la guardia contro gli agenti di oblio, contro coloro che fanno a brandelli i documenti, contro gli as-sassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, contro i cospirato-ri del silenzio”37. La ricerca durò tre anni, rappresentando, per chi l’ha vissuta nei panni di quell’esperto, non solo una significativa messa alla prova di quei principi di responsabilità sui quali, da qualche tempo, gli storici stanno nuovamente sviluppando la discussione – non a caso a partire da quella Historikerstreit che ha diviso qualche anno fa gli sto-rici tedeschi sull’interpretazione di Auschwitz 38 – ma anche una straordinaria sfida di ricerca della “verità”.

In quella occasione, si trattava non solo di scrivere storia, ma an-che, proprio in quanto venivo chiamato a “narrare” gli eventi secondo una trama non solo verosimile, ma che si pretendeva da me dovesse essere assolutamente veritiera, di rendere giustizia, innanzitutto alle vittime, ascoltando e dando dignità di narrazione pubblica alle loro storie e ragioni, ma anche ai partigiani, costretti in tutti quegli anni a difendersi da accuse infamanti. Insomma in questo caso rendere giu-stizia voleva dire non solo, come sostiene Yerushalmi, opporsi all’oblio, ma anche attribuire responsabilità, se non altro sul piano eti-co: ancora Charles Maier ha posto in evidenza che entrambi, storico e giudice, si basano sia sulla indagine relativa ai fatti oggetto del proce-dimento (o della ricerca), sia sulla narrazione, e questo proprio in tema di attribuzione di responsabilità:

“The historian has to provide a narrative that ‘explains’ or ‘accounts for’, which means probing intentionality and worldviews. The historian rarely as-sumes a wholly determined framework, even if he or she wants to illuminate the constraints on actors. Thus, the historian presupposes choice and has to account for choice. He or she does not have to find an appropriate penalty for evil choices [questa è, mi sembra, la più significativa differenza con il giu-dice, ndr], but the weighing process is still akin to that of the judge”.

37 Y. H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, cit., 23. 38 Una sintesi dei principali interventi in Germania: un passato che non passa (a cu-

ra di G. E. Rusconi), Torino, 1987. Sulla responsabilità dello storico ricordo il conve-gno dal titolo “Le responsabilità dello storico contemporaneo oggi”, organizzato dal Dipartimento di storia e civiltà dell’Istituto universitario europeo, dalla SISSCO - So-cietà italiana per lo studio della storia contemporanea, e dalla rivista “Passato e Pre-sente” (S. Domenico di Fiesole, 11-12 aprile 1996). Sul tema si possono vedere anche J. Stengers, L’historien face à ses responsabilités, in Cahiers de l’ecole des Sciences philo-sophiques et religieuses, 15, 1994, 19-50, ed il più recente H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad, Contemporary history on trial, cit.

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D’altra parte, continua Maier, “narrative and categorization are crucial to lawyering”, e anche se è evidente che vi sono narrazioni plausibili alternative, si presuppone che una sola sia quella che mag-giormente si avvicina alla

“right story. Even if alternative stories are possible, one of them must prevail in order to prescribe corrective remedies, whether it is a money payment, a restraining order, or an assigned punishment. The historian, like the judge, has the duty of constructing a jurisprudential narrative […] the narrative […] relies primarily on contextualization to establish what constituted culpable or nonculpable or even praise-worthy action”39

Quando nel 1997 ho pubblicato i risultati della ricerca su Guardi-

stallo, ho dato loro la forma di una vera e propria indagine processua-le, divisa in istruttoria, giudizio e sentenza. La motivazione era esposta nel libro: nonostante fossi consapevole della differenza fra lavoro del giudice e quello dello storico, avevo ritenuto di dover rispondere alla richiesta di verità – e di giustizia – che proveniva dagli abitanti di Guardistallo non sottraendomi, cito dall’Introduzione al volume, “ma-gari con un giustificato, ma in questo caso troppo comodo, richiamo al ‘contesto’ di quegli anni, alla domanda di coloro che vogliono sapere ‘di chi è la colpa’”. Aggiungevo subito dopo che “la ‘colpa’ è sempre, in prima istanza, di chi perpetra il massacro”40, e l’analisi successiva era rivolta a spostare il centro dell’attenzione dalla domanda “chi ha spa-rato per primo?”, sulla quale si era incentrata la diatriba che divideva la popolazione del paese – una domanda che tanto ricorda l’inutile questione di chi in una conflitto abbia sparato il primo colpo, tanto cara agli storici sbeffeggiati da Marc Bloch nel suo Apologia della storia – al contesto generale in cui si inseriva la strage, quello della guerra, e di quel tipo di guerra condotta in Italia dalle truppe tedesche. Ma tan-to forte era stato l’impatto emotivo dell’incontro con i cittadini di Guardistallo (con tutti loro: sia gli accusatori dei partigiani, sia i parti-giani stessi, o almeno alcuni di loro, segnati profondamente dalla tra-gedia vissuta quel 29 giugno 1944) che non ho resistito alla tentazione di “prevedere l’eventualità di un rinvio a giudizio oppure di un’asso-luzione rispetto ai capi d’accusa che venivano avanzati dai miei com-mittenti verso alcuni dei protagonisti di quell’episodio”41.

39 C. Maier, Overcoming the Past? Narrative and Negotiation, Remembering, and

Reparation: Issues at the Interface of History and the Law, in Politics and the Past (a cura di J. Torpey), cit., 299-300.

40 Anatomia di un massacro, cit., 20. 41 Ivi, 21.

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Inoltre, dato che la mia ricerca era stata in grado di individuare i tedeschi autori del massacro, in teoria ancora perseguibili sul piano penale, essa avrebbe potuto configurare l’operazione di “rendere giu-stizia” in senso propriamente giudiziario. Ruti G. Teitel ha corretta-mente sottolineato come “‘truth’ is not an autonomous response [...] Truth is seen by some as a precursor phase that leads to other legal processes, such as prosecution”, or “sanctions against perpetrators, reparations for victims, and institutional changes”42. 4. Chi è responsabile?

Portati davanti ad un tribunale, individui che si sono macchiati di

crimini in nome di idee politiche od obbedendo agli ordini di Stati criminali, nel corso di conflitti o di esperienze di governo totalitario, hanno sempre difeso la propria posizione facendo appunto riferimento alla necessità dell’obbedienza. È indubbiamente giusto riflettere sui limiti delle azioni umane, sui condizionamenti che fanno apparire la violenza, in quelle circostanze, normale, plausibile, inevitabile. Quello della “responsabilità”, insomma, è un principio di difficile fondazione, tanto che un numero di “Esprit” sul tema è stato significativamente intitolato Les équivoques de la responsabilité, “ces dernières conduisant fréquemment à des phénomènes de recherche de boucs émissaires”43. In “Film rosso” di Kieslovski (1994), il protagonista, un giudice a ripo-so, ripensando agli imputati che aveva processato e condannato, con-fessa che: “al loro posto [...], nella stessa vita, in quelle circostanze, avre[bbe] rubato, avre[bbe] ucciso, avre[bbe] mentito”, si sarebbe comportato, cioè, esattamente come loro:

“ho condannato, – concludeva – perché non ero nella loro pelle, ma nella mia”. In sintesi, secondo questa posizione, emerge “una dura idea della re-sponsabilità che non si riferisce a ciò che gli uomini hanno voluto, ma a ciò che essi si trovano ad avere fatto alla luce dell’evento [...] Essa schiaccia l’individuo nei suoi atti, mescola l’oggettivo e il soggettivo, imputa alla volon-tà le circostanze; sostituisce così all’individuo quale egli credeva di essere, un ruolo o un fantasma in cui egli non si riconosce, ma in cui deve riconoscersi, perché è quello che egli ha rappresentato agli occhi delle sue vittime e perché oggi le sue vittime hanno ragione”44.

42 R.G. Teitel, Transitional Justice, New York, 2000, 88. 43 O. Mongin, introduzione al numero (n. 206, novembre 1994), 5. 44 M. Merleau-Ponty, Umanismo e terrore, Milano, 1978 [1947], 74-75. Il contesto

dell’affermazione di Merleau-Ponty (una riflessione sull’epurazione all’interno di un

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È certo che proprio la dimensione cogente delle “circostanze”,

l’“ordinarietà” della violenza rende difficile la domanda fondamentale: a quale livello, nella lunga serie di eventi e di circostanze che porta ad un massacro, è possibile individuare con nettezza la responsabilità in-dividuale? A quale livello la vediamo emergere chiaramente, a sostene-re una chiamata in giudizio in un processo penale, ma anche una valu-tazione sul piano morale, politico o storico? Si tratta di stabilire da quale anello della catena gerarchica far partire la presunzione di re-sponsabilità, e fin dove prolungarla: anche al soldato, che obbedisce sì agli ordini del suo ufficiale ma che, come è evidente in molte testimo-nianze oculari sugli eccidi, dimostra spesso, nell’eseguire questi ordini, un’indifferenza o una spietatezza che non consentono di considerarlo privo di colpe? Fino agli ufficiali subordinati, imputabili di interpreta-re con eccesso di zelo ordini di carattere generale? Fino ai comandanti delle divisioni, o a quelli dei corpi d’armata, o al comandante supremo della Wehrmacht, o ancora più su, a Hitler e al suo ristretto entourage? David Cohen ha parlato, a proposito della strategia difensiva in molti processi per crimini di guerra intesa a rigettare su altri la responsabilità di quanto avvenuto, di “responsabilità ‘oscillante’ che si ritrova in così tanti processi nei quali, indipendentemente dalla propria posizione all’interno della gerarchia, sono sempre quelli al di sopra o al di sotto dell’imputato ad essere presumibilmente responsabili”. In realtà “la colpevolezza dei più alti livelli di comando non esclude la responsabili-tà dei gradini più bassi della scala gerarchica”45.

È indubbio che la responsabilità individuale vale per tutti, ma la dimensione collettiva delle colpe, tipica di guerre o di regimi totalitari, impedisce una sua applicazione generalizzata: un tema sul quale ha espresso ultimamente condivisibili argomentazioni Pier Paolo Portina-ro, analizzando le posizioni dei “critici del ‘modello Norimberga’ [sul] problematico rapporto tra la dimensione collettiva dei crimini interna-zionali e la dimensione individuale delle responsabilità penali”. Giu-stamente Portinaro sottolinea che “un bilancio più equilibrato do-vrebbe differenziare”: una cosa infatti è porsi il problema di trovare soluzione alternativa all’ipotesi irrealistica e irrealizzabile di migliaia, o centinaia di migliaia, di procedimenti penali, qualora l’unico elemento di punizione sia considerato il processo, un’altra dare spago ad argo-mentazioni che, puntando sulla natura criminale di un intero sistema

libro sul terrore comunista) non gli toglie, credo, la sua validità di riflessione generale sul tema della responsabilità, che è al centro del mio ragionamento.

45 D. Cohen, L’eredità di Norimberga, cit., 253-254.

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politico, favoriscono in realtà una cultura dell’impunità e una richiesta di oblio sul passato criminale46.

Spesso in passato nell’individuazione di criteri di “diritto” per de-finirle, le responsabilità dei singoli soggetti si sono perse, almeno sul piano penale, e si è fornita la rappresentazione di una macchina totali-taria dotata di una propria autonoma forza costrittiva, indipendente dalla volontà dei singoli, e della quale gli unici responsabili venivano indicati nel dittatore e in pochi suoi stretti collaboratori, rendendo in tal modo priva di senso la dimensione della responsabilità individuale, che è quella prevalente nelle aule del tribunale. Del resto, che agli or-dini si deve obbedire è il senso comune sul quale ogni esercito fonda la propria capacità di essere macchina di distruzione senza dovere affron-tare gli angosciosi dilemmi di coscienza che la guerra in generale, ed in particolare le azioni di rappresaglia contro i civili, pongono. Esemplare sotto questo aspetto quanto scriveva il 24 novembre 1947 un generale dell’esercito italiano, Aldo Menghini, di Firenze, indirizzando una let-tera di raccomandazioni al generale Giovanni Minaxhò, pubblico mi-nistero presso il tribunale militare di La Spezia, a favore di un membro del III Polizei-Freiwilligen-Bataillon “Italien”, costituito con quei mili-tari italiani, catturati dopo l’8 settembre, che avevano accettato l’invito ad essere arruolati nelle file dell’esercito repubblicano, o direttamente in quelle tedesche. Il milite del quale Menghini prendeva le difese era accusato di aver partecipato al massacro di 83 minatori della miniera di Niccioleta, nella Toscana settentrionale, avvenuto fra il 13 ed il 14 giugno 1944. Il generale Menghini ricostruiva il fatto, sottolineava che la compagnia del suo protetto nel corso del rastrellamento al villaggio aveva trovato armi, che gli operai avevano scioperato ed innalzato una bandiera rossa, e, dopo aver perorato la causa del milite, si scusava per lo “sfogo che tu ben comprenderai quale vecchio soldato come me. Se le cose stanno così come […] io ti ho riportato, una volta che si è am-nistiato un soldato che è andato a servire, secondo lui la Patria, però nel campo opposto; come lo si può ritenere individuo responsabile de-gli atti che gli hanno ordinato i suoi superiori?” La conclusione era già suggerita nella domanda retorica: “il soldato è nell’esercito irresponsa-bile”47. È un ulteriore esempio di quella legittimità garantita “ai milita-ri di ogni tipo e grado che operano nell’ambito del monopolio della violenza legale esercitata dallo Stato”, con un “paradossale rovescia-mento delle responsabilità: i criminali nazisti erano dei ‘regolari’, che agivano all’interno di un potere costituito, mentre i partigiani, come

46 P. P. Portinaro, I conti con il passato, cit., 86 e 89. 47 P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Bologna, 2001, 200.

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appunto dicevano i proclami dei comandi Tedeschi, erano dei banditi, dei fuorilegge, che non conducevano una guerra leale”48.

Dopo la fine della guerra, “una larga fascia di militari di professio-ne di tutto il mondo stava serrando i ranghi sulla questione dei crimini di guerra […] Il precedente più minaccioso per i militari di professio-ne era il rifiuto della difesa basata sugli ordini dei superiori; molti cre-devano che ciò avrebbe eroso la catena di comando militare”49. Questa difesa si inseriva poi nel nuovo clima della guerra fredda: Donald Bloxham ha mostrato l’ampiezza delle accuse, in ambienti politici sta-tunitensi (non solo di destra), ai processi contro rappresentanti delle forze armate tedesche, che i più rozzi critici giudicavano di ispirazione comunista, considerando i processi di Norimberga un attacco “alla mi-tica santità della difesa degli ordini superiori”, attacco che minava l’autorità degli ufficiali in previsione di uno scontro contro le forze del comunismo internazionale. Questo portava oltretutto a riaffermare la comunanza di una cultura militare europea, alla quale sarebbe appar-tenuto a pieno titolo l’esercito tedesco anche sotto il nazismo, rispon-dendo ad una norma “civilizzata” e a valori dell’occidente cristiano, riproponendo così “uno sciovinismo occidentale antislavo di lunga du-rata”, da riaffermare contro l’anticristianesimo del mondo comunista50.

È certo che, una volta dedotta dalla logica dell’obbedienza la tesi dell’irresponsabilità morale, prima che penale, di un soldato per qual-siasi azione gli sia stata ordinata, il risultato sarebbe che nessun milita-re potrebbe mai essere processato per atti compiuti in divisa: dato che ogni superiore è a sua volta dipendente da un ulteriore superiore ge-rarchico, si può far ricadere la responsabilità di qualsiasi azione crimi-nale direttamente sul capo supremo delle forze armate o, nel caso di un regime totalitario, sul dittatore cui di regola le forze armate sono subordinate: scomparso lui, circostanza che di solito si è già verificata quando si celebrino processi che mettano in discussione la liceità di quegli ordini, tutti sono da considerarsi “irresponsabili”. Come già ri-levò il 14 marzo 1957 il deputato austriaco Ernst Fischer nel dibattito parlamentare sull’abolizione della legge sui criminali di guerra, “qui si tratta di una questione di fondo, cioè se uno che massacra donne e bambini, fa gassare persone, commette ogni crimine, possa invocare a sua giustificazione un ordine superiore. Nella Germania di Hitler c’era sempre un ‘superiore’, e alla fine resta solo uno, che ha la colpa da so-

48 C. Pavone, Note sulla Resistenza armata, le rappresaglie naziste e alcune attuali confusioni, in Aa.Vv., Priebke e il massacro delle Ardeatine, Roma, 1996, 43.

49 P. Maguire, La contraddittoria “lezione” di Norimberga, in Giudicare e punire (a cura di L. Baldissara - P. Pezzino), cit., nota 49, 299.

50 D. Bloxham, I processi per crimini di guerra nell’Europa postbellica, ivi, 170-171 e 175.

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lo: Adolf Hitler; gli altri erano nient’altro che uno strumento, resi col-pevoli da un sistema, ma innocenti nel proprio delitto. Noi pensiamo che questo sia sbagliato”51.

Sul terreno storiografico il tema della responsabilità individuale si è invece negli ultimi anni imposto con forza: l’hanno ad esempio af-frontato sia Browning che Todorov, per i quali un giudizio morale può essere dato sempre, in presenza di una scelta. Ha scritto quest’ultimo che:

“gli esseri umani non obbediscono alle loro leggi con la stessa regolarità di tutti gli altri esseri: possono anche decidere di infrangerle, proprio perché ne hanno preso coscienza [...] In altri termini, l’essere umano, nonostante sia sot-tomesso a infiniti determinismi – storici, geografici, sociali, psichici – si carat-terizza per la propria libertà inalienabile”52.

E Browning, a conclusione del suo libro sul battaglione 101, so-

stiene che c’è sempre la possibilità di una scelta:

“la storia di questi uomini comuni non è la storia di tutti gli uomini: i riservisti affrontarono delle scelte, e gran parte di essi commisero orribili crimini. Ma coloro che uccisero non possono essere assolti sulla base dell’assunto che chiunque, in quella situazione, avrebbe fatto lo stesso [...] La responsabilità umana è, in ultima analisi, una questione individuale”53.

Non è quindi un caso che, in linea generale, i processi per crimini

di guerra in Italia di questi ultimi anni abbiano utilizzato il filone sto-riografico della “guerra ai civili”, che ha fornito ai magistrati una lettu-ra articolata dei processi di barbarizzazione della guerra messi in atto da alcuni reparti dell’esercito tedesco in alcuni momenti della campa-gna d’Italia:

“La definizione di ‘guerra ai civili’ prescelta da alcuni storici per descrivere, connotare e spiegare, in estrema sintesi, il fenomeno delle stragi di popolazio-ne civile in Italia nel corso della seconda guerra mondiale (nel senso di affer-mare l’esistenza di un piano organico, ideato e concretamente realizzato dai tedeschi per terrorizzare le popolazioni civili), appare del tutto appropriata. Trasponendo sul piano giuridico queste osservazioni, può in concreto parlarsi

51 Cit. in E. Holpfer, I processi ai criminali di guerra in Austria. L’esperienza delle corti d’assise, ivi, 230-231.

52 T. Todorov, Le morali della storia, cit., 17. Sono temi che lo stesso autore ha sviluppato in Di fronte all’estremo, Milano, 1992 [1991].

53 C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Torino, 1995 [1992], 198.

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di un vero e proprio ‘programma criminoso’, posto in essere da alcuni reparti militari germanici in Italia in quel periodo”54.

Ma una cosa è che i magistrati leggano libri di storia, traendone li-

beramente convinzioni e interpretazioni che possono orientarli nel lo-ro ruolo di inquirenti (o di giudici), un’altra che lo storico assuma un ruolo ufficiale, attraverso una sua perizia depositata in tribunale: dei problemi specifici posti da questo cambiamento di ruolo discuterò nell’ultima parte di questo intervento.

5. Il vero e il falso Discutendo di responsabilità dello storico, Peter Mandler ha re-

centemente rilevato che non è suo compito configurarsi come giudice o giuria della società:

“the canons of evidence and argument that prevail in the courtroom are dif-ferent from those that prevail in the classroom, and that as a result historians often come off badly when they are dragged into judicial proceedings. In courtrooms, facts are ascertained and then measured up against the law. In classrooms, facts are ascertained and then interpreted. While superficially similar, these processes are in reality very different”.

La conclusione di Mandler è che gli storici possono avere un ruolo

nelle aule di giustizia, ma “ought to go in without illusions about their place and authority there”55.

Condivido, almeno in base alla mia personale esperienza, questa ultima affermazione: in effetti, per quanto i fatti per i quali si svolge il procedimento possano essere avvenuti molto tempo prima, come in Italia negli attuali processi per crimini di guerra, la perizia dello storico è solo uno degli elementi del lavoro inquirente, un punto di partenza per indagini che si sviluppano, poi, secondo le normali modalità dell’inchiesta giudiziaria. In altre parole, difficilmente allo storico sarà posto un quesito che riguardi direttamente la colpevolezza o l’in-nocenza degli imputati, difficilmente la sua perizia avrà lo stesso carat-tere stringente di una perizia balistica o dell’esame del DNA, difficil-mente sarà l’elemento fondamentale sul quale un tribunale si basa per giudicare. Questo ruolo non di primo piano può forse offendere la va-

54 M. De Paolis, La punizione, cit., 131. 55 The responsibility of the historian, in H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad,

Contemporary history on trial, cit., 15-16.

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nità ed il narcisismo del consulente storico, ma gli attribuisce anche una libertà che gli consente di evadere da eccessive semplificazioni nel-la risposta ai quesiti che gli sono stati posti (naturalmente, molto di-pende anche dal carattere dei quesiti e dalla natura del procedimento giudiziario nel quale lo storico è chiamato ad operare).

Vorrei sottolineare un altro elemento: l’opportunità, che si offre al-lo storico che opera come consulente di un magistrato inquirente, di un accesso alle fonti relative alla sua indagine non condizionato dagli usuali limiti posti all’utilizzazione degli archivi. Pur essendo consape-vole del carattere “cumulative or evolutionary”56 della ricerca storica, e non nutrendo alcuna illusione sul reperimento del documento che possa essere l’equivalente della “smoking gun” dei romanzi polizieschi, confesso che, nell’accettare gli incarichi, questo è stato forse – insieme ad una certa innegabile dose di orgoglio professionale per essere stato scelto – l’elemento fondamentale. In effetti è difficile per uno storico di professione resistere ad una simile seduzione; tuttavia la realtà è sta-ta piuttosto deludente, rispetto alle aspettative che avevo posto in que-sta teoricamente senza limiti possibilità di indagine. La maggior parte del mio lavoro si è basato su fonti che già conoscevo, per lo più in mio possesso, che sono stato io a mettere a disposizione dell’ufficio del pubblico ministero; ho avuto accesso a fonti di un certo interesse dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, che comunque sono state declassificate e messe a disposizione di tutti gli studiosi circa un anno dopo la mia consultazione; non sono riuscito invece a trovare alcuna fonte inedita presso l’Archivio storico dell’Arma dei carabinie-ri, a Roma, l’Archivio di deposito della Prefettura di Bologna, l’ar-chivio del Comando dei carabinieri di Bologna. Quanto all’enorme mole del materiale istruttorio, che come perito del pubblico ministero potevo liberamente consultare, esso riguardava per lo più le ricerche dei singoli membri dei reparti operanti nelle stragi, rogatorie, etc., cioè un aspetto per me ben poco interessante, stante anche il prevedibile diniego della maggior parte degli imputati interrogati per rogatoria su tutte le vicende per le quali erano stati citati in giudizio (e le poche ec-cezioni di rilievo sono state rese pubbliche nel corso del dibattimen-to)57.

Ma veniamo all’obiezione più radicale, quella che sostiene

56 K. Karlsson, Public uses of history in contemporary Europe, in H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad, Contemporary history on trial, cit., 35.

57 Anche P. Bew sottolinea l’aspetto di accesso a fonti ancora coperte come ele-mento importante per lo storico-consulente; nel suo caso, tuttavia, l’esito è stato più soddisfacente che nel mio (P. Bew, The Bloody Sunday tribunal and the role of the hi-storian, in H. Jones - K. Östberg - N. Randeraad, Contemporary history on trial, cit., 67).

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l’incompatibilità fra il lavoro dello storico e quello del giudice. Mand-ler nel brano sopra citato, sottolinea appunto la differenza di metodo, e la prevalenza, nel lavoro dello storico, dell’interpretazione sul minu-zioso accertamento dei fatti. E tuttavia mi sento di dire che l’interesse dello storico per l’interpretazione niente toglie alla sua specifica com-petenza nell’accertamento della verità: il richiamo allo svolgimento dei fatti, che sta alla base dei quesiti che un inquirente pone allo storico, sottopone i suoi strumenti ad una tensione insolita e proficua, sfida la sua capacità di ricostruire (con la consapevolezza dei propri limiti: è lo stato delle fonti che condiziona la completezza della ricostruzione) “come veramente siano andate le cose”, cioè la verità fattuale, la di-mensione événementielle della storia, per niente trascurabile, del resto, se lo stesso Marc Bloch, certo non sospettabile di attrazione verso di essa, non si peritava di affermare: “Scrivere di storia e insegnarla: è questo, da circa trentaquattro anni, il mio mestiere. Mi ha portato a consultare molti documenti di epoche diverse per distinguere, come meglio potevo, il vero dal falso”58. Egli vedeva nell’invito di Ranke (lo storico si propone di descrivere le cose “come sono avvenute”), e già prima di Erodoto (“raccontare ciò che fu”), un’esortazione a “eclissar-si di fronte ai fatti”, un “consiglio di probità” e di “onesta sottomissio-ne alla verità”, doti che dovrebbero accomunare giudice e storico. E solo da quel momento che le loro strade si divaricano: “quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha concluso il suo compito. Al giudi-ce tocca ancora di dare la sua sentenza”59. Ritornando su questa distin-zione, Claudio Pavone ha tuttavia opportunamente precisato che “non deve peraltro trasformarsi in un alibi né per l’uno né per l’altro: per entrambi vige infatti l’imperativo etico della ricerca della verità, cia-scuno con i mezzi e con gli obiettivi che gli sono propri”60.

Certo, col richiamo al contesto, lo storico mira correttamente a complicare i quadri di riferimento, rifugge dalle spiegazioni monoli-neari, da catene di causalità troppo ristrette, ma è indubbio che il ri-chiamo allo svolgimento dei fatti, agli elementi di base degli eventi sto-rici (chi, dove, quando, come) esalta la “professionalità” dello storico come “esperto di verità”, una verità intesa certo non in senso assoluto e positivista, ma solo come ricostruzione ed affermazione di un ordine di concatenazione degli eventi plausibile, o meglio, più plausibile di altri ordini, una tensione che sta alla base della deontologia dello stori-co. Del resto Yerushalmi ha rilevato che “con la sua rigorosa passione

58 M. Bloch, La strana disfatta. Testimonianza del 1940, Torino, 1995 [1990], 5. 59 Id., Apologia, cit., 123-124. 60 C. Pavone, Note sulla Resistenza armata, le rappresaglie naziste e alcune attuali

confusioni, in Aa. Vv., Priebke e il massacro delle Ardeatine, Roma, 1996, 39-40.

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per i fatti, per le prove e le testimonianze” lo storico distingue, disse-ziona, analizza, instilla dubbi: il suo “Dio dimora certamente nei det-tagli”61.

È un richiamo che vale contro le evidenti falsificazioni, le false re-visioni, la sciatteria filologica di chi privilegia sempre la dimensione polemico-politica della ricostruzione storica. Senza voler mortificare la creatività interpretativa, lo storico deve continuamente stare ai “fatti”, cioè allo studio delle fonti, alla ricerca degli indizi, a sceverare quanto gli è consentito di affermare e quanto risulta invece interpretazione: una fondamentale lezione contro ogni manipolazione dell’operazione storiografica. 6. Non processare la storia

Su un altro versante si muovono le considerazioni di Henry Rousso

che, in merito alla possibilità di processare i responsabili di Vichy del-lo sterminio degli ebrei per crimini contro l’umanità, dichiarati impre-scrittibili il 26 dicembre 1964 dal Parlamento francese, ha sottolineato come il carattere altamente simbolico di questi processi nasconda dei pericoli: “c’est demander à la justice de formuler une condamnation des générations passées, de faire, au sens strict du terme, un procès de l’histoire [...[ Ce n’est pas le rôle de la justice de faire - ou refaire - l’histoire”62. Rousso si è quindi rifiutato di testimoniare al processo contro Maurice Papon (1998-99), già segretario generale della prefet-tura della Gironda durante l’occupazione tedesca.

Si tratta di una situazione diversa rispetto a quella italiana: questi processi hanno avuto, come ha efficacemente dimostrato lo stesso Rousso in un articolo nel quale ha ulteriormente esposto le sue ragioni, un valore altamente simbolico. Si trattava di giudicare “not only a man, but also a regime and an entire period, from a distance of more than half a century”63 Questo carattere è convincentemente argomen-tato da Rousso con un excursus sulla “lunga storia della memoria di Vichy”, e porta lo storico francese ad una conclusione condivisibile, che va al di là del caso singolo:

“the Papon trial (like the Touvier trial) resulted from a long evolution in pub-

61 Y. H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, cit., 21-23. 62 Histoire et justice, Débat entre Serge Klarsfeld et Henry Rousso, in Esprit, n.

181, mai 1992, Que faire de Vichy?, 36-37. 63 H. Rousso, Justice, History, and Memory in France. Reflections on the Papon

Trial, in Politics and the Past (a cura di J. Torpey), cit., 278. L’articolo è per la prima volta comparso in un volume tedesco nel 2000.

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lic consciousness involving the gradual dissemination of the idea that justice must be the principal vector of memory”64.

Tale natura non solo mette in tensione la libertà interpretativa de-

gli storici, il rigore giudiziario e il rispetto delle procedure legali, ma ha reso le testimonianze richieste agli storici non riconducibili ad un normale “juridical expertise”, sottoposto alle regole della procedura penale. Gli storici, infatti sono stati chiamati a comparire nel dibatti-mento65, non coinvolti nella preparazione,

“at a time when they would have had the leisure to examine and judge the ar-chival material that made up the core of the prosecution’s case […] In other words, the historians involved in the trial had no particular knowledge of the dossier, or hence of most of the archival materials concerning the prefecture of the Gironde […] Each of them spoke for several hours without being able to refer to notes or documents, even those of a very general nature. They tes-tified, in other words, in a context that is quite removed from that in which historians normally work […] They could neither invoke reproducible gen-eral laws, nor were they really equipped to appreciate the intentions of the accused […] This is where the major contradiction of this trial lies, since at the very beginning of the proceedings the historians were prevented from giv-ing the only expert information that they could really be regarded as compe-tent to render”,

se fossero stati messi in condizione di analizzare le azioni del segre-

tario generale della Gironda in base a tutti gli archivi e le testimonian-ze disponibili, inserendole nel contesto dell’occupazione. Da qui la domanda alla quale Rousso risponde negativamente: “is it possible for a historian to construct a historical context without first being ques-tioned or without an a priori definition of the objective he is pursu-ing?”: evidentemente no, dato che “a ‘context in and of itself’ does not exist, outside of a field of questions”66.

Mi sembrano evidenti le fondamentali differenze con il caso italia-no. Innanzitutto la natura dei processi: qui non si trattava di richiama-re al centro dell’attenzione la storia della Repubblica Sociale, ma di giudicare invece della partecipazione di militari tedeschi ad azioni di sterminio al di fuori di ogni regola militare (ed anzi, caso mai proprio

64 Ivi, 286. 65 Sei storici accademici e tre scrittori e giornalisti hanno accettato di testimoniare;

Rousso un accademico tedesco e uno scrittore francese si sono rifiutati: vedi ivi, nota 5 a 292.

66 Ivi, 288-290.

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il fatto che solo soldati stranieri possano ormai essere chiamati in giu-dizio dalla magistratura militare, a causa delle varie amnistie che hanno coperto eventuali complicità italiane, può avere giocato l’effetto oppo-sto, di lasciare troppo in secondo piano il tema delle corresponsabilità del fascismo repubblicano). Inoltre i processi hanno avuto sì una va-lenza simbolica, ma questa è consistita più che altro nella giustizia resa dopo decenni di insabbiamento, e quindi nel fatto stesso di celebrarli, e non in una svolta nella memoria nazionale relativa al collaborazioni-smo. Di conseguenza le regole processuali sono state rigorose e i pro-cessi si sono doverosamente concentrati sulla questione fondamentale, la responsabilità penale dei singoli imputati in merito agli episodi per i quali si teneva il dibattimento.

È evidente anche quanto diverso in Italia sia stato il compito dei consulenti storici, chiamati a rendere delle perizie scritte, rispondendo a domande scritte, loro poste dal rappresentante dell’accusa; ed anche quando le domande chiamavano in causa un contesto più generale, questo riguardava comunque le modalità d’azione delle cosiddette azioni antipartigiane, ad esempio il “sistema di ordini” nelle quali que-ste si inserivano, ed esulavano da giudizi generali (e generici) sull’oc-cupazione tedesca e sul collaborazionismo italiano, essendo finalizzate a inquadrare e comprendere le singole responsabilità nel corso delle azioni. Ne consegue che ai consulenti storici è stata offerta la possibili-tà non solo di accedere alle normali fonti archivistiche a loro disposi-zione, ma anche agli altri atti dell’indagine giudiziaria (che poi questi siano stati più o meno rilevanti per la scrittura delle loro perizie è altro discorso, che esula dalle obiezioni poste da Rousso). Insomma, nel corso del mio lavoro di consulente non ho mai dovuto rinunziare alle regole deontologiche del mestiere, pur sforzandomi continuamente di “stare alle domande” postemi, evitando di esulare e di fare riferimento ad ipotesi o interpretazioni più generali che sarebbero state di grande interesse per me, ma estranee alle finalità del procedimento e all’incarico scritto affidatomi.

Per questo non trovo condivisibili le argomentazioni esposte da Isabella Rosoni in un recente saggio67. Nell’ambito di una generale sfi-ducia nel sistema penale – per lei la verità nel processo penale “asso-miglia più a una verità politica che ad una verità storica. È una verità che serve a giustificare politicamente il gesto violento del punire”68 – Rosoni liquida senza incertezze il paradigma di Norimberga, come esempio di utilizzazione della storia per arrivare a un verdetto politico,

67 I. Rosoni, Lo storico alla sbarra. La perizia storica nel processo penale, in Giorna-

le di storia costituzionale, n. 18, II semestre 2009, 181-190. 68 Ivi, 182.

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ed arriva poi al caso italiano, prendendo ad esempio il procedimento su Sant’Anna di Stazzema e sostenendo che i giudici avrebbero accet-tato “le massime d’esperienza formulate dai consulenti” senza sotto-porle al vaglio critico. A dimostrazione porta il rifiuto del tribunale di audire Paolo Paoletti, “molto popolare negli ambienti della Destra”, su richiesta della difesa, in quanto considerato “revisionista”.

In realtà le massime d’esperienza sono circoscritte affermazioni sul contesto storico che riecheggiano in molti punti della sentenza, che poi però se ne distacca nel momento decisivo, quando si tratta di spiegare la natura dell’azione su Sant’Anna: nel paragrafo 8.2 la sentenza si di-scosta dalla mia tesi, che i tedeschi siano saliti a Sant’Anna in cerca di partigiani e, per l’equiparazione fra partigiani e civili (che scatta in tut-te le stragi che portano all’eliminazione di un’intera comunità) l’operazione antipartigiana abbia implicato l’eliminazione, program-mata preventivamente, di tutti coloro trovati all’interno della zona iso-lata. La sentenza sostiene invece, a mio avviso contraddittoriamente (ma ciò dimostra appunto che vi è sempre una dialettica fra lo storico perito e i giudici che leggono e utilizzano la sua perizia), che i tedeschi sapessero che a Sant’Anna non vi erano partigiani:

“In definitiva non si può affermare, come sembra voler fare il consulente [il sottoscritto, ndr], che quelle poche presenze [di partigiani, ndr] potessero giustificare la consapevolezza dei tedeschi circa la presenza partigiana a Sant’Anna […] Pertanto, sulla base degli elementi esaminati e delle osserva-zioni appena svolte, deve ritenersi che l’azione delle SS fosse proprio finaliz-zata al massacro della popolazione e alla distruzione di un intero paese. Suo unico scopo era quello di fare terra bruciata intorno ai partigiani e scoraggia-re, oltre agli aiuti da parte della popolazione di altri centri, anche il loro ritor-no in quella zona”69.

E ancora, il modo con il quale la sentenza ha affrontato il tema, de-

licato e complesso, dei rapporti fra popolazione e partigiani – “l’inerme popolazione doveva spesso difendersi, prima di tutto, pro-prio dai saccheggi partigiani” – e sembra addirittura fare proprie le an-tiche polemiche sul volantino partigiano – “se davvero ci fosse stato un legame rilevante, sicuramente la popolazione non sarebbe stata abban-donata [corsivo mio] al suo destino nonostante il manifesto con cui,

69 Sentenza del Tribunale militare di La Spezia, in data 22 giugno 2005, depositata il 20 settembre 2005, nel procedimento penale a carico di 1.Sommer G., 2.Schöneberg A., 3.Bruss W., 4.Schendel H., 5.Sonntag L. H., 6.Rauch G., 7.Goring L., 8.Concina A., 9.Gropler K., 10.Richter H., par. 8.2, “I motivi dell’eccidio”, 113-114. La sentenza è consultabile in formato PDF presso il sito http://www.santannadistazzema.org/-immagini/Sentenza_Stazzema.pdf (consultato il 20 agosto 2012).

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solo pochi giorni prima, era stata invitata a rimanere nelle case”70 – certo non appartengono né alla relazione del consulente, né alla sua interpretazione storica. Insomma, non mi sembra che la sentenza rap-presenti “verità storica più che verità processuale”, cioè verità politica, e che “la verità storica [sia] unica, tutelata dalla legge e obbligatoria-mente ricordata”71. Al di là dell’utilizzazione di alcuni elementi delle consulenze scritte (non solo la mia), la verità raggiunta dal tribunale ha riguardato la colpevolezza dei singoli imputati, ed i consulenti storici mantengono la loro autonomia di giudizio e di critica al dispositivo della sentenza stessa, anche quando questa si rifaccia, in alcune parti, a quanto da loro scritto72.

Detto ciò, ritengo che nei giudizi di Rousso e Rosoni vi sia un ele-mento condivisibile: la preoccupazione per la così detta “tribunalizza-zione della storia”, cioè, per citare il commento di Alberto Melloni, che

“salire in tribunale in nome di ciò che è proprio dello studioso – partire dal presente per assaporare criticamente la distanza che ci separa dal passato, guardare alle vicende degli individui non per incriminarne alcuni e assolvere gli altri, ma, al contrario, per cogliere quei ‘processi’ di cui sono parte non ne-cessariamente consapevole – signific[hi] perdere irrimediabilmente il passato e la sua limitata conoscibilità”73.

Nell’istituzionalizzazione del giudizio storico è indubbiamente im-

plicito il pericolo che l’accertamento in giudizio diventi la nuova fonte di verità storica: se una determinata narrazione si trova in una senten-za, essa è di per sé autentica (un pericolo, questo, che è stato corso proprio per Sant’Anna, nelle polemiche relative al film di Spike Lee Miracolo a Sant’Anna, quando da molte parti, critiche del film, si è fat-to richiamo ad una verità storica definitivamente accertata dal tribuna-

70 Ivi, par. 12, “La qualificazione giuridica del fatto”, 177. 71 I. Rosoni, Lo storico alla sbarra, cit., 189. 72 Quanto al rifiuto di audire Paoletti, esso era motivato non dal fatto che

quest’ultimo fosse un “revisionista”, ma dal fatto che non aveva in realtà da portare elementi nuovi sui dati di fatto già acquisiti nel dibattimento, e che la sua interpreta-zione generale – trattarsi non di azione preordinata al massacro, ma di rastrellamento evolutosi in massacro a causa di un presunto scontro armato avvenuto a Sant’Anna nella prima fase dell’operazione – era stata efficacemente confutata dai dati portati dall’accusa (non solo con la mia consulenza, ma con un insieme vario e concorde di testimonianze e altre consulenze). La sua audizione poteva così essere non senza ra-gione considerata dal tribunale una tattica dilazionatrice, non utile in alcun modo al dibattimento.

73 O. Marquard - A. Melloni, La storia che giudica, cit., 27.

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le di La Spezia)74: possibile che non ci si renda conto di quali pericoli si corrono in direzione dell’imposizione di una versione “ufficiale” del-la storia? Il che avviene ogni volta che ci si affidi ad agenzie che si con-siderano depositarie della verità storica – ed in realtà diffondono solo una determinata versione, più o meno finalizzata ai propri interessi – o ai tribunali, il cui compito non è definire una volta per tutte una verità sul passato, ma accertare l’innocenza o la colpevolezza degli individui imputati di un qualsiasi reato.

Ma si tratta di un problema più generale – la trasmissione di più o meno deformate conoscenze storiche sottratte al controllo e alla verifi-ca degli storici si professione e diffuse attraverso i media – cinema, te-levisione, stampa, internet – da attori che modellano la memoria collet-tiva – cioè la percezione diffusa degli eventi del passato – dopo la crisi delle agenzie che tradizionalmente erano depositarie di tale importante compito: la scuola, e quindi le istituzioni statali, innanzitutto, ma an-che i partiti e le loro ideologie politiche. E trovo che non se ne possa dedurre l’impossibilità sul piano generale di una fattiva collaborazione nel processo fra storici e giudici – sia pure con tutte le cautele e le di-stinzioni avanzate in questo saggio – in singoli casi (che andrebbero analizzati e valutati volta per volta).

74 Rimando, per la trattazione di questo punto, al capitolo finale del mio

Sant’Anna di Stazzema, cit.

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III Risarcire i pregiudizi della storia

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III Risarcire i pregiudizi della storia

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IL RISARCIMENTO DEI PERSEGUITATI POLITICI E RAZZIALI:

L’ESPERIENZA ITALIANA

Giuseppe Speciale

SOMMARIO: 1. I fatti. – 2. Le norme – 3. La giurisprudenza.

1. I fatti Inizio con alcune osservazioni che servono a chiarire i termini del-

la questione che intendo affrontare. L’ordinamento interviene con norme riparatrici quando reputa che sia opportuno provvedere con forme di risarcimento o indennizzo a riparare danni (solo patrimoniali o anche non patrimoniali) che ritiene siano stati prodotti ingiustamen-te e abbiano leso beni meritevoli di tutela. Il termine “risarcimento”, nel linguaggio comune e anche nel gergo giuridico, evoca la possibilità di compensare, quindi di ridurre se non addirittura di annullare, gli effetti negativi prodotti da un danno ingiusto, attraverso una forma satisfattiva di ristoro, consistente o nell’integrale ripristino della situa-zione antecedente al fatto lesivo, o nel risarcimento commisurato sulla differenza tra il valore del bene integro e il valore che residua in capo al bene dopo l’evento lesivo. Non lacrimosa, e bassa, retorica, o com-passionevole storiografia, al contrario, la ferma consapevolezza che le vicende a cui mi riferisco sono elementi costitutivi della nostra identi-tà di italiani ed europei, impone particolare cautela nell’uso dei ter-mini risarcimento o indennizzo in relazione agli avvenimenti a cui in-tendo riferirmi. Altrimenti rischieremmo di considerare in qualche modo fungibili i beni giuridici che in modo assoluto e irreparabile fu-rono violati in questi eventi.

In taluni casi, per alcuni eventi e per alcune tipologie di danno, l’ordinamento prevede norme e interventi riparatori specifici. Sempre, con le norme riparatrici, generali e speciali, l’ordinamento esprime un giudizio, un giudizio di valore, sulle cause che hanno condotto alla produzione dei danni che si vogliono risarcire o indennizzare e sele-ziona quali danni risarcire o indennizzare e quali lasciare scoperti. Nelle specie che qui ci interessano l’ordinamento esprime un giudizio anche sul piano storico, ritenendo per esempio che debbano essere risarcite o indennizzate alcune vittime e non altre, per alcuni tipi di danni e non per altri, per alcune cause e non per altre.

Concludendo, ancora, può accadere che l’ordinamento che dispo-

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ne le forme riparatorie sia lo stesso, in tutto e per tutto, ordinamento sotto il cui imperium si è prodotto il danno, ma può accadere anche che sia un ordinamento, in tutto o in parte, distinto da quello.

Queste considerazioni conducono direttamente alle due esperien-ze che ho scelto di raccontare.

La prima riguarda le forme di indennizzo previste dall’ordinamento italiano repubblicano costituzionale, con la legge 96 del 1955, più volte modificata, in favore dei cittadini italiani che abbiano subito dal regime italiano monarchico-fascista, in ragione della loro appartenenza alla razza ebraica, “atti di violenza o sevizie in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o parami-litari fasciste, o di emissari del partito fascista”: si tratta, sia pure con le precisazioni che più avanti avremo modo di illustrare, di un intervento normativo specifico con cui il nuovo stato repubblicano costituzionale, sulla base di un giudizio storico politico e sul fondamento dei valori di uguaglianza e di libertà affermati nella costituzione, dispone forme in-dennitarie per gli italiani ebrei che hanno subito atti di violenza o sevizie sotto il regime fascista. Se vogliamo riprendere l’osservazione poc’anzi accennata, in questo caso alla continuità, sia pure solo formale, tra lo sta-to (monarchico fascista) sotto il cui imperium si sono verificati gli eventi e lo stato (repubblicano costituzionale) che per quegli stessi eventi ha di-sposto gli interventi indennitari, corrisponde una radicale e sostanziale discontinuità della forma di governo e del fondamento costituzionale. Anzi è proprio su questa radicale e sostanziale discontinuità, esemplar-mente rinvenibile già nei primi 3 articoli della nostra costituzione, che si fonda il giudizio storico-politico e giuridico che anima l’intervento normativo indennitario.

La seconda esperienza riguarda le disposizioni in favore delle vit-time delle marocchinate, in favore, cioè, delle vittime delle violenze sessuali perpetrate dalle truppe francomarocchine al comando del ge-nerale Juin nel maggio del 1944 su alcune migliaia di donne, uomini, bambini e anziani, laici e religiosi, del basso Lazio (3.000 la stima dei francesi, poco meno di 10.000 i casi documentati ufficialmente dai medici condotti, dai carabinieri e dalle altre autorità civili e militari italiane, più di 20.000 i casi stimati dalle associazioni, 60.000 le richie-ste di indennizzo avanzate negli anni). Incidentalmente può aggiun-gersi che altri casi di violenza furono registrati ad opera delle stesse truppe nei mesi precedenti e successivi, in Sicilia e nel Meridione, nell’alto Lazio e in Toscana, e che i vertici militari francesi erano ben consapevoli di quanto stava accadendo se potevano in quegli stessi mesi rassicurare De Gaulle sul fatto che, nel caso di impiego di quelle stesse truppe in territorio francese, avrebbero garantito che non si ve-rificassero episodi simili a quelli accaduti in Italia. Né può tacersi a

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tale proposito che sia i francesi, per la pugnalata alle spalle e per i mo-tivi che dirò più avanti, sia i marocchini, per le operazioni militari ita-liane in Nord Africa, nutrivano motivi di rancore contro gli italiani. Preferisco indicare le unità protagoniste della nostra vicenda con il nome di truppe francomarocchine per sottolineare la responsabilità dei vertici militari francesi che pure dovevano avere il controllo degli oltre 80.000 soldati nordafricani solitamente inquadrati in reparti mi-sti in cui erano presenti soldati europei.

Del resto, da subito, è lo stesso comando militare francese in Italia che riconosce gli atti criminali commessi dalle truppe francomaroc-chine e stipula una convenzione con il governo italiano per pagare alle vittime a titolo di indennizzo una somma compresa tra un minimo di 30 mila e un massimo di 150 mila lire per vittima. Così il governo ita-liano anticipa fino all’agosto del 1947 circa 88 milioni di lire confi-dando che il governo francese avrebbe successivamente provveduto alla copertura finanziaria. Il governo francese, invece, intendeva assi-curare la copertura compensando i danni non da cause di guerra arre-cati in Francia dal Corpo italiano di occupazione. Nel Trattato di pace del 22 marzo 1947 l’accordo è confermato, ma il Ministero del tesoro italiano interrompe i pagamenti (pari ad altri 150 milioni di lire) e rin-via la soluzione dei problemi inerenti ai risarcimenti per le marocchi-nate a quella più ampia e generale dei danni di guerra.

Lo stato repubblicano costituzionale ritiene che le vittime delle marocchinate non debbano fruire di un trattamento risarcitorio in-dennitario specifico e che le loro vicende debbano invece ricadere sot-to l’ordinario regime previsto per chi ha subito danni di guerra. Ini-ziative parlamentari quali quelle dell’aprile del 1952 non sortiscono alcun effetto. Ci si preoccupa anche di non suscitare reazioni da parte dei francesi, alleati adesso nel nuovo assetto politico internazionale, dai quali, da parte italiana, si temono rivendicazioni, tra l’altro, ri-guardo ai bombardamenti effettuati dalla nostra aviazione sulle popo-lazioni civili francesi in fuga nella valle della Loira nel 1940.

Nel caso delle marocchinate, il rapporto di identità o di continuità tra l’ordinamento nel cui ambito debbono iscriversi gli eventi per i quali si vogliono attuare interventi riparatori e l’ordinamento che in-tende provvedere si pone in modo del tutto diverso rispetto al caso degli italiani perseguitati per il fatto di essere ebrei: in un primo mo-mento lo stato francese si dichiara subito pronto a provvedere agli in-dennizzi; poi, ragioni di politica internazionale e rapporti di forza fini-scono col prevalere e lo stato italiano repubblicano costituzionale per motivi che è senz’altro utile indagare, ma la ricerca dei quali qui non interessa, decide di trattare le marocchinate secondo quanto il diritto comune prevede per i danni di guerra.

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Bene, le due esperienze su cui ho concentrato l’attenzione sono senz’altro diverse e sembrano accomunate solo dalla mortificazione della dignità e dal dolore inflitti alle vittime.

2. Le norme L’analisi della giurisprudenza degli ultimi cinquant’anni suggeri-

sce allo storico del diritto qualche riflessione. Innanzitutto deve porsi in evidenza un dato che accomuna le due

esperienze: il testo normativo – nel caso degli italiani ebrei la legge Terracini del 1955, nel caso delle marocchinate la legislazione pensio-nistica di guerra – risulta assolutamente inidoneo a disciplinare le fat-tispecie che qui interessano.

Inidoneo per tali fattispecie è in generale lo strumento della pen-sione di guerra perché ispirato all’antico principio che subordina la concessione del beneficio al perdurare di un’infermità o di una muti-lazione che abbia comunque inciso sulla capacità lavorativa del dan-neggiato, in sostanza il beneficio pensionistico bellico copre solo dan-ni patrimoniali misurabili sulla diminuita capacità lavorativa. Inoltre, almeno per il caso degli italiani ebrei si dovette attendere l’art. 5 della legge 3 aprile 1961 n° 284 perché si definisse l’autorità giudiziaria competente a risolvere il contenzioso, considerato che non era chiara la natura dell’assegno di benemerenza e che, pur a volerne riconosce-re la natura pensionistica, per la particolare causa che lo caratterizza e per la mancanza di un sottostante rapporto di impiego o di servizio, si sarebbe comunque dovuto considerare tra le pensioni straordinarie per le quali solo un provvedimento di legge ad hoc può attribuire la competenza alla Corte dei Conti.

La legge Terracini, poi, fu nella sostanza ideata e realizzata per ri-sarcire i perseguitati politici e solo con un emendamento dell’ultima ora fu estesa ai cittadini italiani perseguitati in ragione della loro ap-partenenza alla razza ebraica. L’inserimento di questo emendamento nell’ultimo comma dell’articolo 1 della legge 96 del 1955 non basta a risolvere tutti i dubbi interpretativi che un testo pensato solo per i perseguitati politici pone con riguardo all’estensione temporale e spa-ziale degli eventi coperti dalla legge. La sola ipotesi che può riferirsi anche agli italiani perseguitati perché ebrei è quella descritta sub let-tera c) che riguarda chi ha subito “atti di violenza o sevizie in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o apparte-nenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del par-tito fascista”. Per il resto il comma contenente l’emendamento non riesce ad adattare il testo concepito per i perseguitati politici alle fatti-

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specie che tipicamente caratterizzano le persecuzioni razziali. Solo per esemplificare, anche per ragioni di tempo, rimangono esclusi dal be-neficio dell’indennizzo i dipendenti pubblici e privati licenziati ex le-ge, gli espulsi dalle scuole, i radiati dagli ordini professionali, gli esclu-si dalle attività commerciali, etc. L’intervento novellatore del 1967, confermato nel 1980, considera il requisito della riduzione della capa-cità lavorativa alternativo a quello del raggiunto limite dell’età pensio-nabile. Ma restano tutti gli altri limiti previsti dall’originario dettato.

La legislazione pensionistica di guerra, mi riferisco ora all’espe-rienza delle marocchinate, prevede la concessione del beneficio solo se residui una malattia in capo alla vittima, e fino a quando tale malat-tia permanga e comporti una riduzione della capacità lavorativa e, quindi, del reddito, rimanendo esclusa la possibilità di un indennizzo per danni non patrimoniali. Già nel 1952 la deputata Maria Maddale-na Rossi aveva lamentato l’insufficienza dello strumento legislativo ri-volgendosi in un animato dibattito parlamentare al sottosegretario di Stato per il Tesoro Tessitori:

“La pensione durerà fino alla scomparsa dell’infermità fisica contratta, dopo di che queste sventurate non avranno più diritto a nulla … Ora, se l’onorevole sottosegretario ritiene che le sevizie inflitte a queste donne dalle truppe marocchine siano in qualche modo paragonabili a qualsiasi altra sven-tura che la guerra può arrecare, per grande che essa sia (…), se crede che questa sventura sia paragonabile a qualsiasi altro lutto o dolore di cui la guer-ra sia causa, mostra di non avere un briciolo di sensibilità, mostra di non sa-persi nemmeno soffermare un momento a considerare il fatto che il caso e non altro ha voluto che queste donne e non quelle della sua famiglia, quelle che gli sono più care, avessero a subire questa dura sorte. Voi pensate che la vita di queste donne sarebbe colpita nella stessa misura se esse avessero per-duto uno dei loro cari in guerra? No, non è la stessa cosa. Noi conosciamo le madri che hanno perso i figli, le mogli che hanno perso i mariti: noi le amia-mo, le onoriamo, manifestiamo loro la nostra intera solidarietà, sì che esse trovano qualche volta una sorta di conforto nel sapere che il loro lutto è con-diviso, che la memoria dei loro cari scomparsi è sacra a milioni di cittadini. Ma queste donne no! Per queste non c’è conforto possibile. Si devono na-scondere, come se si sentissero infette anche moralmente! Se per le vecchie l’insulto subito sa quasi di martirio, per le giovani significa qualche cosa di peggio della morte: significa avere di fronte a sé un lungo periodo di vita, una vita non ancora vissuta, ma buia e fredda, in cui non c’è più alcuno spiraglio, alcuna speranza, alcuna luce, perduta la possibilità di avere una famiglia, di avere dei figli; perfino il lavoro è precluso a queste giovani, e la povertà nel loro caso è ancora più tragica, perché il benessere economico, il lavoro po-trebbero almeno aiutarle in parte ad uscire da questo terribile isolamento in

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cui le ha gettate la loro disgrazia. Le cure, il lavoro, l’occupazione potrebbero essere fonte di una ricompensa morale, oltreché materiale, per la loro vita distrutta. Nessuna pensione di guerra potrà mai risarcire né vecchie né gio-vani per ciò che hanno subito, nessun indennizzo potrà mai ricompensarle di ciò che hanno perduto” (Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Discussio-ni, Seduta notturna del lunedì 7 aprile 1952, Interrogazione di Maria Madda-lena Rossi, 37013-37019).

Alla Deputata Rossi il sottosegretario Tessitori replica burocrati-

camente snocciolando i dati normativi, legge 548 del 1950 e legge 10 del 1951, e dichiarando che l’amministrazione centrale ha già trattato i 9492 casi più gravi su 17368 domande.

In sintesi fin qui si è cercato di disegnare il quadro normativo che il legislatore repubblicano ha disposto per risarcire due gruppi che per ragioni diverse hanno subito gravi danni, uno dalla persecuzione razziale dell’Italia fascista, l’altro dalle ferine violenze delle truppe francomarocchine. I due gruppi sono numericamente poco significa-tivi: tutti gli italiani ebrei erano nel 1938 circa 37.000, le vittime delle marocchinate, secondo le stime più pessimiste meno di 60.000.

Per il primo gruppo si provvede ad hoc, ma affrettatamente e con una tecnica normativa assolutamente inadeguata; per il secondo gruppo si rinvia al diritto comune. È forse il caso di sottolineare e ri-badire che per il primo gruppo si provvede non con un provvedimen-to specifico, esclusivamente destinato agli italiani ebrei, ma estenden-do a questi con un confuso e malcongegnato rinvio dell’ultim’ora, la disciplina voluta per i perseguitati politici, che di certo godevano di una più forte ed estesa rappresentanza politica in parlamento. Alle marocchinate, dopo il tentativo dell’UDI e dell’onorevole Maddalena Rossi, il ceto politico resta sordo e quegli avvenimenti restano confi-nati nell’oblio collettivo.

In entrambi i provvedimenti, comunque, si subordina la conces-sione del beneficio all’esistenza di una riduzione della capacità lavora-tiva (per gli italiani ebrei almeno sino all’intervento novellatore del 1967 che porrà in alternativa il requisito della riduzione della capacità lavorativa con quello del raggiunto limite dell’età pensionabile). Per gli italiani ebrei si prevede l’indennizzo anche quando la riduzione della capacità lavorativa sia ascrivibile all’aver subito un atto di vio-lenza anche solo morale.

3. La giurisprudenza

Il contributo della giurisprudenza della Corte dei Conti e della

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Corte Costituzionale può per comodità di conoscenza disporsi, con tutti i limiti dell’arbitrarietà della scelta, lungo una linea in cui pos-siamo distinguere tre segmenti corrispondenti a tre fasi:

una prima fase, dalla fine del conflitto mondiale alla fine degli an-ni Ottanta;

una seconda fase, dalla fine degli anni Ottanta alla fine del secolo; una terza fase, dal 2000 ad oggi. La prima fase è caratterizzata da confusione (fino al 1961 non si

conosce l’autorità giudiziaria competente a risolvere il contenzioso per la legge Terracini) e dallo sforzo di elaborare criteri per procedere all’assegnazione del beneficio. Per quanto riguarda le forme risarcito-rie destinate agli italiani ebrei, la giurisprudenza, in generale, distin-gue i benefici previsti dalla legge in due tipi: quelli che devono conce-dersi agli ebrei in quanto tali, per il solo fatto, cioè di essere stati de-stinatari della legislazione razziale, da quelli la cui concessione è su-bordinata alla prova di un danno che concretamente e personalmente è stato subito dagli ebrei in quanto destinatari dei provvedimenti legi-slativi antisemiti loro rivolti e a causa dell’azione dei soggetti indicati dalla legge.

Al primo tipo appartengono, per esempio, i benefici che la legge riconosce agli ebrei che hanno ottenuto la “qualifica di ex perseguita-to razziale” (un esempio per tutti: agli ebrei in possesso della qualifica di ex perseguitato si estendono i benefici combattentistici di cui alla legge n. 336/1970).

A tal proposito è opportuno ricordare che l’art. 1 della Legge n. 17 del 16 gennaio 1978:

“Ai fini dell’applicazione della legge 8 luglio 1971, numero 541, la qualifica di ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebrai-ca che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti ammini-strativi anche della Repubblica Sociale Italiana intesi ad attuare discrimina-zioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di ‘razza ebraica’ sui certificati anagrafici”

riconosce espressamente che il pregiudizio morale può provarsi anche solo con l’avvenuta annotazione di “razza ebraica” sui certificati ana-grafici.

Al secondo tipo appartengono i benefici previsti da disposizioni che subordinano la concessione del beneficio all’aver subito, in con-seguenza dell’appartenenza alla razza ebraica, danni esplicitamente indicati dalla legge. È proprio il caso della legge n. 96 del 10 marzo 1955.

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La giurisprudenza ha fermato, tra l’altro, la sua attenzione sul “pregiudizio fisico o economico o morale” della legge 17/1978 e sugli “atti di violenza o sevizie” della legge 96/1955 e ha affermato la volon-tà del legislatore di distinguere tra pregiudizio morale e danno morale. Così, nella vita quotidiana degli ebrei italiani colpiti dalla legislazione razziale la giurisprudenza ha ritenuto di distinguere gli atti che inte-grano il pregiudizio da quelli che integrano il danno. Gli atti che inte-grano il mero pregiudizio sarebbero così quelli che consistono nelle generiche (sic) limitazioni e restrizioni imposte dall’applicazione della legislazione razziale1. Sugli atti che integrano il danno fermeremo l’attenzione più avanti.

Per la vicenda delle violenze operate dalle truppe francomaroc-chine questi decenni sono scanditi da una ferma applicazione dei cri-teri solitamente adottati nella giurisprudenza in materia pensionistica: si subordina e limita la concessione del beneficio alla sussistenza di un’infermità, escludendo la possibilità che il beneficio spetti per il danno non patrimoniale derivato dalla violazione di uno o più diritti fondamentali della persona (integrità fisica, libertà sessuale, onore etc).

Tra il finire degli anni Ottanta e i primi anni Novanta (seconda fa-se), per l’ormai consolidata e diffusa condivisione dei valori costitu-zionali, matura la consapevolezza che la legislazione risarcitoria degli anni Cinquanta e Sessanta sia inficiata da una forte contraddizione perché l’intento dichiaratamente risarcitorio imposto dalla gravità del-le violazioni di diritti e interessi fondamentali per la Costituzione fini-sce per essere bloccato o fortemente arginato dai limiti che derivano dal considerare tale legislazione come una species del più ampio genus pensionistico (legato tradizionalmente al requisito della riduzione del-la capacità lavorativa e al carattere meramente patrimoniale del danno subito). Naturalmente resta una apprezzabile differenza tra le due normative che si riferiscono alle due vicende che qui interessano. Per

1 Una sentenza per tutte: Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003 (pres. De Rose, rel. Mastropasqua) Ministero economia c. Pavia, pubblicata, al pari di tutte le altre sentenze della Corte che qui si citano, nel sito della Corte dei conti www.corteconti.it. Impressiona sfavorevolmente come inte-re parti della sentenza siano pedissequamente copiate da una sentenza di poco prece-dente – Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 11 novembre 2002 (Pres. Simonetti, rel. Arganelli) –: più che di un meditato e critico processo di valuta-zione, la sentenza sembra il frutto di uno sbrigativo, pigro, quasi distratto, consenso accordato al ‘precedente’. Inquieta il ripetersi degli stessi errori ortografici (“pregressi periodo”) e degli stessi moduli conclusivi (“nulla più di tanto”): forse frutto di un pessimo – non solo e non tanto dal punto di vista tecnico – uso del computer? Sull’applicazione della legge 96/1955 ai perseguitati razziali cfr. G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino, 2007, 142-169.

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le forme risarcitorie speciali rivolte ai perseguitati politici e razziali l’originario carattere “elargitorio”, legato ad una forma extra ordinem di riconoscimento solidale e collettivo, è denunciato già nello stesso nome che si attribuisce al beneficio: “assegno di benemerenza”. Per le vittime delle violenze delle truppe francomarocchine, invece, le norme applicabili sono quelle ordinarie ora rinvenibili nel nuovo testo unico in materia di pensioni di guerra ordinato nel D.P.R. 915 del 23 di-cembre 1978 il cui art. 1 statuisce: “Pensione, assegno o indennità di guerra. La pensione, assegno o indennità di guerra previsti dal presen-te testo unico costituiscono atto risarcitorio, di doveroso riconoscimen-to e di solidarietà da parte dello stato nei confronti di coloro che, a causa della guerra, abbiamo subito menomazioni nell’integrità fisica o la perdita di un congiunto”.

I tempi sono ormai maturi per una prima rilettura-riscrittura delle norme: la Corte Costituzionale con la sentenza n. 561 del 18 dicembre 1987 dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 10, primo comma e 22 della legge 10 agosto 1950, n. 648; 9, primo comma, e 11, della legge 18 marzo 1968, n. 313; 1, 8, primo comma, 11 e 83 del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, nella parte in cui non prevedono un tratta-mento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non pa-trimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occa-sione di fatti bellici.

Il giudice a quo chiede alla Corte di verificare la legittimità costi-tuzionale, alla luce degli articoli 2 e 3 della Cost., delle norme che prevedono che il trattamento pensionistico di guerra sia limitato ai “soli casi di menomazioni fisiche comportanti una riduzione della ca-pacità lavorativa, e che sia perciò escluso il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occa-sione di fatti bellici”. Il giudice chiede alla Corte di valutare se “la vio-lenza carnale in quanto tale – a prescindere cioè dalle lesioni o infer-mità che ne siano eventualmente conseguite – debba o meno dare ti-tolo al risarcimento dei danni non patrimoniali”.

La Corte ribadisce che la violenza carnale costituisce, “nell’or-dinamento giuridico penale, la più grave violazione del fondamentale diritto alla libertà sessuale”, dato che la sessualità è “uno degli essen-ziali modi di espressione della persona umana” e che “il diritto di di-sporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire”.

Riprendendo la precedente sentenza n. 88 del 1979 la Corte con-ferma, in ordine al risarcimento, che, considerate le dirette tutele co-stituzionali del diritto alla salute e della libertà sessuale, l’inden-

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nizzabilità non può riferirsi alle sole “conseguenze della violazione in-cidenti sull’attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere an-che gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione sog-gettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e con-seguenza”.

La Corte estende alla libertà sessuale quanto già deciso con la sen-tenza n. 184 del 1986, che ricorda espressamente per affermare che la lesione del bene giuridico della libertà sessuale, in quanto valore per-sonale garantito dalla Costituzione,

“dà di per sé titolo – anche quando consegua non ad un reato, ma ad un me-ro illecito civile (art. 2043 c.c.) – al risarcimento del danno derivante dalla menomazione dell’integrità psico-fisica in cui essa si concreta (c.d. danno biologico), senza che occorra al riguardo alcuna prova; e che tale danno è au-tonomo, ed anzi costituisce un prius rispetto alle eventuali ulteriori conse-guenze del fatto illecito, e cioè sia rispetto al danno patrimoniale in senso stretto, incidente sulla capacità di produrre reddito lavorativo, sia rispetto al danno morale subiettivo (o non patrimoniale), risarcibile nel vigente ordina-mento solo in quanto derivi da reato”.

“La violenza carnale – continua la Corte – comporta invero, di per sé, la lesione di fondamentali valori di libertà e dignità della persona, e può inoltre dar luogo a pregiudizi alla vita di relazione. Tali lesioni hanno autonomo ri-lievo sia rispetto alle sofferenze ed ai perturbamenti psichici che la violenza carnale naturalmente comporta, sia rispetto agli eventuali danni patrimoniali a questa conseguenti: e la loro riparazione è doverosa, in quanto i suddetti valori sono, appunto, oggetto di diretta protezione costituzionale”.

Nella terza fase, la giurisprudenza, essenzialmente quella della

Corte dei conti, dopo il significativo intervento della Corte costituzio-nale, cerca di mettere ordine nella articolata e complessa materia fis-sando alcuni punti fermi. Tuttavia non sembra consolidarsi, soprattut-to con riferimento alle decisioni sul risarcimento agli italiani ebrei, un orientamento nettamente prevalente e alcune pronunce sembrano ri-mettere in discussione risultati faticosamente raggiunti.

All’attenzione del giudice della Corte dei conti chiamato a decide-re circa la concessione dell’assegno di benemerenza si pone un inter-rogativo che può ben considerarsi la questione principale e prelimina-re rispetto alla decisione sulla concessione: per l’ordinamento la con-cessione del beneficio risarcitorio spetta sic et simpliciter a chi dimo-stri di essere ebreo e di essere stato destinatario della legislazione raz-ziale del 1938? Oppure la concessione del beneficio è subordinata alla prova, a carico dell’istante, che da quella legislazione subì concreta-mente e personalmente un danno? Meglio: la soggezione alle norme

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razziali integra di per sé la violenza a cui l’ordinamento subordina la concessione del beneficio? Oppure è necessario che l’istante provi che dalla concreta applicazione nei propri confronti della legislazione raz-ziale sia derivato un atto di violenza? La ricca e variegata giurispru-denza del magistrato contabile è chiamata a dare risposte a questi in-terrogativi che costituiscono in qualche modo la questione centrale e preliminare da risolvere per decidere circa la concessione dell’as-segno. Nel 2003, preso atto della complessità della questione, dell’on-divago orientamento assunto dalla Corte, della necessità di chiarire i termini della questione per dare una soluzione coerente e omogenea ai tanti casi che continuano a essere sottoposti al giudizio della Corte, delle pronunce di illegittimità costituzionale di alcune norme conte-nute nella legislazione pensionistica di guerra, le sezioni riunite della Corte dei conti sono chiamate a risolvere la “questione di massima” che è stata loro rimessa in occasione di un processo dalla I Sezione giurisdizionale centrale d’Appello. I giudici della sezione ritengono che, rispetto al problema principale che è oggetto del giudizio, cioè rispetto alla questione che concerne la spettanza stessa del beneficio, sia preliminarmente necessario decidere

“se le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbano considerarsi mera soggezione alla legislazione razziale o, all’opposto, possano in astratto ritenersi idonee a concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori invio-labili”2.

Sotto il profilo più strettamente attinente all’iter processuale, al

rapporto con il giudice che ha rimesso la questione di massima e all’ambito entro il quale contenere la decisione della questione stessa, in primo luogo le Sezioni riunite riassumono in termini lucidi la que-stione di massima, se la generalizzata e pedissequa applicazione delle leggi razziali sia sufficiente a produrre in capo ai destinatari delle stes-se quelle violenze e quelle sevizie alla cui sussistenza la legge concessi-va subordina il diritto al godimento dell’assegno di benemerenza, op-pure se sia necessario, perché possa affermarsi il diritto al godimento dell’assegno, provare caso per caso la concreta ricorrenza di un quid pluris rispetto alla “semplice produzione degli effetti generalmente derivanti a danno di tutti i cittadini di religione ebraica”.

2 La sentenza sulla questione di massima n. 8, resa dalle sezioni riunite il 25 mar-

zo 2003, Pres. Castiglione, est. Di Salvo, Padoa c. Ministero dell’economia, è pubblica-ta anche in G. Speciale, Giudici e razza, cit., 261-281.

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Per quanto riguarda il merito della questione il giudice rileva che il contrasto interpretativo che è chiamato a risolvere – cioè se la mera applicazione delle leggi razziali sia sufficiente ad integrare gli estremi delle violenze e delle sevizie a cui i testi legislativi subordinano la con-cessione dei benefici – nasce dal fatto che in nessuno dei testi legisla-tivi che prevedono benefici per i perseguitati politici e razziali ricorre un riferimento esplicito alle leggi razziali. Da qui la necessità che sia l’interprete a stabilire se la mera applicazione della legislazione razzia-le in capo ad un determinato soggetto possa integrare la previsione della lettera c) dell’art. 1 della legge 96/1955 (“atti di violenza o sevi-zie subiti in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze del-lo Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista”), previsione che descrive la sola fatti-specie, tra quelle previste dall’ordinamento, in astratto applicabile ai destinatari delle leggi razziali in quanto tali. Nel merito il giudice ag-giunge che il fatto stesso che la legislazione preveda una “riparazione” solo per quegli atti di violenza o sevizie di provenienza pubblica – escludendo che possa applicarsi la norma in presenza di atti di violen-za o sevizie di provenienza privata – evidenzia di per sé “l’ontologica intensità della vis persecutoria” a cui si riferisce la legge.

Sull’interpretazione da attribuire alla locuzione “atti di violenza” riportata nella lettera c) dell’art. 1 della legge 96/1955, il giudice, sen-za smentire la sentenza relativa alla questione di massima n. 9 del 1998 (caso Cesana), ritiene che “alla luce della peculiarità del quesito attualmente posto dal giudice remittente, e in base alla problematica evoluzione della cospicua e più recente giurisprudenza di questa Cor-te nella subiecta materia” siano opportune ulteriori considerazioni.

Il giudice richiama una sentenza del 1998 per affermare che nella previsione degli “atti di violenza” di cui alla lettera c) del citato art. 1 devono comprendersi tutti “gli atti che abbiano concretamente de-terminato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori co-stituzionalmente protetti”, quindi anche gli atti che hanno prodotto violenza morale non essendo giuridicamente possibile “isolare, nel-l’ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello dell’integrità fisica), trascurando tutti gli altri che completano il diritto della perso-nalità”.

Nella richiamata sentenza del 1998 il giudice aveva sottolineato la funzione solidaristica e l’intento risarcitorio della normativa, ma, pro-prio sulla considerazione che per l’art. 1 della l. 96/1955 gli atti di vio-lenza dovessero provenire da persone, aveva escluso che la mera sog-gezione alla legislazione razziale potesse integrare la fattispecie della violenza e aveva concluso che l’assegno di benemerenza doveva essere concesso ai soggetti che,

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“per la loro condizione razziale, nell’arco di tempo dal 7 luglio 1938 all’8 set-tembre 1943, avessero subito atti persecutori di violenza, dai quali siano de-rivati, direttamente o indirettamente, effetti lesivi del diritto della persona in uno qualunque dei suoi valori costituzionalmente protetti, allorché gli atti di violenza stessi siano stati posti in essere da persone alle dipendenze dello Sta-to o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o da emisssari del partito fascista, ovvero siano stati da essi ordinati o promossi o quando gli stessi – avendone avuta la possibilità – non li abbiano impediti”3.

Ma il giudice del 2003 sulla questione di massima non si ferma

qui. Considerato che nella giurisprudenza si sono avute “contrapposte interpretazioni applicative”, egli ritiene di dovere “formulare ulteriori precisazioni al riguardo”. Ed è proprio in queste “ulteriori precisazio-ni” che il giudice risolve definitivamente la questione di massima che gli è stata rimessa. Egli utilizza una inventio argomentativo-retorica che si rivela di straordinaria efficacia perché gli consente di andare ol-tre la linea giurisprudenziale tracciata dai giudici del 1998 senza però smentirne i principi. Ho l’impressione – e fra poco la mia impressione potrà trovare un fondamento in ciò che il giudice sostiene – che il no-stro giudice avverta il rischio che il principio – che pure è certamente incontrovertibile da un punto di vista logico-giuridico e che egli stesso condivide e sostiene – secondo cui la mera soggezione alla legislazione razziale non integra la fattispecie della violenza alla cui sussistenza la norma subordina la concessione del beneficio può finire, assunto sic et simpliciter, per dar luogo nella prassi a “contrapposte interpreta-zioni applicative” che si traducano in uno stravolgimento sostanziale dell’intento risarcitorio e della funzione solidaristica della normativa in questione. E voglio precisare che la mia impressione può trovare una sua giustificazione proprio in ciò che il giudice afferma. Il giudice lucidamente vuole sostenere una interpretazione che, fatto salvo il principio sopra enunciato, non possa prestarsi ad una applicazione che finisca con l’eludere lo scopo solidaristico e risarcitorio proprio della normativa. Così egli muove il suo ragionamento ribadendo per l’ennesima volta che non si ha diritto al beneficio per il solo fatto di appartenere alla minoranza destinataria delle norme razziali, cioè per il solo fatto di essersi trovati in una situazione soggettiva passiva di svantaggio potenziale. E a questo proposito, a scanso di equivoci, pre-cisa che non si consegue il diritto al beneficio per il solo fatto di essere

3 Corte dei Conti, sez. riunite, 1 aprile 1998 (Pres. f.f. De Mita, est. Zuppa, p.m.

Barrella), Cesana c. P.G. e Ministero del Tesoro, in Rivista della Corte dei Conti, 1998, 51.3, II, 115.

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destinatari delle norme razziali, non perché il legislatore sia “neutrale” o “indifferente” “rispetto all’applicazione ‘legittima’ e incruenta delle leggi razziali quanto piuttosto” per il “carattere di astrattezza tipico delle norme giuridiche, che rappresentano volontà preliminare all’azione e non volontà concreta riferita ad un’azione particolare o al comportamento di uno specifico soggetto”. In questo quadro il giudi-ce introduce la sua inventio retorico-argomentativa, tanto semplice nella sua architettura logica, quanto efficace nella sostanza. Egli con una intelligente ed efficace finzione logica individua nell’unitaria vi-cenda umana dei destinatari delle norme razziali distinti segmenti au-tonomi: egli inventa un “algoritmo” che consente in qualche modo di “spezzettare” la storia, le storie, degli ebrei colpiti dalle leggi razziali. Egli afferma che riguardo all’ebreo, naturale destinatario delle norme razziali, deve distinguersi uno stato di soggezione potenziale dallo sta-to di soggezione concreta e attuale. A partire dal momento in cui le norme razziali sono poste in essere, l’ebreo, naturale destinatario di tali norme, si trova in una sorta di “situazione passiva di attesa” per-ché potenzialmente nei suoi confronti può trovare puntuale applica-zione la previsione normativa posta in essere in via generale ed astrat-ta. Nei casi in cui, poi, la previsione normativa, posta in essere in via generale e astratta, trovi concreta, individuale e attuale applicazione nei confronti di un determinato soggetto, in capo a tale soggetto la si-tuazione passiva di attesa, lo stato di soggezione potenziale, cessa e si tramuta in uno stato di attuale e concreta soggezione.

Adottando questo algoritmo, questo schema argomentativo, il giudice raggiunge almeno tre risultati importanti.

Primo risultato: il giudice “salva” la sentenza relativa alla questio-ne di massima n° 9 del 1998 affermando nella sostanza che la “mera soggezione” coincide con la “situazione passiva di attesa”:

“La ‘soggezione’ (vieppiù se ‘mera’), quale categoria giuridica, costituisce in-fatti solo quella situazione nella quale vengono a trovarsi soggetti nei con-fronti dei quali l’esercizio del potere ha l’astratta possibilità di produrre mo-dificazioni mediante atti giuridici, e non lo stato di concreta modificazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive determinato dal venire in essere dell’attività del titolare della situazione di vantaggio. Solo in questo contesto e in questa accezione può ritenersi estranea alla richiamata previsione legisla-tiva del 1955 la ‘mera soggezione alle leggi razziali’ cui si sono riferite queste Sezioni riunite nella sentenza citata, da intendersi dunque, nella fattispecie, esclusivamente quale situazione passiva di attesa nella quale vennero a tro-varsi gli appartenenti alla minoranza ebraica dopo che nell’ordinamento del-lo Stato italiano era stata introdotta una normativa discriminatrice in danno della comunità cui essi appartenevano e prima della concreta e individuale

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applicazione di tali disposizioni nei loro confronti. Sotto tale aspetto va con-fermato che il legislatore ha sostanzialmente sancito l’impossibilità di ricono-scimento automatico del beneficio economico di che trattasi in virtù della sola dimostrazione dell’appartenenza del richiedente l’assegno di beneme-renza alla minoranza ebraica collettivamente destinataria di norme generali e astratte di tipo persecutorio”.

Secondo risultato: il giudice esclude che il beneficio economico

previsto dalla legislazione risarcitoria debba riconoscersi automatica-mente ai destinatari delle norme razziali in quanto tali, cioè per il solo fatto di essere ebrei, e per il solo fatto di essersi trovati in una situa-zione di soggezione potenziale. E in tal senso egli richiama la decisio-ne della Corte costituzionale del 17 luglio 1998 n° 268, con la quale la Corte ritenne

“costituzionalmente illegittimo l’art. 8 della legge 10 marzo 1955 n° 96 nella parte in cui non prevede che, della Commissione istituita per esaminare le domande per conseguire i benefici che la legge stessa prevede in favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali, faccia parte anche un rappresentan-te dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, avendo la Corte posto a base di detta declaratoria di incostituzionalità considerazioni in ordine alla com-plessità delle valutazioni richieste dalla legge, ‘che implicano anche l’apprezzamento di situazioni in base alla diretta conoscenza ed esperienza delle vicende che hanno dato luogo agli atti persecutori’, così implicitamente escludendo un aprioristico automatismo valutativo”.

Terzo risultato: lo schema logico adottato, come si è detto, con-

sente al giudice di concludere che, nel momento della concreta appli-cazione delle norme razziali, lo stato di potenziale attesa passiva cessa e si tramuta in uno stato di concreta e attuale soggezione.

Ma tale conclusione, pur fondata sul piano della logica formale, non è sufficiente da sola a risolvere il punto cruciale, cruciale anche sul piano sostanziale, della questione che al giudice è stata rimessa, se, cioè, le “misure discriminatorie quali concretamente poste in essere da ‘persone’ in applicazione delle cc.dd. ‘leggi razziali’” siano idonee “a costituire – anche qualora prive di surplus vessatorio o persecuto-rio – ‘atti di violenza’ ricadenti nella previsione normativa di cui alla lettera c) del menzionato art. 1 della legge n. 96 del 1955”.

Per valutare tale idoneità sul piano sostanziale il giudice assume un criterio comparativo. La comparazione – egli afferma – deve avere riguardo, da un lato, agli scopi che la legge razziale si prefigge e ai be-ni che essa tutela, dall’altro, ai diritti e ai valori individuali che per l’attuazione della legge razziale vengono sacrificati. Il giudice, proprio

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perché applica una legislazione risarcitoria, promulgata sotto il vigore dei principi costituzionali – e che proprio perché risarcitoria non può essere neutrale rispetto ai contenuti della legislazione razziale –, misu-ra scopi e diritti alla luce della carta costituzionale. Così il giudice chiude il cerchio. Dal giudizio comparativo tra lo scopo perseguito dalle leggi razziali e i diritti da esse sacrificati emerge una tale spro-porzione che rende superflua, a parere del giudice, qualsiasi ulteriore indagine sul quid pluris persecutorio. Per il giudice, la violenza, alla cui sussistenza il legislatore del 1955 subordina la concessione del be-neficio, è proprio in questa sproporzione, è proprio nella lacerante e abietta offesa ai valori fondamentali dell’individuo:

“La vis publica esercitata con la normativa antiebraica si esplicò attraverso una serie di atti coercitivi esteriori programmaticamente e dichiaratamente diretti a realizzare un ‘bene politico’ precisamente e univocamente individua-to: la ‘difesa della razza italiana, in quanto pura e appartenente alla millenaria civiltà degli ariani’, come evincesi dalle rubriche, dai titoli e dal contenuto delle ‘leggi razziali’, fra le quali, non esaustivamente, ma specificamente per quanto qui particolarmente rileva, cfr. r.d.l. 5 settembre 1938 n° 1390, recan-te ‘provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista’; r.d.l. 15 no-vembre 1938 n° 1779, recante ‘integrazione e coordinamento in testo unico delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana’; r.d.l. 17 novembre 1938 n° 1728, recante ‘provvedimenti per la difesa della razza italiana’). Tale finalità, di per sé considerata, comporta, all’esito del giudizio di comparazione fra il contenuto del valore pubblico difeso e l’inviolabilità dei valori individuali e collettivi corrispettivamente sacrificati, che ciascuno dei singoli provvedimenti amministrativi di esecuzione della normativa di-scriminatrice – ancorché adottato senza alcun quid pluris persecutorio da parte dei soggetti incaricati di tale esecuzione nell’esplicazione di funzioni pubbliche e politiche – va considerato come un’offesa per i valori fondamen-tali dell’individuo talmente lacerante e così abiettamente motivata da non ri-chiedere alcun altro attributo per ricadere a pieno titolo nell’accezione di ‘at-to di violenza’ presa in considerazione dal legislatore del 1955”.

Ma l’estensore della sentenza, il giudice Silvano Di Salvo, si spinge

oltre. In chiusura della sua serrata, convincente ed esaustiva motiva-zione, quando già ha risolto definitivamente la questione nei suoi ter-mini sostanziali, rifacendosi correttamente ai valori costituzionali e ai topoi propri del ragionamento giuridico, egli getta lo sguardo anche oltre la Carta costituzionale e alza, finalmente, un grido liberatorio in cui si appella anche al diritto naturale:

“Invero le concrete e individuali misure di attuazione della normativa antie-

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braica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) non solo realizzarono in via immediata la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti (all’istruzione, alla vita di relazione, all’esercizio delle professioni, al matrimonio, ecc.) nel senso deteriore già posto in luce dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza 17 luglio 1998, n° 268, ma racchiudevano in loro lo scopo, mediato e tuttavia immanente ed essenziale, di annientare completamente e sotto ogni possibile profilo della vita civile e di relazione – in quanto costituente ‘minaccia per la purezza e l’integrità del-la razza italiana’ – l’ancor più presupposto diritto naturale dei cittadini ap-partenenti alla minoranza ebraica alla loro identità socio-culturale, preesi-stente alla stessa formazione dello Stato ed essenziale per qualsiasi comunità civile”.

Nell’economia del discorso del giudice, proprio perché posto alla

fine del ragionamento, e quando già sono state risolte ampiamente tutte le questioni poste dal caso, il richiamo al diritto naturale all’identità socio-culturale ha proprio un significato conclusivo: il giu-dice chiude definitivamente l’analisi del caso4.

Nonostante le pronunce della Corte Costituzionale e la soluzione della questione di massima da parte delle sezioni riunite della Corte dei Conti, non si approda ad un orientamento definitivo della giuri-sprudenza. Con riguardo ai perseguitati razziali succede non di rado che decisioni del magistrato contabile ignorino l’approdo raggiunto dalla questione di massima del 2003. Così pure avviene per le vittime delle violenze delle truppe francomarocchine. Le sentenze della Corte dei Conti successive alla pronuncia della Corte Costituzionale 561 del 1987 non sono di segno univoco: alcune ritengono che dopo la sen-tenza del giudice delle leggi sia sempre ammissibile l’azione per otte-nere la pensione di guerra per danno non patrimoniale; altre ritengo-no che l’effetto integrativo della sentenza interpretativa di carattere additivo non possa estendere la propria efficacia ai rapporti esauriti (per sentenza passata in giudicato o perché sia decorso il termine di prescrizione o di decadenza), bensì solo a quelli pendenti. Le sezioni

4 Io penso che il richiamo della Corte dei Conti del 2003 al diritto naturale segni

il valore, e il limite del valore, dell’interpretazione dei giudici che applicarono la legi-slazione razziale. All’interno del quadro legislativo e ordinamentale dell’Italia fascista in cui esercitarono la giurisdizione i giudici non gridarono – se lo avessero fatto sa-rebbero stati degli eroi, ma non avrebbero potuto concretamente incidere sull’ap-plicazione delle norme – l’abiezione di quelle disposizioni, pur legittimamente poste; le applicarono, invece, perché legittimamente poste, limitando, per quanto possibile, la deformazione e lo stravolgimento che esse producevano sulle forme, sui dogmi, sulle esperienze su cui sino a quel momento si era fondato l’ordine giuridico. E le ap-plicarono proprio rifacendosi a quelle forme, a quei dogmi, a quelle esperienze.

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riunite della Corte dei Conti con la sentenza Q.M. n. 8/2000 accedo-no a questo secondo orientamento e stabiliscono che la sentenza della Corte Costituzionale n. 561 del 1987 “non opera sui rapporti esauriti, intendendosi per tali, sul piano processuale, quelli definiti con senten-za passata in giudicato o con atto amministrativo divenuto inoppu-gnabile, e, sul piano sostanziale, quelli rispetto ai quali sia decorso il termine di prescrizione o decadenza” e che “l’effetto integrativo della predetta sentenza non crea un nuovo diritto e non è quindi idoneo a riaprire i termini per esercitare il diritto ove già siano scaduti i relativi termini”.

Se una parte della giurisprudenza della Corte dei Conti si limita all’applicazione rigida di questo principio e nega il risarcimento per i danni non patrimoniali quando sia già scaduto il termine di prescri-zione o sia intervenuta la decadenza, la parte più attenta, invece, non si acquieta alla Q.M. n. 8/2000 e, ritenendo che la funzione della de-cadenza e della prescrizione sia solo assicurare che avvenga tempesti-vamente l’accertamento del fatto bellico e, solo nel caso di asseriti danni fisici, delle lesioni e della loro dipendenza da fatto bellico5, re-puta che in presenza di un precedente indennizzo per i danni patri-moniali, proprio sul fondamento dell’accertamento tempestivo dei fat-ti, non avrebbe alcun senso respingere la nuova istanza intesa ad otte-nere il risarcimento dei danni non patrimoniali invocando il decorso del termine della prescrizione o l’intervenuta decadenza. In alcune pronunce la Corte si spinge, anche contraddicendo il presupposto giuridico da cui muove e che si è appena riassunto, a evidenziare che in qualche modo nel racconto delle “tristi vicende”, patite dalle ricor-renti e risultanti nella prima istanza rivolta al risarcimento del danno patrimoniale, può implicitamente leggersi la domanda relativa anche ai danni non patrimoniali che, pertanto, può considerarsi tempesti-vamente presentata. Deve darsi atto anche di sentenze che, ligie alla lettera della Q.M. n. 8/2000, rifiutano la tesi secondo cui la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali possa essere implicitamen-te contenuta in quella per i danni patrimoniali e, comunque, sosten-gono che il provvedimento concessivo della pensione per i soli danni patrimoniali, anche in presenza di una domanda esplicitamente rivolta anche al risarcimento di quelli non patrimoniali, debba considerarsi come un provvedimento negativo implicito, passibile di divenire defi-

5 Cfr. anche la sentenza della Sezione giurisdizionale per il Lazio n. 493 del 16

marzo 2005.

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nitivo ed inoppugnabile, in ragione del silenzio opposto allo stesso da parte dell’appellante6.

“o l’originaria domanda (…) può, per la sua genericità, intendersi riferita, (…) oltre che al danno fisico anche al danno morale ed allora deve ritenersi che il provvedimento emesso dall’amministrazione e giammai impugnato, nel concedere trattamento pensionistico per il solo danno fisico, abbia implici-tamente negato l’indennizzabilità del danno morale, con la conseguenza di divenire inoppugnabile oltre che per il danno fisico anche per il danno mora-le, rendendo il rapporto esaurito; o l’originaria domanda(…) deve intendersi riferita ai soli danni fisici ed allora la successiva domanda, che per la prima volta contemplava i danni morali, domanda nuova incorsa, in quanto tale, nella decadenze poste dagli artt. 99 e 127 del D.P.R. 915 del 1978”.

Al di là delle buone intenzioni dei giudici resta il fatto che il con-

cetto di revisione o di rivalutazione non può intendersi nel suo signifi-cato etimologico isolato, come possibilità di riconsiderare indefinita-mente la stessa situazione, al di fuori del contesto normativo in cui deve collocarsi: se così avvenisse, una volta riconosciuto il diritto a trattamento pensionistico, il rapporto pensionistico, dovrebbe sempre e per sempre considerarsi pendente e suscettibile di riforma. Tale in-terpretazione finirebbe col render vano il principio secondo il quale le pronunce di illegittimità costituzionale esplicano i loro effetti limita-tamente ai rapporti pendenti o insorti successivamente alla data della dichiarazione di illegittimità, perché tutti i rapporti pensionistici, al-meno quelli che hanno avuto una prima definizione, risulterebbero sempre aperti.

Un ulteriore passo è compiuto dalle sezioni riunite della magistra-tura contabile con la sentenza che risolve la Q.M. n. 7 del 2006 e fissa due importanti principi: 1) “che le domande di indennizzo sui danni non patrimoniali da violenza carnale per fatto bellico, presentate a se-guito della sentenza della Corte Costituzionale n. 561/1987, possono essere considerate domande di rivalutazione, ai sensi e per gli effetti

6 Cfr. anche Corte dei Conti, sez. Prima centrale d’Appello, sent. 1 marzo 2007,

n. 39 e Corte dei Conti, sez. Prima centrale d’Appello, sent. 8 giugno 2005, n. 192.

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dell’art. 24 del D.P.R. n. 915/19787, sempre che sia stato già adottato

7 “Quando l’interessato ritenga che sia sopravvenuto aggravamento delle infermi-tà per le quali sia stata liquidata pensione od assegno temporaneo od indennità per una volta tanto,o per le quali sia stato emesso provvedimento negativo perché le in-fermità non erano valutabili ai fini della classificazione, può chiedere in ogni tempo, la revisione dei relativi provvedimenti.

Se eseguiti gli opportuni accertamenti sanitari, siano state respinte per la stessa infermità tre domande consecutive per non riscontrato aggravamento, le ulteriori istanze sono ammesse purché ciascuna di esse sia prodotta trascorso un decennio dall’anno di presentazione dell’ultima domanda di revisione definita con provvedi-mento negativo.

Si prescinde dal termine decennale di cui al precedente comma nei casi di parti-colare urgenza dovuta alla gravità delle condizioni di salute dell’interessato da com-provarsi con certificato rilasciato a cura dell’ufficiale sanitario o degli enti ospedalieri previsti dalla legge 12 febbraio 1968, n. 132.

La domanda deve essere presentata alla commissione medica di cui al successivo art. 105, competente per territorio, corredata da un certificato di conseguito tratta-mento pensionistico ovvero dall’estratto del verbale della precedente visita collegiale o, in mancanza, da una dichiarazione, resa e sottoscritta dall’interessato sotto la pro-pria responsabilità, da cui risulti la invalidità per la quale il richiedente fu già sottopo-sto ad accertamenti sanitari, nell’ipotesi di cui al secondo comma del presente artico-lo, l’interessato deve dichiarare, nella domanda, che sono trascorsi dieci anni da quel-lo in cui fu presentata l’istanza in precedenza respinta, ovvero, ove ricorrano i casi di urgenza, deve allegare alla istanza stessa la certificazione richiesta nel comma prece-dente.

Si considera che sia sopravvenuto aggravamento anche quando la commissione medica di cui al successivo art. 105 dichiari che l’invalidità, sebbene non aggravata, sia tuttavia da ascrivere ad una categoria superiore a quella a cui venne prima asse-gnata Qualora la rivalutazione proposta superi di almeno due categorie la precedente assegnazione, il giudizio deve essere confermato dalla commissione medica superiore di cui al successivo art. 106.. In caso di aggravamento o di rivalutazione, la nuova pensione o il nuovo assegno decorre dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda. Nel caso di decesso dell’invalido prima della data da cui dovrebbe decorrere il nuovo trattamento, la pensione o l’assegno sono liquidati a decorrere dal giorno di presentazione della domanda di revisione.

La corresponsione della nuova pensione o del nuovo assegno viene effettuata con deduzione delle quote di pensione o di assegno temporaneo eventualmente già riscos-se dall’interessato per periodi successivi alle date di decorrenza previste nel preceden-te comma.

Qualora all’invalido spetti, per aggravamento o rivalutazione, pensione o assegno temporaneo per periodi in cui sia stata già liquidata indennità per una volta tanto, l’importo della indennità stessa, limitatamente a detti periodi, viene recuperato me-diante trattenuta sui ratei arretrati. Ove residuino altre somme a debito dell’in-teressato, il recupero è effettuato sui ratei successivi, secondo le norme contemplate nell’art. 2 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180.

Nel caso di una nuova liquidazione di indennità per una volta tanto, quest’ultima è attribuita in aggiunta a quella precedentemente fruita e con effetto dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda, fermo restando il limite massimo di cui al terzo comma dell’art. 11 del presente testo unico.

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un provvedimento concessivo di pensione per le menomazioni fisiche conseguenti al medesimo fatto bellico”; 2) “che la domanda posta a base del predetto provvedimento positivo, pur se limitata ai soli danni fisici della subita violenza, non poteva non riguardare anche i danni non patrimoniali connessi alla violenza stessa, ed occorre un’altra do-manda per poter conseguire un trattamento pensionistico per tali ul-timi danni, ai sensi del precitato art. 24, proponibile in ogni tempo, ma i cui effetti pensionistici decorrono dal primo giorno del mese successivo alla sua presentazione”. Il giudice opportunamente fonda la propria riflessione anche sul dato storico per soddisfare “l’esigenza di una adeguata interpretazione delle originarie domande pensionisti-che”. Le “reali intenzioni delle interessate” vanno individuate anche “in rapporto alla situazione storico-ambientale dell’epoca”. Il “dibat-tito parlamentare che si è avuto sul problema della risarcibilità delle lesioni da violenza carnale da fatto bellico negli anni immediatamente successivi al verificarsi degli episodi di violenza” rivela un clima socio-culturale che

“non ha certo favorito una più chiara esternazione delle pretese risarcitorie da parte delle vittime, addirittura ‘restie a parlarne’, in relazione anche all’atteggiamento delle istituzioni presenti sul territorio, volto a scoraggiare iniziative in proposito, nell’idea che la diffusione – o anche la sola circolazio-ne – di notizie attinenti alla subita violenza carnale potesse finanche arrecare ‘offesa alla moralità pubblica’ (v. atti Camera, resoconto seduta notturna del 7 aprile 1952). Assodato, dunque, che le domande originarie di pensioni per le lesioni da violenza carnale si riferivano sia alle lesioni fisiche che a quelle morali, i provvedimenti che hanno esplicitamente disposto sulle prime, liqui-dando per esse un trattamento pensionistico, si sono atteggiati a ‘provvedi-menti negativi impliciti’ per le seconde, sotto il solo profilo della classifica, in quanto i profili della constatazione e della dipendenza delle predette lesioni morali sono rimasti assorbiti in quelli analoghi delle compensate lesioni fisi-che, positivamente valutate con i provvedimenti stessi”.

Desidero concludere questo rapido e arbitrario excursus nella giu-

risprudenza del magistrato contabile ricordando una sentenza emessa

Se la indennità per una volta tanto sia stata corrisposta per invalidità diversa da

quella il cui aggravamento o la cui rivalutazione dà titolo al conferimento della pen-sione od assegno temporaneo, la liquidazione è effettuata secondo le modalità stabili-te dall’art. 11, quinto comma, del presente testo unico.

Per le denunce di aggravamento di infermità o lesioni delle quali in occasione delle precedenti visite pensionistiche non sia stato riscontrato alcun esito si applicano le disposizioni di cui ai successivi articolo 99 e 127”.

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il 20 novembre 2009 dalla Prima sezione centrale d’appello, Pres. Da-vid, rel. Avoli, P.R. c. Ministero economia.

I fatti: alla Sig.ra R. nel 1953 è concesso e liquidato dall’Inten-denza di finanza territorialmente competente l’indennizzo previsto per le vittime delle violenze carnali in periodo bellico; nel 1970 il Mi-nistero del Tesoro respinge per “assenza di infermità e postumi riferi-bili alla pregressa violenza carnale” l’istanza inoltrata nel 1967 dalla signora per conseguire trattamento pensionistico di guerra. Il 22 no-vembre 2004 la signora inoltra una nuova richiesta per conseguire la pensione di guerra per i danni non patrimoniali conseguenti alla subi-ta violenza. Il 29 dicembre 2004 anche quest’ultima istanza è respinta e la sentenza a quo conferma tale provvedimento.

Il giudice dichiara di attenersi a quanto deciso nella Q.M. n. 8/2000 e decide per confermare la sentenza di primo grado contraria agli interessi della signora. Il giudice riassume così il proprio ragiona-mento:

“innanzi tutto appare incontroverso il fatto della violenza carnale, così come chiaro ed evidente è il sentimento di rispetto che deve essere manifestato an-che in questa sede giudiziaria nei riguardi della Sig.ra R. Il Giudice deve però attenersi alle norme ed ai principi dell’ordinamento giuridico. Orbene in ma-teria pensionistica di guerra si deve far riferimento proprio agli articoli 99 e 127 del D.P.R. n. 915. La domanda prodotta nel 1967 riguardava il danno fisico e come tale ha avuto seguito in via istruttoria e poi decisoria. Nessuna impugnazione è stata portata al provvedimento negativo del 1970 né sulla negativa del danno fisico, né sulla ipotetica mancata pronuncia relativa al danno non patrimoniale. Quest’ultima circostanza costituisce un indizio con-vincente ad escludere che la domanda originaria fosse anche solo implicita-mente correlata con il danno non patrimoniale. La sentenza della Corte costi-tuzionale è dunque intervenuta incontrando nel caso di specie un rapporto oramai del tutto consolidato dal punto di vista amministrativo e senza pen-denza di giudizi. Ciò con la conseguente inammissibilità per intempestività della successiva istanza del 2004, specificamente correlata con il danno non patrimoniale, attivata a seguito della richiamata sentenza della Corte Costitu-zionale. L’istanza va qualificata di nuovo contenuto ed autonoma rispetto alla precedente del 1967. Né ha luogo a stabilirsi un improprio collegamento rivalutativo, stante fra l’altro la diversa natura dei danni posti a fondamento della pretesa risarcitoria”.

Nel caso di specie, la richiesta del 1967 era stata respinta nel 1970

per “assenza di infermità e postumi riferibili alla pregressa violenza car-nale” e non era stato proposto alcun gravame. Nel caso della signora non avrebbero potuto trovare applicazione neppure i principi fondan-

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ti la Q.M. n. 6/2007, mancando nel caso di specie il provvedimento positivo o, in alternativa, un provvedimento negativo per non ascrivi-bilità a categoria, richiesto come presupposto necessario per attribuire la veste di domanda di rivalutazione alle istanze concernenti i danni non patrimoniali successive alla sentenza della Corte Costituzionale. Ma uno sforzo del giudice avrebbe forse potuto individuare nell’indennizzo accordato alla signora nel 1953 il necessario presup-posto (finalizzato ad assicurare l’esigenza del tempestivo accertamento e della dipendenza da causa bellica dell’allegata violenza carnale) per considerare l’istanza presentata nel 2004 non una nuova domanda, bensì un atto sollecitatorio di un provvedimento già richiesto.

Il giudice significativamente conclude:

“Non si può non riconoscere che la soluzione prospettata in prime cure e confermata in questa sede rischia di incontrare comprensibili difficoltà ad essere percepita come portatrice di valori di giustizia sostanziale, soprattutto da quanti hanno subito per fatto bellico la gravissima lesione della propria dignità personale. Questa eventuale discrasia fra diritto e giustizia poteva (e può tuttora) essere risolta solo dal legislatore, con una apposita auspicabile disciplina che dia concreta attuazione, anche a distanza di anni, ai ‘valori’ espressi dalla Corte Costituzionale. Non può però la discrasia stessa essere risolta dal Giudice, come detto chiamato a pronunciarsi unicamente in base alle norme vigenti ed ai principi consolidati, quali quelli sull’efficacia delle sentenze ablative della Corte Costituzionale”.

In questa rapida rassegna della giurisprudenza abbiamo incontra-

to giudici chiamati ad applicare norme risarcitorie costruite in modo impreciso affrettato e incompleto, spesso in contrasto con principi co-stituzionali, scandite da complicate e macchinose procedure per la concessione dei benefici commisurati a mutevoli tabelle categoriali pensionistiche. Abbiamo conosciuto giudici sordi all’irrompere dei principi costituzionali nell’ordinamento e altri, sensibili, invocare ad-dirittura il diritto naturale. E ci siamo imbattuti in un legislatore di-stratto, pigro, disinteressato, senza memoria.

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RIPARARE E RICORDARE LA LEGISLAZIONE ANTIEBRAICA LA REVIVISCENZA DELL’ISTITUTO

DELLA DISCRIMINAZIONE (1944-1950)

Silvia Falconieri

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I tempi del diritto riparatore. – 3. Dall’“appartenente alla razza ebraica” alla “persona colpita dalle leggi razziali”. – 4. La minimizzazione degli effetti dei decreti del 1938.

1. Premessa All’indomani della caduta del regime fascista, mentre nei territori

della Repubblica Sociale Italiana Mussolini aveva provveduto alla promulgazione di nuove e più severe disposizioni nei confronti dei cit-tadini e degli stranieri di “razza ebraica”1, nel sud dell’Italia il governo Badoglio si preoccupava della stesura dei decreti abrogativi delle leggi razziali del 1938. Il primo di questi, il r.d.l. 25/1944, aboliva tutti i de-creti, le leggi e le singole disposizioni che richiedevano l’“accerta-mento o la menzione di razza” e reintegrava “nel pieno godimento dei diritti civili e politici” i cittadini italiani che l’articolo 8 dei Provvedi-menti per la difesa della razza italiana aveva definito come “apparte-nenti alla razza ebraica”2. Il secondo, il r.d.l. 26/44, che sarebbe entra-to in vigore soltanto nell’ottobre del 1944, a conflitto finito, si preoc-cupava della reintegrazione nei diritti patrimoniali dei “cittadini italia-ni e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebrai-ca”3.

1 Sulle leggi razziali nella Repubblica Sociale Italiana, si rinvia in particolare a G. Mayda, Ebrei sotto Salò. La persecuzione antisemita 1943-1945, Milano, 1978, passim; R. Ropa, L’antisemitismo nella Repubblica Sociale Italiana. Repertorio delle fonti con-servate all’Archivio Centrale dello Stato, Bologna, 2000, passim; Giovanni Preziosi e la questione della razza in Italia: atti del convegno di studi (a cura di L. Parente - F. Genti-le - R.M. Grillo), Soveria Mannelli (CZ), 2005, passim.

2 R.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25, Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica.

3 La stesura del r.d.l. 26/44 era avvenuta contestualmente a quella del r.d.l. 25/1944, ma per ragioni di carattere pratico e di opportunismo politico fu pubblicato ed entrò in vigore soltanto a conflitto finito, con il d.l.l. 5 ottobre 1944, n. 252, Pubbli-cazione ed entrata in vigore del regio decreto legge 20 gennaio, n. 26, contenente disposi-zioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già di-chiarati o considerati di razza ebraica. Sarebbe seguita un’intensa fase di produzione

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Abrogato nella sua integralità l’apparato normativo razziale e can-cellata dall’ordinamento giuridico italiano la condizione di “apparte-nente alla razza ebraica”, occorreva rimediare concretamente agli ef-fetti prodotti dalle “odiose disposizioni”4 che nel quinquennio prece-dente avevano radicalmente modificato la situazione giuridica, econo-mica, politica e sociale degli ebrei italiani. La reintegrazione presup-poneva una scrupolosa operazione di “ricostruzione” delle “situazioni giuridiche ed economiche” che i decreti del 1938 avevano stravolto:

“Il legislatore attuale non si è soltanto prefisso di ristabilire il principio dell’assoluta eguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, ma ha tentato anche di offrire il modo onde ricostruire, nei limiti del possibile, la situazione giuridica ed economica di coloro che furono materialmente danneggiati dalla cessata legislazione razziale”5.

In altri termini, si trattava di definire il soggetto destinatario delle

nuove disposizioni che i primi decreti designavano in maniera estre-mamente variegata: dalla formulazione di “cittadino già dichiarato di razza ebraica o considerato di razza ebraica” si passava a quelle di “cit-tadino colpito dalle leggi razziali” e di “persona colpita dalle leggi raz-ziali”. Quest’ultima sarebbe stata acquisita, in via definitiva, dal d.l.l. 222/19456 e poi riprodotta nei testi normativi successivi7.

Questa delicata opera di ricostruzione e ridefinizione si intrecciava con un più vasto processo di rilettura dell’impianto normativo razziale e di valutazione degli effetti che la legislazione del 1938 aveva prodot-to nella pratica quotidiana del diritto. Parallelamente, si avviava una legislativa: tra il 1944 e il 1947 ben 22 leggi furono emanate nell’intento di provvedere alla reintegrazione della popolazione italiana di origini ebraiche. Sull’elaborazione e la pubblicazione dei decreti e sul processo di reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfa-scista, in particolare, M. Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987), Roma, 1988, passim; G. D’Amico, Quando l’eccezione diventa norma. La reinte-grazione degli ebrei nell’Italia post-fascista, Torino, 2006, passim; Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica (a cura di G. D’Amico - G. Schwarz), Firenze, 2001, 83-112; G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Tori-no, 1998, passim; Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale (a cura di M. Sarfatti), Firenze, 1998, passim.

4 S. Caporaso, Integrazione nei diritti patrimoniali degli Ebrei – Alienazione di beni immobili – Ebrei discriminati, in Archivio di ricerche giuridiche, n. 4-5-6, 1947, 329-332, qui 329.

5 Ibid. 6 D.l.l. 12 aprile 1945, n. 222, Norme complementari integrative e di attuazione del

decreto legislativo luogotenenziale 20 gennaio 1944, n. 26, per la reintegrazione dei cit-tadini italiani e stranieri colpiti dalle disposizioni razziali nei loro diritti patrimoniali.

7 Ad esempio, r.d.l. 10 agosto 1944, n. 195, Rettifica di atti di stato civile relativi a persone colpite dalle leggi razziali.

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prima riflessione sull’operato della cultura giuridica che, durante il re-gime fascista, aveva interpretato, commentato e applicato le leggi raz-ziali, cercando di cogliere il ruolo svolto dai giuristi nell’edificazione del “nuovo ordine giuridico fascista” del quale la diversità di razza ave-va costituito un principio fondamentale8. L’attuazione dei decreti di reintegrazione si inscriveva così a pieno titolo nel percorso di rielabo-razione ed edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazio-ne italiana del dopoguerra9.

In quale maniera si incrociarono i percorsi della reintegrazione e del ricordo nella pratica giurisprudenziale degli anni immediatamente successivi alla caduta del fascismo e alla fine del secondo conflitto mondiale? In quali termini la legislazione razziale rivisse nel discorso giuridico che si costruì attorno al diritto riparatore?

Tra le molteplici problematiche che la giurisprudenza della secon-da metà degli anni ’40 si trovò ad affrontare, la reintegrazione degli ebrei nei propri diritti patrimoniali si offre come un importante osser-vatorio per cogliere le diverse sfaccettature della maniera di intendere e applicare la legislazione del 1944, nonché per individuare le argo-mentazioni che presiedettero alla costruzione del soggetto destinatario di quelle disposizioni10. I provvedimenti adottati dal governo Badoglio per reitegrare gli ebrei nei propri diritti patrimoniali furono designati in maniera eterogenea come “un sistema organico di provvidenze ripa-ratrici”, “diritto riparatore”, “leggi restitutorie” o, anche, “antileggi razziali”, formulazione, quest’ultima, che sottende l’idea che la reinte-grazione si sarebbe dovuta sostanziare in un semplice annullamento degli effetti prodotti dalle leggi del 1938, ovvero nell’esatta individua-zione ed eliminazione delle lesioni realmente subite. La varietà lingu-

8 Sul punto, ci si permette di rinviare a S. Falconieri, La legge della razza. Strategie

e luoghi del discorso giuridico fascista, Bologna, 2011, passim. 9 Sul processo di rielaborazione delle vicende incorse agli ebrei durante il periodo

fascista e la ridefinizione identitaria, G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Roma-Bari, 2004 passim; A. Luzzatto, Autocoscienza e identità ebraica, Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi. Annali 11 (a cura di C. Vivanti), Torino, 1997, 1829-1900.

10 Sulla reintegrazione degli ebrei nei propri diritti patrimoniali, I. Pavan, Tra in-differenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (1938-1970), Firenze, 2004, passim; Id., Gli incerti percorsi della reintegrazione. Note sugli atteggia-menti della magistratura repubblicana 1945-1964, in Gli ebrei in Italia tra persecuzione (a cura di I. Pavan - G. Schwarz), cit., 83-112; F. Levi, La restituzione dei beni, in Il ritorno alla vita (a cura di M. Sarfatti), cit., 77-97; L. Martone, L’infamia dimenticata: l’esproprio dei beni patrimoniali dei cittadini ebrei imposto dalle leggi del 1938-1939 ed il problema delle restituzioni, in Il diritto di fronte all’infamia nel diritto. A 70 anni dal-le leggi razziali (a cura di L. Garlati - T. Vettor), Milano, 147-162.

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stica rimanda immediatamente all’esistenza, in seno alla cultura giuri-dica italiana dell’immediato dopoguerra, di una pluralità di maniere di intendere la reintegrazione. In questo contesto, alcuni istituti e catego-rie giuridiche, introdotti dalla legislazione del 1938 e abrogati nel ’44, rivissero nelle pratiche giurisprudenziali, divenendo il presupposto lo-gico per definire il soggetto di diritto destinatario delle disposizioni restitutorie.

2. I tempi del diritto riparatore

Per individuare più agevolmente le ragioni e i meccanismi che

permisero la reviviscenza di alcuni istituti propri della legislazione an-tiebraica nella giurisprudenza del dopoguerra, è interessante soffer-marsi brevemente sull’ambigua dimensione temporale introdotta dal r.d.l. 25/1944, dal r.d.l. 26/1944 e dalle disposizioni attuative di quest’ultimo, contenute nel d.l.l. 222/1945. Il tempo nel diritto, infatti, è una finzione, è il risultato di una costruzione11.

Le problematiche connesse ai tempi del diritto riparatore furono a più riprese e variamente evocate dagli stessi giudici e avvocati diretta-mente implicati nelle pratiche di reintegrazione. Nel 1944, la qualifica-zione di “appartenente alla razza ebraica” era stata cancellata dal si-stema giuridico del dopoguerra, mentre l’impianto legislativo che ne aveva permesso l’introduzione e l’applicazione aveva perso la sua effi-cacia insieme con tutti quegli istituti e quelle categorie che, introdotti nel 1938, non erano stati più richiamati dalle nuove disposizioni. Ma a partire da quale momento la legislazione razziale aveva smesso di pro-durre effetti?

Nel biennio successivo alla promulgazione dei primi decreti, alcuni giudici italiani concordavano sul carattere retroattivo dell’abrogazione delle leggi razziali, nel tentativo di evitare che le norme in esse conte-nute fossero indebitamente richiamate in occasione dei processi di reintegrazione.

Era questa la posizione espressa, nel luglio 1947, dal Tribunale di Firenze, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di retrocessione di azienda avanzata dai signori Aldo e Giorgio Forti che, nel marzo del 1940, avevano provveduto alla cessione delle proprie quote sociali a favore di due consoci, i signori Vannucchi e Campolmi. Richiamandosi

11 Y. Thomas, La vérité, le temps, le juge et l’historien, in Le débat, 1998, 17-25,

ora in Y. Thomas, Les opérations du droit, Paris, 2011, 255-280.

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alla legislazione in vigore al momento della stipulazione12, i richiedenti eccepivano la nullità assoluta degli atti di disposizione con i quali era-no state alienate le quote aziendali, i macchinari e una parte del-l’immobile. Dopo aver sottolineato “la singolarità che la legge persecu-toria” fosse richiamata proprio da coloro che da tale legge si sentivano perseguitati, i giudici fiorentini si espressero in questi termini di fronte alla rivendicazione della nullità dell’atto di cessione dell’azienda:

“Sembra potersi affermare, in base al più autorevole insegnamento, che l’abolizione di una legge odiosa ha sempre effetto retroattivo perché non esi-stono diritti quesiti in forza di un precetto che, violando il principio fonda-mentale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, senza distinzioni di razza o religione, offende i più sacri diritti dell’uomo” 13.

Secondo tale interpretazione, trattandosi di “leggi odiose”, non era

necessario che la retroattività fosse esplicitata dal legislatore. A soste-gno di questa tesi, i giudici citavano il preambolo del r.d.l. 26/1944 – chiara l’intenzione del legislatore di voler procedere ad un abrogazione ex tunc della legislazione – e alcune sentenze in cui la Suprema Corte, “lungi dal richiamarsi al generico e non sempre esatto principio che un negozio nullo non acquista validità solo per essere stata successiva-mente abrogata la legge che ne comminava la nullità”14, aveva conside-rato come validi e produttivi di effetti alcuni atti giuridici che, come il matrimonio misto tra appartenenti alla “razza ariana” e appartenenti alla “razza ebraica”, erano invece nulli alla luce dell’ordinamento del periodo fascista.

Tale interpretazione suscitava tuttavia più di qualche perplessità agli occhi di alcuni giuristi che consideravano, peraltro, completamen-te irrilevante stabilire con esattezza se le leggi del ’38 fossero state abrogate con efficacia ex tunc o ex nunc. La retroattività dei decreti abrogativi non poteva assolutamente giustificarsi con il “carattere odioso”15 delle disposizioni razziali, in quanto si sarebbe introdotto un principio fondato su un dato “assai discutibile” e dipendente da “ap-

12 In particolare, i richiedenti si riferivano agli articoli 5 e 54 del r.d.l. 9 febbraio

1939, n. 126, Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica.

13 Tribunale di Firenze, 15 luglio 1947, Forti c. Campolmi ed altri, in Giurispru-denza completa della Corte Suprema di Cassazione, Vol. XXV, 464-474, qui 466.

14 Ibid. 15 G. Piaggio, Appunti in tema di leggi restitutorie dei cittadini di razza ebraica nei

loro diritti patrimoniali, in Giurisprudenza completa della Corte Suprema di Cassazione, Vol. XXV, 1947, 471-474.

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prezzamenti soggettivi”16. Peraltro, secondo tale punto di vista, una legge abrogata presentava, sempre ed inevitabilmente, un certo décala-ge con le condizioni politiche, economiche e sociali. Ad esser contesta-ta era l’intera operazione compiuta dai giudici di Firenze che finivano con il far coincidere l’abrogazione con “la possibilità che una legge nuova” desse luogo “alla produzione attuale di effetti giuridici da par-te di un fatto o rapporto che tale attitudine non aveva secondo la legge abrogata”17.

Alle incertezze relative alla determinazione esatta del momento in cui la legislazione razziale avrebbe dovuto perdere la sua efficacia, si affiancavano le ulteriori complicazioni introdotte dal r.d.l. 26/1944 e dal d.l.l. 222/1945 che, al fine di rimediare ai danni patrimoniali pro-dotti dalle leggi razziali, prevedevano la possibilità di porre nel nulla alcuni degli effetti economici e giuridici prodotti dagli atti di disposi-zione del patrimonio che le persone assoggettate alla normativa antie-braica avevano compiuto nel timore di dover subire gravi lesioni eco-nomiche.

Nei primi commentari dei giuristi che si occuparono in maniera più specifica dei diritti patrimoniali, il fattore temporale non mancava di essere segnalato come un vero e proprio ostacolo da superare. Se appariva quasi immediato affermare la reintegrazione degli ebrei “ri-donando loro la piena capacità giuridica in ogni sfera del diritto”, l’operazione di ricostruzione di situazioni giuridiche ed economiche risultava un’impresa ben più ardua ed incontrava “non poche difficol-tà e scabrosità” legate al “tempo trascorso” e “ai successivi trasferi-menti subiti nel frattempo dai beni degli ebrei”18.

Alcune delle disposizioni volte a rimediare agli effetti prodotti dai decreti antiebraici agivano retroattivamente. Accanto al caso della re-trocessione di azienda19, che aveva occupato il Tribunale di Firenze, l’articolo 14 del r.d.l. 26/1944 disponeva che, “nel termine di un anno dalla conclusione della pace”, il “cittadino colpito dalle leggi razziali” avrebbe potuto esercitare l’azione di annullamento “per tutti quei con-tratti di alienazione di beni immobili” conclusi durante la vigenza delle disposizioni antiebraiche e per i quali vi fosse la “prova incontestabile” che l’alienazione fosse avvenuta allo scopo di “sottrarsi all’applicazione delle leggi stesse con la riduzione della propria quota di disponibilità degli immobili”20. L’articolo 19 del d.l.l. 222/1945 prevedeva la possi-

16 Ibid, 472-473. 17 Ibid, 473. 18 S. Caporaso, Integrazione nei diritti patrimoniali, cit., 329. 19 Art. 12, r.d.l. 26/1944. 20 Art. 14, r.d.l. 26/1944.

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bilità di rescindere quei contratti di alienazione che, stipulati in data posteriore al 6 ottobre 1938 in “stato di bisogno”, avessero prodotto una lesione che eccedesse di un quarto il valore della cosa alienata al momento del contratto.

Derogando alle disposizioni codicistiche che stabilivano che le azioni di annullamento dovessero prescriversi in cinque anni21 e le azioni di rescissione fossero esperibili nel termine di un anno dalla da-ta della stipulazione del contratto22, il r.d.l. 26/1944 e il d.l.l. 222/1945 consentivano, dunque, di cancellare alcuni atti di disposizione patri-moniale che, con riferimento alle norme vigenti al momento della loro stipulazione, non solo erano stati validamente posti in essere, ma ave-vano anche dato luogo a diritti oramai acquisiti. Ci troviamo qui di fronte ad una “construction redoublée du temps en droit”23, in virtù della quale le prescrizioni introdotte dalle norme del codice civile sulla compravendita venivano sospese, in via eccezionale, da nuove disposi-zioni che trasferivano le alienazioni di beni immobili compiute dagli ebrei nel tentativo di sottrarsi al pericolo delle leggi razziali in una temporalità diversa rispetto a quella nella quale erano state effettuate.

Fu sullo sfondo di questa dimensione temporale che venne definito il nuovo soggetto di diritto, destinatario delle disposizioni di reintegra-zione nei diritti patrimoniali. I giuristi impegnati nell’applicazione dei decreti di reintegrazione erano chiamati a pronunciarsi in un contesto temporale differente da quello in cui i contratti in questione erano stati stipulati, senza tuttavia poter evitare di far riferimento a un quadro le-gislativo – quello del 1938 – che, sebbene inefficace, tornava necessa-riamente a rivivere nel discorso giurisprudenziale dell’Italia post-fascista.

3. Dall’“appartenente alla razza ebraica” alla “persona colpita dalle leggi razziali”

Nel procedere all’applicazione dei decreti di reintegrazione, i giu-

dici ripercorsero le vicende del periodo fascista. La maggior parte del-le sentenze iniziava solitamente con una meticolosa e dettagliata rilet-tura del quadro legislativo e storico, nel tentativo di raccordare, rior-dinare e valutare l’impatto dei decreti del 1938, determinando con es-sattezza quali norme e istituti fossero stati richiamati dal legislatore del 1944. In queste operazioni preliminari, l’attenzione dei giudici si foca-

21 Art. 1442 c.c. 22 Art. 1448 c.c. 23 Y. Thomas, La vérité, le temps, le juge et l’historien, cit.

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lizzava anche sulla maniera nella quale i giuristi dell’epoca fascista ave-vano interpretato e applicato la legislazione razziale, nonché sulle rea-zioni della popolazione italiana di fronte all’esclusione dei concittadini ebrei. Attraverso queste analisi preliminari, la giurisprudenza dei primi anni del secondo dopoguerra mirava a delimitare con maggiore preci-sione il campo di azione dei decreti di reintegrazione, cogliendo la ra-tio legis che li animava24.

I giudici che nella seconda metà degli anni ’40 si trovarono ad esaminare le richieste di annullamento e di rescissione dei contratti di alienazione si addentrarono, così, in una meticolosa valutazione delle conseguenze prodotte dal r.d.l. 126/1939, con il quale si erano definite le limitazioni patrimoniali imposte agli appartenenti alla razza ebrai-ca25. In questo contesto rivisse l’istituto della discriminazione che, in-trodotto dal r.d.l. 1728/1938 e non più espressamente richiamato dai decreti del 1944, premiava gli ebrei in possesso di particolari beneme-renze, consentendo loro di sottrarsi alla rigida applicazione della legi-slazione antiebraica, in particolare con riferimento alla gestione del lo-ro patrimonio. Coloro che avessero chiesto ed ottenuto il provvedi-mento ministeriale della discriminazione sarebbero stati esentati dall’obbligo di ripartire il proprio patrimonio nella “quota consentita” e nella “quota eccedente”, destinando quest’ultima all’EGELI, l’ente incaricato delle alienazioni immobiliari ebraiche26.

Per la maggior parte dei giuristi italiani l’istituto della discrimina-zione era stato implicitamente richiamato dal legislatore del ’44. Del resto, lo stesso Tribunale di Firenze, che nel 1946 aveva sostenuto la distruzione ex tunc di tutti “quegli istituti e quei rapporti del passa-to”27 non più tollerati dal nuovo ordinamento, non aveva potuto evita-re di fare riferimento alla categoria dell’ebreo discriminato per negare ai richiedenti – Aldo e Giorgio Forti – la facoltà di esperire le azioni di retrocessione di azienda e di annullamento del contratto di alienazione dell’immobile.

Un anno dopo, il Tribunale di Bologna si pronunciava sulla causa Passigli contro Società anonima civile agricola S. Benedetto28. Alla luce degli articoli 14 del r.d.l. 26/1944 e 19 del d.l.l. 222/1945, Passigli chiedeva l’annullamento e, in subordine, la rescissione di un contratto

24 Sul rapporto tra giudici, leggi razziali e leggi abrogative e restitutorie, G. Spe-

ciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino, 2005, passim. 25 R.d.l. 9 febbraio 1939, n. 126, Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e

di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica. 26 Articoli 10 e 14, r.d.l. 1728/1938; r.d.l. 126/1939. 27 Tribunale di Firenze, 15 luglio 1947, Forti c. Campolmi ed altri, cit., 466. 28 Tribunale di Bologna, Passigli c. Società anonima civile agricola S. Benedetto c.

Valenza c. Amministrazione delle Finanze, in Giur. it. , vol. XCIX, 1947, 289-300.

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di compravendita immobiliare che, nel 1939, aveva stipulato per sot-trarsi all’applicazione delle leggi razziali. Passigli era un noto industria-le bolognese che nel 1933 aveva acquistato dal signor Pisa una tenuta in S. Pietro in Casale, investendo nel suo miglioramento danaro ed energie. Sulla tenuta San Benedetto si ergevano un palazzo per villeg-giatura con parco, magazzini, una cantina, le abitazioni del custode e del personale. Soltanto qualche anno dopo, in seguito alla promulga-zione dei decreti antiebraici, l’industriale, oramai definito alla luce del-le nuove disposizioni “cittadino italiano appartenente alla razza ebrai-ca”, aveva provveduto ad alienare il proprio patrimonio nel timore che “in seguito sarebbero venuti tempi ancora più tristi e disposizioni an-cora più gravi per la razza”29. Con rogito Rossi, il 26 luglio del 1939, veniva conclusa la compravendita con l’avvocato Alfonso Giorgi che, come si apprende dal testo della sentenza, agiva per conto del ministro Dino Grandi. Per una cifra irrisoria, la tenuta “San Benedetto” veniva trasferita “per persona da nominare”. Il compromesso di vendita con-cluso tra Giorgi e Passigli obbligava quest’ultimo a stipulare il rogito notarile non appena fosse intervenuto il provvedimento di discrimina-zione in suo favore.

Il Tribunale di Bologna negava in maniera categorica l’annulla-mento del contratto, ponendo a fondamento delle proprie argomenta-zioni l’istituto della discriminazione e, in particolare, asserendo l’impossibilità che coloro che avessero beneficiato di tale istituto fosse-ro legittimati a esperire l’azione di annullamento. Ripercorrendo le di-sposizioni contenute nel decreto 126/1939, i giudici sottolineavano che la categoria degli ebrei discriminati non aveva subito danni economici, poiché non soggetta alle disposizioni relative alla limitazione del pa-trimonio. Secondo quanto stabilito dal r.d.l. 126/1939, infatti, ai fini dell’applicazione delle limitazioni immobiliari, gli ebrei discriminati erano parificati ai cittadini italiani non appartenenti alla razza ebraica. Che le nuove disposizioni per la reintegrazione degli ebrei nei propri diritti patrimoniali si riferissero esclusivamente ai non discriminati, lo si poteva desumere, innanzitutto, dallo stesso titolo del r.d.l. 26/1944. Se nel r.d.l. 25/1944 si parlava in maniera generale di “cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebrai-ca”, nel r.d.l. 26/1944, così come nelle disposizioni attuative, il legisla-tore aveva scelto di utilizzare la formulazione “cittadini italiani e stra-nieri colpiti dalle disposizioni razziali nei loro diritti patrimoniali”. Era chiaro che, nelle intenzioni del legislatore, i destinatari delle disposi-zioni restitutorie dovessero coincidere esattamente soltanto con coloro che avessero concretamente subito dei danni patrimoniali.

29 Ibid, 290.

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Non solo. Secondo i giudici, l’intero r.d.l. 26/1944 richiamava co-stantemente le norme dell’abrogato r.d.l. 126/1939 che aveva regolato l’attività industriale e commerciale degli ebrei discriminati. Poiché il testo del ’39 si era limitato ad affermare che, dal punto di vista econo-mico, gli ebrei discriminati erano equiparati ai “cittadini ariani”, non si capiva come fosse possibile estendere a questi l’applicazione di un de-creto che intendeva rimediare agli effetti prodotti soltanto in capo agli ebrei non discriminati. Un altro argomento “decisivo” veniva mobilita-to dal Tribunale di Bologna: l’articolo 14 del r.d.l. 26/1944 utilizzava l’espressione “quota di disponibilità” attraverso la quale, seppur sotto formulazione linguistica differente, il legislatore si riferiva alla distin-zione introdotta dal r.d.l. 126/1939 tra “quota consentita” e “quota eccedente”. Questa ripartizione concerneva unicamente gli ebrei non discriminati.

Le persone “colpite dalle leggi razziali” coincidevano così con “co-loro che erano stati diminuiti nei diritti patrimoniali per effetto dell’articolo 10 del r.d.l. n. 1728 e del decreto n. 126, che quelle limi-tazioni stabilivano in modo prevalente e quasi esclusivo”30. Una simile interpretazione, dettata da “ragioni di equità”, consentiva di attribuire alla legge un senso che non esorbitasse “dallo scopo specifico che essa si era prefissa”31.

Alla luce di tali premesse, i giudici ricostruivano la situazione di Passigli negli anni del fascismo. L’11 giugno del 1939, prima di aliena-re la tenuta S. Benedetto, il richiedente aveva ottenuto il beneficio del-la discriminazione, grazie alla particolare posizione ricoperta da uno dei suoi figli che godeva della qualifica di squadrista32. Risultavano pertanto totalmente infondate le obiezioni avanzate dalla difesa33: Pas-sigli non poteva in alcun modo esser considerato come “colpito dalle leggi razziali”, in quanto libero di disporre dell’integralità del proprio patrimonio e, anche qualora non fosse appartenuto alla categoria dei discriminati, avrebbe potuto tranquillamente cedere la tenuta al figlio, senza subire alcun tipo di pregiudizio.

Ne conseguiva, pertanto, che Passigli non era legittimato neppure ad esperire l’azione di rescissione del contratto di alienazione. I giudici si dichiaravano già abbastanza scettici sulla possibilità di far coincidere lo “stato di bisogno”, richiesto ai fini dell’applicazione dell’articolo 19

30 Ibid, 294-295. 31 Ibid, 295. 32 Tale condizione implicava l’estensione della discriminazione all’ascendente. 33 Nella stessa direzione, Tribunale di Firenze, 15 luglio 1947, in Giurisprudenza

completa della Corte di Cassazione.

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del r.d.l. 26/1944, semplicemente con una “condizione psicologica”34. Per di più, nel caso esaminato, avendo la possibilità di donare l’integralità dei propri beni al figlio, il richiedente non si era affatto trovato privo di scelta, né tantomeno era stato “costretto a sottostare alle pretese usuratizie della controparte”35.

L’interpretazione fornita dal Tribunale di Bologna trovò conforto nella giurisprudenza della I sezione civile della Corte di cassazione che ebbe modo di insistere, a più riprese, sul difetto di legittimazione ad esperire le azioni di annullamento e di rescissione per gli ebrei che avessero beneficiato dell’istituto della discriminazione.

Nelle pronunce della Corte di cassazione, la via seguita nella rico-struzione delle situazioni giuridiche ed economiche delle “persone colpite dalle leggi razziali”, del tutto analoga a quella dei giudici di Bo-logna, portava ad un drastico ridimensionamento del peso accordato alle condizioni soggettive. Un excursus dei decreti del 1938, in partico-lare delle disposizioni che avevano introdotto delle limitazioni patri-moniali ai beni degli ebrei, consentiva ai giudici di coglierne la “lette-ra” e lo “spirito”36: la discriminazione non poteva essere considerata come attributiva di un particolare status, ma consentiva al beneficiario di conservare “gli stessi diritti patrimoniali e la medesima capacità di possedere di cui godeva, al pari degli altri cittadini, prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali”37.

Tale osservazione costituiva la premessa dell’argomentare dei giu-dici della Suprema corte che, servendosi delle identiche argomenta-zioni mobilitate dal Tribunale di Bologna, chiarivano in questi termini cosa dovesse intendersi per “reintegrazione” e “riparazione”:

“Reintegrazione nei diritti anteriori e riparazione di gravi sperequazioni di ordine patrimoniale che, presupponendo sia nella loro accezione giuridica sia in quella di senso comune una spoliazione, non potevano riferirsi che agli ebrei non discriminati, non avendo i discriminati sofferto alcuna limitazione di ordine patrimoniale”38.

34 Tribunale di Bologna, Passigli c. Società anonima civile agricola S. Benedetto,

cit., 299. 35 Ibid. 36 In particolare, Cass., I Sez. civ., 18 luglio 1949, Finucci c. Momigliano, in Foro

Pad., 1949, 844-851; Cass., I Sez. civ., 26 giugno 1950, Castelbolognesi c. Pastorelli e Malavasi, in Foro it., 1950, vol. LXXIII, 801-807, qui 801.

37 Cass., I Sez. civ., 26 giugno 1950, Castelbolognesi c. Pastorelli e Malavasi, cit., 802.

38 Ibid.

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L’annullamento e la rescissione, introdotte nel ’44, avevano “carat-tere eccezionale e riparatorio”. Andando ad incidere sulla stabilità del-le contrattazioni e rischiando di introdurre delle gravi sperequazioni tra gli ebrei discriminati e i “cittadini di razza ariana”, la concessione di tali azioni doveva basarsi in via esclusiva sulla ricostruzione delle si-tuazioni di diritto, lasciando da parte le “preoccupazioni meramente soggettive”39.

Processi di tal sorta si moltiplicarono nella seconda metà degli anni ’40. Una variazione sul tema per definire la “persona colpita dalle leggi razziali” veniva prospettata da alcuni giuristi che, come Angiola Sbaiz, assicuravano la difesa di chi aveva contrattato con gli ebrei discrimina-ti. Il fatto che l’istituto della discriminazione fosse esistito nelle leggi del 1938 doveva esser considerato, ad ogni modo, “rilevante”. Tuttavia non si poteva escludere aprioristicamente l’applicabilità degli articoli 14 e 19 agli ebrei discriminati: “Gli effetti della categoria della discri-minazione non potevano evidentemente entrare in considerazione ante literam” ma dovevano essere necessariamente analizzati in relazione al caso concreto al quale si riferivano. Ciò che rilevava era esclusivamente “il fatto della discriminazione anteriore all’alienazione”, con la conse-guenza che la “persona colpita dalle leggi razziali” avrebbe potuto es-sere facilmente individuata nella figura del “non discriminato al mo-mento dell’alienazione”40.

Alcuni tribunali presero le distanze da tale corrente interpretativa e ricostruirono le vicende nelle quali erano incorsi i cittadini italiani “appartenenti alla razza ebraica” nel periodo fascista, facendo leva su argomentazioni e variabili differenti. Nel 1947, i giudici della I sezione del Tribunale civile di Torino, ad esempio, statuirono che la legittima-zione attiva ad esperire l’azione di annullamento prevista dal r.d.l. 26/1944 spettava anche “al cittadino già considerato di razza ebraica” che avesse “già beneficiato del provvedimento di discriminazione”41. La “persona colpita dalle leggi razziali” coincideva qui esattamente con l’“appartenente alla razza ebraica”, così come era stato definito dall’articolo 8 dei Provvedimenti per la difesa della razza italiana.

Anziché concentrarsi sul testo del decreto 126 del ’39, i giudici to-rinesi insistevano sulla natura amministrativa del provvedimento di di-scriminazione e sulla conseguente possibilità che questo venisse revo-cato da un momento all’altro in maniera del tutto discrezionale. Il Tri-bunale di Torino concedeva al signor Treves la possibilità di esercitare

39 Ibid, 805. 40 Ibid, 1009. 41 Tribunale Di Torino – Sez. I, 16 giugno 1947, Treves c. Soc. An. Immobiliare S.

Quintino e Battagliotti, in Temi, n. 3-4, 1948, 325-384.

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l’azione di annullamento prevista dall’articolo 14 del r.d.l. 26/1944, asserendo che, “sulla scorta del certificato di nascita”, l’istante aveva “fatto risultare che egli era considerato all’atto del rogito Jona cittadi-no di razza ebraica sebbene discriminato”42:

“Per via della precarietà della loro condizione giuridica, derivante dal fatto che erano stati ‘privati del sicuro immodificabile status personae, riconosciuto agli ariani in contrapposizione agli ebrei’, anche i discriminati dovevano esser considerati come ‘persone colpite dalle leggi razziali’”43.

I giuristi che adottarono tale prospettiva negarono in maniera ca-

tegorica l’eventualità che il legislatore del 1944 avesse voluto dar vita ad una moltiplicazione della “persona colpita dalle leggi razziali”, at-tribuendo a questa formulazione significati eterogenei44. Un ulteriore dato non sfuggiva a coloro che si dichiaravano contrari a un simile morcelement: le ricostruzioni del quadro legislativo operate dai giudici facevano rivivere l’istituto della discriminazione si arrestavano bru-scamente alla caduta del fascismo, senza considerare neppure che le leggi razziali promulgate dopo l’8 settembre del 1943 dal governo della Repubblica italiana di Salò non operavano più alcuna distinzione tra le persone assoggettate alla legislazione razziale.

3. La minimizzazione degli effetti dei decreti del 1938 Pochi furono i giuristi che considerarono che la reintroduzione

della discriminazione fosse non solo “ingiustificata”45 e “priva di fon-damento”46, ma avesse anche “un sapore di macabra ironia” nel mo-mento in cui si teneva in considerazione che “nei campi di concentra-mento – anzi nei campi di sterminio – Ebrei discriminati sono morti accanto ad ebrei non discriminati!”47. Al di là del tipo di soluzione alla quale si pervenne, nell’individuazione della “persona colpita dalle leg-gi razziali”, con riferimento all’applicazione delle disposizioni relative alla reintegrazione nei diritti patrimoniali, difficilmente i giudici e gli avvocati poterono esimersi dal riferirsi all’istituto della discriminazio-

42 Ibid, 325-326. 43 Ibid, 327. 44 Si vedano a questo proposito le note, W. Bigiavi, Annullamento di alienazioni

immobiliari compiute da ebrei discriminati, nota a Tribunale di Bologna, 22 febbraio 1947, Passigli c. Soc. An. Agricola San Benedetto, cit., 289-298.

45 W. Bigiavi, Annullamento di alienazioni immobiliari, cit., 296 46 Ibid, 298. 47 Ibid, 291.

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ne. La reviviscenza della discriminazione si accompagnò ad una punti-gliosa valutazione ex-post degli effetti prodotti dalle leggi razziali e a giudizi di valore, espressi anche dalle corti, sulla legislazione del ’38 e sulla portata della normativa restitutoria.

In un ottica prevalentemente restitutoria48, una delle preoccupa-zioni fondamentali sembrava piuttosto quella di restituire alle “perso-ne colpite dalle leggi razziali” esattamente quanto era stato tolto loro. Sebbene le leggi antiebraiche fossero unanimamente definite come “inique” e “contrarie al diritto naturale”, occorreva non eccedere nelle restituzioni: “l’applicazione della legge riparatrice fuori delle ipotesi contemplate arriverebbe in sostanza a creare alcuni casi di arricchi-mento ingiusto che il legislatore non può aver voluto e trasformerebbe la legge da provvedimento restitutorio in provvedimento punitivo”49 nei confronti di coloro che avevano contratto con i cittadini ebrei.

Così, occorreva, ad esempio, prendere in considerazione la possi-bilità di “evasione della legge” negli anni del fascismo. Si esprimeva in questi termini l’avvocato Del Guercio, intervenuto in diversi processi presso il Tribunale di Milano:

“Né si obbietti che, dato il modo con cui le leggi razziali erano congegnate, l’ebreo non poteva sottrarsi alla loro applicazione (…) Non si faccia una tale obbiezione; chè, in pratica, casi di evasione della legge – sia pure ‘in via ecce-zionale soltanto’ (come anche il Bigiavi ammette) – se ne verificarono” 50.

Si sarebbe dovuto categoricamente evitare di dar luogo a specula-

zioni che, soprattutto “in momenti di inflazione” come quello durante il quale si svolgevano i processi di reintegrazione degli ebrei nei propri diritti patrimoniali, ferivano “i più elementari principii di equità”, “co-stringendo l’acquirente, che a suo tempo pagò il prezzo giusto in mo-neta buona, a restituire i beni acquistati, ricevendo, in cambio, solo moneta svalutata!”51.

Qualcuno si spingeva fino a ridimensionare, in maniera globale, la portata della politica razziale italiana. Sofo Borghese52, che negli anni

48 Sul rapporto tra restituzione e riparazione, in particolare, A. Garapon, Peut-on

réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, Paris, 2008, passim. 49 Tribunale di Firenze, Forti c. Campolmi ed altri, cit., 465. 50 A. Del Guercio, Annullamenti di alienazioni di beni immobili fatte da cittadini

colpiti dalle leggi razziali, in Temi, n. 3-4, 1948, 376-384, qui 382. 51 Ibid, 384. 52 Sull’operato di Sofo Borghese durante il periodo fascista e sul suo contributo

all’applicazione e all’interpretazione della legislazione antiebraica, ci si permette di rinviare a S. Falconieri, La legge della razza, cit. Alcune informazioni sulla sua carriera

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in cui le leggi razziali erano in vigore non aveva esitato a fornirne uno studio dettagliato53, interveniva con una nota a commento di due sen-tenze, del Tribunale di Bologna e di quello di Milano, che avevano concesso la legittimazione attiva ad esperire l’azione di rescissione al contraente che avesse agito in stato di bisogno.

Dimostrandosi in sintonia con la critica mossa dai giudici di Bolo-gna nei confronti della frettolosa e imprecisa formulazione dei testi normativi con i quali erano state dettate le modalità per la reintegra-zione dei cittadini ebrei nei propri diritti patrimoniali, Borghese chia-riva la propria posizione e le considerazioni poste a suo fondamento. Proprio in ragione dei molteplici inconvenienti derivanti dalla lettera stessa della legge, il compito dell’interprete avrebbe dovuto essere quello di evitare in tutti i modi di “dar facile esca a speculazioni ed abusi da parte di persone poco coscienziose che, pur rientrando for-malmente fra i “colpiti da persecuzione razziale”, non hanno subito, di fatto, alcun danno dalla loro posizione”54. Ogni malinteso interpretati-vo sorgeva, a dire di Borghese, dalla forte sproporzione esistente tra la portata della legislazione antiebraica e quella dei testi abrogativi e re-stitutori:

“Gli inconvenienti non derivano dall’interpretazione, ma dalla legge stessa, che par destinata ad un paese dove l’accanimento della persecuzione avesse raggiunto gli eccessi delle uccisioni di massa, delle ‘camere a gas’, e di altri sistemi teutonici la cui vergogna quasi incredibile è ormai consegnata alla sto-ria”55.

Nell’argomentare la propria posizione, il giurista ci rivela la pro-

pria visione, condivisa peraltro con i giudici di Bologna, delle vicende della popolazione ebraica italiana negli anni nel fascismo:

“È ben vero che la campagna razziale non fu mai sentita in Italia, dove non è mai esistito un ‘problema ebraico’ e dove gli israeliti sono sempre stati consi-derati, dalla popolazione e dal comune sentimento – che fa onore al nostro popolo – alla stregua di tutti gli altri cittadini: è vero ancora, come giustamen-te osserva il Tribunale di Milano, che ‘la massa degli italiani ebbe a ribellarsi fin dall’inizio alla immorale campagna razzista, arrecando aiuti spontanei,

sono reperibili in G. Pugni, Settembre per sempre: 8 settembre 1943: voci, testimonian-ze e riscoperte di una stagione infinita, Milano, 1999, passim.

53 S. Borghese, Razzismo e diritto civile, in Monitore dei Tribunali, vol. LXXX, 1939, 353-357,

54 S. Borghese, Considerazioni in materia di leggi e anti-leggi razziali, in Foro it., Vol. LXXXII, 1949, 739-744, qui 744.

55 Ibid.

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sebbene pericolosi, non solo alle famiglie dei perseguitati italiani, bensì anche a quelle degli stranieri costretti a fuggire dai loro paesi di origine per l’implacabile persecuzione della barbarie tedesca’”56.

Autoassoluzioni e autogiustificazioni dominarono il processo di

immediata rielaborazione delle vicende incorse durante il ventennio. Il carattere blando della legislazione antiebraica italiana, la bontà della magistratura e la sua souplesse interpretativa costituivano un dato con-diviso che animava il lavoro di una gran parte dei giuristi coinvolti nel-la disapplicazione dei decreti del ’38. Nei processi di reintegrazione de-gli ebrei nei propri diritti patrimoniali, i giuristi italiani costruirono un discorso che prendeva ampiamente parte all’edificazione del mito “ita-liani brava gente”57: la reviviscenza dell’istituto della discriminazione ne era un evidente sintomo.

56 Ibid. 57 D. Bidussa, Razzismo e antisemitismo in Italia: fenomenologia e ontologia

del bravo italiano, in Rass. Mens. d’Israel, 3, 1992, 1-36.

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PRIVATIZZAZIONE DEI CONTENZIOSI E RISARCIMENTO PER ILLECITI STORICI.

IL CASO DELLA HOLOCAUST LITIGATION

Noah Vardi

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. I casi. – 2.1. La Swiss bank litigation. – 2.2. La Aus-trian and German banks litigation. – 2.3. La slave labour litigation. – 2.4. Le insu-rance claims. – 3. Le questioni. – 3.1. Fondamento dell’azione e circolazione del “modello” di contenzioso. – 3.2. La “privatizzazione” dei contenziosi per la viola-zione dei diritti umani. – 3.3. Considerazioni conclusive.

1. Introduzione Nella riflessione su diritto e storia uno degli aspetti che merita at-

tenzione, anche in considerazione dei riflessi pratici che ne sono con-seguiti, riguarda il processo di cosiddetta ‘civilizzazione’ dei pregiudizi derivanti da eventi storici. Detta ‘civilizzazione’ o ‘privatizzazione’ si manifesta attraverso l’instaurazione di processi civili aventi ad oggetto una richiesta di risarcimento monetario come conseguenza di illeciti storici integranti anche gli estremi di crimini di diritto internazionale. Trattasi di un esempio di uso di strumenti del diritto privato nella “ri-parazione” di torti storici. Uno dei casi più noti e recenti è quello della Holocaust litigation, che tra i prototipi di questo tipo di contenzioso rileva in particolare per entità, risonanza, parti coinvolte e riflessi poli-tici.

La Holocaust litigation si riferisce a una serie di procedimenti giu-diziari, svoltisi principalmente (ma non solo) negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’90 e che a vario titolo riguardano reclami in mate-ria civile legati agli eventi della Seconda guerra mondiale ed in partico-lare all’Olocausto.

Si tratta di diversi contenziosi, riuniti sotto forma di class actions (ai sensi della Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure) aventi come foro gli Stati Uniti e come attori e convenuti rispettivamente cit-tadini e corporazioni di diverse nazionalità.

Le fattispecie strettamente relative alla cd. Holocaust litigation ri-guardano azioni contro banche (a loro volta accusate di illeciti di varia natura anche molto diversi tra di loro), contro imprese e contro società di assicurazioni. Il fondamento comune di queste azioni è un illecito o un inadempimento contrattuale, integrante al contempo una violazio-ne dei diritti umani, ai danni di persone vittime dell’Olocausto.

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Questo contenzioso racchiude una serie di elementi caratteristici della – più ampia – cd. human rights litigation, la quale sia prima, ma soprattutto dopo la conclusione dei procedimenti in oggetto, ha com-portato l’avvio di processi concernenti fattispecie anche molto diffe-renti tra loro. L’importanza della Holocaust litigation risiede non tanto e non solo nei suoi esiti (che come noto non sempre sono stati partico-larmente “efficienti” e/o all’altezza delle aspettative dei ricorrenti), quanto nel fatto che questa litigation sia assurta, suo malgrado, a “mo-dello” per un certo tipo di contenzioso civile, avente ad oggetto il ri-sarcimento monetario per la violazione di diritti umani. Quanto questo modello sia effettivamente un modello giuridico rimane tuttavia que-stione aperta.

La human rights litigation implica complesse questioni che riguar-dano diversi rami sia del diritto sostanziale che del diritto processuale, ed è anche questo uno degli aspetti che suscitano maggior interesse in-torno a tale tipo di contenzioso. Si va dal diritto internazionale con-venzionale che può offrire la base per la determinazione di comporta-menti sanzionabili (se si considera che come è stato riconosciuto da alcune corti anche Trattati che non siano self-executing possono tutta-via essere indicativi dell’emersione di una norma consuetudinaria di diritto internazionale)1; al diritto internazionale privato che è centrale per la determinazione del foro competente laddove vi siano contenzio-si derivanti da contratti e da responsabilità extracontrattuale; fino al diritto internazionale pubblico laddove vi siano questioni di sovranità e immunità nazionale.

Le pur importanti considerazioni di diritto internazionale che emergono da tali procedimenti esulano dagli scopi di questo studio; tuttavia già solo gli elementi di diritto civile, processuale e comparato implicati presentano questioni impegnative.

Vi sono in effetti delle caratteristiche comuni in questo “modello” di contenzioso, che si possono riassumere, oltre che nell’uso dell’isti-tuto della class action, nel riconoscimento della “incorporazione” nella common law federale degli Stati Uniti dei principi internazionali sui diritti umani e, nell’utilizzo delle corti federali statunitensi come foro per azioni internazionali contro entità governative e imprese private aventi un nesso con gli stessi Stati Uniti2, anche in alcuni elementi ri-correnti.

1 Cfr. Handel v. Artukovic, 601 F.Supp. 1421, US District Court, C.D. California,

1985. 2 Cfr. E.J. Cabraser, Human Rights Violations as Mass Torts: Compensation as a

Proxy for Justice in the United States Civil Litigation System in 57 Vand. L. Rev. 2216 (2004).

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In primo luogo il costante svolgimento di un’azione per responsa-bilità extracontrattuale presso tribunali statunitensi, comporta un tra-vaso di alcuni istituti tipici della tort law negli ordinamenti (di civil law) cui appartengono i convenuti- se non altro per quanto riguarda l’esecuzione dei provvedimenti (giudiziali o extra-giudiziali che siano). A tal fine si possono citare gli istituti di equity che spesso risultano ap-plicati per le domande in via subordinata (si pensi ad alcuni rimedi rientranti nello strumentario derivante dall’unjust enrichment); o alla liquidazione- molto vicina ai danni punitivi- di alcuni risarcimenti (in particolare quando vi siano coinvolte delle multinazionali).

In secondo luogo vi è spesso la risoluzione dei contenziosi tramite conciliazione, quasi sempre accompagnata da un intervento legislativo ad hoc3.

In terzo luogo si ripropongono una serie di problemi di tipo pro-cedurale. Tra questi va segnalato innanzitutto il problema della giusti-ziabilità, in particolare alla luce dei Trattati di pace e degli Accordi sulle riparazione belliche. Vi è poi il problema della competenza giuri-sdizionale (e del relativo principio di sovranità territoriale)4.

A tal proposito, si può rammentare che per poter determinare quando uno Stato abbia competenza giurisdizionale per crimini inter-nazionali (in particolare quando detti crimini toccano altri Stati o sono stati commessi da cittadini stranieri) il diritto internazionale stabilisce alcuni principi, tra cui si possono citare il principio di territorialità (cd. territoriality principle) che si applica quando un illecito viene compiuto nel territorio dello Stato processante; il principio della nazionalità (cd. nationality principle) che si applica quando l’imputato/accusato è un cittadino o residente delle Stato processante; il principio di protezione o sicurezza (cd. protective o security principle) che si applica quando un atto extraterritoriale minaccia interessi che sono vitali per l’integrità dello Stato processante; il principio della cd. personalità passiva (cd. passive personality principle) che si applica quando la vittima è cittadi-no dello Stato processante e l’illecito è stato commesso fuori dal terri-

3 Quali ad esempio il Gesetz zur Errichtung einer Stiftung “Erinnerung, Verantwor-

tung, und Zukunft” del 2 agosto 2000, che sancisce legislativamente l’accordo raggiun-to in margine al contenzioso sul lavoro reso in condizioni di schiavitù tra Governo e industria tedesca, ricorrenti e Governi di altri Stati e istituisce apposito fondo per il pagamento dei risarcimenti.

4 Si veda a tal proposito la recente pronuncia della Corte internazionale di giusti-zia dell’Aja del 3 febbraio 2012 (CIG, 3 febbraio 2012, n. 143, Repubblica Federale Tedesca c. Repubblica Italiana) la quale dichiara contraria al principio della immunità giurisdizionale statale la condanna della Germania al risarcimento civile (e relativa esecuzione della sentenza) da parte di organi giudiziari italiani per illeciti commessi dal regime tedesco durante la Seconda guerra mondiale.

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torio dove si trova il foro; ed infine il principio di universalità (cd. uni-versality principle) che permette a tutti gli Stati di processare gli autori di alcune violazioni del diritto internazionale indipendentemente dalla nazionalità dell’autore, della vittima o dal luogo di commissione5. La maggior parte dei casi contemporanei che perseguono violazioni di di-ritti umani si basano o sul principio della personalità passiva oppure su quello della giurisdizione universale. In altri casi la competenza deriva da leggi speciali nazionali per l’esercizio della giurisdizione extraterri-toriale in caso di gravi crimini internazionali6.

Altro problema di tipo procedurale è quello relativo alla legittima-zione dei soggetti. Va rilevato innanzitutto, con riferimento alla legit-timazione attiva, che finché si tratta di singoli che abbiano subito dan-ni in prima persona (i.e. sopravvissuti all’Olocausto o ad altri episodi di violazione di diritti umani), le corti hanno tendenzialmente ricono-sciuto quantomeno la legittimazione a proporre l’azione (salvo poi al-tre decisioni sulla procedibilità). Laddove invece le azioni siano state proposte da discendenti di persone vittime di violazione di diritti umani, il riconoscimento della legittimazione è stato meno pacifico.

Per quanto riguarda invece la legittimazione passiva dei convenuti, si segnala da una parte una pressoché impossibilità di convocare in giudizio entità statali o sovrane. Dall’altra, anche per le corporations o le entità private in generale, che pure sono state citate in giudizio, non mancano problemi relativi alla natura della loro responsabilità ed al corretto fondamento della citazione nei loro confronti, soprattutto laddove si tratti di una responsabilità indiretta7.

5 Cfr. I. Brownlie, Principles of Public International Law, Oxford, 1998, (V ed.),

303-308; P. R. Dubinsky, Human Rights Law Meets Private Law Harmonization: The Coming Conflict, in 30 Yale J. Int’l L. 258 (2005).

6 Si veda ad esempio la legge belga (Loi du 16 juin 1993 relative à la répression des infractions graves aux Conventions internationals de Genève) che permette alle corti belghe di processare gli autori di violazioni delle convenzioni di Ginevra e loro proto-colli, competenza poi estesa nel 1999 (Loi du 10 février 1999) al genocidio ed ai crimi-ni contro l’umanità in base al principio della giurisdizione universale. Similmente sta-bilisce il § 64 Abs. 1 del codice penale austriaco (StGB). Il codice di procedura penale francese ad esempio all’art. 689-1 codifica una forma di competenza giurisdizionale basata sulla cd. personalità passiva (giurisdizione extraterritoriale quando la vittima è francese). Cfr. B. Van Schaack, In Defense of Civil Redress: The Domestic Enforcement of Human Rights Norms in the Context of the Proposed Hague Judgments Convention, in 42 Harv. Int’l L.J. 145 (2001).

7 Cfr. per esempio, con riferimento alla corporate liability, A.J. Sebok, Taking Tort Law Seriously in the Alien Tort Statute, in 33 Brooklyn J. Int’l. L. 871 (2008); P. I. Blumberg, Asserting Human Rights Against Multinational Corporations Under United States Law: Conceptual and Procedural Problems, in 50 Am. Journal of Comp. Law 493 (2002); R.G. Steinhardt, Soft Law, Hard Markets: Competitive Self-Interest and the Emergence of Human Rights Responsibilities for Multinational Corporations, in 33

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Infine tra i più significativi ostacoli di tipo procedurale per lo svol-gimento dei contenziosi in esame vi è il problema della prescrizione delle azioni civili, trattandosi di procedimenti per fattispecie anche molto risalenti storicamente. Questo problema è stato affrontato ricor-rendo a diversi stratagemmi interpretativi delle regole in materia di prescrizione, quale ad esempio la cd. regola della equitable tolling ap-plicata da alcune corti statunitensi per interrompere il decorso della prescrizione in alcune ipotesi di impedimento all’azione particolar-mente gravi. In altri casi ci sono stati interventi legislativi ad hoc per introdurre delle deroghe allo Statute of Limitations8.

Per poter inquadrare i problemi posti dal contenzioso della Holo-caust litigation è necessario dar conto brevemente dei maggiori proce-dimenti iniziati e riuniti sotto forma di class actions davanti a tribunali civili statunitensi. A tale scopo il contenzioso può essere raggruppato in alcune categorie, che pur non essendo esaustive di tutte i procedi-menti, comprendono i casi più noti. Trattasi in particolare del conten-zioso contro le banche svizzere; del contenzioso contro altre banche (austriache e tedesche principalmente); del contenzioso per lavoro re-so in condizioni di schiavitù; del contenzioso contro le assicurazioni.

Brooklyn J. Int’l L. 933 (2008); S. R. Ratner Corporations and Human Rights: A Theory of Legal Responsibility, in 111 Yale L. J. 443 (2001-2002).

8 Si veda il caso della legislazione statale della California emanata durante i con-tenziosi relativi ai lavori resi in condizione di schiavitù da persone internate in campi di prigionia durante la Seconda guerra mondiale (Cal. Civ. Proc. Code § 354,6 (West 2000)). Cfr. M. J. Bazyler, The Holocaust Restitution Movement in Comparative Per-spective, in 20 Berkeley J. Int’l L. 26 (2002).

La rilevanza del problema della prescrizione è emersa con evidenza inter alia per i contenziosi relativi ai beni mobili rubati e trafugati, con particolare riferimento alle opere d’arte, tanto che le difformità tra le regole nazionali in materia di momento di decorso della prescrizione ed il problema del consolidamento della proprietà in segui-to al possesso del terzo acquirente di buona fede è stata oggetto di conferenze interna-zionali (i.e. Washington Conference on Holocaust-Era Assets del 1988 e relativi Wa-shington Principles). Cfr. anche J. A. Kreder, Reconciling Individual and Group Justice with the Need for Repose in Nazi-Looted Art Disputes: Creation of an International Tri-bunal, in 73 Brooklyn L. Rev. 171 (2007).

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2. I casi 2.1. La Swiss bank litigation La recente Holocaust-Era litigation (dopo diversi precedenti senza

successo proposti negli Stati Uniti ma non solo9, e senza includere gli Accordi di Riparazione politici ed i procedimenti che ne sono ti10), trova il punto di avvio negli Stati Uniti alla fine del 1996 con la riunione in un’unica class action di diversi contenziosi contro banche svizzere e nota come In Re Holocaust Victim Assets Litigation 11. L’azione collettiva davanti alla Federal District Court di New York contestava ai convenuti diversi elementi, che si possono riassumere in tre distinte accuse: a) la mancata restituzione da parte delle banche convenute di beni depositati da cittadini di religione ebraica che vole-vano proteggere i propri averi alla luce della persecuzione da parte dei nazisti (nota come “azione dei conti dormienti”); b) il deposito e la commercializzazione da parte delle banche di beni depredati agli ebrei dai nazisti (nota come “azione dei beni depredati/razziati”); c) il com-mercio dei beni (o meglio dei proventi) prodotti del lavoro in condi-zioni di schiavitù (i proventi dei beni così prodotti, poi venduti, erano stati depositati presso le banche), nota come “azione del slave labour”.

Gli attori formularono una richiesta di risarcimento (comprensiva anche di punitive damages) per violazione di obblighi fiduciari, ina-dempimento contrattuale, distrazione di beni dei convenuti, ingiustifi-cato arricchimento, negligenza, violazione del diritto internazionale consuetudinario, violazione del diritto bancario svizzero, violazione del diritto delle obbligazioni svizzero, frode e cospirazione, occulta-mento dagli attori di fatti rilevanti con il fine di frustrarne le possibilità di perseguire un’azione legale12.

La class action contro le banche svizzere si concluse con una tran-sazione (di fatto prima che i giudici potessero decidere sulle questioni, pure sollevate dai convenuti, relative alla giurisdizione). La concilia-zione della In re Holocaust Victim Assets Litigation, raggiunta nel 1998

9 Cfr. Kelberine v. Sociète Internationale, 363 F. 2d. 989 (D.C. Cir. 1966); Handel

v. Artukovic, 60F. Supp.42 (C.D. Cal. 1985); Princz v. Federal Republic of Germany, 26 F 3d 66 (D.C. Cir. 1994).

10 Cfr. la Bundesentschädigungsgesetz del 1956, il London Agreement on German External Debts del 1953, gli accordi politici di Riparazione bilaterali siglati tra il Go-verno tedesco e quello israeliano per esempio.

111998 U.S. Dist LEXIS 18014 (E.D.N.Y. Oct. 7 1998). 12 Cfr. In re Holocaust Victim Assets Litigation, 96 Civ. 4849 (ERK)(MDG), Unit-

ed States District Court for the Eastern District of New York, 105 F. Supp. 2d. 139, 2000.

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(con un totale 1.25 miliardi di dollari da pagare in 3 anni) identificò cinque categorie di attori legittimati a ricevere i pagamenti dall’apposito Fondo: a) la categoria di titolari di “beni depositati”; b) la categoria di titolari di “beni depredati”; c) la categoria dei “lavorato-ri in condizioni di schiavitù I”; d) la categoria dei “lavoratori in condi-zioni di schiavitù II”; e) la “categoria dei rifugiati”. La conciliazione ebbe come ulteriore e fondamentale esito quello di precludere qualsia-si azione futura contro lo Stato svizzero e le imprese svizzere relativa ad eventi legati alla Seconda guerra mondiale.

Il “modello” utilizzato per la conciliazione di questa class action divenne il modello utilizzato per tutte le successive azioni relative a pretese risarcitorie legate agli eventi dell’Olocausto (e fu infatti invoca-to da altre imprese private come banche ed assicurazioni convenute in casi simili).

Dal punto di vista strettamente giuridico, il fondamento giurisdi-zionale della class action contro gli istituti bancari svizzeri venne indi-viduato dagli attori (legittimati a convenire in giudizio banche stranie-re davanti alle district courts federali statunitensi in base alla cd. diver-sity o alienage jurisdiction13 e/o in base alla cd. federal question14) nell’Alien Tort Claims Act15.

L’Alien Tort Claims Act (una legge risalente al 1789 e che a lungo non ebbe particolare rilievo nella storia procedurale statunitense) sta-bilisce che le corti federali distrettuali hanno competenza giurisdizio-nale per qualsiasi azione civile promossa da uno straniero per un illeci-to civile commesso in qualsiasi luogo (anche fuori dal territorio statu-nitense) in violazione della “law of nations” o di un Trattato, laddove la “law of nations” si identifica con il moderno diritto internazionale16.

13 8 U.S.C. §1332 (2002). 14 28 U.S.C § 1331(2001). 15 28 USC § 1350, (2002). 16 Il ricorso allo strumento dell’Alien Tort Claims Act per istruire procedimenti di

cd. human rights litigation davanti a corti statunitensi fu reso possibile in seguito al precedente stabilito con la decisione del caso Filartiga v. Pena–Irala, [630 F2d. 876 (2d Cir. 1980)], in cui l’uso della tortura da parte di uno Stato - il Paraguay nel caso specifico- venne considerato come fattispecie di tort inegrante una violazione di diritto internazionale. Alla luce dell’incremento di questo tipo di procedimenti seguiti al caso Filartiga, nel 1992 il Congresso approvò un ulteriore importante provvedimento che è stato alla base anche della Holocaust litigation: la Torture Victims Protection Act (Act 12, 1992 P.L. 102-256 Stat.73, codified at 28 U.S.C. § 1350, 1994). In base a questa seconda legge, vi sarebbe una competenza specifica delle corti federali statunitensi a giudicare sulla pratica della tortura o l’esecuzione sommaria commesse ovunque nel mondo, purché l’imputato abbia agito “under color of law of a foreign nation” e ciò indipendentemente dalle nazionalità (statunitense o meno) dell’attore e del convenuto.

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Eventuali problemi per l’applicazione dell’Alien Tort Claims Act si potrebbero porre nel caso in cui una norma di diritto internazionale, di cui si adduce una violazione, dovesse risultare in conflitto con il di-ritto dei torts di common law; ma almeno per i casi che si sono presen-tati finora davanti alle corti questo sembra essere un falso problema, dal momento che per ogni fattispecie di diritto internazionale di cui si è invocata la violazione si è trovato un tort corrispondente17.

2.2. La Austrian and German banks litigation In seguito alla class action contro le banche svizzere nel 1998 fu

promossa un’altra class action da parte di tre sopravvissuti all’Olo-causto contro due banche tedesche18, con l’accusa di ingiustificato ar-ricchimento derivante da oro e altri beni personali depredati agli ebrei (dovute al cd. processo di “arianizzazione” dei conti e dei depositi). Ne seguirono citazioni in giudizio contro altre banche tedesche ed au-striache e le cause furono riunite nel marzo del 1999 nell’unica In re Austrian and German Bank Holocaust Litigation davanti alla US Di-strict Court for the Southern District of New York. Le banche austria-che chiusero con una transazione pari a 40 milioni di dollari nel 2000 (anche qui in seguito alla istituzione di un apposito “Fondo austriaco per la riconciliazione, pace e cooperazione” creato da Governo ed in-dustria austriache).

Seguirono altre class actions istruite presso la Corte federale di New York e la Corte statale della California a San Francisco promosse da attori americani e stranieri contro banche francesi per la confisca dei beni dei depositari attraverso la “arianizzazione dei conti” avvenu-ta nella Francia sotto occupazione tedesca19; vennero chiamati in causa per la stessa fattispecie anche una banca britannica e due istituti finan-

17 In effetti per i casi presentati finora, virtualmente ogni presunta violazione di

diritto internazionale evocata ai sensi dell’Alien Tort Statute trovava una fattispecie corrispondente nella tort law statunitense (i.e. genocidio, tortura, stupro, lavori forzati, sono tutti casi di battery, assault, intentional infliction of emotional distress, false impri-sionment e così via). Cfr. A. J. Sebok, Taking Tort Law Seriously in the Alien Tort Statute, cit., 886. Lo stesso problema di sovrapposizione tra torts e crimes si è posto di fronte a tribunali inglesi, con esiti simili per quanto riguarda ad esempio il reato della tortura, che presenta gli estremi sia di crimine sia di un tort civile (così Al-Adsani v. Gov’t of Kuwait, 107 I.L.R. 536, 540, Eng. C.A. 1996). Cfr. B. Van Schaack, In De-fense of Civil Redress, cit., 144.

18 Watman v. Deutsche Bank, 98 Civ. 3938 (S.D.N.Y. filed June 3, 1998); cfr. an-che D’Amato v. Deutsche Bank, 236 F.3d 78 (2d. Cir. 2001) e Ungaro-Benages v. Dresdner Bank AG, No. 1:01 CV 2547 (S.D. Fla. June 18, 2001).

19 Bodner v. Banque Paribas, 114 F. Supp. 2d 117 (E.D.N.Y. 2000); Mayer v. Banque Paribas, no. BC 302226 (Cal. Super. Ct. filed Mar. 24, 1999).

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ziari statunitensi che all’epoca dei fatti avevano filiali sul territorio francese. Mentre l’istituto britannico accettò subito di chiudere con una transazione pari a 3.6 milioni di dollari, gli altri istituti si rifiutaro-no e chiesero l’archiviazione giudiziaria. Quando questa venne negata dalle corti, le banche furono costrette anch’esse a raggiungere una transazione (attraverso l’istituzione di due fondi specializzati, per il ri-sarcimento rispettivamente di coloro che avevano prove documentali dell’esistenza di depositi presso le banche durante la guerra, e di colo-ro le cui richieste, prive di sostegno probatorio certo, dovevano essere valutate da apposita commissione). Si segnalano poi casi di unclaimed assets persino contro banche in Israele (all’epoca sotto il mandato bri-tannico), che avevano ricevuto depositi da parte di profughi ebrei prima di ottenere il permesso per poter emigrare nella Palestina sotto il mandato britannico e che poi rimasero vittime del regime nazista (anche qui in seguito alle pressioni derivanti dai precedenti svizzeri, gli istituti bancari in questione, successori della Banca “Anglo-Palestine”, aprirono un processo per la conciliazione delle questioni a partire dall’anno 2000).

2.3. La slave labour litigation Il primo e più noto procedimento relativo al lavoro reso in condi-

zioni di schiavitù presso imprese private da parte di cittadini prigionie-ri o deportati dal regime nazionalsocialista è Iwanowa v. Ford Motor Co., svoltosi negli Stati Uniti nel 1999 davanti alla District Court per il New Jersey20. Fu convenuta la Ford Motor Company in quanto ritenuta responsabile per l’operato della propria filiale tedesca, la Ford Werke di Colonia, presso i cui impianti durante il periodo bellico si fece uso di lavoro reso in condizioni di schiavitù da soggetti civili (e tra questi si trovava anche l’attrice, di nazionalità belga, deportata dai nazisti dall’Unione Sovietica e costretta al lavoro forzato presso la fabbrica in questione).

L’azione trovava il suo fondamento negli istituti della restitution e dell’ingiustificato arricchimento, di quantum meruit e quasi-contract ai sensi della legislazione degli Stati del Michigan e del Delaware; nell’ingiustificato arricchimento ai sensi della legislazione tedesca (§812 BGB); nella violazione del diritto internazionale (sulla base del principio consuetudinario di diritto internazionale che proibisce la ri-duzione in schiavitù di popolazioni conquistate e sui Principi di No-rimberga che proibscono i crimini di guerra ed i crimini contro

20 67 F. Supp. 2d 424, 1999; si veda anche l’altro noto slave labour case: Burger-

Fischer v. Degussa, 65 F. Supp. 2d 248 (D.N.J. 1999).

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l’umanità). L’attrice chiedeva il disgorgement di tutti i benefici econo-mici derivati ai convenuti come risultato del suo lavoro forzato; un adeguato compenso per il valore della prestazione lavorativa resa; ed il risarcimento del danno per condizioni disumane cui era stata sottopo-sta presso la Ford Werke.

I convenuti eccepivano la prescrizione biennale applicabile ai con-tratti di lavoro (ex §196 (1) (9) BGB) e la non giustiziabilità di azioni basate su pretese risarcitorie aventi carattere di riparazione post belli-ca. A questi argomenti gli attori rispondevano invocando invece la prescrizione ventennale per le azioni per ingiustificato arricchimento o in subordine la prescrizione di sei anni per la responsabilità extracon-trattuale.

In uno dei pochi casi della Holocaust litigation in cui la corte adita arrivò a pronunciarsi sulla ammissibilità dell’azione prima che si giun-gesse a una soluzione extra-giudiziale, la Corte del New Jersey inflisse una battuta di arresto a quello che sembrava essere un’ondata di azioni iniziate e potenzialmente proponibili: accolse infatti le eccezioni di prescrizione e di non-giustiziabilità avanzate dai convenuti. Decisione che successivamente la Corte di appello, pure adita dagli attori soc-combenti, non fece in tempo a riesaminare, in quanto il raggiungimen-to nel dicembre 1999 di un accordo extragiudiziale tra Governo ed in-dustria tedeschi e gli attori rese il caso moot21.

La cd. slave labour litigation dal punto di vista del numero di sog-getti cui è stato accordato un risarcimento rappresenta la fattispecie di contenzioso legato agli eventi dell’Olocausto di maggior successo. Venne infatti riconosciuta la legittimazione ai sopravvissuti agli eventi (non agli eredi), per un totale di circa un milione di persone ancora in vita ai tempi del raggiungimento dell’accordo. Al tempo stesso, è pro-prio la slave labour litigation ad aver evidenziato molti dei problemi di giustiziabilità di questo tipo di contenzioso, costituendo inoltre uno dei pochi casi in cui vi è stata una pronuncia (per quanto in primo grado) sulle problematiche questioni di prescrizione e giustiziabilità ratione materiae delle pretese avanzate dagli attori.

2.4. Le insurance claims La quarta categoria di contenzioso legata agli eventi dell’Olocausto

è il cd. contenzioso contro le società di assicurazioni. Le class actions

21 L’accordo extragiudiziale doveva essere valido anche per tutti i casi futuri, con

l’impegno inoltre per il Governo statunitense di intervenire in sostegno dei convenuti nell’ipotesi di riproposizione di class action simili. Fu seguito dalla istituzione di appo-sito fondo per i risarcimenti, la German Economy Foundation Initiative.

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iniziate negli Stati Uniti da parte di eredi, o diretti beneficiari di premi derivanti da contratti di assicurazione sulla vita e sui beni stipulate prima della Seconda guerra mondiale da soggetti periti durante l’Olocausto, accusavano le imprese assicuratrici di inadempimento contrattuale ed ingiustificato arricchimento per non aver versato i do-vuti indennizzi ai soggetti legittimati (oltre alla violazione di obblighi fiduciari e contabili, di obblighi di trasparenza ed informazione, di di-strazione di beni e di mala fede)22. Anche qui il procedimento venne portato fuori dalle aule di tribunale con l’istituzione di un’apposita Commissione (la International Commission on Holocaust Era Insurance Claims) e pressioni per una conciliazione vennero esercitate anche dai regolatori statali (competenti per la concessione della licenza alle im-prese di assicurazione). Tuttavia questo contenzioso in particolare, per le procedure di ripartizione di fondi, nonché per la sua lentezza, di-venne oggetto di molte critiche23.

3. Questioni 3.1. Fondamento dell’azione e circolazione del “modello” di conten-

zioso Come accennato poc’anzi, il comune fondamento di queste azioni

risiede in un ingiustificato arricchimento da parte di un’entità privata (di solito un istituto bancario, una società di assicurazioni o un’impresa) ai danni di vittime dell’oppressione nazista, realizzatosi approfittando dello loro stato di necessità e di difficoltà. L’articola-zione delle singole azioni tuttavia trova dei fondamenti specifici diver-si.

Nello specifico, la litigation contro gli istituti bancari svizzeri si ar-ticolava sia in un’azione per inadempimento contrattuale e per respon-sabilità da illecito (laddove i beni fossero stati depositati volontaria-mente presso le banche e mai restituiti) sia in un tipico istituto dell’ingiustificato arricchimento in common law quale il cosiddetto bailment/constructive trust case24 (laddove gli istituti bancari avessero consapevolmente ricevuto beni trafugati o razziati). La litigation con-

22 Winters v. Assicurazioni Generali S.p.A., No. 98 Civ. 9186 (S.D.N.Y. filed Dec. 30, 1998); Cornell v. Assicurazioni Generali S.p.A., No. 97 Civ. 2262 (S.D.N.Y. filed Mar. 31, 1997).

23 M.J. Bazyler, The Holocaust Restitution Movement in Comparative Perspective, in 20 Berkeley J. Int’l L. 22 (2002).

24 Cfr. Memorandum of Law presentato da B. Neuborne, In re Holocaust Victim Assets CV-96-4849 (ERK) (MDG).

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tro le banche tedesche ed austriache complici della cd. arianizzazione dei conti correnti si basava su di un azione per ingiustificato arricchi-mento derivante dalla appropriazione dei beni di persone perseguitate dal regime nazionalsocialista e dal profitto tratto dallo sfruttamento del lavoro forzato25. La litigation contro le assicurazioni si basava su di una classica azione per inadempimento contrattuale; mentre la litiga-tion per il lavoro reso in condizioni di schiavitù sollevava questioni di quantum meruit e di ingiustificato arricchimento per aver tratto profit-to del lavoro senza averne pagato equo corrispettivo sotto forma di re-tribuzione26.

Oltre all’accennato fondamento civilistico delle azioni, gli attori cercarono di individuare anche un fondamento internazional-pub-blicistico per i procedimenti. Tuttavia, data la difficoltà di far rientrare l’attività di questi attori privati nella categoria dei crimini internaziona-li contro l’umanità, la strada intrapresa dagli attori fu quella di indivi-duare un fondamento di tipo privatistico (la detenzione dei beni frutto di un ingiustificato arricchimento in constructive trust per conto delle vittime) in cui l’illecito identificabile fosse quello del concorso nel rea-to e favoreggiamento nella commissione di crimini27.

Centrali in questa ricostruzione- e cruciali per l’eventuale successo di una riproposizione del modello della Holocaust litigation come mo-dello per altre fattispecie di human rights litigation- sono stati alcuni elementi costitutivi della fattispecie dell’ingiustificato arricchimento. Innanzitutto l’individuazione di un ingente trasferimento di ricchezza a soggetti identificabili, che da tale trasferimento hanno tratto ingiusti-ficato arricchimento; poi la dimostrazione che tali trasferimenti erano illegittimi; infine la possibilità di ottenere il ritrasferimento della ric-chezza attraverso la richiesta di restituzione del profitto indebitamente tratto a vittime identificabili28.

A seguito della Holocaust litigation, diversi gruppi di sopravvissuti o eredi di vittime di fatti bellici hanno intrapreso azioni simili (sempre presso corti statunitensi) per ottenere lo stesso tipo di risarcimento. Si segnalano innanzitutto azioni intraprese dai prigionieri di guerra ame-ricani costretti ai lavori forzati in Giappone contro le industrie nippo-

25 In Re Austrian and German Bank Holocaust Litigation, Master File No. 98 Civ.

3938 (SWK) 80 F. Supp 2d 164. 26 Iwanowa v. Ford Motor Co., a p. 432; Cfr. B. Neuborne, Holocaust Reparations

Litigation: Lessons for the Slavery Reparations Movement, in 58 NYU Annual Survey of American Law 618 (2003).

27 Ibid. 28 B. Neuborne, Holocaust Reparations Litigation: Lessons for the Slavery Repara-

tions Movement, cit., 619.

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niche29 e le azioni delle cd. comfort women dell’esercito nipponico30. Queste azioni furono rigettate (anche a seguito di decisivi interventi a favore dei convenuti da parte del Governo statunitense) perchè in con-trasto con il Trattato di Pace firmato tra gli Alleati ed il Giappone e perchè si trattava di azioni ormai prescritte31.

Seguì un contenzioso molto simile alle Holocaust insurance claims, portato avanti da sopravvissuti al genocidio degli Armeni durante la Prima guerra mondiale che agivano contro imprese assicuratrici euro-pee e statunitensi per il mancato pagamento agli eredi dei premi delle polizze sulla vita stipulate da cittadini armeni sterminati32. L’azione si chiuse con una conciliazione.

Altro importante filone di casi che ripresero un certo vigore in se-guito agli esiti della Holocaust litigation fu quello proposto eredi degli schiavi americani33. Se da un lato queste azioni furono rigettate per ec-cezioni di tipo processuale34 è interessante notare che anche questo contenzioso si è basato su istituti del diritto civile, quale la conversion e la restitution, per chiedere il risarcimento monetario sia da alcune compagnie accusate di aver tratto profitto dal lavoro reso dagli schiavi, sia da alcune imprese assicuratrici e bancarie la cui attività era legata al commercio degli schiavi.

Infine il processo di cd. privatizzazione del contenzioso sui diritti umani si manifestò anche in un filone di procedimenti davanti a corti statunitensi contro imprese private e multinazionali accusate a vario titolo di sfruttamento e/o cooperazione con autorità o regimi statali

29 Tra i primi casi Levenberg v. Nippon Sharyo Ltd. No. C-99-1554 (N.D. filed

March 16, 1999) e Jackfert v. Kawasaki Heavy Industries Ltd., No. CIV 99 1019 (D.N.M. filed Sept. 13, 1999); poi riuniti in In re World War II Era Japanese Forced Labor Litigation, 114 F. Supp. 2d 939 (N.D. Cal. 2000).

30 Hwang Geum Joo v. Japan, No. 00-CV-288 (D.D.C. filed April 27, 2001). 31 Cfr. M.J. Bazyler, The Holocaust Restitution Movement in Comparative Perspec-

tive, cit., 26 ss. 32 Marootinan v. New York Life Ins. Co. C.D. Cal. Filed Jan. 17, 2000. 33 Tra cui il caso Cato v. United States (70 F. 3d 1103 (9th Cir. 1995)); cfr. anche

In re African-Am. Slave Descendants Litig., 304 F. Supp. 2d 1027 (N.D. III. 2004). 34 L’azione In re African-American Slave Descendants fu infatti ritenuta inammis-

sibile sia per l’eccessivo tempo trascorso dai fatti (ai sensi dello statue of limitations) sia per il fatto che gli attori non avessero subito pregiudizio in prima persona- essendo solo discendenti di schiavi- e pertanto non avevano lo standing necessario. La corte tuttavia rinviò la questione al legislatore, in ossequio alla cd. politcal question doctrine, affinché valutasse l’opportunità di un eventuale intervento riparatore in materia (in assenza di una sufficiente base giuridica su cui promuovere l’azione in sede processua-le). Ne seguirono diverse proposte di legge nel Congresso per affrontare il problema (si veda i.e. “The Commission to Study Reparations Proposals for African Americans Act” H.R. 40, 105th Cong., 1997).

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(i.e. militari o del periodo coloniale)35. Secondo gli attori, la condotta di queste multinazionali avrebbe integrato gli estremi di complicità nella violazione di diritti umani. Anche qui si è constatata la tendenza o a negare la legittimazione attiva e/o il fondamento giuridico dell’azione, oppure a chiudere il contenzioso con accordi extragiudi-ziali.

3.2. La “privatizzazione” dei contenziosi per la violazione dei diritti

umani Che la storia possa essere oggetto di un processo giuridico non è

una novità specialmente, in epoca contemporanea, alla luce dell’importante precedente di Norimberga. Se da una parte i procedi-menti in esame sono legati a quelli che vengono talvolta definiti “con-stitutional torts” (ovvero moderni processi contro governi accusati di violazione di diritti costituzionali esistenti)36, dall’altra dagli stessi si differenziano per alcuni elementi. I contenziosi in oggetto si distin-guono dai precedenti procedimenti di “giuridificazione” della storia per quanto riguarda in particolare il ramo del diritto (il diritto priva-to), i soggetti (sia attori che convenuti sono persone fisiche o giuridi-che private, non vi sono Stati convenuti) e lo strumentario (gli istituti tipici del diritto privato) scelti per ottenere un risultato giuridico.

Trattasi di procedimenti impostati – almeno nella loro fase iniziale- come normali processi civili, aventi però ad oggetto fatti risalenti ad almeno cinquanta anni prima dell’avvio dei processi. Questo dato sto-rico, ovvero la relativa “anzianità” dei fatti, costituisce una delle parti-colarità ed uno degli ostacoli al normale svolgimento dei processi.

La volontà di iniziare degli ordinari procedimenti per inadempi-mento contrattuale o per ingiustificato arricchimento, nonché per ille-citi civili, e di avvalersi quindi dei normali strumenti del diritto civile (la cd. “privatizzazione” dei contenziosi), si scontra infatti con la stori-cità dei fatti all’origine delle azioni stesse, ovvero con i limiti fisici (te-

35 Anche questa litigation trovò la sua base nell’Alien Tort Claims Act. Si possono

citare alcuni casi contro compagnie petrolifere quali ad esempio Doe v. Unocal, 248 F.3d 915, (9th Cir. 2001) e Wiwa v. Royal Dutch Petroleum Co., 96 Civ. 8386 (S.D.N.Y.) 226 F. 3d 88 (2d Cir. 2000) (entrambi chiusi con una conciliazione extra-giudiziale); mentre il caso Beanal v. Freeport-McMoran, Inc., 197 F 3d 161 (5th Cir. 1999) ed il caso Hereros ex re. Riruako v. Deutsche Afrika-Linien Gmblt.&Co., 232 Fed Appx. 90 (3d Cir. 2007) vennero entrambi rigettati dalle corti adite per vizi legati al fondamento dell’azione.

36 Cfr. K. Cooper-Stephenson, Theoretical Underpinnings for Reparations: A Con-stitutional Tort Perspective, in 3 Windsor Y.B. Access Just. 4 (2003).

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stimonianze, esistenza/sopravvivenza di prove documentali) e giuridici (la prescrizione) connaturati agli eventi oggetto di giudizio.

Storicità che introduce dunque nel processo degli elementi talmen-te rilevanti per la stessa procedibilità, da caratterizzarli profondamente e da richiedere degli interventi “correttivi” dall’esterno per permetter-ne lo svolgimento. È la stessa storicità che quindi spiega inter alia la forte interferenza politica in questi stessi procedimenti; intervento po-litico che si concretizza innanzitutto nella decisione circa l’opportunità di rendere “giustiziabili” determinati illeciti civili ed in secondo luogo, laddove sia affermativa la prima volontà, di approntare anche gli stru-menti giuridici per permettere concretamente che tali fattispecie siano giustiziabili secondo gli “ordinari” strumenti del diritto privato (senza avvalersi di leggi militari, di leggi speciali, ne tantomeno di tribunali ad hoc per crimini di guerra o di diritto internazionale pubblico).

Si pensi ad esempio al ruolo della politica (in questo caso contra-stante) nella citata adozione prima di deroghe allo Statute of Limita-tions con provvedimento legislativo dallo Stato della California37 per permettere azioni giudiziarie da parte di lavoratori forzati durante la Seconda Guerra mondiale contro imprese nipponiche, e la successiva pronuncia di incostituzionalità dello stesso provvedimento per incom-petenza statale a legiferare in materia di “riparazioni” belliche in senso lato38. Si pensi anche all’utilizzo “politico” di alcuni dei criteri di dirit-to internazionale riguardanti la giurisdizione per determinare la com-petenza delle corti statunitensi. Si è parlato non a caso di ‘risorgenza delle teorie di giurisdizione basate sul potere’, quali ad esempio il principio della territorialità o della cd. giuridizione transitoria (il cui utilizzo nel caso Filartiga v. Pena-Irala costituisce il leading case in ma-teria di azioni civili originate da violazione di diritti umani ) o quello della passività personale.39

Che oggetto di giudizio poi non siano i crimini di guerra in quanto tali, bensì i danni economici conseguenti al compimento non solo di tali crimini ma di atti talvolta semplicemente legati a tali crimini, non modifica le difficoltà oggettive nel condurre un processo puramente giurisdizionale. Se il tentativo è quello di utilizzare le aule di giustizia civile per ottenere attraverso un “normale” processo civile, un “nor-male” risarcimento monetario, tuttavia, che questo tipo di contenzioso non rientri a pieno negli schemi classici dell’istituto dell’illecito civile

37 California Civil Procedure Code Section 354.6. 38 Deutsch v. Turner Corp., 317 F. 3d 1005, 1030 (9th Cir. 2003) [già In re World

War II Era Japanese Forced Labor Litig., 164 F. Supp. 2d 1153, 1160 (N.D. Cal. 2001)]; Cfr. E.J. Cabraser, Human Rights Violations as Mass Torts, cit., 2224.

39 P. R. Dubinsky, Human Rights Law Meets Private Law Harmonization, cit., 258 ss.

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anche a causa della sua intrinseca “storicità”, è dimostrato dalle diffi-coltà concettuali nell’applicarvi le teorie dottrinali relative alle funzioni della responsabilità civile: dalla tradizionale contrapposizione tra giu-stizia correttiva e giustizia distributiva alle più moderne interpretazioni in chiave di analisi economica del diritto40.

Anche il fatto che questo contenzioso miri ad ottenere un “risar-cimento” invece che una “riparazione” non è scevro di difficoltà ed anzi ne costituisce al tempo stesso- e paradossalmente- una caratteriz-zazione innovativa, un punto di forza, ed una debolezza. La caratteriz-zazione in senso innovativo è dovuta al primato di una richiesta di ri-sarcimento da parametrare alla normale liquidazione di un danno pa-trimoniale, spogliato degli elementi di diritto pubblico connaturati al concetto di “riparazione”. Il punto di forza nell’agire per ottenere un risarcimento a titolo di illecito civile risiede di conseguenza nel caratte-re quasi “neutrale” di tale tipo di azione: laddove si voglia per un mo-mento ignorare o mettere da parte i fatti che hanno circondato gli ille-citi in sè, l’azione si potrebbe davvero ridurre sul piano di un inadem-pimento contrattuale, un illecito civile, o una generale azione per in-giustificato arrichimento. Si aggira in qualche modo oltretutto l’ostacolo circa la “moralità” di accettare una compensazione moneta-ria (una “riparazione” per l’appunto) volta a riparare un torto di guer-ra e si riduce la questione alla determinazione di un quantum derivante da inadempimento di una prestazione.

Tuttavia, dal punto di vista strettamente processuale, è stato altresì rilevato come sia molto problematico accettare che la liquidazione del danno, determinata da una conciliazione sia -come richiesto ai sensi della Federal Rule of Civil Procedure 23(e)(2) per le class actions- “equa, adeguata e ragionevole” laddove si consideri le atrocità sotto-stanti le azioni civili41.

E quindi proprio l’ignorare le circostanze ed i fatti che hanno ac-compagnato gli eventi rischia di diventare la debolezza, ovvero un’arma a doppio taglio: è solo laddove si prendano in considerazione la gravità, atrocità, ed eccezionalità dei fatti storici che hanno portato al compimento degli “illeciti” in questione che si possono aggirare gli ostacoli di giustiziabilità che inevitabilmente sorgono laddove si vo-gliano applicare le regole inerenti ad una normale procedura giudizia-ria. Non si tratta, e non si può trattare di un procedimento completa-mente ‘neutrale’ perchè ove fosse tale non vi sarebbe spazio per una sua “giustiziabilità”.

40 Cfr. K. Cooper-Stephenson, Theoretical Underpinnings for Reparations: A Con-

stitutional Tort Perspective, cit., passim. 41 E.J. Cabraser, Human Rights Violations as Mass Torts, cit., 2228.

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Volendone designare le caratteristiche più salienti, è stato dunque suggerito che la cd. human rights litigation abbia comportato la crea-zione di un prototipo ibrido di ‘mass torts’ in materia di diritti umani che combina il diritto internazionale e la common law per il contenuto sostanziale e utilizza per la procedura l’istituto della class action e la competenza giurisdizionale espansiva attualmente riconosciuta dalle corti statunitensi42.

3.3. Considerazioni conclusive Sono diversi gli elementi, tra loro inscindibili, che secondo gli os-

servatori ed i protagonisti hanno permesso alla Holocaust litigation di svolgersi negli Stati Uniti e di diventare un possibile modello per un certo tipo di contenzioso43.

Innanzitutto, si rileva la presenza di una serie di istituti di diritto processuale e sostanziale, ovverosia l’elemento relativo al sistema giuri-sdizionale. Oltre all’istituto della class action, (ed il sistema del patto quota lite per quanto riguarda i compensi dei legali) si può ricordare l’importanza dell’istituto della discovery utilizzabile già in fase pre-dibattimentale, l’esistenza dei punitive damages, ed il ruolo della giuria nei procedimenti. Il sistema della common law statunitense inoltre si caratterizza per una grande flessibilità sia nella possibilità di creare ri-medi nuovi, sia per la relativa discrezionalità del giudice (elementi ri-conducibili all’equity ed al suo strumentario).

Tuttavia proprio le caratteristiche del sistema giurisdizionale sta-tunitense presentano al tempo stesso, secondo i fautori di un nuovo modello di litigation per la violazione dei diritti umani, anche una forte limitazione dovuta al fatto che la struttura del processo presenta diver-si incentivi alla conciliazione extragiudiziale (con cui in effetti si è con-clusa la maggior parte delle class actions proposte).

Altro elemento che ha permesso (o incentivato) lo svolgimento di una human rights litigation della portata storica della Holocaust litiga-tion è stata la forte connotazione politica e diplomatica che ha caratte-rizzato i procedimenti e che ha visto la diretta partecipazione di attori pubblici in varie fasi processuali. Questo tipo di contenzioso secondo

42 E.J. Cabraser, Human Rights Violations as Mass Torts, cit., 2223. 43 Cfr. B. Neuborne, Preliminary Reflections on Aspects of Holocaust-Era Litiga-

tion in American Courts, in 80 Wash. U. L. Q. 796 (2002), 797; A. Garapon, Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah, trad. it. a cura di D. Bifulco, Mila-no 2008, 18 ss.; H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge américan: réflexions à partir des actions en justice des vic-times de l’holocauste devant les tribunaux des États-Unis in Rev. int. dr. comp., 2003, 886 ss.

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alcuni commentatori sarebbe infatti il frutto di una costruzione teorica sui diritti umani sviluppatasi dopo il Secondo conflitto mondiale nota come “Realist international relations theory”, in base alla quale i diritti umani sono tutelati quando ciò possa rientrare tra gli interessi strategi-ci delle nazioni più potenti44.

Infine bisogna ricordare le pressioni e l’atteggiamento (nonché la volontà di affrontare alcune questioni irrisolte legate all’Olocausto) dell’opinione pubblica, la quale ha mantenuto una vigile attenzione sui procedimenti in corso ed in alcuni casi è stata fattore condizionante nelle scelte dei convenuti di voler chiudere i contenziosi in fase pre-dibattimentale.

Rimane da chiedersi, come riflessione conclusiva, se il “modello” della Holocaust litigation, inizialmente osannato da alcuni dei suoi pro-tagonisti come efficace strumento di diritto- che senza apposite costru-zioni bensì sulla base delle esistenti regole del diritto civile- potesse “riparare i torti” commessi nella storia recente, sia effettivamente un modello “universale”, “riutilizzabile” e “trapiantabile” anche in altri ordinamenti.

Pur senza sbilanciarsi troppo, sembrerebbe, trattandosi alla luce dei fatti di un modello più politico che giuridico, che la sua possibile circolazione (anche già tentata) non solo non sia affatto scontata, ma non implichi oltretutto necessariamente esiti favorevoli per i propo-nenti.

44 Si veda S. P. Baumgartner, Human Rights and Civil Litigation in United States

Courts: The Holocaust Era Cases, in 80 Wash. U. L. Q. 837 (2002); H. J. Morgenthau, Politics Among Nations: The Struggle for Power and Peace, New York, (IV ed.), 1967; più recentemente A.M. Slaughter-Burley, International Law and International Rela-tions Theory: A Dual Agenda, in 87 Am. J. Int’l.L. 205 (1993); A. Moravcsik, The Ori-gins of Human Rights Regimes: Democratic Delegation in Postwar Europe, in 54 Int’l Org. 218 (2000).

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HISTORICAL INJUSTICES: LEGITTIMAZIONE PASSIVA E FORME DELLA RIPARAZIONE

NEL DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO

Mario Carta

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Lo Stato quale legittimato passivo per le riparazioni di gross violations nell’esperienza giuridica internazionale e negli atti dell’ONU. – 3. L’emersione dell’individuo-responsabile quale destinatario del-l’obbligo internazionale di riparazione in favore delle vittime di gross violations: l’art. 75 dello Statuto della Corte penale internazionale. – 4. Natura e caratteri delle forme di riparazione in relazione alle gross violations. – 5. La soddisfazione e le garanzie di non ripetizione tra obblighi di riparazione statuali e obblighi di ri-parazione individuali. – 6. Il Fondo di garanzia delle vittime ed il ruolo della ria-bilitazione nell’ambito dei processi di Transitional Justice. – 7. Memoria e ripara-zione: l’esperienza europea. – 8. Conclusioni.

1. Considerazioni introduttive Il presente contributo, senza alcuna pretesa di completezza almeno

in questa sede, si propone di offrire all’attenzione di chi legge qualche considerazione sulla natura e sulle caratteristiche che le forme di ripa-razione fornite dal diritto internazionale, e che pur interessano l’esperienza giuridica europea, assumono in relazione a pregiudizi così specifici come quelli da ingiustizie della storia1.

1 Il tema delle Historical Injustices o Historical Wrongs, o Crimes de l’histoire è sta-to affrontato dalla dottrina secondo una prospettiva più specificamente di diritto in-ternazionale in diversi scritti, tra i quali, ad esempio: M. Du Plessis, Historical Injus-tices and International Law: An Exploratory Discussion of Reparation for Slavery, in Human Rights Quart., 624 (2003), 640; D. Shelton, The world of Atonement: Repara-tions for Historical Injustices, in 50 Neth. Int. L. Rev. 289 (2003), 298 ss.; J. F. Quégui-nier, S. Villalpando, La réparation des crimes de l’histoire: état et perspectives du droit international public contemporain, in Crimes de l’histoire et réparations: les réponses du droit et de la justice (a cura di L. Boisson De Chazournes - J. F. Quéguinier - S. Villal-pando), Bruxelles, 2004, 39 ss.; P. De Greiff (a cura di), The Handbook of Reparations, Oxford, 2006; P. D’Argent, Les réparation pour violations historiques, in La protection internationale des droits de l’homme et les droits des victimes-International protection of human rights and victim’s rights (a cura di J. F. Flauss), Bruxelles, 2009, 195 ss. Più in generale, A. Garapon, Chiudere i conti con la storia, Colonizzazione, schiavitù, Shoah, Milano, 2009, e, dello stesso autore, Crimini che non si possono né punire né perdonare, L’emergere di una giustizia internazionale, Bologna, 2004. Dall’esame della dottrina sopra richiamata e con tutte le difficoltà legate alla definizione di una nozione non esclusivamente giuridica, gli elementi caratterizzanti le Historical Injustices possono individuarsi nel fatto che si tratta di condotte che all’epoca in cui furono commesse non erano vietate né dal diritto internazionale né interno; che, in genere, collocandosi

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Il punto di partenza del percorso di ricerca muove dalla consape-

tali comportamenti nel passato a grande distanza di tempo, sia i responsabili delle vio-lazioni che le vittime, e spesso anche i loro eredi, non sono in vita; che si tratta di vio-lazione massicce e sistematiche nei confronti di gruppi, minoranze o popolazioni stra-niere talmente gravi per la loro odiosità ed atrocità da costituire un attentato agli inte-ressi della comunità internazionale nel suo insieme e tali da urtare profondamente la coscienza umana, siano essi imputabile agli Stati, agli individui-organi o ai privati. In-fine, ed è questo forse il dato che giustifica la loro attualità, si tratta di condotte le cui ripercussioni negative persistono ancora oggi, nel senso che vi sono soggetti che bene-ficiano dei loro effetti e soggetti che ne patiscono le conseguenze. Se questi sono gli elementi essenziali delle Historical Injustices è opera sicuramente non agevole la loro riconduzione entro fattispecie giuridicamente rilevanti per il diritto internazionale in primo luogo poiché, come detto, i comportamenti non erano punibili e previsti come tali all’epoca in cui furono commessi, aspetto questo che rende impraticabile, a rigore, il ricorso alla categoria dei crimini internazionali. Tuttavia se, invece, il piano di inda-gine si sofferma sull’esame delle singole condotte integranti tali fattispecie, le conclu-sioni sono di tenore sostanzialmente diverso essendo evidente che esiste una sovrap-posizione tra i comportamenti che sono alla base delle Historical Injustices con quelli dei crimini internazionali (per un’analisi dal punto di vista “contenutistico” dei crimini internazionali vedi P. Fois, Sul rapporto tra i crimini internazionali dello Stato e i crimi-ni internazionali dell’individuo, in Riv. dir. int., 2004, 929 ss.). In particolare è la cate-goria del genocidio e dei crimini contro l’umanità, come declinati negli art. 6 e 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, che presenta il grado di contiguità maggiore con la nozione in questione, condividendone il carattere “sistemico” e diffuso e la par-ticolare gravità delle condotte poste in essere (sui caratteri dei crimini contro l’umanità vedi A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, Bologna 2005, 79 ss.). Se dunque condotte quali il genocidio, le pratiche di schiavitù, l’apartheid, lo sterminio, la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione, la tortura, la persecuzione ed i c.d. “crimini di genere” qualora riferite ad un passato che non ne prevedeva la punibilità, possono rientrare tra le Historical Injustices quando presentano i tratti so-pra enunciati, tuttavia, a testimonianza della complessità di circoscriverne l’ambito di applicazione, tali fattispecie non sembrano esaurire il contenuto di tale categoria. È sufficiente pensare allo stabilimento o mantenimento con la forza di una dominazione coloniale o alle conseguenze del colonialismo in generale, alla frequente casistica rela-tiva agli abusi perpetrati nei confronti delle popolazioni indigene, come la privazione delle loro terre o le pratiche di assimilazione forzata che hanno dato vita ad un con-tenzioso copioso soprattutto a livello interno, o anche all’Holocaust litigation, svilup-patosi ad esempio dinanzi le corti statunitensi contro le banche in prevalenza svizzere, accusate della mancata restituzione alle vittime dell’Olocausto dei conti “dormienti” aperti presso le loro sedi, giudizi spesso conclusisi con il pagamento di ingenti inden-nizzi in favore delle vittime. In realtà anche condotte considerate oggi crimini di guer-ra sono annoverabili tra le Historical Injustices; in molti casi una soluzione per le ripa-razioni conseguenti a tali crimini internazionali è stata trovata sulla base di accordi bi-laterali, conclusi in occasione o dopo la cessazione delle ostilità soprattutto in relazio-ne al secondo conflitto mondiale. L’utilizzo della categoria delle Historical Injustices per questi crimini rimane meno frequente, rispetto a quella dei crimini contro l’umanità, in quanto la loro punibilità risale ad un’epoca sicuramente più risalente nel tempo, non così recente come quelle dei crimini contro l’umanità, restringendo così il campo di applicazione della categoria in esame. In definitiva la sostanziale identità del-

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volezza che i classici rimedi risarcitori ricollegabili alla responsabilità civile non possono ritenersi idonei, da soli, a riparare tutte le conse-guenze giuridiche legate alla commissione di gravi e sistematiche viola-zioni dei diritti umani, anche quando commesse da regimi oppressivi nei confronti, in genere, di un gran numero di vittime e, così, fronteg-giare le pretese riparatrici da parte delle vittime stesse di tali abusi.

Se questa è la premessa, condivisa e condivisibile, la riflessione che essa immediatamente suscita riguarda, allora, il contesto ed il terreno al quale occorre volgere l’attenzione per cercare di indagare e definire il “come” riparare tali pregiudizi.

È chiaro che agli autori che sposano tale premessa2, non sfugge la complessità delle questioni che solleva una simile ipotesi di partenza, quando, ad esempio, mettono in luce le difficoltà di individuare una risposta univoca all’interrogativo “si può riparare la storia”; mancanza di univocità che sicuramente è legata alla necessità di indagare e ricer-care rimedi adeguati per le ferite della storia, con il contributo di stu-diosi e scienziati appartenenti a più discipline, e, quindi, non solo giu-risti. Ma mancanza di univocità che, a mio avviso, riguarda anche colo-ro che studiano questi fenomeni all’interno di una stessa prospettiva disciplinare, quella giuridica nel caso specifico, che difficilmente pos-sono pensare di fornire una risposta compiuta al problema del “come” riparare la storia senza avvalersi di tutti gli strumenti che il diritto, in-ternazionale e/o privato, europeo e/o interno, mette loro a disposizio-ne. E, tuttavia, pur nel caso di felice integrazione tra i diversi settori del diritto, nell’individuare a vantaggio di quali soggetti, a quali condi-zioni e con quali obiettivi si possono disporre rimedi per le ferite della storia, la “giuridificazione” di una tale risposta difficilmente potrà esaurire da sola la complessità legata all’interrogativo iniziale.

D’altronde, proprio l’esperienza giuridica internazionale ed euro-pea ci indica che il momento “riparatore” dei pregiudizi subiti dalle vittime di gross violations3 rappresenta solo una tappa di un percorso le condotte tra le Historical Injustices ed alcuni dei crimini internazionali, come sopra specificati, giustifica un’analisi tesa a verificare fino a che punto gli strumenti riparato-ri del diritto internazionale, oggi esistenti in favore delle vittime dei crimini interna-zionali, possono essere utilizzati per la riparazione di ingiustizie da ferite della storia che, per loro natura, difficilmente si lasciano inquadrare all’interno delle categorie proprie della responsabilità internazionale e delle sue conseguenze.

2 Vedi la relazione introduttiva al convegno citato di G. Resta - V. Zeno-Zencovich, Le regole della memoria. Rappresentazione del passato e danni da ingiustizie della storia nell’esperienza giuridica contemporanea, reperibile on line: http://www.sites.google.com/site/storiaediritto/convegni/21-1-2011-le-ferite-della-storia-e-il-diritto-riparatore.

3 L’utilizzo ed il ricorso all’espressione gross violations nel presente lavoro ha un suo fondamento in quanto è in relazione a tali condotte che gli atti di soft law

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più ampio, dove le esigenze di giustizia, ricomprese quasi sempre nello schema giuridico del “processo” a livello nazionale o internazionale, convivono con meccanismi ed iniziative di riconciliazione non solo giudiziarie, come le Commissioni di Verità4 e Riconciliazione, ma an-che di riforme istituzionali, secondo un modello tipico dei processi di Transitional Justice che richiede, per la sua realizzazione, in genere, competenze e saperi propri di altre e diverse discipline5.

Da una prospettiva internazionale ed europea, accogliere l’invito ad interrogarsi sul “come” riparare simili pregiudizi significa, dunque, chiedersi in quale misura il ricorso al regime che regola la responsabili-tà internazionale degli Stati, con le sue forme della riparazione, possa contribuire a dare un contenuto al diritto delle vittime alla riparazione stessa6, anche in società post-conflittuali o post-autoritarie.

dell’ONU e la giurisprudenza internazionale, in particolare della Corte e della Com-missione interamericani dei diritti dell’uomo, hanno elaborato principi e regole espressamente dedicati alle forme della riparazione di violazioni gravi e generalizzate dei diritti umani. E dunque, pur mancandone una definizione formalmente accettata nel diritto internazionale, se per gross violations intendiamo riferirci a quei comporta-menti “which include at least the following genocide, slavery and slavery-like practices; summary or arbitrary executions; torture or cruel, inhuman or degrading treatment or punishment, enforced disappearance arbitrary or prolonged detention; deportation or for-cible transfer of population, and systematic discrimination, in particular based on race or gender”, (in Final Report of the Special Rapporteur, UN doc. E/CN.4/Sub.2/1993/8, par. 8-13) comprendendo essi condotte che sono ritenute comuni alle Historical In-justices, ecco che il loro esame rappresenta un prezioso e valido punto di riferimento per la presente indagine.

4 Per un esame delle caratteristiche e della funzione svolta dalle Commissioni, so-prattutto in relazione ai procedimenti giudiziari, vedi M. Starita, Processi di riconcilia-zione nazionale e diritto internazionale, Napoli, 2003; T. Scovazzi, Considerazioni gene-rali sulle Commissioni di Verità e Riconciliazione, in Accesso alla giustizia dell’individuo nel diritto internazionale e dell’Unione europea (a cura di F. Francioni – M. Gestri – N. Ronzitti – T. Scovazzi), Milano 2008, 599 ss.

5 Si pensi, ad esempio, al ruolo dello storico in relazione all’apertura degli archivi e nelle Commissioni di Verità e Riconciliazione.

6 Nei documenti internazionali la questione della riparazione delle Historical In-justices connesse in particolare con le pratiche della schiavitù, della tratta degli schiavi e del colonialismo, è stata sollevata in occasione della Conferenza mondiale tenutasi a Durban dal 31 agosto all’8 settembre 2001 “contro il razzismo, la discriminazione raz-ziale, la xenofobia e l’intolleranza” dove, pur escludendosi il risarcimento per le vitti-me dei crimini e delle ingiustizie del passato, i paesi partecipanti dopo un lungo nego-ziato hanno adottato una Dichiarazione finale che, tra i vari passaggi, recita “We ack-nowledge and profundly regret the untold suffering and evils inflicted on millions of men, women and children as a result of slavery, the slave trade, the transatlantic slave trade, apartheid, genocide and past tragedies. We further note that some States have tak-en the initiative to apologise and have paid reparation, where appropriate, for grave and massive violations committed”, (in UN doc. A/CONF.189/12, par. 100; più in generale sul tema i paragrafi da 98 a 106). Un esplicito riferimento, anche letterale, alla nozione

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Qualsiasi esame sulle forme di riparazione “disponibili” richiede quale premessa l’individuazione dei soggetti chiamati a rispondere del-le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani, in ragione del fatto che può esistere una relazione tra la corretta individuazione del sogget-to tenuto a riparare il pregiudizio sofferto e le diverse forme di ripara-zione previste in favore delle vittime. Qualsiasi forma di riparazione è tributaria di una teoria della responsabilità. E allora, un conto è avan-zare pretese riparatrici nei confronti dello Stato nel suo complesso, in quanto ritenuto responsabile di tali crimini, altra cosa è chiamare a ri-spondere i singoli autori dei crimini commessi. È difficile considerare, ad esempio, questi ultimi nella condizione di poter offrire pubbliche scuse o stabilire giornate della memoria come, peraltro, lo Stato non è in grado di presentare scuse personali alle vittime al posto dei respon-sabili di tali crimini. Ipotesi ancora differente è costituita dall’invo-cazione della responsabilità accessoria delle società multinazionali per violazioni gravi di norme internazionali, laddove gli ordinamenti inter-ni lo consentono come accaduto dinanzi ai tribunali statunitensi per la complicità delle imprese private nelle pratiche di apartheid del regime di minoranza bianca del Sudafrica, sino al 1994. Un conto è far valere la responsabilità dello Stato dinanzi agli organi giudiziari del suo stesso ordinamento, altro è intraprendere un’azione contro di esso nell’ordi-namento di un altro Stato, con le obiezioni legate al regime dell’im-munità dalla giurisdizione dello Stato7 estero e dei suoi organi; que-stione di natura ancora diversa, una volta affermata la responsabilità dell’autore di tali crimini, è costituita dalla possibilità di avanzare ri-chieste riparatrici da parte delle vittime, in sede interna ed ora, come

di ingiustizie della storia è contenuto nella Conferenza regionale africana, preparatoria di Durban, tenutasi a Dakar nel gennaio 2001 quando i paesi africani chiedono alla Conferenza mondiale di dichiarare solennemente che “la communauté internationale tout entière reconnait pleinement les injustices historiques liées à la traite des esclaves, et que le colonialisme et l’apartheid sont parmi les formes institutionalisées les plus graves et plus massives de violations des droits de l’homme”, (vedi in Rapport de la Conférence régional pour l’Afrique, Dakar, 22-24 gennaio 2001, A/CONF.189/PC.2/8, 6, par. 17).

7 Sul punto tra i più recenti dei numerosi saggi vedi A. Gianelli, Crimini interna-zionali ed immunità degli Stati dalla giurisdizione nella sentenza Ferrini, in Riv. dir. int., 2004, 643 ss.; P. De Sena - F. De Vittor, State Immunity and Human Rights: The Ita-lian Supreme Court Decision on the Ferrini Case, in Eur. J. Int. Law, 2005, 89 e ss.; A. Clapham, The Jus Cogens Prohibition of Torture and the Importance of Sovereign State Immunity, in Promoting Justice, Human Rights and Conflict Resolution through Inter-national Law, Liber amicorum Lucius Caflisch, Leiden, 2007, 151 ss.; C. Focarelli, Di-niego dell’immunità alla Germania per crimini internazionali: la Suprema Corte si fonda su valutazioni “qualitative”, in Riv. dir. int., 2009, 363 e ss. Per un inquadramento ge-nerale al tema H. Fox, The Law of State Immunity, Oxford, 2008.

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vedremo, anche internazionale, direttamente nei confronti del respon-sabile di tali crimini.

Inoltre le problematiche legate alla corretta individuazione del le-gittimato passivo di tali azioni variano, e sensibilmente, in ragione del-la fattispecie della quale si discute. Se i giudizi riguardano le ipotesi di schiavitù o colonialismo8, quindi in relazione a fatti che sono collocati temporalmente ad una certa distanza dai giorni nostri, è assai difficile individuare un legame tra i responsabili di tali pratiche e le loro vitti-me, tanto che il principale ostacolo processuale in giudizi simili è rap-presentata proprio dalla dichiarazione di estraneità, avanzata da coloro che sono convenuti in giudizio, rispetto alle condotte consumatesi molto tempo addietro. A questo argomento si aggiunge, favorito anch’esso dalla distanza di tempo, l’obiezione che la condotta incrimi-nata, nel momento in cui veniva portata a compimento, non era vieta-ta, in quanto mancava all’epoca una norma incriminatrice di compor-tamenti solo successivamente ritenuti perseguibili. Non è un caso forse che spesso tali giudizi, dinanzi alle corti interne, si concludono con delle transazioni, non arrivando alla fase “dibattimentale”, o con prov-vedimenti di natura legislativa e quindi sostanzialmente in chiave poli-tica proprio in quanto tali eccezioni paiono giuridicamente difficil-mente superabili9.

8 Sul tema della schiavitù e i danni da ingiustizie della storia vedi E. A. Posner - A. Vermeule, Reparations for Slavery and Other Historical Injustices, in 103 Columbia Law Rev., 689 (2003).

9 È il caso ad esempio dei giudizi instaurati in Giappone dalle “donne di confor-to” coreane dove ricorrono gli elementi citati: eccezione del nullum crimen sine lege, provvedimento legislativo di chiusura del procedimento ma non assunzione di alcuna responsabilità in relazione a tali pratiche da parte del Giappone.

Sulla irretroattività della norma di ius cogens che vieta la schiavitù si è divisa d’altronde la Conferenza mondiale di Durban I del 2001 dove la posizione dei paesi occidentali, che hanno escluso la illiceità della schiavitù in virtù della mancanza di una norma che la proibisse all’epoca di tali pratiche (posizione questa condivisa anche dall’UE), si è posta in contrasto con quanto sostenuto dai paesi africani che invece si sono battuti per l’affermazione di una vera e propria obbligazione giuridica a carico degli Stati responsabili di tali pratiche e conseguente diritto alla riparazione, compren-sivo di scuse e del diritto ad un ricorso per far valere tali pretese, sulla base del ricono-scimento, senza alcun limite temporale, della schiavitù e della tratta quali crimini con-tro l’umanità. Nella dichiarazione finale un punto di accordo lo si è registrato in rela-zione all’importanza di diffondere la verità sulla schiavitù e sulla tratta degli schiavi, in particolare quella transatlantica, di chiedere le scuse per le immense sofferenze causata a milioni di uomini, donne e bambini, e sull’invito a trovare dei mezzi appropriati per concorrere al ristabilimento della dignità delle vittime, al fine di chiudere questo capi-tolo della storia e per facilitare la riconciliazione e la pacificazione, evitando però in tal modo di affrontare esplicitamente il tema delle riparazioni. Posizione sostanzialmente rimasta inalterata in occasione della Conferenza Durban II del 2009, ove il tema del diritto alla riparazione delle vittime di tali pratiche, non è stato preso in considerazio-

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Peraltro non tutte le richieste di riparazione si sono rivelate così problematiche, ottenendo invece un riconoscimento in sede giudizia-ria: è il caso dei cittadini giapponesi di origine americana internati du-rante la seconda guerra mondiale, dell’Australia che nel 1976 ha resti-tuito una parte dei terreni sottratti agli aborigeni dai proprietari bian-chi, dell’Austria che ha finanziato un fondo con 380 milioni di euro per risarcire le vittime dei lavori forzati durante la seconda guerra mondiale, della Norvegia e della Danimarca che hanno risarcito popo-lazioni indigene, degli Stati Uniti che hanno pagato risarcimenti o re-stituito i resti degli Indiani americani, e della Germania che ha risarci-to sia le singole vittime che lo Stato di Israele per i crimini commessi durante la seconda guerra mondiale10.

2. Lo Stato quale legittimato passivo per le riparazioni di gross viola-tions nell’esperienza giuridica internazionale e negli atti dell’ONU

La tendenza comune alle varie ipotesi citate è individuabile nel

tentativo di chiamare in causa, a titolo principale o in via sussidiaria, lo Stato, anche accanto alle imprese o ai singoli responsabili di tali crimi-ni; ciò in considerazione sia delle maggiori garanzie che lo stesso offre ai fini riparatori, in un’ottica quindi di maggiore tutela delle vittime, sia in quanto alcune misure riparatrici possono essere portate a com-pimento e rese efficaci solo dalla Stato, come accade per quelle che ri-chiedono l’adozione di strumenti legislativi. D’altra parte il riconosci-mento di un ruolo così ampio, viene osservato, potrebbe porre lo Stato stesso nella non facile condizione di stabilire chi considerare realmente vittima, in un contesto peraltro spesso di risorse scarse per i risarci-menti11, non sottraendosi nel contempo alle proprie responsabilità nel-

ne e dove gli Stati hanno ricordato che la schiavitù, la tratta degli schiavi, in particola-re la tratta transatlantica, l’apartheid, il colonialismo e il genocidio non devono mai essere dimenticati, felicitandosi inoltre delle misure prese per onorare la memoria del-le vittime come anche della presentazione di scuse e della creazione di meccanismi isti-tuzionali, quali le Commissioni di Verità e Riconciliazione. Per un’accurata indagine dei risultati della Conferenza di Durban I cfr. P. D’Argent, Les réparations pour viola-tions historiques, cit., 198 ss.

10 Per una rassegna ed una panoramica delle azioni che hanno avuto successo, so-prattutto nell’esperienza giuridica statunitense, vedi il contributo di D. Shelton, Priva-tising Reparations? The US Experience reperibile on line in http://www.sites.google.com/site/storiaediritto/convegni/21-1-2011-le-ferite-della-storia-e-il-diritto-riparatore.

11 Accusa mossa ad esempio dagli Africani americani riguardo ai risarcimenti avuti dai Giapponesi americani per gli internamenti nella seconda guerra mondiale. Cfr. D. C. Gray, A No Excuse Approach to Transitional Justice: Reparations as Tools of Ex-

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la commissione degli abusi del passato regime. Infine vi è chi obietta che i governi sarebbero meno propensi ad assecondare mutamenti so-ciali ed istituzionali di superamento degli abusi passati, qualora fossero costretti a confrontarsi con la prospettiva di dover pagare retroattiva-mente per quelli commessi.

Convenire in giudizio lo Stato rappresenta tuttavia una strada per-corribile, e viene percorsa, se non altro in virtù della presunzione di continuità della persona dello Stato che vige nel diritto internazionale, il quale non si estingue per effetto dei mutamenti rivoluzionari di go-verno e che è espressa dal brocardo “forma regiminis mutata non mu-tatur ipsa civitas”. Su tale principio concordano anche coloro che so-stengono invece che lo Stato persona si identifichi con il Governo, concludendo sempre nel senso della continuità in quanto il nuovo Sta-to (o nuovo Governo) sarebbe successore a titolo universale nei diritti ed obblighi del Governo precedente (anche in caso di mutamento ri-voluzionario di governo)12.

Il poter far valere la responsabilità internazionale dello Stato, e non quella penale dell’individuo come è stato correttamente sottolineato, ha due riflessi principali sui problemi di diritto intertemporale che crimini cosi lontani nel tempo sollevano: a) non vi è bisogno di ricorre-re alla nozione di imprescrittibilità dei crimini che è relativa appunto a crimini di individui e non ricorre per gli illeciti dello Stato; b) quando si discute della irretroattività o meno dei crimini, in relazione a con-

traordinary Justice, in 87 Wash. Un. Law Rev. 1043 (2010).

12 Sul punto vedi B. Conforti - C. Focarelli, Le Nazioni Unite, Padova 2010, 59 ove viene richiamata la prassi delle Nazioni Unite in materia di verifica delle creden-ziali degli Stati, che depone in tal senso. Emblematiche di tale orientamento sono le vicende relative alla recente controversia tra Italia e Germania dinanzi alla Corte in-ternazionale di giustizia ed ai giudizi interni che ne sono stati all’origine. Nel ricorso pendente dinanzi la Corte internazionale di giustizia la Germania ha ribadito che l’attuale Stato tedesco si assume la responsabilità per gli atti iure imperii delle autorità del Terzo Reich. Nelle costituzioni in giudizio dinanzi ai tribunali italiani, poiché chiamata a rispondere di violazioni di ius cogens relativi a fatti avvenuti durante la se-conda guerra mondiale, essa si è astenuta dall’eccepire di non essere successore del Terzo Reich. Anche nel caso Milde (Cass. pen., I sez, sentenza del 13 gennaio 2009, n. 1072) nei diversi gradi di giudizio la Germania non si è avvalsa della possibile eccezio-ne di non essere successore del Terzo Reich. Ciò peraltro in linea con la precedente prassi di accettare sia con dichiarazioni ufficiali che con la conclusione di accordi in-ternazionali, relativi al pagamento di somme a favore delle vittime, una responsabilità morale e politica per i crimini commessi dal regime nazista. Sul punto vedi C. Focarel-li, Diniego dell’immunità alla Germania per crimini internazionali: la Suprema Corte si fonda su valutazioni “qualitative”, cit., 363 ss. La Corte di Cassazione francese si è espressa chiaramente nel senso della continuità tra Terzo Reich e la Repubblica fede-rale di Germania nel caso Bucheron, sentenza della Corte di Cassazione del 16 dicem-bre 2003, in Bulletin, 2003, I, 206.

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dotte che non erano vietate da alcuna norma all’epoca in cui furono consumate, si evoca un principio, secondo alcuni di ius cogens, che si applica alla responsabilità penale dell’individuo a livello internazionale dove sicuramente deve essere rispettato in maniera rigorosa; ma non riguarda allo stesso modo la responsabilità internazionale dello Stato tanto che, nei casi non attinenti la responsabilità penale personale, il principio dell’irretroattività viene ritenuto derogabile, in virtù di quan-to prevede l’art. 28 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. Secondo questa ipotesi vi potrebbero essere, dunque, trattati stipulati oggi tra Stati che accettano volontariamente di riconoscere la tratta degli schiavi come pratica da sempre criminale, anche per quelle pratiche poste in atto prima del sorgere nel diritto internazionale di una norma repressiva della stessa, con le inevitabili conseguenze giuri-diche in termini di riparazioni scaturenti dalla violazione di una norma di ius cogens13.

Nei documenti dell’ONU le indicazioni che troviamo circa il sog-getto obbligato sono decisamente orientate in un’ottica volta ad assi-curare l’effettività del diritto alla riparazione per le vittime. I Principi per la protezione e la promozione dei diritti umani attraverso azioni per combattere l’impunità, raccomandati alla considerazione degli Sta-ti dalla Commissione dell’ONU dei diritti umani il 21 aprile 200514, sebbene non in tutte le sue parti siano ritenuti corrispondente al dirit-to consuetudinario e siano spesso formulati ricorrendo all’uso del condizionale come d’altronde i Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of In-ternational Human Rights Law and Serious Violations of International

13 Cfr. L. Condorelli, Conclusions Générales, cit., 305 ss. Più articolata appare la

posizione di altro autore secondo il quale per considerare retroattivamente illegale un comportamento che non era tale all’epoca della sua commissione “il ne faut pas seule-ment accepter d’être rétroactivemnt responsable: il faut encore prouver l’émergence d’une norme nouvelle, de nature probablement coutumière, selon laquelle le comportament d’antan en cause (esclavagisme, colonialisme) est considéré aujourd’hui comme ayant été illégal, sinon depuis toujours, du moins au moment de sa survenance. Il faut en d’autres termes, que la norme proibitive change, puisque son champ d’application temporel vient à s’étendre dans le passé, avant son émergence. Pour qu’une telle norme, se substituant en quelque sorte à l’antérieure, voie le jour, la pratique doit être générale et constante, celle de l’un ou l’autre Etat, même particulièrement intéressé, ne suffisant pas; de plus, lorsqu’une norme impérative est en cause, la ‘communauté internationale des Etats dans son ensemble’doit avoir accepté l’extension de son champ d’application temporel. Or, sans la preuve d’une telle extension, rien ne permet de distinguer les éventuelles accepta-tions de responsabilité pour le colonialisme et l’ésclavagisme de simples promesses ex gratia”, P. D’Argent, Les réparations pour violations historiques, cit., 215 ss.

14 UN Commission on Human Rights, Report of the Independent Expert to Update the Set of Principles to Combat Impunity, 18 February 2005, E/CN.4/2005/102.

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Humanitarian Law15 (Basic Principles), dopo aver affermato, in termini ampi, il diritto delle vittime alla riparazione tramite misure di ristabi-limento, risarcimento, riabilitazione e soddisfazione oltre che di garan-zie di non ripetizione delle violazioni e la destituzione degli agenti pubblici responsabili, individuano il soggetto tenuto alla riparazione in favore delle vittime in primo luogo nello Stato, configurando tale ob-bligo in maniera quasi corrispondente e speculare al diritto alla ripara-zione per le vittime, mentre stabiliscono solo una “possibilità” per la vittima di chiedere la riparazione direttamente agli autori di tali crimi-ni.

Per le gross violations, la necessità di assicurare l’effettività del di-ritto alla riparazione delle vittime in presenza di violazioni più gravi, ha invece disegnato un ruolo più ampio per lo Stato, rispetto a quello previsto nei Principi in tema di impunità che si occupano invece delle “semplici” violazioni dei diritti dell’uomo. I Principi di Base e linee guida sul diritto ad un rimedio e ad una riparazione per le vittime di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario adottati 16 dall’Assemblea Generale del-l’ONU con la risoluzione 60/147 (Basic Principles), affermano l’ob-bligo per lo Stato (shall provide), in qualità di “legittimato passivo principale”, di riparazione in favore delle vittime per quegli atti o quel-le omissioni (gross violations e serious violations of international huma-nitarian law) che sono ad esso attribuibili e rispetto ai quali è chiamato a fornire rimedi adeguati, effettivi e pronti17, delineandone contempo-raneamente una funzione ulteriore quando pongono a suo carico l’impegno, formulato questa volta al condizionale, di offrire idonee ga-ranzie, quando non legittimato passivo principale, per l’adempimento di quegli obblighi che gravano invece direttamente sui responsabili di tali crimini.

Garanzie che, con una soluzione per la verità assai realistica, do-vrebbero (should) spingere gli Stati a stabilire programmi nazionali per

15 UN Doc. A/Res/60/147 (Van Boven/Bassiouni Principles) del 21 marzo 2006. 16 Per un commento vedi P. D’Argent, Le droit de la responsabilité internationale

complété? Examen des Principes fondamentaux et directives concernant le droit à un recours et à réparation des victimes de violations flagrantes du droit international des droits de l’homme et de la violations graves du droit international humanitaire, in Ann. fr. dr. int., 2005, 27 e ss.

17 Punto 15: “Adequate, effective and prompt reparation is intended to promote jus-tice by redressing gross violations of international human rights law or serious violations of international humanitarian law. Reparation should be proportional to the gravity of the violations and the harm suffered. In accordance with its domestic laws and interna-tional legal obligations, a State shall provide reparation to victims for acts or omissions which can be attributed to the State and constitute gross violations of international hu-man rights law or serious violations of international humanitarian law”.

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la riparazione e l’assistenza alle vittime nel caso in cui le parti respon-sabili dei danni siano incapaci o non abbiano la volontà di adempiere l’obbligo riparatore18, accanto all’obbligo di assicurare l’esecuzione delle sentenze interne in materia di riparazione nei confronti di indivi-dui o enti che sono stati riconosciuti responsabili dei pregiudizi arreca-ti19.

3. L’emersione dell’individuo-responsabile quale destinatario dell’obbligo internazionale di riparazione in favore delle vittime di gross violations: l’art. 75 dello Statuto della Corte penale internazio-nale

Il differente ruolo disegnato da queste ultime disposizioni a carico

dello Stato, in qualità di garante, è legato alla presenza sulla scena della “riparazione” di un nuovo legittimato passivo, accanto ad esso ed in alcuni casi in sua sostituzione, come vedremo, trovando applicazione tali regole sul presupposto evidente che l’imputazione dell’obbligo di riparazione operi direttamente nei confronti dell’individuo responsabi-le di tali crimini, oltre che nei confronti dello Stato.

È un mutamento di prospettiva rilevante capace, a mio avviso, di incidere sulle forme della riparazione e sugli obiettivi da essa persegui-ti che lo Statuto della Corte penale internazionale (CPI) coglie quando l’art. 75 per la prima volta, a differenze dei due tribunali penali inter-nazionali ad hoc che riconoscono le vittime solo in quanto testimoni,20 prevede un diritto alla riparazione per le vittime dei crimini di compe-

18 Punto 16: “States should endeavour to establish national programmes for repara-tion and other assistance to victims in the event that the parties liable for the harm suf-fered are unable or unwilling to meet their obligations”.

19 Punto 17: “States shall, with respect to claims by victims, enforce domestic judgements for reparation against individuals or entities liable for the harm suffered and endeavour to enforce valid foreign legal judgements for reparation in accordance with domestic law and international legal obligations. To that end, States should provide un-der their domestic laws effective mechanisms for the enforcement of reparation judge-ments”. Ed infine altra forma di garanzia sussidiaria è prevista, sempre al punto 15, quando nel caso in cui una persona fisica o giuridica o un qualsiasi altro ente è ritenu-to responsabile per la riparazione in favore della vittima, ognuna di queste parti deve provvedere alla riparazione in suo favore o risarcire lo Stato se lo Stato ha già procedu-to alla riparazione in favore della vittime (“In cases where a person, a legal person, or other entity is found liable for reparation to a victim, such party should provide repara-tion to the victim or compensate the State if the State has already provided reparation to the victim”).

20 Mentre nel Regolamento di procedura e prova prevedono solo la restituzione, in alcuni casi, delle proprietà e rinviano alle giurisdizioni nazionali per il risarcimento in favore delle vittime.

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tenza della CPI. La Corte può infatti “make an order directly against the convicted person specifying appropriate reparations to, or in respect of, victims, including restitution, compensation and rehabilitation”21. Ta-le diritto non costituisce peraltro una prerogativa isolata, ma l’applicazione specifica di un più ampio potere di intervento e parteci-pazione nel processo penale riconosciuto alle vittime che possono pre-sentare osservazioni, tramite rappresentanti legali, possono accedere ai verbali, possono, sempre tramite rappresentanti legali chiedere di in-terrogare testimoni, esperti o l’accusato22.

Siamo in un contesto dunque che, fino a non molto tempo fa, ve-niva ritenuto non di competenza del diritto internazionale in quanto la disciplina della riparazione a carico di individui era dettata da un re-gime di responsabilità, direi civilistico, relativo a rapporti orizzontali tra soggetti non statali, individuo responsabile e vittima, regolati in ge-nere dal diritto interno.

In precedenza, in realtà, non era estraneo alla sfera di applicazione del diritto internazionale il fatto di prevedere, accanto ad una respon-sabilità penale individuale, un obbligo riparatore: in tal senso dispone la Convenzione del 1965 sulla discriminazione razziale23 che prevede non solo l’obbligo degli Stati di condannare tutte le forme di discrimi-nazione razziale24, ma richiede anche che gli Stati assicurino, a tutte le persone soggette alla loro giurisdizione, il diritto di chiedere soddisfa-zione o riparazione giusta ed adeguata per tutti i danni di cui possono essere vittime in conseguenza di tale discriminazione25; come anche la Convenzione sulla tortura26 che avendo come obiettivo quello di ga-rantire alla vittima di un atto di tortura il diritto ad ottenere riparazio-

21 Art. 75, par. 2 dello Statuto CPI. 22 Sullo Statuto della CPI in generale: O. Triffterer (a cura di), Commentary on the

Rome Statute of the International Criminal Court : observers’notes, article by article, Baden-Baden, 2008; M. Politi, La Corte Penale Internazionale a dieci anni dalla Confe-renza di Roma: un primo bilancio, in Diritti individuali e giustizia internazionale, Liber Fausto Pocar (a cura di G. Venturini - S. Bariatti), Milano, 2009, 735 ss.; W. A. Scaha-bas, The International Criminal Court: a Commentary on the Rome Statu-te, Oxford, 2010. Per un esame dell’art. 75 Statuto CPI, oltre ai commentari citati, ve-di di recente C. Mc Carthy, Reparations under Rome Statute of the International Cri-minal Court and Reparative Justice Theory, in The International Journal of Transitional Justice, 2009, 250 ss.

23 Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, conclusa a New York il 21 dicembre 1965; entrata in vigore il 4 gennaio 1969 ai sensi dell’art. 19.

24 Art. 2 della Convenzione. 25 Art. 6 della Convenzione. 26 La Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani

o degradanti è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 di-cembre 1984 ed è entrata in vigore il 6 giugno 1987.

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ne e di essere indennizzata in maniera equa ed adeguata, pone a carico degli Stati l’obbligo di fornire tale rimedio all’interno del proprio or-dinamento giuridico27. Si tratta però di casi nei quali l’effettività della riparazione deve essere garantita dall’ordinamento nazionale che, per assicurarla, applica il sistema giuridico interno, ivi inclusi i rimedi e le forme della riparazione da esso resi disponibili. Secondo le regole con-tenute nello Statuto e nel Regolamento di procedura e prova della CPI che disegnano il regime applicabile all’obbligo di riparazione, la pro-spettiva nella quale ci si pone invece è significativamente differente in quanto l’obbligo riparatore è qui definito e regolamentato nelle sue forme direttamente a livello internazionale con riferimento, peraltro, ad un rapporto giuridico che intercorre in senso orizzontale tra re-sponsabile del crimine internazionale e vittima.

È un sistema che si distingue rispetto alla Camera straordinaria per la Cambogia28, la quale pur prevedendo un diritto alla riparazione per le vittime dei crimini nell’ambito dei procedimenti penali di sua com-petenza, in quanto tribunale penale misto competente a perseguire le gravi violazioni dei diritti umani commessi in quel paese durante il pe-riodo della Kampuchea Democratica, ha regole di funzionamento det-tate sia dal diritto interno che da norme di diritto internazionale. Inol-tre, in base a tali regole, nel sistema misto del Tribunale le riparazioni hanno solo carattere collettivo, non potendo essere disposte diretta-mente in favore dell’individuo29.

Ancora maggiore è la distanza con il modello sposato dal Tribuna-le del Libano istituito sulla base di alcune risoluzioni del Consiglio di sicurezza, ex cap. VII della Carta30 e di un accordo firmato dal gover-no del Libano e l’ONU31 cui è allegato lo Statuto del Tribunale istitui-

27 Art. 14 della Convenzione. 28 L’Assemblea Generale dell’ONU Unite ha predisposto, con la risoluzione

A/RES/57/228 B del 13 maggio 2003, una bozza di accordo tra l’ONU e la Cambogia per la creazione di una Camera straordinaria, accordo conclusosi il 6 giugno del 2003. La disciplina disegna un tribunale formato da giudici internazionali che va ad aggiun-gersi al sistema giudiziario cambogiano. Per un approfondimento vedi E. Cimiotta, I tribunali penali misti, Padova, 2009.

29 In tal senso il condannato può essere obbligato a pubblicare la sentenza in un giornale od in altri mezzi di comunicazione o anche finanziare attività o servizi non-profit.

30 Del 26 marzo 2006, n. 1664, con la quale il Consiglio di sicurezza ha chiesto al Segretario generale di negoziare “an agreement with the Government of Lebanon ai-med at establishing a tribunal of an international character based on the highest interna-tional standards of criminal justice”, e la risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007 di cui alla nota che segue.

31 I negoziati sono stati condotti tra gennaio e settembre del 2006 e si sono con-clusi con la firma dell’Agreement on the establishment of a Special Tribunal for Leba-

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to per punire i responsabili dell’attacco terroristico nei confronti del Premier libanese Hariri nel 2005 (ed altre 22 persone). Un ruolo pre-valente nel riconoscimento della riparazione è assegnato al diritto in-terno, in quanto, sebbene la composizione sia mista tra giudici nazio-nali ed internazionali (la pubblica accusa è internazionale) e la sua se-de sia al di fuori del territorio libanese, nei Paesi Bassi, il diritto appli-cabile risulta essere quello libanese, anche per quanto riguarda la ripa-razione delle vittime. L’art. 25 dello Statuto stabilisce che il Tribunale speciale può identificare e riconoscere le vittime che hanno subito un pregiudizio in conseguenza dei crimini commessi da una persona ac-cusata e condannata dallo stesso Tribunale. Una volta che il Tribunale ha accertato la colpevolezza dell’accusato e verificato il nesso causale tra la sua condotta ed il pregiudizio subito dalle vittime, dovrà essere tuttavia la vittima stessa a presentare un’azione dinanzi ad una Corte nazionale libanese o ad un altra Corte nazionale competente, per ve-dersi determinato l’importo dei danni e la loro natura secondo regole, quindi, di diritto interno anche se sulla base della sentenza del Tribu-nale Speciale del Libano.

La distanza con il modello recepito dalla CPI emerge ancor più vi-stosamente dalla lettura congiunta dello Statuto e del Regolamento di procedura e prova della CPI: se il primo, all’art. 25, esclude esplicita-mente obblighi riconducibili agli Stati per quanto riguarda la respon-sabilità penale individuale32, l’art. 98 par.1 del Regolamento, sulla stes-sa linea, chiarisce che il soggetto obbligato a tale riparazione, in virtù della natura e dei limiti della giurisdizione esercitata dalla CPI, non può che essere il reo, tenuto a fornirla direttamente a ciascun soggetto leso, atteso che, secondo la disposizione sopra richiamata, “Individual awards for reparations shall be made directly against a convicted per-son”. Il ruolo marginale per lo Stato33, sia in via principale che sussi-diaria, che forse rappresenta la condizione alla quale le parti contraenti dello Statuto hanno acconsentito al riconoscimento di una sorta di co- non, dal Libano e dall’ONU, il 23 gennaio ed il 6 febbraio 2007. La mancata ratifica da parte del Libano di tale accordo ha spinto il Consiglio di sicurezza dell’ONU ad intervenire con la risoluzione sopra citata, la n. 1757 del 30 maggio 2007, con la quale veniva disposto, in base al capitolo VII della Carta, l’entrata in vigore dell’accordo: “the provisions of the annexed document, including its attachment, on the establishment of a Special Tribunal for Lebanon shall enter into force on 10 June 2007, unless the Go-vernment of Lebanon has provided notification under Article 19 (1) of the annexed do-cument before that date” (par. 1, lett. a).

32 Art. 25 che recita:“No provision in this Statute relating to individual criminal re-sponsibility shall affect the responsibility of States under international law”.

33 Competenze per gli Stati sono previste per quanto riguarda l’esecuzione degli obblighi riparatori disposti nelle sentenze della CPI, in base agli art. 93, par. 1, e 109 del Regolamento di procedura e prova.

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stituzione di parte civile nel processo penale internazionale, ha favorito l’istituzione di un originale meccanismo di garanzia in favore del dirit-to alla riparazione delle vittime. In effetti, in presenza di situazioni in cui la identificazione di ciascuna vittima non è agevole o addirittura impossibile34, la CPI può ordinare che l’importo posto a carico del re-sponsabile venga depositato presso un Fondo di garanzia in favore del-le stesse vittime e delle loro famiglie35 in modo tale che, tramite lo stes-so Fondo, con la somma così versata si possano assolvere, il prima pos-sibile, gli obblighi riparatori stabiliti nella sentenza della CPI in favore delle vittime. La flessibilità del meccanismo predisposto e la sua capa-cità di piegarsi alla peculiarità delle violazioni accertate emergono già dalla circostanza che la riparazione, in considerazione del numero del-le vittime, della gravità della violazione ed in funzione dell’ampiezza, delle forme e delle modalità con cui deve essere effettuata, oltre ad es-sere individuale può avere natura collettiva36, riparazione che in questo caso può concorrere con quella disposta individualmente come esserne indipendente37. Il contributo che il Fondo potrà dare nel rendere effet-tivo il sistema delle riparazioni collettive rappresenta uno dei punti che dovrebbero essere chiariti in fase di redazione dei Principi da parte della CPI e che ne condizioneranno il modo di operare una volta fun-zionante. In particolare merita di essere definito il suo ruolo in rela-zione a quello svolto dal condannato, ex art. 75 dello Statuto CPI, chiamato in via principale, con i proventi derivanti dalle pene pecunia-rie e dai beni ad esso confiscati, a dar vita a forme riparazioni di carat-tere collettivo e generale, compresa la riabilitazione, di non facile at-

34 Regolamento di procedura e prova art. 98, par. 2. 35 Art. 75, par. 2, Statuto della CPI ove “Where appropriate the Court may order

that the award for reparations be made through the Trust Fund provided in article 79”. 36 Prevista come facoltà generale nel Regolamento di procedura e prova della CPI

ex art. 97, par. 1: “Taking into account the scope and extent of any damage, loss or inju-ry, the Court may award reparations on an individualized basis or, where it deems it ap-propriate, on a collective basis or both” e specificata con riguardo alle prerogative del Fondo al par. 3 dell’art. 98: “ The Court may order that an award for reparations against a convicted person be made through the Trust Fund where the number of the victims and the scope, forms and modalities of reparations makes a collective award more appropri-ate”.

37 In dottrina alcuni degli aspetti essenziali delle riparazioni collettive sono messi in luce, tra gli altri, da C. Tomuschat quando afferma, con riferimento in particolare alla soddisfazione, che nei casi nei quali si ricorre ad esse, “ce n’est pas en première lieu l’individu atteint dans ses droits qui en est le bénéficiaire, c’est la collettivité nationale dans son ensemble. On peut même dire que de telles mesures de réparation collective relèvent du principe de la bonne gouvernance. Elles ont leur fondement dans le passé, mais jette un pont pour l’avenir”, in La protection internationale des droits des victimes, cit., 21. Nel sistema della CPI il ricorso alla riparazione collettiva è legata ai requisiti di cui al par. 3 dell’art. 98, sopra citato.

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tuazione considerando da una parte l’ampiezza degli interventi richie-sti in questi casi e, dall’altra, il fatto che la nozione di vittima, accolta nel Regolamento di procedura e prova della CPI, non è circoscritta al-le “natural persons who have suffered harm as a result of the commis-sion of any crime within the jurisdiction of the Court” ma include anche “organizations or institutions that have sustained direct harm to any of their property which is dedicated to religion, education, art or science or charitable purposes, and to their historic monuments, hospitals and other places and objects for humanitarian purposes”38. In tale prospettiva il limite alla operatività del Fondo, che può intervenire in funzione me-ramente “integrativa” rispetto agli obblighi riparatori del responsabile-condannato e con modalità concordate tra Fondo e CPI, rischia di non rendere il sistema adeguato alle esigenze delle riparazioni collettive, ma non solo, sopra descritte.

4. Natura e caratteri delle forme di riparazione in relazione alle gross violations

Prima di affrontare la questione relativa al diritto applicabile

all’obbligo di riparazione conseguente alla commissione di crimini in-ternazionali, quando esso vien fatto valere dinanzi alla CPI nei con-fronti di un individuo, sembra opportuno verificare se, secondo il di-ritto internazionale, esista una preclusione all’adozione di forme di ri-parazione di natura e con obiettivi diversi rispetto a quelli tradizio-nalmente conosciuti nel contesto della responsabilità interstatuale, come definiti nel Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati per atti illeciti approvato in seconda lettura dalla Commis-sione di diritto internazionale nel 200139.

È indubbio, infatti, che il Progetto è stato pensato per operare in un contesto tipicamente interstatuale secondo lo schema, quasi una formula di rito per la verità, stabilita dalla Corte permanente di giusti-zia internazionale nel caso Officina di Chorzow (1927) in forza del

38 Art. 85 del Regolamento di procedura e prova della CPI. 39 ILC Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, 31

May 2001, GA Res 56/83, 12 December 2001, corretto da GA Res 56/49, Vol. I, Corr. 4.

Per la dottrina sul punto, tra i numerosi contributi, J. Crawford - J. Peel - S. Olleson, The ILC’S Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts: Completion of the Second Reading, in European J. Int.L, 2001, 963 ss.; D. Shelton, Righting wrongs: Reparations in the Articles on State Responsibility, in 96 American J.Int. L 833 (2002); J. Crawford, Les articles de la C.D.I. sur la responsabilité de l’Etat, Parigi, 2003.

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quale “è un principio del diritto internazionale che la violazione di un impegno ha per conseguenza l’obbligo di riparare in forma adeguata”, naturalmente nei confronti di un altro Stato40.

È allo stesso modo difficilmente controvertibile che la possibilità di aprire tale regime ed “adattarlo” ad ipotesi ulteriori è previsto all’interno dello stesso Progetto della Commissione, in particolare dal suo art. 33: il par. 1 di tale articolo limita l’applicazione del regime re-lativo alle misure conseguenti al fatto illecito (comprese, quindi, le forme della riparazione) disegnato nel Progetto, ai casi di responsabili-tà dello Stato nei confronti di altro o altri Stati o riguardo alla comuni-tà internazionale nel suo complesso41. Ma il suo par. 242, lascia aperto lo spazio a forme di riparazione di natura diversa, rispetto a quelle previste nella parte seconda del progetto, e quindi la restituzione, il ri-sarcimento e la soddisfazione, quando i diritti che scaturiscono dalla responsabilità dello Stato vengono fatti valere ed invocati da un indi-viduo o da un ente diverso dallo Stato43.

40 Corte permanente di giustizia internazionale, Case Concerning the Factory at Chorzów, 1928, PCIJ Series A, No. 17, at 152.

41 “The obligations of the responsible State set out in this Part may be owed to an-other State, to several States, or to the International community as a whole, depending in particular on the character and content of the International obligation and on the cir-cumstances of the breach”.

42 “This part is without prejudice to any right, arising from the international respon-sibility of a State, which may accrue directly to any person or entity other than a State” confermato nel suo contenuto da quanto statuito nel Commentario all’art. 28 del Pro-getto “does not apply to obligation of reparation to the extent that arise towards or are invoked by a person or entity other than a State. In other words, the provisions of Part Two are without prejudice to any right, arising from the international responsibility of a State, which may accrue directly to any person or entity other than a State, and article 33 makes this clear” (Commentario, YILC, 2001, vol. II, Part Two, p 87-88, par. 3). Per un commento sul punto vedi, tra gli altri, J. Crawford, The ILC’s Articles on Responsi-bility of States for International Wrongful Acts: A Retrospect, in 96 American J. Int. Law, 874 (2002), 887 ss.

43 Nel senso di una tendenza ad affermare la responsabilità dello Stato diretta-mente nei confronti dell’individuo-vittima depone anche il contenuto del parere della Corte internazionale di giustizia sulle conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati del 2004. La Corte (Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, parere consultivo del 9 luglio 2004, CIJ Recueil 2004, 198) ha affermato che Israele, in applicazione del diritto della responsabilità internazionale, ha “l’obbligo di riparare tutti i danni causati a tutte le persone fisiche o giuridiche interessate” ed ancora che “Israele è tenuto a restituire le terre, i frutteti, gli uliveti, e gli altri beni immobili sottratti a tutte le persone fisiche o giuridiche in vista della costruzione del muro nel territorio palestinese occupato. Nel caso in cui la restituzione si dovesse rivelare materialmente impossibile Israele sarà tenuta a procedere al risarcimento delle persone in causa per il pregiudizio subito. Ad avviso della Corte Israele è tenuto ugualmente a risarcire, conformemente alle regole di diritto internazionale applicabile in materia, tutte le persone fisiche o giuridiche che

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È evidente che questa ipotesi è ben diversa dal caso ex art. 75 Sta-tuto CPI ove dell’obbligo riparatore nei confronti della vittima è de-stinatario non lo Stato, ma l’individuo responsabile. Tuttavia questa norma di apertura ha un suo significativo rilievo in quanto sembra la-sciare impregiudicata l’esistenza di regimi speciali di responsabilità e non qualifica o limita la natura del rinvio a tali regimi che, pertanto, ben può operare sia rispetto a situazioni di “semplici” violazioni di di-ritti individuali, sia di gross violations.

La possibilità di configurare un obbligo di riparazione dipendente e condizionato, in una certa misura, dal contenuto della norma inter-nazionale violata è peraltro contemplata nei casi di “Particular conse-quences of a serious breach of an obligation under peremptory norms of general international law”, sempre previste dal Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale della Commissione di diritto internazio-nale, all’art. 41. Il par. 3, in effetti, stabilisce che la codificazione del regime di responsabilità è senza pregiudizio di tutte le conseguenze supplementari che possono sorgere, secondo il diritto internazionale, a seguito della violazione grave di un’obbligazione derivante da norme imperative di diritto internazionale generale44, lasciando così ampio margine per lo sviluppo progressivo di regole tipiche e peculiari anche per i crimini internazionali, quando considerati violazioni di norme di ius cogens.

Lo Statuto della CPI, per la verità, fornisce qualche utile indica-zione in tale direzione, ma queste al momento contribuiscono solo parzialmente ad inquadrare e meglio definire il contenuto dell’obbligo di riparazione per i crimini di competenza della CPI: in primo luogo in quanto, ad oggi, nessuno dei procedimenti pendenti dinanzi la CPI è arrivato nella fase finale in modo da richiedere l’adozione in concreto di riparazioni individuali; in secondo luogo l’art. 75, dopo essersi limi-tato a richiamare quali forme della riparazione la restituzione, il risar-cimento e la riabilitazione, rinvia per una loro disciplina più compiuta all’adozione di Principi da stabilirsi anch’essi ad opera dalla CPI, che non sono ancor stati adottati. In mancanza di una disciplina più preci-sa, allo stato, in virtù dell’ampia discrezionalità di cui gode la CPI nel redigere tali Principi, ai fini di una loro corretta definizione, non do-vrebbero essere ignorate la prassi e la giurisprudenza internazionale maturata in relazione alle gross violations, mutuando così soluzioni che

abbiano subito un pregiudizio materiale qualunque in conseguenza della costruzione del muro” (par. 152-153).

44 Testualmente il par. 3: “This article is without prejudice to the other consequenc-es referred to in this part and to such further consequences that a breach to which this chapter applies may entail under international law”.

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si sono rivelate in tale contesto, come vedremo, efficaci. In tale pro-spettiva, ad esempio, considerare la restitutio in integrum quale forma primaria di riparazione rispetto al risarcimento monetario, come acca-de proprio per le gross violations, consentirebbe di evitare quella sorta di monetarizzazione del pregiudizio che si verificherebbe qualora il soggetto obbligato potesse scegliere tra il ripristinare la situazione an-tecedente alla commissione dell’illecito e pagare invece una somma per la sua violazione, con il rischio così di favorire una sorta di impunità dietro il pagamento di una somma.

E tuttavia la predisposizione dei Principi, richiesta ex art. 75 Statu-to CPI, dovrebbe tenere nella giusta considerazione la circostanza che alcune misure ritenute ricomprese nella restitutio in integrum possono essere adottate solo quando obbligato alla riparazione è lo Stato e non il singolo soggetto: è il caso del ripristino dello status quo ante quando esso comporta l’obbligo per lo Stato di modificare il proprio sistema legislativo o amministrativo o giudiziario persino a livello costituziona-le45.

5. La soddisfazione e le garanzie di non ripetizione tra obblighi di ri-parazione statuali e obblighi di riparazione individuali

Un prezioso strumento per la definizione dei Principi ex art 75

CPI può essere rappresentato dalle misure di riparazione descritte nei Basic Principles, sovente richiamati dalla giurisprudenza della Corte interamericana che ne ha fatto applicazione riguardo ad ipotesi di re-sponsabilità dello Stato direttamente nei confronti delle vittime.

Peraltro, in considerazione del fatto che la giurisdizione della CPI è esercitata sulle persone fisiche, lo Statuto della CPI tende a delineare in maniera piuttosto chiara i limiti all’esercizio della propria giurisdi-zione quando l’art.25 dello Statuto afferma che nessuna disposizione dello stesso relativa alla responsabilità individuale “shall affect” la re-sponsabilità degli Stati, secondo il diritto internazionale.

La demarcazione tra il regime della responsabilità individuale e quella statuale coinvolge e si estende alle forme della riparazione, con

45 Per apprezzare in pieno la portata di tale obbligo nell’ambito della restituto in integrum è il caso di sottolineare come sia proprio il commentario al Progetto sulla responsabilità degli Stati della CDI approvato in seconda lettura del 2001 a prevedere che la revoca, la modifica o l’annullamento di disposizioni nazionali riguarda persino le norme di rango costituzionale adottate in contrasto con obblighi internazionali; ciò prescindendo dai problemi classificatori legati all’incertezza esistente in dottrina e nel-la prassi circa la collocazione di tali misure tra gli obblighi di cessazione dell’illecito, o la restitutio in integrum o il dovere di porre in essere garanzie di non ripetizione.

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la conseguenza che alcune misure di riparazione “classiche” non sono espressamente incluse e contemplate dall’art. 75 Statuto CPI.

Ciò sembra appunto dovuto alla difficoltà di far transitare pedisse-quamente alcune di queste misure dal regime della responsabilità degli Stati al contesto della CPI, essendo la loro realizzazione nel contesto “classico” legata ad un impegno assunto da un soggetto di natura sta-tuale che ne garantisce il loro adempimento, mentre nel sistema della CPI la loro piena applicazione non può essere sempre assicurata da un comportamento di natura individuale.

E dunque pur non essendoci, per la verità, unanimità in dottrina nel farle rientrare tra di esse46, non compare tra le forme della ripara-zione ex art. 75 Statuto CPI la soddisfazione. Non si può fare a meno di notare che la sua assenza nel sistema della CPI priverebbe la vittima di una misura assai efficace che non svolge più una funzione residuale rispetto alle altre forme di riparazione.

Da rimedio a quel danno non suscettibile di ristoro né tramite la restitutio in integrum né tramite il risarcimento e quindi concepita es-senzialmente per i pregiudizi all’onore ed alla dignità dello Stato, essa ha subito una significativa evoluzione nel contenzioso relativo alle gross violations, in particolare nell’esperienza della Convenzione inte-ramericana dei diritti dell’uomo, sino ad essere adottata in concomi-tanza dell’avvio di processi di riconciliazione quale misura volta ad agevolarne lo sviluppo e a ricreare le condizioni per il ristabilimento di relazioni stabili tra le varie componenti della società47.

Questo nuovo ruolo ha portato a configurare la soddisfazione, sebbene adottata da giurisdizioni che statuiscono sui diritti individuali, quale misura che spesso supera il caso singolo ed il rapporto tra lo Sta-to e alcune delle vittime considerate a livello individuale. In più di una occasione, soprattutto nel contesto interamericano nei casi relativi al Perù ed al Guatemela48, la Corte interamericana ha, ad esempio, impo-sto come forme di soddisfazione per i casi più lievi l’accertamento del-la violazione ad opera dell’organo giurisdizionale o la punizione dei responsabili dei crimini commessi e l’obbligo per lo Stato di presenta-

46 Ad es. M. Iovane la riconduce alla necessità di ristabilire l’ordine giuridico tur-

bato dalla violazione e quindi con una funzione esecutiva, nella sostanza, degli obbli-ghi primari violati, in La riparazione nella teoria e nella prassi dell’illecito internaziona-le, Milano, 1990, in particolare 202.

47 Cfr. in generale C. Barthe-Gay, Réflexions sur la satisfaction en droit internatio-nal, in Ann. Fr. Dr. Int., 2003, 105 ss.

48 Ad es. Corte interamericana dei diritti dell’uomo, caso Cantoral-Benavides v. Perù, Reparations and Costs, 3 dicembre, 2001, in Inter-American Yearbook of Human Rights, 2003, 370 ss.; ma anche Bámaca-Velásquez v. Guatemala, Reparations and Costs, 22 dicembre 2002, in Inter-American Yearbook of Human Rights, 2002, 404 ss.

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re scuse ufficiali; mentre per i casi delle più gravi violazioni dei diritti umani, quindi sparizioni forzate, torture, e privazioni arbitrarie della vita, ha richiesto l’obbligo per lo Stato di predisporre un piano di rie-sumazione delle vittime e la pubblicazione della sentenza sulla Gazzet-ta Ufficiale ed in un quotidiano a diffusione nazionale; l’obbligo di ri-cercare il corpo della vittima al fine di renderlo ai familiari e fornendo adeguata assistenza alla famiglia nella sepoltura; l’obbligo di intitolare un centro educativo alla memoria delle vittime tramite una cerimonia pubblica alla presenza dei familiari; la costruzione di monumenti e la intitolazione di una piazza alla memoria delle vittime49; la istituzione di un fondo per indennizzare le vittime dei crimini commessi; la realizza-zione di infrastrutture e servizi sociali a beneficio delle comunità di appartenenza delle vittime. Emblematica della loro funzione “rico-struttiva” e collettiva svolta nel contesto delle politiche di giustizia di transizione è l’articolazione di tali misure nel caso Plan de Sanchèz Massacre50 (2004) ove, con riferimento alla comunità Maya Achì stan-ziata in Guatemala, sono stati disposti circa nove modi diversi per soddisfare le necessità della popolazione vittime delle persecuzioni razziste e genocidarie dei regimi precedenti. Oltre alla classica richie-ste di svolgere inchieste sul massacro e sui suoi autori, è stata decisa la commemorazione pubblica delle persone uccise con una manifestazio-ne pubblica nell’ambito della quale riconoscere le responsabilità; studi e divulgazione della cultura Maya Achì grazie al supporto dell’ac-cademia guatemalteca della lingua maya; il mantenimento e rafforza-mento delle vie di comunicazione stradali tra la capitale municipale ed i luoghi ove queste comunità sono stanziate; il rafforzamento del si-stema idrici e delle acqua potabili in tale zona; il sostegno al personale insegnante nelle comunità per quanto riguarda gli aspetti interculturali e linguistico della scuola primaria e secondaria; l’assistenza medica speciale per le vittime del massacro; la traduzione nella lingua indigena locale parlata dalle vittime delle sentenze adottate e del testo della Convenzione americana dei diritti dell’uomo con un’adeguata diffu-sione tramite i media. Ed infine: la creazione di un fondo finanziario, intitolato alla memoria delle vittime a diposizione della comunità indi-gena per realizzare opere nell’interesse della comunità e la ricerca dei corpi delle vittime51.

49 Cfr., ad es., Corte interamericana dei diritti dell’uomo, caso Castillo-Páez v. Perù, Reparations and Costs, 27 novembre 1998 in Inter-American Yearbook of Human Rights, 1998, 3830 ss.

50 Corte Interamericana dei diritti dell’uomo, Plan de Sánchez Massacre v. Guate-mala, Reparations and Costs, 30 giugno 2004, par. 110.

51 Per un’esauriente ricognizione della giurisprudenza interamericana sul punto, ma non solo, vedi G. Bartolini, Riparazione per violazione dei diritti umani e ordina-

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La varietà ed eterogeneità delle misure disposte trova un preciso riscontro nei Basic Principles che le elencano in maniera dettagliata al par. 2252 ricomprendendovi, tra le altre, la verifica dei fatti e la pubbli-ca e completa ammissione della verità; una dichiarazione ufficiale o una sentenza che restituisca la dignità, la reputazione ed i diritti della vittima o delle persone ad essa vicine; pubbliche scuse, incluso il rico-noscimento dei fatti e l’ammissione della responsabilità; la commemo-razione e l’omaggio alle vittime.

Considerazioni in parte analoghe si possono avanzare per quanto concerne le garanzie di non ripetizione, anch’esse non richiamate dall’art. 75 dello Statuto CPI. Dal punto di vista sistematico il mancato mento internazionale, Napoli, 2009, 427 ss. In particolare appare interessante rilevare che nel caso di gravi violazioni dei diritti umani realizzatesi in aree geografiche diffe-renti dal continente americano, come ad esempio quella europea, in presenza di con-dizioni e presupposti simili anche le misure di riparazione tendono ad avvicinarsi e a presentare caratteri analoghi. In tal senso potrebbero leggersi alcune decisioni della Camera dei diritti umani della Bosnia Erzegovina ad esempio nel caso Selimovic (CH/01/8365 et al. Selimovic and 48 Others against Republica Srpska -The Sebrenica case-, Decision on the Admissibility and Merits, 7/3/2003, par. 203-219) relativo al massacro di Sebrenica: invece di procedere al riconoscimento su base individuale del risarcimento dei danni, materiali e morali, subiti dai familiari delle vittime, interpre-tandone la loro volontà di veder affermata innanzitutto la verità su quanto accaduto e restituita la loro dignità, dispone l’istituzione ad opera dell’Alto rappresentante della Fondazione per il memoriale e il cimitero di Srebrenica-Potocari con il precipuo scopo di costruire e conservare luoghi simbolici idonei a perpetuare la memoria collettiva dei massacri avvenuti; fondo, questo, finanziato con somme stanziate proprio a carico del-le Repubblica Srpska. Per il richiamo alla giurisprudenza della Camera vedi G. Barto-lini, cit., 448.

52 Testualmente il par. 22: “Satisfaction should include, where applicable, any or all of the following:

(a) Effective measures aimed at the cessation of continuing violations; (b) Verification of the facts and full and public disclosure of the truth to the extent

that such disclosure does not cause further harm or threaten the safety and interests of the victim, the victim’s relatives, witnesses, or persons who have intervened to assist the victim or prevent the occurrence of further violations;

(c) The search for the whereabouts of the disappeared, for the identities of the chil-dren abducted, and for the bodies of those killed, and assistance in the recovery, identifi-cation and reburial of the bodies in accordance with the expressed or presumed wish of the victims, or the cultural practices of the families and communities;

(d) An official declaration or a judicial decision restoring the dignity, the reputation and the rights of the victim and of persons closely connected with the victim;

(e) Public apology, including acknowledgement of the facts and acceptance of re-sponsibility;

(f) Judicial and administrative sanctions against persons liable for the violations; (g) Commemorations and tributes to the victims; (h) Inclusion of an accurate account of the violations that occurred in international

human rights law and international humanitarian law training and in educational mate-rial at all levels.”

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richiamo potrebbe essere dovuto al fatto che non vi è unanimità di orientamenti circa la loro riconduzione alle forme della riparazione. Se i Basic Principles le considerano tali, come peraltro emerge anche da altri documenti internazionali53, nel Progetto di articoli sulla responsa-bilità internazionale della CDI approvato in seconda lettura le garanzie di non ripetizione, insieme all’obbligo di cessazione dell’illecito, ven-gono invece ritenute una distinta e separata conseguenza dell’atto in-ternazionalmente illecito commesso dallo Stato. Anche in questo caso per la violazione commessa da un individuo, responsabile della com-missione di uno dei crimini di competenza della CPI, rimane aperto il problema se applicare a queste ipotesi le categorie definite per l’illecito commesso dallo Stato e quindi ritenere le garanzie di non ripetizione una conseguenza dell’illecito, pur quando commesso da un individuo. Se cosi fosse non rileverebbe, ai fini della loro applicazione nel conte-sto della CPI, il loro mancato richiamo ex art. 75 tra le forme della ri-parazione, poiché tali garanzie sarebbero applicabili in quanto sempli-ci conseguenze dell’illecito. È questo un punto che i Principi dovreb-bero chiarire ma, come per la soddisfazione, non può fare a meno di rilevarsi che l’adozione di tali misure, a prescindere dalla loro ricondu-zione sistematica al contesto della riparazione o meno o alla loro con-figurazione in chiave autonoma come una parte della dottrina ritiene, è prerogativa, per la loro natura, pressoché esclusiva dello Stato poten-dosi difficilmente configurare un simile obbligo in capo ad un soggetto qualora ritenuto responsabile della commissione di tali crimini. La forma assunta in concreto dalle garanzie di non ripetizione, legata sia alla gravità della violazione della norma a tutela dei diritti umani commessa che alla frequenza della violazione perpetrata dallo Stato ritenuto responsabile, ne pone in risalto infatti la natura di misure a carattere prevalentemente generale e collettivo che, intervenendo sulle condizioni strutturali che facilitano la commissione delle violazioni, possono scongiurarne in futuro di nuove con un’indubbia funzione

53 In particolare il riferimento è alla collocazione delle garanzie di non ripetizione

nel testo finale dell’art. 42 del Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato ap-provato in prima lettura (6 maggio-26 luglio 1996) ove, pur essendo distinte dalla sod-disfazione, esse sono ricomprese tra le forme della riparazione. L’art 42, dedicato ap-punto alla riparazione, testualmente recita “Lo Stato offeso ha diritto di ottenere dallo Stato che ha commesso un atto internazionalmente illecito piena riparazione sotto forma di restituzione in forma specifica, risarcimento, soddisfazione ed assicurazioni e garanzie di non reiterazione, singolarmente o in combinazione”. Sul tema, prospettan-do una soluzione ancora diversa che vuole le garanzie di non ripetizione godere di una loro posizione autonoma, vedi G. Palmisano, Les garanties de non-répétition entre codi-fication et réalisation juridictionelle du droit: à propos de l’affaire LaGrand, in Rev. Gén. Dr. Int. Pub., 2002, 753 ss.

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preventiva e rivolta al futuro, a differenza dell’obbligo di cessazione dell’illecito e della restituito. In tal senso esse concorrono a consolidare e rafforzare il sistema istituzionale con l’imposizione, a carico dello Stato in questione, di comportamenti anche di natura positiva.

L’ampiezza delle forme che possono assumere le garanzie di non ripetizione, in relazione alle gross violations, la rinveniamo al par. 23 dei Basic Principles and Guidelines adottati dall’Assemblea Generale dell’ONU del 200554 che tra le altre contemplano il rafforzamento dell’indipendenza del potere giudiziario; la protezione di coloro che svolgono le professioni, legali, e sanitarie e mediche, nel settore della comunicazione ed altre professioni ad esso collegate e dei difensori dei diritti umani; la formazione in materia di diritti umani e di diritto umanitario per tutti i settori della società e in particolare per le forze di polizia e militare; il promuovere l’osservanza dei codici di condotta ed etici, in conformità agli standards internazionali, da parte dei fun-zionari pubblici, delle forze di polizia, militari e del personale carcera-rio, delle professioni sanitarie e mediche, e delle imprese; il promuove-re l’istituzione di meccanismi volti a prevenire e monitorare conflitti sociali ai fini di una loro risoluzione.

La dimensione collettiva così perseguita, peraltro, non avviene a scapito della riparazione del pregiudizio individuale poiché le misure citate possono concorrere ed essere disposte in combinazione tra loro; sia la soddisfazione che le garanzie di non ripetizione, quindi, possono lasciare spazio ora alla restitutio in integrum ora al risarcimento, quali

54 Guarantees of non-repetition should include, where applicable, any or all of the

following measures, which will also contribute to prevention: (a) Ensuring effective civilian control of military and security forces; (b) Ensuring that all civilian and military proceedings abide by international stand-

ards of due process, fairness and impartiality; (c) Strengthening the independence of the judiciary; (d) Protecting persons in the legal, medical and health-care professions, the media

and other related professions, and human rights defenders; (e) Providing, on a priority and continued basis, human rights and international

humanitarian law education to all sectors of society and training for law enforcement officials as well as military and security forces;

(f) Promoting the observance of codes of conduct and ethical norms, in particular in-ternational standards, by public servants, including law enforcement, correctional, media, medical, psychological, social service and military personnel, as well as by economic en-terprises;

(g) Promoting mechanisms for preventing and monitoring social conflicts and their resolution;

(h) Reviewing and reforming laws contributing to or allowing gross violations of in-ternational human rights law and serious violations of international humanitarian law.

(i) Access to relevant information concerning violations and reparation mechanisms.

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rimedi a carattere pecuniario per riparare la componente del pregiudi-zio suscettibile di valutazione economica.

Le considerazioni svolte sia in merito alla soddisfazione che alle garanzie di non ripetizione mettono in luce come l’incertezza interpre-tativa legata alla sola lettera dell’art. 75 dello Statuto CPI renderebbe opportuna, anche in questo caso, un’opera chiarificatrice da parte del-la CPI al momento della predisposizione dei Principi applicabili alle forme di riparazione così da adattarle, ove possibile, al diverso conte-sto nel quale sono chiamate ad operare ovvero quello relativo ad un legittimato passivo che non è più lo Stato, ma l’individuo responsabile ed autore di tali crimini.

Peraltro lo Statuto sembra ammettere un certo “margine di apprez-zamento” nell’interpretazione e definizione dei Principi; quando l’art. 75 stabilisce che essi debbono includere la restituzione, il risarcimento e la riabilitazione, pone quasi una regola di condotta “de minimis” lasciando prefigurare così anche la possibilità che i Principi ne possano considerare di altre, ulteriori rispetto a quelle citate espressamente.

Inoltre l’ultimo paragrafo dell’art. 75 Statuto CPI chiarisce che le disposizione in materia di riparazione sono adottate senza pregiudizio dei diritti che il diritto interno o il diritto internazionale riconosce alle vittime, rendendo così praticabile un rinvio alle altre misure, come de-finite dalla prassi e dalla giurisprudenza internazionale in relazione alle gross violations, e non contemplate dall’art. 75 Statuto CPI. Per quan-to concerne in particolare la soddisfazione, che forse meglio di altre risponde alle necessità legate ai crimini in questione, il suo richiamo consentirebbe di modulare le misure in concreto determinabili non so-lo in relazione alla gravità della violazione commessa ma in funzione del contesto nel quale esse vanno ad inserirsi; contesto spesso di ricon-ciliazione che influisce e condiziona le finalità che la singola forma di riparazione è chiamata a perseguire e che induce a valutare la sua por-tata ed efficacia al di là della ratio espressa dal singolo giudizio nel quale viene stabilita. Fino a che punto forme di riparazione, pensate e strutturate per agire in un relazione ad un obbligo di cui è destinatario lo Stato, sono capaci di adattarsi ad un diverso sistema dove lo Stato non può avere un ruolo cosi determinante è una delle risposte che può venire dall’esame delle modalità di applicazione dell’altra forma di ri-parazione, invece espressamente prevista dall’art. 75 CPI, ovvero la riabilitazione (anch’essa contenuta nei Basic Principles).

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6. Il Fondo di garanzia delle vittime ed il ruolo della riabilitazione nell’ambito dei processi di Transitional Justice

La natura di questa misura, secondo qualche autore55 ritenuta pri-

va di una propria autonomia rispetto alla restitutio in integrum, consi-ste essenzialmente in attività di assistenza alle vittime, quali cure medi-che e psicologiche, nonché in prestazioni di servizi legali e sociali volte al loro reinserimento nella vita sociale della comunità di appartenenza. Nel sistema della CPI oltre ad essere contemplata tra le forme di ripa-razione poste a carico del responsabile dei crimini di competenza della Corte, la riabilitazione rappresenta una delle finalità che ispira gli in-terventi in favore delle vittime decisi direttamente dal Fondo di garan-zia56. Mentre, per la prima ipotesi, al momento non vi sono state sen-tenze di condanna da parte della CPI e quindi è assente una prassi sul punto, non mancano invece casi di interventi del Fondo giustificati esclusivamente in funzione della riabilitazione delle vittime. Il presup-posto sul quale riposa il ricorso alle misure in questione, nei due casi, non è tuttavia lo stesso. L’accertamento e l’individuazione a livello giudiziario delle vittime, piuttosto che del reo, e la diversa provenienza delle risorse che confluiscono nel Fondo, elementi questi tra loro cor-relati, ne condizionano in buona parte la loro adozione57. Se prove-nienti direttamente dall’individuo responsabile, allora le misure decise e adottate hanno quali destinatari solo le vittime accertate nel proce-dimento dinanzi alla CPI, nei confronti delle quali si dirige l’obbligo riparatore, in senso stretto, gravante sul condannato. Queste somme, derivanti dalle penalità e confische a carico del responsabile, possono essere eventualmente “integrate” con risorse di origine diversa, versate da donatori, Stati o privati; attesa la natura anche collettiva che le ripa-razioni ex art 75 possono assumere e la nozione ampia di vittima accol-ta nello Statuto della CPI, fattori implicanti un impegno generalmente maggiore ai fini dell’assolvimento dell’obbligo riparatore non solo in

55 In tal senso P. D’Argent, Le droit de la responsabilité, cit., 52. 56 L’art. 79 dello Statuto CPI ne definisce, anche se in maniera sintetica, le compe-

tenze e le condizioni di impiego: “1. A Trust Fund shall be established by decision of the Assembly of States Parties for the benefit of victims of crimes within the jurisdiction of the Court, and of the families of such victims. 2. The Court may order money and oth-er property collected through fines or forfeiture to be transferred, by order of the Court, to the Trust Fund. 3. The Trust Fund shall be managed according to criteria to be deter-mined by the Assembly of States Parties.”

57 Vedi l’art. 98 par. 3: “The award for reparations thus deposited in the Trust Fund shall be separated from other resources of the Trust Fund and shall be forwarded to each victim as soon as possible”.

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termini monetari58, il ricorso a tali risorse aggiuntive pare particolar-mente opportuno. Se poi, come si è visto in precedenza accadere per la soddisfazione e le garanzie di non ripetizione, si tratta di forme di riparazione che per l’alto numero delle vittime e per la particolare gra-vità delle violazioni, spesso tipiche di regimi oppressivi, implicano l’adozione di una serie di strumenti a carattere generale volti a favorire i processi di riconciliazione nazionale59, l’attività del Fondo diventa uno strumento addirittura indispensabile per la loro realizzazione. Permane il quesito, che potrà esser sciolto solo dalla prassi sul punto, se la funzione complementare del Fondo, rispetto alle risorse raccolte dall’individuo responsabile, possa limitarsi ad essere tale e non richie-da invece un coinvolgimento senza limite alcuno. D’altronde l’impiego del Fondo, in situazioni simili, non sminuisce la funzione riparatrice legata all’imposizione dell’obbligo di natura individuale non solo per-ché la misura a carattere collettivo concorre con quella individuale, se-condo un modello già visto60, ma in quanto differenti sono le finalità alle quali ciascuna di essa risponde. In virtù delle caratteristiche dei crimini perseguiti dalla Corte, l’accertamento della verità e dei respon-sabili conseguito con la sentenza ed il semplice riconoscimento dell’esistenza di un obbligo di riparazione in favore delle vittime ed in capo al responsabile, al di là della materiale erogazione di fondi, può soddisfare infatti quella funzione simbolica e di riconoscimento delle vittime e dei pregiudizi da queste subiti che costituisce già una tra le forme di riparazioni possibili affatto secondaria, come forse meglio di altre l’esperienza giuridica europea testimonia. Le modalità con le qua-li la riparazione collettiva viene corrisposta disegna, pertanto, per que-ste misure un modus operandi, in virtù del ruolo riconosciuto accanto all’individuo responsabile del Fondo chiamato a renderle effettive, che rappresenta una delle novità principale del sistema di riparazione in favore delle vittime, legando buona parte del successo della CPI al suo corretto funzionamento.

Nell’altra ipotesi, qualora alimentato da “other resources”61 e cioè

58 Il Consiglio di amministrazione del Fondo può, secondo l’art. 56 del suo Rego-

lamento interno, “complement the resources collected through awards reparation with “others resources” o, in base all’art. 20 sempre del suo Regolamento interno, lanciare a “public donor appeal for voluntary contribution supported by reparations order”.

59 Per il richiamo ad alcune di queste misure vedi supra par. 5 60 Vedi supra par. 5. 61 L’art. 98 del Regolamento di Procedura e prova della Corte dispone al par. 2

che “The award for reparations thus deposited in the Trust Fund shall be separated from other resources of the Trust Fund and shall be forwarded to each victim as soon as possi-ble” mentre lo stesso articolo al par. 4 prevede che “other resources of the Trust Fund may be used for the benefit of victims subject to the provisions of article 79”.

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versate da donatori, Stati o privati, l’intervento in “riabilitazione” non ha, invece, quale suo presupposto l’accertamento e la condanna per uno dei crimini di competenza della CPI o anche la semplice parteci-pazione delle vittime al giudizio dinanzi la Corte, avendo quale obiet-tivo principale quello di sostenere le attività del Fondo finalizzate esclusivamente all’assistenza e riconciliazione, alla riabilitazione e soli-darietà. In questi casi le condizioni di impiego del Fondo sono indiriz-zate al beneficio del più ampio numero di vittime “potenziali”62 non-ché dei loro familiari, e non circoscritte dalla nozione di vittima come definita ed individuata a livello giudiziario. È quanto il Fondo, nell’ambito del suo secondo mandato, ha realizzato con i programmi di assistenza e riabilitazione delle vittime in Uganda e nella Repubblica democratica del Congo63, ad ampio raggio, mirati a tre obiettivi: la ria-bilitazione fisica, quella psicologica e le altre forme di sostegno mate-riale per le vittime dei crimini di competenza della CPI, secondo quan-to stabilito nel Regolamento del Fondo (art. 48)64. Il rilievo dei bisogni delle vittime sorti a seguito dei pregiudizi subiti, determinante per l’adozione delle misure necessarie al raggiungimento degli obiettivi sopra accennati, avviene ad opera del Fondo in base a tre parametri relativi ai mezzi di sostentamento a disposizione delle stesse vittime: a) il possesso di qualità personali, come le capacità professionali, il grado di educazione, la salute, l’orientamento psicologico; b) la capacità di accesso a risorse materiali o immateriali; c) l’esistenza di attività eco-nomiche. Il coinvolgimento del Fondo nell’adozione di misure di sup-porto ed a beneficio delle vittime consistenti in attività caratterizzate da una finalità di riabilitazione interdipendente con quella della ricon-ciliazione, siano esse inquadrabili tra le riparazioni collettive vere e proprie o superino esse il dato riparatore inteso in senso strettamente

62 Secondo l’art. 48 del Regolamento del Fondo le risorse devono essere utilizzate

a beneficio delle “victims of crimes as defined in Rule 85 of the Rules, and, where natu-ral persons are concerned, their families, who have suffered physical, psychological and/or material harm as result of these crimes.” Nozione questa, d’altronde, che rap-presenta il discrimine tra le finalità perseguite dal Fondo e quelle di altre organizza-zioni umanitaria essendo la finalità socio-economica un riflesso, a volte frequente ma sempre un riflesso, del suo intervento che ha quale presupposto determinante, invece, l’esistenza di un pregiudizio subito dalle vittime e riconducibile ad uno dei reati di competenza della CPI.

63 Ciò ha consentito al Fondo di predisporre e realizzare, dal 2008 ad oggi, 29 progetti in Uganda del Nord (16) e nella Repubblica democratica del Congo (13) i quali hanno interessato circa 70.000 vittime.

64 Prima di intraprendere ciascun programma di azione il Fondo deve notificare alla Pre-Trial Chamber della CPI l’intenzione di procedere in tal senso descrivendo i presupposti che sono alla base della sua azione, nonché le finalità perseguite, affinché la proposta venga approvata.

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giuridico, fanno ritenere il Fondo un’istituzione nel panorama interna-zionale realmente sui generis65, sicuramente non lontana da quel con-cetto di giustizia ristoratrice che dovrebbe caratterizzare i processi di Transitional Justice66 e nel cui ambito si possono collocare le attività dallo stesso promosse.

L’esperienza maturata dal Fondo, al momento solo riguardo alla riabilitazione, potrebbe non rimanere ad essa circoscritta ed, anzi, es-sere “esportata” alla soddisfazione ed alle garanzie di non ripetizione. Qualora venissero incluse nei Principi o decise dalla CPI in forza dell’art. 75 Statuto della CPI, potrebbe anche per esse ipotizzarsi un analogo ruolo del Fondo67 quale garante, anche in questo caso, della loro integrale esecuzione considerata da un parte l’impossibilità spesso di porle a carico dello Stato e, dall’altra, la finalità ricostruttiva alla quale queste misure rispondono, oltrepassante la dimensione indivi-duale, quali misure anch’esse facenti parte di un più ampio program-ma di riconciliazione nazionale, rivolte a comunità divise, e di riforme istituzionali all’interno di processi di Transitional Justice68.

Questa prospettiva è stata ben colta da alcune giurisdizioni inter-nazionali che hanno individuato gli aspetti fondamentali e la stessa ba-se giuridica della Transitional Justice nella loro giurisprudenza. La Corte interamericana, ad esempio, nella decisione del 1988 nel caso Velásquez Rodríguez v. Honduras69, utilizzando nella misura più ampia possibile gli strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale della responsabilità degli Stati, ha precisato quattro fondamentali ob-blighi a carico degli stessi Stati in favore delle vittime di gravi violazio-ni dei diritti umani: 1) adottare le misure necessarie a prevenire le vio-

65 Sul punto vedi G-J.G. J. Knoops, Theory and practice of international and inter-

nationalized criminal proceedings, The Hague, 2005. 66 Cfr. De Greiff - R. Duthie (a cura di), Transitional Justice and Developmen:

Making Connection, New York, 2009. 67 Occorre non sottovalutare il contributo che un’azione a cosi ampio raggio può

fornire nel processo di legittimazione della stessa attività puramente giurisdizionale della Corte, processo di legittimazione di cui oggi le giurisdizioni internazionali, ma non solo per la verità, non possono fare a meno. Cfr. A. Von Bogdandy - I. Venzke, In nome di chi? Giurisdizione internazionale e teoria del discorso, Torino, 2010.

68 Come la finalità ricostruttiva così la funzione collettiva e simbolica tipiche della soddisfazione e delle garanzie di non ripetizione e della riabilitazione, riguardanti pe-raltro altre forme di riparazione, appaiono strettamente connesse, ed in qualche misu-ra condizionate, dai processi di riconciliazione nazionale e dalle politiche di giustizia di transizione all’interno dei quali si collocano in molti delle realtà e dei paesi interes-sati da esperienze di Transitional Justice: Argentina, Brasile, El Salvador, Germania, Giappone, Malawi, Sud Africa ed in qualche modo Stati Uniti.

69 Velásquez Rodríguez v. Honduras, Merits, 21 luglio 1988, in Inter-American Yearbook of Human Rights, 1989, 816 ss.

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lazioni dei diritti umani; 2) condurre approfondite indagini delle viola-zioni, una volta consumate; 3) imporre sanzioni adeguate ai responsa-bili delle violazioni; 4) assicurare riparazione per le vittime delle viola-zioni.

Se confrontiamo la natura ed il contenuto di tali obblighi con la definizione delle Nazioni Unite data ai processi di riconciliazione na-zionale, non è difficile notare una parziale coincidenza di obiettivi, ed in alcuni casi degli stessi strumenti per conseguirli. Per le Nazioni Uni-te il raggiungimento dei tre principali obiettivi legati ad un passato di abusi e violazioni dei diritti umani ovvero il diritto di conoscere, quin-di diritto alla verità; il diritto alla giustizia, ed il diritto alle riparazioni ed alla non ripetizione70 deve essere assicurato da meccanismi giudizia-ri e non giudiziari che includono l’accertamento delle responsabilità di tali crimini, l’agevolazione delle azioni volte al ristabilimento della ve-rità, la garanzia di riparazioni, riforme istituzionali e consultazioni na-zionali. Elementi questi adottabili in combinazione tra loro e quindi cumulabili71, con l’unico limite rappresentato dalla conformità agli obblighi ed agli standards internazionali 72.

Il comune modo di intendere il momento riparatore, con una pro-spettiva non solo rivolta al passato, in chiave retributiva, quanto piut-tosto considerato tra le misure capaci di contribuire a ristabilire o con-solidare l’assetto istituzionale e le basi della convivenza civile in via di ricomposizione nell’ambito dei processi di Transitional Justice, tipici anche delle società post-conflittuali o post-autoritarie, rende l’attività del Fondo un modello di intervento replicabile, a determinate condi-zioni, anche per le Historical Injustices.

70 Cfr. Set of Principles to Combat Impunity, UN Doc.E/CN.4/2005/102/Add.1

sviluppati in risposta alla Vienna Declaration and Programme of Action (1993), UN Doc.A/CONF.157/23, Part. II, par. 91.

71 La preoccupazione di scongiurare una sorta di concorrenza con l’attività svolta dalle Commissione verità e riconciliazione traspare da alcune decisioni della Corte in-teramericana che non ha ritenuto l’attività di accertamento dei fatti svolta da tali Commissioni, alternativa o sostitutiva dell’accertamento e della punizione dei crimini eseguito in sede giudiziaria tramite gli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale, quando ad es.“the Court deems it appropriate it specify that the “historical truth” con-tained in the said report does not complete or substitute the State’s obligation to also establish the truth through court proceedings” (vedi Corte interamericana, caso La Can-tuta v. Perù, Merits, Reparations and Costs, 29 novembre 2006, par. 224).

72 Testualmente: “Transitional justice consists of both judicial and non-judicial mechanisms, including prosecution initiatives, facilitating initiatives in respect of the right to truth, delivering reparations, institutional reform and national consultations. Whatever combination is chosen must be in conformity with international legal stand-ards and obligations” vedi in Guidance Note of the Secretary-General “United Nations Approach to Transitional Justice”, 2010, 2.

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7. Memoria e riparazione: l’esperienza europea L’esperienza europea conferma la tendenza a riconoscere aspetti

peculiari nelle forme di riparazione adottate in risposta ai danni da in-giustizie della storia73. In particolare, confrontando i processi di ricon-ciliazione europei con quelli di altre realtà geografiche, colpisce il dato che le richieste riparatrici formulate in relazione ai crimini commessi dai regimi oppressivi, in particolare nell’Europa centro-orientale al tempo dell’URSS, hanno ad oggetto non tanto il risarcimento dei pre-giudizi subiti dalle vittime quanto, a differenza di ciò che accade in al-tri contesti territoriali, la necessità dell’affermazione della verità e della conservazione della memoria storica. Questo elemento incide sugli strumenti scelti per dare risposte alle domande di “riparazione”. La tendenza seguita dalle istituzioni europee e dai singoli Stati membri è quella di valorizzare misure specifiche, quali l’eliminazione della sim-bologia totalitaria (nomi delle strade, simboli nei luoghi pubblici, men-tre in alcuni Stati membri la legge vieta esplicitamente l'uso di simboli connessi ai regimi totalitari), l’istituzione di giornate della memoria, la creazione di siti commemorativi e monumenti dedicati alla memoria dei crimini perpetrati dai regimi totalitari, esistenti in pratica in tutti gli Stati membri dove si trovano luoghi di martirio, campi di concen-tramento e di sterminio, che meglio di altre possono contribuire effi-cacemente alla conservazione della memoria in funzione “riparatrice”. In alcuni Stati membri (Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania, ad es.), inoltre, vi sono musei tematici dedicati ai crimini commessi dai regimi comunisti mentre una delle misure più invocate riguarda l’accesso agli archivi, l’accesso ai documenti di im-portanza personale o necessari per la ricerca scientifica, con la esplicita richiesta che in tutti gli Stati membri si compia un autentico sforzo per la loro completa apertura. La necessità di confrontarsi con le ingiusti-zie ed i crimini commessi in Europa dai regimi repressivi responsabili di violazioni dei diritti umani74, si è fatta più viva dopo l’allargamento

73 Sul tema di recente L. Davis, The European Union and Transitional Justice,

2010, reperibile on line in http://www.initiativeforpeacebuilding.eu/-pdf/EUTJOct.pdf; C. Closa Montero, Study on how the memory of crimes committed by totalitarian regimes in Europe is dealt with in the Member States, Instituto de Polí-ticasy Bienes Públicos, CCHS-CSIC, 2010, Madrid, reperibile on line in http://ec.europa.eu/justice/doc_centre/rights/studies/docs/memory_of_crimes_en.pdf; Jambrek, Crimes committed by totalitarian regimes. Reports and proceedings of the 8 April European public hearing on crimes committed by totalitarian regimes, Bruxelles 2008, reperibile on line in http://ec.europa.eu/commission_2010-2014/reding/pdf/com(2010)_873_1_en_act_part1_v61.pdf.

74 Negli studi sottoposti all’attenzione della Commissione e citati in questo para-

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registratosi nel 2004 con l’ingresso dei paesi dell’Europa centro-orientale che hanno vissuto le esperienze dei regimi totalitari75. I Nuo-vi entrati ritengono che gli Stati membri dell'Europa occidentale deb-bano acquistare una maggior coscienza del passato tragico vissuto da quelli dell'Europa orientale76, lamentando la scarsa conoscenza e con-siderazione della loro necessità di ristabilimento della verità in relazio-ne alle vicende passate durante i regimi comunisti. Proprio lo sforzo di condivisione della memoria, passaggio indispensabile per chiudere una fase storica e porre le basi per un futuro comune, registra differenze non marginali sul modo di interpretare tale passato, come peraltro ben sottolinea la recente relazione della Commissione al Parlamento euro-peo e al Consiglio su “La memoria dei crimini commessi dai regimi to-talitari in Europa”77.

Le questioni controverse interessano piani diversi. A partire da al-cune iniziative, che solo ad uno sguardo sommario potrebbero sem-brare non assumere rilievo centrale, come l’istituzione della Giornata della memoria. Mentre infatti 18 Stati membri dell’UE celebrano il 27 gennaio la giornata internazionale in memoria delle vittime dell’Olo-causto, altri cinque Stati membri (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia e Svezia) celebrano il 23 agosto (gli altri Stati membri hanno scelto un'altra data) la giornata europea di commemorazione di tutti i regimi totalitari e autoritari, secondo la proposta del Parlamento europeo contenuta nella risoluzione su coscienza europea e totalitarismo78. Questa seconda proposta ha chiaramente una diversa valenza simboli-ca, poiché la data scelta coincide con la conclusione del patto Molotov-Ribbentrop di spartizione della Polonia del 1939 e, proprio per questo, sarebbe più idonea a rappresentare la generalità delle vittime dei regi-mi oppressivi totalitari ed autoritari.

La sensibilità al tema della memoria dei crimini ed il suo ruolo fondamentale nel processo di integrazione europea è testimoniato da una recente controversia tra l’Ungheria e la Slovacchia nella quale la prima ha chiesto l’apertura di una procedura di infrazione nei con-

grafo, vengono intesi tali tutte i regimi non democratici, includendo tra di essi sia i re-gimi totalitari Nazista, Fascista e Comunista (vedi H. Harendt, The Origins of Totalita-rianism, New York, 1951) che i regimi considerati autoritari tra i quali vanno annove-rati quelli instaurati a suo tempo in Grecia, Portogallo e Spagna.

75 P. Jambrek, Crimes committed by totalitarian regimes, cit., mette in luce il caso della Slovenia che, eccezionalmente, ha subito l’esperienza totalitaria dei regimi co-munista, nazista e fascista.

76 I più recenti atti di genocidio e crimini contro l’umanità in Europa hanno avuto luogo nel luglio 1995.

77 COM (2010) 783 definitivo, Bruxelles, 22 dicembre 2010. 78 Del 2 aprile 2009, in GUUE C 137 E/25 del 27 maggio 2010.

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fronti della seconda, dinanzi alla Commissione europea ai sensi dell’art. 259 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sulla base della presunta violazione della norme del Trattato in materia di libera circolazione delle persone che sarebbero state vio-late dalla Slovacchia con il divieto di ingresso sul proprio territorio opposto al Presidente ungherese, nell’agosto del 2009. I fatti all’origine del contendere vedevano l’intenzione del Presidente unghe-rese di partecipare il 21 agosto del 2009 all’inaugurazione di una statua dedicata a Saint Etienne I°, primo Re e santo patrono dell’Ungheria, in territorio Slovacco a Komarno località di confine dove vive un’im-portante minoranza ungherese (circa il 10% della popolazione slovac-ca). Le motivazioni fornite dalla Slovacchia a giustificazione del divieto ed espresse dal suo Primo ministro, riguardavano esigenze di sicurezza pubblica atteso che la data scelta, il 21 agosto, coincideva con il 41° anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e di quelle dell’ex Patto di Varsavia, tra le quali le truppe ungheresi ritenute responsabili di aver arrestato il processo di demo-cratizzazione in quel paese. La ferma opposizione all’ingresso veniva manifestata nell’occasione dalla Slovacchia nonostante l’Ungheria nel 1989, poco prima della caduta del muro di Berlino, le avesse ufficial-mente presentato le proprie scuse per aver partecipato all’invasione.

Il reclamo presentato dall’Ungheria nell’ottobre del 2009 però non ha avuto, sino ad ora, esito alcuno dal momento che la Commissione europea, nel giugno del 2010 con parere motivato, ha ritenuto che non vi fosse stata alcuna violazione del Trattato e del diritto derivato da parte della Slovacchia in quanto le disposizioni in questione non sa-rebbero applicabili alle visite effettuate dai Capi di Stato sul territorio di un altro Stato membro. In buona sostanza secondo la Commissione la materia della libera circolazione delle persone riguarda cittadini pri-vati e non i capi di Stato la cui disciplina è retta invece dal diritto in-ternazionale; dunque gli Stati membri conservano la piena discreziona-lità nel regolare le loro relazioni diplomatiche bilaterali, non essendo un compito delle istituzioni europee modificare tale regime. Un esito simile, per la verità, solleva non poche perplessità laddove evita di af-frontare la reale materia del contendere, non fornisce una risposta alla questione sorta né facilita una sua soluzione. Da un punto di vista pro-cedurale infatti il parere motivato della Commissione non impedisce la successiva presentazione del ricorso da parte dell’Ungheria contro la Slovacchia, essendo la procedura interstatuale, con l’inevitabile conse-guenza, nel caso di proposizione, di un inasprimento della vicenda di-nanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Inoltre la Commis-sione sembra aver perso un’occasione per suggerire una composizione dei termini della controversia dato che il parere motivato, ai sensi

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dell’art. 259 TFUE, viene formulato nel contraddittorio tra le parti che hanno dunque un “foro” per esporre le loro ragioni con osservazioni scritte e orali. Relegare ad una qualsiasi questione diplomatica tra due Stati membri una disputa simile e non coglierne invece le motivazione più profonde che riguardano proprio la difficoltà di riconoscere e condividere un passato comune, non appare in linea con quanto più volte affermato dalla stessa Commissione79, circa la volontà di dare il proprio contributo nel facilitare il processo di riconciliazione tramite il ristabilimento della verità e della memoria, soprattutto se la memoria e la coscienza del passato tragico e dei crimini perpetrati dai regimi tota-litari, come viene affermato, devono essere il collante delle popolazioni europee80. La soluzione “interlocutoria” adottata dalla Commissione nella fattispecie non sembra potersi iscrivere all’interno di una simile logica.

8. Conclusioni L’indagine svolta sulla legittimazione passiva e le conseguenti for-

me di riparazione in favore delle vittime di Historical Injustices, pro-ponendosi di esaminare il contributo che il diritto internazionale può offrire ai fini di una loro compiuta delimitazione ed individuazione, fa emergere l’influenza spiegata dalle regole internazionali sulla particola-re categoria dei pregiudizi da ingiustizie della storia, sotto un duplice profilo.

Un primo aspetto attiene al significativo ruolo che può svolgere per la loro definizione il sistema delle riparazioni che sta sviluppandosi in base allo Statuto della CPI relativamente ai crimini internazionali da essa perseguiti, con particolare riferimento all’attività ed alle compe-tenze del Fondo di garanzia81. In questi casi le esigenze di tutela e “ri-parazione” delle vittime, hanno favorito la creazione di meccanismi e strumenti che operano in loro favore anche a prescindere dalla indivi-duazione di un responsabile giuridicamente obbligato nei loro con-fronti, soluzioni queste che potrebbero applicarsi alle Historical In-justices per i comuni elementi di difficoltà che incontrano anche le vit-time di danni e pregiudizi da ferite della storia nell’individuare un le-

79 Di recente nella relazione al Parlamento europeo e al Consiglio sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa.

80 Vedi la Relazione “La memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Eu-ropa”, cit., 4.

81 In realtà Fondi di indennizzo delle vittime di gross violations sono stati istituiti, rappresentando tuttavia un’esperienza limitata, in alcuni contesti regionali dalle giuri-sdizioni internazionali di tutela dei diritti umani. Vedi supra par. 5 di questo scritto.

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gittimato passivo. L’originalità del meccanismo introdotto consente, infatti, al Fondo di intervenire per rendere effettive le riparazioni sia quando l’esecuzione di tali obblighi è rivolto ad una platea di vittime e con finalità generali e strutturali così ampie da non poter essere assolto da un impegno di natura individuale, trattandosi appunto di ripara-zioni di natura collettiva, sia quando la sua attività, come abbiamo vi-sto per la riabilitazione, si esplica in assenza di un responsabile ed a beneficio esclusivo delle vittime con modalità, dunque, non riconduci-bili alla riparazione, almeno intesa in senso “classico” secondo il dirit-to internazionale.

Per quanto concerne il secondo profilo, strettamente connesso al primo, gli standards internazionali elaborati dalla giurisprudenza in-ternazionale in relazione alle gross violations, in particolare nel sistema interamericano, costituiscono un valido esempio della duttilità di alcu-ne forme di riparazioni “classiche” quali la soddisfazione, le garanzie di non ripetizione e la riabilitazione, che, una volta collocate all’in-terno di un contesto più ampio, spesso di riconciliazione nazionale ti-pico della Transitional Justice, assumono carattere collettivo, simbolico e ricostruttivo82, assolvendo così finalità comuni e tipiche anche alle

82 Questa tendenza sembra interessare, per quei sistemi giuridici che lo consento-

no e nei quali si assiste al fenomeno della privatizzazione del contenzioso in materia di diritti umani, incluse le Historical Injustices (giurisdizione statunitense ed ora italiana), anche i rimedi puramente “civili” ed interni offerti dagli ordinamenti nazionali e di-nanzi ai quali far valere le pretese riparatrici delle vittime. Sulla tematica vedi H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des Droits de l’Homme et vocation universelle du juge americain: réflexions a partir des actions en justice des victims de l’Holocauste de-vant les tribunaux des Etats-Unis, in Rev. int. dr. comp., 2003, 883 ss. In tal senso può essere utile ricordare il contenzioso sviluppatosi in questi anni dinanzi alle giurisdizio-ni italiane, ed in particolare presso la Suprema Corte, nei confronti della Germania citato alla nota 12 del presente lavoro. È noto infatti che la Corte di Cassazione italia-na, in una giurisprudenza ormai non più isolata, ha di recente nuovamente riconosciu-to il risarcimento dei danni causati alle vittime di crimini internazionali commessi dalle forze armate tedesche di occupazione durante il secondo conflitto mondiale. È questo infatti da ultimo il contenuto della sentenza del 13 gennaio 2009 n. 1072 nel caso Mil-de ove la Suprema Corte ha definitivamente ammesso le richieste delle parti civili nei confronti della Germania per le stragi compiute ai danni della popolazione civile nel giugno del 1944 nei comuni di Civitella e S. Pancrazio in Val di Chiana. La Suprema Corte, in questo caso, ha ritenuto prevalente sulla regola a carattere consuetudinario che regola l’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri la norma di rango supe-riore, appartenente allo ius cogens, relative alla punizione dei crimini di guerra poste a tutela di diritti umani. Orientamento questo inaugurato con la sentenza della Cassa-zione civile, SS.UU., 11 marzo 2004, n. 5044, Ferrini per le deportazioni compiute in Italia dopo l’8 settembre del 1943, nonostante si trattasse di atti inequivocabilmente compiuti iure imperii.

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riparazioni per pregiudizi da ingiustizie della storia cui possono quin-di, del caso, applicarsi.

Peraltro analoga influenza tali standards la svolgono riguardo a quelle forme di riparazione, anche collettive, previste a carico del-l’individuo autore dei crimini in esame e definite direttamente a livello internazionale, come accade per l’art. 75 dello Statuto CPI; obbligo riparatore che inizia ad accompagnare l’affermazione della responsabi-lità penale individuale a livello internazionale per i crimini internazio-nali evocati (ad es. genocidio, apartheid, schiavitù, lavori forzati).

Se dunque, nonostante la specificità legata a ciascun tipo di pre-giudizio ed alla sua dimensione nazionale o internazionale, si volesse individuare un profilo comune alle misure adottate, riparatrici e non, esso andrebbe colto nel riconoscimento e nel sostegno alle vittime di tali ingiustizie e dei regimi oppressivi, poiché, come è stato efficace-mente espresso dal Parlamento europeo nella sua risoluzione del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo al considerando N, “nell’ottica delle vittime è ininfluente quale regime li abbia privati del-la libertà oppure torturati o uccisi con un pretesto qualsiasi”. Un ap-proccio di questo tipo non rischia di tradursi in una sorta di tutela “indifferenziata” delle vittime se si ricostruisce ed adatta il regime del-la responsabilità dello Stato, o di altri soggetti, alla natura della viola-zione che viene fatta valere, alla sua gravità, al contesto nel quale si è consumata, alle specifiche esigenze riparatrici e ricostruttive che essa richiede. Con la consapevolezza che tale riconoscimento è solo uno dei momenti di quel processo più ampio che caratterizza la Transitional Justice e che richiede per l’effettivo superamento dei crimini del passa-to l’affermazione delle responsabilità degli autori di tali abusi, il diritto alla riparazione per le vittime, nell’ampia accezione che abbiamo visto prima, la prevenzione rispetto a nuove possibili violazioni tramite, e un programma di riforma delle istituzioni pubbliche, in primis giudiziarie e di polizia. Un approccio, in definitiva, che non implica il ricorso ad una misura piuttosto che ad un’altra ma che, per assicurare la ripara-zione integrale del pregiudizio subito dalle vittime, le vede concorrere in una visione olistica e tra loro integrata.

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COSA RESTA DI AUSCHWITZ? IL GENOCIDIO RUANDESE E IL SUPERAMENTO

DEL PASSATO ATTRAVERSO IL DIRITTO

Pietro Sullo

SOMMARIO: 1. Introduzione: quando il giudice si fa storico. – 2. Il Ruanda e “quel che

resta di Auschwitz”. – 3. La polarizzazione Hutu-Tutsi ed il genocidio. – 4. La sfida della giustizia post-conflitto. – 4.1. I gacaca tradizionali. – 4.2 Gli Inkiko gacaca. – 5. Conclusioni.

‘La posta in gioco nella “situazione estrema” é dunque “restare o non restare umano”, diventare o no un musulmano’

Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz.

1. Introduzione: quando il giudice si fa storico “La è avvenuto qualcosa con cui non possiamo riconciliarci. Nes-

suno di noi può farlo”. Con queste poche, celebri parole, Hannah Arendt tradiva il proprio disagio di fronte all’incommensurabilità per la mente umana del male radicale, incarnato dallo sterminio di Ebrei, Sinti e Rom messo in atto dal regime hitleriano. Alla ricerca del signifi-cato ultimo di questa esperienza che traccia i limiti tra l’umano e ciò che non lo è, delle sue implicazioni etiche, politiche e giuridiche, in molti si sono cimentati nello sforzo di capire, testimoniare, tramandare e punire. Primo Levi, superstes di fatto e in senso etimologico, “agri-mensore implacabile della Muselmannland” per usare le parole di Giorgio Agamben, si cimenta nel tentativo di sondare l’insondabile, per concludere che “Vittima e carnefice sono ugualmente ignobili, la lezione dei campi è la fraternità nell’abiezione”1. Altri studiosi hanno fatto riferimento alla catena di sterminio dei campi Fabrikmäßig, in se-rie, come tentativo riuscito di svilire la morte, cifra della vita, se così si può chiamarla, ad Auschwitz (ma anche della vita nella grande città moderna secondo Rilke, come Agamben ci ricorda)2.

Altri ancora, come Tzvetan Todorov, si rifiutano di vedere una ce-sura netta tra il responsabile di atrocità di massa, il genocida, e l’uomo

1 P. Levi, Se questo é un uomo, Torino, 2005. 2 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino 1998.

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comune. L’intellettuale bulgaro confuta l’affermazione di Santayana secondo la quale “coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo”3, mettendo in evidenza come la memoria non si sia dimo-strata un efficace antidoto contro il ripetersi del male4. Ciò nonostante, il fiorire, in Francia come altrove, di lois mémorielles attesta il tentati-vo, spesso goffo, di chiudere per sempre i conti col passato ed allo stesso tempo questa impossibilità. I campi di sterminio hanno anche messo alla prova il valore stesso della testimonianza, facendo emergere un paradosso, quello secondo cui l’unico vero testimone, il testimone integrale, il “musulmano”, non é più in grado di testimoniare. Chi e perché dunque deve testimoniare per lui?

Völkermord, genocide, genocidio: il neologismo di Rafael Lemkin ha trovato spazio nei dizionari di ogni lingua. Il “fortunato” lemma coniato all’indomani della seconda guerra mondiale ha trovato signifi-cato e un suo posto nella storia giuridica, filosofica e politica di molti paesi. Imbrigliato a fatica nelle maglie della convenzione del 1948, il genocidio, qualunque genocidio, sfugge alla presa del diritto e pone l’umanità di fronte a un paradosso: l’irriducibilità della storia al suo aspetto meramente evenemenziale, un vuoto di senso che rimane quando si cerca di capire il substrato etico che resta al di là e dopo i fatti5. C’è una lezione da imparare? Quale? Se il senso di essa deve es-sere la non ripetizione dello sterminio di un gruppo è già troppo tardi: alle vittime della furia nazista si sono aggiunte in pochi anni quelle dei Khmer Rossi in Cambogia tra il 1975 ed il 1979, quelle delle guerre balcaniche degli anni novanta del secolo scorso e quelle dei cento giorni che tra l’aprile ed il luglio del 1994 hanno sconvolto il Ruanda, deviando per sempre il corso della sua storia.

Del resto, già l’atto fondativo della modernità, la scoperta e la con-quista delle Americhe, è profondamente intriso di una logica genocida. Non a caso Antony Anghie ha evidenziato come le origini del diritto internazionale possono essere ritrovate nella conquista coloniale dell’America e nelle teorie di Francisco de Vitoria. La funzione di spartiacque, di punto di non ritorno che gli è stata attribuita, fa sì che il genocidio stabilisca un prima e un dopo, una cesura storica netta che rende impossibile pensare l’umano allo stesso modo. Adorno ha af-fermato che “dopo Auschwitz non si può scrivere una poesia” e che “tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica ad essa, è spazza-tura”. Nei massacri genocidari emerge in particolare una “zona gri-

3 G. Santayana, Life of Reason, NewYork, 1905, 284. 4 T. Todorov, Memory as Remedy for Evil, in 7 Journal of International Criminal

Justice 447 (2009), 448. 5 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit.

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gia”, che Primo Levi ha messo bene in evidenza, in cui la violenza esercitata sulle vittime le accomuna in qualche modo ai carnefici. Ne sono un esempio membri del Sonderkommando, i liquidatori del cam-po, gli ebrei incaricati di accompagnare alle camere a gas i propri fra-telli, lavarne il corpo per togliere le tracce di acido cianidrico accumu-late sui cadaveri, estrarre i denti d’oro e persino tagliare i capelli delle donne. Ne sono un esempio i Kapo su cui ha indugiato l’obiettivo di Gillo Pontecorvo. Tra vittime e carnefici l’immensa massa degli inde-cisi, di coloro per i quali non è il diritto a formulare un’accusa, ma la morale6.

Nel momento in cui è necessario fare i conti con un passato troppo violento, in cui il male radicale e il suo carico di banalità travolgono ogni paradigma interpretativo, sconfiggono ogni tentativo di compren-sione, l’uomo si affida spesso alla ritualità semplificativa, consolatoria e riduttrice del diritto7. È successo nel V secolo a.C. ad Atene, quando la polis ha dovuto fare i conti con l’eredità della dittatura dei trenta ti-ranni, ricorrendo alla criminalizzazione dell’obbligo di “ne meme-sikein” – di non ricordare – pena la morte, la dittatura ed il suo carico d’odio8. Per traghettare la polis verso il futuro si è cioè scelto di far le-va sul binomio amnistia-amnesia. La legge penale è stata dunque scelta come salvaguardia dell’obbligo di oblio. Diverso è il paradigma che emerge dalle crisi politiche successive, al volgere delle quali Atene de-cide di punire i responsabili del male9. L’approccio punitivo, dopo il fallito tentativo di punire il Kaiser Guglielmo II di Hoenzollern all’indomani della prima guerra mondiale cristallizzato nell’articolo 127 del Trattato di Versailles, per “Crimini contro la pace e contro la santità dei trattati”, si è consolidato attraverso il processo di Norim-berga, seguito dai significativi strascichi dei processi Heichmann, Pa-pon e Priebke. Un aprire e chiudere le ferite della storia che ha dato vita ad un rapporto ambiguo e per certi versi perverso tra processo penale e memoria, in cui il giudice si fa storico e viceversa10. Ne è risul-tata una memoria collettiva divisa e controversa, i cui vuoti e incertez-ze sono stati riempiti da rigurgiti di revisionismo e negazionismo re-

6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 J. Elster, Closing the book: Transitional justice in Historical perspective, Cam-

bridge, 2004. 9 Ibidem. 10 C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri,

Milano, 2006.

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pressi nuovamente, in Europa come a Kigali, attraverso la legge pena-le11.

Celebre resterà il tentativo di Gustav Radbruch, padre della omo-nima formula, di trovare una via di accesso al superamento del passato attraverso il diritto, al quale la dottrina ha dedicato recentemente un importante contributo12. Il giurista tedesco ha consacrato molti studi alla Vergangenheitsbewältigung durch Recht, cioè al superamento del passato mediante il diritto e a tal fine ha elaborato due formule, citate sia dalla giurisprudenza tedesca del secondo dopoguerra in materia di repressione dei crimini nazisti, sia da quella della Germania riunificata, impegnata nella repressione dei criminali legati al regime guidato dalla SED13.

Per chiudere i conti col passato è di nuovo la legge penale ad esse-re chiamata in causa, in Europa come in Ruanda, a criminalizzare il negazionismo. La Loi Gayssot14 del 1990, che in Francia criminalizza la negazione dello sterminio degli Ebrei, la Ley de Memoria Histórica15 recentemente approvata in Spagna per far fronte alle conseguenze del-la dittatura franchista e la Legge ruandese 13/2008 sull’ideologia del genocidio16 sono tutti esempi convergenti in tale direzione. L’Unione Europea ha incoraggiato recentemente questa tendenza attraverso una decisione quadro del 2008 contro il razzismo (2008 EU FD on racism).

11 A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della

commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna, 2005. 12 G. Vassalli, Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei “delit-

ti di Stato” nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano 2001. La prima formula di Radbruch, contenuta in un articolo del 1946 il cui titolo, Gesetzli-ches Unrecht und übergesetzliches Recht, può essere tradotto con “Ingiustizia legale e diritto sopralegale” trae spunto da una sentenza dell’Amtsgericht di Wiesbaden che aveva dichiarato la normativa nazista in base alla quale furono effettuate le confische dei beni dei cittadini ebrei contraria al diritto naturale e quindi nulla ex tunc. In base ad essa “il conflitto tra giustizia e certezza del diritto dovrebbe potersi risolvere nel senso che il diritto positivo, garantito da statuto e potere, ha la preminenza anche quando è, nel suo contenuto, ingiusto e inadeguato, a meno che il conflitto tra la legge positiva e la giustizia raggiunga una misura così intollerabile, da far sì che la legge, quale “diritto ingiusto”, debba cedere alla giustizia”. Traduzione in G.Vassalli, op. ult. cit..

13 La SED, Sozialistische Einhetspartei Deutschlands, era il partito nelle cui mani era di fatto concentrato tutto il potere nella Germania comunista, la Deutsche De-mokratische Republik (DDR).

14 Cfr. Legge 615 del 13 luglio 1990. Sull’argomento cfr. anche L. Pech, The Law of Holocaust Denial in Europe: Towards a (qualified) EU-wide Criminal Prohibition, Jean Monnet Working Paper, New York, 2009.

15 Cfr. Legge 52 del 26 dicembre 2007. 16 Cfr. Article 19, Comment on the Law Relating to the Punishment of the Crime of

Genocide Ideology of Rwanda, London, September 2009.

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Secondo l’articolo 1(1) EU FD gli Stati membri dell’UE devono adot-tare una normative finalizzata a criminalizzare i seguenti atti:

(c) ‘publicly condoning, denying or grossly trivialising crimes of genocide, crimes against humanity and war crimes as defined in Articles 6, 7 and 8 of the Statute of the International Criminal Court, directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin when the conduct is carried out in a manner likely to incite to violence or hatred against such a group or a member of such a group; (d) publicly condoning, denying or grossly trivialising the crimes defined in Article 6 of the Charter of the International Military Tribunal appended to the London Agreement of 8 August 1945, directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin when the conduct is carried out in a man-ner likely to incite to violence or hatred against such a group or a member of such a group.

Le distorsioni a cui il diritto penale può condurre se chiamato a rafforzare la memoria storica e a darne un’interpretazione omogenea, comprimendo inevitabilmente la libertà di espressione, sono ben te-stimoniate dal caso francese. Oltre a proibire la negazione dell’olo-causto e del genocidio degli Armeni, la Francia ha infatti approvato nel 2005 una legge, poi prontamente abrogata, che obbligava gli inse-gnanti a sottolineare l’influenza positiva della colonizzazione francese oltremare17. Il diritto può evidentemente esser chiamato a difendere i valori fondativi della nostra civiltà contro la barbarie tanto quanto la barbarie stessa.

2. Il Ruanda e “quel che resta di Auschwitz” Ruanda, 1994: il contesto cambia, ma le domande restano le stesse.

Un piccolo paese dell’Africa dei grandi laghi affidato subito dopo il congresso di Berlino del 1884 alle mani avide del Reich tedesco, poi, dopo la grande guerra, alle cure dei belgi. L’incontro coloniale ha ine-vitabilmente portato con sè tutto il bagaglio di sopraffazione, violenza e annichilimento, che Franz Fanon ha descritto così bene in I dannati della terra, il libro che meglio di ogni altro ha tratteggiato le modalità

17 Cfr. Legge 158 del 15 febbraio 2005, art. 4: “School courses should recognize in

particular the positive role of the French presence overseas, notably in North Africa”.

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attraverso le quali il colonialismo ha plasmato la psiche del colonizzato secondo il canone della subalternità. Il “Burden of the white man” sfocia in un fiorire di teorie razziali e razziste, di ossessioni antropome-triche, di appiattimenti sull’etnicizzazione di categorie sociali ed eco-nomiche, che devia per sempre il corso della storia del colonizzato, in Ruanda come altrove. I campi di concentramento hanno il loro pre-supposto storico nell’esperimento britannico portato avanti nell’Africa coloniale contro i guerriglieri Mau-Mau in Kenya, così come le prove generali per un genocidio si tengono in Namibia, sotto la regia impla-cabile dei generali tedeschi18. L’etnicizzazione e cristallizzazione delle categorie Hutu-Tutsi in particolare ha costituito una premessa neces-saria per la creazione di quella polarizzazione che alcuni decenni dopo è sfociata nel genocidio ruandese del 1994. Qui non sono stati i Son-derzüge organizzati con maniacale precisione a concentrare i deportati, nè sono i moderni ritrovati della chimica ad uccidere. Il massacro ruandese del 94, durante il quale in circa cento giorni approssimativa-mente ottocentomila persone sono state uccise, scioglie il connubio tra genocidio e tecnologia. I massacri sono svolti manualmente, con zelo pedante, grazie ad una partita di 500.000 machete fatti arrivare apposi-tamente dalla Cina dal governo di Juvenal Habyarimana.

Quando nel luglio del 1994 un esercito composto per lo più di Tu-tsi rifugiatisi in Uganda in seguito alle varie ondate di violenza che li fanno oggetto dal 1959 in poi, (il Rwandan Patriotic Army (RPA), poi trasformatosi in partito politico attualmente al governo, Rwandan Pa-triotic Front (RPF), ferma il genocidio manu militari, il Ruanda è un paese da ricostruire interamente. Parte di questa operazione di state-building riguarda la prise en charge dell’eredità del genocidio e la rico-struzione del settore giudiziario.

Il genocidio del 1994 ha lasciato il Ruanda in condizioni inimma-ginabili, non solo per i suoi costi economici, in termini di vite umane e di risorse da destinare ai sopravvissuti (tra essi donne e bambini rap-presentano un’emergenza nell’emergenza, le prime a causa del sistema-tico uso dello stupro come arma di sterminio durante il genocidio, i secondi perché vittime dirette in qualità di combattenti, kadogo, o in-dirette in quanto orfani o street children19) ma anche perché ha distrut-

18 Rinvio, in proposito, al recente contributo (in corso di pubblicazione) di R.

Kößler, Facing Postcolonial Entanglement and the Challenge of Responsibility: Actor Constellations between Namibia and Germany.

19 Sull’argomento mi permetto di rimandare al mio When Hurbinek Survives. Transitional Justice and Children’s Rights: Lessons Learnt from Rwanda, in Re-member. Rehabilitation, Reintegration and Reconciliation of War-Affected Children, (a cura di S. Parmentier - W. Vandenhole), Cambridge−Antwerp−Portland, 2012, passim. Si con-

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to la fabbrica sociale ed un bagaglio di convivenza tra gruppi, in parti-colare Hutu e Tutsi, che era il frutto di secoli di elaborazione. Nei me-si intercorsi tra l’aprile ed il luglio 1994 il livello di violenza intrafami-liare e fratricida vissuto in Ruanda ed il capillare coinvolgimento della popolazione nei massacri, non hanno forse precedenti, il che pone seri dubbi rispetto alle modalità e alla possibilità stessa di una riconcilia-zione nazionale (per quanto quest’ultima sia uno degli obiettivi pro-clamati della giustizia post-genocidio promossa in Ruanda dal governo e dalla comunità internazionale).

Le ripercussioni della violenza del 1994 sono dunque ancora acu-tamente percepite nel piccolo paese africano. Per farvi fronte, il Ruan-da ha iniziato un percorso di ricostruzione dell’apparato statale e del tessuto sociale che lo vede tuttora impegnato. Il problema della giusti-zia post-genocidio ha assunto un grande significato in questo contesto drammatico. La punizione dei responsabili dei massacri, la ricostru-zione del sistema giudiziario, le garanzie di giusto processo, le ripara-zioni per le vittime, lo sradicamento della polarizzazione etno-identitaria Hutu-Tutsi e le strategie per la riconciliazione nazionale so-no solo alcune delle questioni centrali che la giustizia di transizione ha dovuto affrontare nel paese africano. Essa si configura più che mai in Ruanda come una “situazione estrema”, come lo stato di eccezione della giustizia. È davvero possibile processare metà della popolazione adulta di un paese dopo un genocidio? E che significato assume il termine giustizia in questo contesto? Deve essa essere retributiva, ba-sata su una legge dotata dei crismi della generalità e astrattezza, o de-clinata secondo paradigmi radicati nella società ruandese? Deve signi-ficare retribuzione, punizione, prevenzione, rieducazione, oppure per-dono e riconciliazione? Forse tutto questo insieme? Che valore dare alla giustizia sociale, distributiva, trasformativa20, esiste una giustizia che vada alle radici del conflitto che ha scatenato il genocidio?

Tutte queste domande, e molte altre ancora, sono drammaticamen-te attuali in Ruanda. Il paese africano è attualmente il teatro di un esperimento politico-giuridico finalizzato a rendere possibile la convi-venza tra ex nemici, in uno spazio geografico in cui vittima e carnefice si trovano spesso ad essere vicini di casa. L’architettura costituzionale del Ruanda è profondamente influenzata dallo sforzo di superare il passato. A tal fine sono state costituzionalizzate una Commissione per

sulti anche il report di Human Rights Watch, Lasting Wounds: Consequences of Geno-cide and War for Rwandàs Children, USA, 2003.

20 Sul concetto di giustizia trasformativa in contesti post-conflict si veda W. Lam-bourne, Transitional Justice and Peacebuilding after Mass Violence, in The International Journal of Transitional Justice, Vol. 3, 2009, 28.

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la lotta contro il genocidio, una per la riconciliazione e l’unità naziona-le e gli Inkiko gacaca, tribunali popolari che ricordano un modello processuale precoloniale, il cui obiettivo fondamentale è quello di di-stribuire capillarmente tra i ruandesi il compito di fare i conti con l’eredità del genocidio. Ne risulta la parallela esistenza di tre sistemi giurisdizionali potenzialmente concorrenti anche se tra loro molto di-versi, tutti finalizzati a fare i conti con i crimini commessi durante il genocidio. In primis il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR), istituito dal Consiglio di Sicurezza ONU ad Arusha, Tanzania, “acting under chapter seven” nel novembre 1994, competente per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio commessi in Ruanda o da cittadini ruandesi nei Paesi confinanti dal 1 gennaio al 31 dicembre 1994. A differenza della Corte Penale Internazionale (ICC), che è basata sul principio di complementarità, l’ICTR è basato sul principio di primazia, che rende possibile il trasferimento ad Arusha di ogni processo per il quale il tribunale ONU ha competenza. Le corti ordinarie ruandesi hanno acquisito la competenza per genocidio e crimini contro l’umanità grazie alla legge organica 8/1996. Anche se il Ruanda aveva ratificato la Convenzione del 1948 contro il genocidio, nessuna legislazione interna era stata adottata per renderne possibile la punizione. Le pene per il crimine dei crimini sono dunque state intro-dotte in violazione del principio d’irretroattività. È estremamente inte-ressante notare che la legge organica del 1996 punisce crimini com-messi dal 1 ottobre 1990 al 31 dicembre 1994, suggerendo un’inter-pretazione molto più ampia ratione temporis del genocidio ruandese rispetto a quella prospettata dall’ICTR. Infine nel 2000, anche per far fronte all’immenso carico pendente di fronte alle corti ordinarie, il go-verno ruandese ha lanciato gli Inkiko gacaca, le corti neo-tradizionali che hanno costituito il fulcro dell’azione giudiziaria tesa ad affrontare l’eredità dei massacri del 1994. Tale sforzo sembra allinearsi perfetta-mente con i suggerimenti che le Nazioni Unite attraverso il report del segretario generale Annan intitolato Transitional Justice and Rule of Law in Conflict and Post-Conflict Societies hanno formulato nel 2004. Il report, infatti, suggerisce che

“due regard must be given to indigenous and informal traditions for adminis-tering justice or settling disputes, to help them to continue their often vital role and to do so in conformity with both international standards and local tradition. Where these are ignored or overridden, the result can be the exclu-sion of large sectors of society from accessible justice. Particularly in post-conflict settings, vulnerable, excluded, victimized and marginalized groups must also be engaged in the development of the sector and benefit from its emerging institutions. Measures to ensure the gender sensitivity of justice sec-

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tor institutions is vital in such circumstances. With respect to children, it is also important that support be given to nascent institutions of child protec-tion and juvenile justice, including for the development of alternatives to de-tention, and for the enhancement of the child protection capacities of justice sector institutions”21

La UN Declaration of Basic Principles of Justice for Crimes and

Abuse of Power, la Magna Carta delle vittime del crimine aveva già messo in evidenza il ruolo che meccanismi informali e tradizionali di risoluzione delle controversie possono svolgere a favore delle vittime, ma non aveva inquadrato tali meccanismi nell’ambito di una transizio-ne post-conflitto 22 . Tali meccanismi, anche grazie all’esperimento ruandese incentrato sui tribunali gacaca, hanno recentemente suscitato un grande interesse per il loro potenziale impiego come strumenti di giustizia di transizione in contesti caratterizzati da quel fenomeno noto come “pluralismo giuridico”, specialmente dove l’idea di legge decli-nata secondo canoni occidentali è percepita come culturalmente estra-nea. Solo per fare uno dei tanti possibili esempi, l’articolo 3.1 del Patto Preliminare su Accountability and Reconciliation, sottoscritto nel 2007 dal governo ugandese e la formazione ribelle nota come Lord’s Resi-stance Army (LRA, Esercito di Resistenza del Signore), stabilisce che “traditional justice mechanisms, such as Culo Kwor, Mato Oput, Kayo Cuk, Ailuc and Tonuci Koka and others as practiced in the communi-ties affected by the conflict, shall be promoted, with necessary modifi-cations, as a central part of the framework for accountability and re-conciliation”. Secondo Luc Huyse, il riferimento esplicito a modelli tradizionali di giustizia in un contesto di transizione post-conflitto è profondamente innovativo23. L’adozione e la modificazione di mecca-nismi tradizionali e informali in contesti difficili come quelli post-conflitto non è ovviamente priva di rischi. Tali meccanismi spesso non

21 Cfr. UN, S/2004/616, 23 agosto 2004. 22 Cfr. M. Groenhuijsen, The Draft UN Convention on Justice and Support for Vic-

tims of Crime with special reference to its provisions on Restorative justice, disponibile all’indirizzo http://arno.uvt.nl/show.cgi?fid=94932 (ultimo accesso il 6.6.2012). La dichiarazione UN afferma, tra l’altro, che “informal mechanisms for the resolution of disputes, including mediation, arbitration and customary justice or indigenous prac-tices, should be utilized where appropriate to facilitate conciliation and redress for victims”.

23 Sul punto si veda L. Huyse - M. Salter, Traditional justice and reconciliation af-ter violent conflict. Learning from African experience, International Institute for De-mocracy and Electoral Assistance, Stockholm 2008: “the explicit reference to tradi-tional justice instruments in the context of peacemaking and justice is innovative. It is one of the strongest signs of the rapidly increasing interest in the role such mecha-nisms can play in times of transition”.

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rispettano gli standards minimi a garanzia del diritto al giusto processo, mancano di una prospettiva di genere, non sono in linea con i princi-pali strumenti di diritto internazionale dei diritti umani e possono es-sere in conflitto con l’obbligo di esercizio dell’azione penale per re-primere gravi violazioni dei diritti umani (il cosiddetto duty to prosecu-te). Lars Waldorf ha evidenziato questi problemi, domandandosi an-che se la Corte Penale Internazionale debba o meno prendere in con-siderazione tali meccanismi nel suo sistema di complementarità24.

Questo capitolo, frutto di un lungo studio nel settore della giusti-zia di transizione e di diversi soggiorni di ricerca sul campo in Ruanda, che mi hanno consentito il monitoraggio in prima persona delle corti gacaca, mira a discutere alcuni problemi emersi dalla scelta di tali tri-bunali come fulcro della giustizia di transizione dopo il genocidio del 1994. Lungi dal voler essere un’analisi esaustiva e definitiva sull’argo-mento, esso cerca di rimediare parzialmente ad una mancanza d’attenzione di cui tale argomento ha sofferto in Italia.

3. La polarizzazione Hutu-Tutsi ed il genocidio Il report dell’International Panel of Eminent Personalities

dell’Organizzazione dell’Unione Africana sulle cause del genocidio del 1994 si apre con tre interessanti considerazioni: 1) un certo eccesso di approssimazione è pressochè inevitabile nella ricostruzione della storia ruandese, a lungo tramandata oralmente; 2) la storia ruandese è spesso oggetto di manipolazioni politiche; 3) in Ruanda le cifre relative alle vittime delle violenze del ventesimo secolo sono altamente controver-se25. Il genocidio ha rappresentato l’apice di una violenza ciclica che

24 Cfr. L. Waldorf, Mass Justice for Mass Atrocities: Rethinking Transitional Justice

as Local Justice, in 79 Temple Law Review 1 (2006): “while a positive step, Annan’s pronouncement offered no guidance on three pressing issues. First, how should post-conflict states use local justice? Second, how should the inevitable tension between local practices and international human rights norms be resolved in the extraordinarily complicated setting of post-conflict transitions? Finally, how should local justice relate to international criminal justice? This latter question raises a key concern about the International Criminal Court’s so-called complementarity regime: should meaningful, local justice be counted as part of a statés good faith efforts to provide post-conflict accountability, such as would preclude the ICC from asserting jurisdiction?”.

25 Rwanda. The Preventible Genocide. Report Of International Panel Of Eminent Personalities To Investigate the 1994 Genocide in Rwanda and the Surrounding Events 1999, 11: “first, there are hardly any important aspects of the story that are not com-plex and controversial; it is almost impossible to write on the subject without inad-vertently oversimplifying something or angering someone. Secondly, in Rwanda, in-terpretations of the past have become political tools routinely used by all parties to

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affonda le sue radici nel passato coloniale ruandese. Pur rifuggendo dalle monocause, incapaci di spiegare un fenomeno così complesso, bisogna sottolineare come gli studiosi concordino nell’attribuire alla politica di indirect rule inaugurata dai belgi all’indomani della Grande Guerra un peso notevole sulla polarizzazione identitaria Hutu-Tutsi. Quest’ultima ha certamente rappresentato una delle premesse fonda-mentali per il genocidio. La dicotomia Hutu-Tutsi ha subito un pro-cesso di progressiva “etnicizzazione”, al quale era inizialmente estra-nea. Come ha scritto Eugéne Ntaganda

“The history of Rwanda has been the subject of polemical interpretations, approximations and simplifications of which there are few examples as carica-tural as this in the history of ex-colonies, the ethnic vulgate has mostly been used without any critical distance”26.

Le prime fonti storiche riguardanti il Ruanda risalgono al XVII

secolo, quando, secondo Jan Vansina “les traditions fiables émergent de la brume et du bricolage des legendes antérieures”27. Rispetto alla storia recente del paese, le fonti sono caratterizzate da una certa scarsi-tà. Su di esse ha esercitato una forte influenza il mito camitico impor-tato dai Belgi, secondo il quale i Tutsi sarebbero una popolazione straniera di origine caucasica superiore agli altri due gruppi, Hutu e Twa (i tre gruppi corrispondono rispettivamente al 15%, 84% e 1% della popolazione totale). Hutu e Tutsi condividono la stessa lingua, il kinyarwanda, la medesima religione, le stesse tradizioni, la stessa cultu-ra e non sono distinguibili sulla base dei tratti somatici. Ciò rende l’applicazione della categoria di “etnia” declinata secondo la Conven-zione sul Genocidio del 1948 particolarmente problematica. La soglia di appartenenza ai due gruppi è sempre stata permeabile, sino a quan-do i Belgi hanno cristallizzato le differenze tra Hutu e Tutsi attraverso l’imposizione di carte di identità etniche negli anni venti. In preceden-za la divisione Hutu–Tutsi, stabilita in base alla mansione lavorativa justify their current interests. This is true at every stage, from the precolonial period to the genocide itself. (...) Finally, we have found major disagreements among students of Rwandan history on questions of numbers. Time after time, conflicting figures are proffered: for the number of those who fled the country at independence, the number killed in various massacres, the total number eliminated during the genocide, and the numbers of killers and refugees who fled to the Democratic Republic of Congo after the genocide. At times, amazingly enough, these numbers differ by as much as hun-dreds of thousands”.

26 E. Ntaganda, Editorial, in Peuplement du Rwanda. Enjeux et Perspectives, Bu-tare, 2002, 6.

27 J. Vansina, Central Africans and Cultural Transformations in the American Dias-pora, Cambridge, 2001.

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svolta, agricoltori i primi e pastori i secondi, ricordava molto più da vicino una divisione in caste piuttosto che in etnie. Ad un cambiamen-to di mansioni lavorative corrispondeva infatti passaggio da un gruppo all’altro. Il tasso di matrimoni misti era inoltre relativamente alto.

Sembra storicamente acclarato che la divisione tra i due gruppi si sia accentuata alla fine del XIX secolo, quando il Mwami (re) ha pro-mosso un processo di accentramento statale28. Inizialmente collocato nell’orbita tedesca dopo il Congresso di Berlino del 1884, il Ruanda è passato sotto il controllo belga quando la Germania è stata spogliata delle sue colonie dopo la prima guerra mondiale. Durante i quaranta-cinque anni di dominio e sfruttamento belga, il potere coloniale si è basato su un rapporto privilegiato con l’aristocrazia Tutsi, mentre gli Hutu erano assoggettati ad un sistema di quote discriminatorio. Le idee razziste elaborate sotto la dominazione belga hanno sensibilmente contributo a scavare un solco tra Hutu e Tutsi:

“Colonizer and the local elite also shared an interest in endorsing the perni-cious, racist notions about the Tutsi and the Hutu that had been concocted by missionaries, explorers, and early anthropologists in that period. The theo-ry was based both on the appearance of many Tutsi – generally taller and thinner than were most Hutu – and European incredulity over the fact that Africans could, by themselves, create the sophisticated kingdom that the first white men to arrive in Rwanda found there. From the thinnest of air, an orig-inal racial fantasy known as the Hamitic hypothesis was spun by the first Brit-ish intruders. It posited that the Tutsi had sprung from a superior Caucasoid race from the Nile Valley, and probably even had Christian origins. On the evolutionary scale then all the rage in Europe, the Tutsi could be seen as ap-proaching, very painstakingly, to be sure, the exalted level of white people. They were considered more intelligent, more reliable, harder working, and more like whites than the “Bantu” Hutu majority. The Belgians appreciated this natural order of things so greatly that, in a series of administrative measures between 1926 and 1932, they institutionalized the cleavage between the two races (race being the explicit concept used at the time before the milder notion of ethnicity was introduced later on), culminating in identity cards that were issued to every Rwandan, declaring each to be either Hutu or Tutsi. This card system was maintained for over 60 years and, in a tragic iro-

28 Ibidem, 12: “from that point, a powerful head of a centralized state provided

firm direction to a series of subordinate structures that were ethnically differentiated under Tutsi domination. And while there was no known violence between the Tutsi and the Hutu during those pre-colonial years, the explicit domination of one group and the subordination of the other could hardly have failed to create antagonism be-tween the two”.

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ny, eventually became key to enabling Hutu killers to identify during the gen-ocide the Tutsi who were its original beneficiaries”29.

Il report del Panel of Eminent Personalities dell’Unione Africana

sul genocidio ruandese ha anche sottolineato il ruolo cruciale delle chiesa cattolica in queste dinamiche. Il noto caso di Atanase Seromba, prete della parrocchia di Nyange nella provincia di Kibuye, ne ha di-mostrato anche il coinvolgimento attivo nel genocidio del 199430.

Veniva così a consolidarsi un sistema di potere piramidale, al cui vertice si collocavano i colonizzatori belgi e alla cui base stava la massa amorfa di Hutu e Tutsi oppressi da entrambi, l’elite europea dominan-te e pochi privilegiati Tutsi31. La rivoluzione Hutu del 1959 e il conse-guente affermarsi di un regime repubblicano hanno fatto registrare un’inversione nelle discriminazioni, con l’introduzione di un regime di quote sfavorevole alla minoranza Tutsi. Il regime dittatoriale a partito unico che dal 1973 ha promosso il generale Juvenal Habyarimana ha ulteriormente esacerbato la tensione tra Hutu e Tutsi, culminata negli

29 Ibidem, 13. 30 Sul processo Seromba cfr. Human Rights Watch, Genocide, War Crimes and

Crimes Against Humanity. A Digest of the Case Law of the International Criminal Tri-bunal for Rwanda, New York, 2010, disponibile su http://www.hrw.org/node/87652: “Athanase Seromba was a priest in Nyange parish, Kivumu commune in Kibuye pre-fecture. The Trial Chamber convicted him of aiding and abetting genocide and exter-mination as a crime against humanity for his role in the bulldozing and destruction on April 16, 1994, of the Nyange parish church holding over 1,500 Tutsi who had sought refuge there. The Trial Chamber sentenced him to 15 years imprisonment”. Cfr., inol-tre, anche 13−14: 2.16: “much of the elaborate Hamitic ideology was simply invented by the Catholic White Fathers, missionaries who wrote what later became the estab-lished version of Rwandan history to conform to their essentially racist views. Because they controlled all schooling in the colony, the White Fathers were able, with the full endorsement of the Belgians, to indoctrinate generations of school children, both Hu-tu and Tutsi, with the pernicious Hamitic notions. (…) Together, the Belgians and the Catholic Church were guilty of what some call “ethnogenesis” – the institutionaliza-tion of rigid ethnic identities for political purposes. (…) Ethnogenesis was by no means unknown in other African colonies and, destructive as it has been everywhere, no other genocide has occurred. But it was everywhere a force of great potential con-sequence and, in Rwanda, it combined with other factors with ultimately devastating consequences”.

31 Ibidem, 14: “the fact that just two Tutsi clans among many were privileged by colonial rule points to a central truth of Rwanda: It has never been valid to imply that a homogeneous Tutsi or Hutu community existed at any time. From the past century through to the present, the Hutu and the Tutsi have always included various groups with different interests and perspectives. This reality was evident throughout the hier-archy. Below the small indigenous Tutsi elite were not only virtually all of Rwandàs Hutu population, but the large majority of their fellow Tutsi, as well. Most Tutsi were not much more privileged in social or economic terms than the Hutù”.

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eccidi del 1994. Questi ultimi hanno non solo causato la morte di un numero elevatissimo di persone, ma anche distrutto la fabbrica sociale ruandese e contribuito ad una crisi regionale che negli anni successivi ha coinvolto i paesi confinanti. La particolare conformazione geografi-ca del paese, la sua economia e la prevalenza di aree rurali, fanno sì che le vittime del genocidio e i loro carnefici spesso siano costretti a vivere nella stessa comunità se non porta a porta. Questa coabitazione forzata, unita spesso all’interdipendenza economica delle famiglie, rende il contesto del dopo genocidio estremamente complesso e ricco di sfide. La giustizia post-genocidio in particolare, è chiamata a svolge-re un ruolo fondamentale, non solo nel delicato processo di identifica-zione di vittime e colpevoli, ma anche nella riscrittura di un patto co-stituzionale che permetta una convivenza pacifica tra Hutu e Tutsi32. Molto del lavoro da fare tuttavia, si svolge al di fuori delle aule dei tri-bunali e sfugge alle maglie del diritto formalizzato.

4. La sfida della giustizia post-conflitto Il genocidio del 1994 ha rappresentato il risultato di una moltitu-

dine di concause. Tra esse la storiografia ha evidenziato la divisione Hutu-Tutsi alimentata dal colonialismo, una forte crisi economica do-vuta al crollo del prezzo del te e del caffè, la pressione demografica ed il conseguente bisogno di terra, il tentativo di un’elite vicina alla mo-glie del presidente Abyarimana (il cosiddetto clan ‘Akazù, che in ki-nyaruanda significa “piccola casa”) di mantenere un saldo controllo sulla macchina statale, l’indifferenza della comunità internazionale e interessi particolaristici soprattutto della Francia, da sempre vicina al regime dittatoriale di Habyarimana33.

Il regime che si è insediato in Ruanda nel luglio del 1994, ha subito formato un governo di unità nazionale. Quest’ultimo non solo ha po-sto l’accento sulla necessità di sradicare la polarizzazione Hutu-Tutsi come presupposto per la pacificazione del paese, ma ha anche sottoli-

32 Sul ruolo costituente della giustizia di transizione si consulti A. Lollini, Costitu-

zionalismo e giustizia di transizione, Il ruolo costituente della commissione sudafricana verità e riconciliazione, Bologna, 2005

33 Sul genocidio ruandese cfr.: A. Des Forges, Leave None to Tell the Story: Geno-cide in Rwanda, New York, 1999; M. Mamdani, When Victims Become Killers: Coloni-alism, Nativism, and the Genocide in Rwanda, Princeton, 2002; G. Prunier, The Rwanda Crisis, History of a Genocide, London, 1997; E. Stover – H. M. Weinstein, My Neighbor, My Enemy: Justice and Community in the Aftermath of Mass Atrocity, Cam-bridge, 2005; P. Uvin, Aiding Violence: The Development Enterprise in Rwanda, West Hartford, 2001.

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neato il bisogno di riabilitare le vittime del genocidio. Ciò emerge chiaramente dalla nuova costituzione adottata nel 2003, il cui articolo 14 recita:

“The State shall, within the limits of its capacity, take special measures for the welfare of the survivors of genocide who were rendered destitute by the gen-ocide committed in Rwanda from October 1st, 1990 to December 31st, 1994, the disabled, the indigent and the elderly as well as other vulnerable groups”.

La nuova carta costituzionale è fortemente ispirata dalla volontà di

fare i conti con l’eredità del genocidio e a tal fine condanna ogni di-scriminazione etnica. Cruciali in tal senso risultano il suo preambolo34, così come l’articolo 9, che stabilisce i principi fondamentali 35 e l’articolo 11, che consacra il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazione. L’articolo 13 proibisce il revisionismo, mentre l’articolo 33 garantisce la libertà di opinione. Inoltre oggi il Ruanda ha ratificato la maggior parte degli strumenti di diritto internazionale a protezione dei diritti umani. La prise en charge dell’eredità del genoci-dio sotto il profilo della giustizia penale ha rappresentato una sfida alla quale il Ruanda non si è sottratto. Al contrario, interpretando seria-mente il principio del duty to prosecuté i crimini internazionali, il paese africano ha dato vita al più ambizioso esperimento di giustizia di tran-sizione sinora tentato. Le corti ordinarie incaricate di punire i respon-sabili del genocidio, a causa della mancanza di risorse e del numero

34 Si veda il preambolo della costituzione ruandese del 2003: “we, the People of

Rwanda, in the wake of the genocide that was organized and supervised by unworthy leaders and other perpetrators and that decimated more than a million sons and daughters of Rwanda; Resolved to fight the ideology of genocide and all its manifesta-tions and to eradicate ethnic, regional and any other form of divisions; Determined to fight dictatorship by putting in place democratic institutions and leaders freely elected by ourselves; Emphasizing the necessity to strengthen and promote national unity and reconciliation which were seriously shaken by the genocide and its consequences; Conscious that peace and unity of Rwandans constitute the essential basis for national economic development and social progress; (…) Now hereby adopt, by referendum, this Constitution as the supreme law of the Republic of Rwanda”.

35 L’articolo 9 della costituzione ruandese afferma: “the State of Rwanda commits itself to conform to the following fundamental principles and to promote and enforce the respect thereof: fighting the ideology of genocide and all its manifestations; eradi-cation of ethnic, regional and other divisions and promotion of national unity; equita-ble sharing of power; building a state governed by the rule of law, a pluralistic demo-cratic government, equality of all Rwandans and between women and men reflected by ensuring that women are granted at least thirty per cent of posts in decision making organs; building a State committed to promoting social welfare and establishing ap-propriate mechanisms for ensuring social justice; the constant quest for solutions through dialogue and consensus”.

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impressionante di accusati, hanno iniziato a lavorare a rilento. Tutta-via, nel 2005 già diecimila sospetti erano stati processati, un risultato migliore di quello ottenuto da molti paesi europei dopo la seconda guerra mondiale, come William Schabas ha sottolineato36. L’abuso del-la carcerazione preventiva ha rappresentato in questo frangente un gravissimo problema, dato che la popolazione carceraria per crimini legati al genocidio ha toccato addirittura le 120.000 unità37. Anche per far fronte a questo problema, il governo ruandese ha dato vita ad una serie di iniziative tese a trovare nuove modalità per far fronte all’emergenza giustizia. Scartata una soluzione analoga a quella del Sud Africa post-Apartheid, in quanto aperta all’ipotesi di un’amnistia indi-vidualizzata per chi confessasse i propri crimini, il Ruanda si è orienta-to verso la valorizzazione e riscoperta di modelli di giustizia precolo-niali. Sono nati così gli Inkiko Gacaca, rivisitazione formalizzata e rego-lata per legge di un modello di giustizia tradizionale che, anche se pro-fondamente trasformato dall’amministrazione belga, era sopravvissuto sul piano informale sino alle soglie del genocidio.

4.1 I gacaca tradizionali La posizione dei Ruandesi verso la generalità e l’astrattezza del di-

ritto di matrice occidentale e verso i suoi sistemi di risoluzione delle controversie altamente formalizzati è caratterizzata da un forte scettici-smo, il che fornisce ulteriori argomenti alla nutrita letteratura che prende di mira il positivismo giuridico38.

Come ricorda Michel Alliot infatti ” l’Africain a horreur du juge-ment qui clôt une querelle en appliquant aux deux parties une loi pré-établie. La justice n’est pas affaire technique, elle est d’abord expres-sion de l’autorité ”39. Definire le coordinate di questo “orrore” e la mi-sura del peso che esso oggi esercita sulla percezione della legge codifi-cata in vigore in Ruanda rappresenta certamente un fertile campo di ricerca.

Originariamente i gacaca (che etimologicamente significa “piccola erba” con chiara allusione allo spazio dove i ruandesi erano soliti risol-

36 W. A. Schabas, Genocide, Trials and Gacaca Courts, in 3 J. INT’L Crim. JUST.

879 (2005), 888. 37 W. A. Schabas, The Rwandan Case: Sometimes It’s Impossible, in Post-conflict

Justice, in Post Conflict Justice (a cura di M.C. Bassiouni), Ardsley – New York, 2002. Si veda anche il Report of the mission to Rwanda on the issues of violence against wom-en in situations of armed conflict, UN Doc. E/CN.4/1998/38/Add,1.

38 Ibidem. 39 Cfr. M. Alliot, 1965, 245, citato in F. Digneffe – J. Fierens, Justice et gacaca.

L’expérience rwandaise et le génocide, Namur, 2002, 15.

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vere dispute intra e interfamiliari), erano giurisdizioni fondamental-mente finalizzate a ristabilire l’armonia all’interno delle diverse comu-nità. Essi non conoscevano la differenza tra illecito civile e penale e si basavano sull’assunto secondo il quale ogni disputa di una certa rile-vanza riguardava l’intera collettività e non solo gli individui coinvolti. Anche se inclusiva e tesa alla risocializzazione, la giustizia consuetudi-naria amministrata dal giudice dei gacaca, il cosiddetto inyangamugayo, (letteralmente “colui che odia la disonestà”), faceva ricorso in casi estremi alla punizione. Le procedure giudiziarie contemplavano, infat-ti, accanto ad alcune modalità di restitutio in integrum e di risarcimen-to danni, anche forme di ostracismo come l’espulsione del colpevole dalla propria famiglia, che equivaleva ad una sorta di morte civile40. Le ammende dovute dal colpevole includevano anche il pagamento di birra di banana da condividere sia con la parte offesa che con i giudici. Nel caso di offese gravi come l’omicidio, la consuetudine offriva la possibilità di stabilire un vincolo tra la famiglia della vittima e quella del colpevole attraverso un matrimonio in grado di perpetrare la stirpe della famiglia offesa, siglando così una nuova alleanza. La donna, a causa del proprio ruolo sociale, era del tutto estromessa dai conflitti relativi alla propria famiglia ed esclusa dai meccanismi che regolavano la vendetta, che rappresentava un dovere solo per i maschi. Il ciclo del-la nemesi poteva essere interrotto solo da un ordine del Mwami. Un’eventuale inottemperanza a tale ordine equivaleva ad un atto di aperta ribellione.

I membri più vecchi della comunità erano i custodi delle consue-tudini e la loro testimonianza non ammetteva una prova contraria. Due principi in palese conflitto sembrano presiedere all’am-ministrazione della giustizia gacaca. Il primo imponeva un dovere di verità ad ogni costo, ed è cristallizzato nel detto “aho kuryamira ukuri waryamira ubugi bw’intorezo” (letteralmente “piuttosto che nasconde-re la verità si deve accettare la decapitazione”). Il secondo invece asse-riva che non sempre è cosa buona dire la verità, “ukuri wavuze uragu-hakishwa” (letteralmente “non si testimonia contro i potenti”). Era compito dei testimoni bilanciare questi principi durante i processi gacaca. È di estremo interesse come la liturgia gacaca contemporanea, così come formalizzata quale strumento di giustizia post-genocidio, miri a ricostruire la verità relativa ai massacri del 1994 dal basso, attra-verso il coinvolgimento diretto e obbligato (la mancata partecipazione è sanzionata dalla legge) di tutte le comunità ruandesi. E proprio la possibilità di ricostruire la verità, nelle sue varie accezioni, fattuale e

40 Su questo punto F. Digneffe – J. Fierens, op. ult. cit.

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giuridica, individuale e collettiva, rappresenta, come vedremo, al con-tempo il nervo scoperto e il grande pregio della procedura gacaca.

Accanto ai processi che si svolgevano capillarmente “nelle colline” del Ruanda, gacaca amministrati dal re avevano luogo se questioni di particolare rilevanza emergevano.

Le autorità coloniali belghe hanno profondamente riorganizzato il sistema giudiziario ruandese, con inevitabili conseguenze sui gacaca, che dal 1924 sono stati privati di ogni giurisdizione in materia crimina-le attraverso l’Ordonnace-loi n. 45 del 30 agosto41. Gli Inyangamugayo furono in seguito posti sotto il controllo coloniale. I belgi riorganizza-rono le giurisdizioni tradizionali nel 1943 (Ord. lég. N. 348/AIMO du 5 octobre 1943, B.A., 1943, 1498). Esse includevano un tribunal de chefferie, un tribunal de territoire ed un tribunal du Mwami, la suprema giurisdizione tradizionale. Un tribunal du parquet aveva il potere di cancellare le decisioni delle giurisdizioni tradizionali, senza tuttavia decidere “sur le fond”. Le corti ordinarie applicavano il codice penale Congolese del 30 gennaio 1940 ed includevano un tribunale di prima istanza, uno di appello e tribunali di polizia. La riforma della giustizia del 1962 ha abolito le corti tradizionali in Ruanda (loi du 24 août 1962, J.O., 1962, 308).

Secondo Fhilip Reyntjens la relazione tra gacaca e corti ordinarie non era di natura dualistica ma complementare e l’attribuzione della competenza alle une o alle altre dipendeva da una serie di complessi fattori42. Dopo l’esperienza coloniale, le udienze gacaca si tenevano una volta a settimana ed erano presiedute da un conseiller communal. La partecipazione popolare era solitamente alta. Questo sistema è riemer-so in alcune aree rurali all’indomani del genocidio con particolare ri-guardo rispetto a questioni agrarie, proprietà immobiliari e rimpatrio dei rifugiati43.

Procedure informali e flessibili, partecipazione popolare e la cen-tralità del giudice restavano caratteristiche centrali nonostante l’adat-tamento al nuovo contesto. Un report del 1996 dell’Alto Commissaria-to per i Diritti Umani delle Nazioni Unite conferma il supporto della autorità ruandesi al sistema dei gacaca all’indomani del genocidio.

41 Cfr. K. Urusaro, Lutte contre l'impunité et Promotion de la réconciliation Natio-

nale, in Cahiers du Centre de Gestion des Conflits. Les Juridictions Gacaca et le proces-sus de réconciliation nationalé, n. 3, 2001, 32.

42 Cfr. F. Reyntjens, Le Gacaca ou la justice du Gazon au Rwanda, in Politique Africaine, n. 40, dicembre 1990, 31−41.

43 Cfr. B. Ingelare, The gacaca courts in Rwanda, in Traditional Justice and Recon-ciliation after Violent Conflict. Learning from African Experiences (a cura di L. Huyse - M. Salter), International Institute for Democracy and Electoral Assistance, Stoccolma, 2008.

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Inoltre il report sottolinea come durante queste assemblee fosse un ta-bù parlare dei crimini più efferati legati al genocidio, considerati un argomento troppo “sensibile”44.

Una lettera del prefetto di Kibuye di questo periodo suggerisce di utilizzare i gacaca per raccogliere i nomi dei soggetti coinvolti nel ge-nocidio. Il report delle Nazioni Unite supporta l’idea di non usare i gacaca come un vero e proprio sistema giudiziario, ma di sfruttarli co-me una sorta di truth commission sia per raccogliere testimonianze sul genocidio da inviare alla corti ordinarie, sia per fornire un forum di dialogo alla popolazione ruandese che incoraggiasse anche la riconci-liazione nazionale. Il report mette anche in guardia dai pericoli che po-trebbero derivare da un eccessivo coinvolgimento statale. Questi con-sigli sono stati tuttavia ampiamente disattesi, e il governo ruandese, at-traverso una serie di leggi organiche, ha formalizzato il sistema gacaca trasformandolo in una macchina di impianto solidamente retributivo sulla quale ha gravato il peso quasi integrale della giustizia post-genocidio.

Funzioni simili a quelle degli inyangamugayo sono svolte oggi da mediatori dei conflitti il cui ruolo è espressamente prevista dalla costi-tuzione ruandese, gli Abunzi45. Inoltre, udienze simili a quelle dei gaca-ca tradizionali si svolgono ancora in Ruanda. L’idea di tradizione deve essere naturalmente interpretata in maniera dinamica, come le reinter-petazioni e gli adattamenti al mutato contesto sociale dimostrano. Ne sono prova i cosiddetti “pre-gacaca”, riunioni tenutesi nelle prigioni ruandesi dopo l’approvazione della legislazione gacaca del 2001 fina-lizzate alla raccolta di informazioni relative al genocidio prima della presentazione dei sospetti innanzi alla popolazione46. Un altro esempio è riportato da Phil Clark, che descrive la pratica dei gacaca nkiristu, una sorta di gacaca cristiano che si tiene nelle chiese delle zone rurali del Ruanda47. Questo complesso dinamico e in continua evoluzione di pratiche conferma la forza ed il radicamento di approcci informali all’amministrazione della giustizia in Ruanda.

44 Ibidem. 45 Ibidem: “from observation of the type of disputes it settles, the sort of penalties

it can impose and the stile of mediating, in its features and scope this activity resem-bles the Gacaca as they existed before genocide. However, this mediation committee has been almost totally formalized and incorporated into the machinery of state power as well. As with the modern gacaca courts the Abunzi function according to codified laws and established procedures; but their decisions are still often inspired by cus-tom”. Si veda anche l’articolo 159 della costituzione ruandese.

46 Cfr. Penal Reform International, Gacaca juridictions and their preparations, 2002.

47 Cfr. P. Clark – K. Zacary, After Genocide. Transitional Justice, Post-conflict Re-construction and Reconciliation in Rwanda and Beyond, New York, 2009, 297−320.

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4.2 Gli Inkiko gacaca La formalizzazione attraverso la reiterata adozione di lois organi-

ques dei tribunali gacaca e la loro conseguente inclusione tra le giuri-sdizioni statali ha creato un sistema giudiziario profondamente diverso da quello consuetudinario. Radicalmente differente rispetto al passato è anche il contesto sociale al quale i nuovi tribunali si rivolgono48. Creati attraverso la Loi Organique 40/200049 che consiste di più di cen-to articoli, nel volgere di pochi anni i tribunali gacaca sono andati in-contro ad una nutrita serie di trasformazioni che hanno riguardato an-che la categorizzazione dei colpevoli e l’entità delle pene50. Il preambo-lo della legge 40/2000 evidenzia le finalità dell’adozione dei tribunali gacaca, cioè il perseguimento dei crimini legati al genocidio, l’accelerazione dei processi e il raggiungimento della riconciliazione nazionale51. Tra le motivazioni dell’adozione dei gacaca rientrano an-che finalità correzionali e reintegrative52. Altri riferimenti a finalità pe-

48 Cfr. L. Waldorf, Mass Justice for Mass Atrocities: Rethinking Transitional Justice

as Local Justice, cit.: “where East Timor and, to a lesser extent, Sierra Leone adapted local dispute resolution practices to their truth and reconciliation commissions, Rwanda did something radically different, transforming a largely moribund local dis-pute resolution mechanism into a highly formal system for meting out (largely retribu-tive) criminal justice […] some observers have described the gacaca for genocide cases as traditional or indigenous even though few “customary” features remain. The new gacaca system is an official state institution intimately linked to the state apparatus of prosecutions and incarceration, and applying codified, rather than “customary,” law. Second, gacaca courts are judging serious crimes, whereas traditional gacaca mostly involved minor civil matters. Third, gacaca judges are not community elders as in the past, but rather elected, comparatively young, and nearly one-third women. Finally, “[t]he main difference between the traditional and the new systems is probably the destruction of the social capital that underlies the traditional system”.

49 Si veda la legge organica 40/2000 del 26.1.2001. 50 Dal momento dell’inaugurazione, nel marzo 2005, il sistema gacaca é stato sot-

toposto a numerosi emendamenti. Qui faccio riferimento alle sue caratteristiche se-condo la legge organica del 2004 e le successive leggi del 2007 e del 2008. Si consulti-no le seguenti fonti normative: legge organica 40/2000 del 26 gennaio 2001; legge or-ganica 33/2001 del 22.6.2001; legge organica 16/2004 del 19 giugno 2004; legge orga-nica 28/2006 del 27 giugno 2006; legge organica 10/2007 del 1 marzo 2007.

51 Il preambolo alla legge sottolinea anche “the necessity, in order to achieve rec-onciliation and justice in Rwanda, to eradicate for good the culture of impunity and to adopt provisions enabling to ensure prosecutions and trials of perpetrators and ac-complices without only aiming for simple punishment, but also for the reconstitution of the Rwandese society made decaying by bad leaders who prompted the population to exterminate one part of that society”.

52 Il preambolo della legge 40/2000 annovera, infatti, tra le finalità dei gacaca “al-lowing convicted prisoners to amend themselves and to favour their reintegration into the Rwandese society without hindrance to the peoplés normal life”.

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nologiche sono assenti nella legislazione gacaca53. L’articolo 39 della legge 40 stabilisce che i tribunali gacaca hanno competenza “simile a quella delle corti ordinarie”, il che ne tradisce chiaramente il riorien-tamento secondo un paradigma retributivo, marginale nei gacaca tradi-zionali. I pilastri su cui si reggono le giurisdizioni gacaca sono il decen-tramento della giustizia, attraverso la distribuzione delle corti in ogni unità amministrativa del paese, la cellula (al di sopra di questa ci sono settori, distretti e province); la categorizzazione degli accusati in tre gruppi (originariamente quattro); il ruolo centrale delle comunità loca-li, che hanno il compito di eleggere i giudici, categorizzare i reati, for-nire prove a carico e a discolpa degli accusati (una difesa tecnica è esclusa); l’adozione del sistema di “guilty plea” tipico del common law, che prevede ampi sconti di pena per coloro che confessano. Mentre il diritto penale altamente tecnicizzato di matrice occidentale tende a isolare e limitare i soggetti titolati a partecipare al processo, la proce-dura di fronte ai gacaca cerca to attrarre il più alto numero possibile di partecipanti. Il principio della categorizzazione delle offese in diverse classi a seconda della gravità è stato introdotto in Ruanda dalla legge organica 8/1996 che ha attribuito competenza per il crimine di geno-cidio alle corti ordinarie ruandesi. Pur facendo parte della convenzio-ne del 1948 per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, infatti, il Ruanda non aveva mai in precedenza adottato la legislazione richiesta per punire tale reato. La prima categoria include gli ideatori del genocidio, i suoi pianificatori e, dal 2004 in poi, i sospettati di stu-pro, arma di genocidio riconosciuta nella prima sentenza di fronte al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda relativa al celebre caso Akayesu54. Fino al 2008 coloro che rientravano nella prima categoria non erano soggetti alla giurisdizione dei gacaca, ma solo a quella delle corti ordinarie, di fronte alle quali rischiavano la pena di morte (aboli-ta nel 2007). Il massimo della pena prevista per questa categoria di rea-ti di fronte ai gacaca è l’ergastolo in isolamento, una pena considerata da Human Rights Watch una forma di tortura e che lo Human Rights Committee delle Nazioni Unite considera contraria all’articolo 7 del Patto sui diritti civili e politici del 196655. La seconda categoria include i sospettati di omicidio, tortura, e altri reati gravi contro la persona. Per costoro la pena è la detenzione, i cui termini variano sensibilmente

53 Sulla penologia dei crimini internazionali si veda in generale M. Drumbl, Atro-city, Punishment and International Law, New York, 2007.

54 Si veda Case No. ICTR − 96 − 4 – T. 55 Su questo punto si veda Consideration of Reports Submitted by States Parties

Under Article 40 of the Covenant, Concluding observations of the Human Rights Committee, Rwanda, Human Rights Committee Ninety-Fifth Session, New York, 15 marzo−3 aprile 2009.

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in base ai tempi eventuali di una confessione (lo sconto è maggiore quanto più tempestiva risulta essere l’autodenuncia). La metà della pena è scontata conducendo i cosiddetti Travaux d’Intéret Général, la-vori di cui beneficia tutta la società ruandese (e non direttamente le vittime del genocidio) quali ad esempio la costruzione di strade e scuo-le. La terza categoria include i responsabili di offese alla proprietà, per i quali sono previste solo forme di risarcimento danni ma non la de-tenzione. La pena può essere calibrata in base all’entità dell’offesa dal ricorso alla dégradation civique temporanea o permanente, che può in-cludere la perdita dell’elettorato attivo e passivo e del diritto di rico-prire cariche pubbliche. Le corti gacaca possono anche ordinare la re-stituzione o il pagamento del valore della proprietà distrutta o indebi-tamente sottratta.

I gacaca al livello amministrativo di settore sono competenti per i crimini delle prime due categorie, quelli al livello di cellula per la terza. Nell’ottobre del 2001 circa 250.000 giudici laici sono stati eletti in Ruanda per coprire circa 11.000 corti gacaca. Il training iniziale dei giudici è durato solo 36 ore complessive56. I requisiti fondamentali per essere eletto come inyangamugayo erano la nazionalità ruandese, i 21 anni di età, una fedina penale immacolata e il riconoscimento da parte della propria comunità di doti di onestà e saggezza. Le cellule erano incaricate di raccogliere le informazioni relative al genocidio e di ripar-tire gli accusati nelle tre categorie. Fino al 2012, quando i gacaca hanno concluso la propria attività, più di un milione di persone è stato pro-cessato, un risultato quantitativamente sorprendente per qualunque sistema giudiziario. Dati forniti dalla ONG internazionale Avocats Sans Frontiéres relativi agli anni 2005-2010 dimostrano che i gacaca tendono ad infliggere punizioni piuttosto dure. Le condanne a meno di un anno ammontano allo 0,6% del totale; quelle a 1-5 anni al 2,4%; quelle a 5-10 anni al 6,5%; quelle a 10-20 anni al 13,9%; quelle a più di 20 anni al 12,4%; quelle all’ergastolo in isolamento al 2,4%. La per-centuale di assoluzioni corrisponde al 16, 8% del totale. Dato che il processo gacaca ha raggiunto solo di recente il suo completamento, una valutazione complessiva è ancora precoce, vista anche la pluralità di scopi che tali giurisdizioni si prefiggono. Alcune provvisorie conclu-sioni possono tuttavia esser tratte. In termini di varietà delle punizioni ad esempio i gacaca offrono un approccio più articolato e ricco rispetto al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Inoltre sembra che la loro giurisprudenza non abbia espresso a pieno le finalità penologi-

56 Cfr. D. Hayle, Rwandàs Experiment in Peoplés Courts (gacaca) and the Tragedy

of Unexamined Humanitarianism: A Normative/Ethical Perspective, University of Ant-werp, Institute of Development Policy and Management, 2008.

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che prefissate tra cui spiccano la riabilitazione del condannato la ri-conciliazione nazionale57. Il piglio retributivo di tali tribunali, che a differenza di altri meccanismi di giustizia di transizione (come quelli adottati in Sud Africa ad esempio) spiccano per la titolarità di cosid-detti subpoena powers e la possibilità di infliggere pene molto severe, ha poi fatto sì che la questione del diritto al giusto processo emergesse con prepotenza. Sarebbe impossibile dire che il processo di fronte ai tribunali gacaca rispetti formalmente i diritti fondamentali dell’ac-cusato così come formulati negli strumenti di diritto internazionale di cui il Ruanda è parte58. Alcuni autori hanno tuttavia sostenuto che i gacaca possano garantire un giusto processo in termini sostanziali, per-ché il diritto alla difesa sarebbe garantito dal coinvolgimento delle co-munità interessate dal genocidio, le uniche vere depositarie della verità relativa alle sue dinamiche. Anche volendo adottare questa visione al-tamente ottimistica, è innegabile a mio avviso che il sistema si presti a manipolazioni, soprattutto da parte delle autorità ruandesi. La plurali-tà di scopi che le giurisdizioni gacaca si pongono, l’accelerazione del ritmo dei processi, l’uscita dalle prigioni dei sospettati in protratta de-tenzione preventiva, l’offerta di un meccanismo di giustizia post-genocidio radicato nella cultura locale, nonché il raggiungimento della riconciliazione nazionale, caricano il sistema di corti neotradizionali di un’ambizione probabilmente eccessiva.

La letteratura in materia ha evidenziato questa problematica. Lars Waldorf ha criticato i gacaca etichettandoli come un esempio di “Mass justice for mass atrocities”59, mentre Jaques Fierens e Dadimos Hayle hanno evidenziato il loro distaccarsi da fondamentali standards di dirit-ti umani. ONG internazionali hanno stigmatizzato la mancanza di un avvocato difensore per gli accusati (Penal Reform International, report 2006) ed il pericolo per coloro che testimoniano contro i génocidaires (Avocats Sans Frontiéres, report 2007). Nonostante queste critiche i gacaca hanno trovato anche molti sostenitori. Tra questi Phil Clark, che in essi vede uno strumento dinamico il cui l’obiettivo varia a se-conda dei bisogni primari della comunità in cui i processi sono cele-brati60. Thimoty Longman vede nei gacaca la possibilità per lo stato ruandese di garantire un giusto processo in termini sostanziali e cultu-

57 M. Drumbl, Atrocity, Punishment, and International Law, New York, 2007. 58 Sull’argomento mi permetto di rinviare al mio Gacaca tribunals in Rwanda: “Be-

tween traditional justice and rule of law”, in Transitional Justice and Rule of Law: Insti-tutional design and the changing normative structure of post-authoritarian societies, cit.

59 Sul punto si veda L. Waldorf, Mass Justice for Mass Atrocity: Rethinking Local Justice as Transitional Justice, cit.

60 Cfr. P. Clark, The Gacaca Courts, Post-Genocide Justice and Reconciliation in Rwanda. Justice without Lawyers, cit., 311−319.

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ralmente affini ai paradigmi nazionali, un meccanismo che richiame-rebbe da vicino la dottrina del margine d’apprezzamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo61. La mancanza della voce dei ruandesi sull’argomento è sicuramente sentita in maniera acuta, la maggior par-te della ricerca essendo condotta da stranieri62.

I punti deboli del sistema gacaca sono da individuare a mio avviso nella loro controversa capacità di ricostruzione della verità relativa al genocidio, nella mancanza di meccanismi riparativi a favore delle vit-time e nella forte pressione subita da parte delle autorità ruandesi. Come molte ricerche condotte sul terreno confermano, la verità, con-cetto da declinare in una pluralità di spettri semantici, e il riconosci-mento delle proprie sofferenze rappresentano una fondamentale aspet-tativa per le vittime63. La verità su quanto accaduto nel 1994 è un ele-mento fondamentale per individualizzare le responsabilità relative al genocidio, distinguere le vittime dai carnefici ed evitare colpevolizza-zioni collettive della popolazione Hutu. L’opportunità data alla popo-lazione ruandese di prendere la parola durante le udienze gacaca, rac-contare la propria storia e fornire la propria testimonianza sui massacri rappresenta senza ombra di dubbio una prerogativa fondamentale del-la giustizia post-genocidio in Ruanda. In nessun altro contesto post-conflict si è tentato un così capillare coinvolgimento della popolazione. Problemi sono tuttavia emersi rispetto alla verità discussa durante le udienze gacaca. Innanzitutto è emersa una certa consapevolezza del

61 Cfr. T. Longman, Justice at the Grassroots? Gacaca Trials in Rwanda, in Transi-

tional Justice in the Twenty-First Century. Beyond Truth versus Justice, cit. 62 Cfr. M. Rettig, Gacaca: Truth, Justice and Reconciliation in Postconflict Rwan-

da?, in African Studies Review, 26−27: “not nearly enough is known about how Rwan-dans view gacaca. Empirical evidence about Rwandan attitudes toward gacaca and postconflict reconciliation is scant, out-of-date, and suspiciously positive given the range of problems documented by observers. For example, a public opinion survey conducted in early 2002, after the election of gacaca judges but before the courts had begun to function, found that 83 percent of Rwandans had confidence in gacaca (Longman et al. 2004). In an earlier survey, 53 percent of respondents said they were “highly confident” that gacaca would promote a lasting peace (Ballabola 2001). A third survey, conducted in 2003 by Rwandàs National Unity and Reconciliation Commis-sion (NURC), revealed some skeptical attitudes toward gacaca but still was generally positive (NURC 2003). These results seemingly contradict most qualitative evidence and raises everal questions: if Rwandans support gacaca in high numbers, why do offi-cials resort to threats and fines to achieve a quorum at gacaca sessions? Why do inter-views with Rwandans reveal deep concern about gacacàs ability to promote truth, jus-tice, and reconciliation?”.

63 Cfr. A. Molenaar, Gacaca: grassroots justice after genocide. The key to reconcilia-tion in Rwanda?, Research Report 77/2005. Leiden University: African Studies Cen-tre, 144 (disponibile su https://openaccess.leidenuniv.nl/-dspace/bitstream/1887/4645/1/ASC-1236144-071.pdf).

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fatto che testimoni e indagati spesso mentono di fronte agli inyanga-mugayo64. Questi ultimi sono inoltre stati coinvolti in diversi casi di corruzione. È emersa anche la pratica di false accuse e false confessio-ni65. Pratiche note come “kugura umusozi” e “ceceka” sono state, infat-ti, frequentemente riportate. La prima, che letteralmente significa “comprare la collina”, si riferisce all’usanza di pagare un determinato soggetto perché si assuma la responsabilità di un crimine legato al ge-nocidio commesso da un altro individuo. La seconda si riferisce ad un patto di silenzio tra gli accusati di genocidio che si rifiutano di testi-moniare proteggendosi vicendevolmente. I gacaca sono stati talvolta usati per risolvere dispute personali, testimoni e accusati sono spesso oggetto di minacce e temono atti di vendetta66. Questi fattori possono sensibilmente contribuire ad un aumento della tensione tra Hutu and Tutsi. Un secondo aspetto altamente problematico riguarda i limiti di competenza imposti sui gacaca dal governo. Essi hanno giurisdizione ratione temporis dall’ottobre 1990 al dicembre 1994, periodo in cui crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani sono stati cer-tamente commessi anche dal RPF67. La discussione di tali fattispecie è

64 Su questo punto v. il rapporto curato da African Rights e REDRESS, Survivors

and Post-Genocide Justice in Rwanda, Their Experience, Perspectives and Hopes, Lon-don-Kigali, 2008, 39−43 e 45−47.

65 Ibid., 47-49. 66 Cfr. L. Waldorf, Transitional Justice and DDR: The Case of Rwanda, Interna-

tional Center for Transitional Justice, 2009, 21, disponibile su http://www.ictj.org/en/research/projects/ddr/country-cases/2382.html.: “from Feb-ruary through April 2005, an estimated 19,000 Hutu fled Rwanda, largely in response to rumors that they would be accused in gacaca or killed in revenge after being named in gacaca; most subsequently returned. Nonetheless, killings of genocide survivors and reprisal killings by survivors have occurred over the past several years”.

67 Cfr. Human Rights Watch, 36. Secondo il report le ampie violazioni dei diritti umani perpetrati dal RPF sono confermate da queste fonti: R. Degni – Ségui, Report on the situation of human rights in Rwanda, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights under paragraph 20 of Commission resolution, E/CN.4/S-3/1 del 25.5.1994, E/CN.5/1995/7 del 28.6.1994; United Nations, The United Nations and Rwanda, 1993-1996, Blue Books Series, vol. X, New York 1996; United Nations High Commissioner of Human Rights, Report to the Secretary−General on the investigation of serious violations of international humanitarian law committed in Rwanda during the conflict, allegato alla lettera datata 21.7.1996 inviata dal Secretary−General al President of the Security Council; United Nations High Commissioner for Refugees, Update on the Rwanda emergency by the Executive Committee of the Programme of the United Nations High Commissioner for Refugees, 26.9.1994, par. 13, 338; e, infine, United Na-tions Secretary−General, Letter dated 1 October 1994 from the Secretary-General to the President of the Security Council transmitting the interim report of the Commission of Experts on the evidence of grave violations of international humanitarian law in Rwan-da, including possible acts of genocide, par. 146−150 del report della Commission re-port, 361. Si veda, inoltre, Security Council Resolution 1503 del 28 agosto 2003,

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tuttavia di fatto proibita di fronte ai gacaca, che non a caso hanno giu-risdizione solo su genocidio e crimini contro l’umanità, ma nessuna competenza rispetto a violazioni del diritto umanitario. Coloro che hanno testimoniato dei crimini del RPF hanno pagato a proprie spese il loro coraggio, venendo spesso accusati di e perseguiti penalmente per negazione del genocidio. Il riconoscimento esclusivo dei crimini contro i Tutsi, ma non di quelli da essi perpetrati, rischia di alimentare una narrazione limitata e limitante della storia ruandese e di trasforma-re i gacaca in un ennesimo strumento di affermazione della giustizia dei vincitori68. Il rafforzamento della memoria storica attraverso la legge sull’ideologia del genocidio del 2008 rappresenta un ulteriore rischio in questo senso69. Penal Reform International ha inoltre sottolineato come la fase di raccolta delle prove di fronte ai gacaca di cellula sia sta-ta contrassegnata da una forte e illegittima interferenza delle autorità ruandesi, risultata in una sorta di “amministratizzazione” della proce-dura che ha privato i cittadini ruandesi de proprio dominio su tale meccanismo70. La manipolazione da parte dello stato rischia di privare le corti ruandesi della propria arma più potente, il loro approccio par-tecipativo alla fase di superamento del passato. È stato in proposito anche ricordato che un obbligo imposto dallo stato di dire la verità sul genocidio contrasta con la cultura ruandese, nella quale i legami fami-liari e sociali svolgono una funzione primaria71. L’assenza di un sistema di riparazioni a favore delle vittime del genocidio rappresenta un altro tasto dolente relativo non solo ai gacaca, ma a tutta la giustizia post-genocidio ruandese. La legge organica 8/1996 inizialmente prevedeva l’istituzione di un fondo a cui attingere per le riparazioni72. I sopravvis-suti potevano inoltre agire come parte civile nei processi di fronte alle

S/RES/1503 (2003) e Security Council Resolution 1534 del 26 agosto 2004, S/RES/1534 (2004); ed, infine, Final Report of the Commission of Experts established pursuant to Security Council Resolution 935 (1994), UNSC, UN Doc. S/1994/1405 (1994), par. 146−147.

68 Cfr. A. Molenaar, Gacaca: grassroots justice after genocide. The key to reconcilia-tion in Rwanda?, African Studies Centre, Research Report 77/2005, 48−49.

69 Cfr. Article 19 Comment on the Law Realating to the Punishment of the Crime of Genocide.

70 Cfr. Penal Reform International (2002) Gacaca Research Report No. 1: Gacaca jurisdictions and their preparations (July−December 2001).

71 B. Ingelaere, The gacaca courts in Rwanda, in L. Huyse − M. Salter, Traditional Justice and Reconciliation after Violent Conflict. Learning from African Experiences, Stockholm: International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA), 2008, 25−58.

72 Cfr. articolo 32 della legge organica 8/1996: “damages awarded to victims who have not yet been identified shall be deposited in a victim Compensation Fund, whose creation and operation shall be determined by a separate law”.

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corti ordinarie, ma gli ordini di risarcimento emanati da queste ultime sono rimasti lettera morta, mentre il fondo a favore delle vittime non è stato mai creato. La legislazione gacaca ha legittimato di fatto un peg-gioramento della situazione delle vittime del genocidio negli anni. L’articolo 91 della legge 40/2001 ha infatti stabilito che “Any civil ac-tion lodged against the State before the ordinary jurisdictions or be-fore gacaca jurisdictions shall be declared inadmissible on account of its having acknowledged its role in the genocide and that in compensa-tion it pays each year a percentage of its annual budget to the Com-pensation Fund. This percentage is set by the financial law”. La legge del 2004 prevede di fatto riparazioni solo per le offese contro la pro-prietà, attraverso la restituzione o il pagamento del valore della stes-sa73. L’assistenza alle vittime è limitata al Fonds d’Assistance aux Re-scapés du Génocide (FARG), un fondo che si occupa dell’istruzione e delle cure mediche soprattutto di vedove e orfani del genocidio, ma che è insufficiente per coprire i bisogni complessivi dei ruandesi74. Le-gato al problema delle riparazioni è quello del “travail d´intérêt géné-ral” (TIG), ai quali in altri ordinamenti si fa di solito ricorso per cri-mini di lieve entità e che invece in Ruanda sono obbligatori per tutti i crimini legati al genocidio75. Alcune associazioni di vittime hanno criti-cato il fatto che i lavori vengano fatti a vantaggio di tutta la società ruandese e non delle sole vittime del genocidio. Nell’agosto 2008 già 94.318 individui erano stati condannati ai TIG, dei quali 25.664 pre-stavano la propria opera in specifici campi di lavoro, mentre altri 11.000 lavoravano nelle proprie comunità di appartenenza dove torna-vano a dormire la notte. 3.000 condannati avevano già scontato la pe-na76. Domitilla Mukantaganzwa, direttore esecutivo del Service Natio-nal des Juridictions Gacaca, ha spiegato che i TIG oltre a favorire la reintegrazione nella società dei condannati, sono un efficace strumento per combattere il sovraffollamento carcerario77. La convivenza di vit-time e carnefici porta a porta ha tuttavia suscitato seri problemi, come Penal Reform International ha sottolineato78. Perplessità ha anche sol-

73 Cfr. articolo 94 della Organic Law 16/2004. 74 Cfr. H. Rombouts, Women and Reparations in Rwanda: A long path to travel, in

What Happened to the Women? Gender and Reparations for Human Rights Violations (a cura di R. Rubio Marin), New York, Social Science Research Council, 2006, 194−233.

75 Intervista con un rappresentante di IBUKA, Kigali, luglio 2009. 76 Cfr. Survivors and Post-Genocide Justice in Rwanda, Their Experience, Perspec-

tives and Hopes, cit., 105. 77 Ibidem, 106. 78 Cfr. Penal Reform International (PRI) (2007) Monitoring and Research Report

on the Gacaca. Community Service (TIG,) Areas of Reflection, 2: “[m]any survivors of the genocide fear that Community Service is not enough to transform the ex-killers

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levato l’attribuzione ai gacaca di competenza rispetto alla violenza ses-suale, rispetto alla quale spesso i giudici non hanno sufficiente prepa-razione. I processi per violenza sessuale si sono rilevato particolarmen-te lenti fino al 2008, anno in cui essi sono entrati nell’orbita dei gacaca.

5. Conclusioni Il diritto ha certamente giocato un ruolo fondamentale nel tenta-

tivo di curare le ferite del genocidio in Ruanda. La tensione verso il superamento del passato è stata costituzionalizzata in senso sia formale che materiale, dando vita ad un affascinante e sofisticato esperimento di pluralismo giuridico. Senza temere la sfida implicita in tale scelta, il paese africano è stato il primo a rispettare alla lettera il principio aut dedere aut judicare – che impone agli stati di perseguire i responsabili di serie violazioni dei diritti umani – in un contesto caratterizzato da istanze di violenza fratricida così radicali. E lo ha fatto non solo at-traverso il massiccio coinvolgimento della popolazione, ma anche in nome di un modello di giustizia radicato nel proprio patrimonio cul-turale. Ciò detto, bisogna sottolineare come di tale scelta abbiano spesso fatto le spese i numerosissimi sospettati di genocidio lasciati per anni in carcerazione preventiva, o coloro ai quali é stato negato il dirit-to ad un equo processo. Si deve comunque tenere conto del fatto che la giustizia di transizione in Ruanda si configura come una vera “situa-zione estrema della giustizia”, in cui, anche per la mancanza di risorse, è necessario bilanciare interessi confliggenti. Dall’Armenia alla Cam-bogia, passando per Dachau, non esistono precedenti storici di virtu-osa giustizia post-genocidio e spesso amnistie generali, oggi non ammesse dal diritto internazionale in caso di gravi violazioni dei diritti umani, sono state l’unica via di uscita per chiudere (temporaneamente) i conti col passato. Non vi è dubbio che il Ruanda di oggi sia una soci-età complessa e per molti versi ancora divisa lungo la dicotomia Hutu-Tutsi, nonostante la semplicistica immagine di riconciliazione che il governo cerca di darne. Le categorie etnicizzate di Hutu e Tutsi gio-cano un ruolo centrale nell’autorappresentazione dei Ruandesi, che non sono ancora giunti ad elaborare interpretazioni compatibili del genocidio e del violento passato che è alle sue spalle. I gacaca in questo senso hanno rappresentato un foro importante per discutere la storia recente ruandese, ma ancora una volta il governo non ha resistito alla tentazione di intromettersi nel processo di prise en charge del passato e

and render them harmless, and some of these ex-killers fear revenge by survivors or by those people whom they have accused”.

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di orientarlo per fini propri. Il rischio è che attraverso paradigmi giu-diziari fintamente autoctoni, si perpetuino, anziché sradicarle, dinamiche coloniali, infettando attraverso il diritto le ferite della storia.

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IV

Costruire la memoria del passato

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RIELABORARE IL PASSATO. USI PUBBLICI DELLA STORIA E DELLA MEMORIA

IN ITALIA DOPO LA PRIMA REPUBBLICA

Filippo Focardi

SOMMARIO: 1. Introduzione: revisionismo storico e revisionismo politico nel crocevia

degli anni Ottanta. – 2. La destra italiana alla “guerra della memoria”. La crisi della prima Repubblica e la ricerca di una nuova base di legittimazione politica. – 3. Le reazioni a sinistra fra scontro frontale, “tradimenti” e compromesso. Mobili-tazione antifascista e “lottizzazione della memoria”. – 4. Il Quirinale alla riscoper-ta della patria: una memoria ritrovata? – 5. Conclusioni.

1. Introduzione: revisionismo storico e revisionismo politico nel cro-cevia degli anni Ottanta

Il paesaggio della memoria istituzionale e collettiva presenta oggi in

Italia una conformazione significativamente mutata rispetto all’inizio degli anni Novanta, quando il paese ha vissuto il tracollo del sistema dei partiti nato nel dopoguerra e imboccato la via di una transizione politica tuttora in corso. Le coordinate di riferimento della memoria nazionale hanno ricevuto infatti una forte scossa e subito un processo di radicale rimodellamento in una cornice segnata da un ipertrofico uso pubblico della storia. Ne costituisce una prova evidente il nuovo calendario delle cosiddette “solennità civili” introdotte negli ultimi dieci anni attraverso apposite leggi dello Stato, espressione di memorie aggiuntive, concorrenti o contrapposte alla memoria della Resistenza e alla festa della Liberazione (25 aprile), che avevano costituito il fon-damento della memoria della Repubblica incentrata sull’esperienza dell’antifascismo. È sufficiente accennare alle più importanti. Il 27 gennaio si celebra, ormai da oltre un decennio, la Giornata della me-moria in ricordo della Shoah, istituita dal Parlamento nel luglio 20001; il 10 febbraio il Giorno del ricordo per le vittime delle foibe e gli ita-liani espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia introdotto nel marzo 20042; il 9 novembre ricorre il Giorno della libertà in ricordo dell’abbattimento del muro di Berlino approvato dalle Camere nell’aprile 20053; il 9

1 Legge 211 del 20 luglio 2000. Il testo in F. Focardi, La guerra della memoria. La

Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari 2005, 289-290. 2 Legge n. 92 del 30 marzo 2004. Il testo in F. Focardi, La guerra della memoria,

cit., 310-314. 3 Legge n. 61 del 15 aprile 2005.

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maggio, il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di matrice politica e mafiosa introdotto nel maggio 20074.

Si sono qui ricordate solo le ricorrenze più significative. Recente-mente lo storico Giovanni De Luna ha conteggiato, tra XV e XVI legi-slatura, un totale di almeno 58 proposte di legge avanzate in Parlamen-to per introdurre nuove giornate di commemorazione nazionale in ri-cordo delle più svariate categorie di vittime (tanto da costituire la me-moria delle vittime un fenomeno “quasi straripante”)5. Stiamo dunque assistendo ad un processo di grande mutamento delle coordinate della memoria pubblica. Siamo di fronte ad un flusso costante di memorie, spesso conflittuali, molte delle quali hanno ottenuto riconoscimento e promozione istituzionali. Tale mutamento va certamente inquadrato in un più ampio contesto europeo segnato dalle trasformazioni indotte dal crollo del muro di Berlino, ma risulta soprattutto frutto dello scon-tro interno sulla memoria legato alla transizione politica dalla cosid-detta Prima Repubblica alla Seconda Repubblica.

La “guerra della memoria” sprigionatasi negli anni Novanta ha avu-to una fase fondamentale di incubazione negli anni Ottanta, vero e proprio crocevia segnato dalla diffusione nel discorso pubblico di una pervasiva corrente di revisionismo storico orientato in una duplice di-rezione: verso una critica della Resistenza e dell’antifascismo e, allo stesso tempo, verso una rilettura banalizzata ed edulcorata dell’espe-rienza del fascismo. In un contesto caratterizzato sul piano internazio-nale dalla recrudescenza della contrapposizione fra i blocchi e sul pia-no interno dalla riemersione dell’anticomunismo coltivato non solo dalle forze moderate ma anche dal Psi di Craxi, trovarono larga circo-lazione nel dibattito italiano spunti polemici nei confronti della memo-ria della Resistenza, tipici dell’offensiva antiresistenziale della prima guerra fredda, giocati prevalentemente in chiave anticomunista6. Al richiamo, di per sé ineccepibile, della necessità di distinguere fra anti-fascismo e democrazia (il comunismo in quanto antifascista non pote-va definirsi per ciò stesso democratico)7, si accompagnarono reiterate critiche a noti episodi della Resistenza di cui erano stati protagonisti partigiani comunisti, come l’attentato di via Rasella a Roma cui era se-guita per ritorsione la strage nazista delle Fosse Ardeatine, come l’uccisione a Firenze del filosofo Giovanni Gentile o l’eliminazione di

4 Legge n. 56 del 4 maggio 2007. 5 Cfr. G. De Luna - A. Ricciardi, Centocinquant’anni d’Italia, in Annali della Fon-

dazione Ugo La Malfa, a. XXVI, 2011, 22. 6 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 57-59; N. Gallerano, Critica e crisi

del paradigma antifascista, in Problemi del Socialismo, n. 7, 1986, 106-133. 7 Cfr. ad es. L. Colletti, L’alibi dell’antifascismo, in Corriere della Sera, 24 marzo

1985. Il testo in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 246-249.

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partigiani di altro colore politico, a partire dal caso di Porzus8. Alla violenza fascista furono contrapposte le stragi delle foibe perpetrate contro gli italiani dai comunisti di Tito9 e le uccisioni di avversari poli-tici e di classe considerati fascisti compiute per mano comunista dopo la Liberazione, soprattutto nel “triangolo della morte” emiliano10. Ampia diffusione ebbe inoltre l’accusa nei confronti del Cln di aver rappresentato, con le sue logiche spartitorie, l’origine del male più pernicioso della politica nazionale: la partitocrazia, abbinata al conso-ciativismo. Si trattava di argomenti mai scomparsi dalle pagine della stampa moderata11 e nel tempo ossessivamente riproposti da quella neofascista, che adesso trovavano eco nella più vasta opinione pubbli-ca, grazie anche a giornali e riviste socialisti come l’“Avanti!” e “Mon-doperaio”, che a più riprese incalzarono la cultura comunista sottoli-neando l’esigenza di superare la centralità dell’antitesi fasci-smo/antifascismo in nome dell’antitesi totalitarismo/democrazia12. Im-pegnato nella sfida a sinistra lanciata al Pci, il partito socialista veniva così a legittimare argomenti tradizionali di culture politiche fino ad al-lora antagoniste.

Le accuse alla Resistenza si inserivano – come accennato – nel qua-dro di un’incisiva azione culturale revisionista tesa ad una rilettura del fascismo, visto come un regime in fin dei conti bonario e paternalista, capace di promuovere la modernizzazione del paese e di godere a lun-go di un ampio consenso popolare13. Il revisionismo nei confronti dell’antifascismo e della Resistenza si abbinava pertanto al revisioni-smo nei confronti della dittatura fascista, di cui erano protagonisti una

8 Il riferimento è alla località del Friuli al confine con l’ex-Jugoslavia, dove nel

febbraio 1945 unità partigiane comuniste italiane eliminarono il comando della brigata “Osoppo”, di matrice cattolica e azionista, che si opponeva ai progetti di annessione del Friuli e della Venezia Giulia coltivati dal movimento di resistenza comunista slo-veno. Cfr. f. g., Porzus, in Dizionario della Resistenza (a cura di E. Collotti - R. Sandri - F. Sessi), Vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, 2001, 122-123; Porzus. Vio-lenza e Resistenza sul confine orientale, (a cura di T. Piffer), Bologna, 2012.

9 Sul tema, esiste una una ricca bibliografia. Cfr. almeno: R. Pupo - R. Spazzali, Foibe, Milano, 2003; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, 2005; Id., Trieste’45, Roma-Bari, 2010; J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, 2009.

10 Cfr. M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, 1999.

11 Cfr. C. Baldassini, L’ombra di Mussolini. L’Italia moderata e la memoria del fa-scismo (1945-1960), Soveria Mannelli, 2008. Ma si veda anche R. Chiarini, 25 Aprile. La competizione sulla memoria, Venezia, 2005.

12 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 60-61. 13 Cfr. N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit.; N. Tranfaglia,

Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televisivi, in Passato e Presente, 3, 1983, 135-148.

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fitta schiera di storici e giornalisti, da Arrigo Petacco ad Antonio Spi-nosa da Roberto Gervaso a Giordano Bruno Guerri fino al più rappre-sentativo di tutti, Indro Montanelli. La funzione di questi prolifici scrittori, curatori di mostre, consulenti di programmi televisivi – defi-niti polemicamente “storici della gente”14 o “storici da rotocalco e da talk show”15 – è stata di declinare per il grande pubblico la visione del fascismo sviluppata dallo storico Renzo De Felice nella sua imponente biografia di Mussolini16, fino a creare un’autentica vulgata mediatica17. Essa rivalutava presunti “fascisti critici” come il ministro degli Esteri Dino Grandi o il ministro delle Corporazioni e dell’Educazione Na-zionale Giuseppe Bottai, e poneva al centro della storia del regime la figura di Mussolini, colto soprattutto nella sua dimensione intimistico-familiare. Un Mussolini “arci-italiano”, incarnazione dei vizi e delle virtù del suo popolo e come tale capace di forgiare un regime “a im-magine e somiglianza” del paese, contraddistinto da una dose massic-cia di retorica e teatralità (oltre che di intrighi amorosi), ma a basso tasso di violenza e di repressione. Si sviluppava proprio in questi anni quel processo – destinato ad accelerare nel decennio successivo – che uno dei massimi studiosi del fascismo, Emilio Gentile, ha definito di “defascistizzazione retroattiva” del regime18. A questo processo, che svuotava la dittatura dei suoi tratti liberticidi e repressivi, contribuiva l’utilizzazione su larga scala di un modello interpretativo di fondo, anch’esso desunto da De Felice, basato sulla lettura del fascismo ita-liano sul metro del nazismo tedesco considerato (a torto) un modello perfetto di “totalitarismo d’acciaio”19. Nella raffigurazione del venten-nio fascista il confronto col Terzo Reich era utilizzato per marcare le distanze dall’esperienza tedesca e tracciare del fascismo un volto rassi-curante e benevolo. Un caso emblematico era rappresentato dalla que-stione dell’antisemitismo, in cui il paragone con la sanguinaria radicali-tà di quello tedesco serviva a ridimensionare se non ad annullare le re-sponsabilità – certo molto inferiori – avute in questo campo dal fasci-

14 G. De Luna, La storia sempre “nuova” dei quotidiani, in Fascismo e antifascismo.

Rimozioni, revisioni, negazioni (a cura di E. Collotti), Roma-Bari, 2000, 459. 15 S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, 2004, 75. 16 Pubblicata presso l’editore Einaudi in sette volumi dal 1965 al 1997. 17 Sulla raffigurazione del fascismo nella televisione del periodo cfr. G. Crainz, I

programmi televisivi sul fascismo e la Resistenza, in Fascismo e antifascismo (a cura di E. Collotti), cit., 465-471.

18 E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2002, VII. 19 Cfr. F. Focardi, Il vizio del confronto. L’immagine del fascismo e del nazismo in

Italia e la difficoltà di fare i conti con il proprio passato, in Italia e Germania 1945-2000. La costruzione dell’Europa (a cura di G. E. Rusconi - H. Woller), Bologna, 2005, 91-121 e G. Santomassimo, Il ruolo di Renzo De Felice, in Fascismo e antifascismo (a cura di E. Collotti), cit., 415-429.

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smo italiano20. Allo stesso modo, la categoria defeliciana del consenso non veniva utilizzata per approfondire l’esame del complesso rapporto intercorso fra società italiana e regime. Assunta senza alcun approfon-dimento critico come un mero dato di fatto, la presunta adesione di massa del popolo italiano alla dittatura era presentata piuttosto come prova incontrovertibile delle decantate benemerenze del fascismo21. La giusta critica del precedente paradigma interpretativo di matrice ciel-lenistica che aveva dipinto il popolo italiano come un intero popolo di antifascisti si trasformava così in un paradigma di segno opposto, non meno fuorviante del precedente.

Se De Felice non aveva mancato di prendere le distanze dagli aspetti più banali e caricaturali delle raffigurazioni del fascismo costruite dai suoi solerti volgarizzatori, tuttavia egli svolse un ruolo personale di primo piano nel promuovere le istanze revisionistiche intervenendo più volte nel dibattito pubblico. Un passaggio fondamentale fu rap-presentato dalla doppia intervista resa a Giuliano Ferrara nel dicembre 1987 e nel gennaio 1988 per il “Corriere della Sera”22, che aveva avuto come spunto il controverso incontro fra il leader del Psi, Bettino Cra-xi, e il giovane neosegretario del Msi, Gianfranco Fini, sul tema delle riforme istituzionali. De Felice apprezzava il gesto di “normalizzazio-ne” compiuto da Craxi, condividendo l’esigenza avanzata dal leader socialista di una riforma istituzionale, che doveva passare, a suo avviso, attraverso l’abolizione delle norme costituzionali che vietavano la rico-stituzione del partito fascista. Le istanze di riforma dello Stato si in-trecciavano qui con la questione della revisione del giudizio sul Ven-tennio. “Un discorso di innovazione del sistema politico incontra natu-ralmente il problema del revisionismo storico”, affermava infatti De Felice, il quale esortava a compiere tale revisione senza esitazioni in quanto il fascismo italiano sarebbe stato “al riparo dall’accusa di geno-cidio”, “fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto”, e per giunta “miglio-re”, sotto molti aspetti, di quello francese o di quello olandese. Revi-sionismo istituzionale e revisionismo storiografico venivano così a sal-darsi nel giudizio del maggior studioso italiano del fascismo, asceso sulla ribalta del dibattito politico nazionale.

20 D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, 1994. 21 Cfr. P. Corner, L’opinione popolare nell’Italia fascista degli anni Trenta, in Il

consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo e comunismo (a cura di P. Corner), Roma-Bari, 2012, 127-154.

22 La prima intervista uscì il 27 dicembre 1987, la seconda l’8 gennaio 1988. I testi in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 252-258.

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2. La destra italiana alla “guerra della memoria”. La crisi della prima Repubblica e la ricerca di una nuova base di legittimazione politica

La critica mossa negli anni ottanta alla cosiddetta “vulgata resisten-ziale” si trasformava all’inizio del decennio successivo in una pressione crescente sulle istituzioni dello Stato perché promuovessero una nuova memoria pubblica svincolata dalla contrapposizione fascismo/anti-fascismo. Dopo le avvisaglie della stagione craxiana, il revisionismo storico diventava in primo luogo lo strumento di un agguerrito revi-sionismo politico.

Anche in questo caso il processo ha trovato la spinta più energica nei radicali mutamenti della situazione politica, caratterizzata sul piano internazionale dall’implosione fra il 1989 e il 1991 dell’Unione Sovieti-ca con la conseguente crisi dell’ideologia comunista, e sul piano inter-no dallo sfaldamento fra il 1992 e il 1993 della prima Repubblica, scossa dalle indagini della magistratura sul sistema endemico di corru-zione, cui seguiva la scomparsa o il drastico ridimensionamento di tutti i partiti di matrice antifascista che avevano sottoscritto il patto costitu-zionale, dalla Dc al Pci23. Contestualmente, dopo la rottura del “recin-to centrista” democristiano24, nasceva per la prima volta nel dopoguer-ra una solida destra politica, costituita da nuove formazioni prive di legami col patrimonio storico della Resistenza e dell’antifascismo, co-me la Lega Nord di Bossi e Forza Italia di Berlusconi, cui si affiancava il vecchio Msi, poi trasformatosi in Alleanza nazionale (An), ancora profondamente legato alle sue radici neofasciste.

Il passaggio, a seguito della nuova legge elettorale dell’agosto 1993, dal sistema proporzionale incentrato sui partiti dell’arco costituzionale a quello maggioritario basato sul bipolarismo, con un polo egemoniz-zato da forze estranee all’antifascismo o ad esso antagoniste, innescava un confronto serrato e un uso politico della storia senza precedenti25. Uno dei fattori propulsivi principali della “guerra della memoria” di-vampata nel paese era l’esigenza da parte dello schieramento di centro-destra di legittimare come forza di governo il Msi26, il quale – usando

23 Cfr. P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Torino, 1998, 471 ss.

24 Cfr. M. Tarchi, Le Destre, l’eredità del fascismo e la demonizzazione dell’avversario, in L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica (a cura di A. Ventrone), Roma, 2006, 120.

25 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 61 ss. e G. Santomassimo, Il rap-porto con il passato, in La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi (a cura di G. Santomassimo), Milano, 2003, 145-162.

26 Cfr. P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Bologna, 1989 e Id., Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, Bologna, 1994.

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un termine giornalistico – era stato già “sdoganato” alle amministrative del 1993 con la dichiarazione di voto di Silvio Berlusconi a favore di Gianfranco Fini candidato sindaco a Roma27 ed era poi diventato uno dei pilastri del centro-destra alle vittoriose elezioni politiche del marzo 1994 entrando, per la prima volta dal dopoguerra, a far parte dell’esecutivo28. Tutti i partiti allora raccolti intorno al leader Berlu-sconi – da Forza Italia alla Lega, dal Centro cristiano democratico (Ccd) allo stesso Msi – convergevano dunque, pur con impegno diver-so, su una linea d’azione volta a neutralizzare definitivamente l’antifascismo come fattore discriminante di legittimazione/delegit-timazione politica. Come affermò qualche anno dopo Francesco D’Onofrio, ministro della Pubblica Istruzione del governo Berlusconi, era necessaria una nuova lettura del passato per affermare una “storia bipolarista” che superasse la pregiudiziale antifascista29.

Nel dibattito pubblico ciò assumeva la forma, come negli anni cin-quanta, della richiesta di una “pacificazione” o “riconciliazione” fra le vecchie parti contrapposte – fascisti e antifascisti – con l’obiettivo di-chiarato di creare una “memoria condivisa”. Tradizionale rivendi-cazione missina, la “pacificazione” veniva infatti invocata con enfasi retorica vuoi in nome del riconoscimento della “buona fede” e del “patriottismo etico”30 di quei giovani italiani – benevolmente chiamati “i ragazzi di Salò” – che dopo l’8 settembre 1943 si erano schierati con Mussolini per la “difesa dell’onore nazionale”, vuoi in nome dell’eguale rispetto dovuto alla memoria di tutti i caduti italiani al di là delle bandiere di appartenenza. Fra il 1993 e il 1995 – in occasione dell’importante ricorrenza del cinquantesimo anniversario dell’8 set-tembre e del 25 aprile – da parte di giornali e uomini politici del cen-tro-destra venivano esercitate forti pressioni sul presidente della Re-pubblica, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, affinché prendesse pubblicamente posizione per porre fine alle “drammatiche divisioni

27 Pur sconfitto, Fini otteneva alla guida delle destre un ragguardevole 46.9% dei

voti. 28 Cui il Msi concorse in modo rilevante ottenendo il 13,5% dei voti, miglior risul-

tato della sua storia, che gli valse un’ampia rappresentanza parlamentare di 109 depu-tati e 48 senatori, mentre cinque furono i suoi ministri nel governo Berlusconi.

29 Cfr. Una storia bipolarista, intervista di Andrea Colombo a D’Onofrio, “il mani-festo”, 12 novembre 2000, citato in L. Baldissara, Di come espellere la storia dai ma-nuali di storia. Cronache di una polemica autunnale, in Il Mestiere di Storico, II, 2001, 67-68 (l’intervista fu rilasciata in occasione della polemica innescata dalla decisione del Consiglio regionale del Lazio di introdurre un controllo sui manuali di storia delle scuole).

30 Per l’espressione cfr. S. Woolf, Introduzione. La storiografia e la Repubblica ita-liana, in L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000) (a cura di S. Woolf), Bologna, 2007, 45.

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del periodo della guerra civile”31. Nella medesima direzione puntava pochi anni dopo, pur senza successo, il disegno di legge avanzato nel 2003 da senatori di An per equiparare gli ex-combattenti della Rsi, in veste di “militari belligeranti”, ai soldati dei Paesi coinvolti nel conflit-to32. A questo seguiva nel giugno 2008 la proposta di legge di un grup-po di deputati del Pdl (Popolo delle Libertà) per la creazione di una nuova onorificenza, l’Ordine del Tricolore, da attribuire a tutti i com-battenti italiani della seconda guerra mondiale33.

Veniva proclamato pertanto di voler superare le fratture della guer-ra civile per creare una “memoria condivisa”, come base di un nuovo patto nazionale che – secondo quanto si affermava - non poteva più essere quello fondato sul “valore contrappositivo dell’antifascismo”34. “Condividere” la memoria significava però con ogni evidenza preten-dere pari dignità storica e morale fra fascisti e antifascisti, rivendicare una “parificazione” tanto fra “i combattenti di ieri” quanto fra “i sup-posti eredi di oggi”35. Un obiettivo raggiungibile, come ha notato Ser-gio Luzzatto, solo al prezzo di una “smemoratezza patteggiata”36, che espungesse dalla coscienza storica nazionale la radicale diversità delle ragioni e degli ideali per cui le due parti si erano combattute.

Nella politica della memoria promossa dalle destre un ruolo di rilie-vo ha svolto Gianfranco Fini, ultimo segretario del Msi e promotore della trasformazione del partito in Alleanza nazionale. Fini è stato uno degli artefici della strategia di riconciliazione con alcuni atti significati-vi come la visita nel 1993 al mausoleo delle Fosse Ardeatine o la parte-cipazione in occasione della festa della Liberazione nel 1994 ad una messa in onore di tutti i caduti, gesto simbolico importante preceduto dall’auspicio espresso sul “Corriere della Sera” che la celebrazione del 25 aprile avesse da allora in poi un significato “antitotalitario” piutto-

31 F. Guiglia, Un 8 settembre senza steccati, in Il Giornale, 8 settembre 1993. 32 Disegno di legge n. 2244 “Riconoscimento della qualifica di militari belligeranti

a quanti prestarono servizio militare dal 1943 al 1945 nell’esercito della RSI”, presen-tato in Senato il 9 maggio 2003.

33 Proposta di legge n. 1360 “Istituzione dell’Ordine del Tricolore e adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra” presentata alla camera il 23 giugno 2008. Dopo accese proteste, entrambe le proposte di legge sono state ritirate, la prima nel 2006, la seconda nel maggio 2009.

34 Cfr. l’appello dei giovani di An al presidente Scalfaro in Secolo d’Italia, 25 aprile 1995.

35 L. Baldissara, Auf dem Weg zu einer bipolaren Geschichtsschreibung? Der öffent-liche Gebrauch der Resistenza in einer geschictslosen Gegenwart, in Quellen und For-schungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, 82, 2002, 599-604.

36 S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, cit., 23.

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sto che antifascista37. Proprio il superamento dell’antifascismo in nome di un patrimonio di valori “autenticamente” liberali, fondato sulla condanna di tutte le ideologie totalitarie del Novecento, ha costituito uno dei pilastri delle tesi politiche presentate al XVII Congresso del Msi tenutosi a Fiuggi nel gennaio 1995, atto di nascita di Alleanza na-zionale, presentata da Fini e dal suo entourage come l’espressione di una moderna destra di governo in Italia38.

La strada del rinnovamento dei quadri di riferimento culturali volu-ta da Fini non risultava allora priva di marcati margini di ambiguità e quindi di un deficit di credibilità. Il tentativo di sostituire alla con-trapposizione fascismo/antifascismo, come asse ideologico, la discri-minante totalitarismo/antitotalitarismo era in linea con l’operazione culturale svolta negli anni ottanta dai politici e dagli intellettuali socia-listi, con la differenza – però – che adesso fautori dell’iniziativa erano dirigenti e militanti di un partito, che ancora nell’ottobre 1992 aveva celebrato a piazza Venezia il settantesimo anniversario della marcia su Roma all’insegna di camicie nere e saluti romani39, e un leader politico che nel 1994, tre settimane prima di partecipare alle celebrazioni del 25 aprile, aveva definito Mussolini “il più grande statista del secolo”40. Dunque, se il partito di Fini proponeva ufficialmente di “consegnare alla storia” il passato, in realtà non sembrava aver rescisso del tutto i legami col Ventennio, rimanendo sospeso, come ha scritto Roberto Chiarini, “fra vecchio nostalgismo di maniera e nuovo liberalismo di facciata”41.

Ne era una prova ulteriore il fatto che, dopo aver introdotto la cate-goria dell’antitotalitarismo come punto di riferimento ideologico, la destra post-fascista – secondo uno schema interpretativo di matrice defeliciana – dimostrava di considerare totalitari il regime nazista tede-sco e i regimi comunisti, a partire da quello sovietico, ma non il fasci-smo italiano. Per una conclusiva resa dei conti con l’esperienza del re-gime, è parso pertanto sufficiente condannarne soltanto l’aspetto più truce che poteva saldare la dittatura mussoliniana al totalitarismo nazi-sta, ovvero l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei. È su questo specifico terreno, non a caso, che si è svolto a partire dalla fine degli anni novanta il percorso di legittimazione democratica del leader del

37 Cfr. P. Franchi, Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario, in Corriere della Sera, 23

aprile 1994. Il testo anche in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 265-267. 38 Le tesi congressuali in Pensiamo l’Italia, il domani c’è già. Valori, idee e progetti

per l’Alleanza nazionale, supplemento del Secolo d’Italia, 7 dicembre 1994. Cfr. M. Tarchi, Dal Msi ad An. Organizzazione e strategie, Bologna, 1997.

39 Cfr. P. Ignazi, Postfascisti?, cit., 48. 40 Cfr. A. Statera, Il migliore resta Mussolini, in La Stampa, 1 aprile 1994. 41 R. Chiarini - M. Maraffi (a cura di), La destra allo specchio, Venezia, 2001, 26.

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partito, Gianfranco Fini, tenuto per altro a fugare i dubbi nutriti nei suoi confronti dall’opinione pubblica europea e internazionale, rinfo-colati dalle sue dichiarazioni su Mussolini del 1994.42 Si è trattato di un percorso iniziato con la visita ad Auschwitz nel 1999 e proseguito, do-po la costituzione nel 2001 del secondo governo Berlusconi, attraverso l’intervista resa nel settembre 2002 da Fini, vicepresidente del Consi-glio, al giornale israeliano “Ha’retz” con la richiesta di perdono per le leggi razziali; e infine attraverso il viaggio compiuto nel novembre 2003 in Israele, dove egli ha condannato le “infami leggi razziali del 1938 volute dal fascismo”, giudicato – in quanto corresponsabile della Shoah – un “male assoluto”43.

L’ammenda di Fini sull’antisemitismo fascista ha comportato una rottura con la parte più nostalgica del partito, a cominciare dalla nipo-te del duce Alessandra Mussolini44, ed è valsa sul piano politico il compimento del processo di accreditamento democratico del leader di An, nominato nel 2004 alla guida del ministero degli Esteri e nell’aprile 2008 alla presidenza della Camera. Ma sul piano del dibatti-to pubblico ciò ha funzionato invero come una sorta di “rito di purifi-cazione” del fascismo45, con l’effetto di aprire la strada al dilagare di quell’immagine edulcorata del regime diffusasi nell’immaginario col-lettivo nel corso degli anni ottanta, fino a sconfinare spesso in palese riabilitazione. Fatti i conti con l’antisemitismo fascista considerato l’unica “macchia” da cancellare, molti esponenti della destra post-missina hanno pensato di avere ormai, per così dire, “mano libera” nel valorizzare i presunti meriti storici del fascismo – dalla modernizzazio-ne del paese alla lotta alla mafia – oscurando o addirittura negando la dimensione della violenza e della coercizione esercitate contro gli op-positori interni e i popoli sottomessi. Questo atteggiamento ha riguar-dato anche le altre aree politico-culturali del centro-destra (ma solo in misura marginale l’area cattolica) ed ha trovato la sua espressione più emblematica nell’affermazione grottesca e inquietante resa nell’agosto 2003 alla stampa inglese dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusco-ni, secondo cui “il fascismo è stato una dittatura benigna che mandava la gente in vacanza al confino”46.

42 Cfr. A. Mattioli, “Viva Mussolini!”. La guerra della memoria nell’Italia di Berlu-

sconi, Bossi e Fini, Milano, 2011 [I ediz. in tedesco 2010], 49-67. 43 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 70-71. 44 Uscita da AN dopo il viaggio di Fini in Israele per fondare il movimento politi-

co denominato Alternativa Sociale. 45 S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana,

Roma-Bari, 2007, 91. 46 Intervista resa il 27 agosto 2003 al giornale inglese The Spectator. Cfr. P. Fran-

chi, Cavaliere, ripassi un po’ di storia, in Corriere della Sera, 13 settembre 2003.

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L’attacco condotto dalla nuova destra politica contro l’antifascismo ha trovato terreno fertile nell’opinione pubblica innestandosi sull’animato dibattito sulla Resistenza e l’identità nazionale promosso con intenti revisionistici da storici come Ernesto Galli della Loggia e Renzo De Felice, concordi nel rintracciare nell’8 settembre la “morte della patria” piuttosto che l’inizio del riscatto del paese come afferma-to dalla narrazione antifascista47. Più in generale, l’offensiva culturale promossa dalle destre ha fornito una definitiva legittimazione alla “memoria anti-antifascista”, che proprio negli anni novanta prorom-peva nella sfera pubblica con impressionante forza d’urto48. Nei gior-nali e in televisione avevano pieno corso i temi tradizionali delle cam-pagne contro la Resistenza già virulente negli anni cinquanta e ottanta, con rinnovate accuse rivolte al partito comunista e ai partigiani comu-nisti per aver manovrato ed agito proditoriamente contro altre forma-zioni della Resistenza; per aver volutamente provocato le stragi naziste allo scopo di coinvolgere nella lotta l’inerme popolazione civile; per aver scatenato nell’immediato dopoguerra una sanguinosa resa dei conti contro il nemico di classe sotto la veste di una caccia al fascista49; per essersi resi corresponsabili, almeno moralmente e politicamente, delle stragi di italiani perpetrate dai comunisti jugoslavi50. Su questa scia si è diffusa una martellante contro-narrazione, che ha riproposto, senza tanti maquillage, elementi della vecchia vulgata neofascista, sta-volta affidata non solo all’organo storico del Msi, il “Secolo d’Italia”, ma anche ad altri fogli di opinione del centro-destra, come ad esempio “Il Tempo” e “Il Giornale”, nelle cui redazioni sono approdati molti giornalisti che in precedenza avevano lavorato sul quotidiano missi-no51. Sulle loro colonne sono così comparsi i “soliti” giudizi sprezzanti sull’8 settembre come “giorno del disonore” e sulla Resistenza come nefasta “guerra fratricida”52. Né è mancato l’omaggio nostalgico a

47 Cfr. i noti volumi di E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari,

1996 e di R. De Felice, Rosso e nero (a cura di P. Chessa), Milano, 1995. Un punto di riferimento è stato anche il volume G. Belardelli – L. Cafagna – E. Galli della Loggia – G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, 1999. Ricordiamo infine che queste posizioni hanno trovato una tribuna nel principale quotidiano italiano, il “Cor-riere della Sera”.

48 Per un’analisi critica dell’offensiva revisionistica cfr. A. Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, 2009.

49 Cfr. soprattutto G. Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, 2003. 50 Per questi aspetti cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 71-72. 51 Cfr. A. Sangiovanni, L’uso pubblico della storia nei quotidiani della destra italia-

na durante gli anni novanta, in Comunicare il passato: cinema, giornali e libri di testo nella narrazione storica (a cura di S. Cinotto - M. Mariano), Torino, 2004, 518.

52 Cfr. ad es. P. Buscaroli, Il 25 aprile, un giorno come un altro, in Il Giornale, 24 aprile 1945. Il testo in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 274-277.

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Mussolini, pronto a sacrificarsi per il paese e ad accettare la guida della Rsi per frenare la sete di vendetta dei “camerati” tedeschi traditi53.

La diffusione di questa cultura, intrisa di umori antiresistenziali, ha avuto espressione anche a livello istituzionale. Se si esclude l’Udc, l’Unione dei democratici cristiani di Ferdinando Casini, unico partito del centro-destra54 che ha rivendicato un ancoraggio al patrimonio dell’antifascismo cattolico moderato55, le altre principali forze dello schieramento hanno vissuto con malcelato disagio (tranne eccezioni personali) la ricorrenza delle commemorazioni ufficiali della Resisten-za. A partire dallo stesso Silvio Berlusconi, che durante i primi tre mandati di governo (1994; 2001-2006) ha disertato sistematicamente le celebrazioni del 25 aprile. Non stupisce che il premier e altri esponenti di Forza Italia abbiano espresso una netta preferenza per il 18 aprile 1948, giorno della vittoria elettorale della Dc sul blocco social-comunista, considerata la vera data di nascita della democrazia in Ita-lia56, arrivando ad avanzare in più occasioni la proposta di abolire il giorno della Liberazione come festa nazionale57. L’ultimo tentativo (in-fruttuoso) in questa direzione è stato fatto nel settembre 2011 poco prima della caduta dell’ultimo governo Berlusconi, quando l’esecutivo ha accolto come “raccomandazione” l’ordine del giorno presentato dal deputato del Popolo delle Libertà, Fabio Garagnani, che conteneva la richiesta di sostituire il 25 aprile 1945 con il 18 aprile 1948.58

Dopo la demolizione della “narrazione antifascista” intrapresa at-traverso le campagne di stampa59, il centro-destra, tornato stabilmente al governo nel 2001, ha avviato dalle sedi istituzionali delle politiche della memoria sempre più incisive. Emblematico è stato il tentativo di istituire un controllo sui libri di storia per le scuole, accusati di veico-

53 Giudizio avallato sul piano storiografico da De Felice. Cfr. R. De Felice, Musso-

lini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, Torino, 1997. 54 Uscito dall’alleanza in occasione delle elezioni politiche dell’aprile 2008. 55 Cfr. ad es. P. F. Casini, Appello ai due poli: basta logiche di parte, in Corriere del-

la Sera, 25 aprile 2005. 56 Si veda l’intervento di Berlusconi al Congresso nazionale di Forza Italia ad As-

sago, il 18 aprile 1998, riportato in S. Pivato, Vuoti di memoria, cit., 124-125. 57 Nel 2002, ad es., Gianni Baget Bozzo ha proposto di sostituirlo con il 4 novem-

bre, giorno in cui si celebra la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, attualmen-te Festa dell’Unità nazionale e Giorno delle Forze armate. (Cfr. S. Pivato, Vuoti di memoria, cit., 123). Per l’abolizione del 25 aprile ha preso posizione nel 2005 “Il Do-menicale”, settimanale di Marcello Dell’Utri.

58 Cfr. ad es. Cancellare il 25 aprile? La proposta del Pdl: scegliere un’altra data, in www.ilGiornale.it, 28 settembre 2012.

59 Ricordiamo che tali campagne, oltre alla tradizione comunista, hanno preso di mira anche quella azionista. Per la polemica contro l’azionismo cfr. C. Novelli, Il Parti-to d’azione e gli italiani. Moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana, Fi-renze, 2000.

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lare le interpretazioni “faziose” della storiografia di sinistra, proposto per la prima volta dal Consiglio regionale del Lazio guidato da Allean-za Nazionale60 e successivamente reiterato attraverso proposte di legge avanzate alla Camera da deputati di Forza Italia e del Pdl61. Questi sforzi hanno suscitato proteste e resistenze molto forti e sono stati ab-bandonati senza dare risultati concreti. Un vasto campo d’intervento si è aperto invece con l’introduzione di una nuova toponomastica, pro-mossa in maniera capillare sul territorio grazie alle posizioni di potere acquisite dopo il successo delle destre alle amministrative del 2000. In nome di un “passato riconciliato”, le amministrazioni locali di centro-destra hanno infatti gremito le città italiane di strade, piazze o edifici pubblici dedicati a una fitta schiera di personaggi del fascismo62 e ai cosiddetti “martiri delle foibe” (in questo caso spesso col concorso dei partiti moderati della sinistra). Un altro strumento particolarmente in-cisivo per affermare una nuova politica culturale si è rivelato il servizio televisivo nazionale, attraverso una serie di fiction di argomento stori-co, realizzate col patrocinio e per impulso dell’ex-Ministro delle Tele-comunicazioni e deputato di An, Maurizio Gasparri. L’esempio più importante è stato nel 2005 la produzione del film di successo Il cuore nel pozzo, dedicato alle stragi delle foibe63.

Il culmine di questi interventi, che hanno sicuramente inciso sulla percezione sociale del fascismo e della seconda guerra mondiale, si è avuto con l’introduzione nel calendario civile italiano di due nuove fe-stività, già menzionate. La prima è stata introdotta il 30 marzo 2004, quando il Parlamento ha approvato – col solo voto contrario di Rifon-dazione comunista e Comunisti italiani – la legge n. 92, promossa da An, che ha istituito fra le cosiddette “solennità civili” del paese il “Giorno del ricordo”, in memoria delle vittime delle foibe e degli ita-liani espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia. Da sempre cardine nella me-moria della guerra coltivata dalla destra neofascista, le foibe sono di-ventate così parte della memoria pubblica nazionale. Se una presa di coscienza del paese su questo complesso di eventi drammatici era sicu-

60 Il riferimento è all’approvazione il 9 novembre 2000 di una mozione presentata

in Consiglio dall’on. Fabio Rampelli di An. Cfr. L. Baldissara, Di come espellere la sto-ria dai manuali di storia, cit., 62-80.

61 Il riferimento è all’iniziativa promossa nel luglio 2002 dal già menzionato Fabio Garagnani, su cui cfr. G. Turi, Una storia italiana, in Passato e Presente, a. XXI, n. 59, maggio/agosto 2003, 89-98. Una seconda importante proposta di legge in materia è stata avanzata il 18 febbraio 2011 dall’on. Gabriella Carlucci e da altri diciotto deputa-ti del Pdl (proposta di legge n. 4101 per l’Istituzione di una Commissione parlamenta-re di inchiesta “sull’imparzialità dei libri di testo scolastici”).

62 Cfr. M. Sartori, Italia, torna il fascismo, in l’Unità, 27ottobre 2001. 63 Cfr. V. Delle Donne, Il film sulle foibe commuove l’Italia, in Secolo d’Italia, 8

febbraio 2005.

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ramente auspicabile, ciò è avvenuto tuttavia senza alcuna riflessione critica64. È stata infatti largamente ripresa la vulgata neofascista che fin dall’immediato dopoguerra aveva stigmatizzato le foibe come mero frutto della volontà espansionistica e dell’odio antiitaliano e ideologico dei comunisti jugoslavi, senza operare una contestualizzazione storica: senza ad esempio alcun riferimento alla ventennale oppressione del re-gime fascista sulle popolazioni slovene e croate dei territori annessi all’Italia dopo la prima guerra mondiale, né tanto meno all’oc-cupazione italiana della Jugoslavia nel 1941-43, macchiata da gravi crimini di guerra65. Anche la scelta stessa della data della commemora-zione, il 10 febbraio, giorno della firma nel 1947 del trattato di pace italiano, esprime il tradizionale punto di vista della destra missina che ha sempre letto il trattato come una dura punizione imposta al paese dai vincitori, senza considerare in alcun modo le pesanti responsabilità avute dal regime fascista nella guerra e nel suo rovinoso epilogo66.

La seconda “solennità civile” introdotta dalla destra era rappre-sentata dal cosiddetto “Giorno della libertà”, istituito dal Parlamento il 6 aprile 2005 su iniziativa di Forza Italia, stavolta col voto contrario di tutto lo schieramento di centro-sinistra. La data prescelta è stata il 9 novembre, giorno del crollo del muro di Berlino. Finalizzata, come re-cita il testo, a illustrare “gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e pre-senti”, l’iniziativa ha avuto un chiaro significato anticomunista, non mancando di apparire come una scelta “inattuale” a quasi quindici an-ni dallo scioglimento del Pci, nonché “fuori luogo” per l’Italia dove storicamente non è mai esistito un regime comunista. Essa tuttavia era espressione coerente di quella “riscoperta di un anticomunismo vinta-ge”67 da parte di Berlusconi, che su tale messaggio aveva impostato fin dall’inizio la propria propaganda politica, individuandovi un utile ce-mento ideologico per tenere assieme le variegate componenti del cen-tro-destra68. È significativo che in occasione della prima ricorrenza del-la nuova festività, Forza Italia abbia diffuso un manifesto che presen-tava una galleria di “nemici della libertà” dove spiccavano Hitler, Sta-

64 Per un’equilibrata ricostruzione storica della vicenda cfr. R. Pupo, Il lungo eso-

do. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, 2005. 65 Cfr. C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i pro-

cessi negati (1941-1951), Verona, 2005. 66 Sul trattato di pace cfr. S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Bolo-

gna, 2007. 67 Cfr. G. Gozzini, L’antifascismo e i suoi nemici, in L’ossessione del nemico (a cura

di Ventrone), cit., 94. 68 Cfr. G. Sabbatucci, Le nuove contrapposizioni, ovvero il bipolarismo polarizzato,

ivi, 197-198.

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lin, Fidel Castro, Saddam Hussein e Bin Laden, ma non Mussolini, il “dittatore di casa”69.

3. Le reazioni a sinistra fra scontro frontale, “tradimenti” e compro-messo. Mobilitazione antifascista e “lottizzazione della memoria”

L’intensità e la diffusione degli attacchi condotti dalla destra sul

piano culturale e istituzionale sono stati ad un tempo causa e rivela-zione della crisi del “paradigma antifascista” e della memoria pubblica della Resistenza su di esso costruita, alcuni aspetti dei quali – dal pre-sunto unanimismo ciellenistico alla oleografia della concordia popola-re nella lotta di liberazione – erano già stati criticati in passato da sto-rici di matrice antifascista70. Come reazione alla nuova offensiva delle destre, si è manifestata innanzitutto una contrapposizione frontale molto energica a difesa delle fondamenta antifasciste della democrazia italiana. A livello istituzionale, ad esempio, il presidente della Repub-blica Oscar Luigi Scalfaro, in carica dal 1992 al 1999, ha posto ferma-mente dei limiti alle reiterate offerte di “pacificazione” avanzate dallo schieramento di centro-destra. Restando nell’alveo della tradizione commemorativa della Resistenza, Scalfaro non ha mancato di ricordare con rispetto “la memoria di tutti i morti, di ogni fronte, di ogni batta-glia”, ma ha richiamato altresì con intransigenza la necessità di distin-guere fra quanti erano caduti per la libertà e quanti invece dalla parte della dittatura71.

La difesa della memoria della Resistenza ha inoltre alimentato un vigoroso movimento di protesta “nelle piazze”. Le celebrazioni del 25 aprile sono diventate infatti occasione di grandi mobilitazioni po-polari, come la manifestazione del 1994 a Milano promossa dal quoti-diano “il manifesto” contro il governo Berlusconi appena eletto; come quella del 2002, dopo la seconda vittoria elettorale di Berlusconi, promossa sulla scia delle manifestazioni guidate dai sindacati in difesa dei diritti dei lavoratori; come infine le numerose manifestazioni in tut-ta Italia nel 2006 a difesa della Costituzione scompaginata dalle rifor-me istituzionali introdotte dal governo Berlusconi (bocciate due mesi dopo da un referendum popolare)72. Ciò ha dimostrato l’esistenza di una memoria sociale della Resistenza con radici profonde e assai vitale,

69 Cfr. O. Pivetta, Dittatori, Berlusconi salva Mussolini, in l’Unità, 8 novembre

2005. 70 Cfr. N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit. 71 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 62-64. 72 Cfr. ivi, 79-80.

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indice della persistenza di quell’“antifascismo di garanzia”73 già emer-so sia nel 1960 contro il governo Tambroni74 sia negli anni settanta contro il terrorismo, e infine ricomparso di fronte alla sfida lanciata dalla nuova destra berlusconiana avvertita da molti settori dell’op-posizione come una minaccia alla democrazia.

Un altro momento di mobilitazione dell’opinione pubblica si è avu-to alla metà degli anni novanta in occasione della ripresa dei procedi-menti giudiziari contro i criminali di guerra nazisti, con il processo a Roma contro l’ex-capitano delle SS Erich Priebke, uno dei responsabi-li della strage delle Fosse Ardeatine75, e con gli altri processi istruiti e condotti a termine dalla magistratura militare dopo il rinvenimento dei fascicoli d’inchiesta del cosiddetto “armadio della vergogna”, archivia-ti illegalmente negli anni sessanta76. L’azione giudiziaria si è svolta in concomitanza con un importante sforzo di approfondimento storio-grafico sulla “guerra ai civili” e le stragi perpetrate in Italia dai tede-schi77. Da queste ricerche sui crimini della Wehrmacht è emersa anche la presenza in molte comunità stragizzate di una “memoria divisa”, ov-vero la persistenza, a fianco di una memoria antigermanica, di una memoria che attribuisce piuttosto ai partigiani la responsabilità dello scatenamento della violenza tedesca78. Ciò non ha mancato di alimen-tare sulla stampa istanze anti-antifasciste. Tuttavia la ricaduta principa-le nel dibattito pubblico di questa stagione di processi e di ricerche storiche è stata di segno opposto. Il ricordo delle stragi nazifasciste, ancora vivo nel paese, ha costituito infatti un efficace fattore di coagu-

73 Cfr. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, cit., 63. 74 Ci riferiamo all’ondata di manifestazioni di protesta sollevata nel luglio 1960

dalla decisone presa dal governo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni di permettere lo svolgimento a Genova, città medaglia d’oro della Resisten-za, del congresso nazionale del MSI. La mobilitazione popolare condusse alla caduta del governo. Cfr. P. Cooke, Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita, Milano, 2000.

75 Prosciolto nell’agosto 1996, Priebke è stato condannato in secondo grado a 15 anni di carcere nel luglio 1997 ed infine all’ergastolo nel processo d’appello nel marzo 1998.

76 Cfr. M. Franzinelli, Le stragi nascoste, Milano, 2002; F. Giustolisi, L’armadio della vergogna, Roma, 2004. L’elenco dei processi svolti, con indicazione degli imputa-ti condannati o assolti, in S. Buzzelli - M. De Paolis - A. Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, Torino, 2012, 140-155.

77 Per una riflessione su questa stagione di studi, con relativa indicazione biblio-grafica, cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, 2007, 233-279 (postfazione alla riedizione del volume, pubblicato la prima volta nel 1997).

78 Come principale opera di riferimento di questo filone cfr. G. Contini, La me-moria divisa, Milano, 1997 (sulla strage di Civitella in Val di Chiana in provincia di Arezzo).

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lo della memoria antifascista, diventando poi, nel confronto politico e culturale sull’elaborazione del passato, l’arma principale contro le proposte di “riconciliazione”, a partire da quelle considerate improv-vide e pericolose lanciate dalle fila stesse del centro-sinistra.

L’attenzione posta sul ricordo delle stragi ha favorito il riproporsi della tradizionale narrazione antifascista incentrata sulla raffigurazione degli italiani come vittime del nazifascismo. Questa raffigurazione ave-va favorito, seppur indirettamente, la rimozione delle colpe italiane e l’affermazione dell’immagine autoassolutoria degli “italiani brava gen-te”79. Proprio il comodo alibi del “bravo italiano” è stato però messo in questione, a partire dalla seconda metà degli anni novanta, da una nuova stagione di studi 80 che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica alcune delle pagine più scabrose dell’Italia fascista, come le violenze coloniali, la persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei, le aggressioni e i crimini commessi nei territori occupati dal regime du-rante la seconda guerra mondiale81. Scosso dalle indagini degli storici, il mito del “bravo italiano” ha ricevuto una smentita ufficiale nel 1996 dal Ministero della Difesa che ha ammesso l’impiego di agenti chimici da parte italiana nella campagna di Etiopia, a lungo negato dalla stam-pa conservatrice nonostante le prove documentarie prodotte dagli stu-diosi82. La critica allo stereotipo del colonialismo “dal volto umano” ha trovato nello storico e giornalista Angelo Del Boca il suo principale protagonista83 e ha ispirato nel 2006 la proposta di legge avanzata dai Comunisti italiani per dedicare un giorno del calendario civile nazio-nale al ricordo delle vittime del colonialismo italiano84. Di poco suc-cessiva è stata un’altra proposta di legge dei Comunisti italiani per de-dicare una giornata della memoria a tutte le vittime del fascismo85. La

79 Cfr. F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del «bravo italiano»: origine e

affermazione di un autoritratto collettivo, in Italia Contemporanea, 220-221, 2000, 393-399.

80 Per una rassegna cfr. F. Focardi - L. Klinkhammer, Italia potenza occupante: una nuova frontiera storiografica, in Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, Politiche di occupazione dell’Italia fascista, Annale Irsifar, 2008, 21-30.

81 Cfr. D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, 2003.

82 Cfr. A. Del Boca, I gas di Mussolini, prefazione di N. Labanca, Roma, 2007 [I ediz.1996].

83 Cfr. ad es. A. Del Boca, Italiani brava gente?, Vicenza, 2005. 84 Proposta di legge n. 1845, per l’“Istituzione del giorno della memoria in ricordo

delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”, presentata il 23 otto-bre 2006 dall’on. Jacopo Venier.

85 Proposta di legge n. 1982, per l’“Istituzione della Giornata della memoria delle vittime del fascismo”, presentata il 24 novembre 2006 dall’on. Severino Galante e altri.

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debacle elettorale della sinistra radicale alle politiche del 2008 ha di fatto bloccato l’iter di queste iniziative.

Gli sforzi profusi in difesa della memoria pubblica antifascista e i tentativi di un suo aggiornamento critico hanno fatto da argine allo smottamento in atto, ma non sono riusciti a invertire il processo di cri-si dell’antifascismo, fallendo nella costruzione di una “lettura rigene-rante del paradigma resistenziale”86. Tale processo è stato per altro re-so evidente da numerosi “passaggi di campo”, che hanno coinvolto non solo politici, intellettuali e giornalisti del vecchio Psi ma anche ex-esponenti del Pci e della sinistra extraparlamentare approdati a destra, specialmente in Forza Italia, dove hanno svolto un ruolo attivo nella battaglia revisionistica sulla memoria, da Giuliano Ferrara a Ferdinan-do Adornato, da Renzo Foa a Paolo Liguori87. Un caso particolare è rappresentato dal noto giornalista di provenienza culturale antifascista, Giampaolo Pansa, che, pur lontano da un impegno politico a destra, è stato indubbiamente con i suoi libri, venduti in centinaia di migliaia di copie, uno dei principali artefici della rilettura polemica della Resi-stenza, condotta con piglio sempre più drastico e acrimonioso88. Il suo volume di maggior successo, Il sangue dei vinti (2003), intrecciando abilmente fiction narrativa e ricerca storico-giornalistica, ha focalizzato l’attenzione sull’epurazione violenta messa in atto sugli sconfitti dopo la Liberazione, interpretando la Resistenza come inutile e spietata guerra civile, protrattasi dopo il 1945 per volontà del partito comuni-sta, animato da odio di classe e propositi rivoluzionari.

Accanto ai due poli opposti della ferrea contrapposizione e del “tradimento”, è apparsa a sinistra anche la tendenza ad una revisione della memoria antifascista che ha assunto la forma della disponibilità al compromesso. Uno dei primi segnali in questo senso è stata la propo-sta – poi caduta per le accese polemiche – avanzata nel 1993 dal neoe-letto sindaco di Roma, Francesco Rutelli, di dedicare una via a Giu-seppe Bottai. Un altro esempio importante è stata la proposta – anch’essa contestata e ritirata – avanzata nel 2000 dal sindaco di Trie-ste, Riccardo Illy, di sostituire il 25 aprile con un’altra festività da de-dicare alle “vittime di tutti i totalitarismi”89.

86 Cfr. T. Baris, Amnesie, conflitti e politiche della memoria, in Gli Italiani in guer-

ra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, Vol. IV – Tomo 2, Il Ventennio fascista: la Seconda guerra mondiale (a cura di M. Isnenghi - G. Albanese) Torino, 2008, 732.

87 Ricordiamo che Adornato ha rotto nel 2008 con Forza Italia, approdando all’Udc mentre Renzo Foa, già direttore de “l’Unità”, è prematuramente scomparso nel 2009.

88 Cfr. P. Cooke, The Legacy of the Italian Resistance, New York, 2011, 177 ss. 89 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 77.

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Un orientamento favorevole ad un accordo con le destre, si è mani-festato soprattutto in seno all’ex-partito comunista, trasformatosi pri-ma in Partito democratico della sinistra (Pds), poi nei Democratici del-la sinistra (Ds), per confluire infine con i cattolici della Margherita nel Partito democratico (Pd). È stata infatti la classe dirigente che ha gui-dato la transizione post-comunista del Pci a prestare ascolto, più di al-tri, all’invito mosso da destra alla costruzione di una “memoria condi-visa”. Il dialogo ha avuto come interlocutore privilegiato An, nella consapevolezza di un comune interesse con il partito di Fini ad una reciproca legittimazione tale da cementare il nuovo assetto politico bi-polare, che ha assegnato un ruolo di rilievo ai due partiti, esclusi dal governo nella cosiddetta prima Repubblica.

Uno dei promotori più autorevoli della necessità di superare le co-siddette “memorie contrapposte” è stato l’ex-magistrato e deputato del Pds, Luciano Violante. Nel discorso pronunciato nel maggio 1996 in occasione del suo insediamento alla presidenza della Camera90, Vio-lante ha espresso l’auspicio che la memoria della Resistenza potesse diventare finalmente un “valore nazionale” condiviso. A questo fine, egli ha invitato a comprendere le ragioni degli avversari, per “capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per cui migliaia di ragazzi, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà”. L’esigenza di “capire”, di “leggere tut-te le pagine” della storia nazionale, fra cui la vicenda dei “ragazzi di Salò” e delle foibe, è stata ribadita da Violante in un incontro con il leader di An, Gianfranco Fini, a Trieste nel marzo 199891, cui sono se-guite – come già in occasione dell’intervento alla Camera – aspre rea-zioni da parte di molti esponenti della cultura antifascista92.

Arenatosi dopo il 2001, nei primi anni del secondo governo Berlu-sconi, per il clima di radicale contrapposizione politica creatosi nel paese, il dialogo sulla memoria fra i due partiti è ripreso successiva-mente come dimostra il voto favorevole dei Ds all’istituzione del “Giorno del ricordo” nel 2004 e le iniziative a livello locale che hanno coinvolto molte giunte di sinistra nell’intitolazione di vie e piazze “ai martiri delle foibe”.

Proprio la commemorazione delle vittime delle foibe ha costituito il

90 Cfr. ivi, 285-286. 91 Cfr. L. Mattina (a cura di), Democrazia e nazione. Dibattito a Trieste tra Luciano

Violante e Gianfranco Fini, Trieste, 1998 e R. Romanelli, Retoriche di fine millennio, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea (a cura di L. Di Nucci - E. Galli della Loggia), Bologna, 2003, 341 ss.

92 Cfr. Foibe: contro Violante un appello per la verità, in il manifesto, 15 marzo 1998. Il testo dell’appello e i firmatari in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 286-288.

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terreno privilegiato per l’edificazione di una nuova memoria pubblica “pacificata”. In occasione della prima celebrazione del “Giorno del ricordo”, nel febbraio 2005, sia l’allora sindaco di Roma Walter Vel-troni sia il segretario dei Ds, Piero Fassino, sono intervenuti per ricor-dare – come affermava quest’ultimo – “una pagina dolorosa della sto-ria italiana, troppo a lungo negata e colpevolmente rimossa”93. Risolu-to nello stigmatizzare l’azione dei comunisti jugoslavi contro “donne e uomini colpevoli soltanto di essere italiani”, Fassino ha sostenuto in maniera perentoria che “né il contesto politico del tempo, né l’aggressione operata dal regime fascista alla Jugoslavia possono giusti-ficare le sofferenze atroci di cui furono vittime donne e uomini inno-centi”. Da parte sua, Veltroni, visitando la foiba di Basovizza presso Trieste, ha condannato recisamente “il colpevole silenzio della Sini-stra” sulle foibe94. Il senso politico di queste prese di posizione è stato indicato con chiarezza dall’ex-sindaco di Roma: “Ciò che stiamo fa-cendo oggi a sinistra – egli ha detto –, e quello che stanno facendo dall’altra parte, penso ad An, può finalmente portare a voltare pagina e chiudere il tempo della memoria divisa”. Risulta evidente, però, come il proposito di costruire in questo modo una memoria comune impli-chi la minimizzazione o addirittura la rimozione delle responsabilità avute dal regime fascista in Jugoslavia prima della tragedia delle foibe, col risultato di produrre così una coscienza storica nazionale parziale e reticente.

Il culmine di quest’atteggiamento è stato raggiunto con il discorso tenuto il 10 febbraio 2007 dal Presidente della Repubblica, l’ex-dirigente comunista, Giorgio Napolitano, il quale ha commemorato con pathos le vittime delle foibe omettendo qualsiasi riferimento all’oppressione fascista degli sloveni e dei croati e ricorrendo ad un lessico e a toni di condanna assai recisi, non dissimili da quelli tradi-zionalmente usati dalla destra nazionalista95. Legittima perplessità ha suscitato per di più la consegna da parte della massima carica dello Stato di onorificenze a familiari di vittime italiane delle foibe, fra cui figuravano alcuni presunti criminali di guerra96. In un mutato contesto

93 A. Gravino, Foibe, Fassino archivia l’ambiguità Ds, in Secolo d’Italia, 10 febbraio 2005.

94 L. Lanna, Lo “strappo” di Veltroni sulle foibe, in Secolo d’Italia, 2 febbraio 2005. 95 Cfr. G. Napolitano, Cecità politica e congiura del silenzio, in la Repubblica, 11

febbraio 2007. Il testo del discorso in www.quirinale.it/elementi/-Continua.aspx?tipo=Discorso&key=930 (consultato il 12 luglio 2012).

96 Fra cui in particolare il tenente colonnello Vincenzo Serrentino, condannato e fucilato dagli jugoslavi nel 1947, ma deferito per crimini di guerra dalle stesse autorità italiane alla giustizia militare sulla base di “elementi di colpa” considerati attendibili (cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, Relazione di minoranza, Roma, 2006, 115).

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politico, segnato dalla contrapposizione fra il Presidente della Repub-blica e Silvio Berlusconi tornato alla guida del governo dopo la vittoria elettorale dell’aprile 2008, Napolitano ha invero fortemente rettificato la propria posizione, che aveva per altro provocato una grave crisi di-plomatica con Croazia e Slovenia. Il Presidente ha infatti sì rivendicato “l’esigenza di un riconoscimento umano e istituzionale” per le vittime delle foibe e gli espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia, “per troppo tempo mancato e giustamente sollecitato”, ma ha precisato che “esso non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo e col na-zionalismo”, ammettendo al contempo le “responsabilità storiche del regime fascista”, fra cui le “sofferenze” inflitte alla minoranza slovena negli anni della dittatura e della guerra97. Si è trattato di una svolta im-portante nella celebrazione del “Giorno del ricordo” proseguita da Napolitano negli anni successivi.

La ricerca di un compromesso politico, in ogni caso, ha condiziona-to anche la legge 211 del luglio 2000, che ha introdotto in Italia la “Giornata della memoria” in ricordo dello sterminio degli ebrei; sicu-ramente la “solennità civile” più importante fra le nuove istituite negli ultimi anni. Promossa dalle sinistre per ricordare “la persecuzione ita-liana dei cittadini ebrei” e le altre vittime della deportazione, la legge non menziona mai la parola “fascismo” e riserva ampio spazio al ri-cordo dell’aiuto (senz’altro meritorio) prestato agli ebrei dagli italiani di ogni schieramento politico98. Nel susseguirsi delle celebrazioni a partire dal gennaio 2001, la “Giornata della memoria” si è caratterizza-ta secondo un duplice codice commemorativo: mentre amministrazio-ni locali, stampa ed associazioni di centro-sinistra hanno sviluppato iniziative, specialmente dirette al mondo della scuola, dedicate al ri-cordo della persecuzione antiebraica del nazismo e del fascismo non-ché alla memoria della deportazione militare e politica italiana nei la-ger tedeschi, a destra si è manifestata invece la tendenza a privilegiare la celebrazione degli atti di solidarietà e aiuto compiuti da italiani a fa-vore degli ebrei99. A questo fine è stata valorizzata in particolare la fi-gura di Giorgio Perlasca, un commerciante italiano di sentimenti fasci-sti che riuscì con abilità e coraggio a porre in salvo in Ungheria mi-

97 Cfr. il discorso tenuto dal Presidente della Repubblica in occasione del V anni-

versario del Giorno del ricordo (10 febbraio 2009) in www.quirinale.it/elementi/-Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1456 (consultato il 12 luglio 2012).

98 Il testo della legge in F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 289-290. 99 Sulle celebrazioni del “Giorno della memoria” cfr. R. S. C. Gordon, The Holo-

caust in Italian Collective Memory: Il giorno della memoria, 27 January 2001, in Modern Italy, vol. XI, n. 2, June 2006, 167-188.

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gliaia di persone. L’insistita celebrazione di Perlasca100 e di altre figure di “salvatori di ebrei”, come il funzionario di polizia di Fiume Gio-vanni Palatucci o il console italiano a Salonicco Guelfo Zamboni, ri-proponendo l’immagine dei “bravi italiani”, rischia però di trasformar-si in un comodo paravento per la coscienza nazionale, restia a fare i conti con le responsabilità del paese nella persecuzione antiebraica101.

Come ha notato Stefano Pivato, la disponibilità ad un patteggiamen-to sul passato dimostrata dalla parte maggioritaria della sinistra si è tradotta in una forma di “lottizzazione della memoria” 102, basata su una intrinseca logica di scambio per cui ad es. l’intitolazione di una strada ad un partigiano risulta “compensata” con la concessione di una targa commemorativa ad un volontario fascista caduto in Etiopia o in Spagna, oppure la produzione di una fiction sulle foibe con quella di un documentario sulle Fosse Ardeatine. La spinta ad un riconoscimen-to politico reciproco e al consolidamento del sistema bipolare uscito dalla crisi della prima Repubblica ha così preso la strada della costru-zione dall’alto di un’equivoca “memoria condivisa” che – espungendo gli aspetti più scomodi della storia italiana del novecento, dai crimini coloniali alle responsabilità nella guerra a fianco della Germania – ha assunto l’aspetto di una “memoria preminentemente martirologica”103 fondata sull’autovittimizzazione nazionale. Si è profilato quello che Giovanni De Luna ha chiamato un “paradigma vittimario” a spiccato contenuto emozionale, alimentato dai racconti a forte impatto televisi-vo dei testimoni, siano essi superstiti o familiari delle vittime delle foi-be, delle stragi naziste o della deportazione razziale104.

4. Il Quirinale alla riscoperta della patria: una memoria ritrovata? Né l’aspra contesa sul passato fra destra e sinistra nè i tentativi di

compromesso intrapresi da post-comunisti e post-fascisti hanno invero generato una nuova narrazione capace di imporsi come fondamento della Seconda Repubblica. A tentare con qualche successo la co-

100 Personaggio a lungo sconosciuto e invero riscoperto da un giornalista di cultu-ra antifascista come Enrico Deaglio. Cfr. E. Deaglio, La banalità del bene, Milano, 1993.

101 Cfr. E. Perra, Legitimizing Fascism through the Holocaust? The Reception of the Miniseries “Perlasca: un eroe italiano” in Italy, in Memory Studies, 3/2, 2010, 95-109. Per un’ampia riflessione sul Giorno della memoria cfr. D. Bidussa, Dopo l’ultimo te-stimone, Torino, 2009, 27-42.

102 S. Pivato, Vuoti di memoria, cit., 122. 103 Cfr. B. Spinelli, Il sonno della memoria, Milano, 2001, 227. 104 Cfr. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Mi-

lano, 2011, 82 ss.

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struzione di una rinnovata memoria nazionale è stata invece la Presi-denza della Repubblica. Un ruolo fondamentale è stato svolto da Carlo Azeglio Ciampi, in carica al Quirinale dal 1999 al 2006. Preoccupato sia per le lacerazioni politiche prodotte dallo scontro fra maggioranza e opposizione sia per le minacce all’unità nazionale portate dalla Lega Nord, Ciampi ha intrapreso fin dall’inizio del mandato un’azione di “pedagogia civile” nei confronti del paese attraverso un’attiva politica del passato incentrata, innanzitutto, sul recupero della memoria della Resistenza come patrimonio di ideali e valori da tramandare alle gio-vani generazioni e come capitale storico e morale con cui rianimare e su cui rifondare il senso di appartenenza nazionale e l’unità del pae-se105. In aperta polemica con quanti, come Galli della Loggia, avevano letto l’8 settembre come “morte della patria”, Ciampi ha rilanciato il canone tradizionale della Resistenza quale lotta di liberazione naziona-le e “secondo Risorgimento”, accentuandone il carattere patriottico attraverso la valorizzazione del ruolo svolto dai militari, da coloro che dopo l’armistizio tennero fede al giuramento al re e si batterono contro i tedeschi. In questa chiave va letta la “riscoperta” di Cefalonia come primo atto del riscatto nazionale, segnato dall’eroismo antigermanico degli uomini della Divisione Acqui e dal loro successivo martirio106. Raffigurata come una “vera epopea popolare” realizzatasi nell’”unione di popolo e forze armate”, la Resistenza è stata esaltata da Ciampi co-me origine della democrazia repubblicana e della Costituzione, consi-derata dal presidente la propria “Bibbia civile”107.

La rivendicazione di un patriottismo costituzionale si è associata ad uno sforzo del Capo dello Stato finalizzato alla costruzione di una reli-gione civile attraverso il rilancio di simboli, luoghi di memoria e cele-brazioni nazionali. Nel 2000 Ciampi ha ripristinato la festa del 2 giu-gno (Festa della Repubblica) abolita nel 1977; nel 2003 ha aperto il pa-lazzo del Quirinale alle celebrazioni del 25 aprile; costante è stato poi il suo impegno a celebrare l’anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale, il 4 novembre, Festa dell’Unità nazionale e delle For-ze Armate, con un richiamo insistito alle radici storiche risorgimentali del paese108. Di grande rilievo simbolico è stata inoltre la rivalorizza-zione del complesso monumentale del Vittoriano a Roma come luogo

105 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 94-107 e Id., Präsident Ciampis

„Krieg um die Erinnerung“, in Neue Politische Literatur, 52 (2007), 11-24. 106 Cfr. L. Klinkhammer, Congiunture della memoria. La riscoperta degli eroi di Ce-

falonia, in La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Re-pubblica (a cura di O. Janz - L. Klinkhammer), Roma, 2008, 175-188.

107 Cfr. G. Battistini, “Costituzione, mia Bibbia civile”, in la Repubblica, 26 aprile 2006.

108 Cfr. M. Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna, 2003, 105 ss.

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celebrativo nazionale, ma soprattutto lo è stata la sfida intrapresa con successo per rilanciare l’uso della bandiera nazionale e l’Inno di Ma-meli, tornato ad essere cantato dagli atleti italiani nelle competizioni internazionali e in tutte le celebrazioni istituzionali109. Sull’asse Risor-gimento-Grande Guerra-Resistenza Ciampi ha così sviluppato un pa-triottismo repubblicano ispirato da una matrice culturale mazziniana, ben visibile nel correlato riferimento alla più vasta “patria” europea. Non a caso il Presidente ha caldeggiato l’Unione europea e la parteci-pazione attiva dell’Italia al processo di unificazione, a cominciare dall’adesione alla moneta unica cui aveva personalmente concorso co-me ministro del Tesoro e del Bilancio (1996-1999) e prima ancora co-me Presidente del Consiglio (1993-94) e direttore della Banca d’Italia (1979-1993).

Contemporaneamente alla rifondazione in chiave patriottica della memoria della Resistenza e alla promozione dei simboli nazionali, Ciampi si è impegnato nella creazione di quella che nel 2003 ha chia-mato una “memoria intera”, fondata sulla riscoperta di tutte le pagine rimosse o poco note della storia italiana (in particolare relative alla se-conda guerra mondiale) al fine di favorire una “riconciliazione senza amnesie”110. La via di Ciampi alla “pacificazione” nazionale si è snoda-ta fondamentalmente attraverso il recupero alla memoria pubblica del paese da un lato dei crimini nazifascisti rimasti sepolti nell’“armadio della vergogna” e dall’altro lato della vicenda delle foibe (la cui memo-ria Ciampi ha sempre opportunamente distinto da quella della Resi-stenza)111. In realtà, la costruzione di una “memoria intera” si è rivelata un processo ampiamente incompleto. Se Ciampi si è sforzato di consi-derare ogni lato delle violenze commesse contro gli italiani, non ha af-frontato infatti la questione scottante delle violenze commesse dagli italiani, tema scoperto dalla storiografia ma non dai principali mass-media, a cominciare dalla RAI. Il capo dello Stato, dunque, è rimasto entro il “paradigma vittimario” prevalente, anche se nell’ultima parte del mandato risulta che avesse programmato un incontro di riconcilia-zione con Slovenia e Croazia, ispirato alla reciproca ammissione di re-sponsabilità per i torti e i crimini storicamente perpetrati; incontro alla fine saltato per l’opposizione del Ministero degli Esteri112.

L’azione di “pedagogia della memoria” intrapresa da Ciampi è stata

109 Cfr. P. Peluffo, La riscoperta della Patria, Milano, 2012 [I ediz. 2008), 166-170;

204-212. L’autore è stato uno dei principali collaboratori di Ciampi al Quirinale. 110 Cfr. M. Breda, Una memoria intera, un Paese più unito, in Corriere della Sera,

25 aprile 2003. 111 Cfr. F. Focardi, La guerra della memoria, cit., 102-103. 112 Cfr. R. Morelli, Foibe, sì sloveno alla “pace” proposta da Ciampi, in Corriere del-

la Sera, 20 febbraio 2006.

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continuata dal suo successore, Giorgio Napolitano. Anche Napolitano ha sottolineato il valore patriottico della Resistenza, valorizzando il contributo dei militari accanto a quello dei partigiani e proponendo la stessa lettura “allargata” della guerra di liberazione nazionale già avan-zata da Ciampi. La Resistenza è stata presentata infatti come “una straordinaria prova di riscatto civile e patriottico” che ha coinvolto i combattenti delle formazioni partigiane e del regio esercito, gli italiani e le italiane che hanno dimostrato solidarietà ai patrioti, le vittime civili e militari delle stragi naziste, i deportati politici e razziali, gli internati militari ovvero le “centinaia di migliaia” di soldati italiani deportati in Germania dopo l’armistizio “che respinsero in schiacciante mag-gioranza, l’invito a tornare in Italia aderendo al regime repubblichi-no”113. In maniera più aperta e costante rispetto a Ciampi, Napolitano ha riconosciuto i lati oscuri della Resistenza, di cui ha ammesso anche il carattere di “guerra civile” richiamandosi alla lezione dello storico Claudio Pavone, non tacendone le violenze commesse “specie alla vigi-lia e all’indomani della Liberazione”114. Come i suoi predecessori, Scal-faro e Ciampi, Napolitano ha avuto cura al contempo di tracciare una linea di demarcazione netta fra fascisti e antifascisti. “Le ombre della Resistenza – egli ha detto – non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni”. Anche Napolitano si è recato in visita a Cefalonia e a El Alamein, e ha indicato il fondamento storico dell’identità nazionale nell’asse che corre dal Risorgimento alla Resistenza, ponendone il culmine nella Carta Costituzionale e nel pro-cesso di integrazione europea.

Dopo il ritorno al potere del centro-destra nel 2008, il Capo dello Stato ha dovuto fronteggiare la rinnovata minaccia leghista all’unità nazionale palesatasi con l’avvio di radicali riforme dell’ordinamento istituzionale in senso federalista (federalismo fiscale), accompagnata da preoccupanti forme di revisionismo storico antirisorgimentale di ma-trice filo-borbonica e cattolico intransigente115. La risposta di Napoli-tano è stata una risemantizzazione della Resistenza imperniata sulla raffigurazione del 25 aprile non solo come Festa della Liberazione ma anche come “Festa della riunificazione d’Italia”, come momento in cui l’“Italia tagliata in due” dalla guerra aveva ripreso il suo corso unita-

113 Cfr. l’intervento tenuto da Napolitano a Genova il 25 aprile 2008 in

www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1238 (consultato il 12 luglio 2012).

114 Ibidem. 115 Secondo queste correnti il processo di unificazione nazionale sarebbe stato

frutto della sopraffazione violenta di elites “laiciste” aliene alle tradizioni e ai senti-menti delle plebi italiane. Cfr. M. Isnenghi, I passati risorgono. Memorie irriconciliate dell’unificazione nazionale, in La storia negata (a cura di A. Del Boca), cit., 39-68.

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rio116. Ma soprattutto la sua reazione si è tradotta in uno sforzo prodi-gioso per celebrare la ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011. Dopo un avvio fiacco e pieno di polemiche per lo scarso impegno del governo117, la macchina organizzativa ha preso a funzionare a pieno regime grazie all’impulso del Quirinale118. Napoli-tano si è prodigato per una riscoperta popolare del Risorgimento, di cui è stata proposta una lettura corale, simile a quella della Resistenza, imperniata cioè sulla raffigurazione del processo di unificazione nazio-nale come frutto della convergenza di anime diverse, quella democra-tica e volontaristica di Mazzini e Garibaldi con quella monarchica, di-plomaticamente accorta e militarmente efficace, di Cavour e di Vitto-rio Emanuele II119. Numerosi sono stati i viaggi del capo dello Stato sui “luoghi della memoria”, dalla visita allo scoglio di Quarto dove prese avvio la spedizione dei Mille, a quella conclusiva a Torino, dove il 17 marzo 1861 fu proclamato lo Stato unitario. Il tripudio di tricolori che nel capoluogo piemontese, come nelle altre città d’Italia, ha accolto il Presidente Napolitano è sembrato testimoniare il successo di una me-moria nazionale ritrovata. È come se gli italiani, in un momento segna-to dalla grave crisi economica indotta dal crak finanziario americano, si siano in gran parte riconosciuti nel messaggio di appartenenza e coe-sione nazionale promosso dal Colle, manifestando la volontà di supe-rare le memorie divise del paese120, vieppiù esacerbate dall’irriducibile scontro politico degli ultimi vent’anni.

5. Conclusioni Venendo a svolgere alcune riflessioni finali, si può osservare che la

lunga stagione di revisionismo politico ha certamente inciso a fondo sulle coordinate di riferimento della memoria collettiva nazionale. Il suo ancoraggio al patrimonio antifascista e alla Resistenza, pur vee-

116 Cfr. l’intervento tenuto da Napolitano alla Scala di Milano in occasione dei fe-

steggimenti del 25 aprile 2010 in www.quirinale.it/elementi/-Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1832 (consultato il 12 luglio 2012).

117 Per la negligenza dell’esecutivo, Ciampi ha rassegnato le dimissioni dalla presi-denza del comitato organizzativo delle celebrazioni. Cfr. G. Mammarella - P. Cacace, Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano, Roma-Bari, 2011, 308.

118 Cfr. P. Peluffo, La riscoperta della Patria, cit., 13 ss. 119 Cfr., ivi, 18. Ma si vedano anche le dichiarazioni rilasciate da Giuliano Amato,

subentrato a Ciampi alla guida del comitato celebrativo, in S. Fiori, La memoria ritro-vata. “Addio alle cartoline retoriche. L’Italia ha scoperto se stessa”, in la Repubblica, 30 dicembre 2011.

120 Cfr. J. Foot, Fratture d’Italia, Milano, 2009.

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mentemente posto sotto accusa, non è stato però divelto. Le proposte più drastiche di abolizione del 25 aprile non hanno avuto seguito né sembrano avere la forza per un successo in futuro. Lo stesso vale per i tentativi infruttuosi di equiparare per legge i combattenti di Salò ai partigiani. Pur continuando a manifestare un “deficit di credibilità” dovuto – fra le molte cause – ad un’inadeguata resa dei conti con il complesso dell’esperienza comunista del XX secolo121, l’antifascismo come cultura politica ha mostrato di possedere ancora una capacità di tenuta e di reazione. E soprattutto – grazie all’impegno dei tre presi-denti saliti al Quirinale dal 1992 ad oggi, Scalfaro Ciampi e Napolitano – esso si è rivelato fondamento istituzionale imprescindibile della Re-pubblica. Ne è un segnale, del resto, il compimento del cammino poli-tico di Gianfranco Fini che, da presidente della Camera, ha espresso nel settembre 2008 una inequivocabile condanna della Repubblica so-ciale e del fascismo come “dittatura e soppressione della libertà”122, approdando così a posizioni di conservatorismo antifascista (certo in-vise a molti dei suoi vecchi compagni di partito)123. A ben vedere, ne costituisce poi una prova indiretta la decisione presa dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di partecipare per la prima volta nell’aprile 2009 alle celebrazioni della Liberazione124. Pur contrasse-gnata dallo smaccato tentativo di appropriarsi politicamente della ri-correnza e di ridefinirne il significato come “festa della libertà”125, tale scelta ha nondimeno mostrato come una destra di governo non possa prescindere dal richiamo alla guerra di liberazione come fonte di legit-timazione istituzionale126. Del resto, la proposta di legge avanzata in Senato nell’aprile 2011 da alcuni rappresentanti del Popolo della Li-bertà di provenienza missina per abolire le norme costituzionali che vietano la ricostituzione del partito fascista si è scontrata con un muro

121 Cfr. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, cit., 8-9. 122 Cfr. A. Trocino, Fini: noi siamo antifascisti, in Corriere della Sera, 14 settembre

2008. Le dichiarazioni di Fini sono arrivate dopo un’intervista alla stampa del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che aveva negato che il fascismo potesse considerarsi “un male assoluto” e dopo le parole in ricordo dei militari della RSI spese da un altro esponente di spicco di An, l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, in occasione della commemorazione dell’8 settembre a Roma.

123 Ricordiamo che nel marzo 2009 An si è sciolta ed è confluita nel PdL. A segui-to di un duro scontro con Berlusconi, nell’autunno del 2010 Fini è uscito con pochi seguaci dal partito dando vita a un nuovo soggetto politico, Futuro e Libertà.

124 Il premier ha celebrato il 25 aprile ad Onna, uno dei paesi dell’Abruzzo colpiti dal terremoto, già vittima durante la seconda guerra mondiale di una strage nazista.

125 Cfr. Silvio omaggia i partigiani e li seppellisce, in Libero, 26 aprile 2009. 126 Per una lettura critica e allarmata della celebrazione del 25 aprile compiuta da

Berlusconi, cfr. M. Revelli, In montagna, in il manifesto, 25 aprile 2009 e A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (a cura di S. Fiori), Roma-Bari, 2009, 130-131.

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di reazioni negative, sollevate dallo stesso partito di provenienza, non-ché dal presidente della Camera Fini e da quello del Senato, Renato Schifani127.

Ad una fase di transizione politica e istituzionale non ancora com-piuta, che è stata contrassegnata da una lotta senza esclusione di colpi per la conquista dell’egemonia culturale, corrisponde al momento un quadro della memoria pubblica profondamente mutato con la presen-za – come già accennato – di una pluralità di memorie istituzionali di diversa ispirazione. Accanto a quella ancora preminente fondata sulla Resistenza e le sue date fondamentali, prima fra tutte il 25 aprile, esi-stono almeno altre due memorie ufficiali consolidate, l’una concorren-te l’altra alternativa e conflittuale. Un carattere concorrenziale ha as-sunto via via la memoria della Shoah celebrata il 27 gennaio. Il coin-volgimento delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione è cresciuto progressivamente tanto che, secondo alcuni commentatori, la “Giorna-ta della memoria” avrebbe eroso la centralità del 25 aprile e della nar-razione antifascista128. Carattere alternativo e conflittuale ha invece ri-vestito finora la memoria delle foibe celebrata il 10 febbraio con il “Giorno del ricordo”, che di fatto – tenuto conto della prassi e dello stile commemorativi invalsi – si è contrapposta per il suo significato sia alla memoria della Resistenza sia alla memoria della Shoah.

In tutta Europa la caduta dell’Unione sovietica ha prodotto cam-biamenti profondi nelle memorie pubbliche nazionali. Il processo di valorizzazione della memoria della Shoah, che coinvolge da qualche anno anche l’Italia, è ad esempio un fenomeno di carattere europeo e internazionale 129 . Allo stesso modo, il progressivo spostamento dell’asse di legittimazione politica dall’antifascismo all’antitotalita-rismo è un processo che caratterizza tutta l’Europa comunitaria, con un’accelerazione negli ultimi anni dopo l’allargamento dell’Unione verso est130. C’è dunque una cornice generale europea di evoluzione delle memorie pubbliche e vi sono differenti percorsi nazionali. Quello italiano appare connotato da una pluralità di memorie di segno diverso

127 Cfr. S. Buzzanca, “Non sia più reato il fascismo”. La proposta pdl scatena la ba-

garre, in la Repubblica, 6 aprile 2012. 128 Cfr. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, cit., 45-46 e G. De Luna, Il fascismo

derubricato, in La Stampa, 28 marzo 2008. 129 Cfr. E. De Cristofaro, L’inquadramento giuridico del passato: memoria della

Shoah e legge italiana, in Storia della Shoah in Italia, Vol. II, Memorie, rappresentazioni, eredità (a cura di M. Flores - S. Levis Sullam - M. Matard-Bonucci - E. Traverso), To-rino, 2010, 337-356.

130 Si veda la decisione presa il 23 settembre 2008 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di proclamare il 23 agosto (ricorrenza della firma del patto Ribbentrop-Molotov) quale “Giornata europea di commemorazione delle vittime del-lo stalinismo e del nazismo”.

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nate nel nuovo contesto politico post ‘89 e, contemporaneamente, dal tentativo di fondare una “memoria condivisa” nazionale. Questo tenta-tivo, promosso con particolare energia dal Quirinale, ha ottenuto in-dubbi risultati permeando progressivamente la sfera dell’opinione pubblica. Di recente, Giovanni De Luna ha parlato della politica della memoria di Ciampi e di Napolitano come di una “chiazza d’olio” stesa sul mare tempestoso delle memorie contrapposte131. Sembra di poter dire che, dopo il crollo dell’ultimo governo Berlusconi e il picco di credibilità in cui sono caduti i partiti, la narrazione del Colle ha assun-to sempre più un carattere dominante, quasi si trattasse dell’unico col-lante residuo per un paese in balia di laceranti dinamiche involutive e afflitto da sindrome da declino. Si tratta di una memoria a forte conte-nuto neopatriottico fondata sul richiamo al Risorgimento e alla “Resi-stenza tricolore”, finalizzata alla costruzione dell’identità nazionale come base per riattivare la coesione del paese intorno alle sue istitu-zioni repubblicane e alla sua Carta costituzionale, con un ruolo di ri-lievo assegnato alle forze armate e ai loro valori tradizionali di fedeltà, onore, sacrificio “per la bandiera”, culto dei caduti. L’ultimo significa-tivo passo in questa direzione è stato rappresentato dal disegno di leg-ge bipartisan approvato nel giugno 2012 dalla commissione cultura della Camera volto a istituire il 17 marzo come “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”132. Una sorta di sintesi e di punto di approdo di quanto agognato dal Quirinale fin dai primi passi del settennato di Ciampi.

Non sono mancate critiche allarmate a questa forma pervasiva di neo-patriottismo. Pur fondato sulle migliori intenzioni democratiche, esso – secondo lo storico Alberto Mario Banti – non farebbe “altro che riproporre, con minime variazioni, il blocco discorsivo del nazionali-smo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo”.133 Rimet-terebbe dunque in circolo virus pericolosi, dimostrandosi per altro strumento inadeguato a fronteggiare le sfide dell’emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo”134. Banti arriva a mettere in dubbio la stessa idea base che la Repubblica abbia davvero bisogno di un’identità nazionale forte. A nostro avviso, risulta quantomeno preoccupante la persistente reticenza della memoria istituzionale e col-

131 Cfr. G. De Luna, Ma il ricordo di altre ferite porta il segno della divisione, in il

Venerdì di Repubblica, 21 gennaio 2011, 104. 132 Cfr. Inno di Mameli sui banchi di scuola, via libera della Camera al disegno di

legge, in la Repubblica, 15 giugno 2012. Il disegno di legge è stato promosso congiun-tamente da Pd e Pdl.

133 Cfr. A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, 2011.

134 Cfr. ivi, 208.

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lettiva odierna a fare i conti col passato fascista, con l’esperienza di un progetto totalitario a base gerarchica e razzista, teso all’espansione mi-litare, culminato nella catastrofe di una guerra di sterminio a fianco dei “camerati” tedeschi.

Tuttavia negli ultimi anni sono emersi dei segnali che indicano pos-sibili nuovi orientamenti della politica della memoria promossa dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ad esempio il fatto che il Pre-sidente si sia apertamente pronunciato a favore dell’estensione della cittadinanza ai cosiddetti “nuovi italiani”, cioè agli immigrati nati in Italia, ha rivelato una concezione aperta della nazione, ispirata ai prin-cipi costituzionali e non alla matrice etnica basata sui vincoli di sangue propria dei codici culturali del nazionalismo risorgimentale e ancor più fascista135. Un segnale molto importante ha riguardato poi la me-moria controversa delle vicende del confine orientale. Nell’estate del 2010 il Presidente della Repubblica ha compiuto il primo passo in vi-sta di quella riconciliazione sul passato con Slovenia e Croazia pro-grammata già da Ciampi ma mai realizzata. Ci riferiamo all’incontro a Trieste fra il presidente Napolitano, il presidente sloveno Danilo Türk e quello croato Ivo Josipović in occasione del concerto diretto dal maestro Muti eseguito in piazza Unità d’Italia da un’orchestra di musi-cisti dei tre paesi136. Prima del concerto, come atto di reciproca ricon-ciliazione i tre presidenti hanno deposto una corona di fronte alla la-pide che ricorda l’incendio del Narodni Dom, la Casa del popolo slo-vena data alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani (poco dopo confluiti nel fascismo), recandosi poi insieme a rendere omaggio al monumento che ricorda l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalma-zia. Quello che, per usare parole del presidente italiano, è stato un “gesto di amicizia” per superare il passato e “guardare avanti” in nome della comune appartenenza alla ‘casa’ europea137, ha avuto un seguito nel settembre 2011 con la visita congiunta di Napolitano e del presi-dente croato Josipović nella città di Pola, luogo simbolo dell’esodo. Nell’occasione i due presidenti hanno ricordato sia “la tragedia delle vittime del fascismo italiano” sia le vittime “della folle vendetta delle

135 Cfr. l’intervento al Quirinale di Napolitano all’incontro dedicato ai “Nuovi

Cittadini italiani”, il 15 novembre 2011 in www.quirinale.it/elementi/-Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2302 (consultato il 14 luglio 2012).

136 Cfr. L. Bentivoglio, Italia, Croazia e Slovenia sulla via dell’amicizia con Muti, in la Repubblica, 14 luglio 2010; M. Breda, Italia, Slovenia, Croazia: storico vertice a tre, in Corriere della Sera, 14 luglio 2010.

137 La Slovenia fa parte della Ue dal 2004, l’ingresso della Croazia è previsto per il 2013.

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autorità postbelliche dell’ex-Jugoslavia”138. Questo “nuovo corso” ha trovato conferma nelle celebrazioni al Quirinale del “giorno del ricor-do” nel febbraio 2012, caratterizzate dal proposito di superare il punto di vista nazionale sulle foibe e sulle espulsioni degli italiani a favore di un punto di vista europeo capace di inquadrare quelle vicende nella loro complessità storica, col riconoscimento anche dei torti italiani le-gati alla politica di snazionalizzazione forzata delle minoranze slovene e croate e dei crimini commessi durante l’occupazione fascista139.

Sia l’opzione espressa dal Capo dello Stato per una concezione in-clusiva di nazione sia l’apertura verso una memoria più consapevole e responsabile del passato fascista rappresentano passi importanti. Resta da vedere se questi si tradurranno in un indirizzo strategico della poli-tica della memoria del Quirinale e segneranno un mutamento effettivo della coscienza storica del paese.

138 Cfr. la dichiarazione congiunta del 3/9/2011 in www.quirinale.it/elementi/-

Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2256Cfr e S. Lusa, Italia- Croazia, tempo di ricon-ciliazione, in www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Italia-Croazia-tempo-di-riconciliazione-102424 (consultati il 14 luglio 2012).

139 Cfr. il saluto del presidente Napolitano pronunciato il 9 febbraio 2012 in www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2362 (consultato il 14 luglio 2012) e inoltre gli interventi dello storico Raoul Pupo e del ministro della Coo-perazione internazionale e dell’integrazione sociale, lo storico Andrea Riccardi.

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MEMORIA, IDENTITÀ E USO PUBBLICO DELLA STORIA: L’INVENZIONE DEL DERECHO INDIANO

Luigi Nuzzo

SOMMARIO: 1. Diritto alla memoria e identità perdute. – 2. Alla ricerca dell’identità: García Gallo e la ‘rifondazione’ di una disciplina. – 3. Alla ricerca dell’identità: Francesco Calasso e il sistema del ius commune. – 4. Alla ricerca dell’identità: Vic-tor Tau Anzoátegui e i nuovi orizzonti del diritto indiano.

1. Diritto alla memoria e identità perdute

Il 16 dicembre del 2010 gli Stati Uniti d’America hanno ricono-

sciuto la Dichiarazione universale delle popolazioni indigene. Il loro riconoscimento segue quello di Canada, Australia, Nuova Zelanda e rafforza le speranze di chi vede nella Dichiarazione uno strumento im-portante per la difesa dei diritti delle popolazioni indigene e per ripa-rare le ferite che la storia ha inferto loro. La Dichiarazione, come è no-to, era stata approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2007 con il voto contrario proprio di Stati Uniti, Canada, Austra-lia, Nuova Zelanda e l’astensione di 11 paesi. Non è stato facile giun-gere all’approvazione per le resistenze di molti Stati a riconoscere le popolazioni native che vivevano all’interno dei loro territori come na-zioni titolari di diritti collettivi1. Già nel 1982, infatti, sull’onda di un rinnovato interesse che le Nazioni Unite e in particolar modo la com-missione diritti umani avevano manifestato per la tutela dei diritti delle popolazioni indigene, era stata istituito presso la Sottocommissione sulla prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoran-ze un apposito gruppo di lavoro, formato dai rappresentanti delle po-polazioni indigene. Nel 1993 il Working group on indigenous popula-tions, questo era il suo nome, approntò e presentò alla Sottocommis-sione un primo progetto che approvatolo l’anno successivo lo sottopo-se a sua volta Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite2. Do-po ‘solo’ dodici anni il progetto fu approvato. Si tratta dunque di una lunga storia della quale non intendo ricostruire le tappe o gli snodi fondamentali, né affrontare i problemi teorici e pratici che essa ha por-

1 United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Populations, 13 dicembre

2007, http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/en/declaration.html. 2 The Working Group on Indigenous Populations è un organo creato dall’UN Eco-

nomic and Social Council, a sua volte parte della Sub-Commision on Prevention of Dis-crimination and Protection of Minorities.

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tato con sé3. Assumerò invece la Dichiarazione come punto di parten-za per una riflessione più generale sul diritto indiano e sulle prospetti-ve di ricerca che essa può suggerire a giuristi e storici del diritto.

La Dichiarazione universale delle popolazioni indigene si fonda sulla memoria. Presuppone la difesa della memoria come strumento per la definizione della identità indigena e la tutela dei diritti indigeni. L’individuazione di una nuova soggettività giuridica, il popolo indige-no, un soggetto collettivo di cui si riconosce il pieno diritto alla auto-determinazione, è possibile solo riconoscendogli il diritto di manifesta-re, praticare, insegnare le proprie tradizioni culturali, celebrare le pro-prie cerimonie spirituali e religiose, trasmettere la propria storia, la propria cultura, la propria lingua alle generazioni future. Nel testo non vi è una definizione di popolo indigeno. Ciò non deve stupire anche nel progetto del 1993 mancava. In realtà non c’è ne bisogno. Questo nuovo soggetto non ha bisogno di definizioni così come non chiede riconoscimenti o legittimazioni statali. Può farne a meno perché è già dato, è un soggetto storico che preesiste agli Stati. Ma rivendica, pro-prio attraverso l’uso della memoria, il mantenimento e il rafforzamento delle proprie strutture politiche, sociali, normative4.

Per tornare ad esistere come popolo bisogna ricordare dunque. Ma il ricordo non è la memoria. È una parte della distinzione con cui ope-ra la memoria. L’altra è il dimenticare. La memoria si fonda infatti su una serie di operazioni selettive di ricordo e dimenticanza. Come ha scritto Raffaele De Giorgi è l’unità della distinzione tra ricordare e di-menticare5.

Ricordo e oblio costituiscono le distinzioni con cui opera memoria e allo stesso tempo potremmo dire, con qualche semplificazione, costi-tuiscono i due poli intorno ai quali si articola rispettivamente il discor-

3 Per questo rinvio a L. Nuzzo, Diritto all’identità e metanarrazioni. Riflessioni in

margine ad un progetto ONU, in Giornale di storia costituzionale, 2002, 9-20; Id., A Dark Side of the Western Legal Modernity: The Colonial Law and its Subject, in Zei-tschrift für neuere Rechtsgeschichte, 49 (2011), 205-222.

4 Nel 1983 Martinez Cobo, special rapporteur dell’U.N. Subcommision on Preven-tion of Discrimination and Protection of Minorities, U.N. Subcommision on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, Study of the Problem of Discrimination against Indigenous Populations, U.N. Doc. E/CN.4/Sub.2/1983/21 Add.1-7 (1983) definì gli indigeni o le nazioni indigene coloro che “having a historical continuity with pre-invasion and pre–colonial societies that developed on their territories, consider them-selves distinct from other sectors of societies now prevailing in those territories or parts of them. They form at present non dominant sectors of society and they are determined to preserve and develop and transmit to the future generations their ancestral territories, and their ethnic identity, as the basis for their continued existence as people”.

5 R. De Giorgi, Rom als Gedächtnis der Evolution, in Rechtsgeschichte, 4 (2004), 142-161.

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so indigenista e quello coloniale e dai quali si sono sviluppate nel corso del tempo, in modo diverso, le strategie per l’affermazione o la nega-zione di una soggettività indigena. In altri termini, fuori dalla memo-ria, ricordo e oblio divengono le condizioni che rendono possibile o impossibile l’esistenza di un soggetto giuridico indigeno. Solo la me-moria di sé e della propria storia produce identità e dunque soggettivi-tà. Al contrario coloro che non hanno memoria o coloro ai quali quella memoria è stata rubata o sovrascritta non esistono. Lo ricordò con grande efficacia Franz Fanon molti anni fa, aprendo una conferenza sul rapporto tra cultura nazionale e lotte di liberazione. Per Fanon il dominio coloniale aveva prodotto una “obliterazione culturale”, aveva cioè disconesso i popoli sottomessi dalla propria cultura attraverso la negazione della realtà locale, l’introduzione di nuovi rapporti giuridici e il loro sistematizzato asservimento6. Le conseguenze erano state de-vastanti. La consapevolezza dell’impossibilità di divenire bianco o di liberarsi dalla propria odiata negritudine aveva condotto ad uno spiaz-zamento dell’io coloniale, ad una sua irreparabile schizofrenia identita-ria. Molto anni dopo nella riflessione postcoloniale le incertezze identi-tarie sono divenute un punto di forza7. La ricostruzione del proprio passato attraverso un lungo e doloroso processo di rimemorazione, da un lato, ha confermato l’impossibilità di ricongiungersi con la propria identità originaria, dall’altro è stato lo strumento per immaginare una nuova soggettività ibridizzata in cui si sciogliessero senza residui le identità del colonizzato e del colonizzatore. In questo modo diveniva possibile superare il conflitto tra il “Sé coloniale e l’Altro colonizzato” e allo stesso tempo affermare sia la reciproca dipendenza delle due identità prima contrapposte, sia la loro continua fluidità e indetermi-natezza. Paradossalmente proprio nel momento in cui le strategie del capitalismo globale ribadivano l’unicità del mondo e ne fornivano una rappresentazione pacificata, fondata ancora sul rapporto dialettico tra i contrapposti concetti di centro e periferia, gli studi subalterni ne sve-lavano la violenza più profonda. Essi costruivano una teoria della su-balternità che, partendo dal concetto gramsciano di egemonia, supera-va la logica binaria primo mondo/terzo mondo, colonizzatore/ colo-nizzato e passava dalla dialettica sé/altro alla disseminazione delle im-magini di sé e dell’altro. Ne è emersa una soggettività nuova, ibridizza-ta appunto, che ha risolto nel corpo di un nuovo protagonista quelle

6 F. Fanon, Fondamenti reciproci della cultura nazionale e delle lotte di liberazione,

in Id., Opere scelte (a cura di G. Pinelli), Torino, 1971, 61. 7 La centralità di Fanon negli studi postcoloniali è dichiarata da D. Chakrabarty,

Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, 2000, 17.

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contrapposizioni sulle quali la modernità coloniale aveva costruito il suo discorso e che chiedeva di essere l’artefice della propria storia8.

La battaglia politica per il riconoscimento della propria diversità e di un proprio diritto memoria ha imposto quindi nuovi approcci sto-riografici. Ad essi è stato affidato il compito di svelare sia l’inade-guatezza delle categorie giuspolitiche del pensiero occidentale per la comprensione della complessità del mondo, sia i rapporti di forza che preesistevano al loro utilizzo e che avevano inciso in modo determina-te nella selezione dei fatti da raccontare e nel modo con cui erano stati raccontati9. Nello stesso tempo il rinnovamento metodologico che proveniva dai postcolonial e subaltern studies e l’attenzione verso le problematiche coloniali hanno superato agilmente i confini spaziali e teorici in cui si erano sviluppati, e hanno permesso di rendere più complessi gli stessi canoni narrativi della storiografia occidentale e le pratiche discorsive con cui gli international lawyers hanno costruito il diritto internazionale10.

Molto però è ancora da fare e lo strano caso del derecho indiano sembra confermarlo.

2. Alla ricerca dell’identità: García Gallo e la ‘rifondazione’ di una di-sciplina

Non è semplice tradurre l’espressione derecho indiano, né del resto

dire che cosa sia. Forse è più semplice che cosa non sia. Il derecho in-diano non è un diritto indigeno. Carlos Petit lo ha definito maliziosa-mente una versione esotica del ius commune e Bartolomé Clavero, più polemicamente, un “derecho generado o reconocido por parte de Europa para dicha geografía y dicha humanidad, como si ésta careciera de cultura y así de capacidad para regirse por sí misma, así como para determinar la

8 La letteratura è ormai sterminata: H. K. Bhabha, The Location of Culture, Lon-

don, 1994; G. Prakash, Subaltern Studies as Postcolonial Criticism, in 99 American His-torical Review, 1475 (1994); Id. (a cura di), After Colonialism. Imperial Histories and Postcolonial Displacements, Princeton, 1995, 4 ss.; R. Guha, History at the Limit of World-History, New York, 2002.

9 S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, 2008, 56-72.

10 M. Craven, The Decolonization of International Law. State, Succession and the Law of Treaties, Oxford, 2008; L. Nuzzo, Origini di una Scienza. Colonialismo e diritto internazionale nel XIX secolo, Frankfurt am Main, 2012.

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reglas de recepción y acomodamiento de la gente sobrevenida y extraña de entrada para ella”11.

La stessa espressione derecho indiano, poi, è stata il frutto di un’invenzione. Assolutamente sconosciuta ai giuristi del XVI, XVII e XVIII secolo che preferivano parlare di derecho de las indias o de los Reynos de Indias essa era nata dalla penna dell’argentino Riccardo Le-vene, il padre fondatore – con lo spagnolo Rafael Altamira – della di-sciplina. Il significato era tuttavia il medesimo12. Al di là di ogni diffe-renziazione tra un diritto indiano in senso stretto, identificato nelle di-sposizioni normative emanate appositamente per i nuovi possedimenti e un diritto indiano in senso più ampio, comprensivo anche delle nor-me di diritto castigliano trapiantate in America, l’aggettivo indiano fu usato per indicare tutto il diritto vigente nelle Indie Occidentali e Orientali. Si trattava di un complesso normativo estremamente ricco, composto da norme di provenienza e di natura diversa, che confluiva-no, concordavano gli indianisti, in un sistema unico in grado di “orga-nizar el gobierno espiritual y temporal de las indias, establecer la condi-ción de sus habitantes, regular la navegación y el comercio y sobre todo convertir a los indigénas a la fé católica”13.

La fedeltà all’idea di sistema e la condivisione degli obiettivi che il diritto indiano avrebbe permesso di conseguire non ha portato però ad una univocità delle rappresentazioni storiografiche. Con qualche sem-plificazione potrei dire che fino alla fine degli anni settanta, fino a quando cioè ha dominato incontrastato l’approccio positivistico di Al-fonso García Gallo, il sistema del diritto indiano si è fondato sul pri-mato della legislazione castigliana e su un’immagine della monarchia spagnola in cui erano visibili sin dall’inizio i segni della statualità mo-derna. Poi con la fine del franchismo, l’appannarsi dell’astro di García Gallo e l’ingresso della Spagna in Europa è stato possibile riscoprire anche le componenti giurisprudenziali e consuetudinarie dell’espe-rienza giuridica medievale ed anche la storia giuridica spagnola, penin-sulare ed indiana, è apparsa scorrere nei binari rassicuranti del diritto comune e di una condivisa tradizione giuridica europea14.

11 C. Petit, El caso del derecho indiano, in Quaderni Fiorentini, 1993, 665; B. Cla-

vero, Europa hoy entre la historia y el derecho o bien entre potcolonial y preconstitucio-nal, in Quaderni Fiorentini, 2004-2005, 543.

12 Sui rapporti tra Rafael Altamira e Ricardo Levene, V.T. Anzoátegui, Diálogo sobre derecho indiano entre Altamira y Levene en los años cuarenta, in Anuario de hi-storia del derecho español, 57/1 (1997), 369-389.

13 Z. Becú, cit. in V. Tau Anzoátegui, Nuevos horizontes en el estudio historico del derecho indiano, Buenos Aires, 1997, 33.

14 L. Nuzzo, Dall’Italia alle Indie. Un viaggio del diritto comune, in Rechtsgeschich-te, 2008, 102-124.

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Iniziamo da García Gallo. La storia del diritto nei paesi di lingua spagnola è segnata dalla sua presenza, dalla sua instancabile attività nella penisola iberica come nell’America latina e da una ricchissima produzione scientifica15. Capace di farsi carico dell’eredità di Edoardo de Hinojosa y Naveros e di mitizzarne la figura, di sentirsi suo disce-polo e nello stesso tempo di criticare metodologicamente il lavoro del maestro e della sua stessa “scuola”, García Gallo si assunse l’onere di progettare una nuova storia del diritto, pensandola in primo luogo come una disciplina scientifico – giuridica, e di fare dello storico del diritto un giurista e uno scienziato. Le prime immagini di questa rin-novata storia del diritto spagnolo come scienza giuridica furono messe a fuoco tra il 1948 e il 1952 in due pubblicazioni dedicate a Hinojosa, una introduttiva della riedizione completa delle opere del maestro, e, l’altra frutto di una conferenza tenuta all’Instituto nacional de estudios jurídicos, e poi pubblicata l’anno successivo nell’Anuario de historia del derecho español16.

L’operazione metodologica che García Gallo si proponeva non era affatto semplice: si trattava di introdurre l’opera di Edoardo de Hino-josa y Naveros, di commemorarne il centenario della nascita e nello stesso tempo di tracciare le linee guida della propria storia del diritto. Si trattava di imporre una svolta attraverso il profondo rinnovamento dell’armamentario concettuale utilizzato dalla storiografia giuridica spagnola, compreso quello di Hinojosa e della sua “scuola”, ma di oc-cultare i cambiamenti di prospettiva ai quali lavorava all’interno di un discorso e di una rappresentazione che privilegiasse, sia sul piano poli-tico, sia sul piano giuridico, le continuità piuttosto che le fratture17.

15 Sul ruolo svolto da García Gallo presso l’Instituto internacional de historia del

derecho Indiano fondato a Buenos Aires nel 1966 e diretto insieme con Ricardo Zorra-quín Becú e Alamiro de Avila Martel, v. E. Martiré, Alfonso García Gallo y el Instituto Internacional de Historia del Derecho Indiano, in Homenaje al Prof. Alfonso García Gallo, Madrid, 1996 (versione on line).

16 A. García Gallo, Hinojosa y su obra, in E. de Hinojosa y Naveros, Obras, vol. 1, Madrid, 1948, 13-124; Id., Historia, derecho e historia del derecho. Consideraciones en torno a la escuela de Hinojosa, in Anuario de historia del derecho español, 23 (1953), 5-36; una analisi critica dei rapporti tra García Gallo e Hinojosa in J. Vallejo, La secuela de Hinojosa y las cuestiones de Altamira, in Libro Homenaje. In memoriam Carlos Díaz Rementeria, Huelva, Publicaciones de la Universidad (a cura di G.E. Pinard - A. Mer-chan), 1998, 765-782.

17 Fratture che non mancarono di essere manifestate in modo anche piuttosto evi-dente con la pubblicazione nel Anuario de historia del derecho español del 1941 di un lavoro di García Gallo su Nacionalidad y territorialidad del derecho en la época visigoda (168-264) in cui erano attaccate le tesi Hinojosa sulla componente germanica del dirit-to spagnolo espresse in El elemento germánico en el derecho español (1910), edito da Francisco Tomás y Valiente per i tipi di Marcial Pons (Madrid 2000).

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La storia del diritto era una vera e propria scienza giuridica che per essere raccontata aveva bisogno di una sua propria metodologia. Ciò avrebbe permesso, da un lato, di rendere la riflessione giuridica libera dai condizionamenti provenienti dalla politica, dall’economia e più in generale dal contesto socio culturale e, dall’altro, di individuare nel giurista il principale interlocutore dello storico del diritto. Del re-sto anche lo storico del diritto era un giurista e come tale doveva av-vertire l’obbligo di sottrarre il suo oggetto, il diritto appunto, alle sug-gestioni che giungevano da altre discipline, ed in particolare di liberar-lo da contaminazioni culturali che, provenienti in quegli anni soprat-tutto dalla scuola francese delle Annales, ne avrebbero alterato l’identità.

Identità: ecco il punto. Egli ricostruendo il percorso attraverso il quale si erano formati gli

ordinamenti e le istituzioni non parlava del diritto di un tempo lonta-no, ma di un diritto attuale che disciplinava quotidianamente ogni aspetto della vita sociale. Allo storico quindi affidava il compito delica-to di ricordare e di selezionare ciò che poteva concorrere alla forma-zione della memoria e dell’identità del giurista e del paese e ciò che ancora una volta era da condannare all’oblio.

Nell’ambito del diritto indiano i problemi con cui lo storico del di-ritto era chiamato a confrontarsi non erano differenti e anche in que-sto caso la ridefinizione dell’identità disciplinare continuava ad essere il suo obbiettivo principale. Tuttavia mentre in Spagna egli aveva indi-viduato in Hinojosa il fondatore della disciplina, aveva contribuito a mitizzarne il profilo e si era rappresentato, attraverso un preciso pro-getto metodologico incarnato anche in una rivista, come suo erede, nell’America Centro – meridionale l’assenza (dalla sua sua prospettiva ovviamente) di una scuola formata nel rispetto di un rigoroso metodo giuridico, lo portava a proporsi come il vero fondatore del diritto in-diano18.

All’inizio degli anni Cinquanta García Gallo mise a punto la sua strategia. Esaltò il ruolo della legge come fonte del diritto nelle Indie del XVI e sottopose ad una dura critica le metodologie impiegate dagli storici del diritto nello studiare il derecho indiano19. Pur riconoscendo

18 V. Tau Anzoátegui, El tejido historico del derecho indiano. Las ideas directivas de

Alfonso García Gallo in Revista de Historia del derecho, 21 (1992), 9-72; sugli incerti inizi di García Gallo come storico ‘americanista’ B. Clavero, Ignorancia Académica por España (1944) y privación Indígena por América (1831), in Derecho, Historia y Univer-sidades. Estudios dedicados a Mariano Peset, Valencia, 2007, vol. 1, 413-423.

19 Gli articoli sono: La ley como fuente del derecho en Indias en el siglo XVI (1951); Panorama actual de los estudios de historia del derecho indiano (1952), e El de-sarollo de la historiografía jurídica indiana (1953), tutti ripubblicati in A. García Gallo,

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la centralità e l’importanza nella disciplina di Rafael Altamira e soprat-tutto di Ricardo Levene, anche egli come Hinojosa in Spagna “maestro de todos”, le aperture alla storia, alla sociologia, alla politica che carat-terizzavano l’approccio dei due studiosi avevano pregiudicato inesora-bilmente anche l’oggetto dei loro stessi studi. Mancava in essi, secondo García Gallo, il senso giuridico, il riconoscimento della centralità del momento giuridico, la volontà di studiarlo “con espíritu y técnica de ju-ristas”20. “La vocación histórica o sociológica de la mayor parte de los cul-tivadores estudiosos de la Historia del derecho indiano les lleva a atender a los fenómenos sociales con olvido de los propiamente jurídicos y a no valorar estos en su propio alcance sino con criterio extraño al derecho. La construcción dogmática, que constituye la tarea principal de los juristas científicos – se ocupen del derecho romano, medie- val o del actual – apenas se ha intentado. [...] El estudio dogmático perfectamente compa-tible con el histórico del derecho indiano, tarea que incumbe a los juri-stas y no a los historiadores está sin hacer [...]. La Historia del Derecho debe ser para el jurista un modo de conocer el Derecho, y no la Historia o la sociología. Por ello ha de estudiarse con orientación, espíritu y técni-ca jurídica”21.

Lo storico del diritto indiano era dunque tenuto ad impegnarsi per riscoprire la sua identità e quella della sua disciplina, e a contribuire alla formazione di una coscienza nazionale attraverso la ricostruzione della storia del proprio “diritto positivo nazionale”. Poiché anche il diritto aveva una sua identità era necessario leggerlo nella sua evolu-

Estudios de historia del derecho indiano, Madrid, 1972, rispettivamente, 169-285; 37-62 e 11-35. Negli anni successivi ritornò spesso a trattare problemi a carattere metodolo-gico, ribadendo le tesi già espresse o precisando le sue posizioni. Particolarmente utile Problemas metodológicos de la historia del derecho indiano (1967), sempre in Estudios, 63-119; Metodología de la historia del derecho indiano, Santiago del Chile, 1971; Bases para una programación de la enseñanza de la historia del derecho y en especial de la del derecho indiano (1972), in Id., Los origines españoles de las instituciones americanas, Madrid, 1987,1069-1102.

20 A. Garciá Gallo, Problemas metodológicos cit., 112. Ma già in Hinojosa y su obra, cit., CX, egli aveva ricordato che “le preoccupazioni sociologiche” di Altamira “relegavano il diritto in secondo piano” e che “non era un ricercatore del tipo di Hi-nojosa”. A questo proposito scrive J. Vallejo, La secuela de Hinojosa y las cuestiones de Altamira, cit., 778, “Un investigador del tipo de Hinojosa de García Gallo es lo que Al-tamira claramente no era. No es que relegase Altamira lo jurídico a un segundo plano, sino que defendía una posición metodológica que entendía que hacer la historia del dere-cho implicaba bastante más que hacer la historia, estrictamente del Derecho; y no se tra-taba entonces de hacer sociología, sino de seguir haciendo historia del Derecho sin perder de vista sus manifestaciones y condicionantes más diversos”.

21 A. Garciá Gallo, Panorama actual de los estudios de historia del derecho indiano, cit., 55 e ss. García Gallo ribadì queste posizioni diciannove anni dopo in Problemas metodológicos de la historia del derecho indiano, cit., 112.

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zione, dimenticando le preoccupazioni storiche e sociologiche, e com-primendo l’attenzione predominante per gli aspetti politici, sociali, economici22. Di conseguenza anche la storia del diritto indiano, troppo a lungo affidata solo agli storici e lontana dalle attenzioni dei giuristi, doveva essere considerata una disciplina scientifica, in quanto il diritto che ne era oggetto, più che semplice tecnica, era vera scienza. Un sa-pere neutrale e avalutativo in grado di tradurre in leggi e concetti giu-ridici valori generali, la cui legittimità si fondava sulla distanza che lo separava dal mondo violento della politica e degli scontri socioecono-mici e sulla capacità di costruirsi e rappresentarsi come un sistema unico, chiuso e autoreferenziale, in grado di trovare in sé la ragione immanente della propria verità.

Il derecho indiano era dunque essenzialmente un sistema legislati-vo23.

In un organismo territoriale che, al pari di quanto accadeva nella Francia del XVI secolo, assumeva forme statali e in cui i principali teo-logi, giuristi e pensatori politici partecipavano attivamente al processo di centralizzazione assolutistica e burocratica, la legge sembrava lo strumento più adatto per realizzare la volontà del sovrano, rinnovan-done la centralità e, nello stesso tempo, il segno più chiaro di una nuo-vo anelito civilizzatore24. Da un lato quindi la tensione giuspositivistica

22 A. Garciá Gallo, Problemas metodológicos de la historia del derecho indiano, cit.,

107-119. Il passo citato è tratto da Id., Bases para una programación, cit., 1078. Posi-zioni ribadite nel 1974 recensendo Apologia della storia giuridica (1973) di Bruno Pa-radisi e criticando le aperture metodologiche in essa contenute, Cuestiones de historio-grafía jurídica, in Anuario de historia del derecho español, 47 (1977), 741-752; una let-tura comparata delle posizioni metodologiche di García Gallo e Paradisi in Á. D’Ors, Sobre historiografía jurídica, in Anuario de historia del derecho español, 47 (1977), 799-811.

23 Nelle Indie il concetto di legge dopo essere stato identificato inizialmente con le disposizioni normative in vigore nel Regno di Castiglia ed estese automaticamente ol-treoceano, si dilatò fino ad assorbire, negli anni immediatamente successivi alla Con-quista, sia le ordenanzas, le cedolas, le reales provisiones, le instrucciones e le cartas emanate con carattere generale per tutti i territori d’oltre Oceano, sia quelle indirizza-te ad una provincia o ad un luogo determinato. In entrambi i casi, per García Gallo, i provvedimenti indiani costituivano un diritto speciale posto al vertice di una scala ge-rarchica delle fonti che poteva essere integrato, in un sistema unico, da un diritto ca-stigliano dal carattere sussidiario, definito generale o comune A. Garciá Gallo, La ley como fuente del derecho en Indias en el siglo XVI, cit. 169-285; Id. Problemas metodo-lógicos de la historia del derecho indiano, 63-119; su questo tema s. V. Tau Anzoátegui, La noción de la ley en America Hispana durante los siglos XVI a XVIII, in Id., La ley en Hispanoamerica, Buenos Aires, 1992, 27-65.

24 H. Pietschmann, Staat und staatliche Entwicklung am Beginn der spanische Ko-lonization Amerikas, Müster, 1980. In una storiografia giuridica italiana poco attenta al rapporto tra diritto e politica nel cinquecento spagnolo, V. Piano Mortari, Il pensiero

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e le aspirazioni statualistiche introducevano un paradigma legale fun-zionale ad una rilettura in chiave unitaria di ogni discorso sul potere e sui soggetti politici anche non istituzionali attivi nelle Indie.

D’altro lato la dimensione legalistica in cui veniva assorbita la Conquista consentiva alla storiografia di introdurre una frattura tra le aspirazioni della monarchia per la difesa dei diritti dei nativi, la sua at-tenzione costante per la loro evangelizzazione e la violenza della realtà indiana. Le leggi di Burgos e Valladolid, le Leyes Nuevas, le Ordenan-zas del 1573, solo per citare alcuni degli esempi più noti, traducevano le preoccupazioni religiose dei sovrani, riflettevano l’impegno assunto da Ferdinando e Isabella con Alessandro VI, e poi ribadito sia da Car-lo V sia da Filippo II, e davano avvio ad un circuito virtuoso tra tre po-li: le cancellerie imperiali e i giuristi della Corona, le aule e i teologi di Salamanca, i territori e le popolazioni indiane. Aspirazioni cristiane, ragionamenti politici e logiche giuridiche concorrevano nel definire il loro status, permettendo ancora negli anni settanta, a Morales Padrón di vedere nelle leggi di Burgos “el primer cuerpo básico del estatuto in-digena”, e a García Gallo di giustificare la coesistenza, in questo corpo normativo fondamentale, del riconoscimento dell’umanità e della li-bertà dell’indigeno con il mantenimento del sistema dell’encomienda25.

3. Alla ricerca dell’identità: Francesco Calasso e il sistema del ius commune

La costruzione di un’identità giuridica nazionale e il progetto di

rinnovamento metodologico della storia del diritto perseguiti da Gar-cía Gallo imponevano dunque il recupero e l’esaltazione dei profili istituzionali e dell’attività legislativa svolta dai sovrani di Castiglia. Per il raggiungimento di questi obiettivi era necessario però procedere an-che ad un profondo ripensamento del ruolo svolto dal diritto romano in Spagna e della sua eredità.

La Spagna franchista imponeva una storia (anche giuridica) orgo-gliosamente differente da quella europea. Si trattava di una cristiana e nazionalista, incentrata sul primato della legislazione e dello Stato e in cui del ius commune si udiva soltanto l’eco. Attraverso la ley de las sie-tes partidas, la grande compilazione di Alfonso X del 1265, la tradizio-ne romanistica e canonistica era penetrata infatti anche nel regno di Castilla e da qui nelle Indie, ma piegata ad una precisa politica del di- politico dei giuristi del Rinascimento (1987), in Id., Itinera juris. Studi di storia giuridica di età moderna, Napoli, 1992, 215-363.

25 F. Morales Padrón, Teoria y leyes de la conquista, Madrid, 1979, 308-310; A. García Gallo, La condición juridica del indio (1977), in Id., Los origines, cit., 755-756.

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ritto rivolta all’unificazione territoriale e combinata con diritti ed usi locali, era divenuta un diritto comune dal carattere nazionale.

In Spagna, sostenne García Gallo in una conferenza tenuta a Roma alla metà degli anni ’50 e pubblicata nella Revista de estudios politicos, il diritto comune era entrato in crisi per la prima volta, lasciando emergere la sua incapacità nell’offrire risposte appropriate alle nuove esigenze. L’esperienza americana ne aveva poi svelato impietosamente l’inadeguatezza26. I suoi principi, continuava, furono utilizzati per in-corporare le Indie alla Corona di Castiglia e per definire i titoli giuridi-ci che ne legittimassero il dominio. Ma quando raggiunsero le coste indiane attraverso il Requerimiento la loro debolezza divenne palese e fu sufficiente la sprezzante risposta di due caciques del Cenú per met-tere in discussione l’intero sistema27.

Come narra Fernandéz de Oviedo, al termine della lettura del do-cumento i due indigeni negarono la validità della donazione di Ales-sandro VI e, di conseguenza, la legittimità del dominio rivendicato dai sovrani spagnoli, ribadendo al contrario i loro diritti su quelle terre. García Gallo li immaginò e ce li rappresentò “firmes en sus conviccio-nes jurídicas”, e ritenne la loro risposta “consciente y concluyente: la va-lidez del derecho común fue rechazada y a él opuso el propio derecho indígena”. Le conseguenze di quel gesto sarebbero state enormi. “Por primera vez se negaba al derecho común su vigencia universal y se le re-chazaba en la resolución de los problemas del Nuevo Mundo”28.

Nelle foreste umide del Cenú, e per un pubblico, come quello ita-liano, con poca famigliarità con le Indie, García Gallo, dunque, mise in scena la fine ingloriosa di un sapere giuridico universale, carico di trionfi in Europa, ma nello stesso tempo sottolineò che le insufficienze del diritto comune avevano anche determinato una salutare “reazione spagnola”. E le risposte, questa volta adeguate, non si erano fatte at-tendere. Sul piano dottrinale Francisco de Vitoria aveva sostituito il diritto comune con il “sistema” del ius gentium e sul piano legislativo la Corona aveva emanato un’imponente legislazione, ispirata dalle ten-

26 A. García Gallo, El derecho común ante el Nuevo Mundo (1955), in Id., Estudios

de historia del derecho indiano, cit., 147-66. La Revista de estudios politicos, di cui Gal-lo nel corso degli anni cinquanta fu un assiduo collaboratore, era stata l’organo di espressione dell’Instituto de estudios politicos, fondato nel 1939 sul modello del-l’Istituto italiano di cultura e laboratorio ideologico del regime.

27 Anche il Requerimiento presentava un carattere statale. Scrive infatti A. García Gallo, in El derecho común ante el Nuevo Mundo, 157 che “este Requerimiento, pleno de amenazas a quien lo aceptase, tampoco era distinto del que cualquier Gobierno actual, antes de emplezar la fuerza, hace a cualquier grupo de sediciosos para que acaten el poder establecido”; sulle strategie discorsive del Requerimiento v. L. Nuzzo, Il linguaggio giu-ridico della Conquista. Strategie di controllo nelle Indie spagnole, Napoli, 2004, 13-85.

28 A. García Gallo, El derecho común ante el Nuevo Mundo, cit. 158.

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sioni sistematiche e dalle aspirazioni cristiane del vecchio diritto co-mune, che ne aveva positivizzato la memoria e neutralizzato gli aspetti più odiosi attraverso il riconoscimento dei principi di libertà e di indi-pendenza delle popolazione autoctone.

Non so se quel giorno fosse stato invitato ad assistere alla lezione di García Gallo anche Francesco Calasso, storico del diritto e preside della facoltà giuridica della Sapienza e che cosa avrebbe potuto pensa-re sia delle critiche che il giurista spagnolo riservava alla tradizione del diritto comune, sia dei ‘prestiti’ e dalle influenze da cui non era riusci-to a sfuggire.

Nonostante infatti il suo progetto di rinnovamento metodologico imponesse il ridimensionamento del ruolo svolto dal diritto comune o presupponesse la sua completa nazionalizzazione, esso non poteva prescindere proprio dall’idea di sistema che Francesco Calasso aveva impiegato per attribuire carattere scientifico all’esperienza giuridica medievale e per ricomporre in un quadro unitario il diritto romano canonico e diritti particolari.

Le differenze certo non erano di poco conto. La costruzione teori-ca di García Gallo, semplicisticamente fondata sul binomio leggi e na-zione, era lontana dalla raffinata dottrina del giurista italiano. Entram-bi, tuttavia, condividevano l’obiettivo di ridefinire l’identità della di-sciplina e utilizzare la storia del diritto come strumento per la costru-zione di una identità giuridica nazionale. La proposta storiografica di Calasso imponeva il recupero della storicità del diritto medievale e la ricostruzione del tessuto di relazioni economiche, politiche, sociali in cui erano immersi i testi giuridici e i loro autori. Non era più il tempo per una storia del diritto romano nel medioevo, per riproporre vecchie contrapposizioni tra romanisti e germanisti (o italianisti) o per sterili esercizi di ricostruzione dogmatica. Nel medioevo infatti “uno spirito nuovo” si era ormai impossessato del vecchio corpo del diritto roma-no, vi aveva infuso nuove energie e ne aveva determinato una trasfor-mazione profonda, riunendolo “alla propria esperienza” “alle proprie istanze” e “rivivendolo ed esaltandolo come norma del proprio opera-re”29. Il diritto comune, e non più il diritto romano, era la cifra dell’esperienza giuridica medievale e gli storici del diritto italiano i suoi autorizzati cantori. Non si trattava solo di un problema disciplina-re o di una battaglia accademica tesa ad ottenere un maggiore spazio per la storia del diritto italiano nelle facoltà giuridiche. Interrogarsi sulla storicità del diritto comune significava infatti riflettere

29 F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano,1954, 33; Id., Il problema storico del di-

ritto comune (1939), in Introduzione al diritto comune, Milano, 1951; E. Conte, Diritto comune, Bologna, 2009, 27-32.

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sull’esistenza stessa di un diritto italiano svincolato dallo stato italiano, riconoscere un’identità giuridica italiana già prima dell’unificazione nazionale30.

Seguendo la teoria istituzionalistica di Santi Romano, Calasso iden-tificava il diritto con l’ordinamento giuridico e ne sosteneva la plurali-tà. “La constatazione della pluralità, però, come ha scritto Pietro Co-sta, non era per Calasso la conclusione dell’indagine, ma la sua pre-messa; serviva a porre correttamente un problema, che per Calasso è il problema rispetto al quale le considerazioni ‘istituzionalistiche’ sono strumentali: questo problema è il problema dell’unità”31. La costruzio-ne di una storia giuridica nazionale imponeva infatti la ricomposizione della pluralità all’interno di un ordinamento unitario. Il ius commune riuniva le storie in un’unica grande storia italiana e appariva ai suoi oc-chi un ordinamento di ordinamenti. Nello stesso tempo tuttavia l’idealismo crociano e la stessa teoria di Romano non gli permettevano di liberarsi dalle immagini di Stato e di legge e lo conducevano consi-derare il sistema del diritto comune un sistema legislativo, o per lo meno a ritenere prevalente la componente legislativa32. La storia del diritto comune era allora la “storia di questo sistema unitario, e non soltanto del diritto romano comune, e meno ancora della scienza del diritto o della giurisprudenza. Chè infatti, scienza e giurisprudenza fu-rono l’organo potentissimo della evoluzione del sistema: ma essendo questo un sistema legislativo, la posizione dommatica dell’attività del giurista o del giudice vi rimase sempre ed esclusivamente quella di at-tività interpretativa, sul fondamento logico e giuridico, e quindi con tutte le norme e i limiti che ogni attività interpretativa può avere in un sistema legislativo”33.

Calasso, dunque, aveva colto la storicità del diritto medievale e ne aveva sottolineato la specificità rispetto al diritto romano opponendo-

30 A. Iglesia Ferreirós, Calasso hoy. Una experiencia hispana, in Excerptiones iuris:

studies in honor of André Gouron (a cura di Bernard Durand and Laurent Mayali), Berkeley, 2000, 323-352.

31 P. Costa, ‘Ius commune’, ‘ius proprium’, ‘interpretatio doctorum’: ipotesi per una discussione, in El dret comú i Catalunya. Actes del IV Simposi Internacional. Homenatge al professor Josep M. Gay Escoda (a cura di A. Iglesia Ferreirós), Barcelona, 1999, 29-42. Rimane fondamentale il saggio di B. Paradisi, Il problema del diritto comune nella dottrina di Francesco Calasso, in Il diritto comune e la tradizione giuridica europea, Pe-rugia, 169-300.

32 B. Paradisi, Il problema del diritto comune nella dottrina di Francesco Calasso, cit., 217 ss.

33 F. Calasso, Il problema storico del diritto comune, cit., 129; v. altresì F. Calasso, Il diritto comune come fatto spirituale (1948, ma 1946), sempre in Id., Introduzione al diritto comune, cit., 137-180. Utilizza il passo sopracitato P. Costa, ‘Ius commune’, ‘ius proprium’, ‘interpretatio doctorum’: ipotesi per una discussione, cit., 38.

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si, prima, agli approcci dogmatici della pandettistica e poi ai rigurgiti neopandettisti degli anni cinquanta, ma per trasformare quel ‘nuovo’ diritto in un sapere scientifico e in uno strumento di legittimazione di una disciplina in cerca di riscatto nell’accademia europea, aveva biso-gno di recuperare da Savigny la nozione di sistema. Del sistema anche per Calasso non era possibile fare a meno. Indipendentemente infatti dalla sua connotazione, legislativa o anche dottrinale, esso non veniva identificato con un principio logico necessario per l’esposizione e l’organizzazione degli argomenti, o con un prodotto storico, funziona-le ad un preciso progetto politico giuridico. Al contrario esso era da un lato un principio costitutivo del diritto e da esso non si sarebbe po-tuto prescindere pena la perdita di scientificità e di verità del proprio discorso e del proprio oggetto; dall’altro esso era un modello interpre-tativo in grado di selezionare gli eterogenei materiali normativi che avrebbe dovuto coordinare e capace di costruire la realtà che era chiamato a descrivere34.

Nel 1951, nello stesso anno in cui alcuni dei lavori fondamentali che Calasso aveva dedicato al problema del diritto comune nel corso degli anni Trenta vennero raccolti in un volume dal titolo Introduzione al diritto comune, apparve nel Anuario de Historia del derecho español, un saggio di García Gallo sul concetto di legge e sul suo ruolo nel si-stema delle fonti nelle Indie del XVI. Allo studioso spagnolo non sfuggi la novità editoriale italiana, non mancò di citarla e di indicarla ai suoi allievi come una lettura fondamentale35. Per la costruzione di un concetto unitario e scientifico di derecho indiano quelle pagine gli era-no necessarie, fornivano l’intelaiatura concettuale per tenere insieme il vecchio diritto castigliano esteso nelle Indie e il nuovo diritto emanato appositamente per i territori d’oltre oceano. In una rappresentazione che non aveva bisogno del diritto comune né come diritto romano, perché già nazionalizzato, né come diritto prodotto dall’interpret-azione dei giuristi, perché proprio Calasso aveva provveduto a svilirne la dimensione creativa, e che si era liberata sia della storicità sia della spiritualità nelle quali invece lo storico leccese lo aveva immerso poi-ché ogni tensione storica e religiosa era stata già selezionata e positiviz-zata, rimanevano uno di fronte all’altro solo due ordinamenti normati-

34 A. Mazzacane, Methode und System in der deutschen Jurisprudenz des 16. Jahr-

hundert, in Jan Schröder (a cura di), Entwicklung der Methodenlehre in Rechtswissen-schaft und Philosophie vom 16. bis zum 18. Jahrhundert. Beiträge zu einem interdiszi-plinären Symposion in Tübingen, 18-20 April 1996, 1998, 127-136.

35 “El primer libro que me hizo leer fue el Medioevo del diritto de Calasso” sottoli-nea Gustavo Villapalos nel ricordare i primi insegnamenti impartitigli da García Gal-lo, Memoria de un maestro, in Libro Homenaje al Prof. Alfonso García Gallo, versione on line.

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vi, il castigliano e l’indiano, e con essi il ‘vecchio’ problema del-l’unità36.

La soluzione allora era in quelle pagine, nell’idea di sistema che es-se teorizzavano e in quella di stato che ancora evocavano. Leggi casti-gliane e leggi indiane, al pari del ius commune e del ius proprium costi-tuivano gli elementi che, all’interno di una cornice statuale, una ten-sione dialettica tra generale e particolare, tra comune e speciale poteva legare intrinsecamente ed organicamente in un sistema unitario37.

La fine del regime e il superamento dell’approccio nazionalista che caratterizzò la storiografia giuridica spagnola permisero, prima, la ri-scoperta del diritto comune e, poi, la sua proiezione nelle Indie, im-maginando anche al di là dell’Oceano un’entità sistemica unitaria, or-ganicamente costruita ed incentrata, al pari di quanto sembrava avve-nire nella respublica christiana, sul rapporto dialettico generale e parti-colare. Tuttavia prima di seguire il ius commune nel suo viaggio tran-soceanico, è opportuno soffermarci ancora sulle novità editoriali ap-parse in Europa all’inizio degli anni cinquanta. Mentre Calasso infatti, riscriveva la storia giuridica medievale attraverso il concetto di diritto comune e García Gallo inglobava le Indie all’interno di un sistema le-gislativo, cristiano e nazionalista, Carl Schmitt pubblicò Il nomos della terra38. Riprendendo i temi internazionalistici e l’approccio spaziale al-la politica su cui aveva cominciato a lavorare a partire dalla metà degli anni venti del novecento, ma senza la carica polemica dei primi lavo-ri39, il giurista tedesco tracciava la storia dello jus publicum europaeum

36 Sul rapporto tra Calasso e la cultura filosofica di matrice idealista R. Ajello, Il

collasso di Astrea. Ambiguità della storiografia giuridica italiana medievale e moderna, Napoli, 2002, 118 ss., 400 ss.; da altra prospettiva anche A. Iglesia Ferreirós, Ius com-mune: un interrogante y un adiós, in El drét comú i catalunya (a cura di Id.), VIII Sim-posi, Barcellona, 1999, 489-508, insiste sul problema dell’unità.

37 A. García Gallo, La ley como fuente del derecho en Indias en el siglo XVI; Id, Metodológia de la historia del derecho indiano, cit., 177: “el ordenamiento juridíco no es tan sólo un conjunto de normas, sino uno auténtico sistema regido por principios y desar-rollado de modo armónico”.

38 C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum eu-ropaeum”, Milano, 1991.

39 S. in particolare C. Schmitt, Der ‘status quo’ und der Friede (1925), in Id., Posi-tionen und Begriffe im Kampf mit Weimar, Genf, Versailles, Hamburg, 1940, 33-42; Id., Die Kernfrage des Völkerbundes (1926), in Id., Frieden oder Pazifismus? Arbeiten zum Völkerrecht und zur internationalen Politik 1924-1978, a cura di G. Maschke, Ber-lin, 2005, 73-128. L’interesse di Schmitt verso il diritto internazionale aumentò nel corso degli anni Trenta cfr. i saggi raccolti in G. Manschke (a cura di), Staat, Gros-sraum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 1916-1969, Berlin, 1995; sul significato di Grossraum in Schmitt cfr. M. Schmöckel, Die Grossraumtheorie. Ein Beitrag zur Ge-schichte der Völkerrechtswissenschaft im Dritten Reich, insbesondere der Kriegzeit, Ber-lin, 1994, 124 ss.; A. Carty, Carl Schmitt’s critique of Liberal International Legal Order

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dalle sue origini avventurose fino alla sua dissoluzione. La storia di Schmitt raccontava l’identità perduta dell’Europa sotto i colpi del formalismo kelseniano e dell’universalismo giuridico ma esprimeva an-che, nel rapporto tra Ordnung e Ortnung che assumeva come archeti-po narrativo, l’auspicio di nuove linee di amicizia e con esse di un nuovo nomos e di un nuovo processo di suddivisione spaziale.

Le rivendicazioni americane di un nuovo emisfero occidentale, l’equiparazione tra territori coloniali e territori metropolitani, il pas-saggio da un diritto e un ordine europeo ad un diritto e un ordine mondiale sancito dalla conferenza di pace di Parigi e dalla Lega di Gi-nevra, il ritorno ad un concetto discriminatorio di guerra e all’iden-tificazione premoderna del nemico con criminale avevano determinato la dissoluzione del sistema politico-giuridico su cui si erano rette le re-lazioni europee per quattrocento anni. Esso aveva avuto negli stati ter-ritoriali i suoi protagonisti e nella scoperta del nuovo mondo il suo presupposto. I viaggi di Colombo avevano permesso all’Europa di ve-nire a conoscenza di uno spazio libero e immenso pronto per essere testualizzato ed occupato. Le Bolle di Alessandro VI furono lo stru-mento per raggiungere questi obiettivi: ricondussero i territori ameri-cani e l’Oceano all’interno di un testo giuridico, ne permisero l’occupazione da parte della Spagna e del Portogallo e individuarono, con gli atti di presa di possesso e di distribuzione delle terre, un “ordi-namento concreto”, fissarono cioè un principio fondativo in grado di organizzare le comunità politiche e di giustificare la positività del dirit-to40. Come è noto il pontefice concesse le nuove terre ai sovrani di Ca-stiglia affinché diffondessero la parola di Cristo e avvicinassero gli in-digeni alla religione cattolica, costituendo così in capo a Ferdinando e Isabella un pesante obbligo morale e un valido titolo giuridico che le-gittimava la presenza spagnola nei confronti dei nativi come delle altre potenze europee. Con un secondo provvedimento poi aveva definito l’ambito spaziale del dominio spagnolo. Una linea che correva dal polo nord al polo sud cento miglia ad ovest delle isole Azzorre individuò infatti due distinte zone di espansione, riservate una (ad ovest della li-

between 1933 and 1945, in Leiden International Journal, 14 (2001), 25-36; sul rapporto tra geopolitica e dottrina dei grandi spazi di Schmitt v. M. G. Losano, La geopolitica del Novecento. Dai Grandi spazi delle dittature alla decolonizzazione, Milano, 2010, 59 ss; v. sempre C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero poli-tico moderno (1996), Bologna, 2010, 864-77.

40 C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum eu-ropaeum”, cit., 81 ss.; v. anche Id., Nehmen, Teilen, Weiden. Ein Versuch, die Grund-fragen jeder Sozial- und Wirtschaftsordnung vom Nomos her richtig zu stellen, in Ge-meinschaft und Politik. Zeitschrift für soziale und politische Gestaltung 1,3 (1953), 18-27 (trad. it. Le categorie del politico, Bologna,1972, 295-312).

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nea) agli spagnoli, l’altra (a est della stessa linea) ai portoghesi, e allo stesso tempo localizzò la spazialità vuota e non qualificata delle Indie e dell’Oceano attraverso l’opposizione a quella piena e articolata della romanità cristiana.

Di quello spazio vuoto l’Europa aveva bisogno per la sua stessa esistenza. “La civiltà europea – ha scritto Carlo Galli – esiste solo per-ché è in grado di impossessarsi del nuovo mondo, di occuparlo, di spartirlo, e di confinare là – nello spazio del non Stato – l’inimicizia assoluta, la limitazione della guerra nell’Europa degli Stati, che si rico-noscono l’un l’altro come hostes aequaliter justi; è resa possibile dalle guerre illimitate condotte contro i nativi in America (ma anche in Asia e in Africa) e anche fra le potenze europee tra di loro, fuori dal conti-nente europeo”41. Per la definizione del nuovo Nomos della terra le ra-yas di Alessandro VI però non erano sufficienti. Tracciate sull’Oceano esse ne ignoravano la diversità, avevano una funzione semplicemente distributiva e continuando a riconoscere al pontefice un’autorità so-vraordinata comune affermavano ancora l’unità della respublica chri-stiana.

L’emersione di un nuovo ordine richiedeva invece una vera e pro-pria rivoluzione spaziale. Imponeva il superamento di quella unità. Per Schmitt ciò fu possibile solo con la discesa in campo dell’Inghilterra, “l’isola che si fece pesce”, e grazie alla spinta di una nuova il calvini-smo42. Le amity lines, le linee di amicizia franco inglese comparse per la prima volta in una clausola segreta del trattato di Cateau Cambresis, sancirono definitivamente la scomparsa di un mondo e definirono la struttura del diritto internazionale europeo. Esse affermarono l’esi-stenza di due spazialità ormai contrapposte: una, la terra europea, re-gno del diritto e della pace, e l’altra, l’Oceano e i territori ancora ignoti al di là del mare, libere dal diritto e dall’efficacia dei trattati interna-zionali, veri e propri permanenti teatri di guerra nei quali sfogare le pulsioni belliche e coloniali dell’Occidente. Beyond the line ora tutto diveniva possibile. Oltre la linea non ci poteva essere pace e gli accordi stipulati tra le potenze europee erano privi di ogni efficacia43.

41 C. Galli, Lo sguardo di Giano. Schmitt e l’età globale, Bologna, 140; Id., Genea-

logia della politica, Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, cit., 877-889. 42 C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Milano, 2002,

85. 43 Una sintesi del dibattito storiografico in A. Cassi, Ius commune tra vecchio e

nuovo mondo. Mari, terre oro nel diritto della conquista (1492-1680), Milano, 2004, 102-114; cfr. anche L. Nuzzo, Il linguaggio giuridico della conquista. Strategie di con-trollo nelle Indie spagnole , 87 ss.; F. Ruschi, Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt, in Quaderni fiorentini, 2004-2005, 407 ss.

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Quattrocento anni dopo la dissoluzione dello ius pubblicum euro-peum e la crisi profonda dei soggetti politici su cui esso si era fondato imponevano la ricerca di un nuovo nomos. La prospettiva, tuttavia, rimaneva quella spaziale. In una conferenza dal titolo La unidad del mundo, tenuta in Spagna ancora una volta nel fatico 1951, Schmitt au-spicava l’avvento di una “tercera fuerza” – l’India, l’Europa, il Com-monwealth britannico, il mondo ispanico, il blocco arabo o un’altra forza ancora non individuata – che rompendo il dualismo “inquietan-te” Est/Ovest, comunismo/capitalismo aprisse nuove prospettive ma-crospaziali e con esse rendesse possibile l’individuazione di un princi-pio per il loro riequilibrio e la definizione di un nuovo diritto interna-zionale44.

Un diritto nuovo ma con chiare analogie con “il diritto delle genti europeo dei secoli diciotto e diciannove”. Anche quest’ultimo, infatti, “se basaba en un equilibrio de potencias, gracias al cual se conservaba su estructura. Tambien el ius publicum europaeum implicaba una unidad del mundo. Era una unidad Europeocéntrica, no era el poder político centralista de un único dueño de este mundo, sino una formación plura-lista y un equilibrio de varias fuerzas”45.

Per ricomporre l’unità del mondo, tuttavia, era necessaria anche una nuova filosofia della storia intimamente cristiana che, come un nuovo katechon, superasse il dualismo tra la filosofia della storia mar-xista e il debole relativismo storico occidentale fondato sulla fede del progresso e della tecnica e offrisse, attraverso “irrupción concreta de lo eterno en el tiempo”, una risposta ferma all’avanzata del materialismo dialettico46.

La Spagna franchista era lo spazio geografico e spirituale dal quale partire per ricostruire l’identità europea e raggiungere questi due im-pegnativi obiettivi. Tutto aveva avuto inizio in Spagna e tutto dalla Spagna sarebbe potuto ricominciare. La conquista spagnola del nuovo mondo e la riflessione di Francisco de Vitoria avevano portato alla fondazione scientifica e culturale di un nuovo diritto delle genti, pro-ducendo il primo cambio di struttura del diritto internazionale47. Do-po la fine della seconda guerra mondiale in un’Europa confusa e stret-

44 C. Schmitt, La unidad del Mundo, in Anales de la Universidad de Murcia, 9

(1950-1951), 347 (ed. it. La unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, In-troduzione e nota bibliografica di A. Campi, Roma, 1994, 303-321).

45 Ivi, 348. 46 Ivi, 354; v. anche C. Schmitt, Drei Möglichkeiten eines christliche Geschichtbil-

des, in Universitas, 8 (1950), 927-931 (ed. it. Tre possibilità di una immagine cristiana della storia, in Id., Carl Schmitt. Un giurista davanti se stesso, Vicenza, 249-254).

47 C. Schmitt, Cambio de estructura del derecho internacional, Madrid, 1943, (ed. it. Cambio di struttura nel diritto internazionale, in Id., L’unità del mondo, 271-298).

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ta tra imperialismo economico di matrice anglosassone e totalitarismo comunista la Spagna nazionalista cattolica e ultraconservatrice di Franco appariva a Schmitt l’ultimo baluardo. “È una coincidenza si-gnificativa – scrisse Schmitt in una conferenza tenuta a Madrid nel 1962 presso l’Instituto de estudios politicos di Madrid in occasione del-la sua nomina a membro onorario – che lo slancio sincero della ricerca mi abbia sempre condotto verso la Spagna. Vedo in quest’incontro quasi provvidenziale una prova in più del fatto che la guerra di libera-zione nazionale in Spagna rappresenta una pietra di paragone. Nella lotta mondiale che si combatte oggi essa è stata la prima nazione a vin-cere con la propria forza e in maniera tale che ora tutte le nazioni non comuniste devono legittimarsi davanti alla Spagna sotto questo aspet-to”48.

Anche la Spagna ricambiò l’interesse che Schmitt dichiarava aver-gli sempre manifestato49.

Alla fine degli anni Venti Schmitt tenne la sua prima conferenza in spagnolo e cominciarono apparire le prime traduzioni dei suoi testi. Dieci anni più tardi la presa del potere da parte di Franco e la necessi-tà di una più salda legittimazione teorica del regime fecero di Schmitt una presenza costante nel dibattito politico e giuridico spagnolo50.

La storiografia ha ricostruito i rapporti tra Schmitt e la Spagna e ha evidenziato la recezione e gli utilizzi della teoria giuridica di Schmitt nella penisola iberica51. Recentemente Ignacio de la Rasilla del Moral ha mostrato l’incidenza che ebbe la pubblicazione nel primo numero della Revista de estudios politicos dell’articolo di Schmitt sul concetto di impero nella rappresentazione di un nuovo ordine franchista e ha sottolineato efficacemente come attraverso il giurista tedesco passi “the endogamous linie of continuity” che dai teorici falangisti come

48 Il matrimonio di sua figlia Anima con Alfonso Varela Otero, storico del diritto

dell’Università di Santiago de Compostela, rafforzò ulteriormente il suo legame perso-nale con la Spagna, cfr. R. Mehring, Carl Schmitt. Aufstieg und Fall. Eine Biographie, München, 2009, 509-10.

49 Oltre alla stretta relazione di amicizia con Alvaro d’Ors, testimoniata da un ric-co carteggio, M. Herrero, Carl Schmitt und Álvaro d’Ors Briefwechsel, Berlín, 2004. I rapporti di Schmitt con l’accademia spagnola sono attestati da P. Becchi, El Nachlass schmittiano. El legado de Carl Schmitt en el Archivo estatal de Dusseldorf, in Revista de estudios politicos, 100 (1998), 185, n. 14.

50 La conferenza fu tenuta nel 1929 nel Centro de Intercambio Intelectual Germa-no-Hispano di Madrid e dedicata a Donoso Cortes.

51 V. in particolare J. M. Beyneto, Politische Theologie als politische Theorie. Eine Untersuchung zur Rechts- und Staatstheorie Carl Schmitts und zu ihrer Wirkungsge-schichte in Spanien, Berlin, 1983; J. A. López García, La presencia de Carl Schmitt en España, in Revista de estuidos politicos, 91 (1996), 139-168.

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Legaz Lecambra e Francisco Conde arriva agli internazionalisti spa-gnoli del dopoguerra52.

In queste pagine però non intendo tuttavia ricordare le persistenze, ma evidenziare i silenzi. In Spagna Schmitt era un richiestissimo confe-renziere, i suoi testi ebbero traduzioni spagnole, i suoi scritti apparve-ro nella principale rivista del regime, la sua riflessione teorica giusin-ternazionalista assunse la conquista spagnola come punto di partenza dello ius publicum europaeum, Vitoria fu uno dei suoi protagonisti, uno storico del diritto Otero Varela suo genero, Álvaro d’Ors, il più importante romanista spagnolo ebbe con lui stretti rapporti d’amicizia, ma né gli storici del diritto indiano sembrarono conoscerlo né García Gallo lo degnò mai di una citazione53.

Perché ? Avanzo due ipotesi e lascio al lettore la scelta. Il silenzio potrebbe essere un frutto spontaneo del gretto naziona-

lismo della storiografia giuridica della spagna franchista poco interes-sata a ciò che accadeva fuori dai suoi confini e dal proprio recinto di-sciplinare, o dei limiti scientifici di quella stessa storiografia, incapace di comprendere appieno la forza e le potenzialità della costruzione di Schmitt. Altrimenti esso poteva essere la conseguenza di una precisa strategia storiografica indirizzata contro l’approccio antinormativista di Schmitt o la rilettura di Vitoria al di fuori degli stereotipi universali-stici, e indisponibile a riconoscere nella conquista e nella violenza del landnahme sia la cifra della presenza spagnola delle Indie sia l’avvio del processo costitutivo dell’intero diritto internazionale54.

4. Alla ricerca dell’identità: Victor Tau Anzoátegui e i nuovi orizzonti del diritto indiano

Negli anni settanta investita dalle trasformazioni sociali ed econo-

miche che attraversavano l’Europa, la storiografia giuridica cominciò ad interrogarsi sulla necessità di un profondo rinnovamento metodo-logico. Anche i giuristi spagnoli più sensibili presero parte a questo

52 I. de la Rasilla del Moral, The Zero Years of Spanish International Law, 1939-1953, in Les doctrines internationalistes durant les années du communisme réel en Eu-rope (a cura di E. Jouannet – I. Paris), Paris, 2012, in corso di pubblicazione. Ho avu-to la possibilità di leggere il testo grazia alla gentilezza del suo Autore.

53 Colpisce in particolare l’assenza di qualunque riferimento a Schmitt nel lavoro che García Gallo dedica alle bolle alessandrine nel 1958 e che si apre con una ricogni-zione bibliografica sull’argomento, Las bulas de Alejandro VI y el ordenamiento jurídi-co de la expansión portuguesa y castellana en Africa e Indias, in Anuario de Historia del derecho español, 27/28 (1957-1958), 467-76 (461-827).

54 Il Nomos sarà tradotto in spagnolo solo nel 1979, ma le linee portanti dell’opera appaiono già nelle conferenze ed articoli tradotti in spagnolo prima citati.

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dibattito55. Nel 1977 dalle pagine di una pubblicazione del Max Planck di Francoforte, i fratelli Peset, e, due anni dopo, da quelle dei Quaderni fiorentini, Bartolomé Calvero, sottoposero ad una dura cri-tica l’impostazione “istituzionale” di García Gallo e rivisitarono l’immagine della scuola di Hinojosa che egli aveva imposto. L’accento tornava a battere sulla dimensione storica del fenomeno giuridico, sul-le sue connessioni con la realtà sociale e la struttura economica e si in-dividuava proprio nell’esaltazione nazionalistica della diversità ispani-ca e nella dilatazione del momento legislativo le cause principali dei ritardi storiografici e dell’indifferenza verso un fenomeno europeo come quello del diritto comune e verso la storia costituzionale spagno-la del secolo XIX56. E se García Gallo ancora nel 1979 insisteva nel rimanere fedele ad una storia di tipo istituzionalistico ed attribuiva la poca attenzione dedicata al diritto comune in Spagna alla centralità della componente germanica del diritto altomedievale spagnolo57, po-co tempo dopo Francisco Tomás y Valiente, compì un altro passo im-portante nel processo di revisione della metodologia di García Gallo che egli stesso aveva iniziato cinque anni prima con un saggio il cui ti-tolo parafrasava quello della famosa conferenza romana di García Gal-lo. In esso Tomás y Valiente affermò che non solo non era possibile fare storia del diritto così come il professore castigliano aveva pensato nel 1952, ma anche che tutta “la direzione verso cui García Gallo ave-va orientato teoricamente la Storia del Diritto in Spagna, vista soprat-

55 J. M. Scholz, Zum Forschungsstand der neueren Rechtsgeschichte Spaniens und

Portugals, in Zeitschrift für neueren Rechtsgeschichte, 3 (1980), 164-187. 56 J. Luis, M. Peset, Vincent Vives y la historiografía del derecho en España, in Vor-

studien zur Rechtshistorik, Klostermann, Frankfurt am Main (a cura di J. M. Scholz), 235-243; M. Peset, Prólogo, in A. Pérez Martín – J. M. Scholz, Legislación y jurispru-dentia en la España de antiguo régimen, Valencia, 1978, VIII-XII; B. Clavero, Historia, ciencia, política del derecho, in Quaderni Fiorentini, 1979, 5-58. Già nella prima metà dei settanta si possono avvertire i primi segnali di un rinnovamento metodologico, v. per esempio B. Clavero, La historia del derecho ante la historia social, in Historia, Insti-tuciones, Documentos, 1 (1974), 241-26. La stessa rivista sivigliana Historia, Institucio-nes, Documentos che faceva capo a Martínez Gijón costitituì uno dei luoghi testuali dove la trattazione di problemi metodologici e di nuove tematiche potette essere af-frontata con una libertà forse non ancora possibile a Madrid nell’Anuario. Quasi vent’anni fa C. Petit, El segundo testimonio, la definì come “último recurso al alcance de disidentes”, in AA.VV., L’insegnamento della storia del diritto medievale moderno. Strumenti, destinatari, prospettive, Milano, 1993, 407.

57 A. García Gallo, El derecho local y el común en Cataluña, Valencia, Mallorca, in Diritto comune e diritti locali nella Storia d’Europa, Milano, 1980, 229-249; lievi aper-ture in due articoli successivi, Id., Notas sobre la dinámica del derecho, in Liber Amico-rum. Profesor Don Ignacio de la Concha, Oviedo, 1986, 247-251; Id., Historia del dere-cho y cultura, in Estudios jurídicos en homenaje al maestro Guillermo Floris Margadant, México, D.F., 1988, 155-161.

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tutto dalla triplice prospettiva del Manuale, dei suoi propri fondamen-ti e della globale caratterizzazione dell’Anuario, non sembrava convin-cente”58.

Nel 1986, poi, l’anno in cui la Spagna entrava in Europa, Helmut Coing presentò al I Simposio Internacional del Instituto de Derecho Común una relazione significativamente intitolata España y Europa, un pasado jurídico común in cui riconosceva la fine della diversità ispanica e la partecipazione anche della cultura giuridica spagnola alla storia europea. Il direttore del più prestigioso istituto europeo, il Max Planck Institut für europäische Rechtsgeschichte di Francoforte, gli permetteva di accedere alla memoria condivisa dell’antico diritto co-mune, e attestava il ruolo svolto dai teologi spagnoli del XVI secolo nel percorso verso l’edificazione del sistema giuridico e la trasforma-zione del diritto in scienza giuridica59. Certo, la storia raccontata dal direttore del Max Planck non era altro che “the old translatio studii with a few superficial patches to cover its nakedness, a few sops to the peddlers of unstable legal currency”60. Un’ennesima riprosizione in chiave germanocentrica del mito della storia del diritto europeo, che nasce in Italia, si sviluppa in Francia, si perfeziona in Olanda e si con-clude con il trionfo della pandettistica in Germania. Ma Coing, per i suoi ospiti spagnoli, vi introdusse una significativa variante: certificò l’esistenza del diritto comune nel patrimonio giuridico spagnolo, legit-timando il lavoro svolto negli ultimi anni dagli storici del diritto iberi-ci, e ammise all’interno del racconto i campioni della seconda scolasti-ca. Il diritto spagnolo era finalmente parte della storia giuridica del-l’Europa continentale.

Tre anni dopo, nel 1989, in un convegno organizzato dal Centro di studi per la storia del pensiero giuridico moderno, sotto la direzione di Paolo Grossi, la storiografia spagnola era pronta per calcare la “scena giuridica europea”, e si sottopose ad una sorta di psicoterapia di grup-po di fronte ai colleghi italiani61. Nella relazione introduttiva Tomás y

58 F. Tomàs y Valiente, Historia del derecho e historia (1976), in Id., Obras, vol.

VI, Madrid,1997, 3285-3298; ma dello stesso Autore e nello stesso anno, vedi anche La historiografía jurídica en la Europa continental (1960-1975), (1976, ma pubb. 1978), in Id., Obras, cit.,. 3397-3428. Il testo di Tomás y Valiente da cui si è estrapolato il passo citato è Nuevas orientaciones de la historia del derecho en España, in Id., Obras, vol. VI, 3640.

59 H. Coing, La contribución de las naciones europeas al derecho común, in A. Pérez Martín, España y Europa, un pasado jurídico común. Actas I Simposio Internacional del Instituto de Derecho Común, Murcia, 1986, 45-61.

60 D. J. Osler, The Myth of European Legal History, in Rechtshistorisches Journal, 16 (1997), 397-410.

61 B. Clavero – P. Grossi – F. T. Y Valiente (a cura di), Hispania. Entre derechos propios y derechos nacionales, Milano 1990, 2 voll. L’espressione tra virgolette è di P.

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Valiente portò a compimento il processo di rivisitazione metodologica delle posizioni concettuali di Gracía Gallo iniziato nel 1976, ed incrinò definitivamente la rappresentazione della scuola di Hinojosa che il maestro madrileno aveva diffuso, disvelando le manipolazioni ideolo-giche cui era stata sottoposta e arrivando sostanzialmente a mettere in discussione l’esistenza stessa di una scuola di Hinojsa e successivamen-te di García Gallo62. Non solo. Non era sfuggita agli organizzatori dell’incontro l’importanza di complicare le immagini di Hispania inda-gando le sue proiezioni giuridiche nei territori d’oltre Oceano. Si era affidato così alla sapienza di Victor Tau Anzoátegui il compito di illu-strare l’allora esoticissimo derecho indiano ed i suoi rapporti con il di-ritto castigliano e il diritto comune. E Tau Anzoátegui, attraverso il fil-tro della relazione murciana di Coing del 1986, prima citazione, so-stenne che fosse impossibile comprendere e descrivere il diritto comu-ne in Spagna “senza tenere in debito conto la sua espansione nello spazio atalantico”63. Dopo il diritto e i giuristi castigliani anche il dere-cho indiano e i suoi protagonisti chiedevano di far parte della storia giuridica europea. Vi era un “unico sistema giuridico di radice euro-pea continentale”, “un’unica unità di studio” in cui si integravano di-ritto comune, diritto castigliano, diritto indiano”. García Gallo conti-nuava ad ispirare le coordinate metodologiche e l’idea di un sistema con funzione centripeta ritornava anche nelle pagine di Tau Anzoáte-gui, ma l’oggetto di quelle coordinate e di quel sistema appariva dalla relazione del maestro argentino ben più complesso di quanto non lo fosse nei lavori del storico del diritto madrileno, o di chi negli stessi anni immaginava essersi riprodotta nelle Indie la medesima relazione sistemica europea tra diritto romano diritto canonico diritto particolari che Calasso aveva pensato di scorgere nell’Italia medievale, e utilizzava

Cappellini, Le Spagne del diritto, in Rivista di storia del diritto italiano, 1989, 505-517; cfr. anche la recensione di A. Serrano González, Hispania, despues de entonces, in Anuario de Historia del derecho español, 60 (1990), 633-654.

62 F. T. y Valiente, Escuelas e historiografía en la historia del Derecho español (1960-1985), in B. Clavero – P. Grossi – F. T. Y Valiente (a cura di), Hispania. Entre derechos propios y derechos nacionales, cit., 11-46; poi Id., Eduardo de Hinojosa y la historia del derecho en España, in Anuario de Historia del derecho español 63-64 (1993-1994), 65-88; cfr. l’intervento anche di un altro allievo di García Gallo, J. Sánchez Ar-cilla Bernal, Jacobus id quod ego. Los caminos de la ciencia jurídica, Madrid 2003, 7-19; 48-68.

63 V. Tau Anzoátegui, El derecho indiano en su relación con los derechos castellano y común, in B. Clavero – P. Grossi – F. T. Y Valiente (a cura di), Hispania. Entre dere-chos propios y derechos nacionales, cit., 572-591; cosi anche E. Martiré, El derecho in-diano, un Derecho proprio particular, in Revista de Historia del derecho, 29 (2001), 331-361; Id., Algo más sobre el derecho indiano, in Anuario de historia del derecho español, 73 (2003), 31-264.

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i valori cristiani del diritto comune per leggere l’impegno della Corona spagnola in favore degli indigeni e giustificarne l’asservimento.

Victor Tau continuava a dichiarasi debitore del “magistero” di Gallo, ma allo stesso tempo ricordava con orgoglio l’appartenenza alla scuola di Ricardo Levene e nel rispetto della tradizione storiografica che il maestro argentino e Rafael Altamira avevano inagurato oltre Oceano e che – non dimentichiamolo – García Gallo aveva sempre combattuto perché non sufficientemente giuridica, si prefiggeva l’obiettivo di restituire la complessità del diritto indiano64. All’interno di una storia comune, il diritto indiano era un sapere differente, la cui identità non poteva essere facilmente imbrigliata attraverso il ricorso all’idea sistema legislativo o giurisprudenziale. Il sistema del resto, scrisse qualche anno più tardi in una ricostruzione della metodologia di García Gallo, non era una realtà storica ma una proiezione della sua concezione nazionale e positivista. Tau Anzoátegui riconosceva i meri-ti del professore spagnolo, sottolineava anche le timide aperture degli Ottanta, ma nelle sue pagine non mancavano le prese distanza. Certo, nello stile dell’Autore, mai gridate, mai personali, al contrario, sussur-rate, dissimulate da una ricerca costante verso soluzioni che permettes-sero di raggiungere un punto d’incontro o mantenere le convergenze. E tuttavia vi erano e mio avviso non sono di poco conto. In un impor-tante lavoro sulle prospettive del derecho indiano egli riconosceva non solo che “persiste nella storiografia, in dosi molto alte, la forza model-latrice della cultura legalista”, ma invitava gli storici a ricostruire il rapporto (spezzato?) con il tessuto sociale e a sostituire “la cultura le-galista con una cultura giuridica”65. Solo una cultura giuridica avrebbe permesso infatti di “collocare la legge dentro l’ordinamento nel suo vero luogo, secondo la materia e le epoche, e avrebbe reso possibile una ‘lettura intelligente’ – che non è ingenua né maliziosa – dei testi legali, interrogandoli alla luce di una concezione amplia del fenomeno giuridico”66. La consapevolezza della complessità avrebbe reso possibi-le poi una rinnovata attenzione verso gli altri modi di produzione del diritto, la consuetudine, la dottrina, la giurisprudenza dei tribunali67.

64 Già alla fine degli anni sessanta per esempio E. Martiré, La historia del derecho,

disciplina histórica, in Revista del Instituto de Historia del derecho, 1969, 88-103, riven-dicava la storicità della storia del diritto. V. ora la rassegna storiografica di E. Abásolo, Argentinische rechtshistorische Forschung 1989-2004, in Zeitschrift für Neuere Rechts-geschichte, 30 (2008), 242-58.

65 V. Tau Anzoátegui, Nuevos horizontes en el estudio del derecho indiano, Buenos Aires, 1997, 41.

66 Ivi, 43. 67 Si tratta di ambiti che lo storico argentino aveva già esplorato, cfr. V. Tau An-

zoátegui, La costumbre jurídica en la America española (siglos XVI-XVIII), in Revista de

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Un auspicio che egli stesso aveva contribuito a soddisfare con due im-portanti lavori apparsi nel 1992. Il primo La ley en Hispanoamérica, dedicato, appunto, alla diverse fonti del diritto indiano, e il secondo, dal titolo significativo Casuismo y sistema, rivolto, ad indagarne stori-camente lo spirito68.

Anche Tau Anzoátegui era alla ricerca dell’identità del suo oggetto di studio, ma la scoperta o la riscoperta del pluralismo normativo cui portava la sua indagine non era più un problema da superare, o il pun-to di partenza di un’indagine necessariamente rivolta ad individuare un’unità superiore. Il sistema non era scomparso dal suo orizzonte, in-combeva pericolosamente con il suo rigore tedesco sul disordinato mondo indiano. Allo stesso modo la tensione idealistica che sosteneva la sua ricerca avrebbe potuto altrettanto pericolosamente rinnovare il sogno di un’unità spirtuale e giuridica e rendere possibile ancora una volta la vecchia storia di una conquista senza conquista e conquistati in cui sciogliere senza residui la radicale diversità indigena.

Il sistema però non esauriva l’orizzonte teorico della rappresenta-zione di Tau Anzoátegui. Accanto e contro il sistema lo storico argen-tino introduceva un’altra categoria interpretativa, il casuismo, un con-cetto e “vocabolo anacronistico” che ancora una volta non aveva a che fare con i fatti, ma appunto con le interpretazioni. Il diritto indiano era un ordinamento casuista, un ordinamento pluralista che rifletteva il pluralismo dell’ordine politico indiano e che era in grado di resistere strenuamente alle aspirazioni razionalizzanti dello stesso sistema. Op-ponendo all’“idea sistematica” la “creencia casuistica” Tau Anzoátegui riportava i testi nei loro contesti, riconduceva il diritto in società, per-mettendo anche a coloro che continuavano a nutrire una sana diffi-denza verso ogni forma di “spiritismo”, di condividere le sue esplora-zioni del sottosuolo “debajo de la legislación, la jurisprudencia o la ac-tividad judicial”69. “El derecho indiano – scriveva nell’epilogo Tau Anzoátegui – aparece como un ordenamiento abierto a distintos mo-dos de creación – normas legales, costumbres, jurisprudencia de los autores, práctica judicial, ejemplares, equidad, etc. – con ciertos prin-cipios rectores y leyes generales, pero con vastos espaciós para disposi-ciones particulares, privilegios, excepciones y dispensas. La materia, las personas, el tiempo y las circustancias eran atendidas preferente-

Historia del Derecho, 14 (1986), 355-425; Id., La doctrina de los autores como fuente del derecho castellano-indiano, in Revista de Historia del Derecho, 17 (1989), 351-408.

68 V. Tau Anzoátegui, La ley en Hispanoamérica, Buenos Aires, 1992; Id., Casuis-mo y sistema. Indagación histórica sobre el espíritu del derecho indiano, Buenos Aires, 1992.

69 C. Petit, El caso del derecho indiano, cit., 668.

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mente en la solución de los casos dentro una sociedad que lucía sus estamentos o “estados”70.

Nell’anno del cinquecentenario della scoperta dell’America, dall’interno di una tradizione storiografica consolidata e a lettori dai gusti piuttosto conservatori, il maestro argentino offriva una lettura profondamente innovativa del mondo indiano che, a me piace pensare così, avrebbe potuto suscitare non solo qualche perplessità in García Gallo ma anche nei suoi numerosi allievi.

Nel libro Victor Tau Anzoátegui non affrontava direttamente il problema indigeno. Tuttavia la costruzione dell’ordine giuridico in-diano come un ordine casuistico aperto alle diversità e pronto ad ade-guarsi alle esigenze della prassi costituiva il presupposto per una rifles-sione più consapevole sul ruolo delle posizioni dei nativi nella società ispanoamericana e allo stesso tempo sulle strategie di controllo impie-gate dai giuristi per disattivare la radicale alterità indigena. Il plurali-smo giuridico indiano infatti non anticipava sensibilità postmoderne né disponeva in un disegno ordinato e garantista diritti e soggetti di-versi destinati ad essere sacrificati sull’altare del formalismo giuridico della modernità, ma attraverso strumenti diversi – la riconduzione de-gli indigeni all’interno di vecchi status, il loro inserimento nei meccani-smi processuali spagnoli, l’imposizione del castigliano, l’urbaniz-zazione forzata e ovviamente la conversione al cattolicesimo – tutti oscillanti tra protezione e repressione, si prefiggeva l’obiettivo di supe-rare un giorno quella diversità così tanto temuta e di cancellarne la memoria.

70 V. Tau Anzoátegui, Casuismo y sistema. Indagación histórica sobre el espíritu del

derecho indiano, cit., 570.

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LA COSTRUZIONE MEDIATICA DEI PROCESSI STORICI: IL CASO DEL PROCESSO DI NORIMBERGA

Silvia Leonzi

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La comunicazione come ambiente: habitat, habitus, heimat. – 3. La comunicazione come “fabulazione del mondo”. – 4. L’audiovisivo come fonte. – 5. Caso di studio: il processo di Norimberga.

1. Introduzione Quando il cinema dà avvio alla “sua” messa in scena del mondo,

nel 1895, iniziano a delinearsi ben presto due differenti registri di rap-presentazione che immaginano la realtà a partire da ordini simbolici completamente diversi. I fratelli Lumière, in Sortie d’usine, filmano l’uscita degli operai dalla loro fabbrica, vale a dire pubblicizzano se stessi e, al contempo, nella loro ammirazione per la tecnica e per il cul-to del lavoro che traspare attraverso un mezzo stupefacente come quello cinematografico, realizzano “un piccolo capolavoro di realismo ante litteram […] perfettamente funzionale alla società per cui era na-to”1 . Poco dopo, quando il cinema inizia ad essere metabolizzato nell’universo di consumo degli spettatori2, si afferma un linguaggio fantasmagorico che sancisce nel medium la decisiva transizione dalla tecnica al linguaggio3: George Méliès, soprattutto con Le voyage dans la lune (1902), realizza una pellicola in cui il reale è soverchiato dal so-gno, lasciando il campo a una grammatica visionaria4. In questa appa-rente dicotomia, tra un racconto realistico e una rappresentazione fan-tastica, rintracciamo i segni di una tendenza che ha attraversato l’intera storia del mezzo cinematografico e, in modo più generale, le stesse cul-ture in cui il cinema si è affermato. Si pensi, solo per fare un esempio, alle enormi differenze di registro stilistico e di canone che separano, in un solco apparentemente insormontabile, la gran parte della produ-zione cinematografica italiana – tendente, per ragioni che non possono essere affrontate in questa sede, a uno spiccato senso per il realismo – e quella americana che, sulla spinta dell’industria hollywoodiana, spo-sta di continuo il limite del fantasmagorico. Questo discorso assume

1 A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Venezia, 1973, 88. 2 S. Brancato, Fantastico e fantascienza. Le icone della macchina, in Fino all’ultimo

film. L’evoluzione dei generi nel cinema (a cura di G. Frezza), Roma, 2001, 280-281. 3 E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, 1982. 4 Cfr. S. Brancato, Introduzione alla sociologia del cinema, Roma, 2001.

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una grande rilevanza soprattutto nel momento in cui il cinema raccon-ta eventi realmente accaduti, quindi in quell’istante in cui si incontra-no le “verità” – comunque mediate, ad esempio dagli storici, dalle te-stimonianze dirette – della storia e le modalità di traduzione della real-tà messe in atto dal medium.

2. La comunicazione come ambiente: habitat, habitus, heimat Tale premessa ci permette di rilevare quanto il rapporto tra realtà e

rappresentazione costituisca il nucleo fondativo della narrazione ope-rata dal cinema, così come, ovviamente, dalla televisione, mezzo quest’ultimo quanto mai rilevante nel processo di ridefinizione dell’im-maginario quotidiano degli individui. Entrambi i media hanno contri-buito a mettere in atto una forte “mediatizzazione della realtà”, nel senso che l’accesso degli spettatori al reale non si compie semplice-mente attraverso i media, ma si attiva e si concretizza sul piano simbo-lico abitandoli e attraverso di essi dando visibilità al proprio abitare in una società in continuo cambiamento. In questo senso, la comunica-zione rappresenta sempre di più un ambiente5, un universo di codici, significati, significanti, immagini, che ci avvolge e che dà senso al mondo che ci circonda. Se essa nasce con la storia dell’umanità, ac-compagnandone l’evoluzione, dal Novecento ad oggi la diffusione e la pervasività dell’industria culturale hanno prodotto una rivoluzione an-tropologica che ha reso possibile la transizione verso un nuovo para-digma, in cui la comunicazione costituisce sia l’habitat natura-le/culturale dell’individuo, sia il suo habitus, sia il suo heimat6.

Per poterci accostare a questa nuova configurazione che caratteriz-za le attuali relazioni tra uomo e ambiente si deve, innanzitutto, imma-ginare che al centro della scena non si collochino tanto i “mezzi di co-municazione” e che, con ogni probabilità, non esista più un unico cen-tro da cui fare esperienza, ma piuttosto un multiverso tecnologico e un insieme multilivello e interconnesso di “ambienti comunicativi”, di nuovi luoghi antropologici, dove la stessa idea di uomo e ambiente è soggetta a decisive trasformazioni. L’esigenza atavica di abitare il mon-do, adattandosi alla quantità e qualità del cambiamento, ha determina-to un rapporto sempre più stretto tra i fattori sociali e le caratteristiche

5 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, 2002. 6 Cfr. S. Leonzi, La comunicazione come cultura: media e dinamiche di civilizzazio-

ne, in Il Mediaevo. Tv e industria culturale nell’Italia del XX secolo (a cura di M. Mor-cellini), Roma, 2000; G. Ciofalo, Comunicazione e vita quotidiana. Percorsi teorici e di ricerca, Roma, 2007; S. Leonzi – G. Ciofalo, Homo communicans, Roma, in corso di pubblicazione.

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biologiche, tra il corpo e le sue protesi tecnologiche. Nel corso dell’evoluzione degli strumenti, delle strategie e delle modalità di co-municazione, la conoscenza è divenuta un processo sempre più media-to. Come in parte accennato in precedenza, l’impossibilità di speri-mentare un’esperienza diretta degli ambienti di vita e di stabilire rela-zioni o più semplicemente di entrare in contatto con tutti i membri di un gruppo, tipica delle società pre-moderne, è stata sostituita dall’opportunità di conoscere, in forma mediata, luoghi e culture lon-tane e di tramandare queste informazioni, secondo un identico proces-so di mediazione, alle generazioni future.

Concepire la comunicazione come un habitat non significa però cadere nell’errore di pensare che tutto sia comunicazione e che ogni singolo aspetto della realtà sia leggibile esclusivamente in termini di flussi comunicativi, costruendo un’immagine del mondo in cui esseri umani disincarnati costituiscono soltanto i nodi di una rete globale7. In questo senso riteniamo opportuno integrare tale riflessione con i con-cetti di habitus e di heimat, attraverso i quali configurare una “valuta-zione ecologica” della società della comunicazione.

La prima delle due categorie ora citate ci permette di ridefinire i termini della relazione tra individuo e società. L’habitus, infatti, è un concetto sviluppato, principalmente ma non solo, da Pierre Bourdieu e Norbert Elias8 al fine di evidenziare come le nostre rappresentazioni e le nostre immagini del mondo non abbiano origine in un vuoto asso-luto ma derivino da disposizioni psichiche socialmente costruite che, a loro volta, generano nuove pratiche sociali. In sintesi, individuo e so-cietà vanno pensati entro i confini di un processo circolare, che rende impossibile attribuire a un soggetto proprietà completamente innate o, viceversa, completamente acquisite. Tutti i meccanismi sociali che l’essere umano incorpora attraverso l’interazione quotidiana, dunque attraverso vari livelli di azioni comunicative, e che trasforma in prati-che quotidiane, non rispondono a un principio meccanicistico di cau-sa-effetto, bensì sono il frutto di una negoziazione che consente al sog-getto di classificare il mondo che lo circonda e di affrontare le espe-rienze successive della vita quotidiana. In questa fase storica della civil-tà, dunque, si può affermare che la comunicazione è sia l’habitat che l’habitus della “società degli individui”9, e che gli individui, a loro vol-ta, immersi nel liquido amniotico della comunicazione e in interazione

7 P. Breton, L’utopia della comunicazione. Il mito del “villaggio planetario”, Torino,

1995. 8 P. Bourdieu, Il senso pratico, Roma, 2005; N. Elias, La società degli individui, Bo-

logna, 1990. 9 N. Elias, La società degli individui, cit.

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costante tra loro, sono sia la moneta che il conio10 del mondo sociale che li ospita e che essi stessi costruiscono, anche attraverso la visibilità resa possibile da media sempre più avanzati.

La terza categoria utile ai fini della nostra riflessione è quella di heimat, termine tedesco che, pur non avendo un diretto corrispettivo in italiano, possiamo tradurre con “piccola patria”, “patria elettiva”, vale a dire la patria degli affetti del luogo natio, nella quale si è nati e cresciuti nel tempo del cambiamento e in cui prevalgono gli elementi legati alla scelta, alla selezione. Più nello specifico, il nostro riferimento è rappresentato da Heimat e Heimat 2, un’imponente saga cinemato-grafica diretta da Edgar Reitz che racconta le vicende di una famiglia in Germania a partire dal 1919. Se il primo Heimat mette in scena ap-punto la patria natia, quella in cui si sperimentano i legami e le appar-tenenze più prossime, il secondo invece costituisce un fondamentale punto di rottura in quanto racconta l’abbandono del luogo d’origine e l’inizio di un nuovo percorso e di un nuovo progetto esistenziale, alla ricerca di una nuova colonizzazione dell’esperienza. La nostra rifles-sione si inserisce proprio in questo scarto simbolico/narrativo che se-para i due film. Infatti, riteniamo che la comunicazione rappresenti un’heimat primigenia, se considerata come un’attività connaturata all’essere vivente dal punto di vista antropologico e biologico, mentre diventi una seconda e meditata heimat, nel suo evolvere verso la crea-zione di un ambiente in cui natura e cultura si incontrano e che il sog-getto crea a partire dalle proprie necessità, dalle proprie istanze di emancipazione, dai propri desideri. In questo universo l’individuo può finalmente immaginare un’altra realtà, costruirsi una patria elettiva at-traverso cui sceglie di abitare la storia.

3. La comunicazione come “fabulazione del mondo” Descrivere e rappresentare la comunicazione come un ambiente

non significa soltanto immaginare una nuova dialettica tra la società e gli individui e, più nello specifico, delineare i contorni di un nuovo soggetto che si afferma sul palcoscenico sociale. In realtà, la società della comunicazione ridefinisce, come osservato nella premessa, il rapporto tra realtà e sogno, tra verità e falsificazione, proprio per il suo forte carattere di mediatizzazione. La famosa formula di Nietzsche, “non ci sono fatti, solo interpretazioni”11, anticipa un processo che si realizzerà con forza poco meno di un secolo dopo, nel momento in cui

10 Ibidem. 11 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, in Id., Opere, vol. VI, 3, Milano, 1970.

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diviene evidente che “caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” […] che prendono la parola, final-mente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare”12. I media dunque hanno moltiplicato le visioni del mondo e le differenti prospettive, dissolvendo i punti di vi-sta centrali e dando forma e visibilità a una realtà non più unitaria e oggettiva, bensì fondata sulle particolarità, sulle differenze, sull’in-treccio decisivo di immagini e interpretazioni. Questa è la società pre-figurata in parte da Lyotard laddove, analizzando la condizione post-moderna13, lo studioso francese ha sottolineato come la modernità e, soprattutto, le sue grandi narrazioni si siano frammentate con l’indebolimento delle “strutture forti”, non più in grado di significare la realtà, di inscriverla entro un ordine di senso. Quindi se, da un lato, appare necessario un cambio di paradigma che dia conto della centra-lità della comunicazione (questo lo abbiamo sottolineato con l’idea di ambiente), dall’altro, però, si tratta di valutare con più attenzione le modalità attraverso cui hanno luogo i meccanismi di mediatizzazione della realtà. Dare voce a tutte le tesi, fare in modo che non esista un’unica rappresentazione del mondo è, a tutti gli effetti, un processo di democratizzazione delle opinioni: un risultato ragguardevole in una società apparentemente più aperta alle istanze delle minoranze.

Se si riflette sugli effetti di lungo termine prodotti dalla pervasività dei media, allora ci si rende conto che, ad oggi, non si sono realizzate né le distopie prefigurate da Orwell attraverso il Grande fratello, né, tantomeno, l’utopia di una società trasparente in cui la comunicazione crea dialogo e dunque libertà, democrazia, uguaglianza. L’esempio più immediato del mancato compimento di scenari totalmente distopici o utopici è rappresentato banalmente dal modello del talk televisivo, in cui vengono espresse tante opinioni, spesso contrapposte, senza tutta-via che si giunga a una risoluzione sulla veridicità o meno di quanto è stato discusso.

Applicando interamente i termini di questo discorso al rapporto tra audiovisivo e storia ci rendiamo conto dei rischi connessi a un abu-so o a un cattivo uso dell’attività di interpretazione. In effetti, quando un film sceglie di raccontare una storia realmente accaduta dovrebbe partire da un presupposto fondamentale, alla base di un patto fiducia-rio con il pubblico: mutuando Ferraris14, il quale critica i limiti dell’atteggiamento postmoderno che abbiamo analizzato in preceden-

12 G. Vattimo, La società trasparente, Milano, 2000, 17. 13 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, 2004. 14 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, 2012, 29-30.

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za, il cinema dovrebbe rispettare un assunto fondamentale, vale a dire che, a dispetto di qualunque possibile deriva interpretativa, la Storia “ha le sue leggi, e le fa rispettare”. Quindi esistono “domini” del no-stro vissuto collettivo, come ad esempio l’Olocausto, nei confronti dei quali la rappresentazione (filmica nel nostro caso) non può che essere, al suo massimo di espressività, rispettosa della forza espressiva della realtà.

4. L’audiovisivo come fonte

Un film e più in generale i mezzi audiovisivi si confrontano diret-tamente con la verità degli eventi quando raccontano la Storia, ma non si può pensare che esista solo una storia da raccontare e non si deve dimenticare che un film mette in scena una realtà verosimile, né vera, né falsa. Come vedremo più avanti, ogni fatto è oggetto di una tradu-zione: scientifica, nel caso in cui ci si riferisca al lavoro degli storici; di-retta, laddove si considerino le testimonianze di chi ha assistito perso-nalmente all’evento; mediale, se ci si sofferma appunto sulla rappresen-tazione audiovisiva. Come ovvio, queste tre dimensioni sono stretta-mente interconnesse e possono consentire, se congiuntamente dispo-nibili, di realizzare una narrazione non troppo distante dalla realtà, of-frendo un dispositivo in grado di esprimere le relazioni tra passato e presente.

“I film non [vanno] considerati come semplici finestre sull’universo; essi co-stituiscono uno degli strumenti di cui una società dispone per mettersi in sce-na e mostrarsi e, proprio in quanto tali, sono importanti documenti del loro tempo e fonti per lo storico per scoprire e analizzare il modo in cui in un cer-to periodo ne veniva socialmente pensato un altro”15.

In questo passaggio, lo studioso francese rileva come un film non

possa mai essere svincolato dallo spirito del tempo, e dunque dal clima culturale, produttivo, sociale entro cui è stato prodotto. Per intender-ci, La vita è bella (1997) di Roberto Benigni è un’opera che non avreb-be potuto vedere la luce prima degli anni ’90, e cioè prima dello Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg e prima, soprattutto, di un processo di metabolizzazione collettiva, avviato negli anni ’70, del sen-so di profonda tragicità legato all’Olocausto. Il punto fondamentale di questa riflessione riguarda il fatto che, attraverso il singolo documento audiovisivo, è possibile confrontarsi più direttamente con la storia len-

15 P. Sorlin, Sociologia del cinema, Milano, 1979, 312.

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ta, quella della vita materiale e delle mentalità, che offre rappresenta-zioni articolate della realtà quotidiana delle persone, del loro modo di vedere il mondo e di abitarlo attraverso i pensieri, i corpi, le cose. Il riferimento al concetto di mentalità non è casuale, anzi è quanto mai pertinente con l’analisi che intendiamo sviluppare del caso di studio preso in considerazione, dal momento che esso indica quello che un individuo ha in comune con altri individui, la dimensione del quoti-diano, quindi ciò che sfugge ai soggetti nel loro immediato presente, in quanto fonte del contenuto impersonale del loro pensiero16. La rile-vanza di tale categoria segna una profonda frattura nel paradigma dell’analisi storica, laddove all’histoire événementielle che enfatizza una presunta ricostruzione oggettiva del passato, a partire dalla stig-matizzazione di un attore storico consapevole del proprio ruolo, di grandi eventi in cui sono coinvolti grandi personaggi, si affianca una nouvelle histoire, ovvero una storia che ha origine dal basso, nella qua-le la cultura materiale acquisisce una maggiore centralità e dove, so-prattutto, la mentalità collettiva “regola, a loro insaputa, le rappresen-tazioni e i giudizi dei soggetti sociali”17. Tale mutamento paradigmati-co si definisce ulteriormente con quella che possiamo definire “la sco-perta della memoria, individuale e collettiva”, cui contribuisce appun-to la centralità dei media: quindi, il recuperare storie collettive a parti-re da percorsi individuali, minimi, anodini.

All’interno di questo cambiamento prospettico possiamo, allora, considerare il documento audiovisivo a partire da un’ottica completa-mente differente. Questo, infatti, racconta un “passato”, e in quanto tale, dunque, può essere considerato una fonte diretta. Al tempo stesso però, esso esprime il “presente” in cui viene realizzato: quindi, può es-sere valutato ed utilizzato come una fonte indiretta. Il nodo è costituito dalla legittimità dell’uso dell’audiovisivo come un valido strumento di rappresentazione della realtà. Tuttavia, a nostro parere, la paura di una cosiddetta memoria iperleggera, fondata appunto su strumenti ritenuti evanescenti (audiovisivi, multimediali, etc.), si fonda su due dimenti-canze:

- qualsiasi documento è sempre il prodotto orientato di una situa-zione;

- qualsiasi documento è una menzogna quando ci si dimentica che la sua verità è quasi tutta nelle sue intenzioni.

Possiamo cioè assumere l’idea, sostenuta da Le Goff, che nessun documento è da considerarsi innocente, perché è sempre e comunque

16 J. Le Goff, Le mentalità: una storia ambigua, in Id., Fare storia, Torino, 1981, 239-255.

17 R. Chartier, Storia intellettuale e storia delle mentalità. Traiettorie e problemi, in Id., La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino, 1989, 36.

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“uno” sguardo sulla realtà, è una prospettiva particolare che perlopiù nasce da una scrittura della storia ufficiale come mainstream. Il pro-dotto audiovisivo, a sua volta, non è, per usare una terminologia cara a Sorlin, una semplice copia della realtà, dal momento che la tecnologia adottata così come le competenze coinvolte, o le finalità stesse del prodotto, impongono un frame alla rappresentazione. Però, questo non significa che un film non realizzi un modo originale di rapportarsi a quella realtà, mettendo lo spettatore nella condizione di poter sfiora-re i contorni di un passato evanescente per sua natura.

5. Caso di studio: il Processo di Norimberga

In questa prospettiva prenderemo in considerazione quattro pro-

dotti audiovisivi, molto diversi tra loro, che possiamo considerare esemplari per descrivere il modo in cui le immagini si sono appropria-te della storia e della memoria del lato più oscuro della civiltà occiden-tale. Tenendo conto delle finalità con cui queste pellicole sono state realizzate (intrattenere, informare, educare, etc.) e delle sensibilità sti-listico/culturali proprie dello spirito del tempo non solo di chi le ha concepite, ma anche e soprattutto del pubblico per cui sono state pen-sate, è possibile effettuare un’analisi che, muovendosi tra testo e conte-sto, ne restituisca il senso complessivo. Poiché è in questo passaggio di consegna tra “autore” e “lettore” che si inserisce quella guerriglia di significazione su cui Eco si è più volte soffermato e che prende in esa-me testi aperti, adatti all’attività interpretante del fruitore, e testi chiu-si, che non permettono altra lettura oltre quella offerta dal punto di vista egemonico dell’autore e dalle isotopie18.

Passando al nostro caso di studio, i quattro film scelti sono solo al-cuni dei titoli che si sono occupati di portare sullo schermo una pagina drammatica delle vicende ampiamente trasposte legate alla Seconda Guerra Mondiale e alla Shoah: il processo di Norimberga.

Processo di Norimberga è il nome usato per indicare due distinti gruppi di processi istruiti contro i nazisti coinvolti nel secondo conflit-to bellico e nell’Olocausto. I processi si tennero nella città tedesca di Norimberga dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946 presso la sede del Palazzo di Giustizia.

Il primo e più famoso fu il Processo dei principali criminali di guerra davanti al Tribunale militare internazionale (IMT), che giudicò venti-quattro dei più importanti capi nazisti catturati (o ancora ritenuti in vita). Il secondo gruppo si svolse per processare criminali di guerra

18 U. Eco, Opera aperta, Milano, 1962; Id., Lector in fabula, Milano, 1979.

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minori, fu tenuto sotto la Legge numero 10 del Consiglio di Controllo dal Tribunale militare di Norimberga (NMT) e comprese anche il fa-moso Processo ai dottori. Le imputazioni principali furono: cospirazio-ne per crimini contro la pace; pianificazione e attuazione delle guerre d'aggressione; crimini di guerra; crimini contro l’umanità.

I quattro film selezionati per illustrare come i prodotti audiovisivi hanno raccontato le vicende legate a questi processi sono: Il Processo di Norimberga (1958), Vincitori e vinti (1961), Nuremberg (2000), The Reader (2008).

Nel corso della nostra disamina verranno spiegate di volta in volta sia le motivazioni della scelta, quanto il rapporto che intercorre tra la memoria storica e gli elementi tipici dell’audiovisivo come il linguaggio utilizzato, lo stile del racconto, le strategie narrative.

Il primo prodotto preso in considerazione, Il Processo di Norim-berga (1958), è un documentario di produzione tedesca, realizzato da Felix Podmaniczky poco dopo la fine delle vicende giudiziarie. In 92 minuti Podmaniczky realizza una pellicola molto accurata nei termini sia della resa che della ricostruzione dei fatti, alternando le immagini reali del processo di Norimberga a scene girate all’interno dei campi di concentramento, che vengono mostrate durante le udienze, allo scopo di rendere maggiormente efficaci le argomentazioni dell’accusa, e montate dal regista come delle vere e proprie prove a carico degli im-putati, a dimostrazione delle atrocità commesse dal regime. In questo caso, possiamo osservare come il documento audiovisivo svolga una prevalente funzione di testimonianza, come a voler fissare la volatilità dei ricordi su un supporto in grado di sopravvivere al trascorrere del tempo e alla memoria dei protagonisti, un monito a non dimenticare ciò che è stato e che non dovrà più accadere.

Una delle prerogative più rilevanti del documento audiovisivo con-siste proprio nella sua capacità di contenere e mantenere il trascorrere dell’esistenza: “l’immagine, da sola, nella sua fulmineità di rappresen-tazione del reale, è carica di passato, intrisa quindi di storia”19.

L’obiettivo del documentario, in questo senso, è quello di rappre-sentare quanto più fedelmente possibile la realtà. A tal proposito, in-fatti, l’unica linea narrativa esistente nasce dal semplice accostamento, realizzato in fase di montaggio, tra le aule del tribunale e le immagini delle riprese effettuate nei lager.

Al di là delle doti meramente tecniche, relative all’abilità delle maestranze impiegate e all’efficacia delle immagini, uno degli aspetti forse più interessanti di questo prodotto risiede nel fatto che sia stato

19 Cfr. P. Pintus, Storia e film. Trent’anni di cinema italiano (1945-1975), Roma,

1980, 7.

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realizzato in Germania poco dopo la conclusione dei processi. In que-sto film, al di là del visibile, traspare la presa di coscienza della nazione tedesca e dei suoi cittadini, i quali, una volta aperti i cancelli dei campi di concentramento, non possono più dire non vedevamo, non sapeva-mo, una delle tesi più volte sostenuta in aula anche dagli imputati. Si prendono totalmente carico della responsabilità degli accadimenti, non necessariamente della colpa. In fondo è questa la chiave di lettura del processo di Norimberga, vale a dire attribuire le responsabilità di ciò che è successo nella Germania nazista, lasciando da parte l’eventuale adesione alle idee di Hitler, attraverso la rappresentazione dell’orrore, reso possibile da un’imponente macchina burocratica20 messa in moto dal Terzo Reich21 per garantire l’efficienza delle opera-zioni e coinvolgere un grande numero di persone in una tragica catena di montaggio22.

Con questo documentario viene messa in scena la storia, senza arti-fici narrativi o voci fuori campo a commentare o raccontare l’accaduto nella convinzione che “i fatti parlino da soli” e il loro semplice tragico resoconto resti agli atti. Finita la guerra, la Germania vuole fare i conti con il proprio passato recente, pagare per i propri errori e gettarsi tut-to alle spalle per ricominciare da zero.

Se nell’esempio fin qui riportato abbiamo parlato di memoria co-me testimonianza del passato tout court, nei successivi casi presi in esame possiamo notare come la memoria sia alla base tanto dei proces-si di narrazione, attraverso una sua elaborazione e ricombinazione per mezzo di stereotipi finzionali, quanto delle pratiche di conversazione,23 soprattutto dal punto di vista prettamente comunicativo.

“Schematicamente, alla descrizione si attribuisce la capacità di evocare il pas-sato, alla narrazione quella di raccontarlo suscitando interesse e di spiegarlo attraverso una concatenazione di cause ed effetti che si dipana in ordine cro-nologico; in realtà, al momento della spiegazione contribuisce sempre più un’analisi attenta più che al movimento diacronico della storia al suo sviluppo sincronico, alle connessioni esistenti tra eventi e processi simultanei. Questo aspetto è quello ampiamente prevalente nei modelli narrativi tipici dei me-dia”24.

20 M.Weber, Economia e società, vol. 2, Milano, 1961. 21 Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, 1992. 22 Cfr. S. Milgram, Obedience to Authority, Torino, 2003. 23 G. Ciofalo, La memoria tra narrazione e conversazione, in Saperi in visita. La

memoria e il futuro, Pic-Ais. Cultura e Comunicazione/Culture and Communication, n.1, 2010.

24 G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, cit., 31.

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Nello specifico, per carattere “narrativo” della memoria intendia-mo la traduzione di quel che è stato in una forma trasmissibile, condi-visa e accessibile ai membri di una comunità.

Il valore sociale della memoria, infatti, risiede tra l’altro nel proces-so di semiosi illimitata che può dare adito a infinite possibilità di tra-duzioni individuali. Applicando agli adattamenti audiovisivi le regole che Steiner25 individua nella traduzione delle opere letterarie, possia-mo dire che le operazioni preliminari per trasformare una pagina di storia in un prodotto narrativo sono quattro.

1. La fiducia: all’interno del testo viene riconosciuto e identificato un valore universale che si intende comprendere, affermare e comuni-care agli altri. Nell’atto di fiducia, dunque, si dichiara che il testo rac-chiude un significato da cogliere.

2. L’aggressione: ogni atto di comprensione, traduzione e adat-tamento è un atto violento, poiché se ne prende possesso entrandoci all’interno.

3. L’incorporazione: il testo, attraverso questa operazione, viene (re)incarnato, consumato e addomesticato nel significato.

4. La restituzione: il traduttore restituisce il senso delle vicende, aggiungendo un surplus di senso nel corso del lavoro.

In tal senso, quando ci approcciamo all’analisi di un prodotto fil-mico che affronta tematiche storiche dobbiamo sempre considerare il documento cinematografico in tutta la sua complessità, tenendo conto, cioè, della sua irriducibile ambivalenza tra reale e fantastico, del lega-me con la sua epoca, dell'ottica particolare degli autori e dell'involucro ideologico che lo avvolge: “lo sposalizio tra cinema e storia”26.

Sulla base di queste premesse passiamo ad analizzare altri due prodotti cinematografici che si ispirano ai fatti di Norimberga in chia-ve narrativa, Vincitori e vinti (1961) e Nuremberg (2000). Questi film trasformano le vicende giudiziarie in un setting in cui eroi e antieroi mettono in scena l’atavica lotta tra il bene e il male, secondo le sensibi-lità dell’industria culturale americana.

Subito dopo la fine della guerra, l’industria cinematografica ameri-cana si appropria dell’Olocausto e delle vicende belliche trasponendo-le nell’affresco di un’epopea a stelle e strisce. D’altronde gli elementi per farne una grande narrazione, estremamente efficace anche a scopi propagandistici, di coesione sociale e colonizzazione culturale, ci sono tutti. Nell’americanizzazione dell’Olocausto ci sono i buoni (gli ameri-cani) e i cattivi (i tedeschi), poi ci sono le vittime (gli ebrei), ci sono gli indifferenti, i vigliacchi, gli ignavi: tutti quelli che sono stati conniventi

25 G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, 1975. 26 Ivi, 17.

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con il genocidio, anche semplicemente voltando la testa dall’altra par-te.

Appartengono a questo filone film come Memory of the camps di S. Bernstein, I perseguitati di E. Dmytryk, Il diario di Anna Frank di G. Stevens, Vincitori e vinti di S. Kramer, L’uomo del banco dei pegni di S. Lumet, La nave dei dannati di S. Rosenberg, Cabaret di B. Fosse e mol-ti altri.

Tra questi, l’unico a concentrarsi sulla rappresentazione del Pro-cesso di Norimberga è Vincitori e vinti di Stanley Kramer che, nel 1961, mettendo insieme un cast stellare (Spencer Tracy, Burt Lanca-ster, Montgomery Clift, Marlene Dietrich, Maximilian Schell), decide di raccontare una pagina particolare della Shoah. A differenza di molte pellicole dell’epoca, tuttavia, Vincitori e vinti non è un film retorico, inneggiante alla superiorità morale dei liberatori, ma si distingue per il linguaggio moderno e per una sensibilità più raffinata. Grazie anche alla bravura dei suoi interpreti la pellicola di Kramer ci offre l’affresco dolente di una Germania piegata ma orgogliosa, incredula e rassegna-ta, incarnata nel personaggio dell’affascinante Marlene Dietrich, vedo-va di un generale tedesco, o nei servi della casa del giudice, che dichia-rano più volte di non sapere quanto è accaduto, pur rendendosi conto di quanto sia difficile da credere adesso che la spropositata gravità dei fatti è sotto gli occhi di tutti.

Il film mette in scena uno dei processi minori dei nove che si sono tenuti a Norimberga. Le vicende si svolgono nel 1948, i grandi nomi della leadership tedesca sono già stati incriminati e giustiziati, e il mondo occidentale – oltraggiato dall’orrore della guerra che ha spaz-zato via il mito di una società razionale e civilizzata – ha ottenuto giu-stizia.

Il punto di vista della narrazione è quello del giudice Dan Hay-wood, un modesto magistrato di una piccola cittadina americana, chiamato a Norimberga per giudicare quattro colleghi tedeschi accusa-ti di aver applicato leggi palesemente inique e favorito la persecuzione del popolo ebreo.

Giudicare i giudici è la chiave di volta del film da cui scaturisce la domanda alla base del processo: chi aveva l’obbligo professionale di far rispettare le leggi (anche quelle personalmente non ritenute giuste) può pagare per aver svolto il compito assegnato dal proprio ruolo fa-cendosi garante di un sistema perverso?

La legge, infatti, sotto il regime è diventata anch’essa un mezzo della repressione, piegata al diabolico progetto hitleriano, e i giudici, nello svolgimento delle proprie mansioni, non possono che diventare complici di quell’abominio. Attraverso le vicende raccontate, dentro e fuori l’aula del tribunale, si fa largo, non solo nella mente del giudice

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Haywood, ma anche nello spettatore, un dubbio essenziale sulla natu-ra del potere e dello Stato, sugli organi e sulle leggi preposte al suo mantenimento. In una società moderna, in cui la distanza tra il vertice e la base è sempre più ampia, chi controlla i controllori?

Una domanda, questa, a cui il senso comune stenta a trovare una risposta e da cui scaturiscono le maggiori distopie del XX secolo, da Orwell (1984) a Huxley (Il mondo nuovo), scenari claustrofobici in cui il sogno di una società perfettamente organizzata ed efficiente si tra-sforma nell’incubo di una gabbia d’acciaio in cui l’umanità, la morale, la compassione, l’eccezione (o l’eccezionalità) vengono schiacciate e represse nelle maglie del sistema.

L’Olocausto rappresenta la distopia per eccellenza con la sua più tragica realizzazione, e Norimberga, in questo senso, incarna l’ar-chetipo di tutti i processi, in cui a contendersi il primato della legge non sono soltanto le parti in causa, ma due opposti sistemi valoriali: la legge dello stato contro la legge del diritto naturale, lo stesso atavico dilemma che già nell’antichità Sofocle aveva messo in scena attraverso il dramma di Antigone, accusata di aver contravvenuto alla legge della polis dando una giusta sepoltura al fratello accusato di tradimento.

È nelle rughe di Spencer Tracy che si manifesta tutta la drammati-cità e lo sgomento non solo dell’uomo di legge che rappresenta la Giu-stizia (quella che non guarda alla convenienza delle leggi, ma al diritto naturale), ma dell’uomo giusto, che incarna l'esigenza di ogni individuo di capire come sia stato possibile che un tale orrore sia stato compiuto da esseri umani a danno di propri simili.

Dall’altra parte, sul banco degli imputati, siede il giudice Hernst Janning, ex Ministro della giustizia del Reich, la figura sicuramente più tragica di tutto il film poiché in lui risiedono tutte le virtù etiche e mo-rali per connotarlo non solo come un eccellente giurista, ma come un uomo retto. Eppure, quelle stesse virtù che più volte vengono sottoli-neate dallo sprezzante avvocato tedesco a difesa dell’imputato, saranno utilizzate contro Janning in sede di giudizio: perché proprio uomini come lui, dotati di cultura e sensibilità adeguate per comprendere la gravità dei fatti, avrebbero dovuto ergersi a salvaguardia di tutti quei deboli e innocenti che venivano quotidianamente umiliati e sopraffatti dalla prepotenza di un’ingiustizia sovrumana.

“Se tutti i capi del Terzo Reich fossero stati dei sadici, dei maniaci, allora i loro misfatti non avrebbero più significato morale di un terremoto o di qual-siasi catastrofe naturale, ma questo processo ha dimostrato che in tempi di crisi nazionale le persone normali, e perfino quelle capaci ed eccezionali, pos-sono indurre se stessi a condurre dei crimini così grandi e odiosi da sfidare qualsiasi immaginazione” – dichiarerà il giudice Haywood nella sua sentenza,

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A tal proposito è particolarmente significativa la scena in cui Montgomery Clift, perfetto nei panni del garzone Rudolph Petersen, racconta l’umiliazione e il dolore di essere stato condannato a subire, per volontà di quei giudici ora sottoposti a giudizio, un’operazione di sterilizzazione in quanto ritenuto mentalmente incapace.

Alla fine del film, mentre i due avvocati, quello americano e quello tedesco, combattono una battaglia personale come fossero ancora sulle linee opposte dei due fronti di guerra, i due giudici, Haywood e Jan-ning, scioglieranno i nodi della vicenda giudiziaria e morale.

“Il mio avvocato dice che non sapevamo dello sterminio di milioni. Egli adduce a nostra scusante che sapevamo solo dello sterminio delle centinaia. Ciò forse ci rende meno colpevoli?” – dichiara Janning, nel corso di una dichiarazione spontanea, spiazzando le tesi della difesa che puntava a ridimensionare la portata della responsabilità in propor-zione al numero delle vittime.

Nella sua sentenza, il giudice Haywood dichiarerà di aver antepo-sto il diritto naturale al diritto penale, nella prospettiva di gettare le ba-si per un nuovo ordine giuridico universale che metta al centro delle proprie elaborazioni e sentenze la dignità dell’uomo e la difesa dei suoi diritti: “i principi del diritto penale di ogni società civile hanno questo in comune: ogni persona che induca un’altra a commettere omicidio, ogni persona che fornisca l’arma letale a scopo di un delitto, ogni per-sona che del delitto si renda complice è colpevole”.

Al termine del processo, tutti gli imputati vengono dunque con-dannati all’ergastolo con l’accusa di aver perso di vista l’essenzialità non solo del proprio ruolo, ma della propria natura umana.

Un’ultima riflessione, rilevante a nostro parere perché sottolinea, tra le righe della trama, la centralità del rapporto tra storia e memoria, evidenziando quanto quest’ultima possa essere volatile rispetto al tra-scorrere del tempo, al cambiamento delle mentalità e delle sensibilità culturali, emerge dal colloquio tra due dei protagonisti. Al di fuori dell’aula di tribunale, quando ormai la sentenza è stata emessa, Maxi-milian Schell, il giovane avvocato della difesa, in un ultimo colloquio con il giudice Haywood, tende a precisare che tra cinque anni, quando le ceneri della macerie della guerra si saranno depositate, probabil-mente le carte del processo verranno rilette in un’altra ottica e allora è logico pensare che si arriverà a un altro verdetto.

Ma ancora una volta le parole del giudice ribadiscono con chiarez-za la forza del suo punto di vista:

“Herr Rolfe, ho ammirato il suo lavoro in tribunale per diversi mesi. Lei è particolarmente brillante nell’uso della logica, quindi ciò che lei afferma può accadere benissimo: è logico dati i tempi in cui viviamo. Ma essere logici non

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significa essere giusti, e non c’è nulla al mondo che può farlo diventare giu-sto”.

Di tenore completamente diverso è il film del 2000, Nuremberg,

per la regia di Yves Simoneau interpretato da Alec Baldwin, Brian Cox e Christopher Plummer, che riproduce il principale processo di No-rimberga in cui compaiono sul banco degli imputati ventuno tra le maggiori personalità di spicco del regime nazista. Il punto di vista, in questo caso, non è del giudice (figura neutrale fino al verdetto), ma dell’avvocato americano scelto per guidare l’accusa di USA, URSS, Francia e Gran Bretagna, il procuratore Robert Jackson (Baldwin), le cui vicende professionali e personali vengono narrate nel rispetto del canonico script del viaggio dell’eroe individuato da Vogler27.

L’avvocato Jackson è infatti un eroe positivo a tutti gli effetti, dota-to di carisma e determinazione, illuminato da una visione della giusti-zia inattaccabile e rappresentante dello schieramento dei buoni. Egli si contrappone, in una divisione assolutamente oppositiva, alla schiera dei cattivi, guidata da un antieroe di primo piano: il generale Hermann Göring, Ex Ministro dell’Interno della Prussia.

Se in Vincitori e vinti l’imputato di spicco era un raffinato giurista, di indubbie doti morali, afflitto dal senso di colpa e volontariamente esiliato rispetto agli altri giudici inquisiti dai quali vuole prendere le distanze come per sottolineare una compiuta, seppur tardiva, presa di coscienza e di responsabilità, in Nuremberg Hermann Göring viene descritto come un leader carismatico, capace di accendere ancora nei suoi colleghi lo spirito nazionalista che ha caratterizzato l’atteg-giamento tedesco durante il Terzo Reich. Nel corso delle vicende nar-rate, infatti, Göring non dimostra nessun senso di colpa, ma rimane fedele al codice militare al quale ha votato la propria esistenza.

Anche in questo caso, seppur con evidenti differenze rispetto al precedente film preso in considerazione, la storia è il punto di parten-za della narrazione, ma, se nel lavoro di Kramer Norimberga diventa il pretesto per riflettere sulla giustizia e sulla dignità della vita umana che deve essere garantita al di sopra di ogni altra legge o forza maggiore, in Nuremberg questo tragico luogo diventa il semplice teatro di scontro nell’atavica lotta tra il bene e il male. Per certi versi, che il film si svol-ga in un’aula di tribunale o in qualsiasi altro agone (uno stadio di ba-seball, una galassia lontana, la redazione di un giornale) non ha molta importanza poiché il messaggio che viene veicolato riproduce

27 C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Roma, 2010.

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l’universale contrapposizione che si svolge lungo l’asse archetipico eroe/ombra.

In tal senso, l’obiettivo del film è quello di dimostrare la superiori-tà morale dei vincitori e la volontà dichiarata degli alleati di imporre un esempio di giustizia agli sconfitti, i quali si dimostrano tutt’altro che sottomessi, come testimoniano le parole di Göring che, non rico-noscendo fino alla fine l’autorità del tribunale che l’ha condannato, eviterà la sentenza di impiccagione (la morte più disonorevole per un soldato) suicidandosi in cella, seguendo l’esempio di Hitler.

“Gli stranieri che mi hanno condannato a morte possono uccider-mi, ma non possono giudicarmi. Questo glielo nego”.

Nel corso del processo, l’unica attenuante che viene riconosciuta al popolo tedesco è quella del principio di autorità, come spiega bene Gustave Gilbert, lo psicologo dei nazisti, all’avvocato Jackson, per cui “in Germania la gente fa sempre quello che gli viene detto di fare. Fin dall’infanzia sono abituati a non mettere in discussione l’autorità.” La difesa, dunque, fonda la sua tesi sul semplice fatto che gli imputati, es-sendo militari professionisti, non facevano altro che eseguire gli ordini e non possono dunque essere condannati per questo.

Il film si conclude con il riconoscimento della colpevolezza degli imputati, che vengono tutti condannati a vario titolo, ma la vera mora-le della storia, con cui si chiudono in modo emblematico le vicende, viene affidata alle parole di Albert Speer, l’architetto tedesco ricono-sciuto colpevole per lo sfruttamento di manodopera in stato di schiavi-tù presso le industrie belliche tedesche. Speer è l’unico tra gli imputati ad assumersi la completa responsabilità etica per lo sterminio degli ebrei, e viene condannato a venti anni di reclusione da scontare presso il carcere di Spandau:

“Come ha potuto una grande nazione, così colta e sofisticata come la Germa-nia cadere sotto l’influenza demoniaca di Hitler? La risposta è nel nuovo si-stema di comunicazione”.

Qualcosa di simile è già presente nel discorso finale del Grande dit-

tatore (1941), in cui il genio di Chaplin presagiva quello che di lì a po-co sarebbe accaduto e, seppur in toni meno apocalittici, accusava la tecnologia di aver tradito quella promesse de bonheur che il progresso aveva lasciato intravedere:

“Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi in noi stessi. Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d’intel-ligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti la vita sarà

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violenta e tutto andrà perduto. L’aviazione e la radio hanno ravvicinato le genti: la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, recla-ma la fratellanza universale, l’unione dell’umanità”.

La scelta dell’ultimo film preso in esame cade su una pellicola del

2008, The Reader, realizzata da Stephen Daldry in una coproduzione americana e tedesca, che permette di riflettere su una nuova modalità di trattare i fatti storici, trasformando la memoria collettiva in una sor-ta di affresco che rimane sullo sfondo per lasciare spazio alle vicende minime dei personaggi, in un processo di democratizzazione dal basso della storia, in cui ad essere protagonisti non sono solo i condottieri e gli eroi, ma qualsiasi persona comune, testimone dei fatti narrati.

Possiamo affermare che, in questi prodotti, la storia slitti da testo a contesto. In tal senso, esempi significativi sono Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino o Il bambino con il pigiama a righe (2008) di Mark Herman, in cui le vicende della guerra sono il pretesto per giocare con i generi (la storia come ucronia) o rappresentare sentimen-ti universali (l’amore, l’amicizia, la solidarietà, etc).

In The Reader la linea narrativa legata alle vicende giudiziarie è af-fiancata dalla forte presenza di una sottotrama romance che, se da un lato arricchisce la psicologia dei personaggi di spessore e sfaccettature, dall’altro tende a banalizzare la portata universale del dramma dell’Olocausto schiacciandola sulle vicende emotive dei protagonisti.

La storia è quella dell’adolescente Michael Berg che, nel corso del se-condo combattimento mondiale, ha una relazione con una donna molto più grande di lui, Hanna Schmitz, che lo segnerà profondamente, soprat-tutto a causa della sua sparizione repentina e misteriosa. Soltanto otto an-ni dopo, a guerra ultimata, Michael, diventato uno studente di legge, ri-trova Hanna imputata per crimini di guerra nazisti. Nel corso del proces-so Michael scopre che la donna è in realtà analfabeta e per mantenere questo segreto, da lei ritenuto più infamante delle accuse che le vengono rivolte, preferisce assumersi la responsabilità dell’uccisione di 300 donne nel campo di concentramento in cui svolgeva servizio come sorvegliante, venendo così condannata all’ergastolo.

Al di là delle vicende personali dei due protagonisti, il film mette in scena l’elaborazione di una colpa collettiva e storica, che ricade an-che sulle generazioni successive. Queste, infatti, pur avendo preso par-te alle vicende belliche e agli stermini ebraici, sono destinate a portare il peso di un marchio infamante, come se il seme del male, che ha offu-scato la mente e i cuori della generazione che li ha preceduti, si fosse tramandato ai posteri che pagano il peso della consapevolezza e dell’ammissione di colpa. La legge, in questo caso, viene rappresentata come uno strumento spuntato, inefficace nel restituire una giustizia

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violata che può essere risarcita solo attraverso altre vie (forse quello del sacrificio umano, in una sorta di incivile “occhio per occhio”): “All’inizio credevo che questo processo fosse giusto, adesso penso che sia solo una scappatoia. Si scelgono sei donne, si mettono sotto proces-so e si dice queste sono le cattive, queste sono le colpevoli, solo perché una delle vittime ha scritto un libro. Per questo loro sono sotto proces-so e nessun altro. […] Tutti sapevano, i nostri genitori, i nostri inse-gnanti, ma non è questo il punto. Il punto è come avete potuto per-mettere che accadesse? Anzi meglio, perché non vi siete ammazzati quando l’avete scoperto? […] Sai cosa dovrei fare? Prendere una pi-stola e spararle io stesso. Sparare a tutte loro” – afferma un altro gio-vane studente di giurisprudenza”.

Michael in questo senso è un eroe impotente, che osserva senza agire lo svolgimento dei fatti, come dice egli stesso al suo professore di diritto: “sono a conoscenza di un’informazione che riguarda una delle imputate e che non è agli atti”, che potrebbe far cambiare il corso del processo portando, con tutta probabilità, a una forte riduzione della pena. Ma, seppur dilaniato dal dubbio, Michael sceglie di tacere da-vanti a una legge (quella dell’animo umano) che non ammette ignoran-za, davanti alla quale Hanna non può che essere colpevole. Da qui il paradosso giudiziario che inquina la bontà del procedimento, perché se è vero che dopo Norimberga la disubbidienza diventa obbligo quando un ordine imposto è immorale, qual è il limite entro cui l'etica può prendere il sopravvento sul diritto?

Michael, come afferma il suo professore, ha l’obbligo morale nei confronti della legge di riferire quello che sa in tribunale, eppure ha anche l’obbligo morale, nei confronti delle vittime e del popolo tede-sco, di fare in modo che i responsabili paghino. Ma è in questo modo, con l’omissione della verità, che il giovane protagonista si macchia anch’esso di una colpa, come a testimoniare l’impossibilità di sfuggire a un passato-ombra che torna a contaminare il futuro come un peso da cui è impossibile affrancarsi.

Sul finire del film, in un ultimo incontro chiarificatore tra Michael, ormai adulto, e un’anziana Hanna, un senso di ineluttabilità scende sui protagonisti, come un sipario alla fine di una rappresentazione:

“I morti sono morti […] Che cosa ho imparato, ragazzo? Ho imparato a leg-gere”.

E anche se queste parole di Hanna non offrono certo una pace che

assolve o rassicura, forse è l’unica possibile nel momento in cui ciò che è stato non può essere cambiato, ma può solo fare in modo che il son-no della ragione non generi altri mostri.

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LA DIFFAMAZIONE DEI PARTIGIANI: IL CASO BENTIVEGNA

Giuseppe Tucci

SOMMARIO: 1. Risorgimento e Statuto albertino, Resistenza e Costituzione nella memo-ria non condivisa degli Italiani. Via Rasella e il destino di R. Bentivegna. – 2. L’impatto emotivo delle Fosse Ardeatine e la ricorrente delegittimazione della Re-sistenza. Il ruolo di salvaguardia della Magistratura. – 3. Il processo a H. Kappler del 1948, le accuse a R. Bentivegna e la diffamazione della Resistenza romana. La Magistratura Militare e la Corte di cassazione penale. – 4. I processi civili contro R. Bentivegna ed i Capi della Resistenza romana. Ricostruzione dei fatti e principi giuridici. – 5. L’intreccio di giurisprudenza e storia nei processi contro R. Benti-vegna e i Capi della Resistenza romana. – 6. Il privilegio dello storico nell’età mo-derna e l’uso politico della storia prima e dopo la seconda guerra mondiale. – 7. Il processo contro E. Priebke e la campagna di stampa contro R. Bentivegna e la Resistenza romana. – 8. R. Bentivegna e le “ragioni” della Resistenza: la sua lotta contro il falso revisionismo fino all’ultimo anno di vita.

1. Risorgimento e Statuto albertino, Resistenza e Costituzione nella memoria non condivisa degli Italiani. Via Rasella e il destino di Ben-tivegna

Se è vero che, come dice il noto passo del Digesto, ex facto oritur

jus, è assolutamente necessario, per comprendere la complessa vicenda giudiziaria, ma anche politica, che lo ha visto protagonista, partire proprio dalla persona di Rosario Bentivegna, e dal particolare destino che gli è toccato in sorte dopo quel tragico episodio del 23 marzo 1944, che lo vide protagonista a Roma, in via Rasella, insieme alla sua compagna e poi moglie Carla Capponi1.

La diffamazione di Bentivegna, alla quale si è spesso accompagnata quella di Carla Capponi, con tutto il seguito di casi giurisprudenziali e di delicati problemi giuridici, ai quali ha dato luogo, è solo la manife-stazione più esasperata della ricorrente diffamazione dell’intero movi-mento partigiano, che ciclicamente ritorna non solo e non tanto nel dibattito storico in senso proprio, quanto, sopra tutto, nella lotta poli-tica e nel confronto mediatico successivo alla caduta del fascismo, con modalità che ricordano l’analogo destino toccato ai Patrioti del nostro

1 Indubbiamente, nell’intera vicenda in esame, la ricostruzione dei fatti, nel loro contesto storico-politico, si ripercuote inevitabilmente sulla singola decisione. Sul si-gnificato dell’antico brocardo v. M. Rotondi, Considerazioni “in fatto” e “in diritto”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 949 ss.; W. Cesarini Sforza, Ex facto oritur jus, in Studi filosofico-giuridici dedicati a Giorgio Del Vecchio, Modena, 1930, 87 ss.

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Risorgimento, in primo luogo a Mazzini, a Garibaldi ed ai loro seguaci. Una ricorrente diffamazione, questa, che sta a dimostrare la peculiarità della nostra storia nazionale: le due vicende fondamentali dell’Italia moderna, appunto il Risorgimento e la Resistenza, non sono mai di-ventate patrimonio condiviso della nostra identità nazionale, che è sta-ta e rimane sempre fragile e sempre a rischio di dissoluzione; così co-me sempre sotto tiro sono stati, prima, lo Statuto albertino, affossato da quella stessa Casa Savoia, che lo subì suo malgrado, specie nell’interpretazione parlamentare di Cavour, di Rattazzi e, fino all’ultimo, di Giolitti, poi, ancora oggi, la Costituzione repubblicana2.

A Rosario Bentivegna, giovane gappista della Resistenza romana, guadagnato all’antifascismo da Giorgio Amendola dopo il lungo viag-gio attraverso il fascismo, comune alla sua generazione, solo per caso toccò in sorte di appostarsi in via Rasella, in quella famosa giornata primaverile del 1944, di accendere la miccia del congegno, collocato dentro il carretto dell’immondizia, per fare poi esplodere lo stesso nel mezzo del corteo armato dei trentatré SS Bozen, che risalivano la ce-lebre salita e che ivi trovarono la morte.

Alcuni dati risultano indiscussi, perché accertati a livello di indagi-ne storica e di verità processuale, anche se vengono sempre e, come vedremo, pure di recente, nascosti dai denigratori di Bentivegna e del-la Resistenza romana.

In primo luogo, i trentatré uccisi, contrariamente a ciò che si so-stiene solitamente nelle cicliche campagne diffamatorie, non erano pa-cifici montanari italiani di origine altoatesina; erano germanofoni, ar-ruolati nelle SS e scelti proprio per compiere i numerosi rastrellamenti, che le truppe di occupazione naziste organizzarono in quella Roma “Città aperta”, immortalata poi da Roberto Rossellini nell’omonima opera cinematografica3.

In secondo luogo, a progettare l’impresa fu il capo dei comunisti italiani all’interno della Resistenza romana, Giorgio Amendola, che aveva notato, come più volte precisò espressamente, assumendosi tutte

2 V., in particolare, G. Dell’Arti, Cavour. Vita dell’uomo che fece l’Italia, Roma,

2001, 56 ss.; A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano, 2012, 248 ss. Sull’atteggiamento di Vittorio Emanuele III di fronte al progressivo svuotamento dello statuto da parte del fascismo, v. D. Mack Smith, I Savoia Re d’Italia, Milano, 2012, 349. Per la diffidenza verso la Costituzione repubblicana, v. P. Calamandrei, Dieci an-ni di segregazione, in Scritti e discorsi politici, I, 2, Firenze, 183 ss.; V. Onida, La Costi-tuzione ieri e oggi, Bologna, 2008, 43 ss., e, per un efficace bilancio degli ultimi tempi, v. Costituzione in trincea. Democrazia 2.0, la parola a Stefano Rodotà, www.caffenews.it

3 V. anche R. Katz, Roma città aperta. Settembre 1943-Giugno 1944, Milano, 2009, 282 ss.; Id., Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Roma, 1996, 87 ss.

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le responsabilità personali e politiche dell’episodio, il passaggio di quel drappello di SS da via del Tritone fino a via Rasella, sempre alla stessa ora del primo pomeriggio, e che ne propose l’attacco, secondo modali-tà poi definite dal capo dei Gap romani, Carlo Salinari 4 ; fu quest’ultimo a chiedere proprio a Bentivegna ed alla sua compagna Carla Capponi se se la sentissero di realizzare quell’impresa. L’attentato di via Rasella, pertanto, sul terreno della verità processuale, prima ancora che nella prospettiva dell’indagine storica, fu una vera e propria azione di guerra, qualificata in questi termini dalla giurispru-denza formatasi sulla tragica vicenda, riconducibile allo Stato italiano ed eseguita in un preciso contesto della seconda guerra mondiale, in cui le truppe naziste, dopo aver occupato Roma nel settembre del 1943, torturavano quelli che osavano opporsi al loro dominio, com-piendo continue deportazione e razzie, specie contro gli ebrei, già de-bitamente schedati grazie alle leggi razziali; e ciò mentre gli angloame-ricani, inchiodati sul fronte di Cassino, potevano solo esortare la Resi-stenza romana a “rendere impossibile la vita agli invasori tedeschi”5.

L’episodio di via Rasella fu, in definitiva, uno dei tanti episodi del-la Resistenza europea e, in particolare, uno dei tanti episodi di guerri-glia urbana, che si verificarono nei paesi europei occupati dai nazifa-scismi. In nessuno di questi paesi, però, si ebbe, proprio contro i pro-tagonisti di quell’eroica lotta, un’ondata di processi così massiccia, come quella che conobbe l’Italia, specie nel secondo dopo guerra, nell’ambito della quale Rosario Bentivegna fu la vittima più significati-va6. Dal secondo dopoguerra sino, in pratica, agli ultimissimi anni del-la sua vita, cessata nell’aprile del 2012, egli subì numerosi processi pe-nali, fu citato in diversi giudizi civili, alcuni dei quali intentati da pa-renti di vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fu costretto ad in-tentare, a sua volta, per difendersi da perverse campagne di stampa, numerosi giudizi civili e anche previdenziali, quando si tentò di ostaco-lare persino la sua carriera di medico specialista, che svolgeva con grande passione.

Chi lo ha conosciuto personalmente - e chi scrive ha avuto tale pri-vilegio- non può non ricordarlo come un uomo mite, dai tratti signori-

4 V. G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, 1973, 295 ss. 5 Sempre utili risultano a riguardo le considerazioni di R. Battaglia, Storia della

Resistenza Italiana, Torino, 1964, 224 ss. Per la giurisprudenza, v. , sin da ora, Cass., S.U., 19 luglio 1957, n. 3053, in Foro it., 1957, I, c. 1398, e Cass. pen., 23 febbraio 1999, Bentivegna, in Foro it., 1999, II, spec. 277, che saranno esaminate in seguito.

6 Per un quadro generale delle rappresaglie naziste contro le iniziative del movi-mento partigiano nei diversi paesi europei, v. R. Villari, Mille anni di storia. Dalla città medievale all’unità dell’Europa, Roma-Bari, 2005, 711. G. De Luna, La storia, IX, L’età contemporanea. Dal primo al secondo dopoguerra, Milano, 1988, 532 ss.

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li, che testimoniavano la sua discendenza da una nobile famiglia sici-liana, dotato di una grande curiosità intellettuale, che coltivò sino agli ultimi giorni della sua esistenza, legato, per tutta la vita, a Giorgio Amendola ed all’area c.d. “migliorista”, cioè a quella parte del Partito comunista che sollecitava una completa e convinta adesione alla cultu-ra ed agli ideali del socialismo europeo come inevitabile via d’uscita dalla sempre più evidente ed irreversibile crisi del comunismo7.

“Ho trascorso quasi tutti i miei ottantanove anni nel ‘secolo breve’ – afferma nella sua autobiografia del 2011 – … e non ho mai smesso di stare dalla parte dei ‘diritti dell’uomo’, di quei principi che le Nazioni Unite avevano individuato nel 1941 quali parole d’ordine della loro guerra al fascismo internazionale: libertà di pensiero e di parola, liber-tà dalla paura, libertà dal bisogno”8. Come tanti altri della sua genera-zione e della successiva, l’adesione al Partito comunista fu da lui vissu-ta come scelta innanzi tutto antifascista ed a questi ideali egli rimase fedele per tutta la sua vita.

2. L’impatto emotivo delle Fosse Ardeatine e la ricorrente delegitti-mazione della Resistenza. Il ruolo di salvaguardia della Magistratura

Le vicende giudiziarie che si possono fare rientrare nel caso Benti-

vegna, come si è detto, sono varie, oltre che di diversa natura, e si sono svolte in epoche lontane tra loro.

Per la ricostruzione delle stesse, ci si può avvalere, oggi, di accura-tissime e pregevoli ricerche giuridiche e dei diversi scritti autobiografi-ci dello stesso Bentivegna, tra i quali sopra tutto l’ultimo libro, già cita-to, che ricostruisce, con grande accuratezza, l’odissea da lui vissuta nei diversi processi, in cui è stato coinvolto o ai quali ha dato direttamente impulso per difendersi dalle campagne diffamatorie, orchestrate a suo danno9.

A tale riguardo, è bene considerare il caso unitariamente, per

7 D’obbligo è a riguardo il richiamo a G. Napolitano, Dal PCI al socialismo euro-peo. Un’autobiografia politica, Roma - Bari, 2005, e Id., Europa politica. Il difficile ap-prodo di un lungo percorso, Roma, 2003.

8 V. R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, Torino, 2011, 3 ss.

9 Per la ricostruzione giuridica dell’intera vicenda delle Fosse Ardeatine v. G. Re-sta – V. Zeno-Zencovich, Judicial “Truth” and Historical “Truth”: The Case of the Ar-deatine Caves Massacre, in corso di pubblicazione in Law & History Review, n. 31, 2013; F. Cipriani, Piero e Franco Calamandrei. Tra via Rasella e le Fosse Ardeatine, in Clio, 2009, 65 ss. Per le opere autobiografiche di Bentivegna, oltre a quella sopra cita-ta, v. anche Achtung Banditen. Prima e dopo via Rasella, Roma, 2004 e Via Rasella. La storia mistificata, Roma, 2006.

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l’intero arco del cinquantennio, in cui si è realizzato, come se si trattas-se di un unico processo, proprio perché, in tale prospettiva, risultano evidenti i caratteri anomali dello stesso, anche all’interno dell’anomalia propria della nostra storia politico-istituzionale, e se ne individuano alcuni aspetti di carattere generale, che sono da mettere subito in evi-denza.

Le campagne diffamatorie contro Bentivegna non sono mai dirette soltanto contro la sua persona e non hanno ad oggetto solo lo specifico episodio di via Rasella, con la conseguente rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Esse utilizzano, per finalità più ampie, l’impatto emotivo di quell’episodio, realizzatosi – non bisogna mai dimenticarlo – a Roma, ma vanno ben oltre la vicenda delle Fosse Ardeatine.

La prima di queste campagne risale, come vedremo, al maggio 1948, e mira a delegittimare l’intera Resistenza, nell’ambito del più ge-nerale disegno di mettere fuori legge il Partito comunista italiano e di sovvertire l’assetto istituzionale sancito dalla Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948; Costituzione sottoscritta, oltre che da Enrico De Nicola, in qualità di Capo provvisorio dello Stato, e da Alcide De Gasperi, in qualità di Presidente del Consiglio, dal Presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini, fondatore dello stesso Partito comunista e vittima della condanna detentiva più severa com-minata dal Tribunale speciale fascista nel corso della sua attività10.

Il tentativo di mettere fuori legge il Partito comunista, come è no-to, non riuscì; ad esso si oppose, in primo luogo, lo stesso Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che, nel 1951, rifiutò di compiere il primo passo verso la legittimazione istituzionale del neofascismo in oc-casione delle elezioni comunali di Roma, subendo per il resto della sua vita l’ostracismo di Pio XII. Ma, con grande coerenza, si rifiutò di se-guire questa strada anche la parte più significativa del gruppo dirigen-te democristiano, che continuò sempre a riconoscersi nella Costituzio-ne repubblicana e non rinnegò mai la solidarietà tra le diverse compo-nenti dell’antifascismo11.

La seconda campagna diffamatoria contro Bentivegna, ma in realtà contro l’intera Resistenza, inizia nel 1994, in occasione del processo contro E. Priebke ed in concomitanza con la prima vittoria e la conse-guente consacrazione di Silvio Berlusconi come leader-padrone della politica italiana. Essa si protrae nel tempo, di fatto sino alla morte di Bentivegna, e si sviluppa in un situazione politico- istituzionale com-

10 Sulla figura di Umberto Terracini v. L. Giannotti, Umberto Terracini. La pas-

sione politica di un padre della repubblica, Roma, 2005, II ed., Roma 2008, spec. 116 ss. 11 Su questa complessa pagina della nostra storia istituzionale, v. A. D’Angelo, De

Gasperi, le destre e l’“operazione Sturzo”, Roma, 2002, 27 ss.

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pletamente diversa dalla prima, quando ormai il comunismo interna-zionale non esiste più, il Partito comunista italiano ha cambiato nome e lo stesso Bentivegna è fuori da tempo dalle diverse formazioni poli-tiche create dagli epigoni del comunismo.

L’attacco a Bentivegna, in termini molto più rozzi rispetto a quelli praticati nel lontano 1948, non è però casuale. Infatti, la strategia del nuovo Cavaliere, il secondo nella storia d’Italia dopo il Cavaliere Beni-to Mussolini, destinata a risultare vittoriosa anche una seconda volta alla fine del primo decennio del XXI secolo, si fonda sullo sdogana-mento dell’area neofascista, diventata Alleanza Nazionale, e su un an-ticomunismo dai toni farseschi, che, a differenza di quello degli anni quaranta del secolo scorso, esorcizza i pericoli eversivi di quello che era ormai un fantasma, evocato con martellante ed ossessiva continuità da mezzi di comunicazione di massa, di cui era ed è proprietario lo stesso proprietario del partito di maggioranza12. Il miscuglio di questi ingredienti risultò vincente, grazie alla forza mediatica privata del Ca-valiere ed alla conseguente videocrazia che egli riuscì ad imporre all’intero paese, oltre che a causa della disastrosa inconsistenza dei suoi oppositori13. L’obiettivo che la nuova maggioranza si propose fu anco-ra una volta il cambiamento dell’assetto istituzionale del paese, nella prospettiva di una repubblica presidenziale di tipo padronale, tagliata su misura sulle esigenze del leader-padrone; obiettivo che richiedeva e richiede come necessario presupposto la delegittimazione della Costi-tuzione repubblicana, di cui veniva esaltato il presunto carattere “co-munista”, con una campagna mediatica martellante ed omogenea alla sempre ricorrente incultura della classe dirigente italiana14. La scorcia-toia più comoda, pertanto, venne ritenuta, ancora, quella di presentare Bentivegna, i partigiani comunisti e, con loro, l’intera Resistenza, come i veri responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Anche questo tentativo risultò perdente sul piano politico per l’assoluta incapacità della maggioranza di centro destra di ipotizzare una riforma costituzionale degna di questo nome, ma Bentivegna, or-mai novantenne e vicino alla morte, fu costretto a ribadire fino alla fine vicende accertate da numerosissime sentenze ormai passate in giudica-to. Da ultimo, gli toccò in sorte persino di polemizzare con Maurizio

12 V. D. Nalbone - G. Russo Spena, Postfascisti durante e dopo Berlusconi, Roma,

12 ss. 13 Una serrata analisi di tale complessa vicenda è in G. Fiore, Il venditore, Milano,

2004, 87 ss. 14 In tal senso v. L. Mariucci, Il pasticcio della riforma costituzionale del centrode-

stra. Tragedia o commedia?, in Astrid, Studi, note e commenti sulla riforma della secon-da parte della Costituzione, Astrid-on line.it/FORUM.

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Gasparri, al quale, nella sua ottimistica ingenuità, inviò in omaggio addirittura un suo libro, che fu prontamente rispedito al mittente15.

Solo sul piano giudiziario Bentivegna riuscì ad ottenere, anche questa volta, una idonea tutela della sua persona grazie ad una magi-stratura, che, anche in tale occasione, come un cinquantennio prima, in contesti politici ed istituzionali diversissimi tra loro, svolse sempre con coerenza il proprio ruolo, mantenendosi, complessivamente, nell’alveo della più rigorosa legalità ad ogni livello.

3. Il processo a H. Kappler del 1948, le accuse a Bentivegna e la dif-famazione della Resistenza romana. La Magistratura Militare e la Corte di cassazione penale

Con una strategia che si ripete sia nel 1948 sia nel 1994, le campa-gne diffamatorie contro Bentivegna e la Resistenza romana prendono lo spunto dall’apertura di procedimenti contro i responsabili nazisti dell’eccidio delle Forze Ardeatine. Accadde esattamente ciò nel pro-cesso che si svolse contro il tenente colonnello Herbert Kappler in-nanzi al Tribunale Militare di Roma dal maggio al luglio 1948, cioè nell’arco di tempo immediatamente successivo alla vittoria democri-stiana del 18 aprile e l’attentato a Togliatti, che segna il momento di maggior tensione della campagna anticomunista16.

Già il 24 marzo 1948, a meno di un mese dalle elezioni del 18 apri-le, i Comitati civici di Gedda, sfruttando l’anniversario dell’eccidio, riempirono Roma di manifesti, in cui si riprendeva il falso, fabbricato di sana pianta dai repubblichini romani immediatamente dopo l’eccidio, dei presunti avvisi nazisti, che avrebbero invitato i partigiani di via Rasella a costituirsi per evitare l’illegittima ritorsione nazista.

Tutte le sentenze delle diverse magistrature nei rispettivi gradi di giudizio hanno accertato, nel pieno rispetto del contraddittorio, che, per ragioni di segretezza e per realizzare la strage in maniera indistur-bata, l’eccidio delle Ardeatine fu reso pubblico dai suoi esecutori solo dopo che fu compiuto17; ma il dato viene sempre sistematicamente

15 Sulla particolare condotta di Gasparri, v. R. Bentivegna, Senza fare di necessità

virtù. Memorie di un antifascista, cit., 301. 16 La sentenza del Tribunale Militare Territoriale di Roma, in data 20 luglio 1948,

n. 631, in Rass. Giust. Milit., 1948, ora in http:// www.difesa.it/GiustiziaMilitare. La sentenza dichiara Kappler responsabile del reato di omicidio continuato ed altresì del reato di requisizione arbitraria e lo condanna all’ergastolo per il primo reato ed a quindici anni di reclusione per il secondo.

17 Infatti, già la sentenza del luglio 1948, redatta dal Tribunale Militare Territoria-le di Roma, precisa che soltanto “Il 25 marzo i giornali italiani, che in quel tempo ve-

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ignorato, persino nelle ultime polemiche, al fine di sfruttare la reazione del pubblico e, sopra tutto, dei parenti delle vittime, ai quali risulta ben difficile spiegare, a prescindere da ogni altra cosa, un dato eviden-te: e cioè che a nessun movimento di liberazione si può chiedere di fa-re costituire spontaneamente i propri adepti per evitare le vendette contro estranei innocenti, delle quali sono responsabili solo i soggetti che le organizzano e poi le attuano18.

La trappola funzionò alla perfezione già in sede del primo proces-so contro Kappler. Quando Il Presidente del Tribunale militare, nel tentativo di trasformare il processo contro Kappler in un processo contro Bentivegna e la Resistenza romana, chiese a Bentivegna, nelle vesti di testimone, perché i GAP non avessero preso in considerazione la possibilità di consegnarsi alle autorità tedesche, la madre di un ca-duto, scossa dal clima di caccia alle streghe che ormai esisteva nell’intero paese, si scagliò contro Bentivegna, urlando: “perché non ti sei presentato? Mio figlio è stato ucciso”19.

Malgrado il clima ormai creato nel paese e a Roma, in particolare, già nel luglio di quello stesso anno, appena pochi giorni dopo l’at-tentato a Togliatti, il Tribunale Militare di Roma, assolvendo tutti gli altri esecutori per essere stati assoggettati ad un ordine superiore e ne-gando all’attacco di via Rasella la qualifica di legittimo atto di guerra, condannò Kappler all’ergastolo ed a quattro anni di isolamento per omicidio continuato e aggravato, compiuto con premeditazione e ven-detta; e ciò perché mise sopra tutto in rilievo la circostanza dei cinque ostaggi in più sulla lista sfuggiti al controllo del carnefice20.

Il Tribunale Supremo Militare, chiamato a pronunciarsi sul caso, in seguito al ricorso di Kappler, eliminò ogni dubbio con una sentenza

nivano pubblicati alle ore 12, recavano la notizia dell’attentato di Via Rasella e della fucilazione di dieci ‹comunisti badogliani› per ciascuno dei 32 soldati tedeschi morti”. Nella stessa ricostruzione in fatto si precisa, ad opera dello stesso Kappler, che il gene-rale Schutze aveva pensato in un primo tempo di avvertire le future vittime della loro sorte, ma che poi non lo aveva fatto “…per evitare che qualche prigioniero del primo autocarro, durante la strada, potesse gridare che era condotto alla fucilazione col pro-babile risultato che, al passaggio degli autocarri successivi, si verificassero dei tentativi di liberazione”. Il dato viene ulteriormente ribadito da Cass. pen., 16 novembre 1998, ric. Hasse, Priebke, in Foro it., 1999, II, spec. 284.

18 Per tale dinamica v. A. Lepre, Via Rasella. Leggenda e realtà della Resistenza a Roma, Roma-Bari, 1996, 72 ss.

19 L’episodio è ricordato dallo stesso Bentivegna. V., infatti, R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, cit., 254.

20 Ciò spiega perché il Tribunale Militare Territoriale di Roma, nella già citata sentenza del 29 luglio 1948, n. 631, dichiarò Kappler responsabile del reato di omici-dio continuato ed altresì del reato di requisizione arbitraria per la sottrazione dell’oro agli ebrei all’inizio dell’occupazione nazista di Roma.

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del 1952, confermata poi dalla Suprema Corte di cassazione nel 1953, in cui si qualificava la rappresaglia come illegittima, si escludeva ogni responsabilità dei Patrioti romani, anche se si continuò a negare all’attacco di via Rasella la qualifica di legittimo atto di guerra, perché commesso da persone alle quali non doveva riconoscersi la qualifica di legittimi belligeranti; attacco, rispetto al quale comunque né gli orga-nizzatori né gli esecutori potevano essere considerati responsabili del massacro commesso dal comando tedesco sotto il nome di rappresa-glia21.

L’odissea giudiziaria di Bentivegna e la diffamazione dell’intero movimento partigiano non cessò certo con il processo Kappler; anzi, paradossalmente si può dire che sia cominciata con esso, malgrado la condanna del tenente colonnello nazista e la chiarezza delle motiva-zioni, con cui la stessa è stata confermata nei diversi gradi di giudizio.

All’inizio del 1949, cinque familiari di caduti alle Fosse Ardeatine intentarono un giudizio civile per risarcimento danni, questa volta contro l’intera Giunta militare del CNL di Roma, nelle persone di Giorgio Amendola, Riccardo Bauer e Sandro Pertini, con conseguente chiamata in causa dei membri dei GAP centrali di Roma nelle persone di Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Carla Capponi e, naturalmente Rosario Bentivegna. Nella citazione chiedevano la condanna di tutti, comandanti ed esecutori materiali dell’attentato, al risarcimento del danno da loro subito in conseguenza della morte dei familiari; essa, ovviamente, veniva imputata all’intero movimento partigiano della ca-pitale e non alle truppe di occupazione tedesche, che avevano trucida-to soggetti, che, in quanto ostaggi al momento in cui i fatti di via Rasel-la si verificarono, certamente non erano responsabili di quella vicenda.

Per comprendere l’assurdità di questa triste pagina, che non è cer-to soltanto di cronaca giudiziaria, bisogna tener presente una peculia-rità della nostra storia politico-istituzionale, che differenzia l’Italia da tutti gli altri paesi europei, sottoposti all’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale, e persino dalla Germania, che, se non ha conosciuto la guerra partigiana, ha tenuto verso il suo passato nazista un atteggiamento di coerente rifiuto a tutti i livelli. In Italia, il Movi-mento Sociale Italiano, il M.S.I. – che si richiamava apertamente e con continuità ai presunti valori fascisti e che annoverava, tra le sue più al-te cariche, protagonisti delle campagne razziali, come lo stesso leader Giorgio Almirante, e dell’appoggio militare più servile alle truppe fa-

21 V. Trib. Supremo militare, 25 ottobre 1952, n. 1714, in

www.difesa.it/GiustiziaMilitare/../Kappler, passata in giudicato dopo che Cass., Sez. Unite Penali, 19 dicembre 1953, n. 26, in www.difesa.it/GiustiziaMilitare/../Kappler dichiarò inammissibile il ricorso presentato dai legali di Kappler.

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sciste, come il famigerato maresciallo Graziani – fu legittimato politi-camente e fu sempre tenuto disponibile anche per la legittimazione istituzionale come vera e propria forza di governo, quando era neces-sario ed utile alle forze di maggioranza in nome dell’anticomunismo. È questa la ragione per la quale a nessuna forza politica tedesca né a nes-sun partito francese, per fare un esempio concreto, è venuto in mente di farsi rappresentare nel Parlamento europeo, come è accaduto per l’Italia, dalla nipote di Hitler o del maresciallo Pétain; quest’ultimo, anzi, con una discutibile censura della storia, viene sistematicamente ignorato persino quando, nei primi di novembre di ogni anno, si ri-corda la vittoria francese nella prima guerra mondiale, di cui egli fu indiscutibile protagonista. A ben vedere, è sopra tutto questa la ragio-ne dell’ininterrotta persecuzione giudiziaria contro Rosario Bentivegna e, in genere, contro l’intera Resistenza22.

La conseguenza di tale scelta fu che la stampa neo fascista ed i suoi rappresentanti in Parlamento furono in grado di praticare liberamente una costante apologia del passato regime ed un’altrettanto costante opera di diffamazione della Resistenza.

Come ricorda lo stesso Bentivegna nella sopra citata autobiografia, malgrado l’esito univoco dei diversi processi, nel decennale della libe-razione, cioè nel 1955, il quotidiano del partito neofascista, nel fare la cronaca della commemorazione delle Forze Ardeatine, precisava, ri-portando l’intervento in Parlamento di un deputato di quel partito,che la commemorazione aveva dato luogo ad una speculazione sulle vitti-me, “... la cui responsabilità risaliva agli infami assassini di via Rasel-la”23. Del resto, persino il capo dell’esercito repubblichino, Rodolfo Graziani, venne non solo gratificato della carica di presidente onorario del partito neofascista, ma anche omaggiato, come accade ancora oggi con monumenti a lui dedicati, dalla nuova destra e ieri da quelle forze della Democrazia Cristiana, per fortuna mai diventate egemoni, che, per tutti gli anni cinquanta, non rinunziarono mai, sotto la spinta di precisi ambienti vaticani e statunitensi, al disegno di mettere fuori leg-ge il Partito comunista, promuovendo il Movimento Sociale a forza organica di governo, con tutto il peso della sua non sconfessata eredi-tà24.

22 Utile a riguardo è M. Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia

repubblicana (1945-1960), Roma, 2008. 23 Su tale particolare v. ancora R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memo-

rie di un antifascista, cit., 257. 24 Per tali vicende v. G.A. Stella, Quel mausoleo alla crudeltà che non fa indignare

l’Italia. Il fascista Graziani celebrato con i soldi della Regione Lazio, in Il Corriere della Sera, 30 settembre 2012; N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Milano, 2006.

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Il tentativo più coerente di realizzare questo disegno fu praticato nel 1960, quando il governo presieduto dal democristiano Tambroni, che si reggeva apertamente in Parlamento sui voti del Movimento So-ciale, tentò di legittimare la presenza di tale partito anche nell’intera società civile, autorizzandone il Congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza.

La reazione dell’opinione pubblica, anziani e, sopra tutto, giovani, fu tale che il governo fu costretto a dimettersi e la democrazia cristia-na, che, allo stesso modo del De Gasperi del 1951, rimase sempre lega-ta alla solidarietà antifascista, almeno nei suoi dirigenti più qualificati, imboccò la strada del centro sinistra e delle riforme25.

4. I processi civili contro Bentivegna ed i Capi della Resistenza roma-na. Ricostruzione dei fatti e principi giuridici

Il processo civile, intentato dai cinque familiari di alcuni caduti

delle Fosse Ardeatine contro la Giunta militare del CLN romano e i membri dei GAP romani, che parteciparono all’episodio di via Rasella, difesi da Arturo Carlo Jemolo e da Dante Livio Bianco, si concluse con il rigetto della richiesta di risarcimento, avanzata dai parenti delle vit-time. Il Tribunale civile di Roma, con una sentenza del 1950, motivò la sua decisione, riconoscendo, questa volta, la piena legittimità dell’attentato di via Rasella, perché effettuato a danno di forze militari occupanti e non compiuto, come sostenevano ed hanno sempre conti-nuato a sostenere i neofascisti, per l’interesse particolare di un deter-minato partito politico26. Lo scopo dell’attentato, continuava la moti-vazione del Tribunale, era quello di combattere i tedeschi, come era del resto la finalità istituzionale dei GAP, formazioni militari di ade-renti al partito comunista, il cui compito precipuo – precisava sempre la motivazione della sentenza in esame – era quello di compiere atten-tati contro comandi o singoli esponenti politici e militari del nemico, oltre che atti di vero e proprio sabotaggio27.

La sentenza della Corte d’appello di Roma del maggio 1954 con-fermò la decisione del Tribunale, arricchendone la relativa motivazio-

25 A riguardo v. P. Ignazi, Il foro escluso, Bologna, 1989, 93 ss. 26 V. Trib. Roma, 9 giugno 1950, n. 2322, in Foro it., 1950, I, 926 ss., e in Giur. it.,

1950, I, 2, 577, con nota di D.R. Peretti Griva, L’attentato di via Rasella e la responsa-bilità per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

27 V. ancora Trib. Roma, 9 giugno 1950, n. 2322, cit., 579

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ne, e lo stesso fece la successiva sentenza del 1957 della Suprema Corte di cassazione, a Sezioni Unite28.

Emergeva ormai chiaramente dalle diverse sentenze, che si sono sopra richiamate, che l’attentato di via Rasella doveva e deve conside-rarsi vero e proprio atto di guerra, come tale pienamente legittimo ed anzi meritevole di particolare menzione29. Proprio per tale sua indiscu-tibile natura, gli esecutori dell’attentato non possono qualificarsi rei, ma legittimi combattenti, così come i trucidati delle Fosse Ardeatine sono da considerare non semplici danneggiati, ma martiri caduti per la Patria. D’altra parte, si precisa ancora nel corpo delle sentenze sopra richiamate, il riconoscimento dei Partigiani come legittimi belligeranti non poteva e non può essere posto in alcun dubbio nell’ambito dell’ordinamento italiano, ove si consideri che, con il D.lgs. 21 agosto 1945, n. 518, si riconduceva allo Stato italiano la piena responsabilità sia per gli atti svolti dal Corpo Volontari della Libertà in senso proprio sia per le attività compiute da coloro che avevano svolto azioni di par-ticolare rilievo contro gli occupanti nazisti ed i loro alleati repubbli-chini; e ciò anche in quanto, come ricorda la richiamata sentenza delle Sezioni Unite 3053/1957, sin dal momento della dichiarazione di guer-ra contro la Germania (13 ottobre 1943), il legittimo governo italiano aveva incitato tutti gli italiani a ribellarsi ed a contrastare con ogni mezzo l’occupazione tedesca30.

Per comprendere il significato generale che la guerra partigiana e, in particolare, la guerriglia urbana, ebbe nell’intera dinamica della se-conda guerra mondiale, occorre ricordare che, con riferimento alla precedente Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 e di quella di Ginevra del 12 agosto 1949, le norme di diritto internazionale sulla guerra furono riformulate dalla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, che, in particolare all’art. 4, introdusse la nuova categoria di ap-partenenti ai movimenti di Resistenza, organizzati nei territori occupa-ti dal nemico al fine di riconoscere, senza alcun dubbio, agli stessi la qualifica di legittimi combattenti31.

Rispetto a quel famoso attentato, pertanto, né gli organizzatori né

28 V., rispettivamente, C. App. Roma, 5 maggio 1954, n. 11057, e Cass., S.U., 9

maggio 1957, n. 3053, in Foro it., 1957, I, 1398 ss., e in Giur. it., 1957, I, 1, 1122, con nota di D.R. Peretti Griva, Ancora sull’attentato di via Rasella.

29 Ampia trattazione di tale punto è in F. Agostini – F. Andreozzi – F. Luberti – F. Tarsitano, Via Rasella. Un atto legittimo di guerra, Roma, 1998, spec. 31 ss.

30 Ampiamente in questo senso v. già D. Peretti Griva, Sulla funzione pubblicistica del partigiano, in Giur. it., 1947, I, 73 ss.; Id., L’attentato di via Rasella e la responsabi-lità per l’eccidio delle forze ardeatine, ivi, 1950, 577 ss.

31 Sul problema v. F. Capotorti, Qualificazione giuridica dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in Rass. dir. pubbl., 1949, 170 ss.

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gli esecutori dello stesso potevano e possono mai essere considerati re-sponsabili di quello che fu un vero e proprio massacro, perpetrato dal Comando tedesco sotto il nome di rappresaglia non contro dei sempli-ci danneggiati, ma contro veri e propri martiri caduti per la loro Patria.

L’attentato di via Rasella, in definitiva, deve essere ritenuto com-piuto da legittimi combattenti a danno di forze militari occupanti, allo scopo non certo di soddisfare l’interesse di un determinato partito, quello comunista, come hanno sempre sostenuto i suoi detrattori, ma per combattere gli occupanti tedeschi, come era nelle finalità istituzio-nali dei GAP e della guerriglia urbana, che non è certo un’invenzione della Resistenza romana, ma la pagina forse più tragica della lotta con-tro il nazifascismo, come ricorda, tra l’altro, una delle opere letterarie più significative del nostro secondo dopo guerra, Uomini e no di Elio Vittorini32.

5. L’intreccio di giurisprudenza e storia nei processi contro Bentive-gna e i Capi della Resistenza romana

A prescindere per ora dai problemi affrontati nei processi, cui die-

de luogo la seconda campagna di diffamazione contro Bentivegna e la Resistenza romana, che sono, come si vedrà, di natura in parte diversa rispetto a quelli fino ad ora esaminati, già la sola enunciazione delle domande, alle quali la magistratura fu chiamata a rispondere, dimostra che il Giudice mai come in questa vicenda è stato chiamato a risolvere questioni, che impegnano anche lo storico nel suo più delicato e speci-fico lavoro di ricerca della verità degli eventi passati.

Di fronte a tale complesso corpo di decisioni giudiziarie passate in giudicato, bisogna subito precisare che le ricerche e le conseguenti va-lutazioni dello storico non possono essere paralizzate da quella che si chiama la verità processuale, in quanto quelle ricerche e quelle valuta-zioni rispondono a logiche ed a finalità diverse da quest’ultima, anche se le rispettive indagini ed i relativi risultati non possono non interferi-re tra loro.

Come avviene per la valutazione storica delle crociate o per episodi particolari del nostro Risorgimento, come la spedizione dei Mille con-tro quelli che molti ritengono ancora oggi il “legittimo” governo bor-bonico, nessuno potrà impedire allo storico del futuro, malgrado le di-verse decisioni che si sono sopra richiamate, di sostenere che l’attentato di via Rasella sia stato una pura provocazione e fonte di inu-

32 Il celebre romanzo di E. Vittorini fu pubblicato da Bompiani nel 1945 e succes-

sivamente da Mondadori, Collana Oscar, nel 2001.

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tili lutti, perché sarebbe stato più saggio attendere che le truppe alleate venissero a liberare Roma, oppure che i GAP operavano in maniera velleitaria unicamente per creare visibilità al partito comunista; saran-no le motivazioni addotte a sostegno di tali tesi a rendere le stesse più o meno credibili. Nessuno storico del futuro potrà, invece, mai soste-nere, a meno che non porti ulteriore materiale probatorio a sostegno delle sue tesi, che i nazisti avrebbero invitato i partigiani di via Rasella a costituirsi per evitare la presunta rappresaglia oppure che i trentatré altoatesini uccisi nel famoso attentato fossero dei pacifici montanari dell’Alto Adige italiano, che peraltro, nel 1944, ribattezzato come Sud Tirol, faceva parte integrante del grande Reich tedesco; e ciò non per-ché non si possa contestare, sul piano storico, un fatto accertato con sentenza passata in giudicato, ma semplicemente perché non è corretto per lo storico ignorare fatti accertati in sedi diverse, con la conseguen-za che quella negligente o dolosa ignoranza può essere lesiva dell’altrui onore o reputazione; a meno che, si ripete, lo storico non adduca ele-menti nuovi come frutto delle sue ulteriori libere ricerche, che vadano al di là della verità processuale accertata dal giudice.

La vicenda di Bentivegna e della diffamazione della Resistenza ro-mana, però, non sempre riguarda i corretti e inevitabilmente complessi rapporti tra verità storica e verità processuale; e ciò in quanto in questa vicenda spesso lo storico – o meglio il giornalista che si fa storico- non contesta la verità processuale con una diversa e più corretta ricostru-zione dei fatti, ma, a prescindere dal caso in cui falsifica deliberata-mente il materiale probatorio, come pure è avvenuto, ripete il più delle volte,in maniera quasi ossessiva, una versione delle stesse vicende sen-za tenere conto che quelle versioni sono state più volte smentite attra-verso prove raccolte in giudizio e mai contestate nemmeno in sede di libera ricerca dei fatti a livello di indagine storica; sicché con ciò si vio-la ogni corretto equilibrio tra la libertà della ricerca e delle valutazioni dello storico – o spesso del giornalista che pretende di essere storico- e la tutela dei diritti inviolabili dei soggetti che sono coinvolti in quelle vicende che lo storico ricostruisce.

6. Il privilegio dello storico nell’età moderna e l’uso politico della sto-ria prima e dopo la seconda guerra mondiale

Come si è diverse volte rilevato, l’età moderna sancisce, sin dal suo

nascere, la libertà assoluta dello storico. Il terreno della storia conosce quello che noi chiamiamo il processo di “giuridificazione” solo a parti-re, in via orientativa, dalla fine della seconda guerra mondiale.

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“…Una cosa è scrivere da poeta, e un’altra scrivere da storico- precisa, nel capolavoro di Cervantes, all’inizio, quindi, dell’età moderna, il baccelliere Sansone Carrasco in polemica con don Chisciotte – il poeta può raccontare o cantare le cose non come furono, ma come dovevano essere; e lo storico deve scriverle, non come dovevano essere, ma come furono, senza togliere o ag-giungere nulla alla verità”33.

Nell’aprile del 1865, una sentenza della Corte d’appello di Parigi,

chiamata a decidere la controversia provocata dalla pubblicazione di una celebre opera di A. Dumas, sancisce che non esiste verità che la storia non abbia il diritto di dire, visto che tutti gli avvenimenti della vita pubblica rientrano nel suo dominio. Di conseguenza, se emergono ricostruzioni contrastanti della stessa vicenda, lo storico ha il dirit-to/dovere di scegliere quella che ritiene maggiormente fondata, ope-rando egli in uno spazio estraneo al diritto, in quanto giudici della sto-ria non possono essere i Tribunali; e ciò sia per quello che riguarda la sua attività di ricerca sia per quello che concerne i risultati della stes-sa34.

Questo privilegio della storia è stato completamente vanificato dal-le grandi tragedie del ventesimo secolo, in primo luogo dai totalitari-smi, che si affermarono durante il suo corso.

La crisi della democrazia rappresentativa, che sopra tutto l’Europa continentale conosce dopo la prima guerra mondiale, trasforma l’avversario politico nel nemico da abbattere e da annientare, spesso fino all’eliminazione fisica, alla quale si affianca la distruzione del ruo-lo che egli ha svolto in vicende che spesso lo hanno visto indiscusso protagonista. I processi organizzati dall’Unione Sovietica di Stalin, ne-gli anni trenta, contro la vecchia guardia bolscevica, ne sono la tragica prova. Questi risultati si realizzano, di solito, proprio attraverso il pro-cesso, in cui la falsificazione dei documenti e, molte volte, le stesse confessioni dell’imputato diventano la fonte della nuova storia che il vincitore impone al vinto ed a tutti i sudditi. La trasfigurazione lettera-ria di tale esperienza è rappresentata dal celebre “Buio a Mezzogior-no”, di A. Koestler35.

33 Don Chisciotte della Mancia, trad. it., II, Torino, 2005,614. 34 La vicenda è ricostruita in G. Resta - V. Zeno-Zencovich, Judicial “Truth” and

Historical “Truth”: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, cit. 35 Pubblicato nel 1940 in inglese (Darkness at Noon), fu tradotto in Italia da

Mondadori per essere ripubblicato nel 1996 nella Collana Oscar Classici moderni. Quello dei processi staliniani contro la vecchia guardia bolscevica rappresenta uno dei primi e paradigmatici casi di uso pubblico della storia. A riguardo v. N. Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, in L’uso pubblico della storia (a cura di N. Gallerano), Milano, 1995, 17 ss.

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Con la fine della seconda guerra mondiale, la “giuridificazione del-la storia” acquista un rilievo assolutamente non immaginabile anche nell’immediato passato. Si creano, per la prima volta, dopo il processo di Norimberga, celebrato contro i gerarchi fascisti, e quello di Tokio, che vide come imputati i membri della casta militare giapponese, re-sponsabile delle atrocità della guerra, numerosi Tribunali internazio-nali con il compito di accertare nuovi crimini contro l’umanità al fine di non lasciare impuniti i veri e propri genocidi perpetrati durante il conflitto.

L’accertamento delle vicende storiche avviene anche per queste nuove esperienze attraverso il processo; in esso lo storico è chiamato spesso a svolgere il ruolo di consulente del Giudice oppure è chiamato a testimone dalla Pubblica Accusa36.

Vi è un altro elemento di novità che gli anni successivi alla seconda guerra mondiale presentano: la “giuridificazione della storia”, nei ter-mini sopra descritti, convive ed è ampiamente influenzata dai mezzi di comunicazione di massa e dall’inevitabile spettacolarizzazione che tale presenza comporta. Diventa per tali ragioni rilevante una domanda di tutela dei soggetti in varia misura coinvolti nelle vicende, che delle sempre più frequenti ricerche storiche sono oggetto. Di conseguenza, si sottopone a rigorosa disciplina la stessa attività di ricerca dello stori-co, mentre i risultati della stessa sono assoggettati a precise valutazioni sia a tutela dei diritti inviolabili dei soggetti, che a quelle vicende par-teciparono sia, alcune volte ed in maniera forse discutibile, a tutela della verità storica e di alcuni valori che si ritengono fondamentali per la convivenza dei popoli, secondo il nuovo ordine emerso dopo la tra-gedia della guerra37.

Proprio il sempre più marcato ed articolato uso del diritto nella ri-costruzione della storia ed il sempre più ampio e diversificato interven-to dello storico nell’esperienza giuridica rende necessario tener distinti i due piani, precisando che una cosa è l’accertamento della verità da parte dello storico altra cosa è l’accertamento della verità processuale in sede giuridica, in particolare, da parte del Giudice all’interno del processo; accertamento che non è libero, come quello dello storico, ma

36 Per tale problematica si rinvia a G. Resta -V. Zeno-Zencovich, Judicial “Truth”

and Historical “Truth”: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, cit. ed ivi riferimen-to a M. Borrello, Sul giudizio. Verità storica e verità giudiziaria, Napoli, 2011, 246 ss.

37 Ampiamente a riguardo A. Melloni, Per una storia della tribunalizzazione della storia, in O. Marquard – A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Roma-Bari, 2008, 30 ss., oltre a G. Resta - V. Zeno-Zencovich, Judicial “Truth” and Historical “Truth”: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, cit., ed ivi riferimenti a N. Mallet-Poujol, Diffamation et “verité historique”, in Dalloz, 2000, 226 ss.

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è sempre limitato, sia in sede civile che in sede penale, dai modi e ter-mini, con cui è formulata, rispettivamente, la domanda o l’accusa38.

Come è noto, l’esigenza di tale distinzione si è imposta in diversi momenti della nostra storia e della nostra esperienza giuridica. Celebre ed ancora oggi punto di partenza assai significativo è il saggio di Piero Calamandrei, Il Giudice e lo Storico, pubblicato nel 1939, che si può leggere anche nel primo volume delle Opere giuridiche del giurista fiorentino raccolte sotto la mirabile guida dell’ultimo Allievo del gran-de Giurista fiorentino, Mauro Cappelletti. In quel tragico momento della nostra storia, Calamandrei dialoga con un grande filosofo e nello stesso tempo un grande giurista di poco più anziano di lui, Guido Ca-logero, che, due anni prima, nel 1937, aveva pubblicato un libro desti-nato a rimanere giustamente celebre nella nostra cultura giuridica, La logica del Giudice e il suo controllo in Cassazione.

Calamandrei e Calogero affrontavano il problema con la finalità di preservare il momento logico dell’attività del Giudice e l’autonomia del lavoro dello storico rispetto all’arbitrio del potere politico del tem-po, che richiedeva una Magistratura sempre più politica e meno tecni-ca.

L’esaltazione della legge come antidoto all’uso politico del diritto da parte del giudice, fornito di poteri incontrollabili ed asservito al re-gime del tempo, è la linea che elabora il grande Giurista fiorentino tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta del secolo scorso, dia-logando con il suo amico filosofo39.

L’atteggiamento di Calamandrei, come è stato di recente rilevato a commento di un suo scritto inedito, che, nel gennaio del 1940, ripren-de quella posizione, continuando il dialogo con Guido Calogero, si spiega solo se si lo cala nella drammatica storia di quegli anni, in cui il richiamo alla legge, anche a quella non liberamente accettata, ma per-sino imposta da una dittatura e spesso abnorme, rappresentava co-munque una trincea, sia pure arretrata, di salvaguardia della certezza

38 Per tale problematica si rinvia ancora a G. Resta - V. Zeno-Zencovich, Judicial

“Truth” and Historical “Truth”: The Case of the Ardeatine Caves Massacre, innanzi cita-to, oltre che all’interessante lavoro di C.M. Cascione, Negare le ingiustizie del passato: libertà o divieto?, in questo Volume.

39 V. P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in Riv. dir. proc. civ., 1939, I, 105 ss., ora in Opere giuridiche (a cura di M. Cappelletti), I, Napoli, 1965, 393 ss. e, sopra tut-to, Id., La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in Riv. dir. comm., 1942, I, 342 ss., ora ivi, 504 ss., recensione all’opera di Fl. Lopez de Ognate, La certezza del diritto, Roma, 1942, poi, Milano, 1968. L’opera di Calogero, con cui Calamandrei si confronta, è La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937.

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del diritto di fronte al Giudice politico, diretta ed arbitraria espressio-ne del regime40.

Ancora nel 1960, un grande Maestro del nostro diritto civile, che fu il più giovane tra i redattori del codice, sosteneva che, grazie alla lo-ro educazione culturale, all’esperienza tecnica ed al loro”illuminato tecnicismo”, si evitò che, nella redazione del nuovo codice del 1942, prevalessero le ideologie del tempo, sicché anche il riconoscimento del ruolo di principi generali alle disposizioni della Carta del lavoro “... finì con l’essere quasi del tutto innocuo”41.

L’abbandono di quel positivismo formalistico, che vedeva nella legge ordinaria la quasi esclusiva manifestazione del diritto, dominò la nostra esperienza giuridica, diventando senso comune attraverso i ma-nuali istituzionali, fino a quando l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana modificò, almeno nella dottrina più sensibile, il tradizio-nale atteggiamento in materia di fonti del diritto.

Noi oggi tentiamo di risolvere i problemi che ci pone la giuridifi-cazione della storia, da un lato, per tutelare e garantire la libertà di pensiero, il diritto di cronaca, inteso come diritto alla corretta e libera ricostruzione dei fatti ed il diritto di critica dello storico, ma, dall’altro, per tutelare la riservatezza, la libertà e l’onore dei soggetti che risulta-no a vario titolo coinvolti nelle vicende storiche che lo storico rico-struisce e che vedono amplificate quelle lesioni dall’uso, spesso sconsi-derato, dei mezzi di comunicazione di massa.

Per tutelare tali diritti, occorre necessariamente disciplinare, con tutti i rischi che ciò comporta, sia l’attività di ricerca dello storico, sia i risultati di tale attività di ricerca, specie quando essi vengono usati con il clamore e con il cinismo di alcuni mezzi di comunicazione di massa. Le sentenze della fine dell’ultimo decennio del nostro secolo, dedicate alla vicenda di via Rasella, si muovono proprio in quest’ultima pro-spettiva.

7. Il processo contro E. Priebke e la campagna di stampa contro Ben-tivegna e la Resistenza romana

Nel maggio del 1994 viene scovato a Bariloche, una cittadina della

40 Si tratta della già ricordata conferenza, tenuta dal grande giurista fiorentino il

20 gennaio del 1940 presso l’Associazione cattolica della Diocesi e pubblicata solo nel 2008 dalla nipote, con interessanti commenti. V. P. Calamandrei, Fede nel diritto (a cura di P. Calamandrei), cit., ed ivi, oltre al già ricordato articolo di G. Zagrebelsky - P. Rescigno, Il rifiuto del sistema normativo dei totalitarismi, 25 ss. v. G. Alpa, Un atto di “fede nel diritto”, 61 ss.

41 V. R. Nicolò, voce Codice civile, in Enc. dir.., VII, Milano, 1960, 246.

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Terra del Fuoco, in Argentina, l’ex capitano delle SS, Erich Priebke, arrestato dagli Alleati alla fine della guerra per responsabilità diretta nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, mai poi fuggito dal campo di pri-gionia, in cui era rinchiuso, e approdato in Argentina con documenti falsi. Il governo italiano, presieduto da Berlusconi, capo di una coali-zione che comprende Alleanza Nazionale, ne chiede immediatamente l’estradizione, ma il processo iniziò soltanto due anni dopo innanzi al Tribunale Militare di Roma.

Come accadde nell’immediato dopoguerra in occasione del pro-cesso contro Kappler, nel caso di Priebke, addirittura quando si era ancora in attesa dell’estradizione, si scatena una campagna di stampa a favore dell’ex ufficiale nazista, che enfatizza le tesi difensive dello stes-so Priebke, in particolare la ben nota tesi che l’eccidio delle Ardeatine sarebbe stata una legittima rappresaglia e che i veri responsabili di esso dovevano ritenersi i Partigiani, colpevoli di non essersi consegnati ai Nazisti per evitare la preannunciata rappresaglia42.

La campagna di stampa è questa volta a più voci, con un fronte che va da Montanelli ad alcuni articoli della stampa solitamente qualificata progressista43. A distinguersi, però, per i toni e per il cinismo con cui vengono alterati fatti ormai giuridicamente e storicamente accertati è “il Giornale”, diretto da Vittorio Feltri, che già nel 1996 inizia la sua campagna, utilizzando persino fotografie raccapriccianti della testa di un bambino, morto accidentalmente il 23 marzo 1944 in via Rasella, che poi risultarono un vero e proprio falso44.

Come era già accaduto ai tempi di Kappler, anche questa volta i ri-svolti giudiziari non si sono fatti attendere. I parenti del minore sopra citato e quelli dell’altra vittima civile di via Rasella presentano un esposto alla Procura di Roma, chiedendo la condanna degli esecutori di via Rasella per strage (art. 422 cod. pen.) dei civili morti nel corso di quella vicenda.

Si trattava chiaramente di un’iniziativa abnorme, come verrà poi definita dalla Corte di cassazione, e comunque priva di fondamento sia perché, nel 1944, era intervenuta apposita amnistia, sia perché nume-rose sentenze, come si è già detto, avevano più volte accertato, con

42 Su tale problematica v. G. Sacerdoti, A proposito del caso Priebke: la responsabi-

lità per l’esecuzione di ordini illegittimi costituenti crimini di guerra, in Riv. dir. int., 1997, 130 ss. Per le particolarità del caso giudiziario v. R. Katz, Dossier Priebke. Ana-tomia di un processo, Milano, 1997, 59 ss.

43 A titolo esemplificativo v. I. Montanelli, Io sto dalla parte del rabbino Toaff, in Corriere della sera, 18 maggio 1996; E. Arosio, Solo un eroe può tirarsi indietro, in L’Espresso, 10 maggio 1996.

44 Il titolo dell’articolo è emblematico, Una giustizia un po’ partigiana, in Il Gior-nale, 6 aprile, 1996.

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l’autorità del giudicato, che quello di via Rasella era stato riconosciuto, sotto diversi profili, un legittimo atto di guerra contro le truppe naziste occupanti, compiuto da Patrioti italiani per esigenze militari45. Inopi-natamente, però, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma respinse la richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Mi-nistero e chiese altre indagini. Fu necessaria, nel 1999, un’ulteriore sentenza della Cassazione penale, con cui si dispose il non luogo a procedere per inesistenza del fatto di reato, per ribadire ancora una volta che la lotta partigiana doveva essere considerata dalla legislazione italiana e dalle Convenzioni internazionali quale legittimo atto di guer-ra e che ogni equiparazione tra partigiani e nazisti come Priebke dove-va considerarsi illegittima e non soltanto vergognosa46.

La campagna di stampa fece sentire il suo peso anche nel processo civile per danni, intentato da Rosario Bentivegna contro Feltri e il suo editore a tutela del suo onore e della sua reputazione. Sempre nel 1999, il Tribunale di Milano rigettò tale domanda, affermando che Feltri aveva soltanto espresso delle opinioni in forma corretta e civile e, nel pieno rispetto dei limiti del diritto di cronaca, aveva sottoposto a precisi riscontri oggettivi tutti i fatti da lui denunciati47.

Proposto appello, in quella sede Bentivegna riuscì a provare, ricor-rendo all’archivio federale di Coblenza, che la famosa foto del bambi-no con la testa mozzata, pubblicata varie volte da “il Giornale”, era un clamoroso falso, perché non poteva essere stata scattata a via Rasella nel tragico pomeriggio del marzo 194448.

Finalmente, nel maggio del 2003, la Corte d’appello di Milano ac-colse la domanda di Bentivegna e condannò Feltri insieme al suo edi-tore ad un risarcimento di € 45.000 per diffamazione aggravata a mez-zo stampa49. Anche questo caso si è concluso, nel 2007, con una sen-tenza della nostra Cassazione civile, che, nel confermare la sentenza della Corte d’appello di Milano, ha accertato, in termini incontroverti-bili, la falsificazione della fotografia della testa dell’adolescente tredi-cenne staccata dal tronco ed il fatto che i Sudtirolesi, non gli Alto Ate-sini, non erano ingenui militari disarmati, ma soldati scelti, tra i venti-sei e i quarantatré anni, armati, ciascuno, di sei bombe e pistole ed ad-

45 Per l’amnistia v. R.D. 5 aprile 1944, n. 96, in Gazz. Uff., 5 aprile 1944, n. 17. 46 V. Cass. pen., 23 febbraio 1999, n. 1560, in Foro it., 1999, II, c. 273 ss., con no-

ta di G. Di Chiara. 47 V. Trib. Milano, 14 giugno 1999, n. 6088. 48 Per l’uso spregiudicato della foto v. P. Maurizio, Quel bimbo ucciso in via Rasel-

la, in Il Giornale, 8 maggio 1996. 49 V.C. App. Milano, 14 maggio 2003, n. 1937.

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destrati ai rastrellamenti, tragicamente frequenti nella Roma occupata dalle truppe naziste50.

Due anni dopo, la Cassazione civile riabilitava ancora una volta la memoria di Carla Capponi, vittima, durante la sua vita, delle diffama-zioni più volgari, perché il suo essere donna e partigiana ha sempre esasperato i più bassi istinti maschilisti della tradizione fascista.

Accogliendo una domanda proposta dalla stessa Capponi alla fine degli anni novanta contro “Il Tempo” per falso e diffamazione aggra-vata a mezzo stampa, il Supremo Collegio, con una decisione del luglio 2010, a conferma di una sentenza della Corte d’appello di Milano del maggio 2003, condannava il quotidiano al risarcimento dei danni mo-rali, purtroppo a favore degli eredi della partigiana ormai defunta, per le solite falsificazioni sulle vicende di via Rasella e per avere offeso l’onore e la dignità della Partigiana, annoverandola tra i massacratori di civili51.

Anche questa seconda ondata di processi si concludeva in senso favorevole a Bentivegna ed ai Partigiani di via Rasella, ma il significato della sempre ricorrente diffamazione della Resistenza, di cui il caso Bentivegna rappresenta l’aspetto più emblematico, non si esaurisce a livello giudiziario né soltanto a livello di pura ricerca storiografica.

8. Bentivegna e le “ragioni” della Resistenza: la sua lotta contro il fal-so revisionismo fino all’ultimo anno di vita

“All’età di ottantanove anni”- nota amaramente Bentivegna nel suo

ultimo libro – “mi ritrovo ad essere ancora il bersaglio preferito di fe-roci polemisti che, puntualmente e con rinnovata animosità, ritirano fuori la vicenda di via Rasella, accusandomi di essere il responsabile diretto del massacro delle Ardeatine. È una polemica inesauribile, una storia infinita che si ridesta in ogni occasione (non solo per l’anniversario del 23 marzo 1944).

D’altra parte son ben convinto della necessità di dover lottare con-tro un ‹revisionismo› mistificatore e falso che ha colpito tutta la vicen-da della Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, la cui finalità è gettare fango su tutti gli atti di guerra partigiani e sulla loro legittimi-tà (storica oltre che morale), non solo su via Rasella”52.

50 V. Cass., 6 agosto 2007, n. 17172, in Foro it., 2008, I, 1553, e in Nuova giur. civ., 2008, I, 241 ss., con nota di V. Zeno-Zencovich.

51 V. Cass., 21 luglio 2009, n. 16916, in Foro it., 2009, I, c. 2973, con nota di D. Maltese e M. Chiarolla.

52 V. R. Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, cit., 377.

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Il rilievo è senza dubbio esatto: gli attacchi a Bentivegna non han-no mai mirato a soddisfare il bisogno di accertare la verità storica su uno degli episodi tra i più tragici – ma non il solo, sia in Italia che in Europa – della guerra partigiana nel secondo conflitto mondiale, spe-cie in quello che è stato certamente il suo aspetto più drammatico e quindi più facilmente attaccabile: la guerriglia urbana nelle città occu-pate dai nazifascisti. Il loro scopo è stato sempre quello ben diverso di delegittimare l’intero movimento partigiano e l’intera vicenda dell’Antifascismo: in definitiva, l’insieme dei principi, su cui si fonda la legalità democratica.

È merito della magistratura, con un corpo imponente di sentenze, che non ha l’eguale per altre vicende, aver fatto sempre valere quella legalità di fronte ad attacchi, che avevano una chiara natura politica e che si proponevano di contestarla con finalità chiaramente eversive.

Non a caso, come giustamente rilevarono già le prime sentenze sulle Fosse Ardeatine, la nuova Italia, che aveva il problema di recidere ogni continuità con il regime fascista nell’intero consesso internaziona-le e che trovava il fondamento della sua nuova dimensione proprio nella lotta partigiana, appena conclusa la guerra con il D.lgs. lgt. 21 agosto 1945, n. 518, ricondusse allo Stato italiano la piena responsabi-lità sia per gli atti svolti dal Corpo Volontari della Libertà in senso proprio sia per le attività compiute da coloro che avevano svolto azioni di particolare rilievo contro gli occupanti nazisti ed i loro alleati re-pubblichini53.

Nello stesso senso si mosse il diritto internazionale, che non poteva non legittimare il ruolo coperto, a livello europeo dalla guerra parti-giana e, in particolare, dalla guerriglia urbana, nell’intera dinamica del-la seconda guerra mondiale. Nella sua ottica particolare del binomio amico-nemico, la novità è rilevata, anche se in maniera strumentale, da Carl Schmitt nella sua opera “Teoria del partigiano”, in cui rielabora due conferenze tenute a Pamplona e a Saragozza nel 1962, registrando il completo superamento dell’ottica alla quale si era ispirato il Regola-mento dell’Aja del 190754.

Basti, a riguardo, ricordare che, con riferimento alla precedente Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907 e di quella di Ginevra del 12 agosto 1949, le norme di diritto internazionale sulla guerra furono ri-formulate dalla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, che, in

53 Ampiamente in questo senso v. già D. Peretti Griva, Sulla funzione pubblicistica

del partigiano, in Giur. it., 1947, I, 73 ss.; Id., L’attentato di via Rasella e la responsabi-lità per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, cit., 577 ss.

54 V. ora C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, Mi-lano, 2005.

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particolare all’art. 4, introdusse la nuova categoria di appartenenti ai movimenti di Resistenza organizzati in territorio occupato dal nemico al fine di riconoscere senza alcun dubbio agli stessi la qualifica di legit-timi combattenti; e ciò proprio per impedire che venissero condannati come irregolari gli eroi, che, con nuove ed inedite forme di lotta, ave-vano contribuito, accanto agli eserciti degli Alleati, a sconfiggere il na-zifascismo ed a creare il nuovo ordine mondiale55.

È una verità storica, oltre ad essere una verità accertata da diversi giudici in tempi e luoghi diversi, che la seconda guerra mondiale fu vinta dalla coalizione antifascista, perché, accanto agli eserciti regolari, si schierarono numerose ed organizzate formazioni di civili, che non diedero tregua alle forze di occupazione nazifasciste, sicché, per ri-chiamare l’episodio di via Rasella, civili travestiti da netturbini, attac-carono militari, che, calpestando le più elementari regole del diritto internazionale, si dedicavano, su larga scala, alla tortura di civili inermi ed alle più feroci deportazioni nei campi di sterminio in nome del mito della razza eletta.

A Bentivegna è toccato in sorte non solo di vivere da protagonista quella particolare esperienza della seconda guerra mondiale, ma anche di lottare fino alla fine degli ultimi giorni della sua vita contro la conti-nua opera di delegittimazione della guerra di liberazione, che non è mai stata un’operazione neutra di indagine storica, ma si è sempre col-legata con la contestazione dei principi e degli equilibri istituzionali sanciti dalla nostra Costituzione e, quindi, con la delegittimazione del-le colonne portanti della nostra Democrazia.

55 V. ora Corte europea dei diritti dell’Uomo, Kononov c. Lettonia, 24 luglio 2008,

ricorso n. 36376/04, www.echr.coe.int, su cui v. L. Cinti, Guerra partigiana, diritto umanitario e irretroattività del diritto penale ai sensi della Convenzione europea dei di-ritti umani, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2009, 201 ss.

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V Raccontare la storia

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THE DARK SIDE OF HISTORICAL WRITING: REFLECTIONS ON THE CENSORSHIP OF HISTORY

WORLDWIDE (1945–2012)

Antoon De Baets

SUMMARY: 1. Definition. – 2. Patterns and trends. – 3. Themes to explore.

Just as societies are well studied at the atypical moments of their

deepest crises, so has the history of historical writing its privileged but surprising vantage points. The present reflections aspire to demonstrate that the worldwide study of the censorship of history is such an unexpected panoramic point. If historical writing is a photograph, then the censorship of historical writing is its negative. Censorship is the dark side of historical writing. Research into it yields many insights into the essence of historical writing itself.

The reflections that follow represent the final conclusions drawn from a worldwide study by the author, provisionally entitled Censorship of History (1945–2012). This study, hereinafter called “the Survey,” is due to appear in English and Dutch. The reflections should give the reader an impression of the perspective of a historian who looks at the relationship between law and history, at the field of transitional justice and at the public uses of history. First, however, the concept of censorship as it is defined here must be clarified.

1. Definition

The term censorship, the leading specialist in media law Eric

Barendt wrote, is emptied of real meaning if it is applied to any social convention or practice that makes communication for some individuals more difficult1. Therefore, the emphasis in the Survey lies on the coercive practices of the state or other powers. My definition of censorship is larger than the legal definition, which in a strict sense equals censorship to prior restraint and in a broad sense also calls censorship any restrictions of free expression that engender considerable chilling effects and disproportionate sanctions. The censorship of history is taken here as the systematic control over historical facts or opinions and their exchange – often by suppression – imposed by, or with the connivance of the government or other

1 E. Barendt, Freedom of Speech, Oxford, 2005, [first edition 1985], 151.

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powers. This form of censorship can be directed against a historical work in all its stages or against its producers or consumers. Censorship may be either official or unofficial, and either formal or informal. Special attention was given to the multiple guises of censorship and to the varieties of indirect and de facto censorship. The range of persecution of historians includes pressure, harassment, dismissal, imprisonment, torture and death.

Censorship is usually not an isolated phenomenon. It is often difficult to conceptually distinguish it from closely related concepts that may have similar effects, such as selfcensorship or historical propaganda2. In addition to these conceptual problems, there are gray zones with a high censorship risk3. Many of these high-risk cases are incorporated in the Survey, even if, on balance, the risk did not materialize. Defamation trials are a good example: they were inserted in the Survey without distinction, but not all of them chilled freedom of expression or were used inappropriately to censor.

Unsuccessful attempts at censorship, where known, are sometimes included in the Survey for two reasons: first, moral and professional blameworthiness does not depend on success, and, second, even unsuccessful attempts can chill the free exchange of historical views and lead to selfcensorship by the historians targeted and by others. In short, the Survey does not discuss the fine line of censorship and the

2 A list of related yet distinct concepts would include: selfcensorship of historians;

historical propaganda; abuse of history; irresponsible history; misconduct by historians; social forgetting (amnesia, oblivion); historical taboos; historical myths; denial of historical facts; charges of invasion of privacy or of defamation and insult; commissioned history; legal forgetting (including prescription, pardon and amnesty); official history; official secrecy of current and archival records; selection of archives; the rejection of historical work by peers; copyright; plagiarism; theft of manuscripts; piracy of manuscripts; omission by historians of own historical opinions; omission by historians of historical facts; confidentiality of historical facts or opinions after conditions imposed by archive holders or interviewees; nondisclosure of information sources by historians; and, finally, constraints flowing from codes of ethics for historians. See A. De Baets, Taxonomy of Concepts Related to the Censorship of History, in S. Maret, ed., Government Secrecy: Research in Social Problems and Public Policy, no. 19, 2011, 55–67, for definitions of all these concepts.

3 They include the following: generally adverse contexts (war, colonization, poverty); constraints imposed on history by the government in the realms of national security, public order and public morals; restrictions implemented by educational authorities, publishers and the establishment of historians; pressure from individuals and unofficial groups outside academe; the effects of gender, national, ethnic, religious or racial bias leading to the distortion of history; and, finally and again, selfcensorship (as the most efficient, widest-spread, but least visible form of censorship). See A. De Baets, Censorship and History (Since 1945), in The Oxford History of Historical Writing, A. Schneider – D. Woolf, eds., volume 5, 1945 to Present, Oxford, 2011, 58–59.

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multiple phenomena surrounding it in each and every case. Although it focuses on censorship as much as possible, due to the difficulties outlined, it also includes cognate cases.

Not all restrictions on freedom of expression can be called censorship all the time. According to the International Covenant on Civil and Political Rights, free expression can be subject to certain restrictions, but these shall only be such as are provided by law and are necessary: for respect of the rights or reputations of others; or for the protection of national security or of public order, or of public health or morals. The restrictions themselves should thus be prescribed by law, be necessary and limited to the six domains enumerated4. If the restrictions conform to these conditions, they cannot be called censorship. If they do not conform, they constitute either censorship or violations of the right to free expression. If it cannot be determined whether they conform to these conditions, they belong to the gray zones with a high censorship risk.

Knowledge of the censorship of history How do we know when censorship occurred? This is a difficult

question as censorship’s very nature is to disguise itself. Three epistemological paradoxes are worth mentioning. First, the less visible the censorship, the more effective it is. Although some censorship attempts are accompanied by much public controversy, usually censorship is difficult to trace since it preferably takes place in an atmosphere of secrecy. In addition, censorship aims to suspend itself by inducing selfcensorship in those censored and the circles around them. Second, in repressive societies there is less information about more censorship, in democratic societies there is more information about less censorship. Under dictatorial regimes, insiders (or outsiders allowed to visit the country) who are aware of censorship, usually do not report it because they fear research, career or financial troubles or backlash effects on themselves or their wider circle. The result is underreporting. Authors who do mention it, typically do so in passing. Sometimes they treat it more extensively, as they write under the vivid impression of a recent famous case. If they systematically research and report it, and become whistleblowers, they may encounter disbelief. Data from the censors themselves are generally lacking Unless the latter flee the censorship system or unless the censorship system itself receives such an unexpected blow that there was no time to destroy

4 For more information, see A. De Baets, The Impact of the Universal Declaration

of Human Rights on the Study of History, History and Theory, 48 no. 1, February 2009, 27–28.

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the archives of censorship. In more democratic regimes, censorship is certainly not absent, but it is usually less unobserved and less uncriticized. Third, studying censorship is the beginning of its suspension. As we shall see, censorship has a backfire effect and the study of censorship is itself one of the manifestations of that effect. Although the censorship of history is a well-known and obvious area of interest, it has also been, until recently, a relatively underestimated and neglected field of systematic historical research. Scarcity and abundance of information about the censorship of history may be determined not only by the extent of the censors’ success, but also by very uneven research efforts. This makes it often difficult to distinguish important and typical information about censorship from surrounding data and, hence, to identify patterns and trends in the relationship between history, power and freedom.

2. Patterns and trends

The worldwide Survey supports some conclusions, which are

presented in two steps. As a first step, overarching patterns and trends are concisely identified. Although comparisons between countries are often difficult to draw because political regimes have different life spans and documentation about them is unequal, some of these patterns and trends are corroborated by an abundance of facts; others, however, are tentatively constructed by cautious extrapolation. As a second step, some transcendent themes rarely treated elsewhere are outlined here as areas for further reflection and in-depth exploration5.

The censorship of history is an enduring phenomenon. It did not start in 1945 nor does it stop today. In the course of time, it was dressed in century-old attire and yet it continually takes on new habits. It would be a serious mistake to believe, as some do, that it disappeared after the fall of the Wall. Exactly the contrary was the case: in a different international climate, it gained new oxygen. Throughout the decades investigated here, censorship was applied to all modes, genres, fields, categories and periods of history.

In the first place, censorship ranges over all modes of the historiographical operation. Precensorship, often invisible to the

5 With some exceptions, I do not include here themes about which I published

already elsewhere, such as a taxonomy of the censorship of history; censorship and the abuse of history; historical writing and censorship; archaeology and censorship; archives and censorship; history textbooks and censorship; defamation and censorship; refugee historians; censorship and colonialism; and censorship and holocaust denial. Some of these studies are mentioned in the notes.

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public, attempts to regulate research at the prepublication stage. Archives are cleansed or kept secret, manuscripts are rewritten without authorial consent. Precensorship is a structural feature of dictatorships, but not of other regimes. Postcensorship means that publications are banned, that lectures are boycotted or the content of teaching courses is improperly interfered with. All historical genres are affected, although many believe that some of them are more amenable to censorship than others. Source editions, biographical genres, maps, photographs, works of historical reference, history textbooks and all sorts of time lists can be identified as especially vulnerable genres. But no genre is really safe, not even the most system-independent. All fields come into the ambit of censorship: political history, particularly the risky subfields of military and colonial history, and religious, economic, social and cultural history. The list of topics that generate red alert is long; it includes, without any pretense of exhaustiveness, coups, uprisings and revolutions, colonialism and territorial conflicts, civil and international war, and all types of major crimes. Censors also pay attention to all potentially dangerous historical facts and opinions, regardless of their category. Popular history, whether written, spoken, or visual, is as much a target of censorship as academic history, and probably even more so. It is communicated through multiple media that attempt to feed or reflect collective memory. The reach of popular history, therefore, is usually wider than that of academic history. Depending on the censor’s need, all periods of history can be targeted. Archaeology, for example, usually involves the sensitive problem of the origins of the ethnic group, and epics play a comparable role for the origins of the nation; both are often closely watched. In most countries, contemporary history is certainly the most dangerous period of study, not only because the protagonists of important current events are still alive, but also because silent witnesses of these events can start talking anytime and produce embarrassing stories.

This is a rough sketch. It is feasible to make finer frameworks of analysis, incorporating such aspects as the motives of the censors, the justifications they invoke, and their methods and targets on the one hand and typologies of those directly censored, those indirectly intimidated and those resisting censorship on the other hand. Within these frameworks, certain censorship-prone themes rarely feature in mainstream overviews of historical writing although they would merit a fuller treatment. History-related problems engendered by the relentless assimilation campaigns of dictatorial regimes is one example. The unauthorized pressure exerted on histories commissioned by

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democratic governments, enterprises or semi-official agencies, another. From the role of religion in censors to the role of ethnicity in the censored, from the censorship at the time of coups to safe areas of research under dictatorships, from the abuse of legal charges of defamation, enemy propaganda terrorism or incitement to violence and discrimination to the physical curtailment or elimination of adversaries, the list is long. 3. Themes to explore

Historians killed for political reasons Let us start with the worst phenomenon, the physical elimination

of historians. The most radical way to censor history is to kill its producers. Intended killing should be distinguished from unintended killing. The direct and intended type encompasses political murder, enforced disappearance and judicial execution. Killings can also be the indirect (though not always unintended) result of persecution, such as in cases of sudden deaths in prisons and camps, or in cases of historians who died immediately after their release as a demonstrable result of their ill-treatment, or in cases of historians who committed suicide due to severe political pressure. This field of study is barely mapped, but the impressions that follow are nevertheless based on a systematic though very incomplete database of cases. It is important to note that any figures given below include the deaths of historians both for history-related reasons and for broader political reasons. They exclude deaths which are entirely due to nonpolitical motives and historians who were sentenced to death or to life imprisonment but survived, or those who were abducted but who reappeared alive. The following overview gives a chronology of regimes or coherent series of regimes that were responsible for the deaths of at least five historians and cognate professions. Sometimes the deaths were spread over the entire duration of the regime’s life, sometimes they were concentrated during one particular time span in which repression was usually at its peak.

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Historians killed for political reasons (1945–2012)

Years Country Leader Victims Details

1945 Germany (1)

Hitler 15 Nazi regime; 1 in Belgium, 3 in Czechoslovakia, 3 in France, 5 in Germany, 2 in Netherlands, 1 in Poland. Estimate for 1933–1945: 41.

1945–1953

USSR (2)

Stalin 9 Communist regime; 8 historians, 1 art historian; 7 pertaining to non-Russian nationalities; 1 executed, 1 committed suicide, 5 died in prison camps, 2 died in internal exile. Estimate for 1930–1953: 69.

1950–1962

Romania Gheorghiu-Dej 5 Communist regime; 5 historians including 4 who were also politicians; 4 died in prison, 1 of them committed suicide.

1966–1975

China (3)

Mao 14 Communist regime; 10 senior historians, 2 archaeologists, 2 writers of historical plays. Even when victims occupied other functions, deaths were mostly history-related, in at least 6 cases the result of suicide after severe persecution.

1971–1974

Brazil Medici 5 Military regime; 3 history teachers, 2 history students; all active in political or military resistance.

1972–1985

USSR From Brezhnev to Chernenko

5 Communist regime; 1 dissident history student, 1 history teacher, 3 dissident Ukrainian historians; 2 committed suicide, 3 died in prison camp.

1973–1976

Chile Pinochet 6 Military regime; 2 history professors, 4 history students; all politically active.

1976–1977

Argentina Videla 13 Military regime; 11 disappeared (1 director of historical films, 1 art history professor, 3 history teachers, 6 history students; most of them active in left-wing or human rights organizations), 1 former history student and 1 art historian turned guerrillas were assassinated. Also 2 political murders of historians in preceding period (1974).

1977–1992

Guatemala From Laugerud to Serrano Elías

7 Military regime; civil war; 3 history professors, 4 history students; all politically active; 3 assassinated, 3 disappeared, 1 died as result of torture. Later, also assassination of truth commission chairman evaluating civil war crimes in transition period (1998).

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Historians killed for political reasons (1945–2012)

Years Country Leader Victims Details

1981–2001

Israel From Begin to Sharon

5 Israeli-Palestinian conflict; all shot; 1 Palestinian historian, 1 Palestinian history student, 1 American archaeologist, 1 Jewish historian, 1 Jewish historian-politician.

1998–2008

Colombia From Samper to Uribe

5

Regimes with death squad activity; 3 politically active historians, 1 lawyer, 1 member of National Movement of Victims of State Crimes; became victims of the political violence of which they analyzed causes and for which they sought solutions.

2003–2007

Iraq From the Coalition Provisional Authority to Talabani

16 Post-Saddam regime in occupied Iraq after the 2003 invasion; 13 historians and 3 archivists; killings mostly by death squads of extremist militia groups that took over many of the universities and targeted academics who were “suspect” for religious or political reasons.

Criteria: * Regimes: regimes responsible for the deaths of at least five historians and cognate professions. * Deaths: only cases of political murder, enforced disappearance, judicial execution, sudden death in prison or camp, post-imprisonment death as result of ill-treatment, suicide due to severe political pressure. Figures include deaths both for history-related reasons or for broader political reasons, but exclude deaths for nonpolitical motives. Notes: 1 Nazi Germany: between 1933 and 1945 at least 41 (mostly Jewish) deaths (including some history students). The origin of the historians was Austria (1), Belgium (1), Czechoslovakia (5), France (4), Germany (19), Lithuania (1), Netherlands (2), Poland (8). Excluded were 8 deaths (4 suicides, 2 deaths in prison and 2 executions) in 1945–1948 of Austrian, Czech or German historians who were war criminals, collaborated with Nazism or were accused of collaboration with Nazism. 2 Stalinist USSR: between 1930 and 1944, at least 60 historians died in purges, with a peak in 1937–1938; the real tally is higher. 3 Marxist China: excluded was the information, mentioned in A.F. Thurston, Enemies of the People (New York 1987), 133, but not corroborated elsewhere, that the complete senior staff of the history department of Zhongshan University in Guangzhou was hanged in 1966. Source: Author’s data, many of which presented in this survey.

The table confirms a basic observation: it is dictatorships that

torture and kill. These dictatorships encompass both left- and right-wing regimes. In the interwar period, the Stalinist and Nazi regimes topped the list (see the data in the table notes). From 1945 to 1970, the communist regimes of Eastern and Central Europe, the USSR and

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China were the most active, followed between 1970 and 2000 by the authoritarian regimes of Latin America. In the 2000s, post-Saddam Iraq took the lead. Another, more tentative, conclusion is that the communist regimes tended to attack established historians and archivists, who were well-known inside the country and often abroad, in order to discipline the group of historians perceived as professionals of the past. In contrast, the authoritarian regimes of Latin America targeted historians not in the first place for their professional conduct but rather for their activities in the political, journalistic and human rights fields. Most of these were not well-known beyond their immediate universities and schools; and history students formed an important subgroup there. This may also indicate a cleavage between totalitarian and authoritarian regimes, to be explained later. In post-Saddam Iraq, historians were targeted as academics rather than as professionals of the past: they were seen as representatives of the unruly group of intellectuals. A hypothesis thus emerges: historians were primarily targeted as professionals by communist regimes in the USSR, Eastern and Central Europe, and China between 1945 and 1970, as political activists by authoritarian regimes in Latin America between 1970 and 2000, and as academics in Iraq in the first decade of the twenty-first century.

Iconoclastic breaks with the past In rare cases, regimes force radical future-oriented breaks with the

past. Two types can be distinguished: iconoclastic breaks organized by the regimes in power (and supported by minorities in their societies) aimed at destroying the entire past, and transition breaks organized by the regimes in power (and supported by majorities in their societies) aimed at dealing with injustices of the recent past but usually leaving the remnants of the more remote past intact. We discuss the first type in this section and the second type in the next.

Some regimes tried to force a complete break with the past and to start from year zero. Throughout history, these iconoclastic breaks were the hallmark of selected revolutions or, more precisely, of certain phases in those revolutions6. The sweeping violence of the Cultural Revolution in China against the Four Olds – old ideas, old culture, old customs and old habits – was such a break. “Smash the old world” was the guiding motif. Not only did it lead to the killing of (more than) a dozen senior historians and archaeologists, it also left deep scars in its

6 All ruptures with the past are accompanied by the censorship of history, but not all of them are iconoclastic. The Terror of 1793–1794 during the French Revolution and Nazi Germany’s Third Reich of 1933–1945 are well-known examples (even if the label “Third Reich” presupposes precedents).

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wake, especially in the years immediately following 19667. A second example is Romania under Ceauşescu. It initiated an unprecedented destruction of heritage from 1974 to 1989. The third country that perhaps came closest of all to the nightmarish situation of a country without history was Cambodia during the genocide and crimes against humanity of 1975-1979: the publishing and teaching of history came to a halt and a spokesman proclaimed that “two thousand years of history had ended.”

In China, the fever of elimination only really subsided after Mao’s death in 1976, which marked the beginning of a more moderate phase within the same regime. The latter two campaigns of destruction were only stopped because the regimes themselves were toppled. It is remarkable that all three waves occurred in communist countries. An explanation for this phenomenon will be given later.

Transition breaks with the past Iconoclastic breaks can be contrasted with post-conflict transition

breaks. During transition breaks, new or restored democracies appoint truth commissions to investigate the crimes committed during past dictatorships and conflicts. In doing so, these truth commissions create a “protohistorical” arena. Like journalists, they elaborate a first rough draft of history while the perpetrators of gross crimes and many of their victims are still alive. Our Survey contains ample evidence of the safety risks ran by the members of truth commissions, the obstruction of their work, the intimidation of witnesses appearing before them, the destruction or cleansing of repression archives by military and security services, and, finally, the delays in the publication of the truth commission reports in some countries. Scores of examples of censorship of truth commissions are additional proof for the obvious conclusion that a major motive for censorship is the obfuscation of gross violations of human rights. For the same reason, the work of human rights activists is often jeopardized. And by the same token, peaceful commemorations of the dead bear in them a symbolic indictment against unpunished perpetrators; they were frequently obstructed for that very reason. Usually, when com-memoration of a given person or event is suppressed, the first occasion at which it is allowed or at which it is allowed again, heralds a new era and bears a taboo-breaking character.

7 For the place of iconoclasm in Chinese history, see S. Leys, L’Attitude des

Chinois à l’égard du passé, in Id., L’Humeur, l’honneur, l’horreur: essais sur la culture et la politique chinoises, Paris,1991, 9-48.

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Moratoria on history education In some countries that found themselves in such postconflict

transitions, moratoria on history textbooks were imposed or even the teaching of history was suspended. This happened in three transition types. First, bans were decreed after regimes with grossly distorting versions of history were defeated after war in 1945 (in Germany, Italy and Japan), imploded around 1989 (in the GDR and the USSR), or disappeared after the downfall of apartheid (in Zimbabwe in 1980-1982 and in South Africa in 1990-1994). Bans also occurred when recent genocide or deep political, ethnic or religious division made a broadly acceptable approach of the recent past impossible: in post-1979 Cambodia and post-1995 Bosnia-Herzegovina it was the case after largescale crimes against humanity (including genocide); in post-1989 Lebanon and post-2003 Iraq, it came as a result of political, ethnic and religious divisions; in post-1973 Afghanistan and post-1994 Rwanda, finally, both causes were at work. Only the case of Moldova does not seem to fit the pattern: here, a moratorium was imposed and prolonged under international pressure after daily demonstrations against the deromanization and resovietization of textbooks in 2002.

The contrast between iconoclastic breaks and transition breaks is important. Not always did the suspension of history textbooks equal censorship because in postconflict situations social groups can reach a consensus about the ban (and therefore the suspension is sometimes called a moratorium rather than a ban). Such a consensus is indeed possible even if it remains to be seen who has the power to decide that a certain distribution of opinions can be called a consensus. If the suspension did equal “censorship,” it could often be sufficiently justified, at least for a certain lapse of time. Research shows time and again that intense but chauvinistic history education is a form of indoctrination that in the end can help (re-)ignite conflict and violence8. Suspension of such history education may then be fully justified. On the other hand, the question remains whether the alternative stories that meanwhile fill the vacuum – told by such diverse groups as politicians, veterans or pseudohistorians – are not a worse alternative. The duration of the moratoria was very unequal. In Zimbabwe, the period of suspension lasted two years, just enough to produce new textbooks. In Cambodia, teaching the genocide began in earnest in 2009-thirty years after the genocide itself had ended. In

8 See, e.g., UNESCO, The Hidden Crisis: Armed Conflict and Education—EFA Global Monitoring Report (Paris: UNESCO, 2011), 169, 242–244; E. Cole, ed., Teaching the Violent Past; History Education and Reconciliation, Lanham, MD, 2007, 325–326; E. H. Dance, History the Betrayer: A Study in Bias (originally 1960), London, 1964.

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Afghanistan, fifty years have passed since the beginning of the time of troubles and it still has not ended. It is, however, not clear what the ideal natural duration of a justified ban is, even if we accept that it should last as briefly as possible.

History textbook controversies The suspension of history teaching altogether or the imposition of

moratoria on history textbooks is not the average situation on the educational scene. Nor are the shredding of hundreds of thousands of copies of one textbook in Poland (in 1985) and the burning of history textbooks in Turkmenistan (in 2000), Greece (2007) and Indonesia (2007) typical phenomena. Nevertheless, history textbooks are generally watched very closely because of their reach and potential impact on young minds. They are often the subject of controversy and not seldom of censorship.

As the Survey shows, there have been dozens of history textbook controversies since 19459. When we review them, some conclusions spring to mind. The first is that censorship is geographically universal and that it occurred in widely diverging political and historiographical contexts, though distributed very unevenly across continents. The basic rule of thumb – the more democratic a country, the less systematic the censorship – stands. It is no surprise but worth mentioning that history textbook controversies have been steadily prominent after 1945, also in the twenty-first century10.

A further conclusion is that some history textbook controversies had an international dimension: this is clearest in the Japanese case, where the quasi-permanent history textbook controversies over the portrayal of the Pacific War (1931-1945) regularly captured the attention and ire of neighboring countries such as Korea and China. Thailand and Burma had a textbook row also. In countries living under communism, textbooks were sovietized. Even after the collapse of the USSR, there were attempts to sovietize the textbooks, for example in Belarus and Moldova. The presentation of the Armenian massacres of 1915 as genocide brought ammunition for conflicts over textbooks in countries such as the United States and Germany. And saffronization – that is, the distortion of history textbooks by Hindu

9 For an overview of history textbook controversies between 1945 and 2010, see

A. De Baets, Censorship and History (Since 1945), 60-66. 10 There are antecedents. Between 1900 and 1945 there have been several

notorious cases of controversy or of irresponsible handling of textbook content. I found evidence for this in China, France, Germany, Japan, Spain, the USSR and the United States.

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nationalists in India – spilled over into the United States, where Hindu nationalist groups tried to rewrite American textbooks in 2005-2006.

Most controversies arose in relation to four themes. The first was, of course, the violence generated by genocide, crimes against humanity and war crimes. The second theme centered on national heroes from the time of independence, especially in Latin America (Mexico, Colombia, Venezuela, Peru and Uruguay) and Vietnam, or from a period further in time in which the ethnic or national group was thought to have been established (ethnogenesis). The third theme was seen in countries such as Hungary and Greece, where textbook conflicts pitched a nation-centered approach against one with a universal horizon, thus reflecting the broader debate about the domestic versus the international orientation of these countries. The last theme involved the presentation of economic history, which was often attacked, for two reasons: because its treatment left less space for political history and relativized the impact of historical leaders (“great men”) and because it was often thought to be biased toward Marxism (for example, in Colombia and India).

Without asserting, as some do, that history textbooks faithfully reflect collective memory or collective identity (if this were so, far fewer controversies would exist), it is still possible to argue that controversies over history textbooks always reflect divergent opinions on historical questions to some degree and, therefore, different conceptions of a collective – often a national – identity. In any case, it appears that many, if not most, of the textbook controversies were part of larger political debates that, if regime circumstances permitted, raged also in academia, in political and legal arenas, in the media, in the streets, and, sometimes, as we noted already, in neighboring countries. It is telling, however, that professional historians did not always participate in these controversies because they found the historical issues at stake already solidly settled by research. In such cases, a gulf separating academic history and public debate came to full light.

Dictatorship and censorship In dictatorships, the best topics for propaganda are those that

illustrate the official ideology: antecedents and historical parallels favorable to the dictator in power will be praised, enemies and heresies diabolized. By the same token, topics viewed as controversial and liable to be censored are those that call into question the official ideology: allusions to the illegitimate origins and violent maintenance of power, crimes committed by the regime and its interest in covering them up, rivalry among its leaders, discord among the population,

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sensitive information about subjugated minorities and classes, crises (periods of martial law, revolt and civil war), frictions with other countries, military defeat, periods of humiliation and weakness, the history of successful rivals, and, finally, historical parallels to all these areas. History, it seems, needs constant monitoring.

While history is an important source of legitimation for most dictatorships, the more central the ideological role of history, the more devastating the impact of censorship. In principle, totalitarian regimes were more dangerous than authoritarian ones as they not only tried to silence but also to convert their citizens. Among totalitarian regimes, communist ones occupy a special place because of the explicitly historical outlook of their world view. In contrast to most other regimes, they saw history as driven by laws to be interpreted with the ruler’s logic, they attacked the achievements of the past and the scholarly foundations of the profession more profoundly than most other regimes in order to affect the course of that law-driven history. In right-wing regimes, ideology tended to be more essentialist; hence, their historical outlook was usually less systematic – although this sort of unpredictability generally also had a deeply intimidating impact. Two earlier findings corroborate the conclusion about communist regimes: the tendency to iconoclasm which seems greatest there and the higher frequency of killings of historians in their capacities as historians (as contrasted to killings of historians in their capacities as intellectuals or political activists). Two tragic cases may illustrate the last point. In 1938 the Russian economic historian Nikolai Kondratiev (1892-1938) was executed by a firing squad on orders of Stalin after eight years of imprisonment. In the mid-1920s, Kondratiev had developed a theory of long-wave economic cycles since 1780 which deviated from the orthodox view in that it was critical about the role of collectivized agriculture and skeptical about the inevitable collapse of capitalism. Only fifty years later was he rehabilitated. Thirty years later, during the Cultural Revolution in China, historian Jian Bozan (1898-1968) committed suicide in prison together with his wife. He had been imprisoned because he had defended the concession theory, the theory that there is not always class struggle; when confronted with peasant rebellion in history, the ruling class was often forced to make concessions to restore the established order. This theory had aroused the wrath of Mao, who personally attacked him in late 1965, the first step in his persecution.

Assessing the historiographical output under dictatorial regimes is difficult. Where the output took the form of historical propaganda, it seems less a contribution to the history it pretended to treat than a source for the circumstances in which it was created. Despite all

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control, the professionals were seldom a willing tool of some prescribed line; they always retained some bargaining power, embodied in their training and knowledge, because they had to apply the general guidelines to many different historical problems and contexts or translate them into detailed curricula and textbooks. In doing so, they were able to create margins that increased as one moved further from the kernel of ideology. It implies that a purely instrumental theory of historiography is too poor to be true.

In the safer areas removed from the axioms of ideology, contributions to historical writing could still be valuable, even lasting. The same goes for work published in exile or underground: some of it was polemical and rancorous, some written with innovative methodology or perspectives. In contrast to received opinion, unpublished work carried out in secret and without some samizdat-style circulation was generally rare: once the dictatorial period was over, when manuscripts prepared secretly could finally emerge, the drawers more than once were shown to be empty. At the very least, the evidence for the frequent existence of secret manuscripts is poor.

Moral judgments about the behavior of historians under dictatorship are hazardous. It is difficult to unequivocally ascribe motives to the positions that historians took in times of repression, or for the shift in their positions at given moments. Retrospective moral judgments on their freedom to act and their collaboration, silence or resistance should be made prudently, especially because it remains to be seen how we would behave in similar circumstances. The details of each case are as important as any general principles. But there is certainly room for praise and blame in clear-cut cases. Few of those who collaborated with the dictators and gave them the support of their scholarship ever explained their choices, made confessions or offered apologies for their behavior.

Once dictatorships fell, the personnel of most history departments showed remarkable continuity. With the exception of a relatively small group of leading historians who had openly collaborated with the ousted regime, in general few were purged. The will to forget usually dominated after periods of repression although in recent decades –from the 1990s – the marked tendency to install truth commissions was reversing this long-term trend. More importantly, the demography of the historical profession usually did not allow largescale purges or reshuffles: some historians were persecuted and had died during the war or under the dictatorship; and the reemployment of survivors was not always feasible. In addition, none of the larger waves of refugee historians returned en masse. Most had built something resembling a new life in their host countries that was preferable to a return.

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When societies emerged from dictatorship or conflict, and evolved toward democracy, the harm suffered by historical writing during the preceding period gradually came to light. The reputation of history was often damaged because under the dictatorship it had condoned lies and fabrications. These weakened the credibility of the historical profession and grossiy affected the quality of the historical discourse. In short, when historiography was placed under the auspices of dictators, it was abused and harmed; when it was eventually set free, the scars remained visible for years.

In sum, it is obvious that the natural habitat of censorship is dictatorship. This does not mean that it is absent in democratic countries. In democracies, censorship as such is less systematic and it adopts different shapes than its sibling in dictatorial contexts. If there is any censorship, it usually occurs in three areas: archives, commissioned histories and genocide denial. When secrecy rules for current and archival records are excessive, illegal, or both, they lead to censorship; intelligence services in particular are often keen to hide their “family jewels.” Furthermore, histories commissioned by governments or others are sometimes subtly adapted to avoid unwelcome messages. In officially commissioned histories, the precarious subjects are mostly tied to the international wars and internal conflicts of the past – frequently (but not always) in combination with imperial or colonial expansion. In the long run, violence generated by war, conflict and colonization came to be seen as adversely affecting the democratic legitimation of power and the construction of a collective identity, in short, as sources of shame. Finally, groups denying solid research findings, especially about grave historical wrongs, may be penalized for their denial. The historical profession is adamant about condemning as products of pseudo-history the aberrant theses of deniers of genocide, crimes against humanity, and war crimes, but it is divided as to whether and when the propagation of such views should be prohibited or criminalized.

Laws and censorship Laws can contribute to the censorship of history. A taxonomy

would include at least three classes of such laws. First, there are the laws and decrees, the scope of which is so wide that they obviously affect many areas, including the area of historical writing. In this class, one can distinguish dictatorial and postdictatorial law types. Both types come in two sorts: victim-oriented and perpetrator-oriented. Dictatorial governments decree laws to facilitate the persecution of dissidents or the ban of publications, such as martial law decrees and national security laws. They also issue amnesty laws for the

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perpetrators of human rights violations that they authorized or condoned. Postdictatorial laws are also of two sorts. On the one hand, there are amnesty laws declared by successor governments to foster reconciliation; on the other, there are laws the aim of which it is to purge the collaborators of the former dictatorial power and laws devised to rehabilitate citizens fallen into disgrace under that dictatorial regime. All these laws may affect the writing of history greatly and sometimes push a certain version of history in the spotlight. One poignant example is that amnesty laws may prohibit historians (and others) to mention the crimes committed by those amnestied.

The second group is the class of laws that target specific opinions and carry an enhanced risk of history censorship. Among these laws are:

* Ideology-prescribing laws, such as the Pakistan Ideology law, with repercussions for history education.

* Laws establishing discrimination in the history education sector (as was the case in Romania and Haiti).

* Press laws, as in China and Vietnam, prescribing certain interpretations of the past and prohibiting others. Because those in power need flexible instruments to serve their short-term ends, they are often replaced by directives emanating from the ministry responsible for propaganda and public relations.

* Memory laws that seek to define the collective memory on controversial historical subjects by prescribing how people ought to think about certain historical episodes, as was the case for several laws in France and Rwanda and for attempts to introduce such laws in Russia.

* Laws that criminalize the public condoning, denying or grossly trivializing of genocides and other gross crimes, as in various Western European countries and in Rwanda.

* Laws banning symbols or monuments of the totalitarian past (as in Estonia, Romania and Hungary) or imposing controversial historical anniversaries (as in Belarus).

Many of these laws are drawn so broadly that they stifle the opinions of those who criticize dominant views and chill the opinions of others. Their possible benefits generally do not outweigh their high potential for abuse.

Finally, there is a third class of laws: these laws that are necessary for democratic states to function as they regulate vital areas such as freedom of information, data protection and privacy, reputation, copyright, archives and heritage, and hate speech11. Another subgroup

11 Hate speech laws punish “hate speech,” defined in article 20.2 of the

International Covenant on Civil and Political Rights as “any advocacy of national,

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of this class are the laws and decrees most typical for new or restored democracies: laws establishing truth commissions, organizing the search for missing persons, regulating the concerns of war veterans, and creating frameworks to manage the legacy of dictatorship (as in Chile or Spain). Sometimes, these laws can be diverted from their essential functions. Examples in the Survey include archival laws (in Bulgaria, Hungary and Romania) and patrimony laws (in Romania).

In the field of history, by far the most frequent abuses occurred in the case of defamation laws - laws that punish the tarnishing of reputations. In the countries of Western Europe, most defamation cases revolved around the conduct of those supposedly defamed during World War II or in the colonies. In the former communist countries, most were related to the communist past of those who felt defamed. In a country with a strong free expression tradition like the United States, defamation trials about history were relatively rare. Defamation laws also include such subtypes as lèse majesté laws (as in Thailand) and laws to protect the memory of deceased leaders (as with Atatürk in Turkey and Khomeini in Iran). Whereas it should not be forgotten that reputation is a human right, the prolific application of defamation laws has had a chilling effect on historical writing and often was but censorship in disguise. It is nevertheless noteworthy that defamation trials against historians and journalists writing about historical issues are rare under hardcore dictatorships: the explanation must be that in these situations, the conflicts between power and history are not solved with the defamation instrument but more radically. This is most clearly seen in Central and Eastern Europe, where defamation trials seem to be almost exclusively a phenomenon of the postcommunist era12. Despite their high potential for abuse, as a rule defamation laws presuppose a minimal democratic operation. Moreover, as defamation trials produce verdicts, they are open to scrutiny and criticism, however theoretical these options often may be.

International censorship Regimes that censor avoid interference into their internal affairs at

all cost. Their censorship encompasses many fields, including, of course, topics of national security, foreign relations and international history. Charges against historians such as “enemy propaganda” or “treason” imply the accusation of collaborating with persons abroad, racial or religious hatred that constitutes incitement to discrimination, hostility or violence.”

12 This is confirmed for China, where defamation cases take a start after the rupture of 1989 only. See Bo Zhao, Posthumous Reputation and Privacy in China: the Dead, the Law, and Social Transition to appear in Brooklyn Jour. Int. Law, March 2013.

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for instance, talking to foreign journalists, delivering papers at conferences abroad, or publishing on foreign websites – exactly the kind of activities for which historians in democratic countries are usually praised. Another strategy is to exile dissident historians. Whatever success censoring regimes have in handling these issues in their own countries, it stops at the border. A slippery problem, therefore, is how to keep unwelcome alternative voices from abroad from infiltrating into the country. The major instrument is visa policy, of which the Survey contains several examples. Sometimes, it is backed up by two other devices: the permanent ban of exiled or foreign historians by declaring them non grata, and the harassment or even prosecution of critical foreign historians who did enter the country legally. In rare cases, a radical strategy is pursued: the persecution of exile and refugee historians across the border leading to disappearance or assassination (attempts originating in Romania, South Africa, Taiwan and Vietnam were reported).

If countries try to intervene in the versions of their history produced beyond the border, we enter the field of international censorship. Such interventions concentrate on influencing the perception of citizens in foreign countries in sensitive history matters. A common strategy consisted in lodging diplomatic protest against books, films, documentaries and historical exhibitions which would be banned at home but are freely accessible abroad. This legitimate form of protest was frequently invoked and it often betrayed which topics possess a taboo character in the country that issues the protest.

A few countries invested much energy in organizing pressure to get acceptable representations of their history abroad. The most visible case was the interference of the superpowers. On the one hand, the USSR and China amply tried to equalize historical writing in the countries within their zone of influence. On the other hand, the allied countries introduced a set of history-related measures when they occupied the defeated powers in Europe and the Far East in 1945.

Another tool is the lobby, high-profile or low-profile depending on the effect sought. Foreign governments lobbied universities to have exile historians stopped from broaching certain subjects, approached parliaments not to adopt resolutions about certain historical episodes, attempted to influence the publication of official series of foreign policy sources in other countries (see the pressure of Taiwan regarding the publication of the Foreign Relations of the United States), or complained about the historical views of other countries at international forums. Alternatively, they established chairs, research centers and cultural institutes abroad, or funded congresses and travel to disseminate their historical propaganda under the cloak of

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responsible scholarship. Many of these programs were run discreetly. Two examples were especially noteworthy: the lobby of Turkey to further its views of the 1915 massacre of Armenians in European countries, Israel, the United States and the United Nations, especially since the mid-1970s; and the interference of Hindu nationalist associations into United States history textbooks to adapt them to their views – coinciding with attacks to historians of India living or working in the United States since the 2000s.

Apart from the reality of borders, two other factors complicate the operation of international censorship. The first is the fact that the more successful the repression is at home, the stronger the likeliness that alternative views still pop up elsewhere. From abroad, several historians wrote or taught on the controversial aspects, the blank spots and the falsified history of dictatorial countries. The second factor is the internet. Given the rapid spread of internet traffic, cases of international pressure, including internet censorship, which were infrequent in the past, are clearly on the rise since 1995. The conflict between Estonia and Russia over a Soviet monument even spilled over into a cyber attack in 2007. The mechanism also works in reverse. Attempts at international censorship are often quickly spotted by internet users and criticized on blogs the world over.

The refutation of censorship An important part of the struggle against history censorship is to

evaluate the justifications given for acts of censorship and to find the arguments to refute it. This is demonstrated here with a recent affair in India, which details the various steps to counter censorship. Let us first repeat the facts of the case. In May 2012, India’s Human Resource Development Minister Kapil Sibal asked the National Council for Educational Research and Training (NCERT) to withdraw a secondary school political science textbook published in 2006 after it created an uproar in both houses of parliament. Members of parliament found that a cartoon in the textbook, drawn in 1949 by the cartoonist Shankar, denigrated the Dalits (traditionally the “untouchables”) and their leader Bhimrao Ambedkar. The cartoon shows then-prime minister Jawaharlal Nehru with a whip chasing Ambedkar who is seated on a snail named “Constitution,” an allusion to the slow speed with which the constitution was being drafted after India’s independence. When criticism of the cartoon gained cross-party support and the textbook was pulled, two chief advisers of the NCERT textbook committee, sociologists Yogendra Yadav and Suhas Palshikar, resigned from their posts in protest. Palshikar’s university office was ransacked the following day. The Republican Panthers

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Party of India, Dalit activists based in Pune, Maharashtra, claimed responsibility for the attack. Sibal welcomed the resignation of Yadav and Palshikar and apologized for the textbook in parliament. He told reporters: “We believe textbooks are not the place where these issues [cartoons] should be influencing impressionable minds … I found many of the cartoons in textbooks offensive.” The entire textbook series was effectively (but temporarily) withdrawn from distribution.

How should we evaluate this affair? Cartoons are a form of free expression. Any proposal to limit such expression should be balanced against a restricted and internationally recognized set of interests. Article 19 of the International Covenant on Civil and Political Rights says that free expression can be trumped by the “respect of the rights or reputations of others; the protection of national security or of public order, or of public health or morals.” Of this set, “the reputations of others,” “the rights of others” and “public morals” seem, in principle, relevant grounds to potentially consider limiting this cartoon as a form of free expression.

Take, first, the “reputations of others.” Is it possible that Dalit leader Ambedkar’s reputation has been tarnished by the cartoon’s republication? Ambedkar was well aware of the public figure doctrine, which holds that politicians as public figures should tolerate more criticism than average citizens. He did not sue Shankar for defamation after the cartoon’s original publication in 1949 nor before he died in 1956.

Then there are “the rights of others.” “Others” in the expression “rights of others” can bear three different meanings in this case: Ambedkar’s close relatives, citizens in general and children who see the cartoon. There are no reports that Ambedkar’s relatives ever protested against the cartoon after its publication or sued for defamation on his behalf. The second group, citizens in general, have no (legal) standing in this affair. Even if they did, their interest should not justify censorship in this case because political cartoons, which tend to stimulate public debate, deserve protection.

The interest of children and youngsters, the third group of rights holders, is another matter. Because their rights arguably coincide with the third interest “public morals” I will examine them together. Could it be said that the cartoon might legitimately be published in newspapers and general history books but not in history textbooks for secondary school children on the grounds that exposure to such cartoons violates children’s rights and endangers “public morals”? Minister Sibal seemed to believe so. It is true that textbook authors do not enjoy the degree of intellectual freedom academic historians do, as the former are subjected to educational guidelines. Educational

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authorities give the framework for these guidelines, but their application is guaranteed by experts. In order to perform their duty responsibly, textbook authors and advisers should enjoy a certain degree of autonomy.

Cartoons, by their very nature, require interpretation. This is particularly true for cartoons that are (or may be perceived as) sensitive in the national context. Experts should therefore see to it that their presentation in textbooks is supplemented with information that enables pupils to understand a specific historical context. This was the case for the Ambedkar cartoon, which was used alongside other visual material and extracts from original sources accompanied by critical questions. The textbook itself discussed the problems of Dalits frankly and emphasized Ambedkar’s political achievements, including his contributions to the constitution. Cartoons are a part of grown-up life. It is important that pupils learn how to interpret them critically.

In summary, none of the three legitimate grounds for limiting free expression apply in the cartoon case. The withdrawal of the textbook series containing the controversial cartoon was therefore a violation of the authors’ and, by extension, the textbooks’ chief advisers’ rights to free expression. This violation constitutes a form of politically inspired censorship.

Several conclusions can be drawn from this analysis. The ransacking of Palshikar’s office was an outrage. Yadav’s and Palshikar’s resignation from their posts as chief advisers of the NCERT textbook committee was a justified form of protest against their treatment. From an international human rights point of view, the vociferous condemnation of the cartoon by members of parliament was a questionable form of interference. The cartoon should remain in the textbook, carefully and critically presented, as should any comparable cartoons. Yadav and Palshikar should be given the opportunity to resume their work as soon as possible13.

This example from India demonstrates how international human rights law – in this case article 19 of the International Covenant on Civil and Political Rights – offers a format acceptable by all to investigate censorship allegations. Its standards can be used to determine whether interventions in history are legitimate.

Resistance to the censorship of history When confronted with censorship and repression, historians,

13 This section first appeared as A. De Baets, India’s Textbook Cartoon Affair, Free

Speech Debate (http://freespeechdebate.com/en/discuss/indias-textbook-cartoon-affair; 20 August 2012).

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schematically, opted for one of three choices: collaboration, silence or resistance. As a rule, the majority chose active or passive conformity. However, there is also a history of opposition to be written. Even if they never constituted the majority, many historians resisted the censorship of history, either inside or outside tyrannical regimes. In a unique professional reflex, they proved able to supplement contemporary resistance with retroactive resistance, as historians possess the power to reopen old cases and challenge the rulers’ amnesia and falsification of history.

Typically, activities of discreet or open resistance took place in three concentric circles. The inner circle was formed by historians directly affected by repression. Historians in prison taught history to their fellow inmates or were able to carry out some historical research there. Outside prison, historians engaged in clandestine activities such as publishing their work in the samizdat circuit, teaching at flying universities or illegally gaining access to closed archives. Others defied likely censorship by refuting the cherished historical myths that supported the powers that be, or by uttering the unmentionable in historical parallels. A minority adopted methods of open resistance. Some bravely refused to take loyalty oaths – and were dismissed. A stubborn few reoriented their work toward the eras and topics under embargo.

A layer around this first group was formed by historians living under repression but without being its primary target. Much of that resistance against censorship was not heroic but consisted of small gestures, of writing between the lines or of opposition in silence. Sometimes, such gestures were transformed into insider solidarity. Some organized petitions and letters of protest. Others actively supported their colleagues fallen into disgrace at great personal risk or resigned in protest against the latter’s dismissal. As deans and rectors, some challenged violations of university autonomy. A wider circle of resistance was constituted by the struggle that historians waged in their capacities as peace and human rights activists, again at the risk of dismissal and prosecution.

Historians living in countries and times without threats to their freedom or life formed the outer layer. They tried to apply the difficult principle of universality of human rights to the core rights of the historical profession, that is the freedoms of information and expression. This universality principle had to be translated into international solidarity because it included the logic that, wherever a colleague’s freedom was threatened, so was one’s own, and, conversely, that historians enjoying freedom had a duty to use it to support those from whom it was taken. Petition and letter writing

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campaigns were launched against the detention of colleagues. The tragic plight of historians in exile was sometimes alleviated by the welcome prepared for them by their colleagues in the host countries. Such is the bare outline of a history of resistance against the censorship of history.

The power of historical parallels One strong tool to resist the censorship of history is the use of

historical parallels – and the Survey contains scores of examples of them. The mere chronological dimension of history begs for com-parison over time and this makes the use of historical parallels a spontaneous professional technique for historians. Parallels have the further advantage that they can often be drawn in the wink of an eye. Some forms of the technique enable historians to express veiled criticism while at the same time circumventing direct censorship. There are three basic types:

* General parallels, positive or negative, between present and past regimes and societies.

* Parallels between present and past rulers that are unfavorable to present rulers (e.g., parallels between dictators and previous tyrants) or favorable to their adversaries (e.g., parallels between opposition leaders and heroes of the past).

* Parallels between present and past events that unfavorably portray events ascribed to present rulers (e.g., parallels with perpetrators of past crimes) or favorably portray events ascribed to their adversaries (e.g., parallels with leaders of successful revolts).

A parallel can adopt two forms. It can explicitly mention both legs of the parallel, the historical and the contemporary, or more prudently and implicitly, describe the historical part only, often by making subtle use of figurative language. The former type hides nothing and is defiant to the extent that the comparison is well understood. The latter type is generally used in the calculated hope that the like-minded understand the message while the other-minded do not. It happens indeed that the censors do not notice the parallel or, if they do, that they do not understand its critical message. Often, however, they understand the parallel all too well. In countries such as China, where the use of coded critique is common and understood by many, however, the censors may fear and anticipate it, expressly prohibit and firmly repress it. Sometimes, however, they tolerate it because the indirect character of the parallel neutralizes, they think, its immediate impact or even makes it suitable for a modus vivendi between the regime and its critics. Needless to say, the censoring regime itself may also use historical parallels to its benefit, by favorably comparing itself with selected past regimes and contrasting itself to others. In

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democratic countries, historical parallels are also used, often with a defamatory result, if not intent. The arch-prototype of the historical parallel in democracies is the comparison of a leader or regime to Hitler and Nazism in order to condemn it.

Chilling effects and backfiring effects of censorship The main effect of censorship is a chilling effect: censorship

hampers the expression and exchange of historical facts and opinions, not only of those censored but also of those collaterally intimidated. It encourages selfcensorship. The overall effect of sustained censorship on the profession is not the death of history, but the illusion that it is still alive. In short, the main effect is sterility.

The results of censorship, however, are often ambiguous. In 213 BCE, the Chinese emperor Qin Shihuangdi ordered a largescale book burning of historical works and had possibly hundreds of intellectuals executed in an attempt to eliminate tradition and its guardians. This major censorship operation hampered the development of historical writing, not only because much information was destroyed, but also because it provided an excuse to future scholars to falsify ancient texts. At the same time, however, it caused an immense arousal of historical consciousness: Han scholars tried to recover and edit whatever texts remained and a cult of books developed. Thus the aim of censorship defeated itself14.

This secondary effect of censorship can be called the backfiring effect. 15 Alberto Manguel recognized it when he spoke of “the paradoxical ability of censorship that, in its efforts to suppress, it highlights that which it wishes to condemn16.” Hermann Weber saw

14 D. Bodde, China’s First Unifier: A Study of the Ch’in Dynasty as Seen in the Life

of Li Ssŭ (280?–208 BC), Leiden, 1938, 80–84, 162–166. 15 The backfiring effect of censorship is different from the so-called Streisand

effect. The latter effect, named after singer Barbra Streisand, is “an online phenomenon in which an attempt to hide or remove information … results in the greater spread of the information in question.” (“The Streisand Effect: When Censorship Backfires,” BBC News [15 June 2012]). The backfiring effect of censorship is not exclusively an online phenomenon, and – in contrast to the Streisand effect – it is not undesired (save by the censors, of course).

16 A. Manguel, Daring to Speak One’s Name, Index on Censorship, 24, no. 1 1995), 16-29. Two quotes in which the phenomenon is described: (1) “La moindre trace de passé non falsifié prend un pouvoir subversif et extraordinaire” [C. Devroey-Zoller and J.P. Devroey, Historiographie et droits de l’homme, in R. Bruyer, ed., Les Sciences humaines et les droits de l’homme, Brussels, 1984, 41]. (2) “But authoritarian systems may contain a selfdefeating element in their attempts to monopolize power: by controlling the means of communication, they provoke counterreactions and foster a critical turn of mind; they inadvertently teach scepticism and thereby undermine their

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the effect at work after the dictatorship, in his case the GDR, withered away: “For decades the exclusion of ‘blank spots’ had been ordered … only to provoke a stronger and almost obsessive interest in these issues nowadays17.” Censorship may have unintended positive consequences. In a dictatorial context, historical awareness may increase, not diminish, when the official falsifications as a side-effect engender an unofficial past eagerly consulted as a source of consolation and countervailing power. In a democratic context, suspicion of traces of censorship increases the drive for openness18.

If it is not all-pervading, censorship can provide an indirect incentive for creativity and criticism. Taboos always attract curiosity. When history as a classical vehicle of the past is silenced and compromised, every utterance – graffiti, literature, theater, film –becomes its potential vehicle. In this way, the censorship of history generates the emergence of substitutes: whenever the silenced and silent historians are not able to refute the heralded truths of official historical propaganda, philosophers, poets, novelists, playwrights, filmmakers, journalists, storytellers and singers may appear on the stage and convey alternative historical messages in an attempt not to let the historical truth disappear. Paradoxically, the ostensible vulnerability of many of these substitutes is their very power. Writing, for example, is a solitary act requiring little institutional support. Sometimes, fictional genres are not taken seriously by the authorities and hence escape their attention. Thus, censorship may not suppress alternative views but rather generate them, and, by doing so, become counterproductive 19 . Although there is no guarantee that these alternative voices are not biased, their mere presence restores the pluralism of views.

own legitimacy.” [R. Darnton, Censorship, a Comparative View: France, 1789—East Germany, 1989, Representations, no. 49,Winter 1995, 58.]

17 H. Weber, ‘Weisse Flecken’ in der DDR-Geschichtsschreibung, in Krise-Umbruch-Neubeginn: Eine kritische und selbstkritische Dokumentation der DDR-Geschichtswissenschaft 1989/90, R. Eckert et al., eds., Stuttgart, 1992, 369–391.

18 In the Survey we noted backfiring effects in passing in the cases of Umar (Bangladesh), Galíndez (Dominican Republic), Guillebaud (France), Heym (Germany), Sierra Campuzano (Mexico), Sinclair (New Zealand), Jasienica (Poland), Dündar (Turkey) and Esenov (Turkmenistan), and in all those cases that received largescale media attention in general (such as the Ienaga trials in Japan).

19 See L. Kołakowski, Totalitarianism and the Virtue of the Lie, in I. Howe, ed., 1984 Revisited: Totalitarianism in Our Century, New York, 1983, 135; and Y. Afanasev, Return History to the People, Index on Censorship, 24, no. 3 (1995), 56–58. Also see Marc Bloch’s remarks on the wary reception of propaganda and censorship in the trenches of World War I, which resulted in a revival of oral tradition: M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou métier d’historien (originally 1949), Paris, 1967, 50–51.

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Censorship and historical truth The history of the censorship of history contributes two

convincing tests to the thesis that the search for historical truth carried out with as much objectivity as possible is and always has been the central mission of historical scholarship – however provisional, conjectural and perspectival the knowledge that results from such a search may be.

A superficial count of the heads of state and government between 1945 and 2012 who had either a degree in history, wrote a historical work, held important speeches with historical contents, or showed their active interest in history in other demonstrable ways, totalled 123 leaders in 70 countries20. Many of them attacked historians directly and publicly21. From time immemorial, the eagerness of rulers to censor history has been proof a contrario of their historical awareness and hence, of the existence and importance of historical truth. Why, indeed, would these leaders bother to censor certain versions of history if the notion of historical truth was not important?

At the other side of the spectrum, some historians living in dictatorships stubbornly refuted historical myths even at the risk and cost of irreparable career damage. This can only be plausibly explained by their belief in the value of historical truth. The cases of Aleksandr Zimin (USSR), Gu Jiegang (China), Tsuda Sōkichi and Ienaga Saburō (Japan), Romila Thapar (India) and Fuat Köprülü (Turkey) come to mind22.There have also been various courageous historians living in dictatorial contexts who criticized the official rewriting of history with its blank spots by publicly and directly claiming “a right to historical truth.” This is illustrated by the actions of Sun Changjiang in China, of Aleksandr Tvardovsky in the USSR, of Adolf Juzweńko in Poland, of František Graus, Jan Křen and Jozef Jablonický in Czechoslovakia, and the samizdat debate about “the right to history” by historians linked to Charta 77 in the same country.

20 I discussed these leaders in The Historical Awareness of Wise Leaders [in

Dutch], in D. Bosscher and Y. van Hoef, eds., Koning Nobel: Opstellen over goede en kwade leiders, en wat het verschil maakt (King Noble: Essays on Good and Bad Leaders and the Difference between Them), Groningen, 2011, 19–26.

21 For a partial overview, see A. De Baets, Responsible History, New York, 2009, 100-107

22 Others who gained a reputation for refuting historical myths include the Japanese historians Shigeno Yasutsugu (1827–1910), Kume Kunitake (1839–1931), Shiratori Kurakichi (1865–1942), the Czechoslovak philosopher Tomáš Masaryk (1850–1937) and the Swedish historian Lauritz Weibull (1873–1960).

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Were these actions futile? Although for a large part these authors wrote under pressure and took considerable risk, they kept burning the flame to search for truth under very unfavorable circumstances. Many examples of similar courage have been forgotten, but these historians managed to leave traces of their actions. Their struggle for “a right to history” can and should be remembered here.

Censorship and the ethics of historians Lastly, the problem of the censorship of history possesses an

ethical dimension, at least to the extent that the regime in power allows historians the oxygen to act as responsible agents at all. Censorship is a violation of the historians’ two core rights which are high on the list of human rights: freedom of expression (for teaching and publishing) and freedom of information (for conducting research). Given these rights, it is the historians’ professional duty to apply standards of accuracy and sincerity, in particular to search honestly and methodically for the historical truth. Whereas the responsible use of history – including many forms of responsible selection and omission of facts – is protected by intellectual and academic freedom, censorship, as a form of abuse of history, is not. And if the restrictions imposed by censorship are not prescribed by law or not necessary in a democratic society (and this is always the case for prior restraint, for demonstrable chilling effects and for disproportionate sanctions), they are not even covered by the right to free expression. Like all abuse, censorship undermines the trust placed by society in scholarship and teaching. Therefore, historians should always oppose it. The activities of censors should be condemned, with the aggravating qualification that censorship of history committed by professional historians is worse than the same conduct by nonprofessionals.

A final basic ethical principle is this: the universal freedoms of thought and expression ineluctably include the right to write and teach history and the right to remember the past, in short the rights to history and memory23. Mapping the history of the censorship of history and remembering those suffering from it and opposing it, are vital avenues for keeping the rights to history and to memory alive.

23 See De Baets, Responsible History, 144–172.

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DIRITTO PENALE E LIBERTÀ DELLO STORICO

Luigi Cajani

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Le leggi contro la negazione dell’Olocausto. – 3. La legislazione europea. – 4. Guerre della memoria: le lois mémorielles in Francia. – 5. Guerre della memoria: l’Holodomor in Ucraina. – 6. L’adozione della Decisione quadro da parte degli Stati membri dell’Unione europea. – 7. Conclusioni

1. Introduzione Da alcuni anni gli storici europei assistono all’emergere di

un’inedita minaccia alle loro ricerche: il codice penale. A ciò si è giunti a causa del cortocircuito fra la punizione della negazione dell’Olo-causto da un lato e le guerre della memoria dall’altro. La prima è stata introdotta in alcuni Stati europei dall’inizio degli anni ‘90, nel contesto di una più generale lotta contro l’antisemitismo. Le seconde si sono manifestate soprattutto negli Stati un tempo al di là della cortina di ferro, in cui lo scongelamento del dibattito politico e sociale seguito alla caduta del Muro di Berlino ha reso possibile una resa dei conti con i precedenti regimi e con l’Unione sovietica. Ma guerre della me-moria ci sono state e ci sono anche in Francia, dove alcuni gruppi di pressione hanno portato alla ribalta la sorte degli Armeni nell’Impero Ottomano, la tratta degli schiavi africani e il colonialismo francese. Gli storici (e con loro chiunque professionalmente si occupi di storia, dai giornalisti agli insegnanti di scuola) si trovano a rischio di essere presi in ostaggio dall’uno o dall’altro contendente. I protagonisti di alcune di queste guerre, infatti, chiedono e talora ottengono anche il ricono-scimento ufficiale, con legge dello Stato, della loro interpretazione de-gli eventi storici in questione, e in alcuni casi anche la punizione di chi neghi questa interpretazione, creando così nuovi reati di negazionismo sulla base di un’analogia con la negazione dell’Olocausto. L’analogia è però fallace: si tratta invece di uno scivolamento logico. Nel caso dell’Olocausto, infatti, viene negata la realtà dell’evento storico, il che non ha nulla a che vedere con la ricerca storica. Nel caso delle guerre della memoria già ricordate, invece, la realtà dell’evento storico non viene messa in discussione, ma se ne discutono varie interpretazioni, come è proprio della ricerca storica. Nel caso degli Armeni, ad esem-pio, gli storici non negano che siano stati massacrati a centinaia di mi-gliaia nell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale, ma

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dibattono se si possa o no parlare di genocidio1, cioè se vi sia stata l’intenzione di “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, come recita l’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata dall’ONU nel 1948, ripreso dall’articolo 6 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, del 1998. Questa distinzione fra negazio-ne della realtà di un evento storico e negazione di una sua interpreta-zione è fondamentale, ma viene spesso ignorata, non solo nei dibattiti e nei commenti, ma anche in molti testi legislativi, facendo così appari-re legittima, e anzi necessaria, l’estensione della punizione da chi nega la realtà dell’Olocausto a chi nega che un evento storico sia stato un genocidio o un crimine di guerra.

Il concetto di genocidio è peraltro molto discusso dai giuristi e da-gli storici, sia per quanto riguarda le intenzioni e i metodi usati dagli autori, che per quanto riguarda l’identificazione dei gruppi di vittime2, e quindi si discute anche quali eventi storici vanno definiti come geno-cidi. Alcuni studiosi applicano la definizione di genocidio esclusiva-mente all’Olocausto (la tesi della “unicità dell’Olocausto”), altri al contrario lo estendono ad un gran numero di eventi storici, a partire dai genocidi coloniali3, come nel caso degli Herero, degli Aborigeni australiani o degli Indiani d’America, fino ad andare indietro nell’Antichità, inserendovi ad esempio la distruzione di Cartagine da parte dei Romani4. Henry Huttenbach, direttore del Journal of Geno-cide Research, così commentava nel 2002 questa situazione di incertez-za:

“A tutt’oggi il genocidio … manca sia di una soddisfacente definizione concettuale che di un consenso sulle sue caratteristiche interne. Senza una definizione concettuale non è possibile distinguere gli eventi genocidiari da quelli non genocidiari”5.

1 Lo nega ad esempio G. Lewy nel suo libro The Armenian Massacres in Ottoman

Turkey: A Disputed Genocide, Salt Lake City (UT), 2005 (trad. it. Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Torino, 2006). Di opposto parere, fra i tanti, M. Flores, Il genocidio degli Armeni, Bologna, 2006.

2 S. Straus, Contested meanings and conflicting imperatives: A conceptual analysis of genocide, in Journal of Genocide Research, 3:3 (2001), 349-375.

3 Si veda ad esempio A. Dirk Moses (a cura di), Empire, Colony, Genocide. Conquest, Occupation, and Subaltern Resistance in Worls History, New York – Oxford, 2008.

4 B. Kiernan, Blood and Soil. A World History of Genocide and Extermination from Sparta to Darfur, New Haven (CT), 2007.

5 H. R. Huttenbach, From the Editor: Towards a conceptual definition of Genocide, in Journal of Genocide Research, 4:2 (2002), 167-175, qui 167.

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Ma le controversie coinvolgono anche altri crimini. Ad esempio il filosofo inglese Anthony Grayling sostiene che i bombardamenti aerei alleati sulle città tedesche e giapponesi durante la Seconda guerra mondiale vanno considerati crimini contro l’umanità6.

L’opportunità di punire chi nega la realtà dell’Olocausto è que-stione molto discussa, sia sul piano della sua necessità ed efficacia nel combattere questo fenomeno, sia sul piano della sua legittimità in ter-mini di limitazione della libertà di espressione, ma comunque è que-stione che non coinvolge lo storico nel suo lavoro, poiché in questa negazione non c’è nulla di scientifico. È però con la punizione della negazione dell’Olocausto che è si è avviato il processo che sta coinvol-gendo la ricerca storica e quindi inizierò illustrando le leggi che la ri-guardano.

2. Le leggi contro la negazione dell’Olocausto La prima di queste leggi, approvata in Israele nel 1986, puniva con

la pena di cinque anni di reclusione chiunque “nega o diminuisce le dimensioni degli atti commessi durante il regime nazista che costitui-scono crimini contro il popolo ebraico o crimini contro l’umanità, con l’intento di difendere gli autori di questi atti o di esprimere simpatia nei loro riguardi o di identificarsi con essi”7. Dunque accanto alla ne-gazione c’era anche il ridimensionamento quantitativo del genocidio, ma entrambe le condotte venivano punite solo se qualificate da un at-teggiamento positivo verso gli autori del genocidio.

Contemporaneamente anche in vari Stati europei si cominciava a discutere l’opportunità di introdurre una legge simile, come risposta a crescenti atti di antisemitismo e di negazionismo. In Francia la profa-nazione delle tombe ebraiche nel cimitero di Carpentras diede il via alla prima di queste leggi, la loi Gayssot8, così chiamata dal nome del deputato comunista Jean–Claude Gayssot, che la propose. Approvata il 13 luglio 1990 dall’Assemblée nationale, questa legge, che modificava la legge sulla stampa del 29 luglio 1881 con l’esplicito intento di re-

6 A. C. Grayling, Among the Dead Cities, London, 2006. 7 Denial of Holocaust (Prohibition) Law, 5746-1986, art. 2, approvata dalla

Knesset il l Tammuz 5746 (8 luglio 1986) e pubblicata in Sefer Ha-Chukkim, n. 1187, 9 Tammuz 5746 (16 luglio1986), 196.

8 Loi n°90-615 du 13 juillet 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, antisémite ou xénophobe. Sull’applicazione di questa legge si veda La lutte contre le négationnisme. Bilan et perspectives de la loi du 13 juillet 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, anti-sémite ou xénophobe Actes du colloque du 5 juillet 2002 à la cour d’appel de Paris (CNCDH), Paris, 2003.

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primere “ogni atto di razzismo, antisemitismo e xenofobia”, vi intro-duceva un art. 24 bis, che comminava un anno di reclusione e una pe-sante pena pecuniaria (oggi ammontante a € 45.000) a chi avesse “ne-gato l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale Militare Internazionale alle-gato all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945”. Nel riferimento a que-sto statuto, che costituì la base legale del processo di Norimberga, era implicito l’Olocausto, ma non solo, perché esso prevedeva più in gene-rale crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’uma-nità9. Si specificava poi che per l’identificazione di questi crimini era riconosciuta la competenza sia di tribunali francesi che internazionali. Sul piano semantico va osservato che nel testo francese si trova il ver-bo “contester”, il cui significato oscilla fra “negare” (che ho scelto nella traduzione) e “mettere in discussione”, il che crea una certa ambiguità nella definizione delle condotte criminose. Infine, facendo il confronto con la legge israeliana, va rilevato che la legge francese puniva solo la negazione e già nella sua forma semplice, senza circostanze qualifican-ti.

La loi Gayssot suscitò subito molte critiche fra gli storici francesi. Pierre Vidal-Naquet, figlio di ebrei francesi uccisi ad Auschwitz e in prima linea nella lotta contro i negazionisti, scrisse in un saggio del 1992 che questa legge rischiava di farne dei martiri e si dichiarò con-trario ad imporre una qualsiasi verità storica per legge10. Madeleine Rebérioux in un articolo pubblicato nel 1990 affermò che la legge era

9 I reati sono i seguenti: “a) Delitti contro la pace: vale a dire la direzione, la pre-

parazione, lo scatenamento e la continuazione di una guerra d’aggressione, o d’una guerra in violazione di trattati, assicurazioni o accordi internazionali, ovvero la parte-cipazione a un piano concertato o a un complotto per il compimento di una delle pre-cedenti azioni; b) Crimini di guerra: vale a dire la violazione delle leggi e delle norme della guerra. Queste violazioni includono, senza esserne limitate, l’assassinio, i cattivi trattamenti e la deportazione per lavori forzati, o per qualsiasi altro scopo, delle popo-lazioni civili dei territori occupati, l’assassinio o i cattivi trattamenti di prigionieri di guerra o delle persone sul mare, l’esecuzione di ostaggi, il saccheggio di beni pubblici o privati, la distruzione ingiustificata di città e di villaggi, ovvero le devastazioni non giustificate da esigenze d’ordine militare; c) Crimini contro l’umanità: vale a dire l’assassino, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e qualsiasi altro atto inumano commesso contro popolazioni civili, prima e durante la guerra, ovvero le per-secuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, quando tali atti o persecuzioni – ab-biano esse costituito o meno una violazione del giudizio interno del Paese dove sono state perpetrate – siano state commesse in seguito di qualunque delitto che rientri nel-la competenza del Tribunale, o in collegamento con tale delitto”.

10 P. Vidal-Naquet, Qui sont les assassins de la mémoire?, in Id., Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, édition revue et augmentée, postface de G. Sapiro, Paris, 2005, 206.

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addirittura superflua, come dimostrava il fatto che Robert Faurisson11, uno dei più noti negazionisti, era stato condannato in passato sulla ba-se delle norme preesistenti alla loi Gayssot. Inoltre – continuava la Rebérioux – il giudice e lo storico hanno diverse strategie di ricerca, che non debbono essere confuse, e concludeva: “La verità storica rifiu-ta l’autorità dello Stato” 12. In un articolo del 1996 ella andò oltre nelle sue critiche, prevedendo che questa legge avrebbe aperto la via alla de-finizione di una verità storica ufficiale anche di altri genocidi13. Una previsione pienamente confermata da ciò che sarebbe di lì a poco av-venuto con le numerose lois mémorielles.

Altri Stati europei adottarono ben presto leggi contro la negazione dell’Olocausto, con significative differenze. Nel 1992 l’Austria intro-dusse nell’articolo 1 del Verbotsgesetz (la legge del 1947 contro le atti-vità neonaziste) il paragrafo 3h, che puniva con la reclusione da uno a dieci anni (elevabili a venti in casi particolarmente gravi) chi pubbli-camente “nega, minimizza grossolanamente, approva o cerca di giusti-ficare” il genocidio e altri crimini nazisti14. In tal modo venivano ag-giunte alla negazione altre condotte criminose, che vennero poi riprese in altre legislazioni. La Germania nel 1994 aggiunse all’articolo 130 dello Strafgesetzbuch, sotto il titolo di “Incitamento all’odio” (Volk-sverhetzung), il paragrafo 3 che puniva con una pena pecuniaria o colla reclusione fino a cinque anni “chiunque in pubblico o in una riunione approva, nega o minimizza un atto commesso sotto il Nazionalsociali-smo … in una maniera capace di turbare la pubblica pace”15. La con-dizione qui richiesta per perseguire le condotte criminose è dunque il pericolo per la pace pubblica. In Belgio una legge del 1995 puniva con una pena pecuniaria o con la reclusione da otto giorni a un anno “la negazione, la minimizzazione, la giustificazione o l’approvazione” del genocidio nazista16.

Altri Stati hanno approvato leggi antinegazioniste che non fanno esplicito riferimento ai crimini nazisti, ma riguardano più in generale tutti i genocidi e crimini contro l’umanità: una scelta che segue la logi-

11 Tribunal de Grande Instance de Paris, 1re Chambre, 1re Section, 1 luglio 1981. 12 M. Rebérioux, Le Génocide, le juge et l’historien, in L’Histoire, n. 138, no-

vembre 1990, 92-94. 13 M. Rebérioux, Contre la loi Gayssot, in Le Monde, 21 maggio 1996. 14 Bundesverfassungsgesetz, mit dem das Verbotsgesetz geändert wird (Verbotsge-

setz-Novelle 1992), in Bundesgesetzblatt für die Republik Österreich, 19 marzo 1992, 743.

15 Bundesrepublik Deutschland, Strafgesetzbuch, 130 § 3. 16 Loi tendant à réprimer la négation, la minimisation, la justification ou l’appro-

bation du génocide commis par le régime national-socialiste allemand pendant la seconde guerre mondiale, 23 marzo 1995.

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ca che la punizione del negazionismo non va limitata all’Olocausto. In Svizzera l’articolo 261 bis del Code pénal, introdotto nel 199317, puni-sce con una pena pecuniaria o la reclusione fino a tre anni chi “nega, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare un genocidio o altri crimini verso l’umanità”. Il Portogallo nel 2007 introdusse con l’articolo 240 del Código Penal la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni per la negazione di crimini di guerra, crimini contro la pa-ce e crimini contro l’umanità18: un testo che dunque riprendeva i tre crimini previsti dallo statuto del Tribunale Militare Internazionale. Da notare anche che viene qui perseguita solo la negazione, e solo in caso che sia qualificata da pubblica diffamazione o offesa contro singoli o gruppi che per motivi di razza, colore, origine etnica o nazionale, reli-gione, sesso o orientamento sessuale.

Un caso particolarmente interessante per quanto riguarda la diffe-renza fra condotta criminosa semplice e qualificata è quello della Spagna. Nel 1995 venne inserito nel Código penal l’articolo 607.2, che puniva in generale la negazione e la giustificazione del genocidio19. Il 7 novembre 2007 però il Tribunal Constitucional dichiarò questo artico-lo parzialmente incostituzionale, affermando che solo la giustificazione può essere perseguita, purché rappresenti un incitamento indiretto a commettere questo reato; la punizione della negazione, invece, fu di-chiarata incostituzionale in quanto lesiva della libertà di espressione, poiché la negazione rappresenta la mera diffusione di opinioni intorno all’esistenza o meno di eventi storici, senza giudizio di valore20.

La Romania rappresenta un caso misto, in cui accanto alla specifi-ca menzione dell’Olocausto si trova anche il riferimento ai reati previ-sti dallo statuto del Tribunale Militare Internazionale. Infatti una legge del 2002 punisce le organizzazioni e l’esibizione di simboli “a carattere fascista, razzista o xenofobo” nonché il culto della personalità di colo-ro che si sono macchiati di crimini contro la pace e contro l’umanità o di crimini di guerra condannati da un tribunale nazionale o interna-zionale21, ma punisce anche esplicitamente la negazione dell’Olocausto con la reclusione da sei mesi a cinque anni22.

In alcuni Stati un tempo al di là della cortina di ferro si è andati ol-tre i crimini nazisti, equiparando ad essi i crimini comunisti. In Polo-nia nel 1998 è stato creato l’Instytut Pamięci Narodowej (Istituto della

17 Loi fédéral 18.6.1993, in vigore dal 1 gennaio 1995. 18 Lei n.º 59/2007 de 4 de Setembro Vigésima terceira alteração ao Código Penal,

aprovado pelo Decreto -Lei n.º 400/82, de 23 de Setembro. 19 Ley Orgánica 10/1995, de 23 de noviembre, del Código Penal. 20 Tribunal Constitucional de España, STC 235/2007. 21 Ordonanţa de urgenţă a Guvernului no. 31/2002, articoli 1 e 2. 22 Ivi, art. 6.

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Memoria Nazionale), che è una commissione di indagine sui crimini commessi a danno dei cittadini polacchi dai regimi nazista, sovietico e comunista polacco23, nel cui statuto è prevista una pena pecuniaria o la reclusione fino a tre anni per chi neghi pubblicamente questi crimini24. La Repubblica ceca ha introdotto nel 2000 l’articolo 261a del codice penale, che include sia i crimini nazisti che quelli comunisti: “Chiun-que pubblicamente neghi, metta in dubbio, approvi o cerchi di giusti-ficare un genocidio nazista o comunista o altri crimini contro l’umanità commessi da nazisti o comunisti sarà punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”25.

Tutte queste leggi formano dunque un quadro molto diversificato. In alcuni casi viene perseguita la sola negazione, in altri casi invece an-che l’approvazione, la giustificazione, la messa in dubbio o la minimiz-zazione, quest’ultima eventualmente solo se grossolana, un aggettivo dai contorni molto imprecisi. Queste formulazioni pongono notevoli problemi interpretativi, e quindi di certezza del diritto. Mentre infatti il significato di negazione o di approvazione è abbastanza chiaro in termini di condotta criminosa, altrettanto non può dirsi per giustifica-zione o minimizzazione (per di più grossolana). Ad esempio, secondo alcuni giuristi, giustificazione e minimizzazione possono significare che un evento storico può essere spiegato o ridotto nella sua gravità in rapporto al contesto in cui è avvenuto, ad esempio se lo si spiega come reazione ad un pericolo o a un precedente atto di violenza26. Pertanto il perseguire la giustificazione o la minimizzazione coinvolge diretta-mente la ricerca storica. Alcune leggi poi puniscono queste condotte criminose nella loro forma semplice, altre invece solo se sono qualifica-te. Infine, ci sono molte differenze rispetto agli eventi storici oggetto di queste leggi: alcune menzionano solo il genocidio nazista, altre fanno riferimento ai reati previsti dallo statuto del Tribunale Militare Inter-nazionale, altre menzionano anche i crimini comunisti, altre infine par-lano genericamente di genocidi e crimini contro l’umanità, il che signi-fica una lista potenzialmente senza limiti temporali. E qui si pone un altro problema fondamentale: quale istituzione ha titolo per decidere che un evento storico rappresenta un crimine? Alcune leggi indicano tribunali nazionali o internazionali, il che implica differenze notevoli. Infatti fra i tribunali internazionali ci sono il Tribunale militare inter-

23 Ustawa z dnia 18 grudnia 1998 r. o Instytucie Pamięci Narodowej - Komisji Ści-

gania Zbrodni przeciwko Narodowi Polskiemu, art. 1 and 2. 24 Ivi, art. 55. 25 Zákon ze dne 25. října 2000, kterým se mění zákon č. 140/1961 Sb., trestní zá-

kon, ve znění pozdějších předpisů. 26 Cfr. E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, in Riv. it. dir. e proc. pen.,

1999, 1034-1074, spec. 1050, 1061-1062.

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nazionale, che a Norimberga giudicò i crimini commessi dai nazisti, e il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente, istituito nel 1946, che a Tokio giudicò i criminali di guerra giapponesi, e che sono poi stati disattivati. Vi sono poi altri due tribunali ad hoc, anch’essi con competenza limitata a precisi contesti storici, come quello sull’ex-Jugoslavia o quello sul Ruanda, istituiti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU rispettivamente nel 1993 e nel 1994. E infine la Corte pena-le internazionale, che può giudicare solo crimini commessi dopo il 1 luglio 2002, quando è entrato in vigore il suo Statuto27. I tribunali na-zionali possono invece pronunciarsi, nei limiti delle loro specifiche re-gole giurisdizionali, su crimini i cui responsabili siano ancora in vita, come è avvenuto per alcuni criminali nazisti recentemente processati sia in Italia, dove sono stati riconosciuti colpevoli di reati imprescritti-bili, sia in Germania, dove invece i crimini loro addebitati sono stati derubricati a fattispecie ormai prescritte. È chiaro che ammettere la competenza di tribunali nazionali nel definire reati la cui qualificazio-ne non può essere negata crea una situazione paradossale e caotica, per cui una condotta può essere sanzionata in un Stato membro dell’Unione europea mentre è legittima in un altro. Peraltro, il far rife-rimento ai soli tribunali internazionali presenti o futuri limita soltanto i danni per gli storici, perché comunque lascia scoperti coloro che fanno e faranno ricerca sugli eventi che ricadono nella competenza dei tribu-nali internazionali. E rimane il punto di principio, per cui una sentenza che definisce un evento storico non può essere messa in discussione, nella caratterizzazione giuridica che attribuisce a quell’evento.

Altri Stati poi non danno nessuna indicazione su chi può decidere sulla qualificazione degli eventi storici oggetto dell’espressione nega-zionista. A volte questa operazione è demandata al giudice penale – che deciderà in via incidentale con effetti limitati al caso di specie –, altre volte ci si affida ad una decisione legislativa, esclusivamente di-pendente dalla politica, e che può pronunciarsi su eventi storici senza nessun limite temporale. In Francia, come si illustrerà in dettaglio più avanti a proposito delle lois mémorielles, una legge riconosce dal 2001 il genocidio armeno, del quale non sopravvive oggi nessun responsabi-le e sul quale quindi nessun tribunale potrebbe pronunciarsi. E le guerre della memoria non si limitano a eventi abbastanza vicini al-l’oggi, ma anzi, è possono coinvolgere eventi anche lontani a cui qual-cuno dà ancora un forte valore identitario: sempre in Francia, ad esempio, nel maggio 2007 una decina di deputati ha presentato all’As-semblée nationale una proposta di legge mirante al riconoscimento del

27 Cfr. Rome Statute of the International Criminal Court, art. 11.

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genocidio della Vandea durante la Rivoluzione francese28. Questa pro-posta non è mai stata discussa, ma è stata tenacemente ripresentata nel marzo del 201229.

Da questo quadro della legislazione contro la negazione dell’Olo-causto mancano molti Stati europei, per varie ragioni: per una sorta di disinteresse, come nel caso dell’Italia, oppure per una tradizione parti-colarmente forte di salvaguardia della libertà di espressione, come il Regno Unito, la Svezia, la Danimarca e i Paesi Bassi, dove si ritiene di non dover andare oltre una generale legislazione antirazzista, perché essa è sufficiente a punire anche il negazionismo quando ponga in pe-ricolo l’ordine pubblico o altri beni meritevoli di tutela. Questa etero-geneità legislativa è però apparsa inaccettabile alle istituzioni europee, che hanno deciso di intervenire con lo scopo di armonizzare le legisla-zioni penali degli Stati membri e migliorarne la cooperazione giudizia-ria nella lotta al razzismo e alla xenofobia, lotta che – come ripetuta-mente affermato in documenti ufficiali – deve essere uno dei fonda-menti dell’identità e del sistema di valori dell’Europa30.

3. La legislazione europea Il primo passo in questa direzione fu l’Azione comune … intesa a

combattere il razzismo e la xenofobia del 199631, che istituiva la coope-razione giudiziaria fra gli Stati membri per combattere i seguenti cri-mini:

a) l’istigazione pubblica alla discriminazione, alla violenza ed all’odio

razziale nei confronti di un gruppo di persone o di un membro di tale gruppo

28 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Douzième législature,

Proposition de loi relative à la reconnaissance du génocide vendéen de 1793-1794 (n. 387 enregistré à la Présidence de l’Assemblée nationale le 21 février 2007).

29 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Treizième législature, Proposition de loi visant à reconnaître officiellement le génocide vendéen de 1793-1794 (n. 4441 enregistré à la Présidence de l’Assemblée nationale le 6 mars 2012).

30 Si vedano, ad esempio, la Declaration Against Racism and Xenophobia by the European Parliament, the Council, the Representatives of the Member States, meeting within the Council, and the Commission, in Official Journal of the European Communities, 25 giugno 1986, C 158/1-3), e l’articolo 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, del 2010.

31 Azione comune del 15 luglio 1996 adottata dal Consiglio a norma dell’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea, nell’ambito dell’azione intesa a combattere il razzi-smo e la xenofobia (96/443/GAI), in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 24 lu-glio 1996, L185, 5-7.

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definito rispetto al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica;

b) l’apologia pubblica, a fini razzisti o xenofobi, dei crimini contro l’umanità, e delle violazioni dei diritti dell’uomo;

c) la negazione pubblica dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 aprile 1945, qualora comprenda un comportamento sprezzante e degradante nei confronti di un gruppo di persone definito rispetto al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica;

d) la diffusione e la distribuzione pubbliche di scritti, immagini o altri mezzi che contengono espressioni razziste o xenofobe;

e) la partecipazione ad attività di gruppi, organizzazioni o associazioni che implicano discriminazione, violenza e odio razziale, etnico o religioso.32.

Questo testo definiva così due condotte criminose: apologia e ne-

gazione. Stranamente, c’era un’asimmetria fra le due: la negazione ve-niva infatti riferita ai crimini perseguiti al processo di Norimberga (§ c), mentre l’apologia veniva riferita a tutti i crimini contro l’umanità, nonché alla di violazione dei diritti dell’uomo (§ b). Diverse anche le circostanze qualificanti che rendevano possibile l’azione penale: nel caso dell’apologia erano previsti i fini razzisti o xenofobi (§ b), mentre nel caso della negazione era necessario un “comportamento sprezzante e degradante nei confronti di un gruppo di persone definito rispetto al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica“(§ c). Razzismo e xenofobia erano sì presenti in entrambi i casi, ma non è chiaro il perché delle diverse formulazioni.

Questa Azione comune non ebbe efficacia pratica e fu ben presto sostituita da un nuovo strumento giuridico, nell’ambito del terzo pila-stro, la Decisione-quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia33, presentata dalla Commissione il 29 novembre 2001. L’articolo 4 ri-prendeva l’Azione comune, ma con alcune importanti differenze:

a) istigare pubblicamente alla violenza o all’odio in un intento razzista o

xenofobo, o a qualsiasi altro comportamento razzista o xenofobo che possa arrecare danni sostanziali alle persone o ai gruppi contro cui è rivolto;

b) proferire in pubblico insulti e minacce in un intento razzista o xenofobo;

32 Ivi, titolo I A. 33 Proposta di decisione-quadro del Consiglio sulla lotta contro il razzismo e la xeno-

fobia, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 26 marzo 2002, C 75 E, 269-273.

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c) fare pubblicamente l’apologia, in un intento razzista o xenofobo, dei crimini di cui agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale;

d) negare o minimizzare pubblicamente i crimini di cui all’articolo 6 della carta del tribunale militare internazionale allegata all’intesa di Londra dell’8 aprile 1945, in modo atto a disturbare la quiete pubblica;

e) diffondere o distribuire pubblicamente scritti, immagini o altri supporti che contengano espressioni di razzismo o xenofobia;

f) dirigere, sostenere o partecipare alle attività di un gruppo razzista o xenofobo, nell’intento di contribuire alle attività criminali dell’organiz-zazione.

Rispetto all’Azione comune, questo articolo introduceva fra i reati,

accanto alla negazione e all’apologia, anche la minimizzazione; poi in-troduceva il riferimento ai reati previsti dallo statuto della Corte pena-le internazionale; e infine lasciava cadere la specifica condizione quali-ficante del comportamento sprezzante e degradante, sostituendola con quella del possibile disturbo della quiete pubblica. Rimaneva, come nell’Azione comune, l’incongruenza fra l’apologia, riferita solo ai cri-mini previsti al § c), e la negazione o minimizzazione, riferite solo ai crimini previsti al § d).

L’articolo 6 fissava poi i caratteri generali delle pene, che dovevano essere “effettive, proporzionate e dissuasive” (§ 1), e in particolare stabiliva che i reati di cui all’art. 4 §§ b)-e) dovevano essere “passibili, quanto meno nei casi più gravi, di pene detentive che possono dar luogo all’arresto o all’estradizione”.

Contemporaneamente anche il Consiglio d’Europa si adoperava per la lotta contro razzismo, xenofobia e negazionismo, aprendo alla sottoscrizione degli Stati membri il 28 gennaio 2003 l’Additional Pro-tocol to the Convention on cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer sy-stems. L’articolo 6 § 1 invitava le Parti contraenti a punire la distribu-zione attraverso sistemi informatici di

materiale che neghi, minimizzi grossolanamente, approvi o giustifichi azioni che rappresentano genocidio o crimini contro l’umanità, secondo la definizione datane dalla legge internazionale e che sono riconosciuti come tali da una sentenza passata in giudicato del Tribunale Militare Internazionale, stabilito dall’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, o da qualsiasi altro tribunale internazionale istituito da rilevanti trattati internazionali e la cui giurisdizione è riconosciuta da quella Parte.

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L’insieme delle condotte criminose previste era lo stesso della De-cisione quadro, con l’aggiunta però della giustificazione. Interessante era poi la definizione dei tribunali che hanno il potere di definire la na-tura degli eventi storici, fra cui era implicitamente prevista la Corte penale internazionale.

Il seguente § 2a dava a ogni Parte contraente la facoltà di limitare la punizione delle suddette condotte criminose solo in presenza delle seguenti specifiche condizioni qualificanti:

intenzione di incitare all’odio, alla discriminazione o alla violenza nei confronti di un individuo o un gruppo di individui sulla base della razza, del colore, della ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, come pure della religione.

A questo seguiva poi un § 2b, piuttosto sorprendente, perché dava

a ogni Parte contraente la facoltà “di non applicare, in tutto o in parte, Il paragrafo 1 di questo articolo”. Il che mostra chiaramente che fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, più numerosi fra l’altro degli Stati membri della Comunità europea, queste norme erano ben lonta-ne dall’incontrare consenso, e che il Consiglio d’Europa si muoveva necessariamente con cautela ad esercitare un magistero morale.

Anche all’interno della Comunità europea c’erano molte resistenze nei confronti della Decisione quadro. Infatti l’articolo 16 § 1 prevedeva che gli Stati membri la adottassero entro il 30 giugno 2004, ma questa aspettativa non si realizzò34. I dissensi emersero in occasione della riu-nione del Consiglio Giustizia e Affari Interni del 2 e 3 giugno 2005, come ammise durante una conferenza stampa il presidente Luc Frie-den35:

Abbiamo avuto oggi una discussione molto politica sulla decisione quadro. Io penso che questo sia un documento di natura più politica che giuridica … la bozza della decisione quadro, più volte emendata nei mesi scorsi da me e dal gruppo di lavoro, ha incontrato un largo sostegno, ma non l’unanimità.

34 Su questa fase delle trattative si veda M.Bell, European Union Strategies to

Combat Racism and Xenophobia as a Crime, in European Strategies to Combat Racism and Xenophobia as a Crime (a cura di R. Nickel, A. Coomber, M. Bell, T. Hutchinson, K. Zahi), Brussels, 2003, 31 – 38.

35 Justice and Home Affairs, Press Release 2.6.2005: No agreement on the framework decision on combating racism and xenophobia at the Justice and Home Affairs Council (www.eu2005.lu/en/actualites/communiques/2005/06/02jai-rx/index.html).

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Come egli riconobbe, l’ostacolo principale era stato costituito dai diversi punti di vista in materia di libertà di espressione:

In alcuni Stati la libertà di espressione non conosce quasi nessuna limitazione … mentre per altri ne ha. … È un dibattito che può durare per secoli.

La stampa diede di questo dibattito resoconti meno diplomatici,

che rivelavano particolari interessanti36. Uno dei maggiori oppositori era stato Roberto Castelli, Ministro della giustizia italiano nel governo di centro destra guidato da Silvio Berlusconi, il quale aveva affermato che l’Italia avrebbe rivisto le sue leggi sulla libertà di espressione, in seguito al processo intentato contro la scrittrice e giornalista Oriana Fallaci per offese all’Islam, e che pertanto non avrebbe potuto appro-vare la Decisione quadro prima della decisione in materia da parte del Parlamento italiano. Ma l’Italia non era sola a porre ostacoli. Già in precedenza c’erano stati contrasti fra la Francia e alcuni Stati scandi-navi, che si erano rifiutati di darle assistenza giudiziaria in alcuni pro-cessi contro negazionisti dell’Olocausto, ed anche il Regno Unito ave-va espresso riserve.

L’iter della Decisione quadro si bloccò così per un certo tempo, finché nel gennaio 2007, con l’inizio del turno tedesco di presidenza dell’Unione europea, il ministro tedesco della giustizia, Brigitte Zypries37, non annunciò di volerlo riprendere per estendere a tutti gli Stati membri la penalizzazione della negazione dei genocidi, e in parti-colare dell’Olocausto. Queste dichiarazioni scatenarono un’ondata di reazioni negative, che peraltro si concentrarono solo sul problema del-la negazione dell’Olocausto, dimenticando gli altri aspetti della Deci-sione quadro. Il politologo britannico Timothy Garton Ash scrisse sul quotidiano The Guardian del 18 gennaio38, che la proposta della Zypries era “molto insensata” perché rappresentava una limitazione della libertà di espressione, “già minacciata da più parti”, mentre lo storico tedesco Eberhard Jäckel, in un’intervista rilasciata il 1 febbraio

36 F. Papitto, Razzismo, la UE non decide, in la Repubblica, 24 febbraio 2005; Di-

rettiva UE sul razzismo. Castelli: la blocco per la Fallaci, in la Repubblica, 3 giugno 2005; G. Galeazzi, Il rinvio a giudizio per vilipendio dell’islam della giornalista. Castelli: dopo il “caso Fallaci” stop alla direttiva sul razzismo, in La Stampa, 3 giugno 2005; I. Caizzi, UE e razzismo, stop italiano legato al caso della Fallaci, in Corriere della Sera, 3 giugno 2005.

37 I. Traynor, Germany bids to outlaw denial of Holocaust across continent, in The Guardian, 16 gennaio 2007.

38 T. Garton Ash, A blanket ban on Holocaust denial would be a serious mistake, in The Guardian, 18 gennaio 2007. L’articolo è stato ripubblicato dal quotidiano la Re-pubblica il 23 gennaio con il titolo La libertà primo bene.

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a Deutschlandradio 39 , affermò che la negazione dell’Olocausto è “un’idiozia”, che va combattuta piuttosto con l’informazione, che con le leggi, e che deve essere punita solo se diventa incitamento all’odio.

In particolare in Italia si ebbe un vasto dibattito pubblico, perché il Ministro della Giustizia Clemente Mastella volle subito dare seguito alla proposta del suo omologo tedesco, annunziando che intendeva presentare al Consiglio dei Ministri del successivo 27 gennaio – in coincidenza con la “Giornata della Memoria” – un disegno di legge per introdurre in Italia la punizione della negazione dell’Olocausto40. L’iniziativa di Mastella provocò un’immediata reazione fra gli storici italiani: più di 200 firmarono un appello, lanciato da Marcello Flores, Simon Levis Sullam ed Enzo Traverso41, nel quale si affermava fra l’altro che una legge del genere sarebbe stata pericolosa, inutile e con-troproducente, per più di un motivo: perché avrebbe offerto ai nega-zionisti “la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione”; perché quando uno Stato stabilisce una verità storica, questa verità ri-schia di essere delegittimata e viene minata “la fiducia nel libero con-fronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale”; e perché già esistono in Italia leggi sufficienti a punire l’incitazione alla violenza e all’odio razziale e l’apologia di “reati ripugnanti e offensivi per l’umanità”. L’appello si concludeva con l’affermazione che spetta non allo Stato ma alla società civile combattere il negazionismo “attra-verso una costante battaglia culturale, etica e politica”.

Di fronte a questa levata di scudi, il ministro Mastella modificò so-stanzialmente il disegno di legge, eliminando ogni riferimento al nega-zionismo e limitandosi a inasprire, sulla scia della legislazione prece-dente, le pene contro chi propaganda idee sulla “superiorità razziale” e commette o incita a commettere atti discriminatori42. Peraltro questo disegno di legge non venne mai neppure calendarizzato.

Le proteste degli storici varcarono i confini dell’Unione europea. In particolare l’Assemblea generale del Comité International des Sciences Historiques /International Committee of Historical Sciences, riunita a Pechino il 17 settembre 2007, approvò una mozione nella quale esprimeva forte preoccupazione di fronte a questa intrusione della legge nel campo della ricerca storica, e decideva di dedicare ai

39 Historiker Jäckel: Holocaust-Leugner mit Ignoranz strafen, interview on Deutsch-

landradio, 1 gennaio 2007 (www.dradio.de/dkultur/sendungen/kulturinterview/-588968).

40 A. Tarquini, Mastella: negare la Shoah sarà reato, in l’Unità, 20 gennaio 2007. 41 Noi storici contro la legge che punisce chi nega la Shoah, in l’Unità, 23 gennaio

2007. 42 A. Custodero, Mastella presenta la sua legge: 12 anni per apologia della Shoah, in

la Repubblica, 25 gennaio 2007.

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rapporti fra politica e storici un’apposita sessione del suo prossimo congresso, che si sarebbe tenuto ad Amsterdam nel 201043. Pochi giorni prima anche l’American Historical Association aveva emesso un comunicato a proposito di questa Decisione quadro, nel quale afferma-va che la ricerca scientifica può essere giudicata soltanto dai colleghi di chi la compie e che, nel caso di uno storico che distorca le prove, le misu-re che possono essere prese nei suoi confronti dovrebbero essere solo l’esclusione da incarichi accademici e, nei casi estremi, dalle pubblicazio-ni. “Se qualsiasi altra organizzazione – continuava il comunicato –, e in particolare un’organizzazione che ha la capacità di avviare procedimenti penali e di imporre delle pene, cerca di influenzare il percorso della ricer-ca storica, il risultato sarà inevitabilmente l’intimidazione degli studiosi e la distorsione dei risultati delle loro ricerche”44.

Nonostante queste reazioni, l’iniziativa del ministro Zypries prose-guì il suo cammino: il 15 gennaio venne approntata una nuova bozza della Decisione quadro45, a cui ne seguì un’altra, approvata dal Consi-glio dell’Unione Europea nella seduta del 19-20 aprile 200746, e infine il testo definitivo, approvato il 28 novembre 200847. L’articolo 1 § 1 così definiva le condotte criminose da punire:

a) l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio, nei confronti di un

gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica;

b) la perpetrazione di uno degli atti di cui alla lettera a) mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

43 Disponibile nel sito www.cish.org. 44 AHA Statement on the Framework Decision of the Council of the European

Union on the Fight against Racism and Xenophobia, in Perspectives, 45/8 (2007). 45 Council of the European Union, Proposal for a Council Framework Decision on

combating racism and xenophobia, Brussels, 15 gennaio 2007, 5118/07. 46 Council of the European Union, Proposal for a Council Framework Decision on

combating racism and xenophobia, Brussels, 17 aprile 2007, 8544/07. 47 Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio del 28 novembre 2008 sulla lotta

contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 6. Dicembre 2008, L 328/55–L 328/58. Per un’analisi approfondita di questa Decisione quadro si vedano: L. Pech, The Law of Ho-locaust Denial in Europe. Toward a (qualified) EU-wide Criminal Prohibition”, in L. Hennebel, T. Hochmann, (a cura di), Genocide Denials and the Law, Oxford –New York, 2011, 185–234; P. Lobba, La lotta al razzismo nel diritto penale europeo dopo Lisbona: Osservazioni sulla decisione quadro 2008/913/GAI e sul reato di negazioni-smo”, in [email protected], 3 (2011), 109-158; e, con particolare attenzione al confronto con la legislazione belga, B. Renauld, La decision-cadre 2008/913/JAI du Conseil de l’Union europeenne: du nouveau en matiere de lutte contre le racism?, in Revue trime-strielle des droits de l’homme, 21/81 (2010), 119–140.

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c) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro;

d) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale allegato all’accordo di Londra del 1945, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro48.

L’istigazione alla violenza e all’odio erano questa volta equamente

distribuite. Inoltre il successivo § 1 a dava agli Stati membri la facoltà di aggiungere un’ulteriore specifica condizione qualificante, cioè che le condotte criminose fossero tali da poter disturbare l’ordine pubblico o fossero minacciose, offensive o ingiuriose. La pena raccomandata era la reclusione per una durata massima compresa almeno fra uno e tre anni (articolo 3 § 2).

L’articolo 1 § 2 dava inoltre agli Stati la possibilità di attivare l’azione penale solo nel caso che queste condotte criminose facessero riferimento a crimini giudicati con sentenza definitiva da un proprio tribunale nazionale e/o da un tribunale internazionale, o solo da un tribunale internazionale. A ulteriore garanzia delle prerogative degli Stati che avevano sollevato riserve sulla Decisione quadro c’era poi l’articolo 7 (Norme costituzionali e principi fondamentali):

1. L’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi

giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea, tra cui la libertà di espressione e di associazione, non è modificato per effetto della presente decisione quadro.

2. La presente decisione quadro non ha l’effetto di imporre agli Stati membri di prendere misure che siano in contrasto con i principi fondamentali riguardanti la libertà di associazione e la libertà di espressione, in particolare la libertà di stampa e la libertà di espressione in altri mezzi di comunicazione, quali risultano dalle tradizioni costituzionali o dalle norme che disciplinano i diritti e le responsabilità della stampa o di altri mezzi di comunicazione,

48 Ivi, 23.

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nonché le relative garanzie procedurali, quando tali norme riguardano la determinazione o la limitazione della responsabilità.

L’ampiezza delle facoltà concesse agli Stati, che fa tornare alla

mente la deroga presente nell’Additional Protocol to the Convention on cybercrime, testimonia ancora una volta delle forti opposizioni a questa Dichiarazione quadro, del resto richiamate anche nella premessa, al “considerando” 6, dove si legge che “le tradizioni culturali giuridiche degli Stati membri sono in parte diverse, in particolare in questo cam-po, [e quindi] non è attualmente possibile una piena armonizzazione delle norme penali”. La Commissione europea, che insisteva su questa armonizzazione, si era opposta alla clausola del § 2, ma, come si ap-prende dall’introduzione della bozza del 19-20 aprile49, alcuni Stati avevano invece considerato questa clausola come “vitale”, e alla fine si era giunti a questo compromesso, che peraltro non fu risolutivo. Infat-ti al testo finale della Decisione quadro vennero allegate due dichiara-zioni proprio su questo punto. La Germania, dopo aver rilevato che gli ordinamenti giuridici degli Stati membri hanno approcci e concetti di-versi nel definire la soglia di significatività oltre la quale sono punibili le condotte criminose elencate dall’articolo 1 della Decisione quadro, ribadì la necessità di salvaguardare l’autonomia degli Stati membri:

La decisione quadro … va intesa nel senso che permette agli Stati membri di mantenere le loro tradizioni e i loro approcci nazionali al riguardo. Il riferimento, al considerando 6, al fatto che le tradizioni culturali e giuridiche degli Stati membri sono in parte diverse, e che, in particolare in questo campo, non è attualmente possibile una piena armonizzazione delle norme penali corrobora questa interpretazione50.

Ma anche la Commissione mantenne il proprio punto:

La Commissione si congratula con il Consiglio per tutti gli sforzi compiuti al fine di giungere ad un accordo su un argomento tanto importante. Era giunto il momento che l’Unione europea adottasse una posizione ferma contro i fenomeni di razzismo e xenofobia.

Tuttavia, secondo la Commissione, l’articolo 7, paragrafo 2, potrebbe essere interpretato nel senso di un’autorizzazione a far prevalere il diritto

49 Council of the European Union, Proposal for a Council Framework Decision, 17

aprile 2007, cit., 2. 50 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS)

15699/1/08 REV 1, Bruxelles, 25 novembre 2008, 5.

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nazionale sul diritto dell’Unione. La Commissione rammenta in proposito la preminenza del diritto dell’Unione51.

Anche altri Stati membri allegarono loro dichiarazioni. I Paesi Bas-

si affermarono il punto di vista secondo cui una generale legislazione antirazzista, come la loro, copriva già le disposizioni della Decisione quadro, e ciò andava implicitamente a corroborare la posizione tede-sca:

I Paesi Bassi sottolineano di ottemperare già all’obbligo di punibilità sancito agli articoli 1 e 2 della decisione quadro. Gli articoli 137c, 137d e 137e del codice penale olandese prevedono una punibilità generale dell’istigazione all’odio o alla violenza e dell’ingiuria o discriminazione a motivo, tra l’altro, della razza o della religione. Il termine “razza” abbraccia anche caratteristiche come il colore della pelle, l’origine e l’ascendenza nazionale o etnica. Rientrano nel campo d’applicazione di tali articoli anche l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini internazionali, di cui all’articolo 1, lettere c) e d), per quanto tali comportamenti istighino all’odio o alla violenza o costituiscano un’ingiuria o una discriminazione a motivo della razza o della religione52.

La Francia manifestò l’intenzione di limitarne la portata della Deci-

sione quadro riconoscendo solo la giurisdizione dei tribunali interna-zionali:

La Francia dichiara, in conformità all’articolo 1, paragrafo 4, che renderà punibili la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di cui al paragrafo 1, lettere c) e/o d) soltanto qualora tali crimini siano stati accertati da una decisione passata in giudicato di un tribunale internazionale53.

Questa dichiarazione era conforme alle raccomandazioni di una

commissione d’inchiesta parlamentare sulle politiche della storia e del-la memoria, presieduta dal presidente dell’Assemblée nationale Ber-nard Accoyer, che nei mesi precedenti aveva ascoltato un gran numero di storici, filosofi e giuristi e aveva concluso prendendo le distanze dal-la deriva delle lois mémorielles. In particolare aveva fatto un’ampia analisi della Decisione quadro mettendone in luce i pericoli per la liber-tà del lavoro degli storici e più in generale per la libertà di espressione,

51 Ivi, 4. 52 Ivi, 6. 53 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS)

16351/1/08 REV 1, Bruxelles, 26 novembre 2008, 7.

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dal momento che prevedeva un campo di applicazione molto più am-pio della loi Gayssot, e pertanto aveva invitato il governo a limitarne la portata con la dichiarazione che si è vista. In tal modo si sarebbe ga-rantito che i genocidi, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità su cui non ci si poteva esprimere liberamente fossero quelli su cui c’era il più ampio consenso giuridico internazionale54. Argomentazione in-vero molto traballante, perché il problema sta nel fatto se si possa san-cire per via giudiziaria un’interpretazione della storia, e il fatto che un tribunale sia di basso o alto livello non ha rilevanza sul piano logico.

Altre dichiarazioni corrispondevano alla strategia di alcuni Stati già al di là della cortina di ferro di equiparare nazismo e comunismo. La Lettonia lamentò che il campo d’azione della Decisione quadro fosse “esclusivamente limitato ai crimini commessi dal regime nazista”, e ri-badì la necessità di mettere i crimini comunisti sullo stesso piano di quelli nazisti55. La Polonia sostenne questa posizione lettone56, ma ag-giunse anche un punto tutto suo, particolarmente sensibile, relativo alla storia della Seconda guerra mondiale:

La Polonia desidera sottolineare che la grave distorsione dei fatti consistente nel non addossare agli effettivi colpevoli la responsabilità per i crimini di matrice razzista e xenofoba contemplati dalla decisione quadro merita la condanna e un’adeguata reazione degli Stati membri. Tra gli esempi di questo tipo di atti si annovera l’utilizzo dei termini manifestamente falsi “campi di concentramento polacchi”57.

In effetti l’uso dell’espressione “campi di concentramento polac-

chi”, che di tanto in tanto appare nei mass media stranieri in riferimen-to ad Auschwitz, Treblinka e altri Lager, suscita da anni viva irritazio-ne da parte del governo polacco (nonché nell’opinione pubblica), il quale interviene puntigliosamente attraverso gli uffici diplomatici per ottenere una rettifica58. Certamente si tratta di un’espressione errata e

54 Assemblée Nationale, Rapport d’information fait en application de l’article 145

du règlement au nom de la mission d’information sur les questions mémorielles, Prési-dent-Rapporteur M. Bertrand Accoyer (enregistré à la Présidence de l’Assemblée natio-nale le 18 novembre 2008), 101-105.

55 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS) 16351/1/08 REV 1, Bruxelles, 26 novembre 2008, 5-7.

56 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS), 15699/1/08 REV 1, Bruxelles, 25 novembre 2008, 4.

57 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS) 16351/1/08 REV 1, Bruxelles, 26 novembre 2008, 8.

58 Si veda fra i tanti il caso dell’articolo di M. Hollstein, Asafs Reise um die Welt, in Die Welt, 24 novembre 2008, e il commento di T. Urban, Populisten lassen googeln, in Süddeutsche Zeitung, 27 novembre 2008. Nel sito web del Ministero degli esteri po-

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fuorviante, perché facendo riferimento solo al luogo dove si trovavano questi campi fa scomparire la nazionalità dei Tedeschi che li hanno co-struiti e gestiti, e in tal modo – si sostiene in Polonia – può provocare nella mente del lettore uno spostamento della responsabilità dai Tede-schi ai Polacchi. Ma con questa dichiarazione il governo polacco si spingeva ben oltre l’opportuna operazione di correzione di un errore, e prefigurava la creazione di un ulteriore reato, quello di “grave distor-sione” della storia, ancor più indefinito della minimizzazione grossola-na.

Durante la discussione della Decisione quadro il problema del rico-noscimento dei crimini comunisti era stato sollevato più volte, in parti-colare nel corso di un public hearing organizzato l’8 aprile 2008 a Bru-xelles dalla presidenza slovena dell’Unione europea. Molti intervenuti denunciarono che la Decisione quadro aveva un doppio standard nei confronti dei crimini nazisti e comunisti, un atteggiamento diffuso del resto in Europa occidentale per ragioni politiche e culturali, e dichia-rarono che gli Stati un tempo al di là della cortina di ferro sentivano che le sofferenze provate per colpa dell’Unione sovietica e dei propri dei regimi comunisti non erano riconosciuti a livello europeo59. Una delle richieste emerse dal convegno con lo scopo di modificare questa situazione fu l’istituzione del 23 agosto, anniversario della firma del patto Molotov-Ribbentrop, quale giorno della commemorazione delle vittime dei regimi totalitari60. Una richiesta che venne accolta pochi mesi dopo, il 23 settembre 2008, quando il Parlamento europeo di-chiarò il 23 agosto “Giornata europea di commemorazione delle vitti-me dello stalinismo e del nazismo” 61.

Il testo finale della Decisione quadro invece non menzionò i crimini comunisti, ma il Consiglio vi allegò una dichiarazione in cui riconosce-va che la Decisione quadro, limitandosi ai crimini commessi sulla base di razza, colore della pelle, religione, ascendenza e origine nazionale o etnica, non contemplava i reati commessi su altre basi, ad esempio da regimi totalitari. Il Consiglio esprimeva comunque la sua condanna

lacco (www.msz.gov.pl ) c’è un’apposita rubrica bilingue Przeciw “polskim obozom”, Against “Polish Camps”, che informa su tutti gli interventi diplomatici in proposito.

59 S. Kalniete, Divergences within European politics with regard to communist totalitarianism, in P. Jambrek (a cura di), Crimes Committed by Totalitarian Regimes, Ljubljana, Slovenian Presidency of the Council of the European Union, 2008, 245–250; G. Valdis Kristovskis, The need for a reappraisal of the European history, ivi, 223–225.

60 T. Kelam, Suggestions on assessment of Totalitarian Communism, in P. Jambrek (a cura di), Crimes Committed, cit., 21- 23.

61 Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazi-smo, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, C 8/E, 57 ss.

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anche verso questi ultimi crimini, e invitava la Commissione a valutare l’inserimento in un futuro testo dei crimini commessi in base allo sta-tus sociale o le convinzioni politiche delle vittime62.

4. Guerre della memoria: le lois mémorielles in Francia Prima di passare ad illustrare il processo di adozione di questa De-

cisione quadro da parte degli Stati membri, mi soffermerò sulle guerre della memoria, che hanno avuto un particolare sviluppo in Francia, dando luogo al sistema delle lois mémorielles.

La prima di queste leggi è nata da una lunga campagna delle asso-ciazioni franco-armene per il riconoscimento della qualifica di genoci-dio ai massacri di cui furono vittime gli Armeni nell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale. Un momento molto significativo di questa campagna fu il caso Bernard Lewis, storico britannico, fra i massimi esperti di storia dell’Islam e dell’Impero Ottomano, che rila-sciò nel novembre 1993 un’intervista al quotidiano Le Monde63, in cui ribadiva un punto di vista già espresso altre volte, secondo cui la defi-nizione di genocidio (la “versione armena”, come egli la definì in quell’occasione) era inappropriata, perché sulla base dei documenti disponibili l’intenzione del governo ottomano non era stato lo stermi-nio degli Armeni, ma la loro deportazione dalle zone di confine per impedire che collaborassero con i russi. Due associazioni, il Forum des associations arméniennes de France e la Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme, denunciarono Lewis, che fu condannato dal Tribunal de grande instance di Parigi nel giugno 1995, sulla base dell’articolo 1382 del codice civile, che riguarda il risarcimento dei danni, alla pena pecuniaria di 1 franco di dommages-intérêts a entram-be le associazioni, oltre a 10.000 franchi al Forum e 4.000 alla Ligue e infine alle spese processuali. Molto inquietanti sono le motivazioni del-la sentenza. Il Tribunale infatti, pur dichiarando che non rientrava nel-le sue competenze il decidere se si era trattato o no di genocidio, e pur riconoscendo che “uno storico ha, in via principio, tutta la libertà di esporre secondo il proprio punto di vista fatti, azioni e atteggiamenti”, affermò tuttavia che Lewis aveva commesso una“colpa” affermando in quell’intervista che la definizione di genocidio rappresentava la “ver-sione armena” della vicenda, perché in tal modo “aveva ingiustamente

62 Consiglio dell’Unione europea, Fascicolo interistituzionale: 2001/0270(CNS)

15699/1/08 REV 1, Bruxelles, 25 novembre 2008, 3. 63 J.P. Langellier e J.P. Peroncel-Hugoz, Un entretien avec Bernard Lewis, in Le

Monde, 16 novembre 1993.

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ravvivato il dolore” della comunità armena. Per non cadere in colpa, secondo il Tribunale, Lewis avrebbe dovuto esporre anche le argo-mentazioni contrarie alle sue, e in particolare avrebbe dovuto citare le dichiarazioni delle istituzioni internazionali che avevano riconosciuto il genocidio armeno, fra cui il Parlamento europeo nel 1984, il che avrebbe mostrato che la tesi del genocidio non è soltanto sostenuta dagli Armeni64. Il giudice si arrogava così il diritto di dettare allo stori-co in quale modo deve esporre i risultati della sua ricerca.

Successivamente le associazioni franco-armene ottennero una leg-ge, adottata il 29 gennaio 2001, il cui unico articolo recitava: “La Fran-cia riconosce pubblicamente il genocidio armeno del 1915”65: una formulazione che legava quindi indissolubilmente la realtà dell’evento alla sua definizione giuridica. Si trattava di una legge declaratoria, che non comminava nessuna pena per la negazione di questo evento stori-co, il che rappresentava una fondamentale differenza rispetto alla loi Gayssot. Questa differenza venne percepita dalle associazioni franco-armene e da molti politici come un’incongruenza da risolvere, per cui ben presto venne avviato un nuovo iter legislativo, iter molto contro-verso e accidentato, su cui tornerò più avanti, per seguire adesso lo svi-luppo cronologico delle altre lois mémorielles.

Sempre nel 2001 associazioni di cittadini francesi di origine africa-na ottennero l’adozione, il 21 maggio, della loi Taubira, dal nome della deputata guyanese del Parti socialiste Christiane Taubira, che la pre-sentò. Questa legge definiva come crimini contro l’umanità sia la tratta degli schiavi nell’Oceano Atlantico e nell’Oceano Indiano sia la schia-vitù, praticate a partire dal XV secolo “in America, nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e in Europa contro le popolazioni africane, ame-rindiane, malgasce e indiane”66. La legge prescriveva altresì che alla tratta degli schiavi africani venisse riservato “lo spazio che meritano” nei programmi scolastici e di ricerca67. Anche questa era una legge de-claratoria, che non prevedeva la punizione del negazionismo, ma che comunque interferiva, anche se con una formulazione piuttosto vaga, nell’insegnamento e sulla ricerca, e in questo rappresentava un passo ulteriore rispetto alle legge precedente.

Queste due leggi non destarono l’attenzione di storici e insegnanti. Ben diversamente andarono le cose con la successiva loi Mekachera, adottata il 23 febbraio 2005, e promossa dalle associazioni di rapatriés

64 TGI Paris, 21 giugno 1995 (RP 1 860, RG 4 767/94, ASS/14.02.94). 65 Loi n. 2001-70 du 29 janvier 2001 relative à la reconnaissance du génocide armé-

nien de 1915. 66 Loi n. 2001-434 du 21 mai 2001 tendant à la reconnaissance, par la France, de la

traite et de l’esclavage en tant que crime contre l’humanité, art. 1. 67 Ivi, art. 2.

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(cittadini francesi rimpatriati dopo la fine della guerra d’Algeria, fra cui c’era anche il presentatore della legge, Hamlaoui Mekachera, allora ministro degli ex-combattenti nel governo di centro-destra di Jean-Pierre Raffarin). Il testo dichiarava che

La Nazione esprime la sua gratitudine agli uomini e alle donne che parteciparono alle attività compiute dalla Francia negli ex dipartimenti francesi d’Algeria, in Marocco, in Tunisia e in Indocina, come pure nei territori un tempo sotto sovranità francese68.

Analogamente alla loi Taubira, anche questa legge stabiliva che la

“storia della presenza francese oltremare, e in particolare in Africa del Nord” doveva avere “il posto che merita” nei programmi di ricerca universitari; ma per quanto riguarda l’insegnamento scolastico si spin-geva ben oltre, stabilendo che doveva riconoscere il “ruolo positivo” avuto dalla Francia in quel contesto69. Quest’ultima clausola, che im-poneva una precisa valutazione di un evento storico, scatenò un’ondata di forti reazioni da parte di storici e insegnanti70. Di partico-lare rilievo fu l’appello Colonisation: non à l’enseignement d’une histoi-re officielle, lanciato il 25 marzo dagli storici Claude Liauzu, Gilbert Meynier, Gérard Noiriel, Frédéric Régent, Trinh Van Thao e Lucette Valensi71, che chiedevano l’abrogazione di una legge che “impone una storia ufficiale, contraria alla neutralità della scuola e al rispetto della libertà di pensiero, che sono al cuore della laicità”.

Questo appello superò ben presto le mille firme, e fu seguito, il 17 giugno, dalla fondazione del Comité de Vigilance face aux Usages pu-blics de l’Histoire (CVUH), animato da Gérard Noiriel, Michèle Riot-Sarcey e Nicolas Offenstadt, che chiamava storici e insegnanti a un’azione collettiva di resistenza alla loi Mekachera e, più in generale, alla vigilanza sull’uso della storia e della memoria nella società.

Di lì a poco quest’ondata di proteste fece un salto di qualità e inve-stì tutte le lois mémorielles, giacché un caso simile a quello di Bernard Lewis mostrò con chiarezza quale pericolo questo insieme di leggi rappresentava per gli storici. Nel settembre un’associazione di francesi

68 Loi n. 2005-158 du 23 février 2005 portant reconnaissance de la Nation et contri-

bution nationale en faveur des Français rapatriés, art. 1. 69 Ibid., art. 4. 70 Per una documentazione delle prese di posizione si veda G. Manceron – F. Na-

diras, Les réactions à cette loi et la défense de l’autonomie de l’enseignement et de la recherche, in C. Liauzu – G. Manceron (a cura di), La colonisation, la loi et l’histoire, Paris, 2006, 59-88.

71 Colonisation: non à l’enseignement d’une histoire officielle, in Le Monde, 25 marzo 2005.

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di origine africana, il Collectif des Antillais, Guyanais, Réunionnais et Mahorais, denunciò lo storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau, au-tore di un importante libro sulla tratta degli schiavi africani72, accu-sandolo di “negazione di crimine contro l’umanità”. Questa accusa si basava, in maniera alquanto contorta, su un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche73, in cui Pétré-Grenouilleau aveva sostenuto che la tratta degli schiavi non poteva essere considerate un caso di genoci-dio, giacché i negrieri avevano interesse a trarre profitto dagli schiavi, e non a sterminarli, e aveva criticato la loi Taubira perché, definendo la tratta degli schiavi come un crimine contro l’umanità, aveva suggerito un inappropriato paragone con l’Olocausto. A fine novembre, il Tri-bunal de grande instance di Parigi aprì il procedimento74. Patrick Ka-ram, president del Collectif, si spinse oltre la denuncia, affermando che avrebbe chiesto alle autorità competenti di sospendere Pétré-Gre-nouilleau dall’insegnamento universitario.

La reazione del mondo accademico fu immediata e molto forte. In particolare, diciannove storici firmarono un appello intitolato Liberté pour l’histoire!75, con cui chiedevano l’abolizione di tutte le lois memo-rielles, a partire dalla loi Gayssot, perché “in uno Stato libero, non è compito del Parlamento né dell’autorità giudiziaria definire la verità storica”76. Ma al di là di questo oggetto immediato, l’appello conteneva un vero e proprio manifesto sul rapporto fra storici, società civile e po-tere politico:

La storia non è una religione. Lo storico non accetta nessun dogma, non rispetta nessun divieto, non conosce tabù. … La storia non è la morale. Il ruolo dello storico non è quello di esaltare o di condannare, ma di spiegare. Lo storico non è schiavo dell’attualità. … La storia non è la memoria. … La storia non è un oggetto giuridico.

72 O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Paris, 2004

(trad. it. La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Bologna, 2010). 73 C. Sauvage, Un prix pour Les traites négrières, in Journal du Dimanche, 12 giu-

gno 2005. 74 D. Arnaud – H. Nathan, Olivier Pétré-Grenouilleau poursuivi par le collectif des

Antillais Guyanais-Réunionnais, in Libération, 30 novembre 2005. 75 Liberté pour l’histoire!, in Libération, 13 dicembre 2005. I firmatari furono

Jean-Pierre Azéma, Elisabeth Badinter, Jean-Jacques Becker, Françoise Chanderna-gor, Alain Decaux, Marc Ferro, Jacques Julliard, Jean Leclant, Pierre Milza, Pierre Nora, Mona Ozouf, Jean-Claude Perrot, Antoine Prost, René Rémond, Maurice Vaïsse, Jean-Pierre Vernant, Paul Veyne, Pierre Vidal-Naquet e Michel Winock.

76 Dopo neppure un mese, il 10 gennaio 2006 questo appello contava già 444 fir-matari, fra cui Elie Barnavi, Saul Friedländer, Jacques Le Goff et Emmanuel Leroy-Ladurie.

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Maturava così una riflessione che era iniziata con le critiche di Vi-dal Naquet e della Rebérioux alla loi Gayssot, e che non era poi stata sviluppata. Ma mettere in discussione le prime tre lois mémorielles toccava interessi assai più vasti della loi Mekachera (che oltre tutto era connotata ideologicamente a destra), e investiva più in generale il rap-porto fra lo storico e la società, su cui ci sono opinioni assai diverse. E infatti questo appello produsse una profonda spaccatura fra gli storici, e non solo. Il CVUH pubblicò una dichiarazione in cui, pur insistendo nel chiedere la soppressione del paragrafo controverso della loi Me-kachera, difendeva tutte le altre lois mémorielles accusando i promotori dell’appello Liberté pour l’histoire! di avere un corporativo atteggia-mento di chiusura, insensibile alle domande della società:

La petizione firmata da 19 personalità appartenenti al mondo degli storici e del giornalismo non può soddisfarci. Se da un lato essa richiama le regole fondamentali della nostra disciplina, dall’altro semina la confusione fra memoria collettiva, scrittura della storia e insegnamento. La riflessione critica sul passato non appartiene solo agli storici, ma riguarda tutti coloro che sono consapevoli dello stato di crisi in cui ci troviamo e vogliono collocarsi consapevolmente nel mondo contemporaneo77.

Più aspri i toni e più dettagliata l’argomentazione di un altro ap-

pello, firmato da personalità impegnate nella lotta al negazionismo dell’Olocausto e del genocidio armeno, come Serge Klarsfeld, Claude Lanzmann, Raymond Kévorkian e Laurent Leylekian:

Ci sembra pernicioso fare l’amalgama fra un articolo di legge eminentemente discutibile e tre altre leggi di natura radicalmente differente. La prima trasforma una posizione politica in un contenuto legale dell’insegnamento scolastico. Le altre riconoscono dei fatti attestati come genocidi o crimini contro l’umanità per lottare contro la loro negazione e per preservare la dignità delle vittime offese da questa negazione. Queste tre leggi non limitano in alcuno modo la libertà di ricerca e di espressione. Quale storico è mai stato ostacolato dalla loi Gayssot nel suo lavoro sulla Shoah? La legge del 29 gennaio 2001 è solo dichiarativa e non dice la storia. Prende solo atto di un fatto accertato dagli storici – il genocidio degli Armeni – e si oppone pubblicamente a un negazionismo di stato potente, perverso e sofisticato. Quanto alla loi Taubira, essa si limita semplicemente a riconoscere che la schiavitù e la tratta degli schiavi costituiscono crimini contro l’umanità … Queste leggi non sanzionano opinioni ma riconoscono e definiscono dei crimini che minacciano l’ordine pubblico, allo stesso titolo del razzismo, della

77 Vigilance sur les usages publics de l’histoire!, in l’Humanité, 21 dicembre 2005.

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diffamazione o la diffusione di informazioni false. Lo storico dovrebbe essere l’unico cittadino al di sopra della legge? Dovrebbe godere di un titolo che l’autorizza a trasgredire disinvoltamente le regole comuni della nostra società?78

In questo testo particolarmente polemico risalta ancora una volta

la confusione fra negazione della realtà di un evento storico e a nega-zione di una sua interpretazione, sui cui spesso scivola, o si fa consa-pevolmente scivolare, l’argomentazione.

La mobilitazione contro la loi Mekachera era intanto vittoriosa: in-fatti, il secondo comma dell’articolo 4, sull’insegnamento di una visio-ne positiva del colonialismo francese, venne soppresso nel gennaio 2006, dopo che il Conseil Constitutionnel, su istanza del primo mini-stro Dominique de Villepin, sollecitato a sua volta dallo stesso presi-dente della repubblica Jacques Chirac, preoccupato dalle polemiche79, ebbe sentenziato che una legge francese non poteva contenere prescri-zioni relative a programmi scolastici 80 . Anche il caso Pétré-Gré-nouilleau, legato alla loi Taubira, si risolveva positivamente, perché a febbraio il Collectif, di fronte all’ondata di proteste, ritirò la denuncia contro di lui81.

Ma subito dopo il dispositivo delle lois mémorielles veniva raffor-zato dal riaprirsi del caso armeno. Nell’aprile 2006 il deputato del Par-ti socialiste Didier Migaud presentò una proposta di legge nella quale si prevedevano per la negazione del genocidio armeno le stesse pene previste dalla loi Gayssot. La proposta di legge venne approvata dall’Assemblée nationale il 12 ottobre 200682, e venne trasmessa al Sé-nat. Di nuovo si levarono proteste nel mondo degli storici, portate avanti soprattutto dall’associazione Liberté pour l’histoire, nata dalla petizione omonima, che nell’autunno 2008, in occasione di una grande kermesse di storia, i Rendez-vous de l’histoire di Blois, lanciò l’Appel de Blois, che invitava all’impegno e alla mobilitazione contro queste deri-ve legislative anche gli storici stranieri, che infatti lo firmarono in gran numero83. Nel frattempo agli storici si era unito un folto gruppo di

78 “Ne mélangeons pas tout”, in 20 Minutes, 20 dicembre 2012. 79 B. Gurrey, J. B. de Montvalon, Colonisation: Chirac évite un débat au Parle-

ment, in Le Monde, 27 gennaio 2006. 80 Cons. Const, Décision n° 2006-203, Loi du 31 janvier 2006. 81 L’historien échappe au procès grâce à Elkabbach, in Libération, 4 febbraio 2006. 82 Assemblée Nationale, 12 octobre 2006: Proposition de loi tendant à réprimer la

contestation de l’existence du génocide arménien. 83 Su queste vicende si vedano, fra gli altri: M. Middell: «Ce n’est pas à l’Etat de

dire comment on enseigne l’histoire». Geschichte und Geschichtswissenschaft in Frank-reich, in Neue Politische Literatur, 2/3, 2006, 187-202; R. Rémond, Quand l’État se

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giuristi, animato dal costituzionalista Bertrand Mathieu, che nel no-vembre del 2006, reagendo alla recente approvazione della proposta di legge sul genocidio armeno, avevano firmato un manifesto in cui chie-devano l’abrogazione di tutte le quattro lois mémorielles, notando fra l’altro che esse rispondevano a una logica comunitarista, contraria ai principi costituzionali, e sottolineando come l’imprecisione sulla natu-ra dell’infrazione pregiudicasse i principi di legalità delle pene e di si-curezza giuridica84.

La politica intervenne in questo aspro dibattito con un’iniziativa che mostrava la volontà di confrontarsi seriamente con la società civile. Si trattò della commissione Accoyer, già ricordata a proposito della posizione francese sulla Decisione quadro. Nel corso delle numerose audizioni e tavole rotonde vennero esaminate molte questioni legate alle politiche della storia e della memoria, dalle commemorazioni all’insegnamento scolastico, e naturalmente particolare attenzione fu riservata alle quattro controverse lois mémorielles. In proposito la con-clusione fu che non era opportuno abolirle, per evitare incomprensio-ni, tensioni e conflitti sociali, ma che in futuro il parlamento non avrebbe dovuto approvarne altre, soprattutto quando esse prevedesse-ro sanzioni penali85.

Il compromesso raggiunto dalla commissione Accoyer incontrò la soddisfazione di molti: se le lois mémorielles non erano state abolite, operazione certo difficile, almeno le conseguenze pericolose per la ri-cerca storica erano state evitate. Ma fu un sollievo di breve durata, perché la questione venne riaperta ancora una volta dal problema ar-meno. Al Sénat, dove c’era una maggioranza di centro-destra, la legge del 2006 non venne messa all’ordine del giorno. Per superare questo stallo nel 2011 il senatore Serge Lagauche, del Parti Socialiste, ne ri-presentò una della stesso tenore, che però venne bocciata il il 4 maggio 201186. Durante il dibattito uno degli argomenti fondamentali addotti dal relatore Jean-Jacques Hyest fu che non è compito del legislatore dare definizioni giuridiche del passato legandole al codice penale87. Poco dopo però ci fu, per la prima volta, un cambio di maggioranza al

mêle de l’histoire. Paris, 2006; T. Todorov, L’Esprit des Lumières, Paris, 2006, 76-78; Aa. Vv., L’État et ses mémoires, in Regards sur l’actualité, n. 325, Paris, 2006.

84 Appel des juristes contre les lois mémorielles, riprodotto in Assemblée Nationale, Rapport d’information … Accoyer…, cit., 475 ss.

85 Assemblée Nationale, Rapport d’information … Accoyer…, cit., 98. 86 Sénat, Session extraordinaire de 2009-2010: Proposition de loi tendant à répri-

mer la contestation de l’existence du génocide arménien, Enregistré à la Présidence du Sénat le 5 juillet 2010, doc. 607.

87 Sénat, Séance du mercredi 4 mai 2011, in Journal Officiel de la République Française, 5 maggio 2011.

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Sénat, in seguito alle elezioni del 25 settembre 2011. Il Parti socialiste colse subito l’occasione per riprendere la sua tradizionale azione a fa-vore della punizione della negazione del genocidio armeno, questa vol-ta con prospettive di successo. Il suo segretario François Hollande di-chiarò infatti il 26 settembre, durante un incontro con la Fédération révolutionnaire arménienne Dachnak, che avrebbe riproposto la legge bocciata dal Sénat 88. Subito dopo il presidente in carica Nicolas Sar-kozy, in occasione di una visita di stato in Armenia, invitò la Turchia a riconoscere il genocidio armeno89. Sarkozy invero già nel 2007, al mo-mento della precedente elezione presidenziale, aveva promesso alla comunità franco-armena (valutata in circa mezzo milione di persone e concentrata soprattutto a Marsiglia, Lione, Valence e Parigi) l’adozione di questa legge, ma non aveva potuto mantenere la promes-sa per l’opposizione – come si è visto – dei senatori della sua parte po-litica. Ora le elezioni presidenziali si avvicinavano di nuovo (si sareb-bero tenute il 22 aprile e il 6 maggio 2012) e Sarkozy cercava di sot-trarre all’avversario questi voti. Fu così che in gran fretta Valérie Boyer, deputata dell’Union pour un mouvement populaire (il partito di Sarkozy) e vicepresidente del Groupe d’Amitié France-Arménie, pre-sentò all’Assemblée nationale una proposta di legge che nel titolo veni-va presentata come recepimento del diritto comunitario in materia di lotta al razzismo e insieme come strumento per reprimere in particola-re la “contestation” del genocidio armeno. Infatti l’articolo 1 modifi-cava, come già la loi Gayssot, l’articolo 24 bis della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa, inserendovi fra l’altro “l’apologia, la ne-gazione o la banalizzazione grossolana in pubblico dei crimini di geno-cidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra … che sa-ranno stati riconosciuti da una legge, da una convenzione internazio-nale firmata e ratificata dalla Francia o alla quale questa abbia aderito, da un decisione presa da una istituzione comunitaria o internazionale, o qualificati come tali da una giurisdizione francese” 90.

L’iter di questa proposta di legge fu molto rapido. La Commission des lois la discusse il 7 dicembre, e la modificò, con il dichiarato inten-to di renderla più aderente alla Decisione quadro, trasformandola nell’articolo 24 ter della legge del 19 luglio 1881, nei seguenti termini:

88 François Hollande s’engage contre le négationnisme contre le génocide arménien,

in Le Post.fr, 26 settembre 2011. 89 Génocide arménien: Sarkozy appelle la Turquie à « revisiter son histoire », in Le

Monde, 6 ottobre 2011. 90 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Treizième législature,

Proposition de loi portant transposition du droit communautaire sur la lutte contre le racisme et réprimant la contestation de l’existence du génocide arménien (n. 3842 enre-gistré à la Présidence de l’Assemblée nationale le 18 octobre 2011).

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Le pene previste all’articolo 24 bis sono applicabili a coloro che hanno negato o minimizzato in maniera estremistica ... l’esistenza di uno o più crimini di genocidio come definito dall’articolo 211-1 del codice penale e riconosciuti come tali dalla legge francese91.

Si trattava di una formulazione significativamente diversa da quella

dell’originaria proposta di legge. A parte il verbo “contester”, ripreso dalla loi Gayssot, la minimizzazione veniva accompagnata dall’ag-gettivo “outrancier”, inedito nel contesto di queste leggi, che ho tra-dotto con “estremistico”, e che certo lascia ampio spazio all’inter-pretazione. Come peraltro dichiarò più volte la relatrice Boyer nel cor-so dei vari dibattiti parlamentari, l’inserimento di questo aggettivo aveva proprio l’obiettivo di proteggere gli storici, che si esprimono con misura. Significativo anche il cambiamento relativo alle istanze abilita-te a giudicare sugli eventi storici: dal testo modificato scomparivano tutte, compresi i tribunali, e rimanevano solo i parlamenti (il che rap-presenta una grande differenza rispetto alla Decisione quadro). Dal ti-tolo della proposta di legge venne anche tolto il riferimento al genoci-dio armeno, sostituito con la più generica menzione dei “genocidi ri-conosciuti dalla legge”, il che comunque non cambiava la sostanza del-la questione, giacché fino a quel momento il solo genocidio riconosciu-to dalla legge francese era quello armeno, e comunque anche la versio-ne precedente apriva la strada al futuro riconoscimento di altri geno-cidi per via legislativa.

Il dibattito all’Assemblée nationale il 22 dicembre 2011 vide voci favorevoli e contrarie in entrambi gli schieramenti. Uno dei principali argomenti contrari fu che si trattava di una nuova loi mémorielle, al che la relatrice Boyer e il ministro per i rapporti con il parlamento Pa-trick Ollier replicarono che si trattava invece di una legge penale che coordinava la legge del 2001 sul riconoscimento del genocidio armeno con la loi Gayssot, colmando così un vuoto giuridico92.

91 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Treizième législature,

Rapport fait au nom de la Commission des lois constitutionnelles, de la législation et de l’administration générale de la République sur la proposition de loi (n° 3842) de Mme Valérie Boyer et plusieurs de ses collègues portant transposition du droit communautaire sur la lutte contre le racisme et réprimant la contestation de l’existence du génocide ar-ménien (n. 4035 enregistré à la Présidence de l’Assemblée nationale le 7 décembre 2011).

92 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Treizième législature, Session ordinaire de 2011-2012, Compte rendu intégral, Séance du jeudi 22 décembre 2011.

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La legge, come ci si poteva attendere, venne votata quello stesso giorno sia dalla maggioranza che dall’opposizione, ma con significative defezioni in entrambi gli schieramenti93. Passò poi al Sénat, mentre si levavano le proteste degli storici94 e del governo turco, che minacciava ritorsioni95, e fu approvata il 23 gennaio 2012 da una maggioranza si-mile a quella dell’Assemblée nationale, nonostante che la Commission des lois l’avesse questa volta dichiarata irricevibile in quanto incostitu-zionale. Nell’illustrare in aula il parere della Commission, il relatore Jean-Pierre Sueur rilevò in primo luogo che l’articolo 34 della Costitu-zione, che regola i rapporti fra parlamento e governo, non dava facoltà al parlamento di pronunciarsi su un evento storico. Sottolineò poi che il paragone fra la loi Gayssot e legge del 2001 non era ammissibile, in quanto la prima faceva riferimento alla sentenza di un tribunale inter-nazionale, confermata da tribunali francesi, e quindi non stabiliva una verità ufficiale, ma si limitava a rispettare una sentenza, che invece nel caso del genocidio armeno non era mai stata emessa. Inoltre, mentre la loi Gayssot era compatibile con la limitazione della libertà d’opinione e di espressione in quanto mirava a prevenire il concreto pericolo rap-presentato dal risorgere dell’antisemitismo, altrettanto non poteva dir-si della nuova legge, giacché nei confronti dei cittadini francesi di ori-gine armena non esisteva un tale pericolo. Sueur notò anche l’imprecisione dell’espressione “minimiser de façon outrancière”, la cui accezione era più ampia del concetto di negazione, in quanto pote-va riguardare dettagli, come luoghi, responsabili, modi e tempi del ge-nocidio, senza che con ciò venisse negata la realtà del genocidio. Era proprio in tal modo che si metteva seriamente in pericolo la libertà della ricerca storica. E concludeva mettendo in discussione anche l’argomento della trasposizione della Decisione quadro, sottolineando che questa prevedeva che l’apologia, la negazione e la minimizzazione grossolana potevano essere punite solo se rischiavano di incitare alla violenza o all’odio, elemento questo “assolutamente essenziale” in una

93 Assemblée nationale, Constitution du 4 octobre 1958, Treizième législature,

Session ordinaire de 2011-2012, 22 décembre 2011, Proposition de loi visant à réprimer la contestation de l’existence des génocides reconnus par la loi adoptée par l’Assemblée nationale en première lecture.

94 P. Nora, Lois mémorielles: pour en finir avec ce sport législatif purement français, in Le Monde, 28 dicembre 2011; F. Chandernagor, Lois mémorielles: un monstre légi-slatif, in Le Figaro, 29 dicembre 2011.

95 N. Nougayriède, Coup de froid entre la France et la Turquie, in Le Monde, 23 dicembre 2011; G. Perrier, Génocide arménien: Ankara sanctionne Paris, in Le Monde, 24-26 dicembre 2011.

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legge che aveva come obiettivo principale la lotta al razzismo e alla xe-nofobia, e che mancava del tutto nella nuova legge francese96.

Ollier, nel rispondergli, pur ribadendo che non si trattava di una loi mémorielle, affermò fra l’altro che essa non aveva per oggetto in particolare il genocidio armeno, ma intendeva stabilire un “generale reato di negazionismo”97, confermando così che future lois mémorielles erano ben possibili e che avrebbero previsto le stesse pene. Ollier cer-cò poi di tranquillizzare chi temeva per la libertà di ricerca storica dando la sua interpretazione dell’aggettivo “outrancier”:

“La minimizzazione estremista [outrancière] è una forma di caricatura che consiste nell’affermare, ad esempio, che il genocidio del 1915 avrebbe fatto solo 200 vittime. Per contro, la nozione di carattere estremista non impedisce di condurre una ricerca storica sulla dinamica degli eventi e sul numero delle vittime”98.

Appena adottata questa legge, due gruppi di deputati e senatori,

anch’essi trasversali a maggioranza e opposizione, presentarono, con un tempismo che ben corrispondeva all’asprezza dei dibattiti parla-mentari, altrettanti ricorsi al Conseil Constitutionnel, che il 28 febbraio 2012 dichiarò incostituzionale la legge, con l’argomento fondamentale che il legislatore aveva attentato al principio della libertà di espressio-ne e comunicazione perché aveva represso la contestazione dell’esi-stenza e della qualificazione giuridica – una distinzione finalmente chiaramente posta – di reati che esso stesso aveva riconosciuto e quali-ficato come tali99.

Questa decisione non piacque ai due concorrenti alla presidenza della repubblica: Sarkozy diede subito incarico al governo di preparare un nuovo testo di legge, e Hollande si impegnò a fare lo stesso se fosse stato eletto100, proposito che ribadì all’indomani della sua elezione101. Al momento in cui scrivo (metà ottobre 2012) nulla si è però concre-tizzato, e non mi pare semplice aggirare la decisione del Conseil consti-tutionnel.

96 Sénat, Compte rendu intégral, Séance du lundi 23 janvier 2012, in Journal Offi-

ciel de la République Française, 2012, n. 7 S. (C.R,), 24.1.2012, 335-337, 354-356. 97 Ivi, 359. 98 Ivi, 361. 99 Cons. Const., Décision n° 2012-647, DC du 28 février 2012. 100 P. Roger (e G. Perrier), La loi sur les génocides est contraire à la Constitution, in

Le Monde, 1 marzo 2012. 101 T. Wieder, La negation du genocide arménien reviendra au Parlement, in Le

Monde, 10 luglio 2012.

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5. Guerre della memoria: l’Holodomor in Ucraina

Al di là della non più esistente cortina di ferro un caso esemplare

di guerra della memoria fra lotta politica interna, politica internaziona-le e legislazione penale è la questione dell’Holodomor, la carestia del 1932-33, che è oggetto di controversia fra Russia e Ucraina e all’in-terno dell’Ucraina stessa102. Gli storici non sono unanimi nell’inter-pretarne le cause: secondo alcuni si trattò di un genocidio pianificato dal governo sovietico per stroncare la resistenza che i contadini ucraini facevano alla collettivizzazione103, mentre secondo altri essa fu il risul-tato di gravi errori commessi dal governo nella gestione di una grave crisi agricola, che finì per aggravare, senza però l’intenzione di colpire la popolazione ucraina104.

Il 28 novembre 2006 la Verhovna Rada, il parlamento ucraino, ap-provò una legge105 che dichiarava l’Holodomor un atto di genocidio contro il popolo ucraino, e che la sua negazione “sarebbe stata consi-derata un’offesa alla memoria di milioni di vittime e un’umiliazione della dignità del popolo ucraino, e pertanto sarebbe stata giudicata il-legale”. La questione era molto dibattuta in Ucraina fra i due opposti schieramenti che ne caratterizzavano la scena politica: quello filorusso e quello antirusso, il primo rappresentato dal Presidente della Repub-blica, Viktor Juščenko, che sosteneva la definizione di genocidio, e il secondo rappresentato dal primo ministro Viktor Janukovyč, che rifiu-tava questa definizione sostenendo che la carestia era stata il risultato della collettivizzazione forzata di tutte le campagne dell’Unione sovie-tica e che non aveva colpito soltanto l’Ucraina. Questa spaccatura in-terna si manifestò anche nel voto parlamentare: solo 233 deputati vota-rono la legge (la maggioranza richiesta era di 226) mentre 200 si asten-nero.

Con questo testo rimaneva in sospeso l’entità della pena. Per col-mare la lacuna, nel marzo 2007 Juščenko presentò un progetto di legge

102 Per una ricostruzione del dibattito in Ucraina si veda G. Kasianov, The great

famine of 1932 - 1933 (Holodomor) and the politics of history in contemporary Ukraine, in S. Troebst (a cura di; con la collaborazione di S. Baumgartl), Postdiktatorische Geschichtskulturen in Europa. Bestandsaufnahme und Forschungsperspektiven, Göt-tingen, 2010, 619-641.

103 Una rassegna sul tema in Y. Bilinsky, Was the Ukrainian Famine of 1932-1933 Genocide?, in Journal of Genocide Research, 1 (1999), 147-156.

104 A. Berelowitch, Velikij golod, la grande carestia del 1932-1933 in Unione Sovietica, in Parolechiave, n.45, giugno 2011, 75-100.

105 Zakon Ukraїni N° 376-V del 28 novembre 2006, in Vіdomostі Verhovnoї Radi Ukraїni, 2006, n. 50, 504.

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che equiparava l’Holodomor all’Olocausto e ne puniva la negazione con una pena pecuniaria e con la reclusione fino a due anni (elevati a quattro in caso di recidiva, o se il reato era commesso da un pubblico ufficiale). Il progetto provocò reazioni negative da parte di storici e in-tellettuali liberali, ma venne anche giudicato incostituzionale dall’uf-ficio legislativo del parlamento. Dopo le elezioni politiche del 30 set-tembre 2007, Juščenko ripresentò il progetto di legge, che decadde pe-raltro di nuovo per mancanza di un accordo politico.

Questa legge ebbe anche risonanza internazionale, perché il gover-no ucraino si adoperò per ottenere il riconoscimento della definizione di genocidio. Il 28 maggio 2008 il Canada, dove c’è una forte comunità di origine ucraina, riconobbe “la carestia ucraina del 1932-33 come un atto di genocidio” e istituì una giornata commemorativa106, senza però prevedere la punizione per chi lo negasse. Anche il Parlamento euro-peo riconobbe il 28 ottobre 2008 l’Holodomor come “uno spaventoso crimine contro il popolo ucraino e contro l’Umanità”. Nel testo di questa risoluzione si evitava di usare il termine “genocidio”, ma si so-steneva un’interpretazione delle cause della carestia che ne attribuiva l’intera responsabilità al governo sovietico in termini che implicavano questa definizione: “[La carestia] è stata pianificata con cinismo e cru-deltà dal regime di Stalin al fine di imporre la politica sovietica di col-lettivizzazione dell’agricoltura contro la volontà della popolazione ru-rale in Ucraina”107. Sul fronte opposto la Duma russa aveva approvato il 2 aprile 2008 una dichiarazione che esprimeva il rincrescimento per la carestia che negli anni ‘30 aveva colpito gran parte dell’Unione so-vietica, ma rifiutava esplicitamente l’accusa di genocidio, sostenendo che “non ci sono prove storiche che la carestia venne organizzata se-condo criteri etnici. Ne furono infatti vittime milioni di cittadini sovie-tici appartenenti a diversi popoli e nazionalità che vivevano prevalen-temente in aree agricole”108.

L’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa discusse la que-stione dell’Holodomor nel 2010, e fu direttamente coinvolta nella con-troversia interna all’Ucraina. Infatti ricevette tre documenti: due di es-si, quello del partito Naša Ukraïna (La nostra Ucraina) e quello del Blocco di Julìa Timošenko, che sostenevano che si era trattato di un genocidio, e un altro della Partìa regìonìv (Partito delle regioni), soste-nitore di Janukovyč, il quale nel febbraio di quell’anno era succeduto a

106 Parliament of Canada, Debates of the Senate (Hansard), 2nd Session, 39th Parliament, Volume 144, Issue 63.

107 European Parliament resolution of 23 October 2008 on the commemoration of the Holodomor, the Ukraine artificial famine (1932-1933), in Official Journal of the European Union, 21 gennaio 2010, C 15 E/78.

108 Evening plenary session the State Duma April 2, 2008.

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Juščenko nella carica di Presidente della Repubblica, dove si affermava che quella carestia non rientrava nei criteri della definizione di genoci-dio stabilita dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata dall’ONU nel 1948109. Il 27 aprile 2010 Janukovyč partecipò ad una seduta dell’Assemblea parlamentare, e quando gli venne chiesto il suo parere sulla questione rispose che la grande carestia degli anni ‘30 era stata la conseguenza delle politiche del regime staliniano e non aveva colpito solo l’Ucraina, ma anche la regione del Volga, la Bielorussia e il Kazakistan, per cui considerarla un genocidio contro questa o quella popolazione era errato e scorret-to110.

Incoraggiata da queste parole, il giorno seguente l’Assemblea par-lamentare approvò la seguente risoluzione:

Milioni di persone innocenti in Bielorussia, Kazakistan, Moldova, Russia e Ucraina, che facevano parte dell’Unione sovietica, persero la vita a causa di una grande carestia provocata dalle azioni e politiche crudeli e deliberate del regime sovietico111.

Per quanto riguarda la questione del genocidio, la risoluzione evi-

tava di prendere una posizione chiara. Si limitava infatti a ricordare che la legislazione ucraina considerava la carestia come un genocidio, senza fare commenti. Questo atteggiamento cauto era stato suggerito proprio dal relatore della risoluzione, Mevlüt Çavuşoğlu, il quale aveva osservato che non era opportuno sostenere la tesi del genocidio, per-ché in Ucraina storici e politici non erano unanimi in proposito, e an-che perché era personalmente “fermamente convinto che i politici, sia a livello nazionale che internazionale, dovrebbero evitare di immi-schiarsi nell’interpretazione di eventi storici del passato”112.

Le parole di Janukovyč a Strasburgo mostrano molto chiaramente come un cambiamento può portare ad un cambiamento di una versio-ne ufficiale della storia.

Nel frattempo in Ucraina la questione era passata nelle mani della magistratura, con gli stessi esiti alterni della politica. Nel gennaio 2010

109 Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Doc. 12173, 1 marzo 2010,

Commemorating the victims of the Great Famine (Holodomor) in the former USSR, Appendix 3.

110 Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Report of the sitting of 27.4.2010.

111 Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Resolution 1723 (2010). 112 Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Doc. 12173, 1.3.2010,

Commemorating the victims of the Great Famine (Holodomor) in the former USSR, Report.

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(erano gli ultimi giorni della presidenza Juščenko) la Corte d’Appello di Kiev, su istanza del Servizio di sicurezza ucraino, dichiarò Stalin, Molotov ed altri membri del regime sovietico colpevoli di genocidio per aver organizzato la carestia del 1932-33, archiviando peraltro il procedimento a causa della morte degli accusati113. Ma nel successivo mese di marzo un tribunale della regione di Donetsk, nell’Ucraina orientale, rifiutò di processare un giornalista del Rodnoe Priazov’e che aveva scritto un articolo in cui contestava la definizione di genoci-dio114. Forse non è un caso che in quel momento fosse Presidente della Repubblica Janukovyč. Poco dopo toccò a Janukovyč stesso di fare i conti con la legge voluta dal suo predecessore, perché a causa delle sue dichiarazioni a Strasburgo venne denunciato da Volodymyr Volosiuk, un rappresentante del Narodnij Ruch Ukraïni (Movimento Popolare Ucraino), un partito di opposizione115, ma l’8 dicembre 2010 la Corte d’Appello di Kiev assolse il presidente116.

6. L’adozione della Decisione quadro da parte degli Stati membri dell’Unione europea

L’articolo 10 § 1 della Decisione quadro indicava la scadenza del

28.11.2010 come termine per la sua adozione da parte degli Stati membri, ma ancora non tutti gli Stati hanno ottemperato. Fra i molti che l’hanno fatto ci sono inoltre molte differenze, come è logico aspet-tarsi tenendo conto dei molti contrasti e delle norme che lasciano agli Stati una rilevante libertà.

Un caso particolarmente interessante di alterno condizionamento politico è quello dell’Ungheria. La Decisione quadro venne adottata una prima volta nel gennaio 2010 con l’articolo 269/C del codice pe-nale, che puniva con tre anni di reclusione “chiunque offende pubbli-camente la dignità delle vittime dell’Olocausto, o ne nega la realtà o la mette in dubbio o la minimizza”117. Una legge dunque che limitava la portata della Decisione quadro al solo Olocausto. Era allora Primo mi-

113 Sentence to Stalin, his comrades for organizing Holodomor takes effect in

Ukraine, in Kyiv Post, 21 gennaio 2010. 114 Legal precedent in Ukraine: journalist allowed to doubt Holodomor as genocide,

in RIA Novosti, 11 marzo 2010. 115 Kyiv court to consider appeal against Yanukovych for his statement on famine of

1930s, in Kyiv Post, 14 giugno 2010. 116 Kyiv Court of Appeals sees nothing wrong in president’s statement on

Holodomor, in Kyiv Post, 8 dicembre 2010. 117 2010. evi XXXVI. torveny a Buntető Torvenykonyvről szolo 1978. evi IV.

torveny modositasarol.

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nistro Gordon Bajnai, del Partito socialista ungherese (MSZP). Subito dopo il panorama politico ungherese cambiò, con la vittoria dei partiti di destra alle elezioni politiche dell’11 e del 25 aprile 2010. Nuovo Primo ministro divenne Viktor Orbán, leader della Unione civica un-gherese (Fidesz), in coalizione con il Partito cristiano democratico del popolo (KDNP) e con il Movimento per un’Ungheria migliore (Job-bik), di estrema destra. Uno dei primi provvedimenti del nuovo go-verno fu l’emendamento dell’articolo 269/C, dove la menzione dell’Olocausto è stata sostituita da quella dei genocidi e degli altri cri-mini contro l’umanità commessi dai regimi nazista e comunisti118. In entrambe le versioni di questo articolo non c’è nessuna indicazione sui tribunali abilitati a pronunciarsi sugli eventi storici, e non ci sono nep-pure le clausole sull’incitamento alla violenza o all’odio e sul disturbo dell’ordine pubblico.

Fra gli Stati un tempo oltre la cortina di ferro, la Lituania ha ap-provato il 15 giugno 2010 l’articolo 1702 del codice penale, che men-ziona esplicitamente i crimini comunisti. Vi è prevista la punizione con una pena pecuniaria o la reclusione fino a due anni dell’apologia, della negazione o della minimizzazione grossolana di genocidio e altri cri-mini contro l’umanità e crimini di guerra definiti da atti legali dell’Unione europea, della repubblica lituana o da un tribunale lituano o internazionale. In particolare vengono menzionati i crimini perpetra-ti da Germania e Unione sovietica in Lituania durante la Seconda guerra mondiale e quelli perpetrati dall’Unione sovietica contro citta-dini lettoni durante la guerra di indipendenza del 1990-1991. Le con-dotte criminose sono peraltro perseguibili solo se minacciose, offensi-ve o insultanti o se disturbano l’ordine pubblico119.

La Lettonia emendò nel 2009 il codice penale120, comminando la pena di non meno di cinque anni di reclusione o di lavoro per la nega-zione, la glorificazione e la giustificazione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace e crimini di guerra, senza indicazione di tribunali. Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere sulla base della dichiarazione allegata dalla Lettonia alla De-cisione quadro, i crimini comunisti non vengono qui menzionati, ma essi debbono essere considerati inclusi in questa formulazione genera-le.

118 2010. evi LVI. torveny a Buntető Torvenykonyvről szolo 1978. evi IV. torveny

modositasarol (entrato in vigore il 24 luglio 2010). 119 Baudžiamojo kodekso 95 straipsnio pakeitimo bei papildymo, kodekso papildymo

1702 straipsniu ir kodekso priedo papildymo į s t a tymas , 2010 m. birželio 15 d. Nr. XI-901, Vilnius.

120 Articolo 74-1, adottato dal Parlamento il 1 luglio 2009.

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Anche altri Stati non menzionano i crimini comunisti, e preferi-scono una simile indicazione generica. È il caso della Slovacchia, che nel 2009 ha adottato la sezione 424a del codice penale, che punisce con la reclusione da uno a tre anni chi approva, nega o sminuisce se-riamente un genocidio, un crimine contro l’umanità o un crimine di guerra giudicato da un tribunale internazionale riconosciuto dalla re-pubblica slovacca121. La Bulgaria nel 2011 ha adottato vari emenda-menti al codice penale122, fra cui l’articolo 419a punisce con la reclu-sione da uno a cinque anni la negazione, giustificazione o minimizza-zione grossolana dei crimini contro la pace e l’umanità, nel caso che le condotte criminose siano pericolose o violente o incitino all’odio verso individui o gruppi definiti da razza, colore, religione, discendenza o origine etnica e nazionale.

La Germania nel 2011 ha adottato sia la Decisione quadro che l’Additional Protocol to the Convention on cybercrime123, limitandosi ad aggiungere gli individui fra le vittime previste all’articolo 130 § 1 dello Strafgesetzbuch, mentre in precedenza erano previsti soltanto i gruppi di persone. Questo articolo, come si è visto, riguardava solo l’Olocausto. Gli altri crimini contro l’umanità o i crimini di guerra non sono stati aggiunti, perché, come si legge nel rapporto preparatorio, essi vanno considerati già compresi dall’articolo 140 dello Strafgesetz-buch che punisce con una pena pecuniaria o la reclusione fino a tre anni la pubblica apologia di una vasta serie di crimini, dallo stupro all’alto tradimento alla falsificazione di monete fino appunto ai crimini di guerra e quelli contro l’umanità124.

121 Zákon č. 300/2005 Z. Z. z 20. mája 2005 Trestný Zákon v znení zákona č.

650/2005 Z. z., v znení zákona č. 692/2006 Z. z., v znení zákona č. 218/2007 Z. z., v znení zákona č. 491/2008 Z. z., v znení zákona č. 497/2008 Z. z., v znení zákona č. 498/2008 Z. z., v znení zákona č. 257/2009 Z. z.

122 State Gazette No. 33/26.04.2011. Questi emendamenti sono entrati in vigore il 27 maggio 2011.

123 Gesetz zur Umsetzung des Rahmenbeschlusses 2008/913/JI des Rates vom 28. November 2008 zur strafrechtlichen Bekämpfung bestimmter Formen und Ausdrucks-weisen von Rassismus und Fremdenfeindlichkeit und zur Umsetzung des Zusatzproto-kolls vom 28. Januar 2003 zum Übereinkommen des Europarats vom 23. November 2001 über Computerkriminalität betreffend die Kriminalisierung mittels Computersy-stemen begangener Handlungen rassistischer und fremdenfeindlicher Art, 16 marzo 2011.

124 Deutscher Bundestag – 17. Wahlperiode, Drucksache 17/3124: Entwurf eines Gesetzes zur Umsetzung des Rahmenbeschlusses 2008/913/JI des Rates vom 28. No-vember 2008 zur strafrechtlichen Bekämpfung bestimmter Formen und Ausdrucksweisen von Rassismus und Fremdenfeindlichkeit und zur Umsetzung des Zusatzprotokolls vom 28. Januar 2003 zum Übereinkommen des Europarats vom 23. November 2001 über Computerkriminalität betreffend die Kriminalisierung mittels Computersystemen be-gangener Handlungen rassistischer und fremdenfeindlicher Art, Begründung A, III.

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Malta ha adottato nel 2009 un emendamento al codice penale che segue da vicino la Decisione quadro per quanto riguarda le condotte criminose perseguite e le loro circostanze qualificanti, e non specifica quali tribunali possono pronunciarsi sugli eventi storici125.

Altri Stati, come Romania126 e Portogallo127 ritengono che la loro legislazione antinegazionista già copra le richieste della Decisione qua-dro, e quindi che nessun cambiamento sia necessario.

Altri Stati membri, infine, come il Regno Unito, continuano come in passato a limitarsi ad una generale legislazione antirazzista, che ri-tengono sufficiente anche a punire le condotte criminose previste dalla Decisione quadro, che quindi di fatto rifiutano di adottare. Molto inte-ressanti sono in tal senso i dibatti che ci sono stati nel Regno Unito nel 2007. La House of the Lords espresse molta preoccupazione per il lin-guaggio usato nell’articolo 1 della Decisione quadro, in particolare ri-guardo alla “minimizzazione grossolana”, considerata troppo impreci-sa128, e considerò problematica anche la punizione della negazione dell’Olocausto. Rispondendo su quest’ultimo punto, il governo assicu-rò che non intendeva rendere punibile la negazione, perché ciò avreb-be rappresentato una violazione della libertà di espressione, a meno che questa condotta non fosse minacciosa, offensiva e ingiuriosa e inci-tasse all’odio razziale, nel qual caso sarebbe comunque stata punibile secondo il Public Order Act del 1986129.

Non hanno apportato nessuna modifica del codice penale anche l’Irlanda130, la Svezia131, la Danimarca132, e i Paesi Bassi, che del resto avevano già annunciato questa decisione nella dichiarazione allegata alla Decisione quadro. La Finlandia nel 2011 ha adottato la Decisione

125 Act No. XI of 2009: An Act further to amend the Criminal Code, Ca 9. 126 Lettera personale del Ministero della Giustizia, Dipartimento degli Affari eu-

ropei, 26 ottobre 2010. 127 Lettera personale del Ministério da Justiça, Direcção-Geral da Política de

Justiça, 3 agosto 2011. 128 House of the Lords, Committee Office: The Lord Grenfell, Chairman of the

Select Committee on the European Union, to the Rt Hon Vernon Coaker MP, Parliamentary Under Secretary of State, Home Office, 19 aprile 2007, 24 maggio 2007.

129 House of Lords Debates, vol. 691, 20 Apr 2007, col. WA 97. 130 Lettera personale del Department of Justice and Law Reform, 22 settembre

2010. 131 Lettera del Regeringskansliet, Justititie departementet Sverige, Underrattelse

om nationella atgarder for attuppfylla Sveriges forpliktelser i Europeiska unionen al Secretario del Consiglio dell’Unione europea e al Segretario della Commissione euro-pea, 20 settembre 2010.

132 Justitsministeriet, Civil- og Politiafdelingen, Supplerende samlenotat vedrørende de sager der forventes behandlet på rådsmødet (retlige og indre anliggender) og mødet i de blandede udvalg på ministerniveau med deltagelse henholdsvis af Norge og Island og af Schweiz den 27.–28. november 2008, 6 novembre 2008.

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quadro inasprendo la punizione delle condotte razziste e discriminato-rie, ma senza inserire reati di negazionismo e simili133.

All’elenco mancano ancora vari Stati. Fra questi, la Spagna ha re-centemente iniziato una riforma del codice penale che prevede fra l’altro l’adozione della Decisione quadro con un articolo che punisce la negazione, l’apologia o la grave minimizzazione di genocidi, di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra giudicati dal Tribunale di No-rimberga, dalla Corte penale o da altri tribunali internazionali, purché intervengano in queste condotte criminose le condizioni qualificanti del razzismo o di discriminazione per un ampio spettro di motivi, che includono ideologia, infermità e sesso o orientamento sessuale, e quando le stesse condotte promuovano o favoriscano un clima di vio-lenza, ostilità, odio o discriminazione134. La sentenza del Tribunal con-stitucional sulla incostituzionalità della punizione della negazione viene dunque superata dalla presenza di queste specifiche circostanze aggra-vanti.

Recentissima è infine l’iniziativa italiana. L’8 ottobre è stato pre-sentato al Senato un disegno di legge135, di cui prima firmataria è stata la senatrice Silvana Amati, del Partito Democratico, a cui si sono ag-giunti ben 97 senatori, quasi un terzo del totale, fra cui anche molti del Popolo delle Libertà. L’unico articolo modifica, nei seguenti termini, l’articolo 3, comma 1, della legge 13 ottobre 1975, che aveva ratificato la convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di di-scriminazione razziale136:

All’articolo 3, comma 1, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, dopo la lettera b) è aggiunta la seguente: “b-bis) con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa

133 Laki 511/2011 rikoslain muuttamisesta Annettu Helsingissa 13 paivana touko-

kuuta 2011, Suomen Saadoskokoelma, 20 maggio 2011. 134 Ministerio de Justicia, Anteproyecto de ley orgánica por la que se modifica la ley

orgánica 10/1995, 23 de noviembre, del código penal, 16 luglio 2012. 135 Senato, XVI legislatura, atto n 3511: Modifiche all’articolo 3 della legge 13 otto-

bre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto del-la Corte penale internazionale.

136 Questo il testo dell’articolo 3 comma 1: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato …, è punito: a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, na-zionali o religiosi”.

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apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi”.

Rispetto alla Decisione quadro – e a tanti altri testi – va qui notata

la chiarezza concettuale nel distinguere fra negazione della realtà e ne-gazione di una precisa interpretazione di un evento storico: purtroppo anche l’interpretazione cade sotto la scure della legge.

7. Conclusioni Le molte obiezioni fatte nei confronti della Decisione quadro du-

rante la sua lunga gestazione hanno prodotto un testo che dà agli Stati membri ampia libertà nell’adottarla. E come mostrano gli esempi cita-ti, di questa libertà è stato fatto ampio uso. Si può dire, soprattutto guardando al caso del Regno Unito e degli altri Stati che non hanno modificato la loro generale legislazione antirazzista, che l’obiettivo di armonizzare la legislazione di tutti gli Stati membri è fallito. Nonostan-te però l’obiettivo massimo non sia stato raggiunto, gli effetti della De-cisione quadro, pur indebolita, sono già stati di notevole portata, sia perché molti sono gli Stati che in vario modo si sono adeguati ad essa, sia soprattutto perché essa ha ormai legittimato l’idea che si possa legi-ferare sulla storia e punire le interpretazioni contrarie a quelle imposte per legge. La mobilitazione di storici e giuristi è stata finora molto scarsa e intermittente, tranne che in Francia, dove ha ottenuto impor-tanti successi, nonostante che in Francia le guerre della memoria siano particolarmente accanite. Ma gli ultimi eventi mostrano che questi successi sono fragili.

La partita è ancora aperta. Entro il 28 novembre 2013, come pre-vede l’articolo 10 § 3 della Decisione quadro, il Consiglio la riesaminerà alla luce di quanto sarà stato fatto dagli Stati membri, il che probabil-mente porterà ad un nuovo testo, che potrebbe recepire l’inserimento esplicito dei crimini comunisti, come ipotizzato dalla dichiarazione al-legata dal Consiglio, e soprattutto potrebbe vedere un’affermazione della volontà della Commissione di far prevalere il diritto dell’Unione europea su quello degli Stati membri. Al di là dell’esito del confronto a livello comunitario, rimane il fatto che all’interno di molti Stati il con-trollo sugli storici rischia di farsi sempre più pesante, con conseguenze difficili da prevedere.

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LA MEMORIA DOVEROSA. L’ESPERIENZA FRANCESE DELLE LOIS MÉMORIELLES

Roberto D’Orazio

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il connubio tra diritto e memoria nella lunga durata. – 3. Il devoir de mémoire e il cantiere legislativo. – 3.1. La legge sul negazionismo. 3.2. Il riconoscimento del genocidio armeno. 3.3. La schiavitù e il passato coloniale tra riparazioni e riabilitazioni. – 4. Il ripensamento parlamentare. 5. La censura costituzionale.

1. Premessa L’introduzione in Francia di una serie di leggi accomunate

dall’obiettivo di dare riconoscimento a determinati avvenimenti del passato e di fissarne la rappresentazione pubblica e l’interpretazione storica, perciò comunemente denominate mémo-rielles, è stata oggetto negli anni recenti di un dibattito la cui in-tensità, a fronte del numero esiguo dei testi legislativi approvati nell’arco di tre lustri, ha rivelato la persistenza di temi collegati all’identità collettiva di gruppi e formazioni sociali e tuttora anni-dati nella sensibilità dell’opinione pubblica. Nel contempo, la giu-ridificazione della storia1 posta in essere attraverso questo partico-lare genus legislativo ha attratto la riflessione critica di storici e giuristi, sollecitati nei rispettivi campi disciplinari non solo dalle implicazioni specifiche dei singoli provvedimenti, ma da profili di rilievo più generale: riferiti, da un lato, allo statuto della ricerca storica a fronte degli “usi pubblici” della storia2, e d’altro lato alle  

1 Nel novero dei profili tematici che si condensano nella formula “giuridificazione della storia”, quello ora affrontato potrebbe essere delimitato e più precisamente iden-tificato come inerente alla storiografia, avendo a prevalente riferimento misure norma-tive di cui si prospetta l’incidenza sulle attività volte alla ricostruzione e all’inter-pretazione dei fatti storici. La distinzione sul piano teorico dei due profili, e la stretta correlazione dei rispettivi fenomeni, sono individuate da G. Resta - V. Zeno-Zencovich, La storia “giuridificata”, in questo Volume.

2 L’espressione “uso pubblico della storia” suole riferirsi, com’è noto, ad ambiti e a pratiche di ricerca e di discussione storica perlopiù differenziati dalle sedi specialisti-che e dalle metodiche che vi sono adottate, e complessivamente orientati, con finalità perlopiù apologetiche o pedagogiche, alla divulgazione pubblica di date ricostruzioni o rappresentazioni del passato. Volendo recuperare l’origine della nozione – senza po-ter dare conto dei suoi sviluppi – se ne ricorda l’introduzione da parte di J. Habermas [L’uso pubblico della storia, in Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca (a cura di G.E. Rusconi), Torino, 1987, 98 ss.], con riguardo al dibat-tito storiografico tedesco sul nazismo (Historikerstreit) e alla trasposizione della di-scussione sulle relative interpretazioni storiche dalle sedi scientifiche ai mezzi di co-

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ragioni e ai caratteri della legge che fa della storia la propria mate-ria.

Più d’una le questioni che si sono prospettate al riguardo. In primo luogo, l’interferenza di regole legislative con i canoni della ricerca sto-rica, al fine di influire sulla attribuzione e sulla trasmissione di signifi-cati relativamente a determinati eventi storici, e con l’effetto di orien-tare o precludere di essa determinati svolgimenti in base a giudizi di fatto o di valore formalizzati ex ante, può considerarsi un’operazione che tende a comprimere l’autonomia di questo ramo del sapere e ri-schia di predeterminare arbitrariamente i risultati della stessa indagine storica3.

È vero, d’altra parte, che le leggi con finalità “memoriali”, quando il loro contenuto sia di circoscritta applicazione e non dotato di genui-na normatività, possono apparire somiglianti a un trompe-l’oeil legisla-tivo, nel cui gioco prospettico si confonde ogni differenza tra storia e memoria, più che all’espressione della volonté générale il cui mito vive nella tradizione costituzionale francese. Considerarle come meri textes d’affichage non è stato comunque sufficiente a farne ritenere le clausole del tutto innocue o ininfluenti, a giudicare dalle reazioni critiche che la loro adozione ha ogni volta suscitato sul piano politico e culturale.

Tutt’altra perplessità, ovviamente, destano le medesime leggi quando da un piano simbolico e declamatorio siano trasposte nella di-namica applicativa mediante l’incorporazione di dispositivi sanziona-tori, potendo esse avere ricadute su alcune libertà fondamentali o, quanto meno, proiettare un chilling effect sul loro esercizio; e ad un ri-sultato non molto diverso si giunge quando non siano chiare e delimi-tate la natura e la portata dei diritti azionabili da individui o gruppi in applicazione di tali disposizioni, allo scopo di inibire la diffusione di

 municazione di massa. Successivamente, la diffusione della nozione, la varietà dei con-testi (istituzionali e culturali) in cui essa ha preso piede, e il diverso grado di intensità con cui il relativo fenomeno si è manifestato nell’esperienza concreta, ne hanno reso più ampio e polisenso il significato. Esso permane tuttavia ancorato al concetto dell’influenza sull’opinione pubblica che può aversi attraverso forme di utilizzazione a fini in senso lato politici di determinati avvenimenti storici. Un’accezione tendenzial-mente virtuosa, non limitata a denunciare i rischi di strumentalità e manipolazione in-siti in tali forme di ricorso al passato, ma disposta a coglierne anche l’apporto positivo per il formarsi e il maturare della coscienza pubblica (interessata da “due fenomeni all’apparenza contraddittori: un accentuato e diffuso sradicamento dal passato da un lato e un’ipertrofia dei riferimenti storici del discorso pubblico dall’altro”), è stata proposta in Italia da N. Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, in L’uso pubblico della storia (a cura di Id.), Milano, 1995, 25 ss.

3 In questo senso può valere l’aforisma secondo cui la storia ha le sue leggi, che la legge ignora: v. C. Vivant, L’historien saisi par le droit. Contribution à l’etude des droits de l’histoire, Paris, 2007.

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determinate ricostruzioni storiche o di ottenerne rettifiche od integra-zioni.

Questi punti di controversia, peraltro, sembrano risentire della so-vrapposizione di due nozioni, storia e memoria, e dell’appiattimento operato dalla legge della distinzione concettuale che, nella consolidata opinione storiografica – talora irrigidita a cliché –, corre più o meno netta tra la vocazione universale attribuita alla storia, appartenente “a tutti e a nessuno”, e la dimensione della memoria, intesa perlopiù co-me patrimonio di gruppi sociali che sulla sua condivisione fondano la propria unità4. La commistione, o assimilazione, tra i due diversi statu-ti, favorita perfino da una sovrapponibilità di campi semantici nel les-sico corrente e nel senso comune5, non sarebbe quindi estranea al fio-rire di rivendicazioni, talvolta conflittuali e contraddittorie – non a ca-so definite guerres des mémoires6 –, animate da componenti sociali por-tatrici di una propria traumatica memoria storica ed intenzionate a ve-derla legislativamente riconosciuta se non anche tutelata verso ogni possibile contestazione. E se, agli occhi degli storici, il legislatore è in-  

4 Descrittiva di una coppia tradizionalmente antinomica (evocata già nel titolo da J. Le Goff, Histoire et mémoire, Paris, 1988), la distinzione è stata portata alla ribalta soprattutto da P. Nora (a cura di), Les Lieux de mémoire, t. I, La République, t. II, La Nation, t. III, Les France, Paris, 1984-1992, ed è da alcuni decenni leitmotiv della sto-riografia non solo francese. In particolare, essa è termine essenziale di riferimento per l’histoire de la mémoire (lo studio delle diverse pratiche sociali il cui oggetto od effetto sia la rappresentazione del passato e il mantenimento del suo ricordo sia all’interno di un gruppo sociale sia in seno alla società globalmente considerata), che tende a ricon-durre le differenti nozioni a “deux perceptions du passé nettamente differenciés […] La mémoire est un veçu, en perpétuelle évolution, tandis que l’histoire – celle des his-toriens - est une réconstruction savante et abstraite, plus encline à delimiter un savoir constitutif et durable”: H. Rousso, Le syndrôme de Vichy, Paris, 1990, 10 ss. La distin-zione può tuttavia articolarsi in modo meno rigido, se si riconosce – nelle parole di T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Roma-Bari, 2009, 194 – che le “linee di separazione tra la forma soggettiva ed oggettiva di intendere il passato sono reliquie indistinte e arbitrarie di un approccio antico e ingenuo dello studio storico”, e che la memoria ufficiale o pubblica ha “esigenze proprie da soddisfare”, pur non potendosi sottrarre al vaglio critico. La relativizzazione del tradizionale discrimine, d’altra parte, è dato acquisito della public history, ambito di ricerca che pone in relazione la cono-scenza storiografica più elevata e, senza rinunciare al rigore metodologico, le forme divulgative degli argomenti di interesse storico, nel presupposto che “le memorie indi-viduali e collettive sono da ritenersi parti integranti del ricordo del passato e, come tali, della storia”: v. S. Noiret, La Public History: una disciplina fantasma?, in Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea, 2011, n. 37, 9 ss.

5 Secondo J. Rancière, Les Noms de l’histoire: essai de poétique du savoir, Paris, 1992, 11, il significato polisenso di storia “è una sfortunata omonimia propria della nostra lingua che designa con uno stesso termine l’esperienza vissuta, il suo racconto fedele, la sua invenzione menzognera e la sua spiegazione rigorosa”.

6 L’espressione è ripresa nel titolo di P. Blanchard - I. Veyrat-Masson (a cura di), Les guerres de mémoires. La France et son histoire, Paris, 2008.

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corso nell’eccesso di potere occupandosi di materie non sue, anche nel campo che gli è proprio si espone a censure quando si lasci condurre dall’azione di gruppi di pressione ad alimentare, con provvedimenti particolaristici, la boulimie commémorative7, e ad aggravare in tal mo-do la già conclamata “crisi della legge”.

Principalmente da queste prese di posizione è partito il fuoco in-crociato a cui da entrambi i versanti disciplinari sono state sottoposte le “leggi memoriali”, con esiti che, se da ultimo hanno indotto il par-lamento francese ad una revisione critica del proprio operato in mate-ria, non sembrano tuttavia aver sciolto i nodi problematici relativi all’articolazione del rapporto tra la sfera giuridica e la ricerca storica rispetto a decisioni dei poteri pubblici dirette a costruire, promuovere o preservare una “memoria collettiva” o “condivisa” di dati eventi del passato.

2. Il connubio tra diritto e memoria nella lunga durata Poste oggi nei termini propri della nostra epoca e con lo sguardo

rivolto soprattutto agli avvenimenti traumatici che l’hanno preceduta (a buon diritto il XX può ritenersi “il secolo dei genocidi”8), le que-stioni concernenti la vigenza di un “diritto della storia”, ora general-mente inteso come volizione normativa destinata ad influire sulla tradi-tio degli accadimenti storici attraverso la loro validazione, descrizione o celebrazione pubblica (oppure, altra faccia della medaglia, mediante la loro consegna all’oblio), attengono ad un fenomeno ovviamente non nuovo nel tempo né isolato geograficamente, e frequentemente emer-gono, nella diversità delle esperienze storiche ed istituzionali, in corri-spondenza di transizioni di regime e di processi di riconciliazione, di ricostruzioni procedimentalizzate della “verità storica”, di ricomposi-zioni, riparazioni e riabilitazioni succedute a conflitti, violazioni, di-scriminazioni da cui nel passato siano stati segnati gruppi sociali, cate-gorie di individui, od intere popolazioni9. Nel novero di queste espe-rienze, e rispetto a quelle che si collegano a momenti di discontinuità ordinamentale – come nel caso sudafricano –, in cui il rapporto tra il fatto storico e la sua apprensione giuridica è articolato nella chiave di

 7 P. Nora, L’ère des commémorations, in Id. (a cura di), Les lieux de mémoire, cit.,

t. III, Les France, vol. III, De l’archive à l’emblème, 977. 8 B. Bruneteau, Le Siècle des génocides, Paris, 2004. 9 L’inventario degli atti e dei procedimenti con finalità lato sensu riparatrici delle

“ferite della storia” è a questo riguardo assai ampio. Per una estesa ricognizione casi-stica e tematica, v. P. De Greiff (a cura di), The Handbook for Reparations, Oxford-New York, 2006.

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equilibri futuri, la legislazione sulla memoria conserva un tratto speci-fico e pone questioni a sé stanti, poiché interviene in un quadro istitu-zionale acquisito e, con sguardo retrospettivo, mira a consolidarlo10.

La stessa storia politico-istituzionale francese, in ragione della co-stante importanza attribuita ai fattori culturali nella costruzione della nazione e nelle celebrazioni della sua identità, è terreno elettivo per l’individuazione dei modi in cui nel mutare dei regimi e delle stagioni politiche è venuto configurandosi il rapporto tra diritto e storia, e in particolare tra legge e memoria11, incernierate in un dittico le cui tavo-le hanno spesso composto ed articolato un palinsesto unitario. È ben vero che gli spunti offerti da una comparazione diacronica non sempre presentano validi elementi di raffronto per l’odierna legislazione in materia, avendo questa i caratteri tipici derivanti dalla realtà degli or-dinamenti costituzionali contemporanei e trovandovi espressione istanze non limitate all’orizzonte nazionale, ma coerenti con la dimen-sione del multiculturalismo12; ma, entro questi limiti, la comprensione del fenomeno attuale può giovarsi del riferimento a più risalenti mani-festazioni del droit mémoriel, il cui precipitato contribuisce a formare il più ampio quadro di riferimento culturale in cui hanno preso vita gli interventi legislativi contemporanei13.

 10 Cfr. A. Pugiotto, Quando (e perché) la memoria si fa legge, in Quad. cost., 2009,

14. È vero tuttavia che, se in effetti gli eventi traumatici della storia non hanno confini geografici o culturali, una persistente linea di separazione può rilevarsi in relazione alla sussistenza di condizioni senza le quali non sembrano possibili l’effettiva elaborazione di un trauma collettivo e la sua trasposizione nella sfera pubblica: e cioè che vi sia un potere pubblico costituito, una stabilità istituzionale, e, soprattutto, che le vittime ces-sino di essere vittime per divenire soggetti titolari di diritti ed attivamente partecipi del processo di costruzione di una “memoria pubblica”. Da questo angolo visuale, la ri-flessione sulla categoria della “legislazione memoriale”, per quanto astrattamente rife-ribile all’esperienza di un’ampia e variegata pluralità di ordinamenti nazionali, sconta ancora il riflesso di paradigmi propri del mondo occidentale, evidente una volta che si ponga mente a Paesi in cui le vittime restano incessantemente tali e il destino di intere popolazioni non è deciso all’interno dei contesti nazionali, ma in larga misura dipende dai processi di sfruttamento internazionale delle risorse economiche locali.

11 La puntualizzazione è ora utile per l’ordine del discorso, in contiguità alle pre-messe poste da E. Fronza, Diritto e memoria. Un dialogo difficile, in Novecento, 2004, 47 ss., 48 n. 1: “Si è preferito utilizzare la coppia ‘diritto e memoria’ e non ‘diritto e storia’ perché con memoria si intende tutto il processo sociale di rielaborazione del passato, in modo più ampio e comprensivo di quanto attiene a storia e storiografia.”

12 Tale aspetto è frequente bersaglio critico in relazione a questa categoria di leggi: v., ad esempio, A.-M. Le Pourhiet, La mémoire et le droit, in Rev. hist. droit. fran. et étran., 2011, 104, secondo cui “l’idéologie multiculturaliste à encouragé et incité à ins-crire dans le droit “ la contrapposizione “entre l’histoire commune et les histoires par-tielles”.

13 L’utilità di una ricognizione storica delle “institutionnalisations passées”, ido-nea a “placer ces lois [mémorielles] dans une continuité historique qui leur donne

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Volendo individuare gli strati di maggiore spessore di questa sedi-mentazione, è utile chiave di lettura la perdurante vigenza di misure legislative a fine celebrativo, le quali, presenti anche nel calendario di altri Paesi, hanno in Francia il loro antecedente nel cerimoniale re-pubblicano della Rivoluzione. Risalgono infatti a quell’epoca della sto-ria nazionale, e in particolare alle pratiche di autocelebrazione delle Assemblee rivoluzionarie, le politiche di rielaborazione pubblica del passato e la tradizione di commemorarne gli eventi fondanti attraverso l’istituzione di solennità civili e il ricordo di uomini illustri, che pren-dono il posto delle icone e delle feste dinastiche dell’ancien régime. Non occorre ricordare, d’altra parte, come l’esperienza rivoluzionaria abbia tramandato più di un esempio di “uso della storia”, compiuto ogni volta che i partiti succedutisi al potere hanno provveduto all’inventario della precedente eredità politica per isolarne stagioni e figure a scapito di altre; ed è noto come al bagaglio della storia sia sta-to fatto costante ricorso, durante lo svolgimento degli eventi rivoluzio-nari così come nelle epoche successive, quale mezzo istituzionale per ancorarne la giustificazione o contestazione politica.

Se gli stessi significati e valori attribuiti ai fatti del passato assumo-no, nella loro varietà e mutevolezza, il carattere della propria storici-tà14, anche le forme di uso pubblico o politico della storia – per ri-prendere la nozione ormai diffusa15 - variano in corrispondenza dei di-versi modi in cui le società intessono il rapporto con i loro trascorsi storici e con la percezione collettiva del proprio futuro. In tale pro-spettiva, la politique du passé delineatasi nel XIX secolo, nel clima permeato dall’ideale nazionale, trova gli assi principali nelle comme-morazioni pubbliche e nell’insegnamento delle discipline storiche ac-creditate di un ruolo civico e pedagogico, assieme all’introduzione dei rituali laici che intendono trasferire alla nazione l’aura di sacralità pri-

 sens” è sottolineata da P. Weil, Politique de la mémoire: l’interdit et la commémoration, in Esprit, Février 2007, 128.

14 F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Paris, 2012, (II ed.), 37 ss. (e passim), designa con la nozione di régime d’historicité le forme culturali in cui, in un dato momento storico e in una determinata società, si articolano le categorie del passato, del presente e del futuro.

15 V., tra molti, E. Traverso, Le passé, modes d’emploi. Histoire, mémoire, politique Paris, 2005 (trad. it. Verona, 2006), e, limitando essenziali riferimenti alla storiografia francese, F. Hartog - J. Revel (a cura di), Les usages politiques du passé, Paris, 2001; O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien. De la chaire au prétoire, Paris, 2003; C. Andrieu - M.-C. Lavabre - D. Tartanowsky (a cura di), Politiques du passé. Usages politiques du passé dans la France contemporaine, Aix-en-Provence, 2006; M. Crivello - P. Garcia - N. Offenstadt (a cura di), La concurrence des passés. Usages poli-tiques du passé dans la France contemporaine, Aix-en-Provence, 2006.

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ma riservata alle istituzioni monarchiche e cattoliche16. Lo sforzo di af-fermare la continuità nazionale di là della cesura rivoluzionaria, perse-guito con variabile costanza dai regimi politici succedutisi in Francia, trova pieno sbocco nelle pratiche celebrative della III Repubblica, che associano il ricordo pubblico dei più significativi momenti della Rivo-luzione alla panthéonisation di uomini illustri; la costruzione giuridica della memoria si compie tuttavia anche attraverso l’approvazione di testi legislativi che non si limitano ad istituire il ricordo di avvenimenti o persone, ma espressamente provvedono a conciliare conflitti e a ri-sarcire ferite del passato17.

I riti della memoria pubblica trovano espressione culminante, co-me in altri paesi europei, nella normazione commemorativa per i cadu-ti del primo conflitto mondiale adottata nel clima delle grandi celebra-zioni nazionali della Vittoria18, il cui modello è replicato, alla conclu-sione del secondo conflitto mondiale, con l’istituzione di date celebra-tive della fine vittoriosa della guerra e di ricordo delle vittime della de-portazione19. A questo riguardo, la stabilizzazione normativa del passa-to si avvale anche di misure legislative che riconoscono e qualificano gli status personali dei soggetti a diverso titolo coinvolti negli eventi bellici, nelle cui vicende applicative, peraltro, si manifesteranno segni di crisi e di superamento della rappresentazione della storia nazionale instauratasi nel clima irenico della IV Repubblica20.  

16 Sul régime memoriel di “unità nazionale” v. J. Michel, Gouverner les mémoires. Les politiques mémorielles en France, Paris, 2010, 19 ss.; in tema, v. altresì i saggi rac-colti da P. Blanchard - I. Veyrat-Masson (a cura di), Les guerres de mémoires, cit.

17 Ne sono esempio la legge di “riparazione nazionale” del 1881 per le vittime del colpo di stato del 1851 e, ancor prima, la legge del 1873 sulla costruzione della chiesa del Sacré-Coeur per espiare “les crimes de la Commune”.

18 Mentre risale al 1922 la legge del 24 ottobre che ha iscritto l’11 novembre nel calendario delle feste nazionali, ha luogo nel 1920 l’inumazione del soldat inconnu sot-to l’Arco di Trionfo, nel quadro di solenni programmi celebrativi il cui svolgimento, esaminato in raffronto con le analoghe iniziative avvenute in Italia e nel Regno Unito, è ripercorso da A. Miniero, Da Versailles al Milite Ignoto: rituali e retoriche della Vittoria in Europa (1919-1921), Roma, 2008.

19 Leggi, rispettivamente, n° 53-225 del 20 marzo 1953 e n° 54-415 del 14 aprile 1954. Ma occorre attendere il decreto del 3 febbraio 1993 per l’istituzione di “une journée nationale à la mémoire des persécutions racistes et antisémites commises sous l’autorité de fait dite ‘gouvernement de l’Etat français’”, e ancora – senza più i reticen-ti riferimenti a Vichy - la legge n° 2000-644 del 10 luglio 2000 “instaurant une journée nationale à la mémoire des victimes des crimes racistes et antisémites de l’Etat français et d’hommage aux “ Justes “ de France”.

20 Può farsi riferimento alla legge del 15 maggio 1946 sullo statuto del Combattent Volontarie de la Résistance (CVR), che sulla falsariga delle analoghe norme per i com-battenti del 1914-1918 definisce la qualità di résistant e le procedure per il suo ricono-scimento. Nel duplice intento politico di esorcizzare le derive vichyste degli ancien combattants e di minimizzare il contributo comunista alla Liberazione, la Resistenza vi

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Continuata nei decenni successivi, la proliferazione delle comme-morazioni pubbliche ha fatto sì che, più di recente, se ne riconoscesse l’andamento inflattivo, tale ormai da indurre contrari effetti di satura-zione e di disaffezione. Ma la raccomandazione formulata ad esito di un’indagine promossa dal governo, nel 2008, di razionalizzare il calen-dario delle festività e delle giornate “della memoria” – la cui moltipli-cazione rischierebbe ormai di far perdere alla Francia “son unité spiri-telle pour devenir un agrégat plus o moins lâche de compassions”21 –, è rimasta lettera morta.

Nella “narrazione” del roman national, così formatosi un capitolo dopo l’altro, non sono mancate le pagine lasciate in bianco, le quali sono servite, in date circostanze e almeno negli intenti, a garantire condizioni di unità e di stabilità politica, al pari dei non pochi casi di rimozione e di oblio che nel corso del Novecento hanno caratterizzato la storia “ufficiale”. Ne sono esempio i provvedimenti di amnistia per i reati a carattere politico che nella legislazione repubblicana hanno scandito i momenti di riconciliazione nazionale22; ma ancor più – con finalità in sostanza non molto diverse da quelle di un precedente tanto remoto come l’Editto di Nantes23 – le ordonnances golliste che verso la

 era considerata principalmente nella prospettiva militare e delle forze “regolari”, escludendo la lotta armata popolare (il cui ruolo fu tenuto ai margini anche nella no-vella legislativa del 25 marzo 1949: in tema v. O. Wieviorka, Les avatars du statut de résistant en France (1945-1992), in Vingtième siècle, 1996, 55 ss). Ulteriore capitolo “sensibile” delle norme riparatrici e di riconoscimento approvate nel dopoguerra è costituito dalla legge del 1951 sullo statuto dei lavoratori requis e trasferiti in Germa-nia (in applicazione delle disposizioni del 1942 relative al Service du Travail Obligatoi-re), che estendeva ad essi i benefici riconosciuti ai deportati e agli internati. Vi si oppo-sero le associazioni rappresentative di quest’ultima categoria, che a più riprese otten-nero in giudizio (nel 1978 dalla Corte d’appello parigina e dalla Cassazione l’anno se-guente e, da ultimo, nel 1992) il divieto di utilizzare la qualifica di deportato per i re-quis: v. P. Arnaud, Les STO. Histoire des Français requis en Allemagne nazie 1942-1945, Paris, 2010.

21 Così il Rapport de la Commission de réflexion sur la modernisation des commé-morations publiques, (2008) pubblicato dalla “commissione Kaspi” (dal nome del pre-sidente) insediata dal Ministero della Difesa.

22 Possono ricordarsi la legge del 1880 sull’amnistia per i comunardi, quella del 1903 a beneficio dei condannati per le manifestazioni di sciopero, quella del 1946 per i condannati indocinesi, e le diverse leggi introdotte tra il 1949 e il 1953 di amnistia per i fatti di collaborazionismo.

23 Emanato da Enrico IV nel 1598, il celebre documento – vale la pena rammen-tarlo – all’art. 1 dichiarava ed ordinava “que la mémoire des toutes choses passées d’une part et d’autre, […] demeurera éteinte et assoupie, comme de chose non ave-nue. Et ne sera loisible ni permis à nos procureurs généraux, ni autres personnes quel-conques, publiques ni privées, en quelque temps, ni pour quelque occasion que ce soit, en faire mention, procès ou poursuite en aucune cours ni juridiction que ce soit”.

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fine dell’ultimo conflitto mondiale sancirono l’inesistenza costituziona-le del regime di Vichy e la nullità di tutti i suoi atti24.

L’esperienza del “soi-disant gouvernement de Vichy” è campo as-sai sensibile per le questioni inerenti alla fondazione di una memoria pubblica, sia che la si consideri in relazione allo sforzo da questo com-piuto di dare fondamento ad una rinnovata identità nazionale attraver-so un’accorta selezione e rielaborazione del patrimonio storico france-se25, sia che si ponga mente, soprattutto, alle successive scelte culturali e politiche che, conclusa quell’esperienza, ne sono state in vario modo influenzate, prima per negare l’imputabilità allo Stato francese degli atti compiuti dal regime petainista, poi per assumerne la pesante re-sponsabilità26. Il cambio di prospettiva – al quale forse ha intanto con-tribuito l’allentarsi dei legami istituzionali della ricerca27 – non manca

 24 Il riferimento è all’ordinanza del 9 agosto 1944 sur le rétablissement de la légali-

té républicaine, che – redatta da René Cassin – nel dichiarare la nullità di ogni atto co-stituzionale, legislativo e regolamentare di Vichy dava attuazione al manifesto politico esposto da De Gaulle nel 1940 con il discorso di Brazzaville e con la successiva décla-ration organique. Sul testo normativo gravava però un’evidente aporia, in quanto ri-chiedeva che “cette nullité” dovesse “être explicitement constatée”, al punto da de-terminare – secondo la nota critica di M. Waline, in Gazette du Palais, 1944, 2, 17 – una situazione “pratiquement sensiblement la même que si l’ordonnance avait suivi une marche apparemment inverse et avait validé en bloc la législation de Vichy en se réservant d’en abroger une partie par des décisions expresses”. Peraltro, il persistere nel tempo di una visione della produzione giuridica di Vichy come fonte extra ordinem sembra sintomaticamente rivelata dal titolo di una compilazione legislativa: D. Rémy (a cura di), Actes dits “lois” de l’autorité de fait se prétendant “gouvernement de l’Etat français”, Paris, 1992.

25 Nella vasta bibliografia sul tema v. da ultimo, anche per gli ampi riferimenti, M. Caiazzo, Religione politica e riscrittura della memoria nella Francia di Vichy, Milano, 2008, 149 ss.

26 Il passaggio politico dall’una all’altra impostazione è marcato, com’è noto, da due importanti dichiarazioni presidenziali. La prima, fissata nel 1994 da François Mit-terand nell’epigrafe al monumento in memoria dei deportati del Vélodrome d’Hiver, rende omaggio alle vittime delle persecuzioni antisemite e dei crimini contro l’umanità commessi “sous l’autorité de fait dite “Gouvernement de l’État français (1940-1944)”; la seconda, pronunciata da Jacques Chirac l’anno seguente, riconobbe la responsabili-tà dello Stato francese, affermando che esso “accomplissait l’irréparable” prestando collaborazione alla “folie criminelle de l’occupant”. Sulla produzione giuridica del re-gime di Vichy, e sulle linee di continuità con la legislazione avant e après-guerre, v. B. Durand - J.-P. Le Crom - A. Somma, Le droit sous Vichy, Frankfurt am Main, 2006.

27 Ad un rinnovamento della ricerca storica non fu indifferente il mutare della sua cornice istituzionale: nel 1980 viene meno il patronage politico sul Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale, istituito nel 1951 in seno al Cnrs (equivalente del nostro Cnr) e però fino ad allora posto sotto il patrocinio e il controllo del Primo Ministro. Si interrompe così una tradizione – dedita perlopiù alla memoria gloriosa della Resisten-za – che aveva visto operare, prima del Comité d’Histoire, la Commission d’histoire de l’occupation et de la libération de France, insediata dal Comitato di liberazione naziona-

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di avere riflessi sul piano giuridico: essi sono resi evidenti, in particola-re, nel revirement giurisprudenziale in materia di indennizzabilità delle persone deportate durante l’occupazione nazista, che a partire da pri-me decisioni di diniego fondate sulla dichiarata nullità degli atti di Vi-chy, è infine giunto a riconoscere tali indennizzi sulla base della conti-nuità giuridica tra quel regime e lo Stato francese28.

L’emersione in Francia di queste tematiche, già caratteristiche del-le politiche riparatrici formulate dalle nazioni sconfitte, costituisce un punto di svolta e prefigura la ricomposizione su nuove basi del connu-bio tra diritto e memoria storica. Una diversa configurazione del rap-porto con il passato – che verrà a riflettersi nelle scelte legislative ope-rate in questo campo – consente infatti che l’integrazione nella storia nazionale riguardi non più soltanto “l’urne de’ forti”, ma soggetti il cui titolo eroico proviene dall’essere stati vittime29. A ciò contribuisce il dilagare, nella sensibilità pubblica come nell’approccio storiografico, della vague mémorielle che a partire dal terzultimo decennio del Nove-cento s’era avviata a compenso dell’incrinarsi delle narrazioni ideologi-che e legittimanti, della dissolvenza dei grands récits che ha aperto la via alla postmodernità30. Giunge così il momento in cui s’impone nella

 le nel 1945. Sul punto v. F. Bédarida - J.P. Azema, L’historisation de la Résistance, in Esprit, janvier 1994, 19.

28 Conseil d’État, Assemblée plénière, 12 aprile 2002, in Rev. fran. droit admin., 2002, 582. Il caso riguardava, com’è noto, il ricorso di Maurice Papon, funzionario della prefettura di Lione durante l’occupazione nazista, il quale avendo riportato la condanna (oltre che alla pena detentiva) al risarcimento delle vittime delle persecuzio-ni antisemite e dei loro discendenti, ottenne in giudizio l’accertamento della concor-rente responsabilità dello Stato francese per il ruolo svolto dalle amministrazioni locali negli arresti e nelle deportazioni effettuati dalle forze occupanti. Tale orientamento giurisprudenziale ha avuto più recente conferma nell’avis del 16 febbraio 2009 (M.me Hoffman Glemane, req. n° 315499, in Rev. fran. droit admin, 2009, 316, e in AJDA, 30 mars 2009, 589), con cui il Conseil d’État ha ribadito la responsabilità dello Stato francese per le attività amministrative che hanno permesso e facilitato le operazioni connesse alle deportazioni.

29 Il mutamento di prospettiva (il cui primo innesco può farsi risalire alle reazioni indotte dal processo Eichmann nel 1961) comporta il graduale prevalere della com-memorazione sulla celebrazione come forma pubblica del ricordo. In Francia di ciò è traccia, secondo J. Michel, Gouverner les mémoires, cit., nel transito lessicale dal devoir de souvenir al devoir de mémoire.

30 Punto di emersione e di consolidamento del filone “memoriale” è stato, com’è noto, il conio di una nozione, “luogo di memoria”, poi divenuta categoria storiografica corrente. Secondo P. Nora, “un lieu de mémoire nel pieno senso della parola com-prende dall’oggetto più materiale e concreto, eventualmente situato geograficamente, a quello più astratto e costruito intellettualmente”; in tal senso i luoghi predetti “ten-tano di compensare lo sradicamento storico delle società e l’angoscia del futuro attra-verso la valorizzazione di un passato che fino a quel momento non era stato vissuto come tale” [La mémoire collective, in J. Le Goff (a cura di), La nouvelle histoire, Paris,

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discussione pubblica il tema della memoria, declinata in una pluralità di ricordi traumatici che concorrono e competono nel rivendicare spa-zio e riconoscimento: principalmente, quello dell’Olocausto, matrice di un rinnovato assetto del droit mémorial da quel momento orientato al recupero di accadimenti che si pretendono rimossi, negati, dimenti-cati, e che occorre riportare in piena luce.

3. Il devoir de mémoire e il cantiere legislativo

L’approdo contemporaneo della legislazione memoriale francese,

di cui si è tentato di richiamare le premesse più generali almeno in al-cuni snodi essenziali, è costituito da un gruppo di testi normativi che, sebbene correntemente ricompresi in una categoria unitaria in quanto espressione di orientamenti politici aventi a comune oggetto una “memoria pubblica” da fondare o da preservare, sono in realtà diffe-renziati nel contenuto e nelle finalità. La varietà delle contingenze poli-tiche che ne hanno reso possibile l’adozione è infatti riflessa nel tratto di disomogeneità rilevabile tra le quattro leggi tuttora vigenti, le quali peraltro rappresentano una parte minima di ciò che il corpus normati-vo sarebbe divenuto se la miriade di proposte presentate negli anni (fi-nanche sul “genocidio vandeano”31) fosse giunta all’approvazione par-lamentare: come se il legislatore, al pari del Pantagruel del celebre apo-logo rabelaisiano, avesse dovuto mettersi in ascolto delle voci dégélées provenienti dal mare ghiacciato in cui è rinchiuso il frastuono di anti-che battaglie, e che sciogliendosi tornino a risuonare nell’aria.

Per contro, un comune denominatore della serie legislativa si indi-vidua nella sollecitazione morale espressa in termini di “doverosità” che, ricorrente nelle motivazioni, ha ispirato la redazione dei testi – sempre d’iniziativa parlamentare – e la loro approvazione. Sotto que-sto profilo, il loro esame non pare poter rinunciare ad una lettura dei dispositivi in certa misura inclusiva di un dato culturale e politico, da tenere in considerazione per il suo intreccio con l’aspetto giuridico. Le leggi in questione si presentano infatti come il risultato e, ad un tempo, come il volano del processo tendente ad introdurre nell’agenda legisla-tiva il tema della “memoria collettiva”, che da spazio analitico delle

 1978, 398]. Operazione speculare all’opera dello storico francese è, notoriamente, quella compiuta in Italia da M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, (3 tomi), Roma-Bari, 1996-1997.

31 Proposition de loi relative à la reconnaissance du génocide vendéen de 1793-1794, n°3754, presentata il 27 febbraio 2007 all’Assemblea Nazionale; analoga la Proposition de loi visant à reconnaître officiellement le génocide vendéen de 1793-1794, n° 4441, presentata all’Assemblea Nazionale il 6 marzo 2012.

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scienze storiche e sociali è divenuto, in conseguenza della sua trasposi-zione legislativa, anche spazio giuridico. A questo riguardo non pare esservi dubbio che il postulato di una dimensione non limitata all’individuo bensì anche collettiva del fenomeno memoriale, enuncia-to nel quadro di studi che con varietà di ipotesi ricostruttive e di ap-porti disciplinari ne hanno tracciato il perimetro32, abbia trovato un termine di corrispondenza nella domanda sociale protesa al ricono-scimento, con il suggello della legge statale, dell’esistenza di “comunità memoriali”, ovvero di gruppi la cui identità si fonda sul ricordo condi-viso di fatti storici appartenenti ad un comune passato. Non meno evi-dente è il punto di contatto tra gli esiti dell’interpretazione storiografi-ca e la dinamica degli interessi da comporre nella sfera giuridica, ove si consideri come l’attualizzazione nel presente di tali istanze, coinciden-te con acquisizioni teoriche di quel campo culturale, possa dare origine a rivendicazioni molteplici la cui soddisfazione sul piano del diritto si rivela problematica proprio per la concorrenza delle pretese e per l’anacronismo del loro oggetto33.

Da queste convergenze ed intersezioni tra piani culturali diversi sorge il motivo conduttore e unificante della produzione legislativa, il “dovere di memoria” che ne ha ispirato i singoli capitoli e costituisce il preambolo implicito di ciascuno di essi34. Benché alla formula sia ge-

 32 A partire dall’elaborazione in chiave sociologica del tema della “memoria collet-

tiva” e dei “quadri sociali” che ne sorreggono la rappresentazione, compiuta da M. Halbwachs (Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, 1925; Id., La mémoire collective, Paris, 1950), si sono date del fenomeno ricostruzioni molteplici e da più versanti di-sciplinari. Valgano, tra i molti possibili, i riferimenti alla prospettiva dello storico rap-presentata da P. Nora, La mémoire collective, cit., e a quella di P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, 2000, per il riesame svolto nell’angolazione filosofica delle tesi di Halbwachs (146 ss.), nel quadro di un’analisi della memoria che ne collega il ruolo centrale e costitutivo per l’identità individuale al fenomeno su scala collettiva e in rap-porto all’ordine politico.

33 F. Hartog, Régimes d’historicité, cit., passim, qualifica in termini di presentismo il regime di storicità caratteristico dell’epoca attuale, che ha svolgimento in una di-mensione slegata da radicamenti nel passato e da visioni dell’avvenire, e in quanto tale agevola l’insorgenza di memorie particolari, il loro moltiplicarsi, e la pretesa della loro attualizzazione. Questa trasposizione nel presente di avvenimenti passati può indurre l’illusione che le ingiustizie di tempi lontani possano essere sempre suscettibili di ripa-razione come ogni altro pregiudizio: v. A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Coloni-sation, esclavage, Shoah, Paris, 2008.

34 Esemplificativo del costante ricorso al devoir de mémoire come ad una clausola di stile del linguaggio legislativo in materia è - per limitarsi ad un’iniziativa recente - il progetto di legge presentato all’Assemblea Nazionale nel 2011 (N° 4079), concernente la modifica della loi del 25 ottobre 1919 “relative à la commémoration et la glorifica-tion des morts pour la France au cours de la Grande Guerre”, per trasformare l’11 novembre in giornata commemorativa “des tous le morts pour la France”, “quelque soit la génération du feu dont ils sont issus et le théâtre d’opération sur lequel ils sont

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neralmente attribuita mera valenza politico-simbolica – comunque suf-ficiente ad esporla a critiche severe35 –, essa non è inerte, ma concorre a delimitare e connotare il campo legislativo a cui afferisce. Ciò non tanto per la ragione che il canone della doverosità, ove espresso, po-trebbe assumersi a guisa di enunciato performativo per integrare testi talora consistenti di disposizioni senza norma, o dal contenuto norma-tivo non identificabile; ma in quanto esso non pare riducibile, in ogni caso, ad un’affermazione neutra od inoperante qualora ne venga fatta discendere la primazia dell’interesse pubblico in relazione agli indirizzi o alle modalità della ricerca storica o dell’insegnamento, oppure quan-do l’enunciazione del dovere evoca e promette un corrispondente di-ritto, e rende prospettabile anche il possibile abuso del suo esercizio36.

3.1. La legge sul negazionismo L’intersezione tra diritto e memoria si manifesta in modo esempla-

re in relazione ai crimini del nazismo, benché nelle forme peculiari do-vute alla terribile valenza di “evento fondante in negativo” dell’Olo-causto37. Generalmente, l’intervento giuridico viene qui delineandosi secondo due modalità principali: l’istituzione per legge di giornate che invitano al ricordo, atto di diritto interno sebbene condiviso dalla gran

 intervenus”. È qui da notare come la disposizione, proposta su impulso del presidente Sarkozy, avrebbe paradossalmente finito per vanificare l’intento che – con espresso richiamo al “dovere di memoria” – intendeva perseguire, poiché cancellava ogni rife-rimento specifico agli eventi commemorati nel momento in cui ne proiettava il ricordo su uno schermo indifferenziato e privo di prospettiva storica. Sulla genesi e sull’evoluzione della nozione di cui si tratta, ormai appartenente al vocabolario corren-te come al linguaggio ufficiale, v. O. Lalieu, L’invention du “devoir de mémoire”, in Vingtième Siècle, 69, 2001, 3 ss; S. Ledoux, Écrire un’histoire du “devoir de mémoire”, in Le Débat, 2012, n° 170, 175 ss.

35 La nozione è infatti contestata in nome della “libertà della storia”, ed è dagli storici presa sovente a riferimento per l’affermazione a contrario della propria vocazio-ne scientifica ed identità professionale. Il “dovere di memoria”, da tale punto di vista, sconta l’ambiguità del (o l’equivoco sul) rapporto intercorrente tra il fatto memoriale e la conoscenza storica; esso è, secondo i critici, “ingiunzione alla moda”, “guscio vuoto se non è preceduto da un sapere […]: il dovere di memoria – in ultima analisi – consi-ste in un dovere di storia”: H. Rousso - E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Pa-ris, 1996 (II ed.), 267-286, 396.

36 In un quadro di “concorrenza memoriale”, in cui si confrontano interpretazioni diverse e talora confliggenti della storia (cfr. J.-M. Chaumont, La concurrence des vic-times. Génocide, identité, reconnaissance, Paris, 2002) i rischi di abuso e di strumenta-lizzazione sono particolarmente elevati: T. Todorov, Les abus de la mémoire, Paris, 1995 (trad. it., Milano, 2001).

37 “È l’esperienza di base e la miseria costitutiva del nostro tempo”: H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, Roma, 2001, 103.

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parte dei paesi europei38; e l’adozione di regole che puniscono la nega-zione, la minimizzazione o la giustificazione pubblica dei crimini commessi dal regime nazionalsocialista, inserite in un quadro legislati-vo che attinge a fonti sovranazionali39. A questo schema non fa ecce-zione l’ordinamento francese, che al tema dell’Olocausto dà risalto nel-la duplice modalità della rammemorazione e della previsione di figure criminose riferite alle condotte di tipo negazionista40.

A ben vedere, la differenza sussistente tra il carattere promozionale od esortativo delle misure di un tipo, e obbligatorio dell’altro, è un di-scrimine che riguarda l’intera categoria delle “leggi memoriali” (la cui accezione solita non comprende, nonostante la comune genealogia, i testi normativi il cui solo scopo è di istituire celebrazioni o giornate del ricordo). Il grado di prescrittività le connota infatti diversamente a se-conda che l’anamnesi contemplata all’indirizzo dei consociati vi sia po-sta come oggetto di un imperativo civile (è doveroso ricordare), oppure di vincoli stringenti quanto alle sue modalità (il ricordo va esercitato in un determinato modo). Il carattere della obbligatorietà, munita del di-spositivo penale, ricorre però soltanto per la prima in ordine cronolo-gico delle leggi suddette, quella contro la negazione dell’Olocausto; talché si comprende che essa si sia elevata a ideale paradigma di co-genza normativa del droit memoriel, a cui i successivi interventi legisla-tivi hanno tentato talvolta di conformarsi nel presupposto che la com-piutezza e l’effettività del riconoscimento dei fatti storici “giuridificati” dipendessero dalla loro qualificazione di crimini di lesa umanità41.

 38 Ne è esempio in Italia la legge n. 211 del 20 luglio 2000, che ha istituito una

giornata dedicata al “ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Non ha invece avuto seguito, com’è noto, il disegno di legge che il Governo italiano elaborò nel 2007 per introdurre disposizioni repressive del negazionismo.

39 V. l’accordo quadro del Consiglio UE “sulla lotta al razzismo e alla xenofobia”, entrato in vigore il 28 novembre 2008, che impegna gli Stati membri ad adottare nel diritto interno sanzioni punitive delle condotte consistenti nella “negazione, banalizza-zione o minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e di altri crimini di guerra”. In tema v. E. Fronza, Diritto e memoria, cit., 47; Id., The Punish-ment of Negationism: the Difficult Dialogue between Law and Memory, in 30 Vt. L. Rev., 609 (2006).

40 L’analisi delle reazioni ordinamentali al fenomeno negazionista e delle questioni relative al loro bilanciamento con la libertà di espressione è svolta in questo Volume da C.M. Cascione, Negare le ingiustizie del passato: libertà o divieto?

41 Questa tendenza si è delineata, peraltro, nel già richiamato contesto di “concor-renza memoriale” (o, se si preferisce, “vittimaria”) in cui il modello normativo fondato sulla imprescrittibilità dei crimini pare aver esercitato la sua attrattiva, prima ancora che per le ovvie e concrete implicazioni di diritto sostanziale e processuale, in virtù della proiezione legittimante offerta sul piano politico e simbolico dalla perenne per-seguibilità dei fatti in tal modo tipizzati, e dei vantaggi per così dire “identitari” che

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È evidente che nella singolarità della disciplina anti-négationniste – di cui non occorre ora richiamare le consistenti ragioni storiche e poli-tiche – si rispecchiano le particolari premesse giuridiche che ne fonda-no l’intensità prescrittiva. Se la nozione di “negazionismo” è, infatti, di origine relativamente recente, coniata per designare ed escludere dal campo delle controversie scientifiche le pratiche di ricostruzione stori-ca tendenti a revocare in dubbio o a denegare la realtà dell’Olo-causto42, e teoricamente declinabile in riferimento a diversi del passato di cui si pretendesse di tutelare in modo analogo la verità storica43, l’impianto della legge del 1990 che reprime il relativo fenomeno – la cosiddetta loi Gayssot 44 – ha, per contro, basi scolpite nella “storia giudicata”, poiché individua la propria fonte nelle conclusioni del pro-cesso di Norimberga e si radica sulla verità giudiziaria stabilita in quel-la sede. La stessa tecnica legislativa ne segna la distanza rispetto alle altre lois mémorielles : anziché tradursi, com’è prevalente negli altri ca-si, in enunciati posti a formare paragrafi a sé stanti del “libro delle leg-gi”, le sue disposizioni si sono saldate alla vénérable legge sulla libertà

 determinati gruppi sociali avrebbero potuto trarre dall’effetto di annullamento del di-vario temporale intercorso tra il verificarsi di quei fatti e la vita presente.

42 Sulla genesi e sul significato del termine “negazionismo”, che distingue ed isola le interpretazioni che negano l’esistenza dell’Olocausto rispetto alle forme “legittime” di revisionismo e alle relative metodiche, v. H. Rousso, Négationnisme, in C. Delacroix - F. Dosse - P. Garcia - N. Offenstadt (a cura di), Historiographies, II. Concepts et dé-bats, Paris, 2010, 1119 ss. L’A. (che per primo la introdusse 1987, in Le syndrôme de Vichy, cit.), dà conto della diffusione della nozione in parallelo al fenomeno a cui essa è riferibile nei diversi contesti politico-ideologici, e sottolinea come il negazionismo – veicolo e strumento dell’antisemitismo – vi conservi nelle sue diverse manifestazioni la caratteristica “antinomique d’une démarche scientifique”, affiorante da ricusazioni apodittiche ed argomentazioni fantasiose, mentre “l’amalgame, la métonymie, l’inversione de la charge de la preuve, la répétition d’arguments fossilisés sur plusieurs décennies sont ses figures rhétoriques de prédilection”. Sull’origine e sulla diffusione del fenomeno negazionista nello specifico ambito francese, v. ancora H. Rousso, Les racines du négationnisme en France, in Cités, 2008, 4, 51 ss. Alla più ampia nozione di revisionismo mantiene il riferimento P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, Paris, 2005 (si cita dalla trad. it., Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e sulla Shoah, Roma, 2008, 77 ss., 143 ss.), nel presupposto che vi siano “stanze diverse nella casa revisionista” ed esista-no manifestazioni “assolute” ed altre “relative”, ma non meno insidiose, dello stesso fenomeno..

43 Come si vedrà infra, il convincimento circa la replicabilità del modello antine-gazionista ha costituito il criterio ispiratore della recente iniziativa legislativa - arenata-si dinanzi alla censura del giudice costituzionale nel 2012 - che prevedeva la sanzione del disconoscimento e della minimizzazione del genocidio armeno.

44 Nota anche con il nome del deputato proponente, è la legge n° 90-615 del 13 luglio 1990, “tendant à reprimer tout acte raciste, antisémite ou xénophobe”.

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di stampa del 188145, integrandone gli articoli per affermare la punibi-lità di chi contesti “l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità come definiti dall’articolo 6 dell’accordo di Londra dell’8 agosto 1945”, ovvero dalla matrice pattizia dei Nuremberg Trials 46.

La particolare natura del dispositivo ha fatto sì che la legge contro il negazionismo desse avvio alla discussione, tuttora in atto, sulla com-patibilità dell’intervento normativo che dirime i rapporti tra storia e diritto con le libertà fondamentali che hanno nel discorso storico l’ambito del loro esercizio. In relazione ad essa si sono poste infatti le questioni di fondo poi riemerse ad ogni successiva adozione di leggi “memoriali”, e si sono palesati, più in generale, i nodi problematici del bilanciamento dei diritti incisi dalle iniziative pubbliche in materia di memoria storica. Che il testo legislativo abbia costituito l’essenziale termine di riferimento – non solamente per la priorità temporale dell’approvazione – si comprende agevolmente ove si consideri che le sue disposizioni, nel sanzionare la negazione pubblica dei crimini nazi-sti, intendono preservarne la realtà storica da rappresentazioni dirette a mistificarla; senonché, mentre insediano una storia “ufficiale” o una memoria “legale” di quei crimini, esse vengono in attrito con la libertà di ricerca e di espressione, assoggettandole a limitazioni di cui possono disputarsi la legittimità sul piano costituzionale e la convenienza su quello politico47. È quindi su questi profili, di legittimità e di opportu-nità, che si è principalmente concentrato il giudizio critico di cui la legge è stata fatta segno da parte dei giuristi e degli storici48.

 45 Per un’analisi storico-evolutiva della legge del 1881 v., da ultimo, G. Carcas-

sonne, Les interdits et la liberté d’expression, nei Nouv. Cah. Cons. Const., 2012, 55 ss. La loi Gayssot ha modificato anche alcuni articoli del codice penale.

46 Precisamente, l’art. 24 bis della legge sulla stampa del 1881, introdotto dall’art. 9 della nota legge, punisce (con pene identiche a quelle previste per l’istigazione all’odio o alla discriminazione razziale) “ceux qui contestent l’existence d’un ou plu-sieurs crimes contre l’humanité tels qu’ils ont été définis par l’article 6 du statut du tribunal militaire international annexé à l’accord de Londre du 8 août 1945, et qui ont été commis soit par les membres d’une organisation déclarée criminelle en application de l’article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction française ou internationale”. È utile rammentare, per completezza, che lo Stato francese ha riconosciuto l’imprescrittibilità di tali crimini con la legge n° 64-1326 del 26 dicembre 1964.

47 Ovviamente tali questioni hanno avuto rilevanza non limitata al caso francese, essendosi poste anche nell’esperienza di altri ordinamenti: v., amplius e per ulteriori riferimenti, in questo Volume, C.M. Cascione, Negare le ingiustizie del passato: libertà o divieto?, cit., e L. Cajani, Diritto penale e libertà dello storico.

48 L’inventario delle questioni poste con l’approvazione delle leggi memoriali è svolto, con varietà di approcci, da P. Fraisseix, Le Droit mémoriel, in Rev, fr. droit const., 2006, 483; E. Cartier, Histoire et droit: rivalité ou complémentarité?, ivi, 509; M. Frangi, Les “lois mémorielles”: de l’expression de la volonté générale au législateur histo-

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Secondo un primo ordine di critiche, di graduale radicalità, l’argine alla libertà di espressione costituito da una presunzione assolu-ta concernente la realtà storica determinerebbe condizioni sfavorevoli alla ricerca della verità, come quelle che sovente si instaurano nei re-gimi totalitari attraverso la fissazione di “verità ufficiali”; sicché le leggi sulla memoria storica dovrebbero per loro natura considerarsi estranee alla tradizione democratica. In ogni caso, le restrizioni che esse pongo-no sarebbero in contrasto con i principi codificati a livello sovranazio-nale in tema di diritti umani, oltre che incompatibili con i valori fon-damentali vigenti nell’ordinamento francese attraverso il “blocco di costituzionalità”, da cui la libertà di espressione è identificata come “uno dei diritti più preziosi dell’uomo”49. A ciò si aggiunge che il di-vieto posto dalle norme anti-negazioniste, ad un esame più ravvicinato, risulterebbe irragionevole e sproporzionato se nella sua formulazione (imperniata sulla contestation di quei crimini50) intendesse inibire ogni ricerca, anche quando ne sia il fine quello non di negare i fatti storici riconosciuti per legge, ma di valutare la loro ampiezza o le condizioni di realizzazione51.

D’altra parte, dall’angolo visuale attento anche ai profili di oppor-tunità politica, si sono prospettati i possibili e indesiderati effetti colla-terali della legge in questione, poiché impedendo la pubblica esposi-zione di quelle tesi essa le avrebbe sottratte alle confutazioni scientifi-che, con il risultato di far apparire come vittime ridotte al silenzio i lo-ro assertori e di porli così in una luce di credibilità che altrimenti non avrebbero avuto52. In altre parole, l’imposizione di un’ortodossia sto-

 rien, in Rev. dr. public, 2005, 241; S. Garibian, Pour une lecture juridique des quatre lois “mémorielles”, in Esprit, 2006, 158.

49 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), art. 11. 50 Nei lavori parlamentari è tuttavia delineato con sufficiente chiarezza l’intento

del legislatore di perseguire la negazione tout court – seppure espressa nella forma in-terrogativa della messa in dubbio –, in quanto, come precisato dal Garde des Sceux di-nanzi al Senato l’11 giugno 1990, essa “n’est, aujourd’hui, qu’une expression du raci-sme et le principal vecteur contemporaine de l’antisémitisme”. Sul punto v. A. Don-net, Le délit de révisionnisme. Etude de l’article 9 de la loi française du 13 juillet 1990 tendant à reprimer tout acte raciste, antisémite et xénophobe, ainsi que la jurisprudence antérieure, negli Ann. droit. Louvain, 1993, 423.

51 B. Mathieu, Les lois mémorielles ou la violation de la Constitution par consensus, in Dalloz, 2006, 3001.

52 Il rilievo – presentato come argument consequéntialiste – circa l’inopportunità di introdurre le note disposizioni per il beneficio che paradossalmente avrebbero po-tuto trarne i negazionisti è svolto da M. Troper, La loi Gayssot e la constitution, in An-nales. Histoire, Sciences sociales, 1999, 1239 ss., 1250; l’A. considera tuttavia anche l’argomento inverso, secondo cui mantenere la possibilità di confutare in sede scienti-fica le tesi negazioniste avrebbe potuto valere ad accreditarle come meritevoli di di-scussione. Da parte di altri autori si è auspicata una “revisione della legge sul revisioni-

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riografica ed un erroneo affidamento sul valore pedagogico della legge penale avrebbero potuto proiettare sulla scena pubblica l’immagine accattivante di historiens maudits ed insofferenti dei tabù, mettendo a loro disposizione una tribuna insperata.

Il tenore delle critiche ora riassunte induce ad osservare, innanzi-tutto, come un’opposizione alla legge Gayssot mossa a partire da un concetto della libertà di espressione che la reputi assoluta ed incom-primibile, con uno statuto paragonabile a quello del free speech nor-damericano53, non possa avere base nella realtà degli ordinamenti co-stituzionali europei, i quali, al contrario, circoscrivono e condizionano l’esercizio di questa libertà. La sua ampiezza dunque si misura non dall’assenza di limiti, bensì dall’operatività dei principi che la garanti-scono rispetto a limiti troppo stringenti, e ne ammettono restrizioni solo se determinate dalla legge54. Si è notato, in questa ottica, che le di-sposizioni il cui fine sia quello di reprimere le espressioni suscettibili di provocare indirettamente la commissione di atti criminosi, di suscitar-ne l’ammirazione o di istigare all’odio, non rappresentano un’anomalia nei sistemi democratici, poiché il loro corretto funzionamento è un in-teresse che può ben costituire la ragione di misure legislative dirette a tutelarli rispetto a determinati usi della libertà di espressione55. Ciò consentirebbe – seguendo questa linea interpretativa – di ricondurre la fattispecie disciplinata dalla legge alle figure criminose ispirate dall’odio, e quindi a giustificare la perseguibilità delle tesi negazioniste

 smo” affinché le sue manchevolezze non divenissero argomenti nelle mani di coloro che si intendevano punire: B. Beignier, Réflexions sur la loi du 13 juillet 1990. De la langue perfide délivre moi, in Pouvoir et liberté, Mélanges Mourgeon, Bruxelles, 1998, 57. Tra gli storici è significativa, per l’autorevolezza scientifica e la biografia personale, la contrarietà alla legge espressa da P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, cit.; secondo l’A., la previsione della perseguibilità penale dei negatori dell’Olocausto avrebbe infatti rischiato di trasformarli in martiri. Analoghe considerazioni sono state svolte nel 2007 da un gruppo di storici italiani in reazione alla annunciata introduzione in Italia di una legge contro il negazionismo.

53 Sulla inassimilabilità, con riferimento alla diffusione delle tesi negazioniste, del modello europeo della libertà di espressione a quello consolidato nel sistema costitu-zionale degli Stati Uniti, cfr. R.L. Weaver - N. Delpierre - L. Boissier, Holocaust denial and governmentally declared “truth”: French and American perspectives, in 41 Texas Tech. L. Rev., 495 (2009); M. Imbleau, La négation du Génocide Nazi, Liberté d’ Ex-pression ou crime raciste? Le négationnisme de la Shoah en droit International et compa-ré, Paris, 2003, 78 ss., nonché per ulteriori riferimenti, in questo Volume, C. M. Ca-scione, Negare le ingiustizie del passato: libertà o divieto?, cit.

54 Art. 10 § 2 Cedu. Per una visione generale del problema, A. Pizzorusso, Limiti alla libertà di manifestazione del pensiero derivanti da incompatibilità del pensiero espresso con principi costituzionali, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali. Scritti in memoria di Paolo Barile, Padova, 2003, 651 ss.

55 Cfr. M. Troper, La loi Gayssot et la constitution, cit., 1253.

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non perché siano false, ma in quanto la loro falsità venga considerata parte integrante di un disegno propagandistico di cui non occorre at-tendere gli effetti pregiudizievoli, né stabilire il nesso di causalità con i fatti criminosi che ne possono conseguire. Il fondamento delle norme antinegazioniste sarebbe allora reperibile, più che nei caratteri di uni-cità, originarietà, non comparabilità attribuiti all’Olocausto (i quali si assumono incontrovertibili, e potrebbero tuttavia non ritenersi suffi-cienti a motivare la tutela esclusiva garantita alla sua corretta rappre-sentazione storica), nella stessa specificità del reato costituito dalla sua negazione, nel presupposto che esso si correli, alimentandole, a più generali e diffuse condotte antidemocratiche le quali non sono cessate con l’avvenimento storico tutelato verso le sue contestazioni56. Da que-sta angolazione non solo la liceità del legiferare, ma anche la sua op-portunità è questione che viene a porsi in modo diverso, se il fine è di tutelare l’ordine pubblico e mantenere la pace sociale e non semplice-mente quello di tramandare intatta una memoria.

La ricostruzione ora sommariamente riferita, se per un verso si espone alle critiche mosse in relazione alla carenza di caratteri propri di un diritto penale democratico – frequentemente rilevata con riguar-do alle discipline antinegazioniste57 – e alle più generali riserve suscita-te dal ricorso alle norme penali per affermare una determinata verità

 56 Il reato contemplato dalla legge francese è dunque, a confronto con le analoghe

figure criminose introdotte in altri paesi, di portata più circoscritta, perché riferita ai fatti accertati dalle sentenze di Norimberga, e ad un tempo più ampia, perché prescin-de dal requisito dell’idoneità di turbare l’ordine pubblico, evidentemente data per scontata. Sul punto cfr. M. Troper, La loi Gayssot et la constitution, cit., 1255; S. Garibian, Denying Genocide: Law, Identity and Historical Memory in the Face of Mass Atrocity, in 9 Cardozo J. Conflict Resol. 479 ss. (2008); L. Douglas, Régenter le passeé. Le négationnisme et la liberté d’expression en France, in Le génocide des Juifs entre pro-cès et histoire (a cura di F. Bayard), Paris-Bruxelles, 2000, 213 ss.; P. Wachsmann, Li-berté d’expression et négationnisme, in Rev. trim. droits hom., 2001, 585 ss.

57 La carente offensività e materialità del reato e il valore esclusivamente politico-simbolico delle disposizioni che normalmente lo introducono sono tra le ragioni che si contrappongono all’adozione di leggi antinegazioniste: nella dottrina italiana, v. A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, in Diritto Pubblico Comparato ed europeo, 2006, I, XIII ss. Diversamente, E. Fronza, Diritto e memoria, cit., 48, ritiene che se le norme penali concorrono a “delineare i valori fon-damentali delle società”, costituendo “delle tecniche di tutela di ciò che socialmente si ritiene meritevole di essere collettivamente protetto”, è un dato di realtà la costante invocazione del diritto penale per la tutela del valore-memoria; tanto che dal “binomio diritto memoria” si passa normalmente “al trinomio memoria diritto pena”: Id., Il rea-to di negazionismo e la protezione penale della memoria, in Ragion pratica, 2008, n. 30, 27. In generale, sulla complessità interpretativa delle leggi che puniscono il negazioni-smo, v. M. Manetti, Libertà di pensiero e negazionismo, in Informazione, potere, libertà (a cura di M. Ainis), Torino, 2005, 41.

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attraverso lo strumento legale58, per altro verso ha avuto il pregio, nel dibattito interdisciplinare animatosi intorno alla nota legge, di sottrar-re la libertà di espressione alla concezione monolitica a cui parte delle opinioni l’avevano consegnata e di ricondurla alla dimensione del bi-lanciamento con altri diritti fondamentali. Qui essa subisce limitazioni giustificate dagli effetti che l’esternazione di determinati contenuti sia in grado di produrre, e sorge l’esigenza di tutela dell’onore e della di-gnità dei sopravvissuti e dei loro discendenti, a cui si lega l’interesse pubblico ad affermare l’intangibilità della loro memoria poiché inte-grata nelle basi dell’identità costituzionale europea. In questo quadro, la regola penale si configura nel caso francese – in modo analogo alle opzioni di altri Stati – come lo strumento di massima intensità simboli-ca prescelto per sottrarre una determinata “fattualità storica ai processi naturali di metabolizzazione (e trasformazione) mnemonica” e “conse-gnarla ad un eterno ed immodificabile presente, cercando di lottare contro attività volte alla manipolazione strumentale del passato o all’offuscamento della memoria di eventi e vicende drammatiche”59; ed essa inevitabilmente si carica di una simbolicità tanto più netta mentre si contrappone ad espressioni a loro volta di segno politico-simbolico come quelle di negazione dell’Olocausto60.

A proposito della dimensione simbolica, costitutiva della comples-siva ambientazione in cui hanno vigenza le disposizioni della loi Gays-sot, non pare trascurabile l’indicazione proveniente da un recente pa-rere del Conseil d’État da cui è postulata la sussistenza di un acquis memoriale consolidato. A partire da esso i giudici dell’alta corte hanno potuto fare distinzione tra l’”ordinario” risarcimento dei danni mate-riali e morali subiti da cittadini francesi deportati durante l’Occu-pazione nazista, e il préjudice collective determinato dalle persecuzioni antisemite, per il quale lo Stato francese è tenuto a misure riparatrici in ragione del coinvolgimento dei suoi apparati. Si tratta, all’evidenza, di misure che in ragione dell’incommensurabilità del danno non potreb-bero quantificarsi secondo i criteri consueti dell’indennizzo o del risar-cimento per equivalente. Dunque, “un tel préjudice ne s’indemnise pas”, ma si deve riparare simbolicamente attraverso atti solenni di ri-conoscimento da parte delle istituzioni; atti che, ad una ricognizione dei giudici, risultano essere stati compiuti61, mediante pubbliche decli-

 58 Cfr. E. Fronza, Il negazionismo come reato, Milano, 2012, passim. 59 E. Fronza, Il reato di negazionismo e la protezione penale della memoria, cit., 28. 60 In generale, sul valore simbolico della norma penale si rinvia ai riferimenti in E.

Fronza, Diritto e memoria, cit., 56. Cfr. inoltre E. Stradella, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Torino, 2008, in part. 258 ss.

61 Si tratta dell’avis del 16 febbraio 2009 cit. alla nota 28, reso dal Conseil d’Etat a norma dell’art. L.113-1 del code de justice administrative su istanza del tribunal admi-

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nazioni di quell’imperativo di memoria che in forma più esplicita si so-stanzia nelle lois mémorielles.

Rivolgendo ora uno sguardo d’insieme alle posizioni critiche espresse nei confronti della legge Gayssot, ci si avvede come, per quanto forti di un sostegno dottrinale che – non solo in Francia – ha contestato con molteplici argomenti le ragioni giuridiche e culturali della legislazione repressiva del negazionismo62, queste finora non ab-biano trovato sponda nelle decisioni dei giudici di volta in volta inve-stiti delle questioni relative alla sua applicazione. Mentre il filtro della Cour de cassation ha impedito nel 2010, a vent’anni dall’entrata in vi-gore della legge, che fosse trasmessa al Conseil constitutionnel la que-stione prioritaria della sua costituzionalità63, i profili concernenti la compatibilità con la libertà tutelata dall’art. 10 della Convenzione eu-ropea dei diritti dell’uomo hanno superato dapprima il vaglio del giu-dice nazionale, e poi quello della stessa Corte europea. Il primo le ha ricondotte alle misure necessarie, in una società democratica, a garan-

 nistrative de Paris a cui un ricorrente, discendente di un cittadino deportato ad Au-schwitz con vagoni della SNCF dopo l’internamento in campi di transito in territorio francese, aveva chiesto il riconoscimento dei danni morali e materiali. Nel parere si afferma che le eccezionali sofferenze determinate in Francia dalle persecuzioni antise-mite costituiscono un préjudice collective di entità non risarcibile, la cui riparazione, necessariamente simbolica, ha avuto luogo attraverso alcune misure adottate dai pub-blici poteri: principalmente, l’approvazione parlamentare della legge del 1964 sulla imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, il discorso presidenziale pronunciato nel 1995 in commemorazione dei fatti del Vélodrome d’hiver, e il decreto del 2000 con cui la Fondation pour la mémoire de la Shoah è stato eretto in établissement d’utilité publique. V. il commento di B. Delaunay, La responsabilité de l’État du fait de la dépor-tation de personnes victimes de pérsecutions antisémites, in Rev. fran. droit admin., 2009, 525, e di M. O. Baruch, Réparer l’irréparable. À propos de l’avis rendu le 16 fé-vrier 2009 par le Conseil d’État sur la responsabilité de l’État dans les déportation résul-tant des persécutions antisémites, in Cah. Justice, 2010, 121.

62 La dottrina e la legislazione a questo riguardo divergono in modo significativo, poiché alla messe di rilievi critici formulati dai giuristi di ogni paese fa riscontro l’introduzione di testi repressivi del negazionismo in un numero crescente di Stati, senza considerare le iniziative assunte a livello sovranazionale. Per ampi riferimenti bibliografici e normativi si rinvia, in questo Volume, a C.M. Cascione, Negare le ingiu-stizie del passato: libertà o divieto?, cit., nonché, sulla genesi e sulle attuazioni nazionali della Decisione-quadro dell’Unione Europea sulla lotta contro il razzismo e la xenofo-bia, a L. Cajani, Diritto penale e libertà dello storico.

63 La Corte ha dichiarato in tale circostanza che la repressione della contestazione di uno o più crimini contro l’umanità “ne porte pas atteinte aux principes constitu-tionnels de liberté d’expression et d’opinion”: Cour de cassation, 7 mai 2010, in Rev. trim. dr. civ., 2010, 504, con osservazioni di P. Deumier; nei Cahier. Cons. const., 2010, 256, con osservazioni di P. de Montalivet; in Constitutions, 2010, 366, con nota di A.-M. Le Pourhiet, Politiquement correct mais juridiquement incorrect; v. altresì il com-mento critico (come gli altri ispirato dall’idea di un’occasione perduta) di B. Mathieu, L’abandon des lois mémorielles, in Dalloz, 2008, 3064.

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tire “la protezione dei diritti delle vittime del nazismo per assicurare e preservare il rispetto dovuto alla loro memoria”64; la seconda ha esclu-so dalla tutela apprestata alla libertà di espressione “i fatti chiaramente accertati” come l’Olocausto, e ha anzi ritenuto sussistente l’abuso del diritto nell’invocazione di un diritto fondamentale per compiere atti suscettibili di minare alle basi i diritti e le libertà protetti dalla Con-venzione65.

Il crisma della legittimità democratica è venuto infine alla loi Gays-sot da un altro organismo di giustizia internazionale, il Comitato (oggi Consiglio) per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, a cui si era rivol-to Robert Faurisson, négationniste tra i più noti (se non altro per la sua incessante ricerca di “gloria penale”66), assumendo la violazione dei suoi diritti costituita dalle ripetute condanne riportate per le tesi espresse; benché di rilievo soprattutto politico, la decisione resa ad esi-to di quella procedura si segnala per aver ricondotto – e così omologa-to – il testo legislativo alla lotta contro il razzismo e alla categoria degli strumenti istituzionali a ciò preordinati67.

Grazie alla sua convalida giurisdizionale, la legge contro il nega-zionismo ha dunque potuto radicarsi nel sistema giuridico francese e, a differenza del più fragile attecchimento delle successive leggi sulla memoria, pare esserne stata fin qui assimilata nonostante le polemiche di cui è tuttora oggetto. Può osservarsi, a tal proposito, come la difesa più intransigente della “libertà della storia” rispetto ai vincoli posti  

64 Cour d’appel Paris, 16 dicembre 1998, Garaudy c. Ministère Public, LICRA ed altri.

65 Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Lehideux e Isorni c. Francia, 23 no-vembre 1998, e caso Garaudy c. Francia, 24 giugno 2003, in cui la Corte ha applicato l’art. 17 Cedu precludendo ai ricorrenti di invocare l’art. 10 (v. in tema, adesivamente, M. Levinet, La fermeté bienvenue de la Cour européenne des droits de l’homme face au négationnisme, in Rev. trim. dr. hom., 2004, 653 ss.). Tra i casi significativi si rammenta anche Marais c. Francia, deciso il 24 giugno 1996 dalla Commissione europea dei dirit-ti dell’uomo oggi soppressa, in cui fu respinta la tesi del ricorrente, anch’egli condan-nato in applicazione della loi Gayssot, secondo cui la ricerca scientifica non avrebbe dovuto soggiacere alle restrizioni ammesse per la libertà di espressione dall’art. 10, §2 Cedu.

66 Esponente di spicco del negazionismo, Faurisson è stato protagonista, prima e dopo l’introduzione della loi Gayssot, di una molteplicità di procedimenti giurisdizio-nali nella mutevole veste di imputato, attore, convenuto, ricorrente. Se ne ricordano solo due, tra i più recenti: la causa per diffamazione da lui intentata contro Robert Ba-dinter nel 2007 (i cui atti sono raccolti da B. Jouanneau, Le Justice et l’Histoire face au négationnisme. Au coeur d’un proces, Paris, 2008) e il procedimento a cui è stato sotto-posto nel 2008 dopo aver partecipato alla conferenza internazionale sull’Olocausto tenutasi a Teheran sotto l’egida del governo iraniano e con chiaro intento anti-israeliano.

67 Faurisson v. France, Communication No. 550/1993, U.N. Doc. CCPR/C/58/D/550/1993 (1996).

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dalla loi Gayssot abbia reso un’immagine per certi versi amplificata dell’ingerenza della regola giuridica nell’autonomia della ricerca, che sovente si compendia nell’accusa rivolta al legislatore di aver devoluto alle aule di giustizia l’accertamento della verità storica e di averlo così sottomesso a logiche processuali. L’assunto – forse anche eccessivo se si pone mente alle preclusioni che per lungo tempo hanno limitato il contributo dei tribunali francesi al dibattito storiografico68 – pare semmai individuare, come è stato notato69, un argomento a favore dell’intervento legislativo, se è vero che questo ha sollevato i giudici dal più gravoso ruolo che in mancanza di tali disposizioni avrebbero dovuto assolvere per stabilire la falsità delle affermazioni negazioniste. Al riguardo può infatti constatarsi come la legge di cui si tratta, nel momento in cui definisce il disvalore di un comportamento per il fatto stesso della sua esistenza senza considerarne l’effettiva lesività, abbia segnato il punto finale di un’evoluzione che ha inciso sulle modalità del sindacato giurisdizionale relativo ai reati “ad oggetto storiografico” commessi con il mezzo della stampa. La valutazione del giudice, infat-ti, verteva in origine sulla qualificazione del reato di ingiuria e diffama-zione in base alla razza, introdotto nel 1939 in modifica della legge sul-la stampa del 188170; tale strumento normativo si era però rivelato inef-ficace, poiché non consentiva di perseguire coloro che avessero posto in essere atti di propaganda razzista pur senza proferire affermazioni ingiuriose o diffamatorie. Sorte non molto diversa ha avuto l’ulteriore novella del 1972, che ha aggiunto alla legge sulla stampa la disposizio-

 68 A confronto con altre esperienze, non ultima quella italiana, il ruolo della giuri-

sdizione nella risoluzione di dispute ad oggetto storiografico ha potuto avvalersi in Francia degli spazi di manovra consentiti dalla disposizione, vigente fino a tempi assai recenti, che escludeva l’opponibilità in sede civile e penale dell’exceptio veritatis in re-lazione agli addebiti diffamatori riferiti a fatti risalenti a più di dieci anni addietro. In-trodotta nel 1944 con finalità di riconciliazione nazionale ed incorporata nell’art. 35 lett. c della loi sur la presse del 1881, la norma è stata da ultimo dichiarata costituzio-nalmente illegittima (Conseil constitutionnel, Décision n° 2011-131 QPC del 20 mag-gio 2011). Durante la sua vigenza essa ha avuto applicazione in casi giudiziari di sicuro interesse per il tema dei rapporti tra verità storica e verità giudiziaria, nei quali l’operare di questa preclusione ha fatto sì che fosse enfatizzato il ruolo della prova te-stimoniale della buona fede del convenuto: ad esempio, nell’affaire Papon c. Einaudi (Trib. gr. inst. Paris, 26 maggio 1999, in Les Petites Affiches, 28 mai 1999, n° 106, 21, con nota di D. de Bellescize, Pour la verité, enfin, 24 ss., in cui l’A., al fine di un riequi-librio tra il droit à l’oubli e il devoir de mémoire, auspicava una “exception de recher-che historique” in deroga al divieto di prova della verità nei processi per diffamazio-ne).

69 M. Troper, La loi Gayssot e la constitution, cit., 1252. 70 Si tratta del décret-loi del 21 aprile 1939 (noto come loi Marchandeau), abrogato

l’anno dopo dal regime di Vichy nel quadro della legislazione antisemita e poi riporta-to in vigore con la Liberazione.

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ne punitiva dell’incitamento all’odio e alla discriminazione razziale71; ma, anche così riformulata la legge penale, alle sue maglie poteva an-cora sfuggire una certa pubblicistica che, usando ogni sottigliezza, sa-peva astenersi dall’esprimere sentimenti antisemiti nello stesso mo-mento in cui perentoriamente negava la realtà dell’Olocausto72. Peral-tro, la perseguibilità di queste affermazioni non in quanto espressive della negazione di una verità riconosciuta, ma sotto il solo profilo della loro valenza diffamatoria, comportava che lo scrutinio del giudice do-vesse concentrarsi sul metodo impiegato da chi le aveva prodotte, per accertare l’eventuale inosservanza delle “obligations de prudence, de circonspection objective et de neutralité intellectuelle qui s’imposent au chercheur”73; senza però che il controllo sulla buona fede metodo-logica, esperito in base all’art. 1382 code civil, potesse consentire quel-lo della veridicità delle tesi sostenute74.

Sotto questo aspetto, la legge che ha introdotto il reato di negazio-ne dell’Olocausto si inscrive in una precisa linea evolutiva, colmandovi un vuoto75, mentre la sua applicazione pratica non sembra aver posto realmente in discussione il principio della libertà della ricerca. Le que-stioni che intorno ad essa si sono sviluppate hanno avuto riguardo, certamente, al suo porsi come veicolo dell’incursione giuridica nel dominio del discorso storico, ma forse ancor più alla sua univocità, poiché volta alla punizione dei negatori di un solo crimine.  

71 Art. 23 della loi sur la presse del 1881, come modificata dalla legge n° 72-546 del 1° luglio 1972 “relative à la lutte contre le racisme”.

72 Sulla néantisation come espediente argomentativo a cui gli storici negazionisti hanno fatto ricorso - in nome di un “dubbio scientifico” pretestuosamente invocato – per escludere ogni prova contraria nelle loro esposizioni, v. B. Edelman, L’office du juge et l’histoire, in Droit et societé, 1998, 57.

73 Trib. gr. inst. Paris, 8 juillet 1981 (caso Faurisson), in Dalloz, 1982, con osserva-zioni di B. Edelman, e in Foro it., 1986, IV, 87, con nota di C. Liberati Sciso, Ricerca storica e ‘diritto di mentire’.

74 Non che il controllo sulla scientificità delle affermazioni, anziché sulla loro ve-ridicità, debba considerarsi in linea di principio meno limitante dell’autonomia della ricerca. In questo caso la limitazione può anzi ritenersi ancora più intensa di quella che si ottiene imponendo una determinata verità: v., in questo Volume, le considerazioni di O. Cayla, La madre, il figlio e la piastra elettrica. L’invasività di questo controllo sul metodo, tuttavia, pare doversi contenere nei limiti dati dall’applicarsi del criterio di specialità in materia di abus de la liberté d’expression, che riserva ormai – secondo la giurisprudenza divenuta costante della Cour de cassation – uno spazio solo residuale del diritto comune in materia di responsabilità civile, prevalendo rispetto ad esso nell’applicazione la legge sulla stampa del 1881 ogni volta che l’illecito sia determinato da una delle infrazioni da questa specificamente previste.

75 Un giudizio positivo, a tale proposito, è reso da D. de Bellescize, L’histoire con-frontée à la loi du 29 juillet 1881. La loi sur la liberté de la presse est-elle une entrave à l’expression de la verité historique?, in M. Mathien (a cura di), La Médiatisation de l’Histoire. Ses risques et ses espoir, Bruxelles, 2005, 344.

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3.2. Il riconoscimento del genocidio armeno L’idea che possa essere trasposta nella sfera pubblica una nozione

– quella di memoria – caratteristica di una facoltà soggettiva dell’individuo, e che il ricordo delle atrocità del passato debba essere normativamente presidiato rispetto al pericolo di manipolazioni, po-nendo determinate risultanze storiche a fondamento di una memoria eletta a contenuto di un dovere76, viene recuperata, anni dopo l’entrata in vigore della legge Gayssot, in relazione ad avvenimenti storici ulte-riori. Il precedente della disciplina contro il negazionismo si offre co-me lo schema sperimentato per fissare l’evidenza storica e rendere la qualifica giuridica di ulteriori “pagine nere” della storia, nel presuppo-sto, talora inespresso eppure decisivo, della loro equiparabilità all’Olocausto. A tal fine si fa pressante l’azione di gruppi esponenti di minoranze, di associazioni comunitaristiche, di lobbies operose nel so-stenere le proprie istanze “memoriali” e nel perseguirne il pari ricono-scimento. Secondo le loro attese, il campo legislativo dovrebbe dispor-si alle diverse rivendicazioni – se è lecito avvalersi di un riferimento iconologico – modulandosi come le variazioni di un celebre quadro di René Magritte, La mémoire, esistente in più versioni e con dettagli ogni volta diversi, in cui è però immagine costante e uniforme la personifi-cazione allegorica della memoria77.

L’approvazione nel 2001 della legge sul riconoscimento del génoci-de des arméniens78, avvenimento estraneo alla storia nazionale (ma non alla sensibilità di ambiti parlamentari e di lobbies elettoralistiche), po-

 76 L’espressione ha intanto avuto in quegli anni rinnovata attualità anche attraver-

so il titolo editoriale attribuito ad un libro postumo di Primo Levi, Le devoir de mé-moire, Paris, 1997. Ma dal significato originario, riferito alla testimonianza dei super-stiti dell’Olocausto, essa vira gradualmente in “alienante dogma performativo”, secon-do K. Bertrams - P.-O. de Broux, Du négationnisme au devoir de mémoire: l’histoire est-elle prisonnière ou gardienne de la liberté d’expression? in Rev. dr. ULB, 2007, 78.

77 Nella versione del 1948 della celebre opera di Magritte, conservata al museo d’Ixelles a Bruxelles, è raffigurata una testa femminile forse di gesso, di forme classi-cheggianti, con occhi chiusi e labbra disposte in un impercettibile sorriso, che si staglia su un paesaggio luminoso in cui l’azzurro del mare si congiunge a quello del cielo, dis-seminato di nuvole. La tempia e l’occhio destro sono parzialmente coperti da una macchia di sangue; sul piano di appoggio del volto sono deposti una foglia e un sona-glio bianco. Nelle precedenti versioni figurano oggetti diversi accanto alla testa, di cui non mutano le caratteristiche: in quella del 1942 la scena, senza la foglia, è posta su uno sfondo desertico; nella replica del 1945 la testa assume forme colossali, ed è collo-cata tra un sonaglio e una palizzata che serve da fondale.

78 Legge n° 2001-70 del 29 gennaio 2001. Composta di un solo articolo, essa stabi-lisce che “la Francia riconosce pubblicamente il genocidio armeno del 1915. La pre-sente legge sarà eseguita come legge dello Stato”.

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ne evidentemente la questione memoriale in termini nuovi. Essa intro-duce la qualificazione storico-critica di un crimine perpetrato da un’entità statale non più esistente e del cui accadimento il successore istituzionale (la repubblica turca) nega attivamente la realtà; nel fare ciò, la legge compie un’operazione simbolica e in essa si esaurisce, sen-za annettere effetti giuridici al riconoscimento dichiarato, evocativo, peraltro, di un crimine di cui sono menzionate le vittime, ma non i carnefici. La dimensione extraterritoriale in questo caso assegnata al dovere di memoria79, inoltre, presenta implicazioni di non poco conto sul piano delle relazioni internazionali, tanto più che in Turchia vige, specularmente, una legge che punisce chi sostenga che vi sia stato il genocidio armeno.

Riportare sinteticamente alcuni antefatti sarà utile – a costo di far assumere un andamento cronachistico al nostro discorso – per com-prendere le finalità della legge e il contesto in cui è stata approvata80. Anni prima, nel 1994, era fallito il tentativo di alcune associazioni – processualmente legittimate dalla legge sulla stampa del 1881 – di far condannare come “negazionista”, ai sensi della legge Gayssot, lo stori-co Bernard Lewis, che in un’intervista giornalistica aveva espresso dubbi non sulla realtà delle stragi di cui furono vittime gli Armeni, ma sulla natura intrinsecamente genocidaria di tali misfatti, la cui ricostru-zione storica a suo avviso risentiva della “version arménienne de l’affaire”. Lewis subì il procedimento penale, ma evitò la condanna in quanto la stretta formulazione della legge del 1990 ne impediva l’uso analogico; riportò la condanna in sede civile l’anno seguente, per la re-sponsabilità di aver mancato ai doveri di oggettività e di prudenza pre-scritti dall’art. 1382 del code civil avendo posto in dubbio la natura ge-nocidaria di quell’evento senza menzionare anche le fonti che invece la accreditavano81. Le reazioni alla sentenza da parte della comunità inte-ressata crearono in parlamento condizioni favorevoli alla presentazione del disegno di legge sul riconoscimento del genocidio degli armeni, poi approvato; che però in una versione iniziale prevedeva – à la Gayssot – la sanzione penale per l’ipotesi della sua negazione. La modifica della

 79 Ch. Willmann, Contribution judiciaire au débat sur la Mémoire, in La création du

droit par le juge, Paris, 2007, 195 80 Ma per una più dettagliata ricostruzione della vicenda v., in questo Volume, L.

Cajani, Diritto penale e libertà dello storico. 81 TGI Paris, 21 giugno 1995, in Les petites affiches, 29 settembre 1995, n. 117, 17.

In un caso italiano, alcune fondazioni rappresentative della comunità armena in Italia lamentavano l’omessa menzione del genocidio armeno in un’opera a carattere divulga-tivo. Basata sul diritto all’identità personale, l’azione è stata rigettata: cfr. Trib. Torino, 27 novembre 2008, in Giur. cost., 2009, 5, 3949, con nota di F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la “verità storica”?.

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legge per elevarla a quel livello di tutela è stato poi obiettivo costante di proposte presentate negli anni immediatamente successivi 82.

A voler considerare le differenti premesse delle due discipline, avrebbe dovuto ritenersi impraticabile la trasposizione alla nuova fatti-specie del modello repressivo costituito dalle disposizioni vigenti con-tro il negazionismo. Ma il fatto che ciò sia stato prospettato – e, come si è detto, anche riproposto – dimostra come sia generalmente trascu-rata la distinzione fondamentale che corre tra il negare l’Olocausto, e cioè la realtà dell’evento storico (motivo per cui le relative espressioni si pongono fuori dell’ambito della ricerca storiografica), e il negare un’interpretazione di un dato avvenimento. Nel caso degli Armeni si tratta infatti di questo: nel giudizio storico non si esita a riconoscere che mentre era in corso il primo conflitto mondiale vi siano stati mas-sacri della popolazione armena da parte delle autorità Ottomane; ma si indagano i moventi e la portata di tali atrocità e, per quanto riguarda la loro qualificazione, si pone la questione se esse siano state compiute con l’intento di “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, razziale o religioso”, conformemente alla fattispecie definita dal diritto internazionale pattizio83.

Evidentemente il tema più generale – se il massacro degli Armeni sia coincidente con la nozione di genocidio codificata in relazione all’Olocausto, o se la nozione medesima debba ormai includere anche fenomeni diversamente caratterizzati dal suo originario modello84 – esula dai nostri limiti. Se qui lo si è richiamato è solamente per segna-lare come la legge abbia svolto in Francia una funzione ora regolatrice, ora di innesco delle controversie con implicazioni “identitarie” (nell’accezione victimaire o communautariste), tali da rendere la stessa

 82 Cfr. V. Renaudie, Le parlement français et la contestation publique des crimes

contre l’humanité et du génocide arménien, in Rev, Rech. Jur., 2007, 481; Sull’iniziativa parlamentare francese v. O. Masseret, La reconnaissance par le parlement français du génocide armenien du 1915, in Vingtième Siècle, 2002, 139.

83 Art. 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di geno-cidio approvata dall’ONU nel 1948, ripreso dall’articolo 6 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale del 1998. Nel campo storiografico non mancano tuttavia posizioni secondo cui gli studiosi non dovrebbero lasciarsi orientare nelle loro ricerche da termini, come quello di genocidio, che sono il prodotto di negoziati e compromessi politici: J. Sémelin, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et genocide, Pa-ris, 2005.

84 Una proposta diretta a superare il dibattito, talora sterile, circa la qualificabilità in termini di genocidio di determinati fenomeni contemporanei, e orientata ad intro-durre la nozione più ampia di “crimini atroci” è stata formulata da D. Scheffer, Atroci-ty Crimes Framing the Responsibility to Protect, in 40 Case West. Res. Journ. Int. L., 2008, 110.

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legislazione il terreno conteso da memorie concorrenti in conquista o in difesa del proprio luogo normativo.

La questione del riconoscimento del genocidio armeno (e delle sue modalità) è tornata attuale in prossimità delle ultime elezioni presiden-ziali francesi, quando si è formata in ambito parlamentare l’opinione favorevole ad integrare la qualificazione legislativa già resa con l’ulteriore previsione di sanzioni penali applicabili a chi pubblicamente negasse la realtà storica dell’evento. Immemore – è il caso di dire – di aver approvato le raccomandazioni formulate da una propria commis-sione nel 2008 (su cui infra) circa l’opportunità di non proseguire nell’approvazione di lois memorielles, il parlamento si è quindi dedica-to all’esame e all’approvazione (in prima lettura dall’Assemblea Na-zionale) di una proposta di legge il cui fine, sulla falsariga della loi Gayssot ma con formula perfino più ampia, era quello di reprimere la “contestazione o minimizzazione oltraggiosa [...] di uno o più crimini di genocidio come definiti dall’art. 211.1 del codice penale e ricono-sciuti tali dalla legge”. La disposizione, inserita nel corpo della legge sulla stampa del 1881 con un articolo 24-ter, riservava dunque al legi-slatore ogni potere definitorio, ma combinandosi con la legge del 2001 sul riconoscimento del genocidio armeno ne avrebbe integrato l’articolo unico munendolo della sanzione penale. Ad una rapida oc-chiata, il novellato 24 della legge avrebbe colpito l’attenzione di chi avesse notato tra le sue ramificazioni la rilevanza penale correlata, in un caso, alla negazione di un fatto accertato per via giudiziaria (art. 24-bis), e rimessa, in un altro caso, alla discrezionale definizione legislativa (art. 24-ter). E avrebbe potuto chiedersi se la nuova clausola, preparata per dotare del corredo penale il già vigente riconoscimento del geno-cidio armeno, non fosse anche il possibile varco per una legislazione memoriale-genocidaria a venire, qualora la continenza raccomandata a sé stesso dal legislatore avesse dovuto cedere all’esigenza di enumerare le ingiustizie della storia.

Ma, a seguito di saisine parlementaire, il testo legislativo è caduto sotto i suoi profili d’incostituzionalità. Di questa decisione del giudice costituzionale, che presumibilmente segna l’epilogo della vicenda con-cernente le leggi memoriali francesi85, tratteremo per comodità di esposizione in un successivo paragrafo. Ora occorre, nella ricostruzio-ne fin qui svolta, tornare indietro di qualche anno per soffermarci sull’approvazione degli altri due testi legislativi che esauriscono la serie vigente.

 85 Che la vicenda sia à suivre è tuttavia possibile, poiché entrambi i candidati alle

recenti elezioni presidenziali hanno dichiarato di voler porre mano ad una legge sul genocidio armeno in sostituzione di quella censurata dal giudice costituzionale.

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3.3. La schiavitù e il passato coloniale coloniale tra riparazione e ria-

bilitazione La produzione legislativa memoriale, sospinta da una corrente che

si alimenta anche di una rivisitazione della portata e del significato dei diritti dell’uomo in una dimensione multiculturale86, s’accresce nel 2001 della legge detta Taubira87, le cui disposizioni riconoscono la trat-ta dei neri e la schiavitù (ri)qualificandoli come “crimine contro l’umanità”, e fanno obbligo sia alla scuola sia alla ricerca a dedicare al-la schiavitù “lo spazio che merita”. La formula è, in questo caso, di va-lenza tutta simbolica, non essendovi contemplate norme penali, la cui (imprescrittibile) applicabilità, peraltro, sarebbe stata ardua da conce-pire in relazione ad avvenimenti risalenti a sei secoli addietro. L’evane-scenza del dispositivo non è servita tuttavia ad evitare che ne fossero ravvivate le sempiterne polemiche sul passato coloniale e sul significa-to, civilizzante oppure criminale, che ad esso deve attribuirsi: ciò, ov-viamente, nei modi di una discussione pubblica abituata alla polarizza-zione degli argomenti e caratterizzata dall’assottigliamento dei confini tra la storiografia professionale e quella divulgativa.

Di qui l’approvazione, nel 2005, di un altro testo: la legge detta Mékachéra sulla presenza francese in oltremare88, che come la prece-dente, ma in una visione concorrente o contrapposta, impone – in un primo momento – una valutazione dell’evento storico costituito dal passato coloniale, prescrivendo la menzione nei programmi scolastici del ruolo positivo di tale presenza, specie nell’Africa settentrionale (art. 4); e afferma (art. 5) la riconoscenza della nazione nei confronti dei francesi rapatriés, ponendo il divieto di “qualsiasi ingiuria o diffa-mazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone in ra-

 86 Se ne trova traccia nell’inaugurazione, pochi anni dopo, del nuovo Musée de

l’Homme sul parigino Quai Branly, e nell’epigrafe dettata dal Presidente Chirac, “qui a voulou le musée pour rendre justice aux arts des peuples d’Afrique, d’Asie, d’Océanie et des Amériques en reconnaissance leur place essentielle au sein du patri-moine universel, et contribuer ainsi au développement du dialogue nécessaire entre les culture et les civilisations”. È inoltre degno di nota che, lo stesso anno dell’ap-provazione della loi Taubira, il Consiglio d’Europa raccomanda l’apertura dei pro-grammi scolastici di insegnamento della storia alle civiltà e alle culture extraeuropee.

87 Nota con il nome della proponente, la deputata di origine guyanese Christiane Taubira, è la legge n° 2001-434 del 21 maggio 2001 “tendant à la reconnaissance de la traite et de l’eslavage en tant que crime contre l’humanité”.

88 Legge n° 2005-158 del 23 febbraio 2005, “portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en faveur des Français rapatriés”. L’art. 4 della legge, in par-ticolare, prevedeva che “les programmes scolaires reconnaissent en particulier le rôle positif de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord”.

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gione della loro qualità vera o presunta di harki (i combattenti algerini inquadrati nelle formazioni dell’esercito francese), e di “qualsiasi apo-logia dei crimini commessi contro gli harki e i membri delle formazioni ausiliarie dopo gli accordi di Evian”. Sicché la legge non presidia in questo caso una verità ufficiale, ma la memoria, assieme all’identità personale, di un gruppo di individui marginalizzato nella rappresenta-zione storica nazionale. Scisso ogni riconoscibile legame con il modello normativo costituito dalla loi Gayssot, il duplice intervento legislativo è specchio soprattutto della contesa ideologica tra due gruppi sociali (le minoranze oriunde dell’Impero coloniale da un lato, gli harkis che avevano militato per Algeria francese dall’altro) e frutto delle sempre più energiche spinte “comunitaristiche” affioranti nella società france-se.

Le due leggi, convergenti nel fare leva sulla libertà della ricerca storica e dell’insegnamento in relazione al loro oggetto, ma evidente-mente antagoniste nel rendere la rappresentazione dell’identità nazio-nale nel contesto post-coloniale, hanno avuto, anche per le vicende applicative, notevole risonanza ed innescato reazioni polemiche non limitate agli storici di professione, le quali, pur nella varietà delle posi-zioni espresse, sono servite ad imprimere un’accelerazione al processo di revisione critica della produzione legislativa memoriale.

Il primo testo, la legge Taubira, s’impose alla pubblica attenzione qualche anno dopo la sua approvazione, quando nell’interesse di de-terminate comunità venne promossa un’azione legale verso posizioni storiografiche – espresse dallo storico Olivier Pétré-Grenouilleau – da cui esse ritenevano violata la verità storica canonizzata dalla legge Taubira89. L’iniziativa giudiziaria, benché gli attori vi abbiano poi ri-  

89 O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Paris, 2004. L’opera, insignita del Prix du Sénat du livre d’histoire, fu lo spunto di un’intervista rila-sciata dallo storico al Journal du Dimanche, in cui egli formulava dubbi sulla fondatez-za dell’assimilazione, operata dalla legge Taubira, della tratta schiavista ai crimini con-tro l’umanità, e quindi sulla sua comparabilità all’Olocausto. Lo storico venne denun-ciato per diffamazione di gruppo per aver sostenuto che la tratta degli schiavi non fu né intendeva essere un genocidio, ma una spietata operazione mercantile. Questi si difese affermando che con la qualificazione della schiavitù come crimine contro l’umanità si otteneva non di estendere la portata di questa categoria, ma al contrario di assimilare la schiavitù all’Olocausto così da offuscarne quella unicità che da Norim-berga in poi è stato il punto fermo di molti dibattiti. La precisazione non gli evitò la denuncia per diffamazione razziale e negazione di crimini contro l’umanità da parte di associazioni a cui la stessa legge oggetto delle critiche aveva conferito la legittimazione processuale. L’art. 5 della loi Taubira ha, infatti, aggiunto un articolo 48-1 alla legge sulla stampa del 1881, che nel testo riformulato abilita le associazioni regolarmente costituite ed aventi ad oggetto statutario “de défendre la mémoire des esclaves et l’honneur de leurs descendants, de combattre le racisme ou d’assister les victimes de discrimination fondée sur leur origine nationale, ethnique, raciale ou religieuse”, ad

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nunciato, ebbe l’effetto di rendere consapevoli gli storici di quali im-plicazioni una legge memoriale poteva avere per il loro status profes-sionale e per la loro stessa figura pubblica, dal momento che da esperti indipendenti nei procedimenti in materia di crimini contro l’umanità, com’era avvenuto nel processo Papon, essi potevano ritrovarsi imputa-ti di un reato negazionista, fattispecie prima sanzionata con esclusivo riferimento all’Olocausto.

Sull’altro versante, la violazione della libertà di ricerca e di inse-gnamento compiuta dal legislatore con l’imposizione strumentale di una determinata visione del passato coloniale francese, oggetto di in-terpretazioni storiche tutt’altro che assestate e condivise, suscitava aspre polemiche – ormai montanti verso le lois mémorielles in modo indifferenziato – che si sopivano solo quando la disposizione contesta-ta fu dapprima déclassé dal Conseil constitutionnel nel 2006 (in appli-cazione della procedura di déclassement legislatif prevista dalle dispo-sizioni costituzionali sul riparto di competenze tra potere legislativo e regolamentare), e poi, una volta ridotta al rango regolamentare, abro-gata per decreto lo stesso anno.

Le due vicende segnano il punto di avvio di una mobilitazione pubblica. L’obbligo posto agli insegnanti di illustrare il “ruolo positivo della colonizzazione” viene denunciato da una parte della comunità scientifica e dal movimento di opinione raccoltosi attorno ad una pe-tizione pubblica – prima di una serie90 – come una sostanziale limita-zione della libertà e dell’autonomia dell’insegnamento, che però non è in pari misura ravvisata nel disposto di altre leggi – come l’altra in ma-teria di schiavitù – e non approda alla formulazione di un rifiuto pre-giudiziale di ogni intervento legislativo sulla memoria. Una diversa reazione, indotta dal convincimento dell’incompatibilità di simili di-sposizioni con le libertà democratiche, si caratterizza per il costituirsi di un’associazione professionale il cui statuto rivendica, oltre alla liber-tà di espressione dello storico, l’autonomia scientifica della disciplina rispetto ad ogni funzione teleologica attribuita dai poteri pubblici op-pure derivante dalle domande di comunità e gruppi sociali. Ciò ha  esercitare i diritti riconosciuti alla parte civile nei procedimenti previsti per le infra-zioni alla stessa legge sulla stampa.

90 Promossa da Claude Liauzu e Gérard Noriel e pubblicata su Le Monde il 25 marzo 2005; ad essa fa pendant, su Libération il 13 dicembre 2005, il “manifesto” promosso da 19 storici tra cui Pierre Nora, René Remond, Pierre Vidal-Naquet – “Li-berté per l’histoire” – in cui si ribadiscono l’irriducibilità della storia alla memoria e quella della ricerca storica ad un ambito della politica dello Stato. A questo documen-to fa seguito un appello, sul Nouvel Observateur del 20 dicembre 2005 (“Ne mélan-geons pas tout”, primo firmatario l’avvocato Serge Klarsfeld), in cui si rimprovera ai suoi redattori di aver preso ad unico bersaglio testi normativi tra loro molto diversi, dei quali non tutti è opportuno abrogare, a partire dalla legge antinegazionista.

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inoltre comportato che l’ordine delle critiche prima articolato con pre-valente riferimento ai singoli testi legislativi trovasse espressione com-piuta e radicale nella richiesta di abrogazione di tutte le lois mémoriel-les, e di rinuncia, da parte del parlamento ed anche dell’autorità giudi-ziaria, ad ogni atto di definizione della verità storica91.

4. Il ripensamento parlamentare Dal canto suo il parlamento, affidata la propria replica alla corposa

relazione presentata dalla commissione investita della missione d’indagine “sulle questioni memoriali”92, ha dato seguito solo parziale all’invito rivolto dagli storici, e ha espresso una posizione che se per un verso raccomanda di rinunciare per il futuro a legiferare in un campo rivelatosi così sensibile, per altro verso fa salve le leggi memoriali vi-genti. L’ambivalenza di questo orientamento fa perno, ancora una vol-ta, sul devoir de mémoire, la cui nozione, lungamente esaminata nel documento parlamentare, è assunta quale fondamento di coesione so-ciale e ritenuta estranea alle rivendicazioni memoriali e alle divisioni che ne conseguono.

L’esperienza applicativa, per esplicita ammissione del relatore par-lamentare, è infatti bastata a metterne in evidenza la dubbia compati-bilità con i principi costituzionali sotto più di un profilo: se, per un verso, nell’approvarle il legislatore ha oltrepassato il proprio limite non spettandogli il compito dello storico, la stessa natura dei testi legislati-vi, perlopiù declamatoria e priva di contenuto normativo, è tale da esporli a possibili censure di costituzionalità. Non solo: la tutela di di-ritti fondamentali, correlati alle libertà di manifestazione del pensiero, della scienza e del suo insegnamento, è apparsa in linea di collisione con quegli enunciati legislativi, che tendono a limitare il raggio d’indagine degli storici in ambiti tematici di particolare complessità e

 91 Dalla mobilitazione innescata dalle petizioni pubbliche di cui si è detto è sorta

la costituzione, rispettivamente, del Comité de Vigilance face aux Usages publics de l’Histoire, associazione i cui promotori si propongono l’obiettivo di “faire en sorte que les connaissances et les questionnements que nous produisons soient mis à la disposi-tion de tous”, al fine di “ouvrir une vaste réflexion sur les usages publics de l’histoire, et proposer des solutions qui permettront de résister plus efficacement aux tentatives d’instrumentalisation du passé”), senza respingere in linea di principio l’interevento legislativo in questo ambito; e di Liberté pour l’Histoire, la cui più netta posizione ver-so le leggi memoriali è così espressa dai suoi aderenti: “L’histoire n’est pas un objet juridique. Dans un État libre, il n’appartient ni au Parlement ni à l’autorité judiciaire de définir la vérité historique”.

92 Rapport d’information sur les questions mémorielles, presentata dal Presidente dell’Assemblea Nazionale, B. Accoyer, il 18 novembre 2008.

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talora controversi; i medesimi enunciati, peraltro, nelle mani dei giudi-ci di merito si sono sovente rivelati inidonei a consentire la qualifica-zione del reato e a rendere applicabile il dispositivo sanzionatorio quando previsto, in patente contrasto con il principio di legalità e di certezza del diritto in materia penale. D’altra parte, la stessa imposta-zione “comunitarista” dei provvedimenti vale a porli in attrito con il dettato costituzionale, essendo a questo estraneo – secondo l’interpre-tazione consolidata del Conseil constitutionnel – il riconoscimento di diritti ad isolate formazioni sociali o a gruppi la cui individuazione ri-posi unicamente sulla comunità d’origine, di cultura, di lingua o di credenza religiosa93; per non considerare, infine, la specifica violazione del principio di eguaglianza consistente nel riconoscimento legislativo di alcuni fatti storici e non anche di altri, sebbene in pari misura certi e non contestabili.

Queste sono state, in breve rassegna, le principali ragioni addotte in sede parlamentare per prospettare la definitiva espunzione delle lois memorielles dall’istrumentario legislativo, non sembrando praticabile la più radicale ipotesi dell’abrogazione delle leggi già vigenti per il ri-schio di alimentare dispute storico-politiche a stento sopite e di riapri-re ferite faticosamente cicatrizzate.

Ma il parlamento non intende privarsi della sua “fonction tri-bucienne”. Per tale ragione si è prospettato che l’imperativo di memo-ria possa veicolarsi, se non più mediante la legge primaria, attraverso atti di indirizzo quali le risoluzioni. Scomparse dalla scena costituzio-nale per il ricordo che di sé avevano lasciato durante la III e la IV Re-pubblica94, esse sono state riabilitate con la riforma dell’art. 34-1 della Costituzione e sono pronte per l’uso – résolutions mémorielles, – una volta il legislatore si chiarisca circa gli effetti giuridici che intende an-nettere alle sue iniziative nel campo della memoria.

5. La censura costituzionale Nella vicenda di cui si è tentata fin qui la ricostruzione il punto di

 93 Conseil constitutionnel, Décision n. 99-412 DC del 15 giugno 1999, in materia

di ratifica della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie; il Conseil stabilì in quella occasione che i principi fondamentali enunciati dall’art. 1 della Costituzione “s’opposent à ce que soient reconnus des droits collectifs à quelque groupe que ce soit, défini par une communauté d’origine, de culture, de langue ou de croyance”.

94 Le résolutions, per l’abuso che ne è stato fatto in passato, “des actes précédés par la plus infamante des réputations républicaines”: W. Mastor - J.G. Sorbara, Ré-flexions sur le rôle du Parlement à la lumière de la décision du Conseil constitutionnel sur la contestation des génocide reconnus par la loi, in Rev. fran. dr. adm., 2012, 517.

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svolta è segnato dalla saisine che ha consentito al Conseil constitution-nel di dichiarare non conforme al “blocco di costituzionalità” il pro-getto di legge, approvato nel gennaio 2012 dal Parlamento francese, che mirava ad inserire nella legge sulla stampa il dispositivo di tutela penale contro “contestazione o minimizzazione oltraggiosa” del geno-cidio armeno e di ogni altro consimile evento storico eventualmente individuato dal legislatore.

Dei profili di costituzionalità evidenziati nel ricorso – tra cui si enumeravano la violazione, oltre che della libertà di espressione, spe-cialmente della libertà di ricerca storiografica, del principio di tassati-vità in materia penale, del principio di separazione dei poteri, dei prin-cipi di legalità e proporzionalità dei delitti e delle pene – il giudice si è concentrato sulla competenza del legislatore a “riconoscere” i crimini di genocidio, e solo indirettamente sul contrasto di questa disposizione rispetto alla libertà di espressione95.

A parere del Conseil non è infatti il reato di negazionismo in sé considerato a limitare illegittimamente la libertà di espressione, poiché gli individui possono essere chiamati a rispondere dell’esercizio abusi-vo del diritto di libertà, ed essendo costituzionalmente lecito per pote-re legislativo reprimere gli abusi che rechino offesa “all’ordine pubbli-co o ai diritti dei terzi”, purché queste limitazioni siano “necessarie, adeguate e proporzionate all’obiettivo perseguito”. Quel che è invece costituzionalmente inammissibile è l’assenza di “portata normativa” dell’atto legislativo, che in quanto espressione della volontà generale non può, ai sensi dell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dismettere la sua naturale “vocazione ad enunciare rego-le” giuridicamente vincolanti. In questo senso, una disposizione legi-slativa che abbia per oggetto il mero “riconoscimento “ di un crimine di genocidio è incompatibile con l’ordinamento costituzionale. Per tale ragione il Giudice delle leggi ritiene che il legislatore non possa con-correre a fissare i contorni degli eventi passati, a meno di non travali-care le proprie attribuzioni costituzionali; e riserva implicitamente al solo potere giudiziario l’opera di accertamento della consistenza stori-ca dei fatti, da compiersi attraverso l’art. 24-bis della legge sulla libertà di stampa che, come noto, punisce la condotta di chiunque neghi l’esistenza di quei crimini contro l’umanità per i quali sia stata emessa una condanna in sede giurisdizionale.

Gli spunti di riflessione, a questo proposito, sarebbero molti, spe-cie in relazione alla maggior fiducia che, sembra riposta dall’or-

 95 V. i commenti a prima letturadi P. Puig, La loi peut-elle sanctuariser l’histoire?,

in Rev. trim. civ., 2012, 78; J. Roux, Le Conseil constitutionnel et le génocide armonie: de l’a-normativité ò l’inconstitutionnalité de la loi, in Dalloz, 2012, 987.

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dinamento francese alla ricostruzione storiografica dei giudici piutto-sto che alle dichiarazioni del legislatore.

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NEGARE LE INGIUSTIZIE DEL PASSATO: LIBERTÀ O DIVIETO?

Claudia Morgana Cascione

SOMMARIO: 1. Premessa: luci ed ombre della repressione del negazionismo. – 2. Il ne-gazionismo: da questione sociale a problema giuridico. – 3. Negazionismo e liber-tà di espressione nella Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 4. Il negazionismo al vaglio dei Tribunali costituzionali europei. – 5. Uno sguar-do oltreoceano: l’esperienza canadese. Due sentenze a confronto. – 6. Il diverso approccio della giurisprudenza americana. – 7. Conclusioni.

1. Premessa: luci ed ombre della repressione del negazionismo

Negli ultimi anni si è riacceso nel nostro Paese il dibattito relativo

alla repressione penale del negazionismo1. La recente proposta del Ministro della Giustizia di costituire un gruppo tecnico di lavoro per valutare la “scrittura di una norma che affermi il reato di nega-zionismo”2 ha alimentato il contrasto, peraltro mai sopito, tra coloro che sostengono che la negazione di un evento sommamente ingiusto – quale l’Olocausto – costituisca un attentato a valori fondamentali della democrazia e sia pertanto criminalizzabile3 e coloro che, sul fronte op-posto, contrastano la possibilità di limitare in tal senso la libertà di opinione4.

1 I termini del recente dibattito sono sintetizzati da P. Conti, Il negazionismo un reato penale? Le comunità ebraiche si dividono, in Corriere della Sera, 24 gennaio 2011, 23.

2 Tale proposta è stata lanciata in occasione del Convegno dell’associazione ebrai-ca “Hans Jonas” su “La Shoah e la sua negazione”, organizzato a Roma il 24 gennaio 2011; per le prime reazioni v. Alfano lancia il “reato di negazionismo”, in Il Sole24ore, 25 gennaio 2011, 16; Alfano: “Stiamo lavorando al reato di negazionismo”, in Il Messag-gero, 25 gennaio 2011, 12.

3 I sostenitori di tale impostazione sostengono che il negazionismo costituisca un vero e proprio “assassinio della memoria” (così P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire: un Eichmann de papier et autres essais sur le revisionnisme, Parigi, 1987 (ed. it: Gli assassini della memoria, Roma, 1993) o un “assalto a verità e memoria” (v. D.E. Lipsttadt, Denying the Holocaust. The Growing Assault on Truth and Memory, New York, 1993).

4 In tal senso si consideri altresì che il dibattito in parola si è di recente rivitalizza-to anche al di fuori dei confini nazionali. In Francia ha suscitato grande clamore la re-cente sentenza del tribunale costituzionale (Cons. Const., 28 febbraio 2012 DC, in Les Petit Affiches, 6 avril 2012, n. 70, 11, con commento di J.P. Camby, La loi et le néga-tionnisme: de l’exploitation de l’histoire au droit au débat sur l’histoire) che ha dichiara-to incostituzionale l’ultima delle leggi repressive della contestazione dei genocidi, quel-la approvata dal Parlamento francese il 23 gennaio 2012 (n. 2012-647).

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Non è la prima volta che in Italia, anche per l’esigenza di adempie-re agli obblighi comunitari, viene valutata l’opportunità e la legittimità della criminalizzazione della negazione della Shoah; anzi, periodica-mente, il tema diviene all’ordine del giorno nell’agenda politica e par-lamentare. Già nel 2007, infatti, un comunicato stampa aveva dato no-tizia di un disegno di legge per introdurre “una tutela anticipata e raf-forzata per contrastare l’istigazione ai crimini contro l’umanità”5.

Oggi come allora, le iniziative volte all’introduzione della repres-sione penale del negazionismo sono state accompagnate da accese di-scussioni e da decise prese di posizione in prospettive spesso opposte e diametralmente contrastanti6.

Da una parte, infatti, si sottolinea la necessità che il nostro paese si allinei agli altri Stati europei che, fin dagli anni ’90, hanno crimi-nalizzato, pur nella diversità dei modi, la c.d. Auschwitzlüge7. In tal senso, si evidenzia la necessità – anche a fronte dell’incremento di fe-nomeni di razzismo e xenofobia – di rispettare la verità, la memoria storica e la dignità delle persone offese dai crimini contro l’umanità.

5 Nella bozza di articolato del ‘d.d.l. Mastella’, approvato all’unanimità dal Consi-

glio dei ministri il 24 gennaio 2007, pur non facendosi espressamente riferimento al negazionismo della Shoah, si prevedeva la repressione dei “delitti di istigazione a commettere crimini contro l’umanità e di apologia dei crimini contro l’umanità”. Il disegno di legge, che suscitò accese polemiche tra numerosi storici italiani, che sotto-scrissero un “Manifesto di critica” (per cui v. il commento di S. Rodotà, Negazionisti in libertà. La libertà della menzogna, in La Repubblica, 26 gennaio 2007) non è stato mai tradotto in legge.

6 Si consideri, inoltre, che nel nostro ordinamento, pur in assenza di una espressa previsione in materia di negazionismo, non pochi problemi sono sorti in relazione all’interpretazione di talune norme penali in rapporto alla libertà di opinione. Il rife-rimento è, innanzitutto, al delitto di istigazione al razzismo di cui all’art. 3, c.1, l. 13 ottobre 1975, n. 654, come modificato dalla l. 205/2003 (c.d. Legge Mancino) e poi novellato dall’art. 13 della l. 13 febbraio 2006, n. 85 che oggi punisce “chi propaganda idee fondate sull’odio razziale o etnico”. Tale norma, pur in assenza di una pronuncia della Corte costituzionale sul punto, ha diviso la dottrina per quel che concerne la sua legittimità. Per una ricostruzione del problema e delle opposte tesi si rinvia a L. Scaf-fardi, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Padova, 2009, spec. 201-207. V. anche A. Ambrosi, Libertà di pensiero e manifestazioni di opi-nioni razziste e xenofobe, in Quad. Cost., 2008, 519 ss.

Inoltre, nel nostro ordinamento vi è una fattispecie incriminatrice che, pur non del tutto assimilabile al modello tipico del reato di negazionismo così come configura-to negli altri paesi europei, persegue tuttavia finalità politico criminali molto simili: si allude al delitto di apologia di genocidio, introdotto dall’art. 8, 2° comma, della l. 9 ottobre 1967 n. 962, in attuazione della Convenzione internazionale per la prevenzio-ne e repressione del delitto di genocidio approvata dall’Assemblea generale O.N.U il 9 dicembre 1948. Sul punto v. C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, Tori-no, 2008.

7 Come si vedrà, infra, par. 2.

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D’altra parte, invece, si contrappone la pretesa illegittimità delle nor-me repressive del negazionismo in quanto tendenti ad imporre una ‘verità di Stato’ (rectius, una ricostruzione ufficiale di determinati eventi storici). Di conseguenza, esse si porrebbero in aperto contrasto con talune libertà costituzionalmente garantite ed, in primis, la libertà di espressione8.

In tale ottica, una riflessione sull’opportunità della repressione pe-nale del negazionismo – che costituisce una ‘costola’ del più ampio di-battito circa i rapporti e le intersezioni tra storia, memoria e diritto9 – può essere condotta premettendo una disamina, in chiave comparati-stica, delle soluzioni che sono state fornite oltralpe ed oltreoceano per risolvere il delicato rapporto tra punizione del negazionismo e libertà di manifestazione del pensiero10.

2. Il negazionismo: da questione sociale a problema giuridico

Il termine “negazionismo” è di formazione piuttosto recente. Esso

8 I termini del dibattito possono essere efficacemente resi attraverso la contrappo-

sizione tra Dignity e Liberty, quali valori caratterizzanti i due diversi approcci al pro-blema del negazionismo, per cui v. G. E. Carmi, Dignity versus Liberty: The two We-stern Cultures of Free Speech, in 26 B.U. Int’l L.J. 277 (2008) e J.C. Knechtle, Holo-caust Denial and the Concept of Dignity in the European Union, in 36 Fla. St. U.L. Rev. 41 (2008) secondo cui il dibattito in parola è caratterizzato da due principali schieramenti: “(1) those who favor the protection of the individual's right to speak over the protection of group and/or individual dignity; and (2) those who feel that the fundamental right to free speech must be curtailed with respect to hate speech in order to protect the group and the individual dignity of traditionally disadvantaged minority groups”.

9 Sui rapporti tra storia, memoria e diritto e, più in generale, sulla ‘giuridificazione del-la storia’ si rinvia a G. Resta - V. Zeno Zencovich, La storia “giuridificata”, in questo Volu-me. Può qui considerarsi che il negazionismo si inserisce in maniera del tutto peculiare nell’ambito delle intersezioni tra memoria e diritto. In particolare, con l’istituzione di ‘gior-nate della memoria’ (su cui v. l’ampia riflessione di A. Pugiotto, Quando (e perché) la me-moria si fa legge, in Quad. Cost., 2009, 7 ss.), gli Stati o gli organismi sopranazionali, dedi-cando alcune giornate al ricordo, affermano pubblicamente la necessità di ricordare un de-terminato evento; invece, attraverso la repressione della negazione dei genocidi, gli Stati, accogliendo una determinata ricostruzione del passato comunemente condivisa, impongo-no l’imperativo we need to remember in a certain way. Così, criticamente, E. Fronza, The Punishment of Negationism: the Difficult Dialogue between Law and Memory, in 30 Vt. L. Rev. 609 (2006).

10 Una ricostruzione in tal senso è già svolta da J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, Working paper n. 121, Dipartimento di politiche pubbliche e scelte collettive – POLIS, Università del Piemonte orientale, ‘Amedeo Avogadro’, Alessandria, 2008 consultabile sul sito http://polis.unipmn.it/-pubbl/RePEc/uca/ucapdv/luther121.pdf.

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è stato, infatti, utilizzato per la prima volta da H. Rousso ne La syn-drome de Vichy nel 198711 per identificare, nell’ampia gamma delle condotte revisioniste, gli atti e comportamenti tesi a negare l’esistenza del genocidio e di altri crimini contro l’umanità, percepiti come fatti di massima ingiustizia12.

È evidente allora che, sebbene il termine sia nuovo, le condotte ri-conducibili al negazionismo sono ben più risalenti: gli stessi nazisti, in-fatti, sono stati i primi a negare la Shoah e a denunciare come assolu-tamente infondate le informazioni divulgate dagli stranieri sui campi di concentramento e le camere a gas.

Inoltre, a soli due anni dal processo di Norimberga, iniziò a circo-lare un libro dal titolo eloquente “Nuremberg ou la Terre Promise” in cui l’autore, Bardèche, pur specificando nell’incipit di non voler fare una difesa d’ufficio della Germania, intendeva denunciare “una falsifi-cazione della storia operata dal 1945 dai vincitori della guerra” e sfata-re “i miti della Gestapo e delle camere a gas”13.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi a dismisura, citando libri, convegni, articoli, personalità di spicco che hanno costellato una vulgata i cui ‘pilastri’ fondamentali14 sono stati emblematicamente riassunti da R. Faurisson15.

11 H. Rousso, La syndrome de Vichy, Parigi, 1987, 151. 12 Da allora con il termine negazionismo si identifica una corrente antistorica e an-

tiscientifica che non si limita a reinterpretare alcuni fatti della storia contemporanea, ma si spinge fino a negarne l’esistenza: Rousso, infatti, tendeva a creare una chiara di-stinzione tra i negazionisti, da un lato, che mirano a rappresentare falsificazioni di fatti storici e, dall’altro, gli storici (i revisionisti) che usano un rigoroso metodo scientifico per analizzare, spiegare ed aggiornare la ricostruzione di determinati eventi della storia con informazioni di nuova scoperta.

13 M. Bardeche, Nuremberg ou la Terre Promise, Paris, 1948. Senza poter qui analizzare nello specifico il fenomeno che va sotto il nome di

‘proto-negazionismo’, ossia gli albori del negazionismo, comunemente fissati nei primi anni del secondo dopoguerra, si rinvia, per una visione d’insieme, a N. Fresco, Nou-veaux visages du vieil antisémitisme, in Actes Du Colloque De La Cour D’appel De Paris 17–36, consultabile sul sito http://digbig.com/4qhhx, nonché a A. Di Giovine, Il pas-sato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, in Diritto Pubblico Com-parato ed europeo, 2006, I, XIII ss.

14 I principi che costituiscono il ‘credo’ della vulgata negazionista sono schematica-mente riportati da N. Fresco, Nouveaux visages du vieil antisémitisme, cit., 30 e qui si riportano sinteticamente per comodità espositiva: 1. Le camere a gas non sono mai esisti-te; 2. Il genocidio non ha mai avuto luogo e Hitler non ha mai ordinato stermini sulla base di motivi razziali o religiosi; 3. La ‘menzogna delle camere a gas’ ha permesso una gigantesca truffa politico-finanziaria, di cui il principale beneficiario è stato lo stato di Israele; 4. Le vittime di tale truffa sono state il popolo tedesco e il popolo palestinese; 5. La forza colossale dei mezzi di informazione ufficiali ha assicurato il successo di tale menzogna e ha censurato la libertà di espressione di chi voleva smascherarla.

15 Robert Faurisson, protagonista anche di un’interessante vicenda giudiziaria (su cui si tornerà, infra par. 3), si segnala, nel panorama dei negazionisti, perché si fece

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Tali principi, tali personalità (al pari di quelle di D. Irving16, R. Garaudy17, E. Zundel18) hanno da sempre suscitato vivaci reazioni nell’opinione pubblica e hanno indotto a decise prese di posizione da parte dei Governi nazionali e delle autorità sovranazionali, in un senso che può essere definito “antinegazionista”, volto, cioè a privare di ogni giustificazione morale e giuridica ogni condotta consistente nella nega-zione della Shoah.

Il negazionismo, in breve, si è trasformato da questione sociale a questione politica, per poi diventare un vero e proprio problema giu-ridico che ha interessato le Corti dei paesi europei ed extraeuropei, nonché gli organi di giustizia comunitaria.

Prima di analizzare, nello specifico, le conclusioni, non sempre omogenee, raggiunte dai Tribunali, è bene considerare sullo sfondo che il negazionismo rileva per il giurista almeno in una triplice pro-spettiva:

a) In primo luogo, sotto il profilo del diritto penale, si pone, come già accennato, il problema di definire e delimitare le condotte punibili. Infatti, i reati di negazionismo, al pari dei tanto discussi ‘reati di opi-nione’, configurandosi come reati di pericolo astratto, pongono il pre-liminare problema del rispetto di alcuni principi fondamentali del di-ritto penale come il principio di offensività del reato e il principio dell’extrema ratio delle norme incriminatrici19. caposcuola di una storiografia con l’obiettivo di porsi non più come “una minoritaria storiografia dei vinti, ma di una storiografia per tutti, elaborata sine ira ac studio”. Così A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, cit., XV. Infatti “malgrado i negazionisti abbiano sempre cercato di presentarsi non tanto come una setta di fanatici pubblicisti antisemiti, bensì come una ‘scuola’ di ricerca sto-rica evolutasi nel corso degli anni e politicamente neutrale, l’unica periodizzazione ac-cettabile è data dall’azione di decisivo spartiacque svolta da R. Faurisson alla fine degli anni Settanta”. Così F. Germinario, Estranei alla democrazia, Pisa, 2001.

16 David Irving, di recente condannato dai tribunali austriaci a tre anni di reclu-sione per il reato di negazionismo, è stato altresì oggetto di un’interessante vicenda giudiziaria che lo ha visto contrapposto a D. Lipstadt, autrice del già citato Denying the Holocaust. The Growing Assault on Truth and Memory è (v. supra n. 3)alla casa editrice del libro. V. David Irving v. Penguin Books and Deborah Lipstadt, per cui si rinvia al sito http://www.holocaustdenialontrial.org/en/trial.

17 V. infra par. 2. 18 V. infra par. 4. 19 Le ragioni che, sotto il profilo del diritto penale, ostano alla repressione del ne-

gazionismo sono sintetizzate da A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, cit. XXVI: “a) le norme che incriminano il negazionismo si pre-sentano dubbie sotto il profilo della materialità e si rivelano carenti sul piano dell’offensività, apparendo quindi incompatibili con il diritto di uno Stato democratico; b) la tutela penale è collocata in un momento talmente arretrato rispetto al pericolo che è dif-ficile ipotizzare la realizzazione di un evento lesivo, ma posto che il diritto penale non può curarsi delle ideologie se esse non si traducono in un inizio di attività esecutiva del tentativo

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A prescindere da tali considerazioni di carattere generale – a cui si può solo far cenno in questa sede – deve tuttavia considerarsi che mol-ti Stati dell’Europa Continentale a partire dagli anni ’90, hanno novel-lato la propria legislazione penale, introducendo il reato di negazioni-smo20.

di una lesione dei beni, occorre che i delitti di negazionismo siano strutturati almeno in chiave di pericolo concreto; c) con l’individuare l’ordine pubblico o la pace pubblica come beni offesi non solo si surroga l’assenza di un immediato referente di lesività, ma si utilizza-no concetti non neutri, prodotto di valori ideologici; d) è difficile distinguere tra fatto e opinione, accertare la verità oggettiva, storica rispetto a quella legale; e) la lesione dell’onore è difficile da determinare nei confronti di una collettività dai confini indeterminati; f) quella antinegazionista è una tipica legislazione simbolica, strutturata in chiave amico/nemico, che persegue le persone e non i fatti, così aprendosi a un diritto penale soggettivo privo dell’elemento dell’offesa e allontanandosi dai principi di obbiettivizzazione, sussidiarietà, offensività, tipicità e materialità; g) si tratta di puri reati di opinione, di reati di pura condot-ta senza pericolo di evento”. Inoltre, una delle principali obiezioni che viene mossa alla criminalizzazione del negazionismo sta nella asserita non necessità dell’intervento del legi-slatore penale in questo campo, là dove sarebbero sufficienti sanzioni amministrative, oltre ad azioni positive di informazione e formazione. V., sul punto, E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1034 ss.

20 Senza pretese di esaustività, a tacer di quelle che saranno meglio in seguito ana-lizzate, possono passarsi brevemente in rassegna le principali norme Europee repressi-ve del negazionismo.

In Austria nel 1992, con una modifica alla legge sul partito nazionalsocialista, è stato introdotto il § 3h che punisce “chiunque con un’opera di stampa, in radiotelevisione o per mezzo di altro mezzo di comunicazione di massa o in altro modo pubblico accessibile a una moltitudine di persone nega, banalizza grossolanamente, apprezza o cerca di giustificare il genocidio nazionalsocialista o altri reati contro l’umanità”.

In Svizzera, nel 1994, a seguito di referendum, è stato novellato il codice penale attraverso l’introduzione del reato di ‘discriminazione razziale’ di cui all’art. 261 bis; tra le condotte prese in considerazione dalla norma, è espressamente prevista la puni-zione di “chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una per-sona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ra-gioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità”.

I ‘nuovi’ codici penali di Spagna e Portogallo contemplano esplicitamente – agli artt. 607 c.2 e 240 c.2. – la repressione del negazionismo. Per una più ampia disamina v. J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit.

Inoltre, può segnalarsi che in quattro Stati, la negazione dei crimini commessi dai regimi totalitari è penalizzata in forza di norme nazionali che contemplano esplicita-mente i crimini perpetrati dai regimi totalitari comunisti, accanto a quelli perpetrati dai nazisti. Sul punto si rinvia a La memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa, Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, 22-12-2010, COM (2010) 783, consultabile sul sito http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=-COM:2010:0783:FIN:IT:PDF. In particolare:

Nella Repubblica Ceca, il codice penale individua una fattispecie di reato nel fatto di negare, mettere in dubbio, approvare o cercare di giustificare pubblicamente il genocidio

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Emblematica in tal senso è, innanzitutto, l’esperienza della Ger-mania, ove la repressione penale del negazionismo è ruotata intorno al § 130 cod. pen. (Volksverhetzung), prima interpretato estensivamente e poi modificato fino a contemplare espressamente, tra le condotte punibili, la negazione e la minimizzazione del genocidio21.

Anche in Francia, la prima delle lois mémorielles22, la ‘Loi Gayssot’ del 1990, attraverso l’introduzione dell’art. 24 bis nella legge sulla stampa del 1881, ha espressamente contemplato la repressione penale della “contestazione dell’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità”23; da ultimo, il c. 2 dell’art. 607 del ‘nuovo’ codice penale

nazista o comunista o altri crimini contro l'umanità perpetrati da questi regimi (Nuovo co-dice penale, in vigore dal 1° gennaio 2010, capitolo 405).

In Polonia è reato negare pubblicamente o in modo controfattuale i crimini nazisti, comunisti, i crimini di guerra o qualsiasi altro crimine contro la pace e l’umanità (Articolo 55 della legge che istituisce l’Istituto della memoria nazionale - Commissione per la perse-cuzione dei crimini contro la nazione polacca, del 18 dicembre 1998).

In Ungheria è reato negare, mettere in questione o minimizzare pubblicamente il ge-nocidio o qualsiasi altro crimine contro l’umanità commesso dai regimi socialista e comuni-sta (Emendamento al codice penale in vigore dal 24 luglio 2010).

In Lituania è reato la pubblica apologia, negazione o minimizzazione grossolana dei crimini internazionali e reati commessi dall’Unione Sovietica o dalla Germania nazista con-tro la Repubblica di Lituania o i suoi cittadini (Articolo 170 del codice penale).

21 Su cui si tornerà, infra, par. 4. 22 La loi Gayssot rappresenta la prima delle “lois mémorielles” per cui, senza pretese di

esaustività, si rinvia, per una visione d’insieme, a Les «lois mémorielles», dos-sier consultabile sul sito della Documentation française (http://www.ladocumentation-francaise.fr/dossiers/loi-memoire/loimemorielles.shtml); nonché A propos des lois mémo-rielles, dossier de l’Observatoire du communautarisme, consultabile sul sito http://www.communautarisme.net/A-propos-des-lois-memorielles_a658.html.

23 L’art. 24 bis, introdotto dalla loi n. 90-615 del 13 luglio 1990 (detta ‘loi Gayssot’ dal nome del parlamentare che l’ha proposta, in Bullettin Officiel du Ministre de la Justice, n° 39 del 30 settembre 1990, Circulaire CRIM 90-09 F1 del 27 agosto 1990) prevede che “ceux qui auront contesté... l’existence d'un ou plusieurs crimes contre l’humanité tels qu’ils sont définis par l’article 6 du statut de tribunal militaire interna-tional annexé à l’accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d’une organisation criminelle en application de l’article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction française ou interna-tionale”.

Il Bulletin Officiel precisa: “Le nouveau délit est soumis au régime juridique des infractions de presse, notamment en ce qui concerne le délai de prescription. Les pé-nalités encourus sont un emprisonnement de un mois à un a net une amende de 2000 F à 300.000 F (reference au sixième alineà de l’article 24). Des peines complémen-taires peuvent être prononcées: l’affichage de la décision, la publication de celle-ci ou l’insertion d’un communiqué”.

L’entrata in vigore della loi Gayssot è stata fortemente avversata da chi riteneva conducesse ad una reintroduzione in Francia dei delitti di opinione banditi nel 1789 dall’art. 10 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (v. J.-Ph. Feld-man, Le délit de contestation de crimes contre l’humanité et la 17e chambre du tribunal

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spagnolo ha previsto la punibilità delle condotte consistenti nella dif-fusione di idee che neghino o giustifichino il genocidio24 (tale norma, di recente, ha costituito l’oggetto di un interessante e non incontestato giudizio di legittimità costituzionale25).

Infine, a livello sovranazionale, non sono mancate iniziative in tal senso: l’Unione Europea, con l’accordo quadro del Consiglio UE sulla lotta al razzismo e alla xenofobia, entrato in vigore il 28.11.2008, ha previsto l’obbligo per gli Stati membri di punire le condotte consisten-ti nella “negazione, banalizzazione o minimizzazione dei crimini di ge-nocidio, dei crimini contro l’umanità e di altri crimini di guerra”26.

b) Ad un secondo livello (che è strettamente connesso con il pri-mo) – sotto il profilo del diritto costituzionale – il problema è quello di verificare se la repressione penale del negazionismo sia legittima, ovve-ro urti contro alcune garanzie costituzionali, quali la libertà di espres-sione e la libertà di ricerca storica27. Più in chiaro, occorre criticamente

de grande instance de Paris, in Dalloz, 1999, 9; B. Chantebout, La Constitution fran-çaise. Proposition pour un débat, in Dalloz, 1992, 115). Sul punto v. altresì le conclu-sioni di Cass. 17 giugno 1996, in Rev. sc. crim., 1998, 577.

È emblematico, comunque, che in Francia vi sia stato un notevole aumento delle controversie aventi come convenuti storici o autori di opere a carattere storiografico. Basti ricordare i casi Papon c. Jean Luc Einaudi (TGI Paris, 26 marzo 1999, in Les peti-tes affiches, n. 106, 1999, 21), Aubrac c. Chauvy (TGI Paris, 2 aprile 1998, in Les peti-tes affiches, n. 85, 1998, 24), Forum des Association Arméniennes de France c. Lewis (TGI Paris, 21 giugno 1995, in Les petites affiches, n. 117, 1995, 17), già citati da G. Resta – V. Zeno-Zencovich, La storia ‘giuridificata’, in questo Volume.

24 Il c. 2 dell’art. 607 del codice penale spagnolo, entrato in vigore con Ley orga-nica 10/1995 del 23 novembre 1995, inserito nella norma sul genocidio dispone “La difusión por qualquier medio de ideas o doctrinas que nieguen o justifiquen los delitos tipificados en el apartado anterior de este artìculo, o pretendan la rehabilitación de regi-menes o instituziones que amparen prácticas generadores de los mismos, se castigare con la pena de prisión de uno a dos anõs”.

25 Su cui a breve si tornerà, infra, par. 4. 26 L’accordo è stato approvato in via definitiva a seguito di una genesi non incon-

trastata: per una ricostruzione in tal senso v. L. Cajani, Historians between Memory Wars and Criminal Law: the Case of European Union, in Jahrbuch - Yearbook - Annales International Society for History Didactics, XXIX - XXX (2008-2009), 39 – 55.

Inoltre, già con l’Azione comune adottata dal Consiglio il 15 luglio 1996, l’Unione aveva sollecitato gli Stati membri a reprimere “la negazione pubblica dei crimini defi-niti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga”.

27 Il rapporto negazionismo/libertà di espressione ha costituito il punto cruciale attorno a cui è ruotata la discussione sulla repressione penale della negazione del ge-nocidio. Senza poter qui menzionare tutti i contributi in cui è stata presa posizione sull’argomento, può rinviarsi, esemplificativamente, per un esame delle opposte argo-mentazioni, all’interessante dibattito che si è svolto sulle pagine della Vermont Law Review tra E. Fronza, The Punishment of Negationism: the Difficult Dialogue between Law and Memory, cit. e P. Bloch, Response to Professor Fronza’s the Punishment of Negationism, in 30 Vt. Law Rev. 627 (2006).

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chiedersi se chi nega, pubblicamente, con comportamenti o discorsi, l’esistenza di fatti di massima ingiustizia, storicamente accertati, com-metta un reato ovvero eserciti il suo diritto costituzionale a manifestare liberamente il proprio pensiero. La risposta a tale cruciale interrogati-vo passa, naturalmente, attraverso una più profonda riflessione circa l’ampiezza e, di conseguenza, i limiti alla libertà di espressione28 e non può essere fornita senza considerare sullo sfondo gli opposti orienta-menti espressi sul punto dagli ordinamenti di common e civil law29(da cui dipendono, di conseguenza, le soluzioni antitetiche fornite al pro-blema del negazionismo30).

28 Infatti, una delle argomentazioni generalmente addotte per giustificare le leggi

sul negazionismo è il carattere non illimitato o assoluto delle libertà costituzional -mente garantite e, in particolare, della libertà di espressione, la quale è soggetta a limi-tazioni necessarie per la tutela di altri diritti. Sul punto v., con particolare riguardo all’esperienza francese, S. Garibian, Denying Genocide: Law, Identity and Historical Memory in the Face of Mass Atrocity Conference: Taking Denial Seriously: Genocide Denial and Freedom of Speech in the French Law, in 9 Cardozo J. Conflict Resol. 479 (2008).

29 Senza pretese di esaustività si rinvia, per un’ introduzione generale al tema della libertà di espressione in prospettiva comparatistica a R. Herrera, Freedom of speech in Europe, in European and American Constitutionalism (a cura di G. Nolte), Cambridge, 2005.

30 Il punto è reso chiaramente da P.R. Teachout, Making the “Holocaust Denial” a crime: Reflections on European Anti-negationist Laws from the perspective of U.S. Constitutional experience, in 30 Vt. L. Rev. 655 (2006), 658-659: “Anti-negationist prosecutions pose a particular problem for students of U.S. constitutional law because they run so clearly counter to what is meant, in the U.S. tradition, by protection of freedom of speech. To those who have come to appreciate the achievement represented by First Amendment jurisprudence, the idea that one can be sent to prison for disagreeing with some officially established view of the past is deeply offensive. It is not just the threat that such a development posses to freedom of thought and expression, it is the dangerous power that it gives to the state to exercise a kind of mind or attitude control.(…) On the other hand, the libertarian approach adopted by the U.S. Supreme Court to protection of speech-based, as it appears to be, on deference to the operation of an unconstrained marketplace of ideas-is likely to strike many European observers as yet another manifestation of a ‘cowboy capitalism’ mentality that has come to characterize the U.S. response to experience generally. It is an approach to protecting freedom of speech that, in the European view, is sadly insensitive to the importance of protecting other competing social interests”.

V., altresì, a titolo esemplificativo, l’analisi e le considerazioni svolte da M. Im-bleau, La négation du Génocide Nazi, Liberté d’ Expression ou crime raciste? Le néga-tionnisme de la Shoah en droit International et comparé, Paris, 2003, 78 ss. “La position adoptée dans d’autres ressorts à l’égard de la propagande haineuse varie. Aux Etats-Unis, où la liberté d’expression est considérée comme étant peut être la plus fonda-mentale des libertés, les textes législatifs imposant des restrictions à la fomentation de la haine et la discrimination sont tenus pour incompatibles avec la liberté d’expression et, pour être valides, doivent satisfaire à des critéres sévères, tels que l’existence d’un lien entre la loi en question et un danger clair et présent pour la société. Dans le droit

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c) Da ultimo, ed incidenter tantum, può considerarsi che le con-dotte negazioniste possono rilevare anche sotto il profilo del diritto ci-vile, dal momento che pongono la rilevante questione dell’individua-zione di eventuali danni risarcibili in capo alle vittime. La risoluzione di tale interrogativo passa, naturalmente, attraverso la previa indivi-duazione dei legittimati passivi al risarcimento, nonché del bene giuri-dico leso da tali condotte e degli strumenti per la quantificazione dei danni.

In tale ottica, sebbene non vi siano molti precedenti, utili spunti possono trarsi dall’esperienza tedesca. Qui in alcuni casi le corti hanno liquidato i danni alle vittime, sub specie di danni morali, per l’avvenuta lesione della pretesa legittima al riconoscimento delle per-secuzioni perpetrati dai nazisti31.

Inoltre, sebbene non occupandosi strictu sensu di una fattispecie di negazionismo, il Tribunal Constitucional spagnolo, nel caso Fried-man32, dinanzi ad un ricorso presentato da una sopravvissuta di Au-schwitz contro alcune dichiarazioni rese contro gli ebrei, con una sen-tenza ‘rivoluzionaria della legittimazione processuale’, dichiarò che tutti i membri di un gruppo etnico, nel caso di specie gli ebrei, godono del diritto ad ottenere il risarcimento del danno in seguito ad offese rivolte all’intero gruppo.

È evidente che, a partire da tali pronunce, potrebbero porsi le basi – a prescindere dal profilo della repressione penale – per il consolida-mento di un nuovo filone risarcitorio nel settore della Holocaust litiga-tion33, rinvenendosi in nuce i requisiti per l’esperibilità di azioni collet-tive tese al risarcimento di ‘danni da negazionismo’.

international des droit de la personne, la liberté d’expression est limitée au départ du fait qu’elle doit céder le pas à des mesures raisonnables interdisant la fomentation de la haine et la discrimination à l’endroit de groupes”.

31 Il riferimento è, ad esempio, a BGHZ 75, 160, Neue Juristische Wochenschrift, 1994, 1779 in cui il Bundesgerichtshof riconobbe il risarcimento del danno morale al nipote di una vittima dell’Olocausto, argomentando che “le persone di origine ebraica hanno, in virtù del diritto alla loro personalità, la pretesa legittima di vedersi ricono-sciuta la persecuzione subita dagli ebrei sotto il nazionalsocialismo. Chiunque nega l’assassinio degli ebrei durante il Terzo Reich diffama ognuno di loro”.

32 Trib. Const. (SP), 11 novembre 1991, n. 214, in Boletin de Jurisprudencia Cons-titucional, n. 128/1991, 24 ss. Per riferimenti v. anche I. Spigno, Un dibattito ancora attuale: l’Olocauto e la sua negazione (Commento a Tribunal Constitucional, 7 novem-bre 2007, n. 235), in Diritto Pubblico Comparato ed europeo, 2008, 1921 ss.

33 Sulla Holocaust litigation non può che rinviarsi a A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, Paris, 2008 (in trad. it., Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah, a cura di D. Bifulco, Milano, 2009). Ma v. altresì, per una puntuale analisi N. Vardi, Privatizzazione dei contenziosi e risarcimento per illeciti storici. Il caso della Holocaust litigation, in questo Volume.

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3. Negazionismo e libertà di espressione nella Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Nella giurisprudenza europea si rinvengono svariate decisioni volte

a risolvere il contrasto tra la repressione penale del negazionismo e la libertà di espressione.

Più nello specifico e meglio precisando, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha avuto poche occasioni per pronunciarsi sul tema, perché la Commissione ha funzionato spesso da filtro34, nel dichiarare irricevibili i numerosi ricorsi presentati da parte di chi, condannato dalle corti nazionali per il reato di negazionismo, lamentava una violazione dell’art. 10 CEDU35. Tale norma, com’è noto, tutela la libertà di opinione e la libertà di comunicare o ricevere informazioni o idee “senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”. La seconda parte dell’articolo, tuttavia, impone numerosi limiti all’esercizio di suddetta libertà, che può essere sottoposta a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui”36.

Il discorso attorno al negazionismo si è pertanto inserito all’interno della riflessione sulla libertà di espressione37. A tal proposito, non può non rilevarsi che l’orientamento generale assunto dalla Corte – a fronte di una disposizione, quale l’art. 10 c. 2, così nutrita di limitazioni e, pertanto, idonea a vanificare le potenzialità innovative previste dal c. 1 e, al contempo, tendenzialmente permissiva nei confronti dei legisla-

34 Com’è noto, precedentemente vi erano due organi di giurisdizione europea:

nello specifico, la Commissione aveva la competenza a decidere circa le condizioni di ricevibilità dei ricorsi; attualmente, a seguito della ristrutturazione del meccanismo di controllo e dell’assunzione, da parte della nuova Corte, delle funzioni proprie della Commissione (tra cui, in particolare, il giudizio circa la ricevibilità dei ricorsi), tutte le funzioni giurisdizionali sono assommate in senso alla Corte (v. art. 32 CEDU).

35 La Commissione ha, nella maggior parte dei casi, rigettato i ricorsi in quanto manifestamente infondati ex art. 27 CEDU.

36 V. nella sterminata letteratura sull’art. 10 CEDU, per commenti e riferimenti, P. Caretti, Art. 10, Libertà di espressione, in Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a cura di S. Bartole - B. Con-forti - G. Raimondi), Padova, 2001, 337.

37 Per un inquadramento del tema v. M. Roscini, La libertà di esprimere dichiara-zioni razziste e blasfeme nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Riv. int. dir. uomo, 1998, 95 ss.

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tori nazionali – è stato inizialmente piuttosto rigido nell’interpre-tazione dei limiti in parola38.

Per quanto in questa sede rileva, infatti, in una serie di pronunce, la Corte ha definito i confini della libertà di espressione, esprimendosi per il carattere fondamentale di tale libertà e l’eccezionalità che devo-no rivestire le relative limitazioni39.

Un po’ fuori dal coro si collocano, pertanto, le pronunzie in tema di negazionismo, che segnano una decisa inversione di rotta rispetto all’atteggiamento protettivo della libertà di espressione in altre sedi as-sunto. Infatti, pronunziandosi sui ricorsi presentati da negazionisti, condannati dalle Corti nazionali, gli organi di giustizia europei hanno, nella gran parte dei casi, giustificato le limitazioni alla libertà di espres-sione in virtù della necessità di tutelare altri valori fondamentali40, qua-li giustizia e pace, onore e reputazione41.

38 Schematicamente può dirsi che, nell’interpretazione dell’art. 10, si sono ormai

consolidati, nella giurisprudenza della Corte, taluni principi volti a contenere la porta-ta delle limitazioni previste dal comma 2: in particolare, il principio di stretta interpre-tazione delle limitazioni consentite dall’art. 10, c. 2 (che si traduce nella tassatività dei motivi che possono giustificare l’introduzione di limitazioni e nell’obbligo che essi sia-no assoggettati ad una interpretazione restrittiva, v. Sunday Times c. United Kingdom, 26 aprile 1979, serie A, n. 30); il principio dell’esistenza di un bisogno sociale premi-nente; il principio di proporzionalità delle limitazioni agli obiettivi legittimi per la qua-le essa è imposta (v. Vogt c. Germania, 27 febbraio1995, serie A, n. 323). Infine le limi-tazioni in parola devono essere sufficientemente e adeguatamente motivate.

39 Le pietre miliari di tale orientamento sono le note sentenze Sunday Times c. United Kingdom, cit. e Handyside c. United Kingdom, 7 dicembre1976, serie A, n. 24). In tale pronuncia, la Corte nell’affermare che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e una delle condizioni essenziali del suo sviluppo”, chiarisce che essa “deve essere tutelata non solo per quelle idee o espressioni considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che possono provocare inquietudine ad uno stato o ad una popolazione”.

La sentenza prosegue distinguendo tra ‘fatti’ e ‘giudizi di valore’, per concludere che “la punizione del mero negazionismo è in contrasto con i principi posti alla base della Convenzione, quali il pluralismo, la tolleranza, la coesione sociale e lo spirito di apertura, senza i quali non vi sarebbe una società democratica”. Tali principi sono ri-baditi nelle pronunce: Castells c. Spagna, 23 aprile 1992, serie A, n. 236; De Haes y Gij-ssels c. Belgio, 24 febbraio 1997, 1997-I, n.30.

40 È bene, infatti, ricordare che l’art. 17 della Convenzione Europea stabilisce che “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto per uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quel-le previste dalla Convenzione”. Per commenti e riferimenti v. C. Pinelli, Art. 17. Divie-to dell’abuso di diritto, in Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei dirit-ti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a cura di S. Bartole - B. Conforti - G. Rai-mondi), cit., 455. Il bilanciamento operato dalla Corte è evidente nel caso Lehideux et Isorni c. Francia, Dec. 23 novembre 1998 in cui la Corte afferma chiaramente che “al

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Principi più espliciti vengono enunciati in alcune sentenze rese sul-la base di ricorsi concernenti il presunto contrasto con l’art. 10 CEDU del già citato art. 24 bis della legge francese sulla stampa, a seguito del-la novella operata dalla Loi Gayssot42.

Gli organi di Strasburgo, infatti, hanno giudicato conformi alla Convenzione le condanne inflitte dai Tribunali nazionali sulla base del principio generale secondo cui “nessun diritto fondamentale può esse-re invocato per compiere un atto mirante a distruggere i diritti e le li-bertà riconosciute dalla Convenzione”43. Più in chiaro e nello specifi-

pari di ogni affermazione diretta contro i valori sottesi alla Convenzione, la giustifica-zione di una politica filonazista non può beneficiare della protezione offerta dall’art. 10; (…) esiste una categoria di fatti chiaramente accertati come l’Olocausto, la cui ne-gazione o rivisitazione si vedrebbe sottrarre, per effetto dell’art. 17, alla protezione dell’art. 10”.

41 Questo è evidente fin dalle prime pronunce sul tema: nella Dec. del 16 luglio 1982, X c. Repubblica federale Tedesca, req. n. 9235/81, la Commissione – rigettando perché manifestamente infondata l’istanza del ricorrente – ha ritenuto che “il divieto di diffondere una pubblicazione che negava la storicità dell’assassinio di milioni di ebrei da parte del nazismo fosse una misura necessaria in una società democratica per la protezione della reputazione e dei diritti altrui”. Poco dopo, nella decisione del 14 luglio 1983, T. c. Belgio, req. n. 9777/82, rigettando l’istanza della ricorrente contro il sequestro di un libro che giustificava i crimini nazisti, la Commissione ammetteva le limitazioni della libertà di pensiero sulla base della tutela dell’ordine pubblico. Alle stesse conclusioni la Commissione è approdata nelle decisioni: Comm., dec. del 12 ottobre 1989, H., W., P. e K. c. Austria, req. n. 12774/87; Comm., dec. del 7 gennaio 1992, Udo Walendy c. Germania, req. n. 21128/92; Comm., dec. del 20 marzo 1993, P. c. Germania, req. n. 19459/92; Comm., dec. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Germania, req. n. 25096/94; Comm., dec. del 18 ottobre 1995, Gert Honsik c. Austria, req. n. 25062/94; Comm., dec. del 26 giugno 1996 D.I. c. Germania, req. n. 26551/95. Per un’analisi di tali decisioni si rinvia a M. Imbleau, La négation du génocide nazi. Liberté d’expression ou crime raciste?, cit., 84 ss.

42 Come già anticipato, supra, par. 2, spec. nn. 21-22. 43 Il riferimento è innanzitutto alla sentenza Comm., dec. del 24 giugno 1996, Ma-

rais c. Francia, req. n. 31159/96. Marais, autore di un articolo in cui negava l’esistenza delle camere a gas, era stato condannato dal Tribunal Correctionel di Parigi al paga-mento di un’ammenda, nonché a risarcire i danni alle associazioni costituitesi parte civile. Già il tribunale si era pronunciato sulla compatibilità dell’art. 24 bis e l’art. 10 CEDU: “L’incrimination de contestations de crimes contre l’humanitè, introduite par la loi du 13 juillet 1990, s’inscrit dans le cadre de la lutte contre le racisme et répond aux engagement internationaux de la France. Ainsi, l’article 24 bis nouveau de la loi de 1881 soumet l’exercise de la liberté d’expression et d’opinion des restrictions consti-tuant des mesures nécessaires dans une société democratique, à la protection de la ré-putation d’autrui, ainsi qu’à la sécurité publique, au sens de l’art. 10, alinéa 2, de la Convention, les propos contestant l’existence des crimes contre l’humanité portant atteinte à la mémoire des victimes du nazisme, et apparaissant suscettible d’occasioner des troubles, par la propagation d’idées qui tendent a réhabiliter la doctrine et la poli-tique raciales nazies”. La Commissione giudicò conforme alla Convenzione tale con-danna.

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co, il negazionismo viene identificato come un fenomeno profonda-mente distruttivo del tessuto sociale, che mette in pericolo l’ordine pubblico, mina la coesione dei gruppi e la stessa nozione di stato libe-rale e pluralista. Pertanto, esso – ponendosi in contrasto con i valori fondamentali della Convenzione, quali giustizia e pace – non può rice-vere alcuna tutela.

Tali principi assumono una compiuta definizione in un caso – su cui si è pronunciata direttamente la Corte – concernente uno dei più noti e discussi negazionisti francesi, Roger Garaudy44. Questi, nel libro I miti fondatori della politica israeliana, aveva rivolto alle vittime dello sterminio l’accusa di aver falsificato la storia. Condannato dai tribunali francesi, presentò ricorso dinanzi alla Corte, la quale confermò la con-danna inflittagli sul presupposto che “la libertà di espressione non può essere esercitata su fatti storici oggettivamente provati come l’Olo-causto”. Lo scritto di Garaudy non poteva essere considerato come frutto di ricerca storica, in quanto si riproponeva di riabilitare il regi-me nazista accusando di falsificazione storica le vittime dell’Olocausto e ciò lo rendeva incompatibile con “la democrazia, i diritti dell’uomo e i valori fondamentali della Convenzione”. Pertanto, le condanne già comminategli dai giudici francesi non tendevano ad una illegittima compressione della sua libertà di espressione, ma a tutelare l’ordine pubblico e la pace del popolo francese45.

Emblematicamente, le conclusioni a cui sono giunti gli Organi di Giustizia europea convergono con i principi enunciati da un altro or-gano di giustizia internazionale, il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, chiamato a pronunciarsi sulle condanne comminate in Francia ad un altro noto (e parimenti discusso) negazionista, Robert Faurisson46.

Il Comitato ONU, in una decisione importantissima, nel rigettare il ricorso sottoposto al suo vaglio, aggiunge un ulteriore tassello al quadro repressivo del negazionismo: la componente razzista e, pertan-to, inaccettabile dei discorsi negazionisti. Infatti, la loi Gayssot, al pari delle altre norme nazionali repressive del negazionismo, si iscrive nell’ambito della lotta al razzismo e all’antisemitismo, di cui il nega-

44 Corte Europea dei diritti dell’uomo, Garaudy c. Francia, 24 giugno 2003. La de-

cisione è riportata in Giur. it., 2005, 2241 ss. con osservazioni di A. Burati, L’affaire Garaudy di fronte alla Corte di Strasburgo.

45 “Denying crimes against humanity is therefore one of the most serious forms of racial defamation of Jews and of incitement of hatred of them”. V. Garaudy c. Francia, cit.

46 Robert Faurisson c. France, Communication No. 550/1993, U.N. Doc. CCPR/C/58/D/550/1993 (1996).

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zionismo è proprio il principale vettore, per cui ne risulta legittima la repressione47.

4. Il negazionismo al vaglio dei Tribunali costituzionali europei Passando dal livello sovranazionale a quello nazionale, quasi tutti

gli Stati europei, come già anticipato, hanno riformato il proprio dirit-to penale, introducendo una norma repressiva del negazionismo48.

In molti di tali paesi, le suddette norme sono state tacciate di inco-stituzionalità per presunto contrasto con la libertà di espressione. Non potendo in questa sede ripercorrere tutte le legislazioni penali e tutti i giudicati costituzionali che affrontato tale delicato rapporto, si è rite-nuto di considerare – emblematicamente – due ordinamenti: quello tedesco, in cui da sempre è stato particolarmente avvertito il problema della repressione penale della “menzogna di Auschwitz” e quello spa-gnolo, in cui di recente il Tribunal Constitucional ha emesso un’interessante pronuncia sulla legittimità costituzionale delle norme repressive del negazionismo.

Per quanto concerne la Germania, in cui è stato sempre partico-larmente vivo il problema della Auschwitzlüge49, la repressione penale del negazionismo è strettamente connessa con le vicende del § 130

47 “To assess whether the restrictions placed on the author’s freedom of expres-

sion by his criminal conviction were applied for the purposes provided for by the Covenant, the Committee begins by noting, as it did in its General Comment 10 that the rights for the protection of which restrictions on the freedom of expression are permitted by article 19, paragraph 3, may relate to the interests of other persons or to those of the community as a whole. Since the statements made by the author, read in their full context, were of a nature as to raise or strengthen anti-semitic feelings, the restriction served the respect of the Jewish community to live free from fear of an at-mosphere of anti-semitism. The Committee therefore concludes that the restriction of the author’s freedom of expression was permissible under article 19, paragraph 3 (a), of the Covenant”. V. Faurisson c. France, cit., 9.6.

48 Meglio precisando, “a giusto titolo si afferma l’idea di un’Europa a geografia variabile: non tutti gli ordinamenti giuridici europei reprimono i comportamenti nega-zionisti, e se tale reato è previsto, la definizione della condotta incriminata avviene in modo e con presupposti che variano da Stato a Stato”. Così E. Fronza, Diritto e me-moria. Un dialogo difficile, in Novecento, 2004, 10, 47 ss.

49 La Germania, del resto, costituisce un esempio significativo di ‘democrazia pro-tetta’, volta alla conservazione di taluni valori fondamentali intangibili per la stessa sopravvivenza nell’ordinamento dello Stato. V. sul punto, anche con specifico riguar-do all’evoluzione della giurisprudenza sul concetto di Streitbare Demokratie, L. Scaf-fardi, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, cit., 60, spec. sub n. 1.

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cod. pen. in tema di ‘aizzamento del popolo’50. Nel testo originario, tale norma puniva le aggressioni alla dignità umana altrui, in forme idonee a turbare la pace pubblica, perpetrate attraverso l’istigazione all’odio contro parti della popolazione, l’esortazione alla violenza, l’insulto o la denigrazione. Non vi era, quindi, un riferimento esplicito al negazionismo; tuttavia la giurisprudenza interpretava la norma in senso estensivo, fino a farvi rientrare le condotte negazioniste51.

Tuttavia, poco dopo l’unificazione, le vivaci reazioni suscitate nell’opinione pubblica dagli esiti del caso Deckert52 condussero ad un’accelerazione dell’iter per le modifiche, peraltro da tempo propo-ste, al reato di aizzamento del popolo. Il nuovo testo del § 130 infatti prevede oggi, da un lato, l’eliminazione di ogni riferimento alla dignità umana e, dall’altro, l’aggiunta di un secondo comma che sancisce: “Con pena detentiva fino a 5 anni o con pena pecuniaria è punito chiunque apprezza, nega o banalizza in modo idoneo a turbare la pace pubblica, in pubblico o in una riunione fatti di cui al § 220 (genocidio) commessi sotto il regime nazionalsocialista”.

Tale norma, a neanche un anno dalla sua entrata in vigore, è stata sottoposta a giudizio di legittimità costituzionale, per presunto contra-sto con l’art. 5 della Legge Fondamentale tedesca, dettata a tutela della libertà di espressione53. Tuttavia, il ricorso è stato giudicato manife-stamente infondato: l’art. 5 L.F. tedesca tutela, infatti, le esternazioni

50 V. sul punto J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e

comparata, cit. 51 Il presupposto da cui muoveva tale interpretazione è che “chiunque nega la

persecuzione degli ebrei durante il Terzo Reich diffama ognuno di loro”. 52 Questi brevemente i fatti: nel corso di un convegno sul revisionismo storico, il

partito nazionaldemocratico, presieduto da Gustav Deckert, decise di fare aperta campagna di negazionismo, invitando l’autore di un noto report negazionista. Nel 1992, il Landgericht Mannheim condannò Deckert ad un anno di reclusione, sulla base del reato di cui al § 130. Nel frattempo pendevano iniziative legislative tese ad una ri-forma del suddetto articolo, attraverso l’eliminazione del riferimento alla dignità uma-na. In pendenza di tali modifiche, a gran sorpresa, il Bundgerichtshof annullò la sen-tenza di condanna di primo grado, giudicando il fatto come ‘espressione di revisioni-smo storico’ e non un’ aggressione della dignità umana idonea ad integrare il reato di cui al § 130.

53 La sentenza del BVerfG, 13 aprile 1994, è tradotta e riportata in Giur. Cost., 1994, 3379 ss. con commento di M. C. Vitucci, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto in una recente sentenza del-la Corte costituzionale di Karsruhe. Il giudizio di legittimità costituzionale è stato occa-sionato da un provvedimento del comune di Monaco, confermato dal giudice ammini-strativo, di ordinare agli organizzazioni di una riunione a cui era presente D. Irving, di fornire ai partecipanti informazioni preventive sui reati di aizzamento del popolo e diffamazione, di togliere la parola ai partecipanti ove si fossero consumati e di scioglie-re eventualmente la riunione.

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soggettive con cui una persona si relaziona alla realtà. A rigore, menti-re ed esprimere informazioni non veritiere non sono beni degni della garanzia della libertà di espressione.

Interessanti sono le conclusioni raggiunte nella sentenza relativa-mente alla distinzione tra opinioni e fatti ed è qui, pertanto, non ozioso riportarle. Infatti, la Corte tedesca rimarca che oggetto di tutela come diritto fondamentale ex art. 5 L.F. sono le opinioni. Ad esse si riferisce la libertà di manifestazione e diffusione: “Le opinioni sono definite mediante la relazione soggettiva tra l’individuo e il contenuto della sua affermazione. Elementi caratterizzanti di esse sono la presa di posizio-ne su un fatto ed un giudizio: per questo motivo, le opinioni si sottrag-gono al giudizio se siano vere o false. Esse godono di protezione come diritto fondamentale senza che la tutela dipenda dalla circostanza che la manifestazione del pensiero sia fondata o priva di fondamento, emo-tiva o razionale, che sia reputata valida o priva di valore, pericolosa o innocua”.

L’asserzione di un fatto non costituisce invece, a detta della Corte, manifestazione di un’opinione: in essa, infatti, sussiste - ed è evidente - una relazione oggettiva tra la manifestazione e la realtà. Sotto questo profilo, l’asserzione di un fatto è suscettibile di verifica circa la verità del contenuto di essa. Ciò non vuol dire che ogni asserzione di un fatto sia esclusa in linea di principio dalla tutela ex art. 5 LF; vuol dire, tut-tavia, che l’asserzione di un fatto non gode della tutela della libertà di opinione se essa sia scientemente o dichiaratamente falsa. Pertanto, “l’espressione vietata per cui nel Terzo Reich non vi sarebbe stata al-cuna persecuzione degli ebrei costituisce un’asserzione di fatto che, secondo innumerevoli testimonianze oculari e documenti, secondo gli accertamenti dei Tribunali in numerosi processi penali è provata non veritiera. Presa in sé, quest’asserzione non gode della tutela della liber-tà di opinione”.

Tutto ciò precisato il Tribunale costituzionale concludeva per la legittimità del reato di ‘aizzamento del popolo’, il quale non solo non contrasta con l’art. 5, ma tutela il senso di umanità che trova il suo fondamento nell’art. 1 L.F.54.

54 Interessanti sono le conclusioni della sentenza circa il bene giuridico tutelato:

“gli ebrei che vivono in Germania costituiscono, a causa della sorte che toccò al popo-lo ebreo sotto il dominio del nazionalsocialismo, un gruppo suscettibile di oltraggio; la negazione della persecuzione degli ebrei è ritenuta un’ingiuria arrecata a questo grup-po (…) lo stesso fatto storico che, in base alle leggi di Norimberga, alcuni esseri umani siano stati selezionati e privati della loro personalità con lo scopo dello sterminio, at-tribuisce agli ebrei che vivono nella Repubblica Federale un particolare rapporto per-sonale con i loro concittadini; in tale rapporto quel che è accaduto è ancora oggi pre-sente. Fa parte della loro personale autocomprensione essere considerati come appar-

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Ulteriori spunti di riflessione provengono dall’esperienza spagnola: il nuovo codice penale spagnolo, infatti, introdotto con Ley 10/1995, ha previsto, nella stessa norma sul genocidio (art. 607), il c. 2 che puni-sce: “la diffusione, con qualsiasi mezzo, di idee o dottrine che neghino o giustifichino i delitti di genocidio”55.

Anche tale norma è stata di recente sottoposta al vaglio del Tribu-nal Constitucional56, che, nel valutare l’esistenza di un contrasto con il diritto fondamentale alla libertà di opinione57, ha raggiunto delle con-clusioni che è importante riportare.

Infatti, con stretto riguardo alla norma incriminata, la Corte scom-pone il precetto penale in due parti, in quanto esso contempla due tenenti ad un gruppo di persone che si distinguono dalle altre per una particolare sor-te, persone nei confronti delle quali sussiste una particolare responsabilità morale di tutti gli altri, e ciò è parte della loro dignità (…) Chi cerca di negare quegli avvenimen-ti contesta a ciascuno il valore personale al quale essi hanno diritto. Per ogni interessa-to questo significa il proseguimento della discriminazione del gruppo di uomini al quale appartiene e quindi della sua persona”.

55 È opportuno sottolineare che il codice penale spagnolo definisce all’art. 18 i concetti di istigazione e apologia. In particolare, ex art. 18 c.1., l’istigazione è quel comportamento volto ad incitare direttamente, per mezzo della stampa, della radiodif-fusione o di qualsiasi altro mezzo di informazione di efficacia simile, la publicidad e la perpetration de un delito. Il c. 2 definisce l’apologia come quella forma di esaltazione del delitto, diretta a perpetrare una fattispecie criminale. “È evidente, allora, che il c.2 dell’art. 607 rappresenti una fattispecie a sé stante, che determina l’antigiuridicità del comportamento ex se, per il solo fatto di negare o giustificare il delitto di genocidio”. V. C. Caruso, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale Costitutionale spagnolo, in Quaderni Costituzionali, 3, 2008, altresì consulta-bile sul sito www.forumcostituzionale.it.

56 Trib. Const. (SP),7 novembre 2007, n. 235. La sentenza è commentata da I. Spigno, Un dibattito ancora attuale: l’Olocausto e la sua negazione, cit., 1921 ss. Questi i fatti: nel 1998, lo Juzgado Penal di Barcellona condannò per il reato di cui all’art. 607 c. 2 Pedro Varela Geis, titolare e direttore di una libreria in cui aveva venduto, in for-ma reiterata e preponderante, libri e altro materiale in cui si negava la persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e si incitava all’odio nei loro confronti. L’Audiencia Provincial di Barcellona, adita in grado d’appello, sospese il giudizio, ri-mettendo gli atti al Tribunal Costitucional, affinchè giudicasse sul presunto contrasto tra l’art. 607, c.2 e l’art. 20 Cost. (norma posta a tutela della libertà di espressione).

57 La Corte affronta la questione considerando, primariamente, che “la libertà di espressione non è, in nessun ordinamento, un diritto assoluto”. Sono sicuramente estranee al suo ambito di protezione tutte le frasi oltraggiose e offensive, totalmente prive di collegamento con le idee o opinioni che si vogliono esporre. In questo il Tri-bunal si riporta alle conclusioni già raggiunte nella sentenza Friedman (Trib. Const. (SP), 11 novembre 1991, n. 214, cit.): “né la libertà di pensiero, né la libertà di espres-sione includono il diritto a porre in essere manifestazioni, opinioni o campagne di ca-rattere razzista o xenofobo, posto che, secondo quanto previsto dall’art. 20 c. 4 Cost., non esistono diritti illimitati e questo diritto è contrario non solo al diritto all’onore, ma anche ad altri beni costituzionali come la dignità umana … l’odio e il disprezzo nei confronti di un popolo sono incompatibili con il rispetto della dignità umana”.

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condotte punibili, che il legislatore penale ha sanzionato in quanto espressione di hate speech: 1) La negazione di determinati fatti storici; 2)La giustificazione degli stessi58.

Per quanto concerne la prima condotta, il Tribunal ritiene che la mera negazione dell’avvenimento di determinati fatti storici non costi-tuisca hate speech, in quanto quest’ultimo si caratterizza per l’incita-mento alla violenza contro determinati soggetti individuati per l’ap-partenenza a determinate minoranze religiose o etniche. Quindi, la dif-fusione di dottrine che contestino l’esistenza di un determinato fatto storico, rientra nella libertà di ricerca storica e scientifica riconosciuta dall’art. 20, let. b) Cost. Il negazionismo non è sempre diretto a creare un clima di ostilità contro coloro che furono vittime del genocidio di cui si contesta l’esistenza.

Tutto ciò considerato, il Tribunale delle leggi conclude per l’inco-stituzionalità della repressione penale di tale condotta, dal momento che non rappresenta un pericolo – nemmeno potenziale – per i beni giuridici protetti tale da giustificare l’intervento del diritto penale. Per poterla incriminare, infatti, e garantire, al contempo, la costituzionalità dell’art. 607 c. 2 sarebbe stato necessario prevedere un elemento in più, e cioè che la negazione fosse diretta a creare ostilità nei confronti del gruppo colpito.

Per quanto concerne, invece, la seconda condotta descritta dalla norma impugnata, ossia la ‘giustificazione’ del genocidio, il discorso è differente: la giustificazione, infatti, consiste, nell’espressione di un giudizio di valore che può agevolmente tradursi in un incitamento a compiere tali fatti. La sua repressione penale è, pertanto, pienamente giustificata59.

58 “Un análisis meramente semántico del contenido del precepto legal permite di-

stinguir en su primer inciso dos distintas conductas tipificadas como delito, según que las ideas o doctrinas difundidas nieguen el genocidio o lo justifiquen. A simple vista, la negación, puede ser entendida como mera expresión de un punto de vista sobre de-terminados hechos, sosteniendo que no sucedieron o no se realizaron de modo que puedan ser calificados de genocidio. La justificación, por su parte, no implica la nega-ción absoluta de la existencia de determinado delito de genocidio sino su relativiz-ación o la negación de su antijuricidad partiendo de cierta identificación con los auto-res”.

59 Per un confronto tra le conclusioni raggiunte dalle Corti tedesca e spagnola nel-le sentenze sopra analizzate v. C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, cit.

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5. Uno sguardo oltreoceano: l’esperienza canadese. Due sentenze a confronto

In una disamina comparatistica circa il rapporto tra negazionismo

e libertà di espressione può farsi qualche cenno, conclusivamente, all’esperienza nordamericana. In tal senso utili spunti ci provengono dal Canada, in cui l’approccio al negazionismo e, più in generale, all’hate speech è ben diverso rispetto a quello dei vicini Stati Uniti. Ne-gli USA, infatti, com’è noto, la libertà di espressione è un diritto indi-viduale molto forte (rectius, tendenzialmente illimitato) che, nel con-trasto con altri diritti, tende a prevalere quasi sempre60. A conclusioni ben diverse sono giunte le Corti canadesi: ciò potrebbe sorprendere sia per la vicinanza geografica dei due paesi, sia per le caratteristiche di industrializzazione e multiculturalismo che li connotano. Tuttavia, mentre gli USA sono ben decritti dalla metafora del melting pot, la fe-derazione canadese è piuttosto un ethnic mosaic61.

Inoltre, a monte, il rilievo attribuito alla libertà di espressione è di-verso nel contesto canadese rispetto a quello statunitense: la sec. 2b della Charter of Rights and Freedoms tutela tra le libertà fondamentali “la libertà di pensiero, di cronaca, di opinione e di espressione”; tutta-via, tale libertà non è percepita come diritto assoluto, in quanto non protegge le manifestazioni del pensiero che esprimano valori incompa-tibili con quelli tutelati dalla stessa Charter62.

In particolare, per quanto qui rileva, la giurisprudenza canadese non sembra condividere né le conclusioni delle corti statunitensi circa il rapporto tra hate speech e libertà di espressione, nè il limite dell’incitement to violence da queste richiesto ai fini della comprimibi-lità della libertà di espressione63.

Quanto detto risulta evidente dalle decisioni in cui la Supreme Court canadese si è confrontata con il tema del negazionismo, nelle quali ha dimostrato di non assumere posizioni aprioristiche, ma di operare uno scrutinio in concreto circa la portata e il rilievo degli inte-ressi contrapposti. Emblematiche in tal senso sono due decisioni, ver-tenti su fattispecie di negazionismo, in cui la Corte, pur giungendo,

60 Come a breve si vedrà, infra, par. 5 61 Così M. Rosenfeld, Hate Speech in Costitutional Jurisprudence, in Cardozo L.J.

1523 (2002-2003) 62 Ed infatti, in generale, l’art. 1 della Charter prevede che “the Canadian Charter

of Rights and Freedoms guarantees the rights and freedoms set out in it subject only to such reasonable limits prescribed by law as can be demonstrably justified in a free and democratic society”.

63 Come a breve sarà analizzato, v. infra par. 6.

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apparentemente, a soluzioni diametralmente opposte, delinea chiara-mente il suo orientamento nel campo di cui qui si tratta.

In particolare, nel primo di questi casi, la Supreme Court, nel riget-tare la questione di costituzionalità sottoposta al suo vaglio – concer-nente la condanna ex § 319 del codice penale federale64 di un inse-gnante che propagandava idee negazioniste ai suoi studenti65 – ha af-fermato che, al pari della libertà di espressione, sono valori tutelati co-stituzionalmente la “multicultural diversity, human dignity and equali-ty”. La “propaganda dell’odio” mina il rispetto dei gruppi razziali, et-nici e religiosi, più di quanto possa considerarsi espressione di libertà di parola66 e, pertanto, essa non è meritevole di alcuna tutela.

Tuttavia, la stessa Supreme Court canadese è approdata a conclu-sioni diverse nel caso concernente il noto negazionista E. Zundel, au-tore di un pamphlet dal titolo Did six million really die?, in cui si so-steneva che l’Olocausto fosse un mito confezionato da una cospirazio-ne ebraica67.

A seguito della condanna in primo grado sulla base del § 181 del codice penale – che punisce la pubblicazione intenzionale di notizie false 68 – venne adita la Corte suprema perché giudicasse sulla legitti-mità della norma che violerebbe la libertà d’espressione e non si giusti-ficherebbe come uno dei reasonable limits previsti per la stessa.

Le conclusioni della Corte sul punto appaiono un po’ fuori dal co-ro rispetto all’orientamento ‘antinegazionista’ assunto dalla stessa Cor-te canadese e da altri tribunali costituzionali. La Corte, infatti, nel caso Zundel, non ritiene giustificata la limitazione alla libertà di opinione, visto che ammetterla significherebbe operare uno shifting purpose in-tollerabile rispetto alla ratio del § 181 (interpretare una norma otto-centesca come volta a favorire l’armonia razziale sarebbe andare al di

64 Tale norma vieta “la violenza volontaria contro un gruppo identificato sulla ba-

se di razza, colore, religione, origini etniche”. È bene considerare, a riguardo, che in Canada non vi è una norma espressa che punisca il negazionismo.

65 R. v. Keegstra, 3 S.C.R. 687 (1990). Keegstra descriveva gli ebrei come “sovver-sivi”, “sadici”, “amanti del denaro” e riferiva che essi “avevano inventato l’Olocausto per ottenere simpatia internazionale”; inoltre pretendeva che i suoi studenti ripetesse-ro le sue teorie per evitare brutti voti.

66 Alle medesime conclusioni la Supreme Court giunge nel caso R. v. Andrews, 3 S.C.R. 870 (1990).

67 V. R. v. Zundel, 2 S.C.R., 731, (1992). 68 § 181: “Everyone who willfully publishes a statement, tale or news that he

knows in false and cause or is likely to cause injury or mischief to a public interest is guilty of an indictable offense and liable to imprisonement”.

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là di ogni accettabile potere interpretativo e vorrebbe dire effettiva-mente riscrivere la norma)69.

Quindi, tale sentenza, lungi dal costituire un passo indietro nella repressione del negazionismo, è emblematica del modus procedendi della Corte suprema canadese, la quale dimostra la capacità di valutare la reale portata dei limiti applicabili alla libertà di manifestazione del pensiero mediante un bilanciamento di interessi, che è garantito non attraverso proposizioni astratte, ma riferite al singolo contesto in una visione programmatica e concreta di situazioni similari, ma diverse tra loro.

6. Il diverso approccio della giurisprudenza statunitense La giurisprudenza statunitense non si è mai confrontata diretta-

mente con casi di negazionismo: ciò è dovuto a numerose ragioni di carattere sia storico, sia geografico, sia giuridico. Tuttavia, utili spunti di riflessione provengono dai casi relativi al c.d. hate speech70: si è scel-to di far cenno a questi casi, al termine di questo excursus, in quanto emblematici di un diverso approccio alla libertà di manifestazione del pensiero71 e ad i suoi limiti72 e, al contempo, di una concezione della

69 Poiché la disposizione - come si legge nella motivazione della sentenza - era sor-ta per prevenire “deliberate slanderous statements against the nobles of the realm to preserve political harmony in the State”, non era possibile sostituire questa ratio stori-ca con quella della prevenzione della hate propaganda and racism. Pertanto, non era possibile un’interpretazione adeguatrice per rendere la disposizione conforme alla li-berà di manifestazione del pensiero. V. sul punto le osservazioni di J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit.

70 La stessa nozione di hate speech è mutata nel corso del tempo. Per una ricos-truzione v. S. Walker, Hate speech: The History of an American Controversy, 8 Univer-sity of Nebraska Press, 1994: “Traditionally it included any form of expression deemed offensive to any racial, religious, ethnic, or national group. In the 1980s some campus speech codes broadened it to include gender, age, sexual preference, marital status, physical capacity, and other categories. Human Rights Watch defines hate speech as ‘any form of expression regarded as offensive to racial, ethnic and religious groups and other discrete minorities, and to women.’ Rodney Smolla defines it as a ‘generic term that has come to embrace the use of speech attacks based on race, eth-nicity, religion and sexual orientation or preference.’ Historically, hate speech has been referred to by several terms. In the late 1920s and early 1930s it was known as ‘race hate.’ Beginning in the 1940s it was generally called ‘group libel,’ reflecting the specific legal question whether the law of libel should be expanded to cover groups as well as individuals. In the 1980s ‘hate speech’ and ‘racist speech’ became the most common terms”.

71 Il rilievo e la portata della libertà di espressione nel contesto nordamericano sono assolutamente singolari “the United States stands alone, even among democra-cies, in the extraordinary degree to which its constitution protects freedom of speech

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criminalizzazione dei reati di opinione che non trova un esatto omolo-go nei paesi europei.

Innanzitutto, con riguardo a quello che può essere definito dange-rous speech73, le Corti statunitensi hanno progressivamente ridotto la possibilità di punire qualcuno per le sue idee o espressioni potenzial-mente pericolose, fino ad arrivare a stabilire che per punire un discor-so che esorti o inciti alla violenza bisogna provare un quid pluris, ossia che esso sia diretto a produrre “imminent lawless actions”74.

and of the press”. Così, R. Dworkin, The Coming Battles over Free Speech, N.Y. Rev. Books, June 11, 1992, 57. V. altresì F. Schauer, The Exceptional First Amendment, in American Exceptionalism and Human Rights (a cura di M. Ignatieff), 2005, 29, 51-2: “the First Amendment, as authoritatively interpreted, remains a recalcitrant outlier to a growing international understanding to what the freedom of expression entails. In numerous dimensions the American approach is exceptional (…) The American un-derstanding of freedom of expression is substantially exceptional compared to interna-tional standards because a range of American outcomes and American resolutions of conflicts between freedom of expression and other rights and goals are strikingly di-vergent from the outcomes and resolutions reached in most other liberal democra-cies”.

72 L’ampiezza della libertà di espressione è, negli stati Uniti, tale da rendere quasi impossibile incidere sul suo contenuto attraverso limiti ad essa apposti. V. sul punto L. Scaffardi, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, cit., 109 e l’ivi citato caso Champlinsky v. New Hampshire 315 (1942), 568 in cui il giudice Murphy evocò la two-tier theory per sottolineare come talune espressioni non potesse-ro essere tutelate dal Primo emendamento qualora non contenessero l’esposizione di un’idea o fossero dotate di un così scarso valore ai fini della ricerca della verità da non controbilanciare in alcun modo il danno che esse avrebbero prodotto nei confronti degli interessi collettivi (c.d. fighting words).

73 Circa la tripartizione tra dangerous speech, offensive speech e heretical speech v. P.R. Teachout, Making the “Holocaust Denial” a crime: Reflections on European Anti-negationist Laws from the Perspective of U.S. Constitutional Experience, cit., 676 ss.

74 Emblematiche in tal senso sono le conclusioni raggiunte in Brandenburg v. Ohio, 359 U.S. 444 (1969): la punibilità del dangerous speech è subordinata al fatto che esso “was directed to inciting or producing imminent lawless actions and was likely to produce such actions”. La Corte, giudicando sulla legittimità delle dichiarazioni televi-sive rese da alcuni membri del Ku Klux Klan contro neri ed ebrei (con cui, tra l’altro, li si invitava a tornare rispettivamente in Africa e in Israele e veniva attuato il rito del cross burning), non le ritenne perseguibili in quanto “the Klan may have advocated violence but it had not incited it”. Sulla linea di demarcazione tra advocacy e incite-ment to violence v. M. Rosenfeld, Hate Speech in Costitutional Jurisprudence, cit., 1523 ss. Nella sentenza veniva riformulato il concetto di clear and present danger, che sem-brava inapplicabile al caso di specie, in quanto il contesto era privo di un pericolo in-combente. V., sul punto, L. Scaffardi, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, cit., 116: “Veniva in tal modo fornita una soluzione assai liberale, secondo cui l’istigazione a compiere azioni illegali o violente rientrava nella copertura costituzionale del Primo emendamento e queste azioni non sarebbero state protette da esso solo nel caso in cui queste azioni avessero portato alla commissioni di tali reati o avessero prodotto un pericolo immediato di esecuzione”.

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Analogamente, con riguardo all’offensive speech, la Supreme Court ha statuito che i discorsi, benchè offensivi, che non si traducono in un breach of peace, sono coperti dalla garanzia offerta dal Primo Emen-damento75.

Infine, i casi di heretical speech sono estremamente rari nel pano-rama giurisprudenziale statunitense, perché la stessa idea che lo Stato possa imporre l’adesione a talune forme di “ortodossie stabilite dallo Stato” contrasta fortemente con il concetto statunitense di libertà di espressione. Pertanto, nell’assenza di casi che riguardino direttamente il negazionismo della Shoah, possono essere considerate, come esem-plificative, alcune pronunce in cui la Corte ha chiaramente statuito che “there is no place in a Costitutional democracy for laws that seek to compel individuals to adopt a particolar way of thinking and talking about matters that concern them, to affirm belief in things they do not believe in, or to adopt a particolar aptitude toward something the Sta-te considers important”76.

7. Conclusioni L’analisi sin qui condotta permette di svolgere alcune consi-

derazioni conclusive circa il problema dell’opportunità dell’intro-duzione di una norma sul negazionismo, in un contesto – quale quello italiano – che, come già anticipato, ad oggi si distingue dagli altri paesi europei per l’assenza di una legislazione antinegazionista.

75 Benché in un lontano precedente (Beauharnais v. Illinois, 343 U.S. 250 (1952) la

Corte ritenne i discorsi offensivi esclusi dalla garanzia del Primo Emendamento (visto che la diffamazione di un gruppo può essere paragonata ad una diffamazione indivi-duale) tale precedente, benché mai oggetto di overruling, non è stato mai seguito. An-zi, nel caso National Socialist Party of America v. Village of Skokie (432 U.S. 43 (1977), la Corte ha ribadito la non punibilità dell’hate speech, là dove consista solo nell’apologia e non si traduca in un incitement to violence. Il caso riguardava una mar-cia organizzata da un gruppo di neo nazisti, in uniforme da SS, attraverso un sobborgo di Chicago, con una vasta popolazione ebrea. Le autorità locali presero provvedimen-ti, anche legislativi, per prevenire tale marcia, ma essi furono invalidati dalle Corti sta-tale e federale, in quanto violativi della libertà di espressione dei Neo-Nazisti. Sull’offensive speech la Corte Suprema è tornata a pronunciarsi di recente nel caso Sntder v. Phelp et al., 562 U.S. 2011.

76 V. le conclusioni raggiunte in West Virginia State Board of Education v. Barnette, 319 U.S. 624, 626-29 (1943); Wooley v. Maynard, 430 U.S. 705, 707 (1977). In entrambi i casi, la Corte ha giudicato sulla legittimità di alcune misure statali che obbligano gli individui ad aderire pubblicamente ad ideologie che trovano inaccettabi-li ed ha concluso che, in tal modo, lo Stato “invades the sphere of intellect and spirit which it is the purpose of the First Amendment to our Constitution to reserve from all official control”.

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Il primo dato che non va equivocato è la profonda convinzione che la negazione della Shoah costituisca un fatto profondamente offensivo, non solo per chi ha subito quella persecuzione, ma per la dignità e la memoria di un intero popolo. La necessità di sanzione deriva, pertan-to, dalla necessità di una tutela del sentimento dei sopravvissuti e della necessità di intangibilità della memoria.

Se questo è indubbio, nondimeno, può innanzitutto considerarsi criticamente l’opportunità della criminalizzazione della negazione ex se.

Nella consapevolezza dell’impossibilità di richiamare in tal senso come tertium comparationis la citata giurisprudenza americana sull’hate speech – che si fonda su un concetto di libertà di espressione così diverso da quello continentale da non esserne concretamente rap-portabile – tuttavia, la ricerca di un quid pluris rispetto alla dichiara-zione, richiesto da quella giurisprudenza ai fini della punibilità, può indurre ad una considerazione circa i potenziali rischi di un intervento legislativo penale in senso strettamente antinegazionista.

Spunti in tale direzione provengono, peraltro, dalle conclusioni re-centemente raggiunte dal Tribunale spagnolo, che, pur argomentando in maniera non sempre limpidissima circa la distinzione tra ‘negazione’ e ‘giustificazione’ del genocidio, nel distinguere tra le due condotte, non richiede l’intervento del legislatore penale ai fini della punizione della mera negazione.

In tal senso, de iure condendo, non può che augurarsi una certa cautela nella previsione dell’eventuale norma incriminatrice del nega-zionismo e nell’individuazione delle condotte punibili, attraverso la sanzione delle condotte che si traducano in una violazione in concreto di beni costituzionalmente protetti, tali da giustificare le limitazioni al-la libertà di espressione. In questo, il modus procedendi della giuri-sprudenza canadese può costituire un esempio, pur nell’assenza di una norma sul negazionismo, di capacità di abbandono degli apriorismi per valutare nel concreto le situazioni suscettibili di criminalizzazione.

Inoltre, quello su cui occorre riflettere, è se la norma sul negazioni-smo della Shoah non rischi di trasformare “del tutto contrariamente alle intenzioni, il rendere giustizia con un assai triste privilegio”77. Il massacro degli ebrei è per la nostra cultura sicuramente la più doloro-sa delle “ferite della storia”, ma non può dirsi che sia l’unica. Ed infatti anche altri massacri, altri genocidi vengono considerati nelle più recen-ti legislazioni78. Questo solo per chiedersi se la norma sul negazioni-

77 G. Resta – V. Zeno-Zencovich, La storia ‘giuridificata’, cit. 78 Cfr. per la penalizzazione della negazione dei genocidi comunisti, accanto a

quelli nazisti, quanto detto supra, nota 18. Inoltre, a titolo esemplificativo, in Francia

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smo della Shoah non rischi poi di divenire discriminatoria nei confron-ti della negazione di ogni di ogni altro genocidio, e poi, di ogni crimine efferato e, per il principio di uguaglianza, anche poi dell’islamofobia, della cristianofobia, della omofobia, etc. Se tutto questo venisse crimi-nalizzato che spazio residuerebbe allora per la libertà di espressione e di ricerca79?

Da ultimo, e a prescindere dal dibattito sulla repressione penale, nella misura in cui il negazionismo può costituire un fenomeno lesivo di beni giuridici fondamentali, quali la dignità e l’onore, l’ulteriore au-spicio è nella direzione di un rafforzamento delle tutele civili, attraver-so un ingresso e un più ampio utilizzo nel campo in esame dello stru-mentario del privatista.

con l. 29 gennaio 2001 “ relative à la reconnaissance du génocide arménien de 1915” la Francia ha pubblicamente riconosciuto il genocidio armeno del 1915.

79 A tal proposito, è opportuno riportare talune delle posizioni espresse nel già ci-tato Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica, appello firmato dagli sto-rici all’indomani del d.d.l. Mastella (v. supra, n. 4); in particolare, attraverso l’introduzione della norma sul negazionismo “si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di otte-nere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall’autorità statale (l’‘antifascismo’ nella Ddr, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del ge-nocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.

Si accentua l’idea, assai discussa anche tra gli storici, della ‘unicità della Shoah’, non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico, ponendolo di fatto fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.

L’Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e cam-pagne educative”.

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VI Il paradigma della verità

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LA MADRE, IL FIGLIO E LA PIASTRA ELETTRICA

Olivier Cayla*

SOMMARIO: 1. Il paradosso dell’epistemologia kelseniana. – 2. Vietare di far conosce-re ciò che è? – 3. La definizione giurisdizionale della scientificità. – 4. La comu-nità scientifica è un ordinamento giuridico? – 5. La conclusione impossibile.

1. Il paradosso dell’epistemologia kelseniana

Nel capitolo 42 della Teoria generale delle norme1, quel guru del

positivismo giuridico del XX secolo che è Hans Kelsen immagina il caso di una madre che dice a suo figlio: “Se tocchi la piastra elettrica, ti bruci e ti fai molto male”, e analizza questo enunciato nella seguente maniera, che chiameremo “l’interpretazione A” o interpretazione “an-gelica”.

Psicologicamente, la madre è probabilmente animata, dicendo questa frase, dalla volontà di dissuadere suo figlio dal mettere la mano sulla piastra elettrica: ha quindi “l’intenzione di provocare così un de-terminato comportamento di colui il quale è il destinatario del-l’enunciato”. Ciò detto, se la madre vuol davvero che il figlio non toc-chi la piastra elettrica, dal punto di vista logico questa volontà non è espressa dall’enunciato. Questo non è, infatti, un comando “la cui funzione sarebbe di voler far fare qualcosa al figlio”. Detto in altre pa-role, l’enunciato non ha il “significato di un atto di volontà”, non è una “norma”, poiché, come Kelsen afferma nella Teoria Pura del diritto, queste due espressioni possono essere considerate sinonimi. Ciò che esprime l’enunciato è soltanto il “significato di un atto di pensiero”, cioè la sua funzione “è di far conoscere qualcosa al figlio”.

Evidentemente, suggerisce Kelsen, l’iscrizione del proposito della madre nel registro dell’espressione del pensiero e non della volontà nasce da un intento strategico: la madre considera che il risultato (che il figlio non tocchi la piastra elettrica) sarà ottenuto più efficacemente se si fa affidamento sulla ragione del figlio, che dovrà condurlo all’astenersi dal toccare la piastra se sa che ciò gli eviterà con certezza un dolore, piuttosto che sulla sua potenziale obbedienza. Sarebbe, in-fatti, contro-producente dare il comando brutale e intimidatorio

* Traduzione italiana dal francese a cura di Eleonora Bottini. 1 H. Kelsen, Théorie générale des normes, trad. franc. di O. Beaud e F. Malkani,

Paris, 1996, 221-223.

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“Non toccare la piastra elettrica”, perché non c’è nulla che inciti un bambino turbolento alla disobbedienza più di una secca dimostrazio-ne di pura autorità sprovvista di spiegazione. Così Kelsen ammette che esista un legame innegabile tra l’atto di pensiero della madre, che esprime l’enunciato, e l’atto di volontà che lo precede. Ma ciò non impedisce che, ai suoi occhi, questo legame non trasforma il significato dell’enunciato in questione in quello di un comando: la madre non ha prescritto nulla (è precisamente ciò che farà sì, o almeno la madre lo spera, che il figlio agirà come questa desidera), ma si è accontentata di descrivere: “la proposizione che ella esprime non è un comando, poi-ché essa è vera o falsa, quando invece un comando non è né vero né falso”2.

Con questa interpretazione, Kelsen non fa altro che esprimere ul-teriormente la sua cieca adesione al dogma del positivismo moderno, spesso chiamato “legge di Hume”, secondo cui sarebbe assolutamente necessario distinguere, nell’ambito di un discorso, le proposizioni dell’essere (o del “Sein”) e quelle del dover essere (o del “Sollen”). Com’è noto, il postulato della separazione radicale tra queste due sfe-re di attività discorsiva è essenziale al progetto kelseniano di edificare una “teoria pura del diritto”. Kelsen ha, infatti, tanto bisogno di un significato prescrittivo che si distingua dal significato descrittivo, per rendere conto nella sua teoria del diritto con un oggetto normativo specifico da studiare, quanto di un significato descrittivo che si distin-gua nettamente dal significato prescrittivo, in modo da render conto, all’interno della sua teoria di una teoria del diritto, della possibilità di una scienza del diritto che, nelle sue descrizioni del discorso prescrit-tivo della norma giuridica, sia essa stessa pura da ogni dimensione normativa.

Su quest’ultimo punto in particolare, il suo credo epistemologico è tipico del positivismo scientifico più tradizionale: è la separazione a compartimenti stagni, nell’ambito dell’attività linguistica, tra l’espres-sione del pensiero e quella della volontà, che garantisce la purezza di ogni discorso scientifico, indipendentemente dal fatto che si riferisca al genere delle scienze esatte o a quello delle scienze umane e sociali. La scienza non pretende per nulla di prescrivere ciò che dev’essere, ma si accontenta di descrivere banalmente ciò che è, la sua funzione non è assolutamente di “voler far fare” ma semplicemente di “far conosce-re”. Lo statuto essenzialmente a-normativo della proposizione “se si scalda l’acqua a 100 gradi, questa bolle” non è diverso da quello “se tocchi la piastra elettrica, ti bruci”.

2 Ibid., 222.

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Ciò detto, è lecito non sentirsi molto soddisfatti dell’analisi di Kel-sen del proposito rivolto dalla madre al figlio, e ritenere che esista un problema. Infatti, c’è qualcosa di assurdo nel dedurre, come egli fa, dal fatto che “se tocchi la piastra elettrica, ti bruci” sia una proposi-zione vera o falsa (il che è difficilmente negabile) che il significato di quest’enunciato sia di un puro atto del pensiero e nient’affatto della volontà, cioè che non sia compreso come un comando. Questo perché a questo punto il bambino, le cui facoltà razionali sono invitate a sfor-zarsi, non può che essere portato a porsi la domanda – scientifica – se la descrizione della madre è vera o falsa (soltanto a questa condizione potrà decidere della sua validità e quindi decidere se la pretesa di sua madre di “fargli conoscere” scientificamente il mondo naturale è giu-stificata oppure no). Non avrà quindi altra aspirazione se non sotto-porre l’asserzione di sua madre al test dell’esperienza empirica, e met-terà allora logicamente la mano sulla piastra elettrica per verificare che sia davvero bollente. Detto altrimenti, se è sufficiente all’affermazione di sua madre l’essere resa valida in termini di verità-falsità, per non poter essere compresa oggettivamente altrimenti se non l’enunciato di una descrizione e nient’affatto di una prescrizione, allora la madre è in misura di ottenere solo e soltanto il contrario di quello che probabil-mente cercava con la sua sottile (e leggermente sessantottina) strategia discorsiva: incoraggiare suo figlio a mettere la mano sulla piastra elet-trica.

Per sormontare questa difficoltà si può allora, alla maniera del fi-losofo del linguaggio J. L. Austin nel suo famoso libro How to Do Things with Words3, considerare il significato dell’enunciato della madre non dal punto di vista oggettivo e semantico della forma gram-maticale del suo testo, qui quella dell’indicativo, ma dal punto di vista soggettivo della comprensione del destinatario, cioè il figlio. Infatti, nel-la dimensione pragmatica del contesto interlocutorio specifico in cui si svolge l’attualità dello scambio di comunicazione tra la madre e il fi-glio, si può supporre che il figlio ha ben compreso l’enunciato “se toc-chi, etc.” come un comando (o almeno una raccomandazione, in ogni caso una norma), e non una semplice descrizione.

Certo, questa dimensione descrittiva non è visibile nel senso del testo dell’enunciato (quello che Austin chiama il “senso locutorio”) in ragione della sua forma indicativa e non imperativa, ma è prendendo in considerazione il contesto nel quale questa proposizione gli è stata indirizzata da sua madre, che il figlio accede alla comprensione di ciò

3 J. L. Austin, Quando dire è fare, traduzione di M. Gentile e M. Sbisa, Torino,

1974.

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che sua madre ha voluto da lui (che non metta la mano sulla piastra elettrica) dicendogli “se tocchi, etc.”. Detto altrimenti, il figlio capisce che sua madre, enunciando una proposizione anche in forma testuale descrittiva, aveva in realtà l’intenzione, nel procedere a quest’atto di enunciazione, di chiedergli di non mettere la mano sulla piastra elet-trica. Ciò che il figlio capisce quindi è che al di là del “senso locuto-rio” descrittivo dell’enunciato, l’atto di enunciazione di sua madre ha il significato di una volontà normativa nei suoi confronti.

In breve, non è perché l’espressione della volontà della madre non sia esplicitamente formulata nel testo dell’enunciato, che il figlio non la coglie: anche implicitamente, la forza di volontà di sua madre nei suoi confronti (o “forza illocutoria” nel vocabolario di Austin) è repe-ribile dal figlio se prende in considerazione il contesto in cui si svolge hic et nunc l’attività comunicazionale con sua madre, e la sua com-prensione necessariamente presuppone la conoscenza di dove sua madre “abbia voluto arrivare”, dicendogli ciò che gli ha detto.

Seguendo questo modo “austiniano” o “pragmatico” di vedere le cose, il legame tra il pensiero e la volontà del locutore, peraltro con-statata da Kelsen pur senza averne tratto una qualche conseguenza teorica, è sempre nella mente dell’interlocutore, quando si sforza di comprendere il proposito che gli è rivolto. Dal punto di vista erme-neutico di questa comprensione soggettiva, si pone sempre la questio-ne di una forza illocutoria dell’enunciato indissociabile dal senso locu-torio dello stesso. Detto altrimenti, nel significato di un qualunque di-scorso, ivi compreso ovviamente il discorso scientifico, discorso de-scrittivo per eccellenza, non c’è mai un senso locutorio puro, privo di una qualsiasi forza illocutoria, il che significa che c’è sempre, in ogni attività discorsiva, la dimensione ineliminabile dell’espressione di una volontà normativa. Cosicché ciò che è introdotto da un enunciato de-scrittivo del tipo “se tocchi, etc.”, non si limita mai a una semplice ed esclusiva questione di verità, ma diventa sempre anche, nel contempo, una questione di autorità.

Infatti, anche se il figlio, come dice Kelsen, avesse capito una semplice descrizione e neanche l’ombra di una prescrizione nella forza illocutoria dell’enunciato di sua madre, avrebbe dovuto comunque necessariamente capire che sua madre non può aspettarsi che egli metta la mano sulla piastra per verificare la verità di questa descrizio-ne. In questo caso, capisce almeno che sua madre, implicitamente, non poteva che avergli chiesto di crederla sulla parola e astenersi dal proce-dere lui stesso a una verifica, cioè che sua madre non ha potuto non pretendere, anche senza dirlo apertamente, di assoggettarlo alla nor-ma di una presunzione assoluta secondo cui ella dovrebbe sempre dir-gli la verità.

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Insomma il figlio capisce necessariamente che dicendogli ciò che ella gli dice, sua madre gli indirizza anche questa volontà sottintesa: “Credimi, se tocchi, etc.”, oppure “Devi accettare come vera la mia af-fermazione secondo cui se tocchi, etc.”4. In queste condizioni, egli si pone almeno la domanda di sapere ciò che fonda l’obbligo di un figlio di credere che sua madre dica sempre la verità, il che non è pensabile se non dal punto di vista di un’altra norma, di grado superiore, del ti-po “I figli devono sempre credere alla loro mamma”, che le madri, per altro, omettono raramente di esprimere al fine di assoggettare i loro figli a un Ersatz di legge naturale e universale costruita per i biso-gni della causa educativa, e che dà la garanzia confortevole di un’indiscutibilità delle loro asserzioni teoricamente “descrittive”.

Questa “interpretazione S” o “scettica” del processo comunicazio-nale che si svolge tra la madre e il figlio riguardo alla piastra elettrica, che corrisponde alle correnti filosofiche pragmatica e ermeneutica, fa dipendere quindi, in maniera hobbesiana, la costituzione stessa della verità dalla questione, precedente, dell’autorità. La prospettiva episte-mologica, che così facendo questa introduce, ha come inconveniente di negare, nel suo stesso principio, l’autonomia del discorso descritti-vo, cioè in particolar modo del discorso scientifico. Ma il suo vantaggio è quello di fornire correlativamente un quadro concettuale in cui la limitazione giuridica della libertà della ricerca scientifica diventa pensa-bile. Cosa che non permette affatto, invece, la prospettiva epistemolo-gica dualista tracciata dalla “interpretazione A”, alla quale il positivi-smo tradizionale dominante continua più spesso – e logicamente – ad accordare la sua preferenza.

4 Curiosamente, Kelsen (ibid., 222) ammette, alla stregua di Austin, la presenza

di una presunzione di questo tipo nell’enunciazione di una proposizione di forma lo-cutoria descrittiva: “Un enunciato è legato, in genere, ad un’intenzione che consiste a dire che ciò che il locutore desidera è che il destinatario dell’enunciato ne prenda co-noscenza e lo consideri vero. Il suo autore può esprimere questa intenzione con un comando. Il medico può dire al suo paziente: “Mi creda! Se continua a mangiare così tanto, morirà di arresto cardiaco. Lo sappia!”. Oppure: “Sappia che se continua a mangiare così tanto, morirà di un arresto cardiaco”, poiché, lungi dall’essere indisso-ciabile, il senso locutorio (o significato dell’atto di pensiero) e la forza illocutoria (o il significato dell’atto di volontà) possono essere perfettamente separati e pensati cia-scuno dal canto suo, in modo puro: “Troviamo qui due atti psichici diversi e due espressioni linguistiche diverse. Un atto di pensiero, il cui significato è un enunciato (che può essere vero o falso) e un atto di volontà il cui significato è un comando (che non può essere né vero né falso)”.

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2. Vietare di far conoscere ciò che è? Il presente volume si pone in effetti, principalmente, una questio-

ne fondamentale: come fondare giuridicamente il divieto di produrre conoscenza, cuore apparentemente irriducibile della ricerca scientifi-ca ?”. Si può pensare che nel quadro epistemologico dell’“interpre-tazione A” una tale questione possa semplicemente non trovare rispo-sta, poiché la sua stessa formulazione è incomprensibile.

Infatti, porre la questione in questi termini rinvia almeno a due presupposti: da un lato, l’idea stessa di vietare certe produzioni cono-scitive, cioè limitare la libertà della ricerca scientifica, non sarebbe in sé impensabile e illegittimo dato che risponderebbe sicuramente a una necessità sociale; dall’altro lato, la formulazione di questa limitazione attraverso il diritto positivo comporterebbe tali difficoltà da far sì che la ricerca di un “fondamento” giuridico solido e certo sia necessaria per poterle superare. In sé, il semplice fatto di prendere in considerazione di limitare in questo modo la libertà della ricerca conciliandola con al-tri diritti e libertà concorrenti, seguendo il modello classico del diritto delle libertà pubbliche, riveste allora un carattere almeno in parte ico-noclasta e volto a confondere la rappresentazione comune dell’attività scientifica, quella che deriva dalla corrente epistemologica dell’“in-terpretazione A”.

Cominciare ad eliminare il vasto regime di non-diritto che esiste in favore della scienza, a cui sarebbe stata fin qui garantita una libertà illimitata, significa in effetti applicarvi il famoso schema dello “stato di diritto” in virtù del quale nessuno, le persone pubbliche non più dei privati, potrebbe mai sfuggire alla condizione di soggetto di diritto e al dovere correlativo di rendere conto dei suoi eventuali abusi davanti a una giurisdizione. Il che equivale ad intendere la scienza non più so-lo come un sapere (di cui non si vede come si potrebbe abusare), ma anche come un potere, ovvero la possibilità di un assoggettamento po-tenziale. Ipotesi che evidentemente è contraria al postulato dell’“inter-pretazione A”, della purezza essenziale dell’attività scientifica che, fondamentalmente orientata verso la sola ricerca e la scoperta di ciò che esiste in natura, non potrebbe in alcun caso esercitare un potere perché lungi dal voler ciò che dovrebbe essere (da un punto di vista politico o assiologico), si limiterebbe a conoscere ciò che è, nella tota-le indifferenza rispetto ai valori. Non si capisce dunque, di fronte a questa intrinseca e inoffensiva neutralità (o laicità, come viene spesso e volentieri sottolineato) del metodo scientifico, che cosa potrebbe giustificare il suo assoggettamento al diritto, cioè la sua sottomissione a norme imperative che pretenderebbero di vietargli di far conoscere ciò che è. La libertà illimitata sarebbe inerente al concetto di ricerca

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scientifica perché questo, rinviando a un’attività essenzialmente im-personale e priva di soggettività, non potrebbe comprendersi se non in una prospettiva di verità in linea di principio incommensurabile in relazione a – e quindi non addomesticabile da – ogni istanza di autori-tà, anche se legittima nel campo politico o morale.

Il problema principale posto dal presente volume appare quindi come propriamente incomprensibile, se non assurdo dal punto di vi-sta del pensiero positivista tradizionale, ancora molto presente nell’opinione contemporanea, il quale presuppone, a titolo di dogma epistemologico indistruttibile, il carattere assoluto e a tenuta stagna della separazione tra il campo della conoscenza, il cui scopo è stabilire la verità, e il campo dell’azione, il cui scopo è prescrivere il buono e il giusto. Ai suoi occhi, la diffidente protezione giuridica contro even-tuali abusi della scienza, completamente incongrua poiché agisce nell’avvenuta confusione dei due campi, non può provenire da una “fobia della scienza”5 irrazionale e retrograda. Secondo questa conce-zione di una scienza sedicente neutra, l’affermazione della legittimità intrinseca dell’attività di ricerca è in realtà un elemento strettamente solidale con il discorso di ogni tradizione politica liberale che, dall’Illuminismo (erede della Scuola moderna del diritto naturale del XVIII secolo) fino ai positivisti ferventi della terza repubblica radicale e voltairiana (passando soprattutto per i Fisiocratici e il loro “ despo-tismo dell’evidenza ”6, gli “Idéologues” della Rivoluzione o gli “Doc-trinaires” della monarchia di luglio e la loro “ sovranità della Ragio-ne ”), associa l’ideale democratico al governo liberatore della Ragione garantito da una scienza teoricamente assolutamente indipendente, e perciò in grado di elevare ogni membro del corpo sociale alla piena coscienza di sé, cioè della propria umanità7, soprattutto attraverso un sistema istituzionale scolastico e universitario, statale e laico, messo in atto durante la terza repubblica.

Detto altrimenti, la parola d’ordine della “neutralità” e della “lai-cità”, fondamento epistemologico del regime giuridico della libertà incondizionata della ricerca, appare in fondo – paradossalmente – come l’elemento assolutamente decisivo di un dispositivo argomenta-tivo politico e ideologico: è in nome dell’autonomia del campo della conoscenza rispetto a quello della volontà e della separazione radicale tra ragione e fede, che la squalifica del pregiudizio e della tradizione,

5 Vedi G. Hottois, Une lecture philosophique critique de la Convention Euro-

péenne de Bioéthique, in Ethica Clinica, 1999, 10 ss. 6 Vedi O. Cayla, ‘Si la volonté générale peut errer’. À propos de ‘l’erreur manifeste

d’appréciation’ du législateur, in Le Temps des savoirs, 2000, 2, 61 ss. 7 Vedi C. Nicolet, L’idée républicaine en France (1789-1924), Paris, 1994, 309 ss.

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in quanto caratteri “oscurantisti” e “medievali” del metodo scientifi-co, è stata il motore della lotta contro le istituzioni dell’Ancien Régi-me. Il rivoluzionario “tabula rasa” consistette, infatti, nell’ambito di una politica intransigente della Ragione, nello sradicare per prima co-sa ogni “dominio della scienza da parte del diritto” che, attraverso l’esempio del famoso processo di Galileo, avrebbe potuto solo con-durre, ai suoi occhi, a un attentato contro la logica e quindi alla misti-ficazione, visto che un tale processo non può comprendersi se non ammettendo che, in virtù del diritto, ciò che è non deve essere detto, cosa che, sul piano politico, non può sfociare se non in un trionfo rea-zionario. Per tutte queste ragioni, le questioni sollevate dai saggi con-tenuti nel presente volume possono apparire, dal punto di vista del positivismo tradizionale, come politicamente sospette8. Poiché a causa dei presupposti che necessariamente lo orientano, non sembra potersi formulare altrimenti che nell’ambito del un’epistemologia che rifiuta la separazione rigorosa tra la conoscenza e la volontà, come quella che esprime “l’interpretazione S”. Rimettere così in questione la “legge di Hume”, che permette di pensare l’autonomia assoluta del giudizio di fatto della scienza rispetto al giudizio di valore della morale e del di-ritto, è abbastanza caratteristico delle “teorie del sospetto”, che dopo Nietzsche e Heidegger soprattutto alimentano nella filosofia contem-poranea una critica del pensiero moderno dell’Illuminismo, traducen-dosi politicamente, ad esempio, sia in modelli di “post-modernità” di tipo foucaltiano, sia in imprese, di tipo gadameriano, di riabilitazione dei concetti d’autorità, di tradizione e di pregiudizi, rifiutando i quali il pensiero moderno si è per l’appunto costituito. Attraverso opzioni filosofiche che non sono più attuali ai nostri giorni, gran parte della filosofia politica, giuridica e morale, decisa a rompere con ogni “pen-siero del sessantotto”, non smette di proclamare (sotto forme diverse, rawlsiane o habermasiane per esempio), il suo attaccamento a Kant e la necessità di un ritorno, certo con alcuni cambiamenti a volte so-stanziali, all’umanismo dei Moderni9.

8 È ciò che suggerisce senza ambiguità G. Hottois, op. cit., a proposito dei retro-

scena ideologici secondo lui presenti nella Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e la dignità dell’essere umano, riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina.

9 Soprattutto quello che consiste, dopo aver riaffermato la netta separazione degli ordini della conoscenza e dell’azione (cioè tra la questione del vero della Critica della ragion pura e la questione del bene della Critica della ragion pratica), a cercare nella Critica del giudizio, consacrata alla questione del bello, il concetto di “giudizio riflet-tente” per applicarlo all’ambito morale che riguarda la seconda Critica, il che significa prendersi una certa libertà con il dogma della distinzione delle sfere.

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Detto ciò, prima di iniziare una qualsiasi valutazione di ciò che potrebbe implicare la limitazione della libertà della ricerca da parte del diritto, e di conseguenza ogni riconoscimento della fondatezza dell’“interpretazione S”, precisiamo almeno in parte il nostro oggetto e mettiamoci d’accordo su almeno tre postulati.

1) La “produzione di conoscenza”, in relazione alla quale ci si chiede qui in che misura può fare oggetto di un’eventuale restrizione giuridica, non può che essere quella che risulta da un’attività di ricer-ca effettivamente diffusa e pubblicata: la questione non ha in effetti alcun senso per quel che riguarda una ricerca monologica effettuata nel segreto assoluto del laboratorio o della biblioteca di un ricercatore solitario. Una “scoperta” mai comunicata – o che non ha vocazione ad esserlo – non sarebbe tale, o quantomeno le mancherebbe il suo carat-tere scientifico. Il proprio della scienza è in effetti, come direbbe Kel-sen, di far conoscere almeno altrettanto che conoscere e presuppone, per acquistare la qualità scientifica alla quale aspira, un riconoscimento che non si può immaginare se non in un contesto comunicazionale. Per questa ragione, la questione della libertà della ricerca non si di-stingue veramente da quella della libertà di espressione, o più global-mente dalla libertà di comunicazione di cui è forse una configurazione particolare.

2) Riflettere sul fondamento legittimo della limitazione della ricer-ca scientifica da parte del diritto ha senso solo per la ricerca fonda-mentale che si consacra unicamente alla descrizione teorica di ciò che è. Includere nella riflessione l’attività di ricerca applicata o la speri-mentazione significa spostare il problema in una sfera in cui la sola scienza non è chiamata in causa, in quanto attività di conoscenza, ma lo è il farlo, cioè l’attività di produzione resa possibile dalla tecnica. È la ragione per cui le disposizioni giuridiche relative alla proibizione della clonazione umana per esempio, non sembrano, in questa pro-spettiva, influenzare la libertà della ricerca propriamente detta: questa non sarebbe davvero rimessa in questione a meno che il diritto non vieti l’elaborazione di teorie biologiche che affermano la possibilità teorica del clonaggio, cioè che in quanto tesi scientifiche sovvertono l’idea stessa che la riproduzione delle specie animali dipenda dalla lo-ro sessualità10. Invece, vietare la fabbricazione di cloni umani non ha nessun rapporto con la regolamentazione della ricerca scientifica: il divieto è volto soltanto a proibire una pratica (allo stesso modo che il diritto proibisce l’omicidio o la guida a sinistra sulla strada per esem-

10 Nel modo in cui, per esempio, i partigiani del “creazionismo” negli Stati Uniti

intendono proscrivere giuridicamente l’insegnamento dell’evoluzionismo darwinista a scuola.

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pio) e non l’elaborazione di una teoria scientifica, né la sua diffusione. Ogni considerazione relativa alla liceità o al divieto di pratiche di ap-plicazione della ricerca sarà quindi qui esclusa per principio, in quan-to considerata fuori tema.

Inoltre, la ragione principale per cui la corrente normativa “bioe-tica” si è sviluppata considerevolmente in questi ultimi decenni, per fare un esempio, riguarda meno il desiderio di limitare attraverso norme morali o giuridiche alcune pratiche sperimentali più o meno inquietanti, rese possibili dal genio genetico (come quelle che consi-stono nel creare degli organismi ibridi, cioè degli assemblaggi di ele-menti di provenienza vegetale con altri di provenienza animale o umana11), che non il desiderio di attaccare in realtà le tesi stesse della biologia genetica contemporanea, che affermano l’unità e il carattere indifferenziato del mondo vivente, cioè aboliscono teoricamente le frontiere tra le specie viventi. Certo le norme “bioetiche” (e “biogiu-ridiche”) non hanno come oggetto immediato il divieto né lo scorag-giamento dell’espressione di queste tesi biologiche, ma servono a volte quantomeno a controbilanciarne gli effetti, che queste norme giudica-no nefasti per la riaffermazione perentoria dell’irriducibile quanto in-dimostrabile singolarità della natura umana. Detto altrimenti, con la sacralizzazione del famoso “principio di dignità della persona umana”, il discorso normativo del diritto e dell’etica cerca di neutralizzare (e quindi di limitare almeno indirettamente) gli effetti, secondo lui deva-stanti, della “laicità”12 delle tesi biologiche contemporanee13.

È proprio per questa ragione, per altro, che la questione posta dal presente volume in merito all’intervento legittimo del diritto volto a limitare la ricerca scientifica, non sembra affatto poter trovare una ri-sposta nella sola affermazione di principio della dignità della persona umana, come sostengono fortemente B. Mathieu14 e D. Cohen15. In

11 Si pensi, per esempio, alle esperienze realizzate da biologi americani che sono

riusciti a creare dei topi il cui cervello è stato colonizzato per il 25% da neuroni pro-venienti da cellule originate da embrioni umani, e che prendono in considerazione anche di fabbricare dei topi dal cervello interamente composto da cellule umane: vedi Le Monde, 27 febbraio 2001, 38.

12 Per un esempio di difesa strenua in favore della “laicizzazione del cervello”, vedi J-P. Changeux, L’homme neuronal, Paris, 1983.

13 Per un’analisi e una critica di questo sforzo di neutralizzazione, ci si permette di fare riferimento a O. Cayla, “Bioéthique ou biodroit ?”, Droits, revue française de théorie juridique, 1991, 3-18.

14 B. Mathieu, La liberté de la recherche, droit fondamental constitutionnel et in-ternational. Variations sur le thème dans le champ de la bioéthique, in La liberté de la recherche et ses limites. Approches juridiques (a cura di M-A. Hermitte), Paris, 2001, 57-78.

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effetti, il discorso etico-giuridico della dignità della persona umana non è solo un discorso normativo del dover-essere: pretende anche di essere un discorso cognitivo e descrittivo che afferma, sulla falsa riga del giusnaturalismo moderno (esso stesso, come si sa, erede del di-scorso teologico giudeo-cristiano che definisce l’uomo “imago dei”), l’esistenza di una natura umana dotata di una specificità eminente nell’ambito del mondo vivente (troppo spesso si tende a dimenticare che il principio della dignità della persona umana, prima di implicare l’idea di uguaglianza tra gli uomini – l’unica su cui s’insiste –, è so-prattutto debitore dell’idea dell’ineguaglianza tra l’uomo e il resto del-la natura, cioè dell’essenziale superiorità dell’uomo sul resto della na-tura). In breve, opporre alla scienza il principio della dignità della persona umana significa opporre una certa descrizione moderna teo-logica o metafisica della natura umana, a un’altra descrizione contem-poranea e “laica”, attualmente sostenuta dalla scienza biologica. Detto in altre parole, brandire questo principio di dignità non riesce affatto a fondare la limitazione della ricerca da parte del diritto, ma consiste semplicemente nel praticare questa limitazione16. La questione della legittimità di una tale limitazione resta quindi d’attualità, anche quan-do s’invoca il principio della dignità della persona umana, che non permette assolutamente di risolverla.

3) Bisogna infine comprendere l’attività della ricerca scientifica (si tratta qui di sapere se è possibile o no limitare il diritto di esercitarla) non sotto il profilo ingenuamente essenzialista e peraltro abbandonato dall’epistemologia contemporanea di un’attività che, sfociando su una scoperta – il cui statuto si opporrebbe fondamentalmente a quello di un’“invenzione” –, consisterebbe nel trovare qualcosa che esiste nel mondo (e di cui non si sospettava l’esistenza prima dell’avvento di questa scoperta), ma sotto il profilo di un’attività discorsiva che consi-ste, attraverso il linguaggio (formalizzato oppure no, poco importa), nell’enunciare, con atti di linguaggio di forza illocutoria descrittiva, proposizioni che pretendono di invalidare delle descrizioni precedenti o semplicemente concorrenti, prodotte da altri locutori che pretendo-no essi stessi di effettuare una descrizione adeguata della realtà.

15 D. Cohen, La liberté de la recherche scientifique, réflexions d’un profane, in La

liberté de la recherche et ses limites. Approches juridiques, (a cura di M-A. Hermitte), Paris, 2001, 79-92.

16 Come fa ad esempio il primo progetto della Dichiarazione universale del ge-noma umano che afferma: “Sottolineando che il riconoscimento della diversità biolo-gica dell’umanità non può dar luogo ad alcuna interpretazione di ordine sociale o po-litico volto a rimettere in discussione il principio fondamentale dell’uguale dignità inerente a ogni membro della famiglia umana”.

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Detto in altre parole, se la limitazione giuridica della ricerca appa-re incompatibile con il metodo scientifico stesso, almeno secondo la dottrina positivista dominante, non è esattamente perché vieterebbe, in nome di ciò che deve essere, di dire ciò che è (oppure, che è la stes-sa cosa, obbligherebbe a dire sempre ciò che è, in nome per esempio di un’esigenza di trasparenza che incoraggerebbe un diritto soggettivo al sapere a uso e consumo del pubblico profano17): una tale concezione realista presupporrebbe la possibilità di una relazione diretta tra il di-scorso scientifico e le cose della natura, e dunque la possibilità di una verifica del senso del primo attraverso la constatazione della sua corri-spondenza alle seconde. Ma, almeno da Popper in poi, la validità del discorso scientifico si concepisce molto meno attraverso il suo imme-diato confronto alle cose, che non attraverso il rapporto, solamente mediato, che esso intrattiene con le cose, a causa della sua relazione con gli altri discorsi concorrenti nella descrizione degli stessi oggetti. In breve, è a causa della sua attitudine a sottoporsi alla discussione che un enunciato con pretese descrittive può essere capito, all’interno di una comunità linguistica detta “comunità scientifica”, come avente un significato “scientifico”, nel senso pragmatico e non semantico del termine. Si può dire che sia la falsificabilità di una proposizione a farla accedere alla scientificità, se si ammette che quest’ultima ha un tipo di significato pragmatico (o “forza illocutoria”) che permette la com-prensione nell’ambito di un processo comunicazionale. Questa è la conseguenza del fatto che in fondo ogni proposizione emessa dal ri-cercatore si orienta verso la contestazione di teorie rivali (che queste siano contemporanee o situate nel passato, poco importa), allo scopo di sostituirle, il che è possibile solo a condizione di privarle della loro credibilità (la richiesta “Credimi”, rivolta al destinatario e identificata da Kelsen come ciò che accompagna implicitamente ogni proposizio-ne descrittiva del locutore, è identica alla richiesta di chiedergli di non credere agli altri interlocutori, che effettuano una descrizione diversa dello stesso oggetto). Di conseguenza, secondo la regola della recipro-cità, la postura discorsiva del ricercatore lo conduce a sottoporsi a una possibile confutazione della descrizione che propone, precisamente perché questa descrizione, per principio, si presenta essa stessa neces-sariamente come la confutazione (almeno implicita) di altre descrizio-ni del reale di cui contesta la pertinenza.

In queste condizioni, in cui il progresso della ricerca si presenta non come un avvicinamento incessante verso la verità pura (con l’idea

17 Seguendo la logica di cui si richiamano gli scienziati che interpretano il ruolo

di “whistleblower” e vanno contro l’obbligo di discrezione o di segreto cui possono essere tenuti dal loro datore di lavoro (privato o pubblico).

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corrispondente di un passato necessariamente oscurantista e di un aumento progressivo della luce lungo la storia della scienza), ma più che altro come un processo permanente e infinito di rimessa in que-stione di teorie scientifiche che assicurano la costruzione stessa dell’oggetto delle loro descrizioni, attraverso altre teorie che propon-gono un’altra descrizione dello stesso oggetto, se non la distruzione di quest’oggetto e la ricostruzione di un altro, cosi reinventato al servizio della scoperta (per esempio, in medicina, la distruzione dell’oggetto “umore” e la sua sostituzione con l’oggetto “microbo”; oppure in lin-guistica, la sostituzione dell’oggetto “parola” con l’oggetto “segno”, oppure infine nella scienza giuridica normativistica di Kelsen, la sosti-tuzione dell’oggetto “norma” con l’oggetto “regola”), tutto ciò che è suscettibile di apportare un punto fermo a questo processo di discus-sione permanente è contrario al principio stesso della ricerca scientifi-ca18.

Evidentemente, il diritto è il fattore per eccellenza di una tale pos-sibilità di rottura nella discussione (tranne che nella sua concezione habermasiana, almeno secondo quanto questa pretende), come mo-stra il processo emblematico di Galileo, al quale è stato ingiunto di ritrattare per non portare pregiudizio al paradigma geocentrico consi-

18 Secondo questa concezione contemporanea della scientificità che integra l’idea

kuhniana di “rivoluzione scientifica” tanto quanto il criterio popperiano della “confu-tabilità” o “falsificabilità”, il “progresso” scientifico non può più concepirsi, nella mi-gliore delle ipotesi, se non come l’aumento della conoscenza di ciò che il mondo non è, e non più come l’aumento della conoscenza di ciò che è: il successo di ogni nuovo paradigma, che è riuscito a convincere della falsità del paradigma precedente e a so-stituirsi, è impotente quanto a garantire l’adeguazione oggettiva del mondo reale alla descrizione del mondo possibile che viene fatta, ma si accontenta di dimostrare l’inadeguatezza del mondo reale al mondo possibile descritto dal paradigma prece-dente, cioè provare che il mondo non è ciò che era descritto dal paradigma preceden-te. Come afferma Serge Robert (Les mécanismes de la découverte scientifique. Une épi-stémologie interactionniste, Ottawa, “Philosophica”, 1993, 167-168): “Da una teoria all’altra, Popper spiega il progresso come segue: la scienza cerca di identificare qual è il mondo della nostra esperienza empirica tra l’insieme dei mondi possibili (i mondi logicamente compatibili); con il suo contenuto proibitivo, ogni ipotesi rifiutata esclu-de un sotto-insieme di quei mondi possibili che non possiedono il mondo della nostra esperienza. In questo modo, ogni rifiuto ci insegna qualcosa che prima non sapeva-mo, cioè che il nostro mondo non è conforme alla teoria precedente. Così, da un rifiu-to all’altro, sappiamo sempre meglio come il nostro mondo non è fatto. Siccome la scienza non è verificabile, essa comprende un processo senza fine di riduzione dell’insieme dei mondi possibili, senza mai essere certa di raggiungere la meta che si è prefissata, cioè una descrizione vera del nostro mondo. Il progresso scientifico non è quindi un aumento della verità o della probabilità della verità, ma un’esclusione di errori successivi, che implica un’approssimazione sempre maggiore della verità, un aumento di un processo senza fine del grado di verosimiglianza (o di plausibilità) del-le nostre teorie”.

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derato indiscutibile, poiché era il solo ad accordarsi con la verità della religione, i cui valori organizzavano giuridicamente la società europea dell’epoca. Questo esempio mostra la natura esatta del problema che solleva, agli occhi del positivismo attuale sempre fedele all’episte-mologia dell’“interpretazione A”, l’ingerenza del diritto nell’ambito della scienza: riguarda meno una questione di contenuto (la tesi di Galileo è “vera”, quella della Chiesa dell’epoca è “falsa”, quindi il processo è assurdamente considerato il trionfo dell’errore sulla veri-tà), che una questione di forma. Quel che è, in effetti, problematico nella pretesa del diritto, cioè del potere statale che ne è l’autore, di vo-ler limitare la libertà della ricerca, è la forma specifica della giuridicità che, in quanto fenomeno dal significato pragmatico, si caratterizza es-senzialmente per la sua unilateralità19. Questa, che sta al cuore in par-ticolar modo dell’autorità della cosa giudicata, consiste essenzialmente in un potere sovrano dell’ultima parola, che ha come oggetto la chiu-sura stessa di una discussione, a causa del fatto che pretende precisa-mente di assimilarsi, grazie a una finzione fondamentale (o piuttosto una presunzione assoluta), all’istanza di validità assolutamente indi-scutibile e innegabile che l’epistemologia pre-popperiana nell’era del positivismo tradizionale, ormai conclusasi, designava come quella del-la verità pura (res judicata pro veritate habetur). Di conseguenza, il ri-fiuto perentorio della concezione eliocentrica di Galileo da parte della giurisdizione pontificia si presenta, nella sua forma discorsiva stessa, come la negazione radicale del principio della ricerca scientifica (com’è oggi pensata) poiché l’autorità di cui essa si fregia, rimanda per analogia a una concezione assolutistica della verità, nel senso che essa si autorizza a confutarla in maniera contraddittoria, senza ammet-tere, in modo reciproco, la sua propria confutabilità.

3. La definizione giurusdizionale della scientificità Si potrebbe senza dubbio considerare l’esempio del processo di

Galileo privo di pertinenza nel quadro della scienza contemporanea e del diritto laico contemporaneo. Ma la presa in considerazione da par-te del diritto, e più precisamente della legge Gayssot, della verità sto-

19 Il che non ne fa un significato “monologico”, contrariamente a quel che affer-mano molti autori di filosofia politica contemporanea per quel che riguarda la legge positiva, poiché la comprensione di un significato unilaterale (quello di un comando obbligatorio, che non si “discute”) non può aver luogo se non nell’ambito di un pro-cesso di comunicazione dialogica: vedi O. Cayla, La notion de signification en droit. Contribution à une théorie du droit naturel de la communication, tesi di dottorato, Pa-ris II, 1992, e D. de Béchillon, Qu’est-ce qu’une règle de droit ?, Paris, 1997.

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rica relativa alla realtà dei crimini di genocidio commessi durante la seconda guerra mondiale, volta a difendersi dall’elaborazione di tesi revisioniste permettendo di qualificarle come delitti, non pone forse un problema dello stesso genere? Tra l’altro, è proprio a causa del suo carattere eminentemente problematico riguardo ai requisiti dell’“in-terpretazione A” che questa legge, che è una legge di censura, non è stata oggetto di un’approvazione unanime da parte di ricercatori e storici, pertanto avversari convinti del revisionismo20. Il fatto è che questa legge, com’è stato ricordato all’epoca, si occupa di questioni che non la riguardano, cioè introduce una confusione tra diritto e scienza, ovvero tra autorità e verità. L’argomento tradizionale della separazione degli ambiti tra fatti e valori è stata riutilizzata per critica-re l’intervento abusivo dello Stato in un ambito che apparterrebbe per natura alla competenza esclusiva del ricercatore.

Ma è davvero questo il problema posto dalla legge Gayssot? È davvero così certo che, soprattutto nell’ambito delle scienze umane e sociali, la frontiera netta tra la sfera del fatto e quella del valore sia co-sì facilmente reperibile? Se ci si attiene alle molteplici occasioni di ri-flessione sui rapporti tra diritto (come discorso prescrittivo) e storia (come discorso descrittivo), che hanno suscitato i recenti processi in Francia contro i responsabili politici e amministrativi della seconda guerra mondiale perseguiti per crimini contro l’umanità (Barbie, Tou-vier, Papon), l’argomento della legge di Hume non ha cessato di esse-re utilizzato sia per dire che non spetta al giudice fare la storia, sia per dire che non spetta allo storico emettere sentenze. Nel processo Tou-vier per esempio, a un’epoca in cui la Corte di Cassazione aveva pro-dotto una definizione di crimine contro l’umanità che comportava l’imputabilità del fatto criminale a un “regime che pratica una politica di egemonia ideologica”, è stata criticata l’accusa della Corte d’ap-pello di Parigi per aver rimesso in discussione, in quest’occasione, il giudizio degli storici riguardo alla natura del regime di Vichy21, cioè è stato rinfacciato al giudice di aver preteso di fare il lavoro dello stori-co22. Al contrario, durante il processo Papon, molti hanno deplorato il

20 Su queste questioni, vedi V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Pa-

ris, 2000; M. Rébérioux, Le génocide, le juge et l’historien, in L’Histoire, 1990; P. Vi-dal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, Paris, 1987 ; Id., En mémoire des victimes in L’Histoire, n. 156, giu-gno 1992, 51.

21 Nello stesso modo in cui, nel 1998, alcuni storici si sono sollevati contro la pre-tesa di fare del processo Papon l’occasione del giudizio di Vichy: H. Rousso, Il tribu-nale della Storia ha giudicato Vichy da molto tempo, Le Monde, 7 aprile 1998.

22 In modo tale che, temendo il rinnovarsi delle critiche, la Cour de Cassation, quando ha dovuto pronunciarsi a sua volta il 27 novembre 1992 sullo stesso caso

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fatto che, convocati alla sbarra dei testimoni, alcuni storici siano in realtà stati chiamati indirettamente a pronunciarsi al posto dei giurati sulla qualificazione del crimine contro l’umanità da applicare alle azioni dell’imputato, cioè per rinfacciare al giudice di aver invitato lo storico a fare il lavoro di giudice al suo posto23.

In un articolo fondamentale consacrato all’esame della questione del rapporto tra giudice e storico, Y. Thomas espone la difficoltà che esiste, per l’uno come per l’altro, nel non oltrepassare la frontiera che dovrebbe delimitare il proprio ambito di competenza: “le confusioni sono facili, forse inevitabili. Mostrano che la distinzione tra giudizio di realtà e giudizio di valore è più facilmente teorizzata che non messa in pratica”24.

Ma Y. Thomas mette soprattutto in evidenza il fatto che la confu-sione arriva al suo apice quando il giudice, a cui si è fatto ricorso con

Touvier, ha evitato di affrontare il problema della qualificazione secondo lo stesso criterio, nonostante lo avesse estratto lei stessa dalla sua giurisprudenza, suscitando le seguenti nuove critiche: ”Si sperava (…) che la giurisdizione suprema si sarebbe pro-nunciata sulla questione se lo Stato francese abbia o meno perseguito una politica di egemonia ideologica. Almeno due ragioni avrebbero dovuto far sì che questa speran-za non fosse delusa: innanzitutto poiché in materia di crimini contro l’umanità, con-trariamente a quel che alcuni hanno sostenuto all’indomani della sentenza della came-ra dell’accusa della corte d’appello di Parigi, dire il diritto obbliga a leggere la Storia, missione che la Cour de Cassation non ha compiuto en 1985 nel processo Barbie; poi perché lei stessa ha aggiunto al testo dell’articolo 6 dello statuto del tribunale di No-rimberga una condizione che non vi appariva, cioè che i crimini dovessero essere commessi “nel nome di uno Stato che pratica una politica di egemonia ideologica”. Era quindi normale che alla luce dei lavori di storici contestabili, la Corte desse una risposta. Invece, tradendo quest’aspettativa, i magistrati supremi hanno scelto di rela-tivizzare (…). Così, nella catena delle responsabilità, l’anello della Francia di Vichy è saltato, poiché l’argomentazione giuridica si è focalizzata più comodamente solo sulla Germania nazista (…). In totale, l’abilità nello schivare la questione, mostrata in que-sta sentenza, provoca la stima del tattico invece di ottenere la convinzione del giuri-sta”, R. Koering-Joulin - A. Huet - P. Wachsmann, Hégémonie idéologique, Le Mon-de, 19 dicembre 1992, 2.

23 O quantomeno di provocare “la strumentalizzazione degli storici nel pretorio” come scrive Y. Thomas, La vérité, le temps, le juge et l’historien, in Le Débat, 1998, 17.

24 Y. Thomas, ibid., p. 24. Y. Thomas insiste soprattutto sulla propensione dello storico a pretendere di farsi carico dell’operazione di qualificazione giuridica dei fatti, che è al centro dell’attività giurisdizionale, che sia per i bisogni di una causa “revisio-nista” (come quella che consiste, alla stregua di B. Lewis, nel contestare la qualità di “genocidio” dei massacri contro gli Armeni), o al contrario per vietare il riesame da parte del giudice di una qualificazione considerata come scontata, senza bisogno di alcuna conferma giudiziaria, come quella applicabile al regime di Vichy, “già giudica-to dal tribunale della Storia”: “Anche se può sembrare naturale, la giustizia resa spon-taneamente nel nome della storia non rende coloro che se ne fanno carico meno simili a dei giudici che a degli storici”, Y. Thomas, ibid.

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una richiesta per far condannare una tesi revisionista (a proposito del genocidio armeno o della Shoah), preferisce condannare, non met-tendosi sul piano della discussione della realtà dei fatti proposta dallo storico in questione, ma su quello del metodo da lui impiegato per produrre le sue affermazioni. Cercando di non incappare nella critica di aver inopportunamente preso il posto dello storico, il giudice stig-matizza così la ricerca indiscriminata, ritenendo che la sua condotta sia caratterizzata da una “grave negligenza”, poiché ha passato sotto silenzio documenti o opinioni contrarie alla sua tesi, il che costituisce un fatto illecito volto a provocare la responsabilità civile del ricercatore (caso Lewis), la dipinge cioè come priva di carattere scientifico dato il suo carattere di “gioco intellettuale”, di “polemica” e di “discorso po-litico” (caso Faurisson). E Y. Thomas sottolinea questo paradosso:

“Questa reticenza a pronunciarsi sulla realtà stessa dei fatti quando si tratta di storia conduce allo strano risultato che, per meglio rispettare la sovranità dello storico sul suo oggetto di studio, i giudici finiscono per controllare il suo metodo. Impedendosi di cercare un elemento sull’illecito nell’inadeguatezza del discorso alla realtà, preferiscono valutare il discorso stesso dal punto di vista soggettivo della buona fede metodologica. Privati di ogni riferimento nella realtà esterna, se la prendono con la scienza sulla quale esercitano la loro giurisdizione. (…) Per sfuggire al rompicapo di doversi pronunciare sulla verità storica, i giudici si lasciano andare ad una definizione del mestiere dello storico. La loro presa di posizione è curiosamente stata accettata senza nessun pro-blema. È stato persino dato loro atto di non essersi immischiati nella scrittura della storia. Ed è stato loro accordato con gratitudine di essersi accontentati di legiferare sulla disciplina, sulla sua deontologia e sulla sua metodologia. Non è certo che un tale affare non sia per lo storico un affare da sciocchi”25.

In effetti, è il meno che si possa dire. Dal punto di vista epistemo-

logico dell’“interpretazione A”, questa definizione, da parte del giudi-ce, della scientificità stessa del discorso emesso dal ricercatore, è una minaccia all’autonomia della ricerca, ancor più grande di quella che viene della semplice imposizione di una verità ufficiale, poiché essa si concepisce nel principio stesso di una dipendenza essenziale dello scientifico rispetto al giuridico, che fa rientrare la costituzione della qua-lità scientifica di un discorso nell’autorità di una sentenza giuridica. Detto altrimenti, la limitazione della libertà della ricerca scientifica raggiunge qui il suo massimo livello, poiché esercitando la facoltà di controllare la qualificazione del carattere scientifico della ricerca, arri-

25 Y. Thomas, ibid., 24-25.

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va fino a negare nel suo principio stesso ogni possibilità di una ricerca libera.

Una tale conseguenza, così radicalmente negatrice della sovranità scientifica, non è in realtà paradossale come Y. Thomas suggerisce, ma sembra al contrario logicamente implicata dall’imperativo politico e morale di non ammettere in nessun caso tesi revisioniste: è infatti molto più efficace, per soddisfare questa esigenza normativa, negare ogni qualità scientifica dell’autore, piuttosto che affermare la falsità (o in seguito a una dimostrazione, oppure per effetto di una presunzione assoluta, come fa la legge Gayssot) delle sue affermazioni. Poiché prendersi il disturbo di falsificare un discorso che si vuole scientifico, significa certo dire che è erroneo e che quindi dev’essere scartato, ma non significa dire che non è scientifico. Al contrario, significa ammet-tere che è scientifico, poiché significa riconoscere che è falsificabile e di-scutibile. In altre parole, stabilire nel nome della verità storica, la falsi-tà della tesi revisionistica, è contro-producente, poiché lungi dall’an-nullare il discorso del revisionista lo si fa esistere come discorso scienti-fico, in quanto si accetta l’idea stessa del discuterlo per rifiutarlo e così facendo lo si legittima come un discorso degno di essere preso in con-siderazione. I giudici che hanno così valutato la scientificità del discor-so revisionistico piuttosto che la sua veridicità si sono forse posti il problema, prudentemente, di non prendersi per degli storici, ma han-no sicuramente pensato di soddisfare meglio l’esigenza politica e mo-rale di far tacere ogni sovversione revisionistica. Negare una qualsiasi qualità scientifica a quest’ultima significa annullarla efficacemente e rifiutarsi definitivamente di entrare in discussione con essa. Significa cancellare la sua esistenza escludendola dalla comunità scientifica cui essa pretende di appartenere26.

Infatti, ed è lì tutto il problema sollevato dall’“interpretazione S”, ammettere la qualità scientifica di un discorso è un’operazione che è tutto fuorché neutra dal punto di vista comunicazionale, cioè sociale. Perché significa ipso facto ammetterlo prima in una comunità di di-scussione, chiamata anche “comunità scientifica”, cioè riconoscergli la dignità sufficiente per esservi integrato, e significa inoltre detenere un tale brevetto di scientificità da conferire autorità o pertinenza al “cre-dimi” (e “non credere al discorso opposto”) implicitamente emesso in direzione del pubblico dall’autore di una proposizione di forza de-

26 Così si effettua in maniera simbolica ciò che alcune decisioni amministrative

possono realizzare concretamente, come quelle prese dalla direzione del CNRS nell’ottobre 2000, per obbligare un ricercatore (S. Thion) a dimettersi a causa dell’esposizione di tesi negazioniste, poiché arrecava danno alla “ dignità del suo cor-po” e alle credenziali scientifiche dell’istituzione: vedi Le Monde, 27 ottobre 2000.

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scrittiva. È sicuramente per questa fondamentale ragione che dal pun-to di vista epistemologico dell’“interpretazione S”, la limitazione della libertà della ricerca da parte del diritto diviene pensabile. Meglio an-cora che legittima, il dominio della ricerca da parte del diritto appare persino ai suoi occhi come ineluttabile, poiché essa assicura la costitu-zione stessa del valore scientifico – o scientificità – del discorso.

4. La comunità scientifica è un ordinamento giuridico? È peraltro ciò che dimostra in parte R. Encinas de Munagorri

quando risponde, positivamente, alla domanda fondamentale se la comunità scientifica sia o meno un ordinamento giuridico27. Stabilen-do, in effetti, da un lato, che la scientificità di un discorso dipende da un atto fondamentale di riconoscimento, che, di fatto, integra il suo autore in una comunità di discussione, nell’ammettere la legittimità della sua pretesa di discutere (quindi contestare) la validità degli enunciati proposti dai discorsi rivali (con il corollario dell’esclusione dalla comunità che deriva dal mancato riconoscimento di questa pre-tesa), e dall’altro lato, che questo riconoscimento opera secondo dei criteri di valutazione che prendono la forma di vere e proprie norme che producono obblighi giuridici, R. Encinas de Munagorri conferma la tesi della subordinazione della scienza al diritto, cioè permette di vedere in che misura, dal punto di vista epistemologico implicitamen-te preso dall’“interpretazione S”, il significato giuridico di un discorso fondato sull’autorità, è il fondamento necessario della comprensione oggettiva del significato scientifico di un discorso di verità.

È ben noto il tenore di queste regole destinate a distinguere tra le scienze “vere” e “false”: esse definiscono una modalità discorsiva “scientificamente corretta”, che permette di stigmatizzare i compor-tamenti scientifici reprensibili (scientific o research misconduct). In ge-nerale orientati verso la soddisfazione dell’imperativo morale di one-stà, di sincerità e di lealtà, si presentano prima di tutto come regole di procedura che, alla stregua dei requisiti dell’etica habermasiana della discussione, garantiscono il carattere dialogico e comunicazionale del discorso a pretesa (o “forza”) descrittiva, cioè garantiscono il suo ca-rattere confutabile o discutibile. Sono così sanzionate per lo più tutte le manovre fraudolente volte a nuocere alla trasparenza e alla sincerità della comunicazione: fabbricazione o falsificazione di dati o plagio del

27 R. Encinas de Munagorri, La communauté scientifique est-elle un ordre juri-

dique?, in Revue Trimestrielle de Droit Civil, 1998, 247-283.

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lavoro altrui28, insomma ogni impresa destinata a forzare, con la vio-lenza di una mira strategica e manipolatrice, il riconoscimento della comunità. Osservando, attraverso la realtà delle sanzioni di esclusione inflitte a coloro che contravvengono, l’obbligo imposto da tali norme, è difficile negare loro la qualità giuridica e rifiutarsi di vedere nel pro-cesso di attestazione della scientificità il prodotto di una “giuris-dizione” esercitata dagli organi di una comunità che appaiono come un vero e proprio ordinamento giuridico.

Ciò detto, probabilmente spaventato dalla radicalità della dipen-denza in cui il diritto tiene la scienza in virtù della sua stessa analisi, e certamente poco incline a lasciar andare il purismo positivista dell’“interpretazione A”, R. Encinas de Munagorri prova malgrado tutto a salvare l’idea di autonomia della scienza rispetto al potere poli-tico statale, affermando che se la comunità scientifica è, senza alcun dubbio, un ordinamento giuridico, cionondimeno questa non può identificarsi con l’ordinamento giuridico statale. Per sostenere una tale posizione, l’autore può solo rimettersi, dal punto di vista della filoso-fia del diritto, alla famosa teoria del “pluralismo giuridico”29 che pre-suppone la possibile esistenza di un “diritto senza lo Stato” o almeno, di una sfera di giuridicità che sfugge alla presa della sovranità statale.

Non è questo il luogo30 per esporre le ragioni per dubitare forte-mente delle tesi del “pluralismo giuridico” da un punto di vista teori-co, e per proporre argomenti in favore di un’identificazione, che molti giudicano a torto o a ragione riduttiva, del giuridico con lo statale, come Kelsen ha già cercato di fare. Ma non si può evitare di essere colpiti o anche turbati dagli esempi di sanzioni che R. Encinas de Munagorri fornisce per illustrare la sua analisi: poiché sembra che, anche se suo malgrado, esse dipendono sempre, in ultima istanza, dal-la competenza statale. Sono, infatti, prima di tutto gli organi delle isti-tuzioni federali di ricerca che, negli Stati Uniti, pronunciano le san-zioni in caso di “scientific misconduct”, in considerazioni la cui forza giuridica dipende tra l’altro largamente della parte che il Congresso degli Stati Uniti intende prendere nella loro formulazione, ed è in de-finitiva davanti al giudice statale che finiscono le controversie che ri-guardano la “correzione scientifica”. Allo stesso modo, in Francia do-ve il giudice ha lo stesso ruolo di garante ultimo della polizia della di-scussione scientifica, sono le procedure disciplinari ingaggiate contro

28 R. Encinas de Munagorri, op. cit., 256 ss. 29 ibid., 282. 30 Anche se ci si è provato, soprattutto con un’analisi di ciò che è richiesto da una

teoria della comunicazione dialogica: vedi O. Cayla, La notion de signification en droit, tesi citata supra.

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gli agenti della funzione pubblica, la maggior parte dei ricercatori es-sendo impiegati, attraverso l’Università o il CNRS, dallo Stato, che permettono di sanzionare le offese all’“etica” scientifica, e quindi di fare la differenza oggettiva (e niente affatto intersoggettiva come esige-rebbe l’idea teorica di una comunità scientifica autonoma) tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è.

In definitiva, l’intervento dello Stato non è forse sempre necessa-rio per risolvere le controversie relative alla scientificità, i meccanismi di riconoscimento “comunitario” non sono forse per la maggior parte istituzionali e di ordine statale?31 L’attribuzione ufficiale del titolo di professore universitario per esempio, o del grado di dottore, non è forse effettuata da una giuria che agisce in quanto organo statale, isti-tuita e investita delle sue competenze da un atto giuridico statale? Certo, una giuria esaminatrice o di un concorso dispone, in diritto francese, di un potere discrezionale nella valutazione della qualità scientifica dei candidati. Ma questa sovranità della “giuria”, segno ap-parente della supposta autonomia della comunità dei sapienti, è più costituita che constatata dal diritto statale: risulta dai testi che la isti-tuiscono e soprattutto dell’atteggiamento giurisprudenziale del giudi-ce amministrativo che si astiene dal sottoporla al suo controllo, con un atto di volontà da parte sua che ha un carattere davvero sovrano.

Se ci si rifiuta in questo modo di prendere in considerazione la produzione di una giuridicità esterna alla sfera giuridica, non rimane molto del dogma positivista dell’autonomia della scienza, se si ammet-te la pertinenza dell’ipotesi “S”. Secondo la prospettiva introdotta da quest’ultima, la limitazione giuridica della libertà della ricerca non presenta più nessun aspetto problematico, poiché il principio stesso della libertà della ricerca non è pensabile se non come fondato sul di-ritto (cioè su norme permissive), niente affatto come una determina-zione inerente al concetto stesso di scienza. Si può anche dire che la questione di sapere “come fondare giuridicamente” una tale limita-zione, è una domanda che in queste condizioni semplicemente non si pone, poiché nel quadro dell’“interpretazione S”, è ciò che è giuridico che fonda ciò che è scientifico.

31 E quindi, al contrario, è secondo procedure di “diritto statale” (espressione pleonastica, a dir la verità) che può essere pensato il ritiro di un titolo o di un diplo-ma, come illustra ad esempio il caso dell’annullazione della prova di discussione di una tesi della laurea specialistica recentemente presa in considerazione dall’Università Lyon II, nei confronti di un autore condannato più volte per i suoi scritti revisionisti: vedi Le Monde, 5 e 6 novembre 2000, 9.

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5. La conclusione impossibile Di conseguenza, la questione principale di questo volume non

può ricevere una risposta soddisfacente: o non è pensabile, anche se ci si attiene all’“interpretazione A”; oppure non si pone, se ci si attiene all’“interpretazione S”. Per quanto riguarda il fatto di sapere quale delle due interpretazioni si deve preferire, si potrebbe essere tentati di dire che non è possibile rispondere: la scelta, infatti, non può che par-tire da un presupposto ontologico impossibile da verificare, che pre-senta quindi un carattere metafisico alla stregua della teoria popperia-na della scientificità stessa e non presenta, a causa del suo carattere confutabile, nessun carattere scientifico.

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IL DIRITTO ALLA VERITÀ

Stefano Rodotà

SOMMARIO: 1. Restituire la dignità attraverso la verità? – 2. Damnatio memoriae e do-vere di ricordare. – 3. Diritto alla verità e democrazia. – 4. Considerazioni conclusive.

1. Restituire la dignità attraverso la verità? Restituire la dignità attraverso la verità? Gli interrogativi sul diritto

alla verità accompagnano da sempre la riflessione politica e filosofica, occupano un posto di rilievo nelle fonti letterarie. Ma proprio negli ul-timi decenni, il tema ha conosciuto una rinnovata e più intensa fortu-na, che lo ha collegato a impegnativi obiettivi politici, accentuando particolarmente la questione della conservazione della memoria, anzi di una costruzione della memoria affidata appunto all’esercizio del di-ritto alla verità. Ma come si può parlare di questo diritto, chi ne sono i titolari, quali i contenuti?

“Tutti hanno l’inalienabile diritto di conoscere la verità sui fatti passati e sulle circostanze e le ragioni che, attraverso casi rilevanti di gravi violazioni di diritti umani, hanno portato a commettere crimini aberranti. L’esercizio pieno ed effettivo del diritto alla verità è essen-ziale per evitare che tali fatti possano ripetersi in futuro”1. Una affer-mazione così netta proietta immediatamente il diritto al di là di stori-che controversie, come quella che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, esalta una forza propria della verità, un suo universalismo, che non solo non lascia spazio alla menzogna dei governanti, ma tra-volge lo stesso principio secondo il quale “nessun uomo ha diritto ad una verità che nuoccia ad altri”.

Da che cosa nasce questa imperiosa visione di un diritto insoffe-rente d’ogni limite, che scardina la convinzione di chi ha pazientemen-te ricostruito il rapporto tra diritto e verità intorno ad una sorta di ine-vitabile riduzione delle pretese di verità assolute, sottolineando anzi che lo spazio proprio del diritto è quello delle verità parziali, relative, convenzionali? È l’urgenza di reagire a tragedie che induce a ritenere che lo sguardo sul passato debba produrre anticorpi capaci di impedi-

1 L. Joinet, Questions of the impunity of perpretation of human rights violations

(civil and political). Final Report, United Nations Documents, E/CN.4/Sub 2/1997/20/Rev. 1., Annexe I, Principle 1.

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re nel futuro il loro ripetersi2. L’enfasi sulla verità, dunque, non nasce soltanto dall’esigenza di restituire la dignità alle vittime. È l’umanità intera, senza confini spaziali e temporali, che compare sulla scena, ed è proprio essa a dover essere traghettata verso tempi illuminati e redenti dalla forza della verità. Ma una legittimazione così intensa conferisce al diritto alla verità una capacità espansiva nelle direzioni più diverse, che esige una riflessione attenta, e non solo la registrazione delle vicende d’origine che gli hanno attribuito una portata tanto impegnativa.

La discussione davvero planetaria intorno al diritto alla verità si le-ga al passaggio alla democrazia di diversi paesi dopo una fase caratte-rizzata da regimi politici dittatoriali, da violenze e conflitti. Per gover-nare questa transizione, nel 1995 nella Repubblica Sudafricana venne costituita una “Commissione per la verità e la riconciliazione”, un mo-dello seguito poi da diversi paesi. Emergeva così un bisogno di verità “finalizzata” alla riconciliazione (Cile, Canada, Contea di Greensboro negli Stati Uniti, Isole Salomone, Liberia, Peru, Sierra Leone, Timor Est), alla riconciliazione e all’unità (Figi, Ghana, Timor Est per l’amicizia con l’Indonesia), alla giustizia (Kenya), alla giustizia e alla riconciliazione (Marocco). In Salvador e Panama si à parlato di una commissione per la verità, senza altre specificazioni; in Argentina il compito ufficiale della commissione riguardava le persone scomparse; in Guatemala il “chiarimento storico”3.

Dietro queste diverse formule si ritrova un sostanziale denomina-tore comune già ricordato, e che molti documenti individuano appun-to nella necessità di “restituire la dignità alle vittime e ai loro familia-ri”. Infatti, nella Risoluzione 2005/66 della Commissione per i diritti umani dell’Onu si parla del “diritto delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto dei loro parenti alla verità sui fatti avvenuti, compresa l’identificazione dei responsabili dei fatti che hanno origina-to la violazione”. È un diritto delle vittime, di cui si delinea progressi-vamente il perimetro, identificando al tempo stesso nello Stato il sog-getto tenuto a porre in essere le azioni necessarie perché quel diritto possa essere garantito. Ma questo significa che devono essere precisati il contenuto di questo diritto e le sue modalità di esercizio. E, ancor prima, bisogna chiedersi se davvero un diritto alla verità così definito, o un diritto generale alla verità, sia lo strumento migliore, o l’unico

2 J.M. Chaumont, La concurrence des victimes. Génocide, identité, reconnaissance, Paris, 2002; A. Forero-I. Rivera-H.C. Silveira (a cura di), Filosofia del mal y memoria, Barcelona, 2012. Sulla “cultura della vittima” le osservazioni di M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Milano, 2009, 307-310.

3 In generale G. Illuminati - L. Stortoni - M. Virgilio (a cura di), Crimini interna-zionali tra diritto e giustizia: dai tribunali internazionali alle Commissioni Verità e Ri-conciliazione, Torino, 2000.

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possibile, per raggiungere gli obiettivi indicati – dignità delle vittime, riconciliazione politica e sociale, punizione dei responsabili, deterrente contro il ripetersi in futuro di vicende simili.

2. Damnatio memoriae e dovere di ricordare Poiché nei documenti internazionali, e in costituzioni e leggi na-

zionali, si stabilisce, esplicitamente o implicitamente, un rapporto stretto tra democrazia e verità, nel significato appena indicato, è op-portuno ricordare come proprio questo nesso sia stato radicalmente negato sottolineando che “l’addio alla verità è l’inizio e la base stessa della democrazia”4, perché l’accordo democratico sarebbe spezzato dal riferimento “a una realtà esterna, a ‘fatti’ che sono perlopiù oscuri, controversi, costruiti” 5 . Su questo punto si tornerà più avanti nell’analizzare il rischio di una “dittatura della verità”6 o della costru-zione di verità di comodo. Ma non si può trascurare il “realismo” di chi mette in evidenza come realtà e verità siano sempre state lo stru-mento di tutela dei deboli contro le prepotenze dei forti7, che è pro-prio il punto di vista dal quale muove il nuovo ed insistito bisogno di verità prodotto attraverso processi istituzionali e istituti specifici, quali sono appunto le commissioni per la verità. Esiste certamente un diritto di tutti i cittadini di mettere sempre in discussione le verità istituite. Questo, però, implica pure il diritto di esercitare la critica e il control-lo del potere, di ogni potere, proprio grazie all’irrompere della “loco-motiva-realtà”, sempre più intenso grazie pure alle opportunità offerte dal Web, nuovo dato strutturale della democrazia, che fa tornare “le funzioni scettico-critiche (…) nelle mani degli individui”, e così rende possibile “un nuovo rapporto con la parola ‘verità’”8.

L’esistenza attuale di un paradigma concettuale e politico tutto fondato sull’esigenza di giungere alla verità attraverso una ricostruzio-ne della memoria, tuttavia, non può essere considerata come l’unica, accettabile tecnica sociale alla quale ricorrere. Uno sguardo storico, pur sommario, permette di cogliere il passaggio da un’idea di politica che ci libera dall’odio e dalle divisioni sociali con la cancellazione del passato a un paradigma che, al contrario, fonda questa liberazione sul-la massima possibile conoscenza, sulla ricostruzione integrale del pas-

4 G. Vattimo, Addio alla verità, Roma, 2009, 16. 5 Così F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino, 2011, 332, sintetizza la posi-

zione dei critici radicali con esplicito riferimento a G. Vattimo e R. Rorty. 6 H. Arendt, Verità e politica, tr. it. di V. Sorrentino, Torino, 2004. 7 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, 2012. 8 Così, efficacemente, F. D’Agostini, Introduzione, cit., 339-340.

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sato, dunque su un esercizio di memoria che permetta di pronunciare la parola “verità”. Un passaggio, questo, che ne implica un altro: l’abbandono della tecnica sociale della damnatio memoriae e l’avvento dell’obbligo di ricordare, che può farsi imposizione tecnologica, anch’essa da governare con adeguate tecniche sociali.

Si usa citare, in questi casi, una frase di Plutarco: “la politica è ciò che toglie all’odio il suo carattere eterno”. Politica, dunque, è la deci-sione sul ruolo da dare alla verità, cancellandola o facendola diventare un diritto, dando preminenza all’oblio o alla memoria9.

“Non sia lecito a nessuno vendicarsi delle offese passate”. Così Aristotele sintetizza il “patto a non ricordare”, il “decreto dell’oblio”, voluto nel 403 a. C. da Trasibulo dopo la cacciata dei Trenta Tiranni10. “Secondo l’accordo stipulato nessuno aveva più diritto di ‘ricordare’ a qualcun altro il ‘male’ che aveva ricevuto e di cui lo riteneva responsa-bile. La rappacificazione passava attraverso l’esplicito divieto di ricor-dare; pur se da tale cancellazione erano esclusi i reati di sangue”11. Il rispetto dell’accordo era affidato alla previsione della pena di morte per i trasgressori, e Aristotele ricorda che tale sanzione venne applicata in un caso, con l’argomento che solo così sarebbe stato possibile salva-re la costituzione e mantenere fede ai patti, dando a tutti un esempio. “E accadde proprio così: una volta che quello fu messo a morte, nes-suno mai in seguito cercò di vendicarsi”12.

Quel patto è stato ripetutamente indicato come modello di preva-lenza dell’oblio sulla memoria, espressione dunque di realismo politico e non di attenzione per la verità. Maurizio Bettini, tuttavia, sottolinea come proprio il risultato politico fosse stato reso possibile anche da “una forte riattivazione della memoria e del passato”. Nel momento in cui veniva previsto il divieto di vendicarsi, infatti, si faceva pure appel-lo ai tratti comuni che univano gli ateniesi. “La riconciliazione pro-mossa da Trasibulo venne realizzata selezionando, tramite la memoria della città, le connessioni identitarie che favorivano l’unità tra gli ate-niesi e cancellando invece, attraverso l’oblio, le connessioni identitarie che ne avrebbero perpetuato la divisione”13. Sottolineando che il ricor-so alla memoria o all’oblio non implica un’incompatibilità tra queste due categorie, evidentemente il tema della verità viene relativizzato, diviene funzione del modo in cui si vuole perseguire il fine della ricon-

9 In un bel saggio su questo tema M. Bettini, Sul perdono storico. Dono, identità, memoria e oblio, in Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo (a cura di M. Flo-res), Milano, 2004, 38, sottolinea la propensione di Plutarco per l’oblio.

10 Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi, 39.6. 11 M. Bettini, Sul perdono storico, cit., 39. 12 Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi, 40.2. 13 M. Bettini, Sul perdono storico, cit., 41-42.

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ciliazione. Quanta verità è compatibile con questo obiettivo? Quando e come è possibile coordinare tra loro memoria e oblio?

Un’altra vicenda, emblematica e infinite volte richiamata, può aiu-tare a chiarire questi punti. Il 13 aprile 1598 Enrico IV emana l’Editto di Nantes, con il quale intende porre fine al lungo tempo delle guerre di religione, sottolineando che dopo “turbamenti, confusioni e disor-dini (…) abbiamo raggiunto il porto della salvezza e della tranquillità dello Stato”. Proprio la regola dell’oblio è il cuore dell’Editto, com’è detto esplicitamente nei suoi due primi articoli. Nell’articolo 1, infatti, si stabilisce che “in primo luogo che sia estinto e sopito il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di marzo 1558 fino alla nostra accessione alla Corona e durante gli altri precedenti disordini e in occasione di essi, come se nulla fosse accadu-to. E non sarà permesso ai nostri procuratori, né ad alcun altro, pub-blico o privato che sia, in qualsiasi momento, per qualsiasi occasione, di fare riferimento ad essi o di avviare un processo o una inchiesta”. Aggiunge l’articolo 2: “Proibiamo a tutti i nostri sudditi, di qualsiasi stato o condizione di rinnovarne la memoria, di aggredirsi, risentirsi, ingiuriarsi, provocarsi l’un l’altro rimproverandosi per quel che è av-venuto, quale che sia la causa o il pretesto, e di litigare, discutere, ac-cusarsi o offendersi con fatti o parole, ma di dominarsi e vivere insie-me in pace come fratelli amici e concittadini, prevedendosi per tutti coloro i quali contravvengono a questi divieti la punizione prevista per chi viola la pace e perturba la quiete pubblica”.

Valutando pure questo documento con il criterio già ricordato per il patto di Atene, si potrebbe ben dire che anche qui, malgrado i toni decisi e la minaccia di sanzioni, la memoria del passato non è del tutto cancellata, dal momento che l’Editto si sviluppa riconoscendo diritti ai protagonisti dei passati conflitti proprio sulla base delle posizioni e delle identità aggressivamente ribadite in quelle occasioni. Si potrebbe, anzi, aggiungere che, a differenza di quanto era avvenuto ad Atene, la riconciliazione non avviene sulla base del riferimento ad una identità comune, ma legittimando la diversità dei sudditi che professavano la “cosiddetta religione riformata” (così l’Editto). La conclusione, allora, potrebbe essere quella che mette in evidenza come, in realtà, il risulta-to della riconciliazione o della creazione di una memoria collettiva e condivisa venga realizzato “utilizzando sia le risorse dell’oblio che quelle della memoria”14.

14 M. Bettini, Sul perdono storico, cit., 39.

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“Dimenticare al tempo giusto (…) ricordare al tempo giusto”, si potrebbe aggiungere, con le parole di Nietzsche15. Ma, pur superando lo schematismo delle contrapposizioni, il problema rimane poi quello di stabilire quali siano le modalità e la misura della mobilitazione di ciascuna risorsa, essendo evidente, ad esempio, che la previsione di sanzioni penali pesantissime per la violazione del divieto di ricordare proietta sulla società l’affermazione dell’oblio come principio. Quale che sia, peraltro, la conclusione su questo punto, risulta evidente che nessuna rilevanza viene attribuita al tema della verità o, meglio, che la verità storica viene percepita e presentata come un pericoloso ostacolo sulla via di una ritrovata pace tra i cittadini.

L’ossessione della verità, invece, sembra possedere l’esperienza re-cente delle commissioni istituite in suo nome, sì che non è arbitrario parlare di un rovesciamento del paradigma, all’interno del quale l’oblio si presenta comunque come inaccettabile. La verità è usata co-me risorsa “militante”, diventa diritto di una schiera di soggetti, con-dizione per la libertà di altri. “Libertà contro verità” è la formula che meglio sintetizza la creazione di un contesto all’interno del quale le ri-sorse mobilitate sono sostanzialmente quelle che consentono alle vit-time di ricostruire i fatti, ai carnefici di non trincerarsi dietro i loro ti-mori o le loro versioni di comodo. Si è detto che “i torturatori ricor-dano il bene, le vittime ricordano tutto”. Proprio per interrompere questo corto circuito compare, con forza sostanzialmente eversiva, il diritto alla verità, perché si vuole evitare che la costruzione del nuovo possa rimanere prigioniera di un silenzioso passato.

Esaminato più da vicino, questo imperioso diritto può essere scomposto, utilizzando in particolare i lavori delle commissioni latino-americane e le discussioni che hanno suscitato. Si parla di diritto alla verità o diritto di sapere come diritto collettivo e come modalità del risarcimento; come cessazione della violazione del diritto all’integrità fisica e psichica; come prevenzione; come memoria; come obbligazio-ne di mezzo e non di risultato; come comprensivo del diritto alla giu-stizia; e, infine, come diritto al lutto.

Questa giustapposizione di molteplici profili esige chiarimenti, per evitare un’invocazione del diritto alla verità come retorico strumento salvifico. Emergono, in primo luogo, profili individuali e collettivi, di-ritti di singoli e gruppi e obblighi di istituzioni pubbliche. I singoli si presentano come vittime, come loro familiari, come responsabili delle violazioni. L’aspetto collettivo riguarda gruppi ai quali viene ricono-sciuto il diritto di intervenire – famiglie, associazioni. Ma caratterizza

15 F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, tr. it. di M. Montinari e S. Giametta, Mi-

lano, 2004.

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pure i doveri delle istituzioni pubbliche, tenute ad agire concretamen-te perché questa tensione verso l’impadronirsi della verità possa essere soddisfatta e trasformarsi in sapere condiviso: non a caso, il diritto alla verità viene in molti casi sovrapposto al diritto di sapere, fin quasi a renderlo indistinguibile da quest’ultimo. Realisticamente, poi, l’ob-bligazione pubblica è presentata, con una terminologia tipica del dirit-to civile, come un’obbligazione di mezzi, e non di risultato: lo sforzo richiesto alle istituzioni è strumentale, consiste nell’apprestare tutto ciò che è necessario per la ricerca, senza però una garanzia del risultato, consistente nell’effettivo raggiungimento della verità.

Divenuto, in questa sua versione, anche dovere degli Stati, il diritto alla verità incrocia la storia, presenta un suo tratto peculiare che non può essere affidato alle istituzioni esistenti. Serve una istituzione nuo-va, dunque, la commissione per la verità, non l’intervento delle corti. La ragione di questa scelta è legata a molteplici ragioni. La storia ri-corda che, nelle fasi di transizione politica da un regime ad un altro, il ceto dei magistrati compare spesso con un tratto che parla più di con-tinuità che di rottura, eccezion fatta per i casi in cui si costituiscono tribunali speciali. Ad essi, allora, non può essere affidato il compito di segnare visibilmente l’avvento di un altro tempo, che sente il bisogno di costruire le proprie “istituzioni della verità”. Inoltre, non deve esse-re pronunciato un giudizio, ma celebrato in qualche modo un rito pubblico, che può richiedere negoziati complessi e non solo passaggi procedurali formalizzati, che deve aprire processi sociali e non risol-versi nel solo accertamento di una responsabilità o nell’applicazione di una sanzione.

Si delinea così, visibilmente, un’idea di verità e di diritto per un verso perentoria e, per un altro, tutta “processuale”, oggetto di una costruzione che si compie a diversi livelli e con la partecipazione di una molteplicità di soggetti, capace di dare concretezza all’insieme dei principi indicati come guida in questa materia. In questo tentativo di trovare una più solida fondazione, il diritto alla verità in parte si scom-pone e in parte tende ad abbracciare una serie sempre più ampia di situazioni, fino a proporsi come l’epicentro di un vero e proprio siste-ma di diritti.

In un documento dedicato ai principi da rispettare per combattere l’impunità, il diritto inalienabile alla verità apre una sequenza che con-tinua richiamando il dovere di preservare la memoria; il diritto di sa-pere delle vittime e l’insieme delle garanzie necessarie perché sia reso effettivo; il diritto alla giustizia, il diritto alla riparazione. Si insiste, poi, sui rapporti che legano il diritto alla verità ad una serie di altri di-ritti, in particolare quelli legati ad una effettiva tutela giudiziaria da parte di corti indipendenti; alla ricerca ed alla diffusione delle infor-

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mazioni; alla tutela della vita familiare; a forme effettive di risarcimen-to.

Questo insistente richiamo ad una costellazione variegata di diritti può ben essere inteso come frutto della consapevolezza della necessità di insediare fortemente nello stesso sistema istituzionale tradizionale una novità dirompente, e per ciò soggetta al rischio di un rigetto più o meno esplicito. La legittimazione del diritto alla verità viene così affi-data alla connessione con diritti radicati nella tradizione che, tuttavia, risultano a loro volta trasformati dal nuovo contesto di cui sono ormai parte. Il riferimento al diritto alla giustizia si riempie così di contenuti ulteriori. L’istituzione centrale è rappresentata dalle commissioni per la verità ma, insieme, si allarga la platea dei soggetti legittimati ad agire davanti alle corti, si rende più agevole il loro intervento, si ampliano le possibilità di investigazione diretta ai fini dell’accertamento della veri-tà. Si modifica, in particolare, la posizione dei responsabili delle viola-zioni dei diritti, che divengono parte di negoziati complessi, all’interno dei quali si determinano equilibri diversi da quelli tradizionali.

Lo schema “libertà contro verità” può ben essere ritenuto eccessi-vamente obbligante, cancella il diritto di tacere dell’imputato. Espri-me, tuttavia, la particolarità dell’obiettivo che si vuol realizzare, che disegna in modo diverso gli stessi diritti dell’imputato. Si cancella, ec-cezion fatta per delitti particolarmente gravi, la sanzione giuridica per-ché si ritiene che la sanzione sociale sia sufficiente e, soprattutto, per-ché il bene della memoria ricostruita e condivisa viene ritenuto enor-memente superiore alla pena che colpisca un singolo responsabile. La costruzione di una memoria condivisa come via per la riconciliazione, dunque, non può essere perseguita con amputazioni, indulgenze. Non può essere compromissoria, non può sottovalutare le scelte fatte, con il rischio che vittime e carnefici si ritrovino in una situazione equivoca, che appanna la differenza profonda tra i ruoli avuti nel passato. Esige che si dica tutto. In questa sua declinazione, il diritto alla giustizia comprende questo perentorio invito alla memoria e alla verità, e diven-ta esso stesso passaggio necessario per la riparazione.

Il diritto alla riparazione, peraltro, non è chiuso nello schema clas-sico del risarcimento del danno attraverso l’attribuzione di una somma di denaro. In un efficace documento delle madri e dei parenti degli uruguaiani scomparsi si dice esplicitamente che “la riparazione comin-cia con la verità dei fatti. Quindi, sia per quanto riguarda le stesse vit-time che i familiari degli scomparsi, l’accertamento della verità e il suo riconoscimento ufficiale rappresentano la premessa di qualsiasi forma

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di riparazione, fino a costituire essi stessi la riparazione”16. Infatti, più che ogni risarcimento pecuniario, ha assunto rilevanza, ad esempio, l’attribuzione del nome di una vittima ad una scuola, una strada, un edificio, una istituzione. La pubblica comunicazione della verità, dun-que, non solo come risarcimento della memoria individuale, ma come costruzione di una memoria collettiva che può placare il risentimento. Si può richiamare, per la sua sintonia, l’invito rivolto ai “compagni” che restavano dalle vittime dell’espulsione dalla Svizzera nel canto Addio Lugano bella: “Le verità sociali da forti propagate/ è questa la vendetta che noi vi domandiam”.

Lungo questo cammino, nella costellazione dei diritti compare quello che forse meglio d’ogni altro esprime la novità e il distacco dal passato – il diritto al lutto. Qui la ritrovata verità, la restituzione della memoria rimuovono quello che era stato l’indicibile, il nascosto, l’invisibile. L’impossibilità di elaborare il lutto, perché la conoscenza era negata o impedita o preclusa ad ogni parola detta in pubblico, ha rappresentato la forma più profonda di violenza, un’altra delle tante negazioni dell’umanità delle persone che abbiamo conosciuto. Di fron-te ad una parola così carica di significato, deve tacere ogni pretesa formalistica. E in questa congiunzione tra lutto e diritto cogliamo il senso profondo della dignità, e il bisogno di verità che ad essa si ac-compagna. Non è un diritto “azionabile” se non nelle modalità del vi-vere. E qui il diritto alla verità si rivela non come uno dei tanti che possono essere aggiunti ad una qualsiasi dichiarazione o catalogo, ma come una necessaria narrazione nella quale l’intimità di ciascuno in-contra il rispetto di tutti gli altri17.

Dobbiamo, però, essere pure consapevoli del rischio non di di-menticare il passato, ma di consegnarlo alla leggerezza, quando si con-clude che “ormai ci siamo lasciati tutto alle spalle, che il significato è chiaro e che adesso dobbiamo entrare – liberi dal peso degli errori del passato – in un’epoca nuova e migliore”18. Il mantenimento di una memoria “leggera” produce un ingannevole effetto di pacificazione e contribuisce piuttosto ad una rimozione.

16 Informe de Madres y Familiares de Uruguayos Detenidos Desaparecidos, A todos ellos, Montevideo 2004, 575.

17 Segnala questo punto, Y. Naqvi, The Right to the truth in international law: fact or fiction?, in 88 International Review of the Red Cross 273 (2006).

18 T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, tr. it. di P. Falcone, Roma-Bari, 2011, 6.

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3. Diritto alla verità e democrazia Riconosciuto proprio nella sua matrice narrativa, il diritto alla veri-

tà appartiene ad una dimensione più vasta di quella individuata attra-verso il modello, pur tanto significativo, delle commissioni per la verità e la riconciliazione. Investe la quotidianità, esprime una tensione che può manifestarsi in ogni momento, riguarda il modo di governare il rapporto che si istituisce tra la persona e le vicende che la riguardano, in una prospettiva che, muovendo dalla considerazione della sfera pri-vata, finisce con il riguardare i caratteri stessi della democrazia. Jac-ques Le Goff ci ha ricordato che “la memoria collettiva è uno degli elementi più importanti delle società sviluppate e delle società in via di sviluppo, delle classi dominanti e delle classi dominate, tutte in lotta per il potere o per la vita, per sopravvivere e per avanzare”19. Manife-standosi nelle situazioni più diverse, la verità si specifica ora come di-ritto da rispettare, ora come obbligo da adempiere, ora come pretesa alla quale sottrarsi. E torna la questione di chi sia il titolare di questi diritti, obblighi, pretese. In una società onnivora di informazioni, e continuamente produttiva di rappresentazioni, la “verità” di queste ultime assume un rilievo particolare. Compaiono nuovi scambi, e con essi nuovi equilibri. Servizi in cambio di verità, sicurezza in cambio di verità, fiducia in cambio di verità. Così il mercato, le istituzioni pub-bliche, la politica investono variamente la persona, e modellano i loro rapporti con essa intorno a rappresentazioni “veritiere”, costruite in modo da essere funzionali rispetto agli scopi che via via vengono per-seguiti. Il semplice fatto d’“essere in società” ormai non può essere se-parato da un ininterrotto flusso di informazioni che dalla persona si diramano in una molteplicità di direzioni, consegnando ad altri le mol-teplici verità di cui ciascuna persona è portatrice. La verità, allora, co-me via verso la dipendenza, la perdita dell’autonomia? Di fronte alla continua pretesa sociale di disvelarsi, compare un obbligo di verità che altera lo stesso “coraggio” della verità perché, in queste situazioni, il vero coraggio consiste nel rifiutarsi a questo scrutinio continuo e im-pietoso. A quale prezzo, però?

Di nuovo, il riferimento ad un soggetto astratto cede di fronte allo sfaccettarsi delle realtà nelle quali le persone sono immerse, agli in-trecci che ne segnano l’esistenza, in definitiva ai modi differenziati in cui la persona viene “messa in scena”. La verità è continuamente mes-sa alla prova, immersa in una serie di conflitti: memoria o oblio; tra-sparenza o privacy; libera costruzione della personalità o subordina-zione a controlli; identità inclusiva o escludente. Non siamo però di

19 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, 1982, 397.

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fronte a una implacabile logica binaria, ad alternative da sciogliere solo con un sì o un no, senza alcuna possibilità di individuare punti di con-giunzione, di costruire tessuti che sarebbero lacerati se si cogliesse la verità solo attraverso un’astratta sua attitudine a separare.

Il tema della verità che “riconcilia” torna così a dover essere consi-derato al di là dei casi storici, e drammatici, che l’hanno imposto all’attenzione del mondo. Se perde questa virtù, quale senso sociale as-sume la verità? Se non restituisce dignità, come si è voluto per le vitti-me di crimini, quale valore assume per ogni persona? Costruita, nella dimensione giuridica, come diritto posto a tutela di un insieme di dirit-ti fondamentali, non può ignorare questa sua fonte di legittimazione. Spogliata degli attributi che la presentano come una forza sempre di-rompente, con una assolutezza che tutto può travolgere e cancellare, la verità intesa come diritto deve essere analizzata chiedendosi quale sia la sua misura compatibile con l’autonomia della persona e i caratteri della democrazia.

Questa idea di una verità in qualche modo “relativizzata” appare contraddittoria rispetto all’obiettivo assegnato alle commissioni per la verità, che la esigono piena, incondizionata. Ma bastano alcuni esempi per mostrare come sia pericoloso pretendere l’estensione di quello schema a qualsiasi situazione. “L’uomo di vetro” è l’immagine che vuole descrivere un cittadino che, non avendo nulla da nascondere, ben può rivelare ogni dettaglio della sua vita, rendersi visibile attraver-so la vera e totale descrizione di quello che è. La verità, così intesa, di-venta una continua cessione del sé agli altri, alle istituzioni pubbliche in primo luogo, a uno Stato totalitario in specie. Non dimentichiamo la matrice nazista di quell’immagine, che ha dato vita ad un modello adottato poi da tutte le dittature, rafforzato dalla potenza tecnologica che rende sempre più agevole la raccolta di dati personali, non disde-gnato neppure dalle democrazie tutte le volte che una qualsiasi “emer-genza” fornisce una giustificazione. L’obbligo della verità totale, la tra-sparenza assoluta nei confronti dello Stato innescano un meccanismo per cui, tutte le volte che si rivendica un pur minimo brandello di di-gnità assistita dalla riservatezza, il buon cittadino non è più tale perché ha qualcosa che vuol celare e così, divenuto cattivo cittadino, legittima l’esercizio di qualsiasi potere nei suoi confronti. Nessuna analogia, al-lora, può essere stabilita con il dovere degli Stati di essere soggetti atti-vi nella ricerca della verità, di cui si è parlato in precedenza, perché in quei casi la finalità era, all’opposto, quella di ridare forza a diritti fon-damentali violati.

In una democrazia non si può costruire un diritto generale alla ve-rità di cui siano titolari le istituzioni pubbliche nei confronti di tutti i cittadini. Vi sono casi specifici in cui il cittadino è tenuto alla verità,

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come il testimone o il contribuente. Ma da questo non si può in alcun modo dedurre un principio di attrazione nella sfera pubblica di parti sempre più consistenti della sfera privata. Vigono, anzi, principi oppo-sti, da quello che afferma “nemo tenetur se detegere”, che legittima il silenzio e persino la menzogna dell’imputato, a quello che si esprime nel divieto della tortura. L’autonomia nel governo del sé, l’integrità della persona, la dignità inviolabile segnano pure il confine oltre il quale non può spingersi l’altrui pretesa di verità

Un diritto generale e incondizionato alla verità non può essere co-struito neppure sul versante delle persone. Più avanti si considereran-no analiticamente soprattutto gli intrecci che portano verso l’identità, la privacy, la libera costruzione della personalità. Se, però, si considera l’accostamento tra diritto alla verità e diritto di sapere, che compare in tutta l’esperienza delle commissioni per la verità, si fa palese l’impossibilità di generalizzare questo modello, di identificare sempre il diritto alla verità con la pretesa di ciascuno di conoscere tutto di tut-ti. “Le vite degli altri” non solo devono essere ritenute intangibili dagli apparati di polizia, ma meritano rispetto da parte di ogni persona. Torna così, insieme al rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, pure quello delle relazioni tra le diverse sfere private. Se la regola è quella che nessuno può impadronirsi della “verità” altrui senza il suo consen-so, senza che l’interessato consapevolmente accetti di cedere le proprie informazioni, un confine è segnato, un criterio è individuato per evita-re che la bramosia di informazioni si travesta da bisogno di verità.

Ci inoltriamo, ancora una volta, su un terreno dove non tutto può essere affidato ad alternative secche, poiché le relazioni tra le persone conoscono un trascorrere dall’assoluta segretezza all’assoluta traspa-renza attraverso passaggi intermedi, zone grigie, legittime reticenze. Dissimulazione onesta, ipocrisia, menzogna, falsificazione accompa-gnano le nostre vite. Ma questi sono pure panni che la politica ha sempre vestito, e i realisti da sempre dicono che non può dismetterli. Si può ammettere che la regola democratica non contempli l’obbligo di dire il vero?

La democrazia non è soltanto governo “del popolo”, ma anche go-verno “in pubblico”. Per questo la democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti. Perché solo così i cittadini sono messi in condizione di controllare e giudicare i loro rappresentanti, e di partecipare al go-verno della cosa pubblica. Perché qui si colloca una delle sostanziali differenze tra la democrazia e gli altri regimi politici, quelli totalitari in particolare, dove l’oscurità avvolge l’intera vita politica e sono i gover-ni a definire quale sia la verità. Nascono in questo modo le verità “uf-ficiali”, che sono lo strumento per distorcere o occultare le rappresen-

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tazioni reali di quel che accade. Per questo i regimi totalitari non ama-no le scienze sociali, non conoscono la stampa libera, erano arrivati persino a ritenere pericoloso uno strumento di conoscenza come l’elenco telefonico, cercano in ogni modo di controllare Internet.

Ma può la democrazia essere identificata con l’assoluta trasparen-za, con l’obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissi-bile, anzi può essere considerato necessario e doveroso. Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?

Segretezza e menzogna non sono la stessa cosa. Segreto, dicono i dizionari, è il “fatto, realtà, notizia che non si vuole o non si deve rive-lare a nessuno”. Menzogna è “affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pronunciata con l’intenzione di ingan-nare”. Così le cose sembrerebbero chiare: il segreto è non dire, che è cosa assai diversa dall’ingannare. Ma quando gli arcana imperii, i segre-ti che avvolgono l’azione del sovrano o anche dei governanti democra-tici, coprono troppe materie o questioni essenziali per la vita pubblica, la distinzione tra il non sapere e l’essere ingannati può diventare sotti-lissima. Non sapendo, i cittadini non sono in grado di controllare le scelte dei governanti, brancolano nel buio. La conoscenza diventa ap-pannaggio di un gruppo ristretto, e la forma di governo può trasfor-marsi da democratica in oligarchica.

Due situazioni, diverse e per certi versi estreme, aiutano ad indivi-duare i limiti possibili del segreto in una società democratica. Nella legge del 1977 sul segreto di Stato, che lo ammette a difesa della liber-tà degli organi costituzionali e per ragioni di difesa e politica estera, tuttavia si dice che “in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato i fatti eversivi dell’ordine costituzionale”. E in questa formula si ritrovano significative assonanze con la logica che sta alla base delle commissioni per la verità: non a caso essa viene invocata dalle associa-zioni delle vittime delle stragi italiane. Le norme sulla privacy, dal can-to loro, consentono ad ogni cittadino di rivolgersi all’Autorità garante per la protezione dei dati personali per chiederle di accertare se i ser-vizi segreti abbiano raccolto illegittimamente informazioni sul suo con-to, e all’Autorità non può essere opposto il segreto di Stato. Vi è dun-que un punto oltre il quale l’ordine dello Stato e quello intimo delle persone esigono garanzie che nessuna pretesa di segretezza pubblica può mettere in discussione.

L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini. Nell’articolo 19 della Dichia-razione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU si afferma che “ogni

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individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguarda a frontiere”. Questo diritto indi-viduale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce be-ne quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minorita-rie.

La pienezza della conoscenza per tutti fonda la verità “democrati-ca”. Ed è certo pessima per l’interesse generale una deliberazione fon-data su informazioni ingannevoli o false. Si deve aggiungere che la co-noscenza è necessaria anche per progettare e controllare, dunque per consentire la partecipazione dei cittadini all’intero processo democra-tico.

Questo diritto alla verità attraverso le informazioni non può essere affidato soltanto all’iniziativa ed alle forze individuali. Esige “istituzio-ni della verità”. I parlamenti non sono stati concepiti solo come stru-menti per l’approvazione delle leggi, ma come luoghi di confronto e di controllo, dove far emergere la realtà delle situazioni: quando si è par-lato di una loro funzione “teatrale”, non si è voluto sminuirne il ruolo, ma si è sottolineata la necessità di rappresentare in pubblico la politica per renderla comprensibile e controllabile da tutti i cittadini. Il sistema dell’informazione e della comunicazione adempie alla funzione essen-ziale di fornire ai cittadini conoscenze altrimenti inaccessibili. Il diritto di cercare, ottenere e diffondere informazioni è divenuto una possibili-tà concreta per un numero sempre crescente di persone grazie ad In-ternet. La verità in democrazia, quindi, esige forza dei parlamenti, li-bertà dei sistemi informativi da condizionamenti economici e da cen-sure, diritto di accesso alla Rete.

La democrazia si presenta così come un regime di verità “moltepli-ci”, non di verità “rivelate”. E di verità rese accessibili a tutti. Non di-mentichiamo che, inquisendo Galileo, il cardinal Bellarmino gli rim-proverava anche di aver reso accessibili a tutti le sue scoperte scriven-do in italiano, e non in quel latino che le avrebbe rese comprensibili a pochi e quindi politicamente e socialmente meno esplosive.

In democrazia, la verità è figlia della trasparenza. Un grande giudi-ce della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, ha scritto che “la luce del sole è il miglior disinfettante”. Si valuti come si vuole que-sta affermazione, ma è certo che ogni impresa di lotta alla corruzione, ogni azione volta a rendere possibile il controllo di legalità delle azioni individuali e collettive, esige come condizione preliminare la creazione

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di un ambiente all’interno del quale non esistano barriere protettive al riparo delle quali la possibilità della segretezza generi la frode.

Ma fino a che punto l’irrinunciabile trasparenza sul versante pub-blico può trasformarsi per qualsiasi cittadino in un obbligo assoluto di verità, nel dovere di denudarsi in pubblico? Qui le risposte sono di-verse a seconda dei ruoli sociali, e siamo di fronte a nuovi intrecci, come quelli tra verità e fiducia. Le menzogne sulla vita sessuale da par-te di molti politici sono state considerate segno di inaffidabilità politica ed hanno portato alla loro esclusione istituzionale dalla vita pubblica. Non è soltanto un sottofondo puritano a far concludere che mentire su alcune abitudini private sia indice di propensione a mentire anche nel-la sfera pubblica. È lo statuto che sono via via venute assumendo le fi-gure pubbliche a far sì che le loro vicende debbano essere accompa-gnate da una minore “aspettativa di privacy”, che discende in primo luogo da quel dovere di adempiere le funzioni pubbliche “con onore e disciplina”, come vuole l’articolo 54 della Costituzione, ponendo così la premessa perché tutti i cittadini siano messi in condizione di dispor-re di tutte le informazioni necessarie per controllare se quel dovere sia stato rispettato.

Ma “la salvezza della Repubblica” non può produrre l’obbligo della verità ad ogni costo e con ogni mezzo. L’imputato ha diritto di mentire per difendersi, la tortura e le schedature di massa confliggono con la logica della democrazia anche se usate per cercare la verità. Vi è una violenza della verità che la democrazia ha sempre cercato di addomesticare, per evitare che travolga le stesse libertà democratiche fondamentali.

4. Considerazioni conclusive

Quali sono, in definitiva, le situazioni nelle quali la verità può o

deve essere associata al diritto, e così si trasforma essa stessa in uno specifico diritto? E, una volta che sia stata affidata a regole giuridiche, fino a che punto queste possono spingersi?

Il diritto conosce i limiti che nascono dalla consapevolezza del suo essere un artificio, sì che ha costruito sistemi di regole e tecniche per “l’avvicinamento” alla verità piuttosto che strumenti che pretendono di comunicare verità indiscutibili. Avverte, tuttavia, la responsabilità di indicare punti fermi, di offrire certezze ad una vita sociale che non può interrogarsi senza fine sul significato di una vicenda. Procede per “presunzioni”, deducendo da un fatto la presenza di un altro. Sotto-pone la ricerca della verità a procedure formalizzate e l’arresta quando la sentenza è definitiva, salvo il caso eccezionale della revisione del

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processo. Non pretende, soprattutto, di identificare la verità giudizia-ria con quella storica20.

Conoscendo queste specificità del diritto, si può costruirlo come custode di una qualsiasi verità storica? L’attività delle commissioni per la verità è stata volta alla costruzione di una memoria che, detta e riba-dita in pubblico, deve accompagnare, e proteggere, la vita di una co-munità, di un intero paese. Deve per ciò essere continuamente rinno-vata attraverso la celebrazione di “giorni della memoria”? Diventa “innegabile”? La verità ufficiale preclude che si possa continuare nella ricerca della verità, diventa un limite invalicabile per lo storico, può comprimere la stessa libertà di manifestazione del pensiero?

Siamo di fronte alla impervia questione del negazionismo, che di-viene drammatica di fronte all’evento unico, irriducibile a qualsiasi al-tro, della Shoah. Non è una questione di cui una società possa liberarsi facendo diventare reato il semplice fatto di esprimere una opinione di-versa o opposta rispetto a quella che, attraverso una norma giuridica, viene qualificata come verità indiscutibile. La scorciatoia giuridica può divenire un espediente pericoloso, la soluzione sbrigativa per eludere le responsabilità di istituzioni pubbliche e di soggetti privati.

Lo sappiamo. “Ne uccide più la parola che la spada”, “le parole sono pietre”, “i cattivi maestri”. Ma il passaggio dalla saggezza popola-re, dall’indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è complicato, e può risultare distorcente. Avevano ragione gli storici ita-liani quando scrissero un manifesto di critica alla proposta del ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un pro-blema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia del-la galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una tensione morale.

Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero cer-tamente, dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all’articolo 21 della nostra Costituzione, all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma siamo di fronte anche ad interrogativi che riguardano il ruolo della politica, la distri-buzione di poteri e responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche sociali, l’uso corretto dello strumento giuridico. L’introduzione di un reato (o di una aggravante) di negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre opinioni ritenute socialmente non accettabili.

Le critiche degli storici non sono soltanto opportune nel segnalare i rischi per tutti di una “verità di Stato”, che può divenire strumento

20 N. Irti, Diritto e verità, Roma-Bari, 2011.

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per la legittimazione di un’etica di Stato, e altro ancora. Sono rafforza-te da molti altri elementi, a cominciare da quelli tratti dall’esperienza dei paesi che già hanno introdotto il reato di negazionismo e che, mal-grado ciò, continuano a conoscere manifestazioni gravi di antisemiti-smo e presenze politiche di gruppi variamente espressivi di spiriti nazi-sti. L’Austria ha condannato David Irving, ma non era riuscita ad evi-tare Haider. Siamo di fronte ad una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero debellare, e tuttavia producono effetti colla-terali pesantemente negativi.

Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno radici culturali e sociali profonde, che non possono essere reci-se con un gesto formale. L’approvazione di una norma, anzi, può tra-sformarsi in un alibi o in un diversivo. Vi è un problema grave, gravis-simo come il negazionismo? Vi è una risposta facile, che consente alla politica di presentarsi con le carte in regola e la coscienza pulita: l’uso dello strumento giuridico più potente, la definizione di un comporta-mento come reato. Può così scomparire, o diventa secondaria, quella che, invece, è la vera strategia di contrasto: l’informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. La vera lotta al negazionismo passa attraverso la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze ed alla tentazione di non condannare alcune manifestazioni perché “minori”, attraverso l’intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d’ogni suo argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.

Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzio-nale di ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia del fascismo ad impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie ad una azione politica e culturale che ha avuto nell’antifascismo un riferimento forte, che ne ha fatto un valore simbolico ed un criterio di valutazione dei comportamenti, isolando soggetti politici ed impe-dendo anche che i contatti, più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero legittimazione pubblica. Forse anche gli eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi tenacemente li volle fuori dall’“arco costituzionale” e, così facendo, impedì loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad ap-prodare in qualche modo ai lidi della democrazia.

La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e moralmente condannabili. Né governi e parlamenti

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possono ritenere che il problema si risolva dislocandolo in un’altra area istituzionale, facendolo divenire un affare dei giudici.

Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del nega-zionismo, né paura della libertà. L’impegno nella ricerca, l’interminata fatica della critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai suoi concittadini americani: “i mali della demo-crazia si curano con più democrazia”. Sembra una banalità, ma è inve-ce una responsabile messa in guardia contro le semplificazioni giuridi-che dei problemi della verità, e non solo.

Questa può certamente apparire una conclusione troppo sbrigativa e consolatoria proprio di fronte a quella che è stata chiamata la “men-zogna di Auschwitz”21, che evoca, insieme, il dramma della Shoah e la Schuldfrage, la questione della colpa che accompagna il popolo tede-sco. Vale la pena di ricordare come la stessa fondazione nazista del “Reich eterno” possa “essere riletta come una guerra contro la memo-ria”22, per la sua pretesa di fare tabula rasa di tutto, di far scomparire ogni verità che potesse contrastare il modo in cui si voleva costruire uno Stato interamente nuovo, facendo scomparire pure le persone che, con il loro solo esistere, potevano essere testimoni di un’altra verità.

È proprio il contesto tedesco a dover essere valutato per compren-dere la sentenza del Bundesverfassungsgericht23, del Tribunale costitu-zionale tedesco, che ha considerato il negazionismo come un reato, le-gittimando la successiva legislazione in materia. Senza avere qui la pre-tesa di discutere l’intera questione, è opportuno tuttavia richiamare alcune parole di quella sentenza: “negare o mettere in dubbio la perse-cuzione degli ebrei durante la dittatura nazionalsocialista costituisce una lesione dell’onore degli ebrei, che nel corso di quella dittatura fu-rono perseguitati. Dal momento che la persecuzione degli ebrei non può essere contestata, la circostanza che questi eventi siano contestati, resi oggetto di dubbio e minimizzati offende e umilia chiunque ne sia stato colpito”24. L’argomentare della decisione trova il suo fondamento nell’inviolabilità della dignità umana, affermata dall’articolo 1 della Costituzione tedesca25. Di nuovo la restituzione della dignità attraverso la verità, come si è ricordato all’inizio.

21 Richiamo qui, unico titolo di una letteratura immensa, il bel libro recente di D. Bifulco, Negare l’evidenza. Diritto e storia di fronte alla “menzogna di Auschwitz”, Mi-lano, 2012.

22 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, 2007. 23 Bundesverfassungsgericht 13 aprile 1994, in Giur. cost., 1994, 3379-3390. 24 Bundesverfassungsgericht, cit., 3382. 25 Lo mette in evidenza D. Bifulco, Negare l’evidenza, cit., 41.

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Torna così un termine che avevamo già incontrato, umiliazione, con il suo ricacciare nella condizione d’indegno chi ne è oggetto. Qui è la ragione di un rispetto particolare che, associato com’è alla unicità della Shoa, fa assumere alla decisione di giudici tedeschi un significato forte, ma non generalizzabile, che non può essere invocato come rife-rimento per considerare come reato qualsiasi altra manifestazione di negazionismo.

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GLI AUTORI PAOLA CARUCCI è Sovrintendente dell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica LUIGI CAJANI è Ricercatore e docente di storia moderna presso l’Università di Roma “La Sapienza” MARIO CARTA è Professore aggregato di diritto dell’Unione europea, presso l’Università di Roma “Unitelma Sapienza” CLAUDIA MORGANA CASCIONE è Dottore di ricerca in diritto privato e assegnista di ricerca presso l’Università di Roma Tre OLIVIER CAYLA è Professeur Agrégé de droit public, Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales ANTOON DE BAETS è Associate Professor of Contemporary History presso la University of Groningen ROBERTO D’ORAZIO è Funzionario della Camera dei Deputati, Ufficio per la legislazione straniera SILVIA FALCONIERI è Chargée de recherche presso il Centre Nationale de la Recherche Scientifique (CNRS), Centre d’Histoire Judiciaire (CHJ)-Université Lille2 FILIPPO FOCARDI è Ricercatore e docente di storia contemporanea presso l’Università di Padova MIGUEL GOTOR è Ricercatore e docente di storia moderna presso l’Università di Torino ANTONINO INTELISANO è Procuratore Generale Militare della Repubblica presso la Corte di Cassazione SILVIA LEONZI è Professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Roma “La Sapienza” LUIGI NUZZO è Professore associato di storia del diritto medievale e moderno, presso l’Università del Salento

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PAOLO PEZZINO è Professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università di Pisa GIORGIO RESTA è Professore associato di diritto privato comparato presso l’Università di Bari “Aldo Moro” STEFANO RODOTÀ è Professore emerito di diritto civile presso l’Università di Roma “La Sapienza” GIUSEPPE SPECIALE è Professore ordinario di diritto medievale e moderno presso l’Università di Catania PIETRO SULLO è Senior Research Fellow presso il Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law di Heidelberg GIUSEPPE TUCCI è Professore ordinario di diritto civile presso l’Università di Bari “Aldo Moro” NOAH VARDI è Ricercatrice di diritto privato comparato presso l’Università di Roma Tre VINCENZO ZENO-ZENCOVICH è Professore ordinario di diritto privato comparato presso l’Università di Roma Tre