Insuffi cienza Leonardo M. Fabbri respiratoria acuta e ... · gioramento progressivo dello scambio...

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481 2 2 © 2010 ELSEVIER S.R.L. Tutti i diritti riservati. CAPITOLO 20 Insufficienza respiratoria acuta e cronica Antonio Corrado Ernesto Crisafulli Leonardo M. Fabbri Maurizio Moretti Stefano Nava Alfredo Potena Andrea Rossi Enrico M. Clini Definizione e classificazione L’insufficienza respiratoria (IR) è un’anomalia dei valori di pressione parziale di ossigeno (PO 2 ) e di anidride carbonica (PCO 2 ) nel sangue arterioso (PaO 2 e PaCO 2 ), rispettivamente inferiori e superiori ai limiti della nor- ma. Il rilievo di questi valori richiede necessariamente un prelievo di sangue arterioso (arteria radiale, brachiale o femorale) e la misurazione, mediante un’idonea at- trezzatura, delle pressioni parziali. Questo esame viene comunemente chiamato emogasanalisi arteriosa. In un soggetto normale che respira spontaneamente in aria ambiente a livello del mare (FiO 2 = 0,21) (per la spie- gazione degli acronimi usati, si veda la tabella 20.1), la PaO 2 è superiore a 80 mmHg e la PaCO 2 è compresa tra 36 e 45 mmHg. La saturazione dell’emoglobina (Hb) in ossigeno (SaO 2 ) è compresa tra 96 e 100%. Il pH è compreso tra 7,36 e 7,44. Nelle condizioni patologiche, l’anomalia che riguarda PaO 2 e/o PaCO 2 può essere: di rapida instaurazione e temporanea: insufficienza respiratoria acuta (IRA); permanente: insufficienza respiratoria cronica (IRC); temporaneamente peggiorata nel contesto di un quadro di anomalia persistente: insufficienza respiratoria cronica riacutizzata. In diversi trattati e manuali, la IR viene definita: parziale o di tipo I, quando è presente solamente una condizione di ridotta PaO 2 (ipossiemia): insufficienza respiratoria ipossiemica; globale o di tipo II, quando all’ipossiemia sia associato l’incremento di PaCO 2 (ipercapnia): insufficienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica. Questa tradizionale classificazione assume implicita- mente che il meccanismo fondamentale della IR, cioè dell’anomalia dei gas nel sangue arterioso, sia un peg- gioramento progressivo dello scambio gassoso a livello della membrana alveolo-capillare. Poiché la CO 2 è 20 volte più diffusibile dell’O 2 , l’ipercapnia compare a uno stadio più grave di compromissione dello scambio gassoso rispetto all’ipossiemia. Nel 1982 fu proposta una diver- sa classificazione della IR che tenesse in maggior conto non solo la distinzione anatomofunzionale delle com- ponenti dell’apparato respiratorio, ma anche le diverse implicazioni terapeutiche di quella differenza. In realtà, l’apparato respiratorio è formato da due strutture distinte, arrangiate “in parallelo”: i polmoni (incluse le vie aeree, il parenchima polmonare e i vasi polmonari); il torace (inteso come la parete toracica vera e propria con i muscoli respiratori extradiaframmatici e il complesso diaframma-addome). Il polmone è la struttura addetta allo scambio gassoso attraverso la membrana alveolo-capillare. Il torace inve- ce, insieme con il sistema di controllo nervoso centrale (strutture del pavimento del IV ventricolo) e periferico (chemocettori), è la struttura addetta alla ventilazione. Questo tipo di organizzazione comporta pertanto una diversa classificazione della IR (Fig. 20.1), cioè: insufficienza polmonare caratterizzata dall’ipossiemia; insufficienza ventilatoria caratterizzata dall’ipercapnia; insufficienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica. Nella figura 20.1 si evidenzia che il percorso verso l’insuffi- cienza respiratoria può seguire due vie; il percorso a destra si caratterizza per la presenza di ipossiemia arteriosa (insuf- ficienza polmonare), mentre l’insufficienza ventilatoria o di pompa si caratterizza per la presenza di ipercapnia. Come verrà discusso più avanti, non si tratta di una distinzione puramente accademica, ma del riconosci- mento di meccanismi patogenetici differenti cui seguono manovre e trattamenti terapeutici diversi. In sintesi, l’ipossiemia da insufficienza polmonare richiede la som- ministrazione di aria arricchita in ossigeno (FiO 2 > 0,21), mentre l’ipercapnia da insufficienza ventilatoria ne- cessita dell’assistenza meccanica alla ventilazione. La combinazione di insufficienza ventilatoria e di insuffi- cienza polmonare, cioè l’insufficienza respiratoria totale correttamente intesa, richiede che l’arricchimento in O 2 dell’aria inspirata avvenga in combinazione con un supporto ventilatorio. Insufficienza respiratoria e principi di terapia M. Moretti, A. Rossi, S. Nava

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CAPITOLO 20

Insuffi cienza respiratoria acuta e cronica

Antonio Corrado

Ernesto Crisafulli

Leonardo M. Fabbri

Maurizio Moretti

Stefano Nava

Alfredo Potena

Andrea Rossi

Enrico M. Clini

Defi nizione e classifi cazione

L’insuffi cienza respiratoria (IR) è un’anomalia dei valori di pressione parziale di ossigeno (PO 2 ) e di anidride carbonica (PCO 2 ) nel sangue arterioso (PaO 2 e PaCO 2 ), rispettivamente inferiori e superiori ai limiti della nor-ma. Il rilievo di questi valori richiede necessariamente un prelievo di sangue arterioso (arteria radiale, brachiale o femorale) e la misurazione, mediante un’idonea at-trezzatura, delle pressioni parziali. Questo esame viene comunemente chiamato emogasanalisi arteriosa . In un soggetto normale che respira spontaneamente in aria ambiente a livello del mare (FiO 2 = 0,21) (per la spie-gazione degli acronimi usati, si veda la tabella 20.1 ), la PaO 2 è superiore a 80 mmHg e la PaCO 2 è compresa tra 36 e 45 mmHg. La saturazione dell’emoglobina (Hb) in ossigeno (SaO 2 ) è compresa tra 96 e 100%. Il pH è compreso tra 7,36 e 7,44. Nelle condizioni patologiche, l’anomalia che riguarda PaO 2 e/o PaCO 2 può essere: • di rapida instaurazione e temporanea: insuffi cienza

respiratoria acuta (IRA); • permanente: insuffi cienza respiratoria cronica

(IRC); • temporaneamente peggiorata nel contesto

di un quadro di anomalia persistente: insuffi cienza respiratoria cronica riacutizzata.

In diversi trattati e manuali, la IR viene defi nita: • parziale o di tipo I , quando è presente solamente una

condizione di ridotta PaO 2 (ipossiemia): insuffi cienza respiratoria ipossiemica;

• globale o di tipo II , quando all’ipossiemia sia associato l’incremento di PaCO 2 (ipercapnia): insuffi cienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica.

Questa tradizionale classificazione assume implicita-mente che il meccanismo fondamentale della IR, cioè dell’anomalia dei gas nel sangue arterioso, sia un peg-gioramento progressivo dello scambio gassoso a livello della membrana alveolo-capillare. Poiché la CO 2 è 20 volte più diffusibile dell’O 2 , l’ipercapnia compare a uno stadio più grave di compromissione dello scambio gassoso rispetto all’ipossiemia. Nel 1982 fu proposta una diver-

sa classifi cazione della IR che tenesse in maggior conto non solo la distinzione anatomofunzionale delle com-ponenti dell’apparato respiratorio, ma anche le diverse implicazioni terapeutiche di quella differenza. In realtà, l’apparato respiratorio è formato da due strutture distinte, arrangiate “in parallelo”: • i polmoni (incluse le vie aeree, il parenchima

polmonare e i vasi polmonari); • il torace (inteso come la parete toracica vera e

propria con i muscoli respiratori extradiaframmatici e il complesso diaframma-addome).

Il polmone è la struttura addetta allo scambio gassoso attraverso la membrana alveolo-capillare. Il torace inve-ce, insieme con il sistema di controllo nervoso centrale (strutture del pavimento del IV ventricolo) e periferico (chemocettori), è la struttura addetta alla ventilazione. Questo tipo di organizzazione comporta pertanto una diversa classifi cazione della IR ( Fig. 20.1 ), cioè: • insuffi cienza polmonare caratterizzata

dall’ipossiemia ; • insuffi cienza ventilatoria caratterizzata

dall’ipercapnia ; • insuffi cienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica.

Nella fi gura 20.1 si evidenzia che il percorso verso l’insuffi -cienza respiratoria può seguire due vie; il percorso a destra si caratterizza per la presenza di ipossiemia arteriosa (insuf-fi cienza polmonare), mentre l’insuffi cienza ventilatoria o di pompa si caratterizza per la presenza di ipercapnia. Come verrà discusso più avanti, non si tratta di una distinzione puramente accademica, ma del riconosci-mento di meccanismi patogenetici differenti cui seguono manovre e trattamenti terapeutici diversi. In sintesi, l’ipossiemia da insuffi cienza polmonare richiede la som-ministrazione di aria arricchita in ossigeno (FiO 2 > 0,21), mentre l’ipercapnia da insufficienza ventilatoria ne-cessita dell’assistenza meccanica alla ventilazione. La combinazione di insuffi cienza ventilatoria e di insuffi -cienza polmonare, cioè l’insuffi cienza respiratoria totale correttamente intesa, richiede che l’arricchimento in O 2 dell’aria inspirata avvenga in combinazione con un supporto ventilatorio.

Insuffi cienza respiratoria e principi di terapia M. Moretti, A. Rossi, S. Nava

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 482

Fisiopatologia

Ipossiemia L’insuffi cienza polmonare è più precisamente defi nita dall’ipossiemia. Un valore di PaO 2 < 80 mmHg è da con-siderarsi ridotto rispetto ai limiti inferiori riscontrabili in un soggetto normale nelle condizioni descritte e indica un difetto nello scambio gassoso. Questo viene misurato

dalla differenza alveolo-arteriosa di ossigeno D(A−a)O 2 che è normalmente <15-20 mmHg. Tuttavia, in base alla curva di dissociazione dell’HbO 2 , con una PaO 2 di poco <80 mmHg, la SaO 2 rimane > 96% ( Fig. 20.2 ), perché la relazione SaO 2 /PaO 2 scorre, per questi valori, sulla parte alta e piatta della curva di dissociazione dell’HbO 2 . Nella fi gura 20.2 la saturazione ossiemoglobinica (SaO 2 ovvero la percentuale di emoglobina ossigenata) è espressa quale funzione della pressione parziale dell’ossigeno arte-rioso (PaO 2 ). La misura della saturazione ossiemoglobinica con un pulsossimetro o un saturimetro ha usualmente un limite di confi denza pari a ± 4%, per cui una lettura ossi-metrica del 95% corrisponde a valori di PaO 2 compresi fra 60 mmHg (SaO 2 : 91%) e 160 mmHg (SaO 2 : 99%). Un’ulteriore alterazione dello scambio riduce la PaO 2 a un valore di 60 mmHg cui corrisponde, sempre nelle condizioni standard cui si fa riferimento, una SaO 2 pari al 90%. Si è al gomito di passaggio tra la parte alta e piatta e la parte centrale ripida della curva di dissociazione della HbO 2 . Con un ulteriore peggioramento della PaO 2 (quindi al di sotto di 60 mmHg), la SaO 2 scende rapidamente, an-che fi no a valori corrispondenti a quelli del sangue venoso misto (SaO 2 del 70-75% e PvO 2 di 35-40 mmHg). Sulla base di questa fondamentale evidenza fi siologica, nei documenti internazionali è stata accetta una defi nizione di ipossiemia con rapporto PaO 2 /FiO 2 � 300 mmHg, che corrisponde a una PaO 2 � 60 mmHg e a una SaO 2 � 90% in aria ambiente. Tale soglia convenzionale rappresenta il valore limite sotto il quale è opportuno considerare la somministrazione di ossigeno. Il rilievo corretto dell’ipossiemia richiede la misurazione attraverso emogasanalisi del sangue arterioso e ne rap-presenta il valore di riferimento (gold standard). Negli ultimi anni si è reso disponibile su larga scala, per i costi contenuti e l’ingombro ridotto, un apparecchio (pul-sossimetro) che misura in maniera non invasiva, cioè senza prelievo ematico, la saturazione in O 2 del sangue arterioso periferico (SpO 2 ) utilizzando la tecnica dei rag-gi infrarossi al polpastrello o al lobo dell’orecchio. Tale tecnica è diventata rapidamente popolare, ma non è da considerarsi sostitutiva dell’emoganalisi arteriosa se non nelle condizioni in cui, per motivi tecnici o clinici, non sia possibile ottenere il prelievo di sangue. Anche in questi casi, l’interpretazione della SpO 2 richiede molta cautela per i seguenti motivi: • la relazione tra SaO 2 e PaO 2 sulla curva

di dissociazione dell’HbO 2 dipende da molti fattori che infl uenzano la relazione stessa, per cui la PaO 2 può non essere prevedibile sulla base della sola SpO 2 , che dovrebbe rifl ettere la SaO 2 ( Fig. 20.3 ). La curva di dissociazione dell’emoglobina è spostata a destra dalla riduzione del pH arterioso, da un incremento della temperatura corporea, della PaCO 2 e del 2,3-difosfoglicerato (2,3-DPG, presente all’interno dei globuli rossi in condizioni di ipossiemia prolungata). Fattori che causano uno spostamento della curva verso sinistra includono una riduzione della temperatura corporea, della PaCO 2 , del 2,3-DPG e un innalzamento del pH;

• una SpO 2 > 95% è compatibile con tutti i valori di PaO 2 > 80 mmHg (si veda la Fig. 20.2 ), esponendo il paziente alla possibilità di un’iperossigenazione

ARDS Sindrome da distress respiratorio acutoAMV Ventilazione meccanica assistitaBPCO Broncopneumopatia cronica ostruttivaCFR Capacità funzionale residuaCMV Ventilazione meccanica controllataCO 2 Biossido di carbonio (anidride carbonica) CPAP Continuous Positive Airway PressureD(A � a)O 2 Differenza alveolo – arteriosa di ossigenoFiO 2 Frazione dell’ossigeno nell’aria inspirataHCO 3 - Concentrazione di bicarbonatif Frequenza degli atti respiratori al minutoHb EmoglobinaINPV Ventilazione a pressione negativa

intermittenteIR Insuffi cienza respiratoriaIRA Insuffi cienza respiratoria acutaIRC Insuffi cienza respiratoria cronicaIP Insuffi cienza polmonareIVA Insuffi cienza ventilatoria acutaIVC Insuffi cienza ventilatoria cronicanPPV Ventilazione a pressione positiva

intermittenteO 2 OssigenoPO 2 Pressione parziale dell’ossigenoPaO 2 Pressione parziale dell’ossigeno nel sangue

arteriosoPCO 2 Pressione parziale dell’anidride carbonicaPaCO 2 Pressione parziale dell’anidride carbonica

nel sangue arteriosoPAO 2 Pressione parziale dell’ossigeno a livello

alveolarePACO 2 Pressione parziale dell’anidride carbonica

a livello alveolarePAV Proportional Assist VentilationPb Pressione atmosfericaPCV Ventilazione a pressione controllataPH 2 O Pressione parziale del vapore acqueoPSV Pressure Support VentilationPvO 2 Pressione parziale dell’ossigeno nel sangue

venoso mistoQ � c Perfusione capillareR Quoziente respiratorioSaO 2 Saturazione dell’emoglobina in ossigenoSpO 2 Saturazione in ossigeno del sangue arterioso

perifericoV � A Ventilazione alveolareV � CO 2 Produzione metabolica di anidride carbonicaV � O 2 Consumo di ossigenoV � D Ventilazione dello spazio morto

Tabella 20.1 Legenda esplicativa degli acronimi

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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superfl ua e al possibile rischio di insorgenza o aggravamento dell’ipercapnia per riduzione dello stimolo ipossico alla ventilazione;

• la pulsossimetria non rileva ovviamente gli altri utili parametri informativi (PCO 2 e pH).

Quindi, se si è nell’impossibilità di effettuare l’emoga-sanalisi arteriosa e la pulsossimetria rappresenta l’unico strumento per stimare l’ossigenazione, è opportuno con-siderare come clinicamente utile il mantenere la SpO 2 tra il 92 e il 95%, per garantire un’ossigenazione necessaria e suffi ciente. Invece, la pulsossimetria può essere molto più utile per il monitoraggio clinico dell’ossigenazione una volta misurati i valori effettivi di PaO 2 e SaO 2 allo scopo principale di limitare il numero di prelievi arteriosi.

Meccanismi dell’ipossiemia Una volta accertata la riduzione della PaO 2 occorre ricer-carne le cause. L’ipossiemia non è solo di origine polmo-nare, ma riconosce cause intrapolmonari ed extrapolmonari secondo lo schema seguente: • cause intrapolmonari :

– alterata distribuzione del rapporto ventilazione/perfusione (V � /Q � mismatching );

– shunt vero o anatomico; – riduzione della diffusione a livello della

membrana alveolo-capillare (blocco alveolo-capillare);

• cause extrapolmonari : – ridotta frazione inspiratoria di ossigeno

(FiO 2 < 0,21); – ipoventilazione alveolare; – ridotta gittata cardiaca; – aumentata estrazione periferica di ossigeno; – ridotta PO 2 del sangue venoso misto; – comunicazione intracardiaca destra-sinistra.

Cause intrapolmonari Di fatto, i polmoni si comportano come uno scambiatore che riceve il sangue venoso misto, elimina rapidamente la CO 2 e lo ossigena lasciando uscire il

sangue arterioso ( Fig. 20.4 ). È intuitivo che l’ossigenazione del sangue venoso dipende dalle condizioni in cui lo stesso arriva, cioè il valore della PvO 2 , dalla rapidità con cui attra-versa lo scambiatore, cioè il polmone, e dall’effi cienza dello scambiatore stesso, cioè della membrana alveolo-capillare. Per un’effi cace scambio gassoso è necessaria una buona relazione tra la ventilazione alveolare (V � A) e la perfusione capillare (Q � c). La distribuzione di questo rapporto (V � A/Q � c) è stata studiata con la tecnica dei gas inerti. Quanto maggiore è la presenza di regioni con un basso rapporto V � A/Q � c, tanto meno efficace sarà l’ossigenazione del sangue venoso. Questo accade nella grande maggioranza delle malattie polmonari ostruttive e restrittive, in cui la prima causa di ipossiemia è appunto la maldistribuzione del rapporto ventilazione-perfusione ( Fig. 20.5 ). In questa fi gura, il polmone è schematicamente illustrato da un modello a due alveoli. Nella fi gura 20.5 a entrambi gli alveoli ricevono una regolare ventilazione e la perfusione è equamente distribuita al 50% fra le due unità, per cui

INSUFFICIENZA RESPIRATORIA

INSUFFICIENZA VENTILATORIA

INSUFFICIENZA POLMONARE

IPERCAPNIAPaCO2 > 45

mmHg

IPOSSIEMIAPaO2/FiO2

≤ 300 mmHg

Figura 20.1 Insuffi cienza respiratoria di pompa e di parenchima.

100

90

50

00 60 100 160

SaO2 = 95 ± 4%

PaO2 = 60 – 160 torr

PaO2 (torr)

Satu

razio

ne O

2 (%) Figura 20.2

Curva di dissociazione dell’ossigeno. (Da: Tobin MJ. Principles and practice of intensive care monotoring. Ed. McGraw-Hill, 1998. p. 270.)

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 484

l’ossigeno diffonde regolarmente dall’alveolo al sangue capillare (condizione normale). Nella fi gura 20.5 b un alveolo è regolarmente ventilato e perfuso, mentre l’al-tro non è ventilato ma riceve regolarmente il 50% della perfusione totale. Il risultato dello “shunt vero” è una signifi cativa riduzione della diffusione dell’ossigeno verso il sangue capillare con conseguente ipossiemia. Infi ne, nella fi gura 20.5 c un alveolo è regolarmente ventilato e perfuso mentre l’altro ha una scarsa ventilazione, pur conservando una regolare perfusione. Tale condizione di alterato rapporto V/Q è causa di ipossiemia. Se esistono aree di consolidamento alveolare o di comple-ta occupazione degli spazi aerei con liquido extracellulare, per esempio l’edema polmonare, o con essudato infi am-matorio, per esempio la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS, Acute Respiratory Distress Syndrome), il sangue venoso non ha alcun contatto con l’aria inspirata e V � A = 0. In questo caso non si può ovviamente parlare di rapporto V � A/Q � c, perché manca il numeratore (si veda la Fig. 20.5 ). Questa condizione è defi nita shunt anatomico intrapolmonare vero ed è assimilabile allo shunt intracar-diaco destro-sinistro tipico delle cardiopatie congenite. La distinzione fra queste due condizioni non è puramente formale, ma ha importanti implicazioni terapeutiche. Nel caso di un’alterata distribuzione di un esistente rapporto V � A/Q � c, l’arricchimento in O 2 dell’aria inspirata corregge l’ipossiemia attraverso l’aumento della PAO 2 . Viene rimos-sa la vasocostrizione ipossica regionale, ma l’aumentata perfusione capillare viene a contatto con un’aria inspirata più ricca in O 2 . La D(A−a)O 2 , cioè la differenza alveolo-arte-riosa di ossigeno , rimane elevata, ma a una maggiore PAO 2 corrisponde una maggiore PaO 2 . Se vi è invece uno shunt anatomico, la perfusione di quell’area non giungerà mai in contatto con l’aria inspirata e qualunque aumento della concentrazione di O 2 non avrà alcun effetto sul sangue venoso dell’area di shunt. In queste condizioni si defi nisce un’ipossiemia “refrattaria” alla somministrazione di O 2 e si rende spesso necessaria la ventilazione meccanica aggiunti-va al fi ne di reclutare spazi aerei eventualmente disponibili. Quindi, nell’insuffi cienza polmonare, la somministrazione di O 2 ha una funzione terapeutica se migliora la PaO 2 e una funzione diagnostica se rivela l’ipossiemia refrattaria. Il cosiddetto blocco alveolo-capillare, cioè l’ipossiemia per ispessimento dell’interstizio polmonare, non ha di fatto alcuna rilevanza nell’insuffi cienza polmonare nella pratica clinica. Anche nelle interstiziopatie, l’ipossiemia è dovuta a un’alterazione della distribuzione del rapporto

100

90

80

70

60

50

40

30

20

10

0 100 110 1209080706050403020100

14 1612103 6 8pO2 (kPa)

pO2 (mmHg)

pH = 7,6

20

pH = 7,2

pH = 7,4

Satu

razio

ne O

2 (%)

Figura 20.3 Fattori che

causano uno spostamento della curva di dissociazione

dell’emoglobina verso destra.

V’A/Q’

V’ PaO2

Figura 20.4 I polmoni si comportano

come uno scambiatore fra

il sangue venoso misto e il sangue

arterioso.

Q

V V

QQ

V VV VV V

Q Q

V V

QQ

V VV VV

Q

Normale Shunt V’/Q’ mismatch

a b c

Q

V V

QQ

V VV VV

Q

Figura 20.5 Rappresentazione

schematica dell’insuffi cienza

respiratoria causata da shunt

o alterazione del rapporto ventilazione/

perfusione (V � /Q � ).

(Da: Casali L, Cerveri I. Inquadramento clinico e funzionale. In: Casali L. Manuale di malattie dell’apparato respiratorio. Milano: Masson; 2001. Vol. 2, p. 282.)

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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V � A/Q � c. Secondo studi condotti sempre con la tecnica dei gas inerti, l’ispessimento dell’interstizio, e quindi il blocco alveolo-capillare, contribuisce però all’ipossiemia nell’esercizio fi sico.

Cause extrapolmonari Per quanto riguarda i determinan-ti extrapolmonari dell’ipossiemia, i primi due, cioè la con-centrazione di O 2 nell’aria inspirata (FiO 2 ) e la ventilazione polmonare sono contenuti di fatto nell’equazione del gas alveolare (si vedano il capitolo sulla ventilazione meccanica nella sezione principi di terapia e il capitolo sull’ARDS):

PAO 2 = (Pb − PH 2 O) × FiO 2 − (PACO 2 /R)

ove, PAO 2 è la pressione parziale di ossigeno nell’aria alveo-lare, Pb è la pressione atmosferica (per esempio, 760 mmHg a livello del mare), PH 2 O è la pressione parziale del vapore acqueo (47 mmHg), in quanto l’aria inspirata viene im-mediatamente e completamente umidifi cata nelle alte vie aeree, PACO 2 è la pressione parziale di anidride carbonica nell’aria alveolare, che è sostanzialmente uguale alla PaCO 2 per il forte coeffi ciente di diffusione della CO 2 , R è il quo-ziente respiratorio, cioè il rapporto tra la produzione di CO 2 (V � CO 2 = 200 mL/min) e il consumo di O 2 (V � O 2 = 250 mL/min), generalmente compreso tra 0,7 e 1 e mediamente assunto per un valore di 0,8. È chiaro dall’equazione che la riduzione della FiO 2 porterà a una diminuzione della PaO 2 per una riduzione della PAO 2 . D’altra parte, più importante per l’argomento di questo capitolo, un aumento della FiO 2 mediante l’aumento della percentuale di O 2 nell’aria inspi-rata anche fi no al 100% determinerà un miglioramento della PaO 2 sempre attraverso l’aumento della PAO 2 . La ventilazione polmonare infl uenza il valore della PaO 2 attraverso quello della PaCO 2 . È intuitivo che se aumenta la PCO 2 nel sangue e quindi negli alveoli, per la legge della somma delle pressioni parziali dei gas, deve diminuire la PAO 2 che trascinerà così la PaO 2 . Pertanto, in tutte le condizioni di ipoventilazione alveolare, sarà presente una modesta ipossiemia che non è dovuta a un difetto dello scambiatore, ma alla sostituzione dell’O 2 con la CO 2 nell’aria alveolare. Ciò accade in tutte le malattie neuromuscolari o della parete toracica, come la cifosco-liosi, in cui l’ipossiemia è semplicemente la conseguenza dell’ipercapnia. Che lo scambiatore polmonare, inoltre, sia effi ciente lo dimostra la bassa D(A−a)O 2 . Se invece questa è superiore a 20 mmHg, signifi ca che oltre all’ipo-ventilazione esiste una compromissione polmonare; per esempio, ciò si verifi ca nel caso di aree polmonari non raggiunte dalla ventilazione (atelettasie), a causa del basso volume corrente determinato dalla rigidità della parete toracica o dalla debolezza muscolare. L’altro determinante della PaO 2 è il valore della PvO 2 . È chia-ro che tanto minore è la PvO 2 , tanto maggiore deve essere il contatto tra sangue venoso che giunge e l’aria a livello della membrana alveolo-capillare. È altrettanto evidente che se lo scambiatore non è effi cace, la situazione di bassa PvO 2 viene amplifi cata con il risultato fi nale di un’ipossiemia im-portante. Il valore della PvO 2 dipende dalla gittata cardiaca e dall’estrazione periferica di O 2 da parte dei tessuti. Vi sono, infatti, condizioni in cui i tessuti periferici pre-sentano un maggior consumo di ossigeno, come, per esempio, negli stati settici o febbrili, o per un aumento

della spesa energetica, come accade per i muscoli respi-ratori quando vi è una malattia che altera le proprietà meccaniche dell’apparato respiratorio. A parità di altre condizioni, il maggiore consumo nei tessuti genera una PvO 2 più bassa. Sono molte le condizioni patologiche in cui tutti i meccanismi menzionati si trovano a essere concomitanti quali: • riduzione della gittata cardiaca per una cardiopatia

(per esempio, cardiomiopatia dilatativa, vizio valvolare ecc.);

• aumento del consumo di ossigeno tissutale (per esempio, sepsi, febbre ecc.);

• compromissione dello scambiatore polmonare (per esempio, polmonite, edema polmonare ecc.);

• riduzione della ventilazione polmonare (per esempio, affaticamento dei muscoli respiratori).

Tutti questi meccanismi contribuiscono sinergicamente all’ipossiemia. La comprensione della loro interazione è importante per il corretto approccio terapeutico.

Ipercapnia La CO 2 è il prodotto metabolico che rimane dopo aver consumato l’O 2 . È una sorta di “scoria” che va eliminata velocemente per non compromettere l’equilibrio acido-base (si veda il Capitolo 67 ) e mantenere il valore del pH tra 7,36 e 7,44 secondo l’equazione (semplifi cata) di Handerson-Hasselbach che riportiamo di seguito:

pH = (HCO 3 −/PaCO 2 )

ove HCO 3 - è la concentrazione di bicarbonati. Teleologi-camente, per questa necessaria rapidità, la regolazione del valore di PaCO 2 è meno complessa di quella della PaO 2 , in quanto dipende fondamentalmente da una formula abbastanza semplice:

PaCO 2 = k × (V 9 CO 2 /V 9 A)

ove k è una costante, V � CO 2 è la produzione metabolica di CO 2 ; V � A è la ventilazione alveolare in L/min, cioè:

V 9 A = V 9 E − V 9 D

ove V � E è la ventilazione polmonare totale al minuto misura-ta sull’aria espirata e V � D è la ventilazione dello spazio mor-to, cioè tutte le vie aeree di conduzione ed eventuali zone ventilate ma non perfuse del polmone, come, per esempio, grosse bolle intraparenchimali, sempre in L/min. Poiché:

V 9 E = VT × f

dove VT è il volume corrente e f la frequenza degli atti respiratori al minuto:

V 9 A = V 9 E × (1 × {VD/VT})

cioè la ventilazione polmonare meno la quota che fi nisce nello spazio morto a ogni atto respiratorio. Per cui, la prima equazione riportata diviene:

PaCO 2 = k × (V 9 CO 2 /V 9 E) × (1 − [VD/VT])

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 486

Pertanto, in condizioni di riposo con una determinata produzione di anidride carbonica (V � CO 2 basale), il valore di PaCO 2 sarà determinato dalla ventilazione polmonare nel suo complesso e dal rapporto tra lo spazio morto e il volume corrente. In particolare l’aumento della PaCO 2 (ipercapnia) si verifi ca se: • la ventilazione polmonare diminuisce

(ipoventilazione tout-cour ); • lo spazio morto aumenta senza una suffi ciente

compensazione da parte del volume corrente (ipoventilazione alveolare);

• il volume corrente diminuisce, anche in presenza di un aumento della frequenza respiratoria (tachipnea e ipoventilazione alveolare).

Quest’ultima condizione è particolarmente interessante per la clinica in quanto a un’iperventilazione apparente, in realtà determinata da tachipnea e non dal manteni-mento di un costante valore di VT, la ventilazione alveo-lare cambia (a parità di valore di VD). A titolo esplicativo e rappresentativo di quanto qui esposto si veda lo schema nella tabella 20.2 . Ne deriva che la riduzione della V � A comporterà un au-mento della PaCO 2 secondo la nota relazione curvilinea. Lo stesso risultato di riduzione della V � A si ottiene au-mentando lo spazio morto (VD) senza compensare con il VT. Le implicazioni cliniche di questa condizione sono dunque molto importante. In linea di logica fi siologica, infatti, occorre associare alla tachipnea a riposo il concetto dell’ipoventilazione e non dell’iperventilazione.

Ventilazione La ventilazione polmonare è regolata da una catena di eventi che origina dalla ritmica attività spontanea di un gruppo di neuroni localizzati sul pavimento del IV ventricolo. Lo stimolo viene trasmesso attraverso le vie piramidali ai muscoli respiratori coinvolti nell’attività inspiratoria corrente, cioè il diaframma (costale e crurale), gli intercostali parasternali e i muscoli scaleni. La contra-zione muscolare, attivata dal controllo della respirazio-ne (automatico e volontario), espande la parete toracica rendendo più negativa la pressione intratoracica e quindi trascinando un aumento del volume polmonare che de-termina una caduta della pressione alveolare e quindi del fl usso di aria inspiratorio ( Fig. 20.6 ). Per un meccanismo di switch-on / switch-off , il gruppo di neuroni inspiratori è progressivamente inibito da un grup-po di neuroni adiacenti, legato a meccanismi sia centrali sia periferici (barocettori polmonari), per cui l’attività dei muscoli inspiratori si spegne. L’espirazione è invece un fe-nomeno normalmente passivo, determinato dalla forza di retrazione elastica dei polmoni che riconducono l’apparato respiratorio al punto di equilibrio elastico, normalmente coincidente con la capacità funzionale residua (CFR).

Meccanismi dell’ipercapnia Poiché la ventilazione è l’atto fi nale del processo, il man-tenimento dell’omeostasi della PaCO 2 , cioè di un valore compreso tra 36 e 45 mmHg, richiede l’integrità della catena ventilatoria sopra descritta. Ne consegue che un aumento della PaCO 2 , a riposo, può essere causato da: • scarsa emissione dello stimolo dai centri respiratori, per

esempio sedazione centrale da farmaci come i barbiturici o processi patologici del sistema nervoso centrale;

• difetto di conduzione nelle vie nervose (piramidali), come in vari tipi di neuropatie periferiche;

• difetto dei muscoli respiratori nella loro capacità di trasformare in energia meccanica lo stimolo centrale per debolezza (per esempio, come in molte malattie neuromuscolari) o affaticamento (come per l’eccessivo carico meccanico dell’apparato respiratorio);

• difetto meccanico nell’espansione della parete toracica, come nelle cifoscoliosi;

• ipoventilazione alveolare come in presenza di tachipnea (si veda la Tab. 20.2 ).

Si desume quindi che il valore della PaCO 2 non dipende principalmente dalla capacità di scambiare i gas della membrana alveolo-capillare. Tuttavia, ciò è vero solo se tutti i meccanismi di compensazione (sostanzialmente un aumento del volume corrente attraverso un maggior lavoro respiratorio) funzionano correttamente. Spesso le malattie determinano sia un aumento del carico meccanico sia un indebolimento dei muscoli, per esempio per le conseguenze di fenomeni infettivi o di squilibri elet-trolitici, così che muscoli indeboliti devono affrontare un lavoro respiratorio maggiore e possono andare incontro ad affaticamento ( Fig. 20.7 ). Mentre la debolezza defi nisce una condizione permanente dei muscoli respiratori, generalmen-te per una malattia primitiva degli stessi, l’affaticamento se-gnala una condizione temporanea in cui, a parità di stimolo neurale, il muscolo perde progressivamente la capacità di trasformare quello stimolo in pressione adeguata per mante-nere la ventilazione. L’affaticamento si risolve o con il riposo

VT mL f/min VD mL V � E L/min V � A L/min500 18 150 9 6,3300 30 150 9 4,5200 45 150 9 2,25

Tabella 20.2 Volume corrente e ventilazione alveolare

CATENA VENTILATORIA

Sistema nervoso centrale

Vie neurali

Giunzioni neuromuscolari

Muscoli respiratori: GENERATORI DI PRESSIONE

Parete toracica: spostamento = pressione intratoracica negativa

Polmoni: spostamento = flusso inspiratorio

VENTILAZIONE POLMONARE

Figura 20.6 Catena degli

eventi che regola la ventilazione

polmonare.

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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dei muscoli respiratori attraverso il supporto ventilatorio meccanico, o con il miglioramento delle condizioni fi sio-patologiche associate alla malattia con riduzione del carico meccanico, per esempio attraverso la broncodilatazione. Se la caduta della V � A, e quindi l’aumento della PaCO 2 , è abba-stanza rapido, il rene non ha il tempo di compensare con la ritenzione di bicarbonati e il pH diminuisce. Un pH < 7,36 in presenza di una PaCO 2 > 45 mmHg defi nisce una condizione di insuffi cienza ventilatoria acuta con acidosi respiratoria , men-tre un pH normale con ipercapnia e bicarbonati aumentati indica un’insuffi cienza ventilatoria cronica. Se contempo-raneamente si misura un valore PaO 2 /FiO 2 < 300 mmHg, la diagnosi è di insuffi cienza respiratoria totale. La tabella 20.3 riporta in maniera schematica queste defi nizioni in relazio-ne alle variazioni fi siopatologiche che infl uiscono sull’alte-razione dello scambio gassoso. L’insuffi cienza polmonare richiede la somministrazione di aria con FiO 2 > 0,21, talvolta associata all’utilizzo di un dispositivo a pressione continua, o CPAP (Continuous Po-sitive Airway Pressure). L’insuffi cienza ventilatoria , invece, richiede il sostegno alla ventilazione, generalmente otte-nuto con una pressione intermittente (di cui la pressione di supporto, o PSV [Pressure Support Ventilation] è la mo-dalità più utilizzata) erogata nelle vie aeree. L’insuffi cienza respiratoria, infi ne, necessita per lo più dell’associazione di iperossigenazione e supporto ventilatorio.

Ipercapnia da ossigenoterapia Un’ultima considerazione va fatta a proposito dell’ipercap-nia indotta dalla somministrazione di O 2 . I meccanismi sono fondamentalmente tre:

• la riduzione della ventilazione polmonare per la rimozione dello stimolo ipossico;

• l’aumento dello spazio morto (VD) per la dilatazione delle vie aeree conseguente all’arricchimento in ossigeno dell’aria;

• l’effetto Haldane sulla curva di dissociazione dell’HbO 2 che scarica la CO 2 nel momento in cui carica l’O 2 .

Per questi motivi la SaO 2 , in corso di somministrazione, acuta o cronica, di ossigeno va mantenuta nel range ne-cessario e suffi ciente compreso fra 92 e 96%, proprio per non “fuggire” inutilmente lungo la parte piatta della curva di dissociazione dell’HbO 2 e contribuire dunque a gene-rare un’iperossigenazione superfl ua e una conseguente tendenza a sviluppare ipercapnia che può determinare un’acidosi respiratoria.

Manifestazioni cliniche

La clinica dell’IR acuta abbina i segni e sintomi propri dell’ipossia e/o dell’ipercapnia alla clinica legata alla pa-tologia scatenante. L’ ipossiemia si esprime principalmente su due livelli: aumento della frequenza respiratoria per stimolazione dei chemocettori centrali e periferici e sof-ferenza dei centri nervosi. Il sintomo principale della IR acuta è la dispnea , la cui gravità è generalmente proporzionale a quella della com-promissione funzionale respiratoria. L’ortopnea è più grave ed evidente nei pazienti con associato scompenso cardiaco o nelle patologie neuromuscolari avanzate con compromissione dell’attività del muscolo diaframma.

CARICO MECCANICO

Proprietà meccanichedei polmoni e del torace

Centri respiratori

Vie di trasmissione

Muscoli respiratori

POMPA VENTILATORIA Figura 20.7 Equilibrio fra carico meccanico e sforzo dei muscoli respiratori.

Condizione PaO 2 D(A−a)O 2 PaCO 2 pH PaO 2 /FiO 2 IP < 60 mmHg > 20 mmHg < 45 mmHg > 7,35 < 300 mmHgIVA < 80 mmHg < 20 mmHg > 45 mmHg < 7,36 ≥ 300 mmHgIVC < 80 mmHg < 20 mmHg > 45 mmHg > 7,35 ≥ 300 mmHgIRA < 60 mmHg > 20 mmHg > 45 mmHg < 7,36 < 300 mmHgIRC < 60 mmHg > 20 mmHg > 45 mmHg > 7,35 < 300 mmHg

IP = insuffi cienza polmonare; IVA = insuffi cienza ventilatoria acuta; IVC = insuffi cienza ventilatoria cronica; IRA = insuffi cienza respiratoria acuta; IRC = insuffi cienza respiratoria cronica.

Tabella 20.3 Condizioni fi siopatologiche e alterazione dello scambio gassoso

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 488

Oltre alla dispnea, il distress respiratorio si manifesta con ta-chipnea (frequenza respiratoria > 24 a tti/min), utilizzo della muscolatura respiratoria accessoria e/o presenza di segni di affaticamento dei muscoli respiratori. Le manifestazioni cliniche dell’affaticamento dei muscoli respiratori sono: • respiro paradosso (sfasamento delle variazioni

di diametro dell’addome e del torace, dovuto a paradossa retrazione inspiratoria dell’addome abbinata alla fi siologica espansione del torace);

• segno di Hoover (retrazione delle ultime coste verso l’interno);

• tirage intercostale e sovraclaveare.

I segni clinici dell’ipossiemia sono la cianosi (presente con più di 5 g/dL di emoglobina desaturata), la tachipnea con attivazione dei muscoli respiratori accessori, la tachicardia e le possibili turbe neurologiche dello stato di vigilanza (progressivamente fi no al coma). L’ipossiemia cronica genera poliglobulia. L’ ipercapnia induce inizialmente l’attivazione dei centri respiratori (fi no a un livello di PaCO 2 < 90 mmHg) e soprat-tutto un complesso quadro neurologico riconducibile a una sofferenza metabolica dell’encefalo, secondaria all’acidosi respiratoria. L’aumento della PaCO 2 induce un incremen-to della portata cardiaca, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa per aumento dell’attività simpatica. Altri segni clinici sono la tachipnea e la sudorazione pro-fusa fredda secondaria a vasodilatazione cutanea; i segni e i sintomi principali, tuttavia, sono quelli legati proprio alla encefalopatia, che può evolvere attraverso lo stato di stupor e coma, se non si istaura una terapia eziologia adeguata, e associato al progressivo effetto dell’accumulo di CO 2 e

conseguentemente dell’acidosi respiratoria nelle strutture encefaliche. Il quadro neurologico dell’encefalopatia iper-capnica in corso di IR acuta si caratterizza per la concomi-tante presenza di alterazioni dello stato di coscienza e di anomalie motorie (per esempio, tremori). Nella tabella 20.4 sono riportate le principali defi nizioni legate alle alte-razioni dello stato di coscienza e alle anomalie motorie rilevabili. Se la sofferenza cerebrale si aggrava ulteriormente, com-pare il quadro clinico dello stupor, condizione di sonno profondo e di mancanza di reattività, simile al sonno dal punto di vista comportamentale, da cui il soggetto può essere distolto con stimoli vigorosi e ripetuti. Cessato lo stimolo, il paziente torna di nuovo nello stato precedente lo stimolo stesso. Se il quadro progredisce ulteriormente si manifesta il quadro clinico del coma.

Terapia ventilatoria

Il trattamento dell’insufficienza respiratoria acuta è caratterizzato da: • somministrazione supplementare di ossigeno

per correggere l’ipossiemia e piena terapia far-macologia per la correzione degli elementi di fisiopatologia e clinica alterati a causa dell’acuzie (per esempio, broncodilatatori, antinfiammatori steroidei, antibiotici, diuretici);

• istituzione della ventilazione meccanica come parte del trattamento generale del paziente, qualora il paziente presenti un’acidosi respiratoria (per esem-pio, pH < 7,35) o un’ipossiemia grave e refrattaria al tentativo di correzione con ossigenoterapia;

• identificazione della più adeguata area ospeda-liera e del più opportuno monitoraggio richie-sto dalla condizione del paziente (cioè aree, in generale, a più elevata intensità assistenziale quali quella intensiva/subintensiva respiratoria o intensiva generale).

Nel presente paragrafo si delineano gli elementi prin-cipali del trattamento ventilatorio dell’IR acuta con accenno alla ventilazione meccanica domiciliare nel trattamento della IR cronica. In linea generale, la ven-tilazione meccanica costituisce l’atto clinico peculiare nelle aree di intervento intensivo generale e pneumo-logico, quando la IR non può essere controllata con la sola terapia farmacologia e la somministrazione di ossigeno a congruo flusso. La ventilazione meccanica non costituisce una terapia eziologica in senso stretto, quanto un aspetto specifico della cura del paziente critico con IR e una forma di supporto essenziale per la vita. Infatti, la ventilazione meccanica consiste in un insieme di tecniche che, avvalendosi dell’impie-go di protesi specifiche (ventilatori), supportano o sostituiscono la funzione (pompa ventilatoria) del paziente nel caso di insufficienza respiratoria iper-capnica, oppure sono in grado di erogare ossigeno ad alto flusso (sino al 100%) nel caso di insufficienza respiratoria puramente ipossiemica. La ventilazione meccanica, in molti casi, rappresenta un supporto

Alterazioni dello stato di coscienza� Turbe dell’attenzione : incapacità di concentrarsi con l’abituale

intensità su un dato argomento per cui il paziente viene distratto da un altro stimolo ambientale

� Turbe dell’orientamento e della comprensione : compromis-sione della facoltà cognitiva con disorientamento nel tempo e nello spazio

� Turbe della percezione : errori di percezione (per esempio, confondere il personale ospedaliero con vecchi amici)

� Turbe della vigilanza : il paziente oscilla dall’ipervigilanza o stato di agitazione allo stato soporoso nell’ambito dello stesso episodio di encefalopatia. Più spesso il paziente è solo soporoso e progressivamente si aggrava lo stato di sopore al punto da essere risvegliato solo dopo uno stimolo intenso; la risposta a domande verbali è spesso confusa

Anomalie motorie� Tremori : grossolani durante il movimento� Asterixis : improvviso movimento in senso palmare a battito

d’ali delle mani e dei polsi (compare se si fanno estendere le braccia con dorsifl essione delle mani e insorge dopo 2 � -30 � , precede di poco lo stupor e il coma durante i quali scompare)

� Mioclono multifocale : contrazioni irregolari e improvvise interessanti singoli fasci muscolari o gruppi muscolari, più evidente nello stato di coma

Tabella 20.4 Principali defi nizioni legate alle alterazioni dello stato di coscienza e alle anomalie motorie

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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temporaneo che migliora gli scambi gassosi e la ven-tilazione polmonare, riducendo il carico dei muscoli respiratori e consentendo il loro riposo in attesa della remissione della condizione clinica causa della IR.

Ventilazione meccanica invasiva Il trattamento convenzionale e spesso “salvavita” della IR acuta è stato ed è in buona parte tuttora rappresenta-to dalla ventilazione artificiale meccanica invasiva, cioè applicata tramite un’interfaccia che penetra direttamen-te all’interno delle vie aeree (tubo tracheale translarin-geo o cannula tracheotomica) e i cui scopi precipui sono la correzione degli scambi gassosi (ipossiemia e/o acidosi respiratoria), la riduzione del lavoro respiratorio e della dispnea. Il tubo endotracheale ha anche il compito, dove sia necessario, di proteggere le vie aeree. I criteri che portano all’intubazione del paziente e alla ventilazione meccanica possono essere così rias-sunti: 1) sintomi e segni di “distress” respiratorio con acidosi respiratoria e/o ipossiemia (PaCO 2 > 45 mmHg con pH < 7,36 e/o PaO 2 /FiO 2 < 200) refrattaria alla tera-pia farmacologia attuata in emergenza; 2) instabilità emodinamica grave (shock emodinamico, infarto del miocardio in atto ecc.); 3) mancanza dei riflessi pro-tettivi delle prime vie aeree; 4) encefalopatia maggiore (stupor o coma); 5) arresto respiratorio; 6) incapacità di rimuovere spontaneamente le secrezioni bronchiali e/o proteggere le vie aeree con i riflessi fisiologici a disposizione. L’approccio ventilatorio ai pazienti critici può va-riare in relazione agli eventi fisiopatologici che sono alla base della IR acuta. Nella IR polmonare, caratterizzata dall’ipossiemia, come, per esempio, nell’ARDS , il supporto ventilatorio deve avere lo sco-po di incrementare la capacità polmonare residua e quindi portare alla riduzione degli shunt , operando una riespansione delle unità alveolari collassate (a “bassa compliance”). Nella IR acuta di pompa, quale la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) riacutizzata, in cui i muscoli respiratori non sono in grado di sostenere un livello di ventilazione che sod-disfi le richieste metaboliche del paziente, la finalità del supporto meccanico è di raggiungere un livello di ventilazione minima efficace, favorendo il riposo dei muscoli respiratori e, in via secondaria, riducen-do il rischio di iperinsuflazione del polmone. Nella pratica clinica sono utilizzate numerose modalità di ventilazione, che vanno da quelle completamente controllate dal ventilatore a quelle parzialmente o totalmente controllate dal paziente e che di seguito verranno sintetizzate. • Ventilazione meccanica controllata (CMV, Controlled

Mechanical Ventilation): ventilazione completa-mente controllata dal respiratore. In tale modali-tà, l’attività muscolare inspiratoria del paziente è abolita dalla sedazione e dalla paralisi dei muscoli respiratori indotta farmacologicamente. Il ventila-tore controlla il volume corrente erogato attraverso il tubo endotracheale, il flusso inspiratorio e tutti gli altri parametri della ventilazione. Tale metodica si applica durante l’anestesia o di solito nelle prime

fasi di ventilazione, quando il paziente necessita di sedazione totale o non è ancora in grado di iniziare da solo un atto inspiratorio.

• Ventilazione meccanica assistita , in cui l’atto respi-ratorio è parzialmente controllato dal paziente. Il paziente non è sedato ed è in grado di stabilire una propria frequenza respiratoria. Se il pazien-te inizia uno sforzo inspiratorio, questo viene avvertito dal ventilatore come depressione che attiva il trigger inspiratorio, si apre la valvola inspiratoria del ventilatore e la macchina eroga un flusso di aria nelle vie aeree del paziente. Se il paziente non compie alcun sforzo inspiratorio, il respiratore eroga atti inspiratori meccanici a una frequenza preimpostata e rappresenta perciò una ventilazione di “sicurezza”.

• Ventilazione assistita-controllata (ACV): modalità ibrida.

Nella pratica clinica è molto utilizzata la modalità ventilatoria a “ pressione di supporto” (PSV, Pressure Support Ventilation) e la ventilazione a “pressione controllata” (PCV). La PSV è una modalità totalmente orientata dal paziente che temporizza, in base al pro-prio drive neuronale respiratorio, le diverse fasi del ciclo respiratorio; il paziente con l’atto inspiratorio attiva il trigger del ventilatore. La PCV è una modalità controllata dal paziente o dal ventilatore (nel caso il paziente non attivi il trigger), in cui le fasi del ciclo respiratorio (per esempio, il tempo inspiratorio) sono regolate dall’operatore. I ventilatori meccanici possono inoltre erogare ogni atto respiratorio con modalità a volume (volumetrica) o a pressione (pressometrica). Se il medico impo-sta la modalità volumetrica, come in CMV o ACV, il ventilatore erogherà un volume costante (variabile indipendente) e predefinito a ogni atto, mentre le varibili dipendenti saranno la pressione necessaria per raggiungere quel determinato volume e, nel caso di modalità ACV, la frequenza respiratoria. Se invece si imposta una modalità pressometrica, l’operatore fissa una pressione inspiratoria (variabile indipenden-te), mentre le risultanti variabili saranno il volume corrente ottenuto e, nel caso di PSV, la frequenza respiratoria e il timing, cioè il tempo di ciclaggio fra le fasi in- ed espiratoria. Tutte le modalità di ventilazione espongono teori-camente al rischio di barotrauma e/o volutrauma. Infatti, con le modalità volumetriche si conosce il volume erogato, ma non a quale “prezzo” esso possa essere raggiunto (pressione di picco delle vie aeree); con le modalità pressometriche si conosce la pressio-ne erogata, ma non si può stabilire a priori il volume che si raggiungerà. Inoltre, è importante conoscere non solo il livello di picco raggiunto, ma anche la pressione media (cioè mantenuta durante tutto l’atto inspiratorio). Nonostante la ventilazione meccanica invasiva sia spesso una procedura salva-vita, è innegabile il fatto che l’intubazione tracheale rappresenti il principale fattore di rischio per le complicanze infettive, le pol-

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 490

moniti nosocomiali in particolare, e per lesioni delle vie aeree. La probabilità che insorgano tali compli-canze giustifica l’esigenza dei rianimatori di riportare il paziente alla respirazione spontanea senza l’ausilio del supporto meccanico nel più breve tempo possibi-le. Si definisce svezzamento dalla ventilazione meccanica invasiva o weaning il processo di riduzione graduale sino alla sospensione della ventilazione meccanica con ripristino della ventilazione spontanea. Lo svez-zamento risulta possibile quando le cause che hanno scatenato la IR sono in via di risoluzione clinica e parimenti vi siano un miglioramento degli scambi gassosi a livello polmonare e una ripresa efficace e permanente dell’attività della pompa ventilatoria. Lo svezzamento si avvale di protocolli convenzio-nali (quali la graduale riduzione del livello di PSV oppure di periodi progressivi di temporaneo distacco dal ventilatore e mantenimento della respirazione autonoma) o di nuove alternative all’approccio tra-dizionale come, per esempio, la rimozione precoce del tubo endotracheale e l’applicazione successiva di supporti di ventilazione alternativi (cioè la venti-lazione non invasiva). Purtroppo in circa il 15-20% dei pazienti in ventilazione meccanica invasiva, so-prattutto se affetti da patologie croniche respiratorie o cardiovascolari, si assiste a un difficoltoso distacco dal ventilatore che può talvolta esitare nella decisione di proseguire la ventilazione dopo avere praticato un accesso tracheostomico (è il caso del cosiddetto weaning difficoltoso). Il costo complessivo del trattamento con ventilazio-ne invasiva risulta economicamente assai rilevante, anche perché viene erogato tendenzialmente in aree ospedaliere a più elevata assistenza e complessità di monitoraggio, e spesso si associa a una cospicua mor-talità ospedaliera legata all’insorgenza delle compli-canze. Proprio per tali motivi, sin dagli anni Novanta, si è sempre più diffusa la pratica della ventilazione non invasiva, risultata efficace nel trattamento di molte forme di IR acuta.

Ventilazione meccanica non invasiva Due sono le modalità di ventilazione meccanica non invasiva (VNI): la ventilazione a pressione negativa intermittente (INPV) e la ventilazione a pressione positiva intermittente con maschera (nPPV).

Ventilazione non invasiva a pressione negativa intermittente L’INPV è praticata attraverso il polmone d’acciaio , costituito da un grosso cilindro nel cui interno viene posto il corpo del paziente a eccezione della testa, che fuoriesce da un’apertura a tenuta; un generatore di pressione connesso al cilindro modifica ciclica-mente i valori pressori all’interno della camera da subatmosferici (cioè negativi) nella fase inspiratoria a valori atmosferici durante l’espirazione . La pressione negativa all’interno del polmone d’acciaio è imposta-ta dall’operatore per un tempo predeterminato; tale depressione esercita una trazione sulla gabbia toracica

che si espande; il flusso inspiratorio e il volume cor-rente dipendono dall’impedenza del sistema respira-torio del paziente. L’espirazione è attuata generando nella camera una pressione positiva o riducendo la pressione negativa; tale ventilazione è insensibile a eventuali sforzi inspiratori del paziente. L’INPV è utilizzata con efficacia nel trattamento della IR acuta ipercapnica in corso di grave riacutizzazione della BPCO o in pazienti neuromuscolari.

Ventilazione non invasiva a pressione positiva La nPPV utilizza un’interfaccia applicata all’esterno delle vie aeree (maschera facciale, maschera nasa-le, olive nasali, casco ecc.), evitando quindi l’intu-bazione endotracheale con tutti i rischi che questa procedura comporta (si veda la Fig. 20.8 ). La nPPV consente una grande flessibilità nell’applicazione e nella rimozione dell’assistenza ventilatoria anche più volte nell’arco della giornata, riducendo quindi il rischio di dipendenza del paziente dal ventilatore. Ne deriva pertanto che, rispetto alla ventilazione con tubo endotracheale, i principali vantaggi del-la VNI sono la riduzione delle lesioni alle vie aeree prossimali e delle infezioni respiratorie, nonché il mantenimento dei meccanismi difensivi delle prime vie aeree, della fonazione e della deglutizione. Per definizione, la nPPV può essere applicata solamente nei pazienti che abbiano almeno una piccola capacità respiratoria spontanea, ed è pertanto controindicata quando il paziente non è in grado di attivare il trig-ger inspiratorio. Come per la ventilazione invasiva, anche nella nPPV i ventilatori possono erogare ogni atto respiratorio con modalità a volume o a pressione. Un’ulteriore modalità applicativa è rappresentata dalla PAV (Proportional Assist Ventilation). La PAV è la più recente forma di ventilazione assistita introdotta nella pratica clinica. Con tale modalità, il ventilatore genera una pressione proporzionale allo sforzo istantaneo generato con l’atto inspiratorio dal paziente; più forte è lo sforzo inspiratorio del paziente, più elevata sarà la pressione erogata dal ventilatore. Tale metodica nasce con l’obiettivo di ottimizzare l’interazione paziente-ventilatore, ponendo il venti-latore sotto il completo controllo dell’atto respiratorio del paziente. Tale metodica di recente introduzione è ancora nella fase di valutazione e conferma clinica. Utilizzata come metodica non invasiva a pressione è anche la CPAP (Continuous Positive Airways Pressu-re), che in effetti non è un vero e proprio supporto ventilatorio, in quanto fornisce solo l’erogazione di una pressione positiva continua, utile per reclutare le zone polmonari non sufficientemente areate, ma non garantisce alcun supporto ai muscoli respiratori. Per l’uso della CPAP nei disturbi respiratori del sonno si veda il Capitolo 21. A oggi le metodiche ventilatorie pressometriche risultano meglio adattabili al paziente e sono per-tanto le più utilizzate in tutti gli ambiti della pra-tica ventilatoria (ospedale o domicilio). La crescita esponenziale dell’interesse per la nPPV verificatasi

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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negli ultimi 10-15 anni, non solo dal punto di vista clinico e applicativo, ma anche speculativo, ha pochi eguali nella recente storia della medicina. L’indica-zione principale della nPPV è la IR acuta ipercapnica, anche se è possibile il suo utilizzo in alcune condi-zioni particolari di ipossiemia “pura”. Nell’ultimo decennio ha avuto grande diffusione nella pratica clinica l’impiego della nPPV, sia nelle unità di terapia intensiva generale e respiratoria, sia nelle divisioni di pneumologia, medicina d’urgenza, pronto soc-corso e medicina generale. La scelta è dettata da una maggiore semplicità nell’esecuzione della metodica, ridotti costi di acquisto e gestione dei ventilatori e possibilità di applicare la metodica anche al letto del paziente. Il punto di partenza per l’applicazione della nPPV, come di ogni tipo di assistenza ventilatoria, è l’individuazione del paziente affetto da segni e sinto-mi di “distress” respiratorio: aumento della dispnea, frequenza respiratoria > 24 atti/min, utilizzo della muscolatura respiratoria accessoria e/o presenza di respiro paradosso, acidosi respiratoria e/o ipossiemia (PaCO 2 > 45 mmHg con pH < 7,35 e/o PaO 2 /FiO 2 < 200). Controindicazioni alla nPPV sono quelle già sopra ricordate più in generale sull’uso della ventilazione non invasiva, oltre alla presenza di condizioni quali lesioni traumatiche o chirurgiche facciali, tali da impedire l’applicazione della maschera. La scelta dell’interfaccia e del ventilatore rientra nel novero dei requisiti tecnici indispensabili per il suc-cesso della nPPV. Per quanto riguarda l’interfaccia, la maschera facciale garantisce una più efficace ero-gazione della pressione positiva in un paziente che, nelle fasi del distress acuto, presenta una respirazio-ne prevalentemente attraverso la bocca. La seconda scelta, nel caso in cui il paziente manifesti intolle-ranza alla maschera, presenza di eccessive fughe aeree o effetti collaterali dovuti al decubito nasale, deve orientare sul casco, attualmente utilizzabile con diverse modalità di ventilazione. Al contrario di quanto si pensi in Italia, il casco è comunque considerato interfaccia di seconda scelta a causa dei problemi legati al fenomeno del rebreathing della CO 2 (soprattutto nei pazienti ipercapnici) e della possibile cattiva interazione paziente-ventilatore. Un altro elemento che è emerso dagli studi effet-tuati all’inizio degli anni Novanta è l’importanza dell’esperienza del team curante nel successo della nPPV. La percentuale di successo della nPPV au-menta con gli anni; l’esperienza e la professionalità permettono di trattare con successo pazienti con grado di compromissione generale e con livelli di acidosi respiratoria sempre maggiore.

nPPV nell’insufficienza respiratoria acuta ipercapnica L’efficacia della nPPV nel trattamento dell’IR acuta ipercapnica si riassume nelle conclusioni a cui è giunta la Consensus Conference riunitasi nel 2000: “L’aggiunta della nPPV alla terapia medica standard è in grado di prevenire l’intubazione tracheale e di ridurre il tasso di complicanze e di

mortalità nei pazienti con insufficienza respiratoria acuta ipercapnica”. Uno dei problemi fondamentali nei pazienti con grave acidosi rimane quello di intuire per tempo quando la nPPV ha poche probabilità di successo. Nonostante non vi siano indicatori certi e in grado di predire con sicurezza il successo della nPPV, la variazione del pH dopo la prima ora di ventilazione, la gravità della ma-lattia e il grado di cooperazione del paziente rappresen-tano i tre criteri predittivi maggiormente attendibili.

nPPV nell’insufficienza respiratoria acuta ipossiemica La percentuale di successo della VNI nelle patologie ipossiemiche dipende marcatamente dalla patologia che ha determinato la IR. La CPAP può essere considerata il trattamento standard dell’edema polmonare acuto, mentre nei casi caratterizzati da spiccata acidosi respiratoria e da concomitanza di BPCO è da preferire la modalità classica con PSV, associata a CPAP. Dati presenti in letteratura evidenziano il rischio di fallimento della nPPV (>50%) nei casi di ARDS e di polmonite nosocomiale, mentre la percentuale di successo della nPPV è più alta nei casi di edema pol-monare acuto e di contusione polmonare (>80%). Le conclusioni a cui si è giunti in merito all’uso della VNI nelle patologie ipossiemiche indicano che “ulte-riori studi controllati sono necessari per determinare i potenziali benefici dell’aggiunta della VNI alla terapia medica standard nel trattamento dell’insufficienza respiratoria ipossiemica”.

Applicazioni “alternative della nPPV” La nPPV può essere infine utilizzata nel corso dello svezzamento dalla ventilazione invasiva; se il paziente infatti presenta dei criteri clinici favorevoli all’applicazione della ventilazione (grado di collaborazione, sufficiente protezione delle vie aeree ecc.), la razionale prosecuzione della cura ventilatoria mediante interfaccia non invasivo risiede nell’obiettivo di accorciare la durata della ventilazione con tubo tracheale, riducendo così il rischio di complicanze, ma di mantenere al tempo stesso il supporto ventilatorio necessario fino al completamento del programma di svezzamento. Esistono inoltre alcuni studi molto promettenti riguardanti l’applicazione della metodica in pazienti che sviluppano IR a seguito di un intervento di chirurgia toracica o addominale alta, nelle infezioni polmonari dei pazienti immunocompromessi, in corso di procedure broncoscopiche nel paziente critico, come misura palliativa per ridurre la dispnea nel paziente terminale.

Ventilazione meccanica domiciliare La ventilazione meccanica domiciliare (VMD) è una strategia terapeutica che applica un supporto venti-latorio terapeutico a lungo termine, quindi presso il domicilio del paziente che si presenta con un quadro clinico di IR cronica. La VMD è applicata principal-mente come supporto vitale per il paziente e come terapia di elezione.

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 492

Nei pazienti con paralisi della muscolatura respi-ratoria o altre condizioni cliniche che rendono il polmone incapace di garantire un’efficace scambio gassoso, la ventilazione domiciliare rappresenta un supporto vitale per il paziente, che altrimenti mori-rebbe in pochi minuti o ore in coma respiratorio, se privato del suddetto presidio. La VMD diviene una scelta obbligata nei pazienti in cui una condizione patologica di base (malattia neuromuscolare, pato-logia del moteneurone o BPCO) causa IR acuta, per cui il paziente viene intubato e ventilato meccanica-mente e, successivamente, nonostante la risoluzione dell’episodio acuto, il paziente non è più svezzabile dal ventilatore; in tal caso la ventilazione meccanica domiciliare per via tracheostomica è la scelta obbliga-ta per permettere la dimissione del paziente al domi-cilio. La VMD viene proposta quale terapia di elezione quando una condizione patologica cronica (anche tra quelle sopra citate) limita l’efficienza dei muscoli respiratori, per cui si instaura una condizione di IR ipercapnica progressiva. Questo è il caso soprattutto dei pazienti con patologie neuromoscolari o della gabbia toracica quali distrofia muscolare, sclerosi laterale amiotrofica, cifoscoliosi, o condizioni pa-

tologiche del parenchima polmonare quali BPCO e fibrosi cistica . In tali condizioni patologiche la ventilazione non invasiva con maschera nasale o fac-ciale ( Fig. 20.8 ) viene preferita alla ventilazione non invasiva a pressione negativa (corazza o poncho). La ventilazione viene praticata per un limitato nu-mero di ore giornaliere, preferibilmente nelle ore del riposo notturno, e pertanto l’approccio non invasivo è quello preferito. La ventilazione, supportando lo sforzo dei muscoli respiratori, ne favorisce un riposo elettivo, con l’obiettivo di migliorare la funzione ventilatoria nelle ore di respirazione spontanea non supportata dalla macchina. L’efficacia terapeutica della VMD, in queste situazioni, è quella di ottimizzare a lun-go termine la ventilazione alveolare e gli scambi gassosi anche di giorno e in stato di veglia, miglio-rando dunque l’ipossiemia e l’ipercapnia cronica. Vi è inoltre l’evidenza che la VMD può ridurre il ripetersi di ospedalizzazioni, prevenire la ricorrenza di nuovi episodi acuti, migliorare la qualità di vita e, nelle patologie restrittive (cifioscoliosi, alcune patologie neuromuscolari), prolungare anche la sopravvivenza.

a

b c

Figura 20.8 Modalità

ventilatoria non invasiva a pressione

positiva (a), con maschera nasale

o oro-nasale (b, c). (Philips Respironics).

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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L’ossigenoterapia consiste nella somministrazione di O 2 in concentrazione maggiore di quella presente nell’aria am-biente (20,7%), allo scopo di trattare o prevenire i sintomi e le manifestazioni dell’ipossiemia arteriosa. Il trattamento con O 2 si applica in situazioni di acuzie, per il periodo necessario a superare l’evento acuto, e in condizioni croniche di malattia, quando esiste una grave ipossiemia stabilizzata. Tutti i pazienti con IR cronica, con grave ipossiemia ar-teriosa suscettibile di correzione possono essere trattati con ossigenoterapia a lungo termine (OTLT), anche se l’unica indicazione al trattamento basata su evidenze scientifi che è, allo stato attuale, quella per i soggetti affetti da IR cronica secondaria a BPCO. I soggetti affetti da BPCO spesso diventano ipossiemici e, pur riuscendo a tollerare una lieve ipossiemia , sviluppano i segni clinici del cor pulmonale come la comparsa di edemi periferici una volta che i valori di pressione parziale di ossigeno (PaO 2 ) scendono al di sotto dei 60 mmHg. In questo caso la prognosi diventa grave e, se lasciati senza terapia, questi pazienti hanno una probabilità di sopravvivenza inferiore al 50% a 5 anni ( Fig. 20.9 ). Questa fi gura mostra il risultato di due studi clinici dai quali si evince che l’ossigenoterapia a lungo termine e la du-rata della somministrazione aumentano la sopravvivenza di pazienti BPCO con insuffi cienza respiratoria ipossiemica. Nelle patologie diverse dalla BPCO complicate da IR, pur mancando evidenze scientifi che che dimostrino l’effi cacia della OTLT sulla sopravvivenza, si consiglia la somministra-zione di O 2 laddove si dimostri la reale effi cacia in termini di correzione della ipossiemia e di miglioramento clinico. Numerosi studi hanno dimostrato che la OTLT nei pazien-ti affetti da BPCO complicata da IR cronica è in grado di aumentare la sopravvivenza, migliorare lo stato di salute e ridurre i costi di gestione della malattia di base, tramite una riduzione del numero di ricoveri ospedalieri.

Questi risultati si ottengono solo se l’ossigenoterapia vie-ne: 1) prescritta in modo mirato a pazienti realmente bisognosi del trattamento continuativo dopo opportuni controlli e verifi che presso strutture specialistiche; 2) stret-tamente integrata da un trattamento medico e riabilita-tivo; 3) condotta in modo corretto e continuativo per un periodo di almeno 18 (possibilmente 24) ore giornaliere, a un fl usso di O 2 in L/min che corrisponda al minimo sufficiente per mantenere valori di PaO 2 compresi tra 60-70 mmHg senza pericolosi aumenti di PaCO 2 ; 4) con-trollata con un corretto follow-up del paziente. I pazienti candidati all’OTLT, anche quando presenti-no un’ipossiemia borderline, devono essere sottoposti a un’attenta osservazione clinica per un certo periodo di tempo (almeno tre mesi dopo un episodio di scompenso respiratorio) e a un complesso iter diagnostico al fi ne di stabilire la reale necessità del trattamento con relative modalità di esecuzione dello stesso. Durante il periodo di osservazione si dovrà procedere al monitoraggio dei valori di PaO 2 e PaCO 2 a riposo da ese-guirsi con cadenza mensile per un periodo di 2-3 mesi. Si dovrà inoltre effettuare un controllo clinico, radiologico, elettrocardiografi co, della condizione cardiocircolatoria (con eventuale determinazione delle pressioni del piccolo circolo), dell’ematocrito e della funzione respiratoria.

Criteri di ammissione

I criteri di ammissione includono: • ipossiemia continua con valori diurni a riposo

di PaO 2 stabilmente inferiori a 55 mmHg. Questo limite può essere aumentato a 59 mmHg qualora siano associati eritrocitosi secondaria e/o cuore polmonare cronico (edemi periferici e ipertensione arteriosa polmonare) e/o cardiopatia ischemica;

Ossigenoterapia domiciliare A. Potena , M. Moretti , A. Corrado

100

90

80

70

60

50

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30

20

10

010 20 30 40 50 60 70

24 ore

12 ore notte 15 ore

Controlli

Studio MRCLancet 1981

Studio NOTTAnn Int Med 1980

Sopr

avvi

venz

a (%

)

Mesi

⎫⎪⎪⎪⎬⎪⎪⎪⎭ ⎫

⎪⎬⎪⎭

Figura 20.9 Studi clinici sull’ossigenoterapia.

(Modifi cata da: Medical Research Council Working Party. Lancet 1981; 1:681. Nocturnal Oxygen Therapy Trial Group. Ann Intern Med 1980; 93:391.)

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 494

• ipossiemia intermittente in pazienti con valori di PaO 2 uguali o lievemente superiori a 60 mmHg, ma che presentano episodi di desaturazione sotto sforzo e/o durante il sonno. In questo caso l’appropriatezza prescrittiva è delegata alla valutazione specialistica.

Stabilita l’effettiva indicazione alla OTLT vengono saggia-te la tolleranza al trattamento e la dose ottimale che eviti i pericoli di: iperossigenazione con conseguente acidosi ipercapnica, tossicità (eccessiva produzione di radicali liberi) o insuffi ciente ossigenazione del sangue arterioso con conseguente inutilità del trattamento. La OTLT può essere indicata, quando compare ipossiemia stabile, oltre che nella BPCO anche nelle seguenti condi-zioni cliniche : • malattie interstiziali polmonari; • malattie vascolari polmonari (incluse le forme

autoimmunitarie e le collagenopatie); • asma cronico, grave; • fi brosi cistica ; • ipertensione arteriosa polmonare primitiva; • bronchiectasie; • scompenso cardiaco cronico; • tumori polmonari .

Si può defi nire appropriato anche un uso palliativo dell’os-sigenoterapia nel caso di neoplasie primitive o secondarie che interessino il polmone, quando viene impiegata per la correzione della dispnea causata dallo stadio terminale della malattia di base. È da considerarsi un’indicazione relativa all’OTLT e, per-tanto, da stabilirsi attraverso una valutazione specialistica pneumologica, l’ipossiemia legata a ipoventilazione not-turna, quale quella che si può osservare in corso di: • obesità; • apnea ostruttiva del sonno e in questo caso

è richiesta la correzione attraverso particolari ventilatori chiamati CPAP (Continuous Positive Airway Pressure);

• malattie neuromuscolari; • malattie della parete toracica o della colonna

vertebrale (per esempio, cifoscoliosi, spondilite anchilosante ecc.).

È stato dimostrato che, dopo 3 mesi di attento monito-raggio, il 30-45% dei pazienti cui era stata inizialmente prescritta l’ossigenoterapia non presentava più le indi-cazioni al trattamento, probabilmente perché gli effetti sul sistema cardiorespiratorio avevano determinato un miglioramento nel rapporto ventilazione-perfusione e una conseguente normalizzazione della pressione parziale di O 2 nel sangue arterioso, a riposo. L’OTLT non è indicata e, pertanto, non deve essere pre-scritta, nel caso di pazienti che abbiano un valore di PaO 2 > 60 mmHg. La somministrazione di ossigenoterapia a pazienti affetti da BPCO con ipossiemia lieve-moderata non ha alcun effetto favorevole sulla sopravvivenza. La somministrazione di O 2 si può attuare con tre possibili modalità, attraverso: • contenitori criogenici contenenti O 2 liquido del volume

di 30 L, per un equivalente di 26.190 L di O 2 gassoso.

A una pressione di 1,5 bar, infatti, 1 L di O 2 liquido equivale a 873 L di O 2 gassoso. L’impiego di contenitori criogenici consente di avere un volume che occupa poco spazio per contenere una data quantità di gas ed è il sistema preferito dai pazienti. Un limite può essere quello di una minore disponibilità territoriale e/o di un costo superiore rispetto alle altre modalità;

• bombole contenenti O 2 gassoso in forma compressa. Sono disponibili praticamente ovunque e a un basso costo. Il principale svantaggio è che le bombole sono pesanti e di limitata capacità. Per esempio, una bombola di 3000 L di O 2 gassoso ha una durata massima di erogazione di 25 ore a un fl usso di 2 L/min ( Tab. 20.5 );

• concentratori di ossigeno, che attraverso un motore convogliano aria dentro particolari fi ltri per rimuoverne l’azoto restituendo una miscela gassosa arricchita di O 2 . Sono poco costosi, ma discretamente rumorosi e fastidiosi per il paziente. Richiedono una normale erogazione di corrente elettrica, la cui interruzione potrebbe creare problemi, anche se si adattano facilmente a batterie 12 V.

Il sistema migliore e più pratico per l’inalazione di ossige-no è quello che collega il paziente al dispositivo erogatore attraverso occhialini dotati di cannule nasali. In alcuni pazienti, specialmente quelli che accusano secchezza delle mucose nasali o che non riescono a utilizzare le vie nasali per la respirazione, è necessario sostituire gli occhialini con maschere facciali. Per mantenere la PaO 2 ai livelli di 60-70 mmHg è suffi -ciente un fl usso di 1,5-2,5 L/min con occhialini nasali. L’ossigeno è un vero farmaco e non bisogna variarne il fl usso senza una valutazione del medico. Prima di dare il via alla OTLT è necessario assicurarsi che il paziente abbia smesso di fumare e sia al corrente dei perico-li rappresentati dalla vicinanza di fuoco vivo o di fi amme ai presidi di somministrazione di O 2 (bombole contenenti O 2 liquido o gassoso). Qualora il paziente continui a fumare, è più sicuro somministrare la OTLT con un concentratore. Quando un paziente voglia programmare un viaggio ae-reo deve considerare che l’ipossia presente a livello del mare può aggravarsi con l’altitudine a causa di una non adeguata pressurizzazione dell’aeromobile. Pertanto il paziente deve accertarsi presso la compagnia aerea che sia possibile avere in volo la somministrazione addizionale di O 2 . In caso di ipossiemia severa (PaO 2 < 50 mmHg) il viaggio aereo è controindicato.

Durata erogazione bombole

Flusso 400 L 1000 L 3000 L1 L/min 6 h 40 � 16 h 40 � 50 h2 L/min 3 h 20 � 8 h 20 � 25 h3 L/min 2 h 13 � 5 h 33 � 16 h 40 � 4 L/min 1 h 40 � 4 h 10 � 12 h 30 � 5 L/min 1 h 20 � 3 h 20 � 10 h

Tabella 20.5 Esempi di durata dell’erogazione attraverso bombole contenenti O 2 gassoso

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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Defi nizione

La riabilitazione rappresenta un intervento terapeutico non farmacologico fi nalizzato al recupero delle disabilità individuali, cioè quelle conseguenze legate a varie patolo-gie croniche o cronicizzate che condizionano più o meno pesantemente il livello di indipendenza dell’individuo. La riabilitazione respiratoria (RR) è perciò rivolta a quegli in-dividui che hanno sviluppato disabilità funzionali a causa di patologie croniche a carico dell’apparato respiratorio (per esempio, BPCO , fi brosi del polmone , malattie della gabbia toracica che alterano la funzione dei muscoli della respirazione). Il documento congiunto delle due principali società inter-nazionali di medicina respiratoria (ERS [European Respira-tory Society] e ATS [American Thoracic Society] defi nisce infatti la RR un “intervento terapeutico globale e multidi-sciplinare basato sull’evidenza, rivolto a pazienti affetti da malattie respiratorie croniche, sintomatici e spesso limitati nelle attività quotidiane”. Questa terapia si propone di mi-gliorare lo stato funzionale individuale legato alla malattia cronica riducendone le conseguenze cliniche disabilitanti (principalmente i sintomi e i defi cit funzionali sistemici) e stabilizzando l’evoluzione della malattia, anche con il potenziale obiettivo di ridurne i costi di gestione. Questo approccio terapeutico al paziente cronico respi-ratorio è quindi globale e include una componente fi si-cofunzionale mirata al ricondizionamento del malato, un’adeguata valutazione dello stato nutrizionale, della composizione corporea e dell’eventuale necessario sup-porto, un programma di sostegno psicosociale (ove ne-cessario) e un intervento educazionale con l’obiettivo di avvicinare il paziente alla malattia, alle sue cause, alla gestione ottimale delle conseguenze. Nonostante il con-tributo specifi co di ognuna di queste componenti del pro-gramma riabilitativo debba essere ancora defi nitivamente chiarito, esiste una chiara evidenza scientifi ca a conferma dell’effi cacia della RR nel migliorare, soprattutto in pa-zienti affetti da BPCO, la tolleranza fi sica all’esercizio con relativa dispnea e il livello di autonomia individuale. Ciò va a vantaggio della migliore valorizzazione della qualità di vita correlata alle funzioni residue del paziente.

Razionale fi siopatologico e indicazioni

Poiché la RR non ha come scopo il miglioramento della funzione polmonare residua (per lo più non modifi cabile),

né correggere le alterazioni anatomopatologiche irreversi-bili tipiche di molte patologie croniche respiratorie, il razio-nale e l’effi cacia del trattamento riabilitativo risiedono nei meccanismi fi siopatologici che limitano, a causa della pa-tologia respiratoria, le funzioni quotidiane (ridotta capacità fi sica e soprattutto dispnea) dell’individuo. La principale modalità di intervento si ispira perciò agli effetti che la ma-lattia ha determinato a livello sistemico, in particolar modo sulla muscolatura scheletrica. La disfunzione muscolare è caratterizzata da una riduzione quantitativa della massa ed è per lo più causata da molteplici fattori riconducibili alla ridotta attività fi sica (decondizionamento), alla miopatia indotta dall’uso cronico di farmaci (steroidi), alla fl ogosi sistemica che accompagna la malattia, fi no all’evoluzione cachettica dell’assetto nutrizionale. La RR può essere prescritta con notevoli vantaggi anche in pazienti affetti da asma bronchiale cronico, insuffi cienza respiratoria cronica, fi brosi cistica, malattie neuromu-scolari, bronchiectasie e malattie interstiziali. Inoltre, in pazienti da sottoporre a interventi di chirurgia toracica (soprattutto di resezione polmonare) e addominale, la RR trova un’idonea applicazione attraverso programmi pre- (preparativo) e postoperatori (migliorativo delle funzioni residue e dei postumi funzionali legati all’intervento).

Selezione dei pazienti e sede di intervento

Selezionare attentamente e preventivamente i pazienti a cui applicare un programma riabilitativo rappresenta un fattore fondamentale per il riconoscimento dei candidati ideali. La persistenza della sintomatologia che limita le attività quotidiane, nonostante il ricorso ottimizzato alla terapia farmacologica, dovrebbe essere sempre conside-rata l’elemento dirimente per consigliare un trattamento riabilitativo. Età, sesso, capacità respiratoria residua e abitudine tabagica non rappresentano invece elementi di controindicazione o di limitazione al successo terapeutico. Pertanto, escludendo a priori problematiche ortopediche e neurologiche maggiori che riducono/precludono la mobilità o impediscono la collaborazione ai programmi di allenamento fi sico, l’unica vera controindicazione a un trattamento riabilitativo è la mancanza di volontà a parte-ciparvi, anche defi nita “scarsa aderenza” (compliance). Poiché non esistono riferimenti univoci in ambito respira-torio per defi nire la soglia di disabilità utile per la corretta selezione dei candidati, si considera che un livello elevato di dispnea, come quello (≥ 2) espresso dalla scala anglosassone

Riabilitazione respiratoria E.M. Clini , E. Crisafulli, L.M. Fabbri

Effetti collaterali

Si possono osservare disturbi legati alla somministrazio-ne, ai dispositivi utilizzati e alla capacità dell’O 2 di irri-tare le mucose. In quest’ultimo caso possono comparire sintomi e alterazioni nasali (fi no al 25%) con croste che causano dolore e fastidio (10-13%) o epistassi (7-9%). Sono stati descritti anche disturbi dell’orecchio (8-9%). Altri possibili eventi avversi riguardano la tossicità dell’O 2 sul sistema respiratorio e la comparsa di tracheobronchite

acuta, atelettasie, displasia broncopolmonare e un danno parenchimale polmonare cronico. Questi aspetti non sono mai stati osservati nel paziente BPCO che inala O 2 a basse concentrazioni e a fl ussi di erogazione compresi tra 2 e 3 L/min, ma sono tipici delle elevate concentrazioni di O 2 . L’aumento graduale di concentrazioni di O 2 che vengono assunte può determinare un improvviso rilascio di bio-marker dell’infi ammazione e dello stress ossidativo in quantità tali da danneggiare i polmoni, soprattutto dei pazienti BPCO, perché coinvolti nei meccanismi patoge-netici della malattia.

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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 496

dell’MRC (Medical Research Council), possa essere un valido indicatore di possibile benefi cio, non strettamente dipen-dente dal livello della funzione polmonare, che nei pazienti con BPCO è defi nito in accordo alle linee-guida internazio-nali GOLD di riferimento per la malattia (II stadio). In base a problematiche economico-sanitarie e gestionali proprie di ogni stato o regione, i programmi di RR vengono attualmente erogati in regime in-patient (degenza ordinaria con ricovero in sede), out-patient (corrispondente al cosiddet-to day hospital, nel quale il paziente soggiorna in struttura solo per il trattamento) o domiciliare ; la durata ottimale di un programma varia conseguentemente in base alla sede, ma si basa sul concetto generale di garantire un numero di sedute giornaliere minime comprese fra 15 e 25.

Componenti del programma riabilitativo

L’intervento riabilitativo, definito attraverso le singo-le componenti del programma ( Tab. 20.6 ), dimostra la maggiore efficacia del risultato se specificamente “individualizzato”, cioè personalizzato attraverso una gestione globale e multidisciplinare che sia mirata alle esigenze caratteristiche e peculiari del paziente stesso. Vi è, a tal proposito, l’evidenza che un trattamento riabilitativo che prenda in considerazione le esigenze dei pazienti si è dimostrato utile nel ridurre il numero di riacutizzazioni all’anno della patologia (soprattutto nei BPCO) e i con-seguenti ricoveri ospedalieri.

Per quanto detto, l’allenamento specifi co e mirato dei mu-scoli periferici (soprattutto degli arti inferiori) trova una collocazione ideale per produrre gli effetti desiderati sulle prestazioni individuali, utile traduzione della migliorata o ritrovata abilità nel poter camminare più a lungo o con minore percezione di dispnea. L’ allenamento muscolare allo sforzo fi sico rappresenta la principale attività da garantire ai pazienti all’interno dei programmi riabilitativi; interessa sia la muscolatura degli arti inferiori (allenamento con cicloergo-metro o treadmill ) e degli arti superiori (allenamento con pesi o con armorgometro a manovella), sia i muscoli respiratori (utilizzo di tecniche o ausili specifi ci). Applicato in pazienti particolarmente sintomatici e disabili con una ridotta tolle-ranza fi sica ha lo scopo di migliorare la capacità aerobica con incremento della massa e della forza muscolare e riduzione della percezione della fatica. Il training della muscolatura periferica (modalità e caratteristiche di allenamento del mo-dello ospedaliero sono riprodotte nella fi gura 20.10 e nella tabella 20.7 ) rappresenta quindi l’unica modalità terapeutica per poter contrastare il cronico e graduale deperimento. Teoricamente la migliore capacità allenante sul muscolo si ottiene combinando un carico suffi cientemente elevato per un tempo di esercizio abbastanza lungo da garantire il sovraccarico e non l’affaticamento. Vige pertanto il princi-pio secondo il quale le fi bre muscolari, per essere allenate, dovrebbero essere sovraccaricate ( overload ) indipendente-mente dalla sede; è interessante però notare che, al fi ne del mantenimento muscolare, i periodi di inattività si associano alla perdita graduale di questi vantaggi ( de-training ). L’esercizio muscolare può essere effettuato secondo modali-tà di resistenza ( endurance ) o forza ( strength ); la prima è utile in numerose azioni quotidiane come camminare o compie-re mansioni, la seconda invece è essenziale per contrastare l’ipotrofi a muscolare dei pazienti respiratori cronici. Questo ultimo aspetto è particolarmente rilevante, se si considera che a oggi la valutazione della massa muscolare nel paziente con BPCO (in particolar modo del quadricipite) rappresenta uno dei principali fattori correlati alla sopravvivenza. Nella pratica clinica, la combinazione di entrambe le metodologie di allenamento è raccomandabile per favorire i maggiori benefi ci. È necessario che il carico allenante sia progressivo, iniziando dal 50% del carico massimale sostenibile all’in-gresso nel programma (valutato mediante opportuni test) per avanzare fi no almeno all’80% dello stesso. L’ aspetto educazionale strutturato in base alle necessità e ai bisogni dei singoli pazienti è utile sia per incoraggiare l’ aderenza al percorso riabilitativo sia per favorire una mi-gliore conoscenza delle alterazioni fi siche e psicologiche della propria malattia, elemento questo utile dal punto di vista dell’autogestione ( self-management ). Gli argomenti di insegnamento possono interessare nozioni strettamente anatomiche e fi siopatologiche ma anche (ancora più utili) nozioni riguardanti il risparmio energetico, l’uso dei far-maci e la capacità di autogestione; recenti evidenze hanno infatti rilevato che un programma educazionale inserito in un percorso riabilitativo, agendo sul riconoscimento precoce dei sintomi, permette una riduzione delle succes-sive ospedalizzazioni. Il supporto psicosociale è fondamentale per sostenere nei pa-zienti cronici il senso di depressione, ansia o inadeguatezza che nasce dall’incapacità di affrontare le normali problema-tiche quotidiane e/o dalla stretta dipendenza di familiari e che conduce spesso il paziente all’isolamento sociale.

Allenamento muscolare Arti inferioriArti superioriMuscoli respiratori

Componente educazionale e autogestione

Conoscenza generale della malattiaNozioni su trattamenti farmacologici, ossigenoterapia, tecniche inalatorieRiconoscimento e autogestione dei sintomi nelle riacutizzazioniTecniche di risparmio energetico durante le attività della vita quotidiana

Supporto psicosociale Strategie di gestione dell’ansia e della depressioneTecniche di rilassamento e controllo del panicoCessazione del fumo

Supporto nutrizionale Valutazione nutrizionaleConsigli e intervento nutrizionale

Altro Argomenti di interesse specifi co

Tabella 20.6 Componenti di intervento del programma riabilitativo respiratorio

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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La componente nutrizionale , da non tralasciare sia nella va-lutazione iniziale sia nella gestione terapeutica, soprattutto in pazienti muscolarmente deperiti, è parte integrante e arricchente del programma riabilitativo. La pdita di massa

magra o muscolare è piuttosto frequente in pazienti BPCO inveterati e ne predice negativamente la sopravvivenza. Ancora mancano, ciò nonostante, dati scientifi ci che sup-portino un uso generalizzato di integrazione nutrizionale.

a b

c d

Figura 20.10 Modalità di allenamento utilizzate in riabilitazione respiratoria.

Tipologia di allenamento

Intensità di esercizio Durata della sessione

Durata ideale del programma

Arti inferiori Resistenza 70-90% della FC o VO 2 massimale 20-45 min 3-5 volte/settimana per 8 settimane (minimo 15-18 sessioni)

Forza 50-80% del massimo carico sollevato

8-10 ripetizioni fi no a 3 serie

3-5 volte/settimana per 8 settimane (minimo 15-18 sessioni)

Arti superiori Resistenza 70-90% della FC o VO 2 massimale 20-45 min 3-5 volte/settimana per 8 settimane (minimo sessioni non noto)

Forza 50-80% del massimo carico sollevato con esercizi base-ADL

8-10 ripetizioni fi no a 3 serie

3-5 volte/settimana per 8 settimane (minimo sessioni non noto)

Muscoli respiratori Forza 30-60% della massima MIP o MEP 30 min 3-5 volte/settimana per almeno 6 settimane

FC = frequenza cardiaca; VO 2 = consumo di ossigeno; ADL = Activity of Daily Living; MIP, MEP = massima pressione inspiratoria ed espiratoria.

Tabella 20.7 Caratteristiche generali di allenamento nei vari distretti muscolari

C0100.indd 497C0100.indd 497 6/9/10 10:34:10 AM6/9/10 10:34:10 AM

Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO 498

Valutazione dei risultati

Proprio l’esigenza di dimostrare l’effi cacia del risultato della RR ha fatto sì che si sviluppassero nel corso degli anni misure quali-quantitative ( outcome ) strutturate da basi solide scientifi che, che esprimono ogni singolo aspet-to clinico del paziente, in particolare del danno funzio-nale della malattia ( impairment ), della disabilità conse-guente ( disability ) e dell’impatto sociale che ne deriva ( handicap / partecipation ). Queste misure, per essere effi caci e avere un largo impiego in campo clinico-riabilitativo, devono soddisfare requisiti di riproducibilità (produrre gli stessi risultati se sommini-strati in periodi differenti del programma o da personale diverso), di validità di rilevanza clinica (all’interno della categoria dei pazienti), di sensibilità (in grado di rilevare anche piccole variazioni quantitative) e infi ne di facilità di somministrazione ed economicità. Ponendo quindi (nella prospettiva riabilitativa) il paziente come elemento centrale e cardine del programma, le misure di outcome inerenti e rilevate su di esso risultano sempre essere quelle più idonee da dover ottenere. Le misure riguardanti il grado di impairment respiratorio (per esempio, quelle ottenibili attraverso emogasanalisi e/o spirometria) sono utili soprattutto per defi nire il grado di complessità del paziente e lo stadio funzionale, mentre le misure di disability e handicap sono fondamentali, spe-cie se rivalutate al termine del trattamento, per stabilire i cambiamenti dello stato funzionale. Particolarmente utile, a questo proposito, il rilievo della percezione del sintomo (dispnea o fatica muscolare), attraverso opportune scale di misura, e dello stato fi sico funzionale (mediante test da sforzo cardiopolmonare e/o test standardizzato del cammino). Le prove da sforzo, più in generale, sono state sempre maggiormente riconosciute come test idonei per la discriminazione diagnostica cardiopolmonare, o come determinanti di prognosi e risposta al trattamento farma-cologico in pazienti affetti da ipertensione polmonare, scompenso cardiaco cronico e BPCO.

Valutazioni dell’ handicap si ottengono invece attraverso misure che riguardano sia l’impatto della disabilità nelle attività quotidiane (per esempio, la misura dei sintomi cronici) sia quello della sfera psicologica (per esempio, la rilevazione della qualità di vita percepita con oppor-tuni questionari). Valutazioni riabilitative accessorie, da eseguire soprattutto nei pazienti molto defedati e con condizioni di magrezza eccessiva, sono quelle rivolte alle misure dello stato metabolico-nutrizionale (per esempio, l’indice di massa corporea, l’impedenziometria e la calo-rimetria corporea). A questi singoli indicatori di risultato, si sono aggiunti, negli anni più recenti, indici multiparametrici, di cui il più rappresentativo per quanto riguarda i pazienti con BPCO è il BODE (Body mass index, Obstruction, Dyspnoea, Exercise capacity), che considera contemporaneamente la misura antropometrica (indice di massa corporea), il grado di ostruzione bronchiale, la dispnea cronica e la tolleranza fi sica espressa come distanza percorsa al test del cammino. Questi indici, il BODE in particolare, sembrano in grado non solo di predire la prognosi a lungo termine dei pazienti, ma anche di dimostrare la loro sensibilità riguardo al miglioramento o al peggioramento successivi all’intervento riabilitativo.

Conclusioni

In pazienti affetti da patologie croniche respiratorie, esistono evidenze scientifi che secondo le quali mante-nere un elevato livello di attività fi sica quotidiana ri-duce notevolmente il rischio di ospedalizzazioni. La RR rappresenta, in pazienti idonei e selezionati, un valido intervento terapeutico effi cace nell’apportare benefi ci su sintomi percepiti, livello di abilità e qualità di vita individuale. Pertanto, è utile porre l’attenzione su questa disciplina che, nell’ottica della gestione cronica ( ad vitam ) del mala-to disabile respiratorio, garantisce un’adeguata opportuni-tà sanitaria con un buon rapporto costo-benefi cio.

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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA

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