INFORMAZIONE SCOZZESE · prima partitura destinata al cinema, scritta per il film Treno popolare di...

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INFORMAZIONE SCOZZESE RICORDARE INNOVARE TRASMETTERE ORGANIZZARE NUMERO 5 MAGGIO-AGOSTO 2012 Editoriale Antenati Luoghi dello spirito Lessico scozzese Per una società decente Crocevia Biblioteca ideale Archivi

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INFORMAZIONE SCOZZESERICORDARE INNOVARE TRASMETTERE ORGANIZZARE

NUMERO 5 MAGGIO-AGOSTO 2012

Editoriale Antenati

Luoghi dello spiritoLessico scozzese

Per una società decenteCrocevia

Biblioteca idealeArchivi

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2 EDITORIALE

EDITORIALE

Sembra che il cervello elabori in modo indipendente le informazioni che ri-ceve dalla zona centrale e da quella periferica del campo visivo. E sembra che queste competenze si escludano a vicenda: chi è bravo a focalizzare i dettagli centrali, sarà meno bravo a riconoscere aspetti e schemi delle più ampie regioni periferiche. Quando la realtà diventa complicata e di difficile lettura, come un disegno di Escher fatto di scale e di fontane, il concentrarsi su un unico elemento induce a credere l’immagine plausibile; mentre una visione più ampia della scena rivela che le scale non portano da nessuna parte e che l’acqua delle fontane scorre all’insù. Questa particolare abilità nella visione periferica, che rapidamente coglie una scena nel suo insieme ed esclude i dettagli centrali, è tipica dei dislessici e non rappresenta sempre una difficoltà d’apprendimento. Al contrario offre un vantaggio quando si deve dare un significato a un’enorme quantità di dati. Giova agli astrofisici e giova anche ai massoni quando essi aprono il compasso, tra i valori della trascendenza e il quotidiano: per mediare tra i “saperi” e le culture e riflettere sulle vie e sui mezzi dell’efficacia simbolica. In questo quinto numero di INFORMAZIONE SCOZZESE: sulla musica e la memoria, sull’ironia e il lessi-co, sulla stazione ferroviaria e i libri indispensabili. In verità, se gli animali comunicano bene nello spazio, l’uomo è il solo animale che trasmette nel tempo: attraverso la cultura e la scrittura per costruire, secondo i suoi biso-gni, un’intelligenza collettiva. E’ il trasmettere, non il comunicare, che fonda l’appartenenza e una tradizione. Profondamente inscritta nella specie, quest’attitudine pensa sul lungo termine e, grazie alla scrittura e alla circola-zione più ampia delle idee, sovverte la cultura orale degli antichi e destitui-sce il prestigio delle “chiese”. Ieri il “Libro” stampato da Gutenberg oscurava le cattedrali e resisteva al sospetto, avanzato nel Fedro da Platone, che la scrittura creasse delle illusioni al pari delle immagini: imitazione della paro-la, artefatto votato al silenzio e incapace di generare un senso. Oggi la dina-mica della tipografia elettronica smentisce le affermazioni dei teorici della

Le ragioni d’una sceltadel Fr. Giovanni Casa, 33° M.A. Gran Bibliotecario

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3 EDITORIALE

comunicazione come Mac Luhan che profetizzava la scomparsa dello scritto con la comparsa della televisione. Di fatto lo schermo elettronico reinventa e moltiplica i luoghi e le potenzialità d’espressione della scrittura: in una nuova modernità, interattiva e condivisa, che consente di pensare la circolarità del-la ragione. E’ chiaro che le vicende umane non sono soltanto frutto di verità e d’argomentazione; esse comportano una parte irrazionale di emozioni e di conflitti che la comunicazione consente di gestire senza violenza. Ma ciò non implica che si debba o si possa fare a meno dell’INFORMAZIONE. Buona lettura a tutti.

Escher,1953

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4 ANTENATI

Il CORAGGIO DI ESSERE NINO ROTA : Il progresso fedele alla tradizione del Fr. Andrea Macinanti, 4°

Giovanni Rota Rinaldi, detto Nino, nacque a Milano il 3 dicembre 1911 da una famiglia di ottima levatura musicale: il nonno, Giovanni Rinaldi, era infatti compositore e piani-sta come pure lo fu la mamma, Ernestina Rinaldi. “Io posso dire di essere stato fortu-nato” - dichiarava in una bella intervista nel corso della quale, per stemperare l’imba-razzo, non cessava di suonare il pianoforte - “ poichè sono un musicista, sono soltanto un musicista e sono nato in una famiglia dove mi sono trovato in un ambiente musica-le”. A ragione considerato un enfant prodige, Nino iniziò a comporre all’età di otto anni giungendo a scrivere, solo tre anni dopo, L’infanzia di San Giovanni Battista, Oratorio in due parti, un preludio e un intermezzo per canto e grande orchestra, eseguito con successo a Milano e Tourcoing (Francia) nel 1923. Nello stesso anno fu ammesso al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano per studiare armonia e composizione con Giulio Bas, Paolo Delachi e Giacomo Orefice. Tre anni più tardi si trasferì a Roma dove nel 1930, sotto la guida di Alfredo Casella si diplomò in composizione al Liceo Musica-le di «Santa Cecilia» vincendo una borsa di studio per recarsi negli Stati Uniti. Qui, incorraggiato da Arturo Toscanini, che ne aveva compreso la genialità, il giovane mu-sicista potè studiare composizione con Rosario Scalers e direzione d’orchestra con Fritz Reiner al «Curtis Institute» di Philadelphia. Nel corso del soggiorno statunitense (1931-32), Rota strinse amicizia con Aaron Copland, fu affascinato dalla musica di Igor’ Stravinskij, di George Gershwin, dal repertorio musicale popolare americano, dal Jazz, dal Musical e dal cinema, maturando il suo personalissimo linguaggio ove que-ste esperienze estetiche si mescolarono con l’istintiva inclinazione per l’italica cantabi-lità dell’opera lirica, dell’operetta e della canzone. Tornato in Italia, Rota si laureò in Lettere all’Università degli studi di Milano con una tesi su GioseffoI Zarlino, teorico, trattatista e compositore italiano del XVI secolo. Lo studio dell’antica musica italiana ebbe importanti esiti nella sua arte, come li aveva avuti in quella dei musicisti della cosiddetta Generazione dell’80 (ad esempio Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti e

ANTENATI Riabilitare la memoria contro l’amnesia e contro ogni tentazione narcisistica di ripensare un passato di cui ci si sente eredi. Rinnovare criticamente.

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Gian Francesco Malipero). Negli ultimi decenni dell’800 infatti, la riscoperta della mu-sica composta in Italia dal XVI al XVIII secolo fu ampiamente sviluppata come parte integrante del processo di unificazione del Paese (e del conseguente affermarsi del concetto di italianità, condividendone anche gli esiti più nefasti), orientamento ancor più esaltato dal regime fascista come elemento di propaganda. Si pensi ad esempio all’importanza di una collana come i «Classici della Musica Italiana» diretta da Gabrie-le d’Annunzio - iniziata nel 1919 stampando in due anni ben 36 fascicoli - che divenne un perno della cultura italiana, influenzando editori e musicisti. La conoscenza di Rota del patrimonio musicale classico italiano appare in filigrana in opere come Balli (1932), la Sonata per viola e pianoforte (1934-5), il Quintetto (1935), la Sonata per violino e pianoforte (1936-37) e le due prime Sinfonie, scritte tra il 1935 e il 1941. Nel 1937, a 26 anni, il Maestro ottenne la docenza di teoria e solfeggio al Liceo Musicale di Taran-to e due anni più tardi quella di armonia e composizione al Conservatorio «Niccolò Piccinni» di Bari del quale sarà anche Direttore dal 1950 al 1977. Del 1933 è la sua prima partitura destinata al cinema, scritta per il film Treno popolare di Raffaello Mata-razzo, registra col quale collaborò anche negli anni 1942-43. La febbrile creatività ci�nematografica di Rota (giunse a comporre sino a dodici partiture in un anno!) annove-ra più di 150 opere; nel 1942 iniziò la collaborazione con la Lux Film che lo portò a creare nell’arco di dieci anni una sessantina di colonne sonore per film diretti da registi come Renato Castellani (Mio figlio professore, Sotto il sole di Roma), Mario Soldati (Le miserie del signor Travet), Alberto Lattuada (Senza pietà, Anna) e Eduardo De Filippo (Napoli milionaria, Filumena Marturano). Al 1952 risale l’inizio dello straordinario soda-lizio con Federico Fellini che diede vita a sedici immortali capolavori a cominciare da Lo sceicco bianco per continuare con I vitelloni, La strada, La dolce vita, 8½, Amar�cord, Il Casanova di Federico Fellini... sino alla scomparsa del musicista avvenuta il 10 aprile del 1979, proprio al termine della registrazione della colonna sonora di Prova d’orchestra. La collaborazione tra i due artisti - alla cui quota si può collocare quella fra Sergej Ėjzenstejn e Sergej Prokof’ev- si caratterizzò per una costante interazione: fu-rono infatti spesso le partiture del musicista ad ispirare situazioni e testi del regista, che a sua volta suggerì a Rota un caleidoscopico immaginario sovente genialmente tratteggiato con citazioni di marcette da circo o parodie, come ad esempio l’Einzug der Gladiatoren di Julius Fucik e il Moritat von Mackie Messer di Kurt Weill che risuonano ne La dolce vita. Anche il repertorio colto fu ampiamente rivisitato da Rota per il cinema (come per il tema di Gelsomina ne La strada, ispirato al Larghetto della Serenata op. 22 di Antonin Dvorak). Egli attinse anche alla sua stessa musica seria trasformandola in magnifiche colonne sonore (come ad esempio la giovanile Sinfonia utilizzata ne Il Gattopardo o una frase di un suo Concerto per pianoforte e orchestra elaborata come colonna sonora di 8½). Fra i più significativi riconoscimenti della sua arte cinematogra�fica, furono il Golden Globe vinto nel 1973 per la musica de Il Padrino di Francis Ford Coppola (1972) e l’Oscar per Il Padrino - Parte II del medesimo regista, assegnatogli nel 1975. Altrettanto ampio - e purtoppo quasi sconosciuto - è il catalogo della musica classica di Rota che spazia dalla musica per il teatro (Ariodante, 1942; I due timidi, 1950; La notte di un nevrastenico, 1959; Il cappello di paglia di Firenze, 1955; Aladino e la lampada magica, 1968; La visita meravigliosa, 1970), alla musica strumentale, nella quale si distinguono tre Concerti per pianoforte e orchestra, la Sinfonia sopra una canzone d’amore (1947), le Variazioni sopra un tema gioviale (1953), la Terza Sinfonia (1956-7) e ancora Concerti per vari strumenti solisti e orchestra. Per il pianoforte scris-se tra l’altro 15 Preludi e Due Valzer sul nome di Bach (1975; rielaborati poi ne Il Ca�

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sanova di Federico Fellini). La musica cameristica annovera la Sonata per violino (1936-37), il Quartetto per archi (1948-54), due Trii (1958 e 1973) e un Nonetto (1959-77), mentre quella vocale comprende tra i molti lavori, oltre al giovanile Oratorio citato più sopra, il Mysterium (1962), la Rappresentazione sacra, La vita di Maria (1968-70) e numerose liriche per voce e pianoforte. Per organo compose un’ampia Sonata e una Sonata per organo, 2 trombe e 2 tromboni.Nel linguaggio musicale di Rota confluisco-no infinite suggestioni scaturite da idiomi diversi e talvolta apparentemente inconcilia-bili in cui si mescolano luci e colori inediti per la musica italiana del tempo. Nelle sue Sinfonie ad esempio, risuonano echi dell’Europa dell’Est (con riferimenti a Pyotr IlyichL Tchaikovsky, Antonin Dvorak, Sergej Prokof’ev) mai uditi prima nel nostro Paese se non forse in talune, geniali pagine di Ottorino Respighi, la cui formazione era maturata a San Pietroburgo alla scuola di NikolaiI Rimskij-Korsakov. Nella musica di Rota scor-re una verve colma di un lirismo appassionato sostenuto con audacia da armonie preziose e inebrianti soluzioni ritmiche che conferiscono l’idea di qualcosa di rassicu-rantemente riconoscibile ma al contempo assolutamente nuovo. Commentando la So�nata per flauto e arpa del 1937, il direttore d’orchestra Giandrea Gavezzeni scrisse che vi udiva la voce di un Ravel italiano, arcaico, intimo, la voce di qualcuno che aveva inventato uno stile prima inesistente.Componendo con un linguaggio moderno ma mai cerebrale, Rota esigeva che la sua musica arrivasse all’ascoltatore con assoluta chia-rezza. L’apparente semplicità che vi si respira, è in realtà il frutto della più matura con-sapevolezza espressiva; egli stesso affermava che se il pubblico non capisce vuol dire che il problema compositivo non è risolto. A questa linea restò fedele anche quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale - con l’affermarsi nella musica colta del linguaggio derivato dalla Scuola di Vienna (Arnold Schonberg, Alban Berg, Anton Webern) carat-terizzato dal disgregarsi dell’ormai antiquato ordine dei suoni, della struttura tonale e della forma - la sua musica parve divenire anacronistica. Egli tuttavia perseverò nell’a-limentare un cosmo musicale personalissimo e privo di gerarchie, dove i brani di mag-gior spessore e quelli più semplici potevano convivere fianco a fianco sull’onda della medesima concezione estetica, della medesima energia creatrice. Rota fu in grado di scrivere con lo stesso impegno e naturalezza musica di ampio respiro per le sale da concerto o per il teatro come pure motivetti di sconcertante semplicità (ma efficacissi-mi!) come ad esempio il Viva la pappa col pomodoro per lo sceneggiato televisivo Il giornalino di Gian Burrasca diretto da Lina Wertmuller (1964). E’ difficile collocare Rota in una specifica posizione nella musica del ‘900: persino ai critici più benevoli la sua musica seria parve troppo leggera e quella per il cinema troppo...seria. Incurante di ogni esteriorità e dotato di una prodigiosa capacità di creare, egli continuò ad incrocia-re le strade dell’ispirazione con continui riferimenti derivati dai suoi multiformi percorsi idiomatici. Nella sua musica si respira anche la ricerca di qualcosa di arcaico, di per-duto, come se vi vibrasse un sorriso ironico e melanconico: Rota non è mai solare - affermava in un’intervista Riccardo Muti, alunno di Rota al Conservatorio di Bari - qua�si vi fosse nella sua musica della nebbia attorno al sole che gli viene dall’essere un uomo del Nord. Tuttavia, l’ascolto delle sue pagine trasporta immediatamente in un universo d’immaginazione, di colori, di figure talvolta grottesche ma mai feroci, mai minacciose:”in un mondo così angosciato da tanti dolori “- diceva il Maestro - “spero di poter donare agli altri qualche momento di serenità”. È arduo dire di quale consapevo-lezza si abbia oggi della sua opera nella cultura italiana, sempre più minata anche da uno sconcertante analfabetismo musicale e da un desolante deserto di studi sulla mu-sica italiana del ‘900: certo è che la sua musica seria è quasi mai eseguita nelle sedi

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concertistiche, che di fatto inesistente è la bibliografia a lui dedicata e che gli unici due documentari sulla sua figura di artista sono stati realizzati in Germania. Quello che ci è presente di lui, è soprattutto (e ingiustamente) quanto consegnano alla nostra fanta-sia le immagini dei capolavori cinematografici che egli seppe magistralmente render più vivide coi tratti della sua musica. Ma c’è un’altro aspetto più reservato della sua arte che non deve sfuggire: egli fu contemporaneo a tutti gli effetti, filtrando con sapien-te consapevolezza le esperienze del passato e del suo presente, restando sempre originale, unico, personalissimo e attualissimo. Pur essendo solidamente ancorato alla tradizione, ebbe il dono di percorrere il tempo con fedeltà al suo personale mondo mu-sicale e alla sua etica artistica. Potremmo concludere con le parole di Muti che giusta-mente afferma che Rota ha avuto il coraggio di essere Rota.

Federico Fellini, 1979

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8 I LUOGHI DELLO SPIRITO

I LUOGHI DELLO SPIRITO Luoghi straordinari in terre consa�crate dalla storia. Invenzioni miracolose che cercano radici nella presenza del passato e nutrono memorie nell’immagine e in culti millenari. Appare vitale, nell’indefinitezza degli spazi fisici, l’esistenza di “spazi differenti” per scoprire l’altro che è in sé.

VIVERE E FORMARSI NELL’IRONIA del Fr. Stefano Romiti, 31°

“Il senso delle parole” scrive Sàndor Màrai, “non è solo quello che significano in se stesse, bensì lo spazio sul quale gettano la luce”. Tra i cammini scoscesi della coscienza, è l’ironia un sentiero stretto e tortuoso, difficile da percorrere. Occorrono prudenza ed equilibrio tra istinto e intelligenza. Facile è scivolare lungo le chine del distacco e della superiorità; e piombare nelle nebbie dell’irrazionale ignoranza, ove facilmente la mente può rinchiudersi nella trappola dell’autoreferenzialità. L’ironia ha dunque bisogno della saggezza: di una comprensione di sé e del mondo; e di una comprensione di se stessi nel mondo. Figura retorica e guizzo di un’intelligenza allusiva, pronta a prendere le distanze dal tema-problema della verità e a scompaginare l’ordine presunto, l’ironia si produce innanzitutto nel dialogo e comunemente consiste nella dissimulazione del proprio pensiero (dal greco eironeuomai): affermando il suo contrario o parzialmente nascondendolo, ma in modo tale da lasciare trasparire l’intenzione originale. E tuttavia dire cos’è l’ironia non è facile, perché essa è polisemica: attraversando l’intera storia della filosofia (socratica, illuminista, romantica, esistenziale), si sposta continuamente in direzioni non previste (auto-ironia, etero-ironia), per raggiungere i campi limitrofi dell’umorismo, del sarcasmo e di altri ancora, dai confini labili e sfumati. Pertanto l’ironia è sempre amministrata da una presa di posizione di tipo filosofico: più punto d’arrivo che punto di partenza, esige un’interpretazione dell’uomo, della vita, del mondo, dell’esperienza. Quando l’ironia diventa amara, trapassa nel sarcasmo. Mentre altra cosa è l’umorismo (dal latino humor, -oris: fluido come il sangue, la linfa

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9 I LUOGHI DELLO SPIRITO

o la bile, quale sostanza primaria delle cose): forma di sentimento comico distaccato che, di fronte a un universo ostile o incomprensibile, grazie all’intelligenza permette di vincere le emozioni con il riso o col sorriso. Se il sarcasmo vuole colpire con violenza e l’umorismo ha lo scopo di fare ridere o sorridere, l’ironia sa rifiutare quanto è già codificato e sa rovesciare quanto è consueto: capace di mutare la società attraverso un pensiero divergente. Con la consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana e della contingenza dei “vocabolari” utilizzati, come cifra del dubbio, l’ironia conduce l’uomo a porsi verso la verità senza aver certezza di possederla e ad aprirsi all’ascolto e al riconoscimento dell’altro. L’approccio ironico alla realtà muove da un profondo coinvolgimento stemperato da un modo espressivo che, per l’incongruenza disvelata, muove al riso; e può segnare, come magistralmente ha scritto il Sovrano Gran Commendatore, il passaggio “… dalla tolleranza alla solidarietà”, per un felice accordo tra individui in una riflessione equilibrata. Il legame dell’atteggiamento ironico con la via iniziatica è dunque stretto e non casuale e trova all’interno dei Templi Massonici una delle sue più alte espressioni, con un capovolgimento simbolico inaspettato, nel rituale di passaggio al XXX Grado del Rito Scozzese. Il rovesciamento discorsivo operato dall’ironia si lega pure alla peripezia della tragedia greca ove, secondo Aristotele, attraverso il rovesciamento di prospettiva si giunge a una maggiore consapevolezza. Nella rappresentazione dell’Edipo Re lo spettatore conosce il mito, è indirizzato dal coro e legge gli eventi in un orizzonte che il protagonista non può cogliere dal suo angolo visuale. Il capovolgimento è compiuto (peripezia) solo quando Edipo diventa consapevole di ciò che gli è accaduto e s’infligge con le proprie mani una tremenda punizione: la cecità e l’esilio. Così nell’undicesimo libro della Poetica Aristotele elogia il fatto che nella vicenda sofoclea il momento della peripezia coincida con quello dell’agnizione, che svela le identità nascoste dei protagonisti. Si tratta del momento in cui le interpretazioni degli eventi da parte degli spettatori e del protagonista coincidono di colpo. Se l’esercizio dell’ironia dipende dal tipo di relazione che il soggetto stabilisce con la verità e richiede che si prendano le distanze sia sul piano intellettuale sia sul piano emozionale, in altri termini una sospensione, ogni atteggiamento ironico nasce dalla capacità di accettare il capovolgimento del proprio punto di vista per accedere a una consapevolezza più ampia. La possibilità che questo cambiamento di prospettiva si renda concreto dipende dalla portata dell’atto ironico e dall’umano su cui incide; e l’esito non è mai garantito a priori. Non di certezze è fatta l’esperienza umana. La verità è una produzione linguistica esito di conversazioni edificanti: impegnate a negoziare i criteri di attendibilità dei discorsi resi possibili dai vocabolari. In Socrate l’ironia come modalità della conversazione fonde la tecnica del dialogo didattico con una precisa posizione filosofica. La verità, per Socrate, non si rivela, ma va ricercata con impegno e studio; e l’ironia nei confronti degli altri e di se stesso non garantisce l’accesso alla verità ma è una via che allontana dalle false piste e purifica l’intelligenza. L’ironia è un’arte per demolire le false certezze, le verità ingenue e i pregiudizi dei suoi interlocutori. Fortemente critico nei confronti dell’ironia socratica è Kierkegaard che ritiene possibile l’accesso alla verità attraverso la fede e toglie all’ironia qualsiasi significato positivo: “È vero che per suo tramite la soggettività si fa libera; e però si tratta di una libertà fine a se stessa, affatto vuota”. “Tutto per l’ironia diventa nulla”. E tuttavia l’ironia non è solo un dispositivo cognitivo. E’ anche forma di esistenza, stile di vita. Così il Pierre di “Guerra e Pace” riemerso dalla peripezia della guerra, perplesso davanti al mondo e portatore di un nuovo e più elevato stato di coscienza, assume istintivamente un atteggiamento ironico che lo pone in uno “stato di grazia” funzionale

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10 I LUOGHI DELLO SPIRITO

a vivere, in una costante ricerca, il tempo della deriva del senso. L’ascolto dell’altro non è più quello di prima, superficiale, considerato solo in funzione del rapporto con sé, ma si espande verso una comprensione pura e totale, tendenzialmente libera (…dalla tolleranza alla solidarietà…). Pierre ha raggiunto dopo la peripezia e attraverso lo strumento della ” mite e gioiosa ironia” la consapevolezza e la responsabilità di vivere e di lavorare non unicamente per il proprio bene personale, ma anche e soprattutto per il bene comune (…..per il bene e il progresso dell’umanità….). In tal modo l’ironia apre alla virtù pratica della saggezza sempre in ogni evento.

Roberto Giusti, 2010

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11 LESSICO SCOZZESE

LESSICO SCOZZESE: LA SCELTA DELLE PARO-LE E LE SUE SFIDE Affinché le nostre parole acquistino un valore garantito contro l’inflazione banalizzante, le contraffazioni e le insensatezze del senso comune. Per nominare, nella quotidiana Ba�bele, un presente frantumato, estraneo eppure invadente. Un diziona�rio, sia pure incompiuto, di libertà e mutamento.

AMBIVALENZAdel Fr. Marco Veglia, 9°

Non è improprio sostenere che la cifra distintiva della modernità razionalistica, la sua fisiologica conformazione, esige ordine, progresso, efficienza, salute, ricchezza. Essa pianifica e costruisce, sradicando ogni indomabile vegetazione selvaggia, la città-giar-dino. Non sono poche infatti le città ideali che l’aurora della modernità ha concepito, da Moro a Campanella sino a Francesco Bacone, in un crescendo che giunge alla propria parodia o alla denuncia dell’orrore racchiuso, quasi come suo fonte, nell’ossessivo desiderio di ordine, come accade in Orwell. Progetto, gestione, manipolazione, defini-zione, organizzazione, insomma controllo, sono state e sono tuttora le forme in cui, nel vivo stesso della postmodernità attuale, continua a vivere e a imperare la macchina stessa della modernità: se non possiamo farne a meno, resta nondimeno da capire se la vita quotidiana non offra, a quell’impero, un qualche anticorpo. L’ambivalenza, tanto nemica dell’ambiguità quanto sospettosa della tirannide concettuale della trasparen-za, convive con la modernità e ne richiama il limite oggettivo. Essa, più che definirsi, si esprime: piuttosto che argomentarsi, si testimonia. Uno sguardo ambivalente non

Potremmo tentare di trasformare la nostra contingenza nel nostro destinoAgnes Heller

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12 LESSICO SCOZZESE

dimentica che una parola, un fatto, un segno, contengono due possibili significati, tal-volta polarizzati in una opposizione funzionale, talvolta semplicemente compresenti. Se la modernità è insomma la strada della ragione e dell’astrazione, tanto per ripren-dere le categorie di Wilhelm Worringer, l’ambivalenza è la via multiforme dell’empatia. Se la prima edifica sulle rovine della natura, la seconda è sommamente inclusiva e naturale. Laddove, inoltre, la prima si pasce dell’ordinata e geometrica intelligenza del reale (ma, s’intende, del reale ricondotto ai suoi esclusivi elementi razionalistici), la seconda vive la contingenza come un dato, forse come un dono, sempre – comunque sia – come una prospettiva. L’ambivalenza non denomina, non cerca la corrisponden-za algebrica fra segno e cosa, ma si compiace del vortice polisemico della lingua e della realtà. Gli aspetti cognitivi legati alle arti, alla stessa libertà della cultura, rientrano perciò nei territori dell’ambivalenza. Quanto più si coltivano quei linguaggi, tanto più si fortifica la riserva euristica, e aggiungiamo pure salvifica, dell’ambivalenza. La quale, di per sé, è nutrita di elementi antinomici, che non pretende affatto di risolvere. Nella postmodernità, in altre parole, la tensione verso l’universale si traduce nella condivi-sione e nella celebrazione del pluralismo; la ricerca di un fondamento assoluto della verità si trasforma nel riconoscimento del relativismo della conoscenza, ovvero nella sua contingenza; l’agognata chiarezza semiotica cede all’insopprimibile ambiguità del mondo; la ricerca delle radici e dell’appartenenza lascia spazio a un più vasto senso di globale solidarietà. Se, nella modernità, ogni cosa e persona deve avere un proprio luogo e una propria funzione (onde l’avversione tipicamente moderna verso ogni for-ma di nomadismo e anomalia: si pensi al problema, che qui possiamo solo accennare, della follia), la postmodernità, mentre rigetta il fato e assume consapevolmente la sfida della propria contingenza (la contingenza come destino), si riconosce nel nomadi-smo intellettuale, accetta lo Stato-nazione come un punto di partenza, ma si apre nel contempo a un rinnovato cosmopolitismo, più adatto a de-costruire le forme plurime del mondo globale. Un corollario di quanto s’è detto ci interessa forse da vicino. La Massoneria moderna nasce cosmopolita, con una natura universalistica determinata da una costante ispirazione sovranazionale. Eppure, la sua disponibilità all’ibridazione culturale (sancita dalla polivalenza simbolica dei suoi templi e dal pluralismo culturale e religioso dei suoi landmarks), mentre si fonde col progetto stesso della modernità, della quale rappresenta anzi una delle forme storicamente più avanzate, viene edi-ficata, questo è il punctum saliens, con permanenze (diciamo pure con “pietre”) di carattere eminentemente premoderno: la stessa ritualità, come vettore di modernità e come strumento possibile della sua attuazione, ne garantisce la singolarità. Co-struire la modernità con i materiali dell’ambivalenza: questa fu ed è la scommessa ontologica, l’avventura conoscitiva e perfino politica della Massoneria “scozzese”. Di questo si compiacciono i Cavalieri Erranti. I 33 linguaggi del RSAA garantiscono la volontà programmatica di non risolvere le antinomie dell’esperienza. Di certo, si può osservare che l’architettura iniziatica appare più alta a misura che il linguaggio rituale si libera dal condizionamento metaforico del linguaggio muratorio e si assesta su una ricca, crescente polisemia che garantisce a sua volta la costruzione – rigorosamente ambivalente – del Cavaliere. Se la vis viva degli scienziati, secondo la meccanica del XVIII secolo, ci ricorda che “la discesa effettiva è almeno pari all’ascesa potenziale”, dal nostro punto di vista, quando si adotti quella legge come una metafora, potremmo dire che l’ascesa effettiva del Cavaliere è almeno proporzionale alla discesa potenzia-le in cui egli cadrebbe rinunciando ai doni quotidiani dell’ambivalenza rituale, alla loro traduzione pluralistica nei percorsi diagonali dell’esistenza umana. Se non altro, tutto

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13 LESSICO SCOZZESE

questo parrebbe risuonare nelle parole, che piace ricordare, di Zygmunt Bauman:L’ambivalenza non deve essere deplorata. Deve essere celebrata. L’ambivalenza è il limite del potere dei potenti. Per la stessa ragione, è la libertà degli impotenti. È grazie all’ambivalenza, alla ricchezza polisemica della realtà umana, al coesistere di molti codici semiotici e sistemi interpretativi, che la “conoscenza associativa dell’interprete è investita di poteri straordinariamente ampi, incluso persino il privilegio ermeneutico di permettere alle domande di essere parte delle risposte”.

Tiziano, 1565

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14 PER UNA SOCIETÀ DECENTE

PER UNA SOCIETÀ DECENTE “Il problema non è di realiz�zare la società giusta, ma piuttosto la società decente”. “Decente è la società le cui istituzioni non umiliano le persone”. (A. Margalit)

del Fr. Giovanni Casa, 33° M. A. Gran Bibliotecario

“Cosa si ricorda? Come si ricorda? Chi si ricorda?”. La fenomenologia della me-moria, che costituisce uno dei punti focali della riflessione scozzese, si configura e si svolge lungo l’asse segnato da queste tre domande: una diagonale che attraver-sa cultura, tecnica, individuo e gruppo. Mettendo insieme frammenti di passato, in modo fallibile, e attraverso fenomeni di rifrazione, la memoria consente di pensare il presente e l’avvenire lungo circuiti, esposti alle emozioni, di un’organizzazione anatomica complessa. Se interroghiamo le neuroscienze, apprendiamo che ogni ricordo è costituito da numerosi elementi sensoriali: emozionali, spaziali e tempo-rali. Benché registrate simultaneamente, queste tracce sono disperse in differenti regioni del cervello e il loro recupero non può essere né istantaneo né preciso. La qualità della ricostruzione è determinata dalle componenti iniziali del ricordo e dal-la personalità, più o meno coerente, di un soggetto fatto di affetti, credenze e desi-deri. Per le neuroscienze, dunque, non esiste una memoria unica, ma una moltitu-dine di memorie organizzate in sottosistemi autonomi e interconnessi: la memoria percettiva dei sensi e dell’immagine, la memoria procedurale dei gesti specializza-

L’UOMO CAPACE: Appunti per un buon uso della memoria

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ti, la memoria dichiarativa per mezzo del linguaggio e la memoria episodica della nostra vita che s’interseca con la memoria semantica dei saperi collettivi condivisi. Perché è proprio e specifico dell’homo sapiens estrinsecare con la teknè non solo il corpo ma anche la facoltà di ricordare. Il buono della protesi, che rende umano l’uomo, aggiunge alla memoria genetica e nervosa della specie un supplemento: trasmette un sapere e un saper fare, rende possibile l’eredità e apre alla cultura. Anche questa memoria esterna ha caratteristiche proprie: è suscettibile d’interpre-tazione e d’appropriazione; necessita di un linguaggio specializzato, di un suppor-to fisico d’iscrizione e stoccaggio, di un dispositivo di diffusione. E se col suo pro-cesso di simbolizzazione (il Mito, il Logos, l’Imago) assicura la condivisione e la durata di una cultura, ne condiziona pure la disposizione (la Teologia, l’Ideologia, le Icone) a seconda del vettore utilizzato (il Megalite, la Scrittura, l’Audiovisivo). Accade così che ogni nuovo supporto eclissa o declassa e ristruttura il vecchio, con un rovesciamento delle corporazioni e un’inversione delle gerarchie. Ad esem-pio, la stampa della Bibbia, con l’alfabeto tipografico, ridimensiona le gerarchie ecclesiali. La tecnologia analogica audiovisiva ristruttura la memoria letterale dei libri e della stampa. La riattualizzazione del passato, un passato comune che fon-da un noi attraverso vettori attuali, non è dunque solo frutto di un’eredità, ma anche d’invenzioni e di amnesie. Così pure, nell’attesa che il fotone scalzi l’elettrone, la tecnologia digitale eclissa la memoria analogica ridisegnando contorni e logiche d’uso dello spazio pubblico della memoria, in una ubiquità che consente di essere ovunque e in nessun luogo. Il passaggio da una televisione generalista (homo vi-dens) a una tematica, interattiva e fornitrice di servizi (homo consumens), favori-sce di fatto la “babelizzazione” dello spazio sociale in un nuovo individualismo effimero e consumista: un ego globalizzato e in mano un telecomando che assicu-ri il nomadismo sedentario. Dentro il perimetro di un circolo e dentro i confini di una città, uno Stato, una Nazione, nel migliore dei casi, il noi si costituiva intorno a un distintivo, una piazza, un monumento, una bandiera; e, nel peggiore, intorno all’i-deologia nazionalista di regimi totalitari. Per contro la deriva verso un mondo di consumatori, celebrante i record del lusso al tempo della crisi, tende a convertire le nostre strutture cognitive all’effimero, indebolisce i legami d’appartenenza e di solidarietà delle comunioni umane e accentua “la solitudine del cittadino globale”. La memoria collettiva ha pertanto un costo e deriva da una politica. Perché memo-rizzare e rievocare significa selezionare, scegliere e anche dimenticare. Marco Ve-glia scrive che “Dante per accedere al Paradiso, al dispiegamento progressivo del-la Luce in trentatré stazioni, deve ricordare e dimenticare, dimenticare e ricordare”. Non a caso la saggezza del mito racconta di due sorgenti presso l’entrata agli In-feri: Mnemosine fonte di memoria e Lethe fonte d’oblio. Il trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso e il difetto di memoria, per sfuggire all’inferno sulla terra, ridiventa il tema centrale di chi aspira a una società decente. La sfida, eminentemente civica, passa attraverso la ricerca dell’identità e l’elaborazione del lutto e porta dall’uomo fallibile, del dubbio, all’uomo capace. Con la consapevolezza che la memoria è un sofferto ripasso delle nostre emozioni, selezione della conoscenza, verifica critica della realtà sempre ingannevole e complessa, l’uomo capace riflette sugli usi e

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Diego Velazquez, 1656

sugli abusi dei ricordi e mette d’accordo le memorie con il progresso dell’intelligen-za. L’uomo capace affronta il malinteso radicale che oppone la memoria individua-le a quella collettiva, il dovere dell’oblio a quello di memoria, l’amore di pace al principio di giustizia. E trova che, nel miracolo imperfetto del riconoscere, il ricono-scimento dell’altro e la riconoscenza sono gli atti mnemonici per eccellenza. Egli pensa che, a differenza della storia, la memoria si trasmette e non s’insegna.

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CROCEVIA Arte, religione e politica. Scienza e tecnica. La storia dei rapporti tra gli uomini incrocia la storia dei rapporti tra gli uomini e le cose. E in questo crocevia s’infrange ogni concezione rettilinea del pensiero umano.

Da quando è cominciata l’era del treno, si è assistito a un rivoluzionamento del modo di viaggiare, inducendo la modifica dei tessuti urbani e rurali e generando agli esordi timori e sospetti. Le stazioni costituiscono così uno strumento di emancipazione, di conoscenza, di avventura, di lavoro, di doveri familiari, di vacanza, di divertimento. E le suggestioni di chi guarda la natura dal treno e di chi guarda il treno passare, sono stra-ordinariamente affascinanti, il treno sul ponte, il treno sulla campagna che va veloce sotto la pioggia, il fumo denso che avviluppa tutto (“sembrava un giovane puledro che appena liberato il fumo mordeva la rotaia con muscoli d’acciaio”), il vapore, il rumore “che mi porta lontano” e il treno che incrocia un altro treno quasi come se lo prendesse in pieno. La stazione si è perciò imposta, anche nella letteratura e nell’arte, come il luo-go degli addii e degli arrivi, delle amarezze e delle speranze. Quando si accompagna alla stazione la persona cara che deve partire, quando la moglie accompagna il marito,

LA RINASCITA DELLE STAZIONI FERROVIARIEdel Fr. Giovanni Greco, 9°

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quando i familiari accompagnano i figli, quando la fidanzata e il padre accompagnano alla stazione il giovane che deve partire per il servizio militare: che emozione per chi parte e per chi rimane, che animo pesante quando si va al binario giusto, si fanno le ultime raccomandazioni, ci si guarda negli occhi, si stringono le mani con un sorriso che vorrebbe essere allegro, ma stringe il cuore, le reciproche promesse, i baci appas-sionati, maschi, che marcano e suggellano il momento, una carezza leggera, discreta e imbarazzata, quasi dal cor fuggita, e poi si sale sul predellino del treno e, mentre il viaggiatore cerca il suo posto, l’accompagnatore lo segue con lo sguardo, per vedere se si sistema bene, per verificare la portata delle persone che gli saranno vicine nel viaggio, col cuore in tumulto, l’ultimo saluto dal finestrino o dietro una vetrata, un cenno della mano, un suggello dell’anima, una fotografia del cuore, in bianco e nero, indele-bile, che si ricorda ancora nel tempo, che non svanisce. E poi si rimane soli a pensare, con la voglia di abbandonarsi a un pianto rigeneratore, ma no, non si può, non si deve, c’è gente nello scompartimento, c’è qualcuno che ti guarda di sott’occhio, ed allora è meglio far finta che si è raffreddati, meglio questo che essere compatiti da una sdaura bolognese che, con un filo di voce, biascica “puvratt fiol”. Ma c’è di più, ed è l’animo di chi rimane solo e torna a casa, che all’ultimo momento avrebbe ancora voluto parlare alla persona partita, per spiegare meglio come in realtà stanno i fatti, per far capire certe cose, ma la persona se n’è andata ed è tardi ormai: ”Io non ho avuto il tempo di dire una parola per asciugare il pianto di una madre che resta sola, per sciogliere quel nodo che mio padre aveva in gola”(Cocciante). Si è ancor più soli fra la gente, (moltitu-dine-solitudine nell’accezione di Baudelaire), anche se forse più liberi da sguardi altrui, come quando Carducci - “già il mostro, conscio di sua metallica anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pel buio gitta il fischio che sfida lo spazio” - ac-compagna alla stazione la donna amata, in una mattina d’autunno, sotto la pioggia, fra un crepitio di freni e il rumore secco degli sportelli battuti del treno, mentre il mostro, il treno, il ladro di affetti, gli rapisce il volto di Lidia che lo saluta con trasporto, con un pallido rossore, e lui, il poeta, che piano piano, con accurata lentezza ritorna a casa, dove non si ha neanche la voglia di tornare, fra la nebbia con cui vorrebbe confondersi, barcollando come un ubriaco, avendo ormai smarrito il senso della sua vita e della sua persona, immerso in un tedio infinito, in un dolore acuto, lancinante, che prende forte il petto e lo squassa senza remissione: “Voglio crogiolarmi in questa mia dolorosa stan-chezza che mi pare debba essere eterna”. Da tanto tempo ormai il binomio stazione-treno è inseparabile nella società, in pittura, in architettura, nel modellismo, in poesia, come le locomotive dall’ampio petto di Marinetti “che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi”, come nella poesia di Giovanni Pascoli dove fra le mucche che pascolano, si dipana bruna la strada ferrata che da lontano brilla, come in letteratura da Buzzati a Caproni a Dacia Maraini, in “Il treno dell’ultima notte”, dove nel 1956 si viaggia in treno anche per visitare il girone infernale di Auschwitz, come nel cinema dove la stazione appare già come l’immagine del set della vita (ciak, stazione si gira), dalla stazione di Sergio Rubini alla stazione di Ciotat (1896), uno dei primi emblematici cortometraggi di Lumiere. Nel mondo delle canzoni gli spunti e le riflessioni sulle stazioni e sui treni sono infiniti, come nell’oasi tunisina consacrata da Battiato “nei villaggi di frontiera guardare i treni, le strade di Tozeur”, come nel treno di Cocciante, un treno che va lontano “e il quadro cambia sempre là dietro al finestrino” o di De Gregori, un treno che va veloce “verso il ritorno, tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore”. Senza dimenticare “il treno che viene dal sud” (Endrigo), un treno che “non porta solo Marie con le labbra di corallo e gli occhi grani così. Porta

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gente, gente nata fra gli ulivi, porta gente che va a scordarsi il sole, ma è caldo il pane lassù al nord”. Via via col tempo si è passati dalle antiche stazioni e stazioncine dal sembiante essenziale, dal vago sapore del Far West, quando le rotaie distruggono un popolo e ne unificano un altro, dove tutto era esclusivamente teso all’esaltazione del treno in arrivo o in partenza, e si è giunti a stazioni che hanno bar, giornalai, ristoranti, negozi di tutti i generi, librerie e ogni tipo di comodità. La stazione si propone perciò per un complesso di situazioni e di luoghi di estremo interesse, dal punto di vista sociale e umana, dai binari ai ricoveri per i passeggeri, dalle biglietterie alle pensiline, dai ritrovi ai ristori. Uno dei tanti strumenti emblematici di una stazione è l’orologio che richiama una concezione “puramente pragmatica ed esteriore del tempo”. L’orologio, strumento di misurazione del tempo, in una stazione acquisisce nuovi connotati perché, oltre alla misura del tempo, alle indicazioni degli arrivi e delle partenze imminenti, induce il viag-giatore a soffermarsi a pensare, a riflettere sulla sua vita, sul tempo trascorso, su ciò che presumibilmente rimane da vivere, l’orologio come strumento di misurazione del termometro dell’anima e della propria esistenza. Non vanno almeno altresì dimenticati gli orologi delle Ferrovie Federali Svizzere, un classico rinomatissimo, creati da un impiegato delle ferrovie, l’ingegner Hans Hilfiker, che immaginò e realizzò ben più di un orologio, simbolo di puntualità assoluta, ma addirittura un emblema nazionale, non casualmente la lancetta dei secondi, di colore rosso, si vede bene anche da lontano (in altri paesi si potrebbe anche togliere, compresa quella dei minuti…). Senza dire dell’orologio della stazione di Bologna, perennemente fermo alle 10.25 in memoria del momento della strage del 2 agosto 1980, quindi dall’altissima valenza civile e sociale.Un altro segmento unico, tipico del mondo dei treni, e connaturato al sembiante delle stazioni, è il fischio del treno: il fischio, il fischio “innaturale e minaccioso” di Thoreau, il fischio “arrogante” di Carducci, il fischio “richiamo maligno” di Pirandello. Quest’ultimo ci segnala il povero ragioniere Belluca, impiegato modello, impeccabile, perfetto nel rispettare i colleghi e le consegne, che poi quando tornava a casa doveva assistere tre donne cieche, la moglie, la madre e la sorella, in una casa modesta, facendo tardi la notte per guadagnare qualche soldo in più, e che un giorno si ribella al capoufficio per-ché ha sentito il fischio di un treno che poteva condurlo in luoghi lontani, in un mondo di sogno che aveva ormai dimenticato di desiderare. Alla fine la sua mancanza sarà perdonata ma ogni volta che il ragioniere “sentiva” il fischio del treno poteva compiere colla mente un bel viaggio in Siberia o nel Congo. Ma vi è anche un fischio tutt’altro che intrigante ed è quello che ascoltava nella realtà, non nella sua fantasia, e come lei un’infinità di altre persone, Esther Millesum (1914-1943), ebrea olandese che prima di Auschwitz dove morì, fu portata a Westerbork, che era un campo di transito. Era un campo dal quale si partiva ogni lunedì con un treno per Auschiwtz, mille anime, ogni volta, e quando il treno giungeva all’interno della struttura: “La locomotiva manda un suono terribile, tutto il campo trattiene il fiato”. Ma dalla morte alla vita, dalla dispera-zione alla gioia, il fischio, le stazioni e il treno sono anche per i bambini un punto di snodo con notevoli implicazioni. La gioia e la curiosità dei bambini che viaggiano con i genitori o con altri bambini, compagni di scuola, i bambini sono elettrizzati dall’avven-tura che li attende. Basta solo ricordare l’opera preziosa di Gianni Rodari che fa arri-vare sul primo vagone di un treno, una simpatica vecchietta che ha tanti nipotini che la aspettano con le calze di lana pronte da tempo e dove, sul treno dei bambini, un bimbo bigliettaio attaccò su uno sportello il cartello: “I signori genitori, se hanno voglia di viag-giare, devono farsi accompagnare”. E la voglia o la necessità di viaggiare l’hanno avu-ta milioni di uomini, fra cui, una persona di cui desidero ricordare un frammento della

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sua vita. Si tratta di Raffaele Spongano, salentino, era uno straordinario professore di Letteratura italiana presso l’università di Bologna. Quand’era studente universitario un giorno fu raggiunto da una lettera della madre che lo pregava di far ritorno il più presto a casa perché la famiglia era stata colpita da un grave lutto. Spongano si predispose immediatamente a ritornare a casa, ma non ebbe l’animo di confessare che non aveva la possibilità di affrontare il costo del biglietto per il viaggio in treno. Fu accompagnato alla stazione dal suo amico e compagno di studio Delio Cantimori, che gli acquistò e passò da un finestrino del treno in partenza un panino, “il mio unico bagaglio e anzi si può dire che fosse allora, insieme al vestito che indossavo, il mio solo possesso”. Ma il momento che Spongano più temeva, nel suo viaggio da “clandestino” doveva ancora arrivare, perché poi ad un tratto il capotreno aprì lo scompartimento e guardandolo nel viso gli chiese il biglietto: “Non ebbi nemmeno la forza, o il coraggio, di rispondergli: riuscii solo a fissarlo. Stringendo fra le mani il panino di Cantimori, che era tutto ciò che avevo, lo guardavo diritto negli occhi. Lui pure mi fissò per un tempo che mi sembrò lunghissimo, ma forse fu solo l’istante che gli servì per leggere nel mio sguardo tutta la vergogna e la disperazione che provavo. Non pronunciò una sola parola, non mi chiese nient’altro, ma capì: se ne andò scuotendo la testa e, fino alla fine del viaggio, non tornò mai più a quello scompartimento. Ecco io credo che in quel frangente così terribile, in quel passaggio drammatico della mia esistenza, queste due cose mi abbia-no salvato: il panino di Cantimori e lo sguardo di quel capotreno, il dono di un amico e la solidale comprensione di un estraneo. Non so se sarò mai capace di esprimere la gratitudine che porto a questi due uomini per i loro gesti”. E se per Spongano sappia-mo che cosa abbiano rappresentato le stazioni e i capostazione, mi chiedo che cosa siano le stazioni, il treno, il viaggio per i cavalieri scozzesi. Per gli scozzesi il viaggio è concreto ed allegorico, il viaggio rappresenta la trasformazione naturale degli elementi sul piano universale, dal sottile verso il solido e viceversa, il viaggio non finisce, non finisce mai, dato che bisogna saper ritornare sui percorsi già dati per ripeterli, per ri-portarli alla memoria, per costituirli come presupposto per tracciare nuovi cammini. Per questi cavalieri la vita di un uomo è come quella di una persona che viaggia in treno, magari con un amico fraterno, cosa che più di tante altre fa amare la vita. In un treno ci si può spostare a destra o a sinistra, avanti e indietro, ma sempre sul treno si sta e il percorso è segnato dall’andamento del treno. Il punto è come si vive l’esperienza della stazione, come si vive l’esperienza del viaggio, perché spesso la via non c’è, non è stata tracciata, la via si fa andando. E la via l’hanno indicata anche tanti ferrovieri massoni, da Rundle, capo stazione e da Beazeley, delle ferrovie (Rudyard Kipling), sino all’ispettore delle ferrovie, bolognese, Carlo Manelli, padre spirituale della gloriosa loggia felsinea Zamboni De Rolandis. Come i templi massonici che sono incompiuti e a cielo aperto, così le stazioni appaiono agli scozzesi come uno snodo essenziale della propria vita, dove tutto è in discussione o è giunto al capolinea, dove a volte le decisio-ni sono ancora sospese e a volte sono inesorabilmente, amaramente o gioiosamente, prese. Per gli scozzesi le stazioni sono in sedicesimo come l’isola baconiana di Bensa-lem da dove si parte per carpire conoscenze, gioie, lavoro, per ritrovare le parole per-dute della propria esistenza, per alimentare una sapienza discreta e potente, per ope-rare una sorta di reintegrazione di nuove possibilità, di nuove verità, di nuovi valori. La stazione quindi come sito nel quale si toglie la maschera alle cose e alle persone, per rivelarle per come sono: essenziali, senza metafore, con tutte le luci e ombre della loro esistenza, col loro bagaglio di speranze e di timori. Se la stazione fosse una lanterna, allora deponiamo la lanterna alla testa del treno, perché faccia luce sul futuro più che

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Giuseppe Bartolini, 1983

sul passato, illuminando così un nuovo inizio, senza dimenticare che, per dirla col caro Marco Veglia, “i cavalieri erranti, come nomadi non immemori di operare per la propria terra, continuano ostinatamente a vivere la propria contingenza come un dono”.

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22 LA BIBLIOTECA IDEALE

LA BIBLIOTECA IDEALE Per far vivere libri senza i quali è dif�ficile pensare il mondo. Rigorosa e ludica. Definitivamente provvisoria o provvisoriamente definitiva.

PARADIGMI SCOZZESIdel Fr. Marco Veglia, 9°

La prima avventura di un Cavaliere è scandita da un percorso triplice, racchiuso in una propria forma e teso a una propria, inconfondibile fisionomia. La successiva avventura scozzese non fa che estendere, a cerchi concentrici, quella prima “tensione essenziale”, la gradua, la distingue, la ordina in una scala di perfezione che si armonizza in 33 forme e linguaggi, ciascuno dei quali è definito da un riconoscibile, tangibile volto. Ciò che prima era un numero chiuso, si rifrange poi in un sistema aperto, votato strutturalmente alla moltiplicazione – non mai alla diffrazione – dei punti di vista. Salpato da riva, dove il fondo del mare è ben visibile, l’uomo “scozzese” si addentra fra le acque affidato alla propria scienza ed esposto alla propria contingenza. Dall’Ordine al Rito, dalla riva al pelago, non c’è frattura ma svolgimento. Cambiano, tuttavia, i sistemi di orientamento. Mutano i paradigmi. L’implicazione della prima nella seconda avventura massonica, come pure il radicamento della seconda nella prima, suggeriscono l’idea di percorsi complementari, l’uno teso all’acquisizione della tradizione e del proprio libero luogo nel cuore di quella; l’altro, invece, orientato all’innovazione: non senza rete, ma nel centro stesso della tradizione, rivissuta in una prospettiva di costante mobilità. Dalla memoria necessaria alla edificazione della libera personalità, che è peculiare dell’Ordine e del suo radicamento negli Stati nazionali, si accede così a una memoria personale che si certifica nella ramificazione in un sistema di riferimenti cosmopolitici e collettivi, dove la coralità diviene la condizione storica per il dispiegamento della stessa individualità. Non muta insomma il nauta, non muta la nave, ma si trasformano le bussole e le carte nautiche. Dalla stella del mattino ci si inoltra nella rosa dei venti. Per dirla con Thomas Kuhn, la “tensione essenziale” fra memoria e invenzione è il risultato della dialettica fra passato e presente, tra memoria e progresso. Lo scienziato, come il Cavaliere, necessita da un lato di un “pensiero convergente”, tradizionalista, che lo mantenga fedele al retaggio intellettuale nel quale avvengono le proprie scoperte. Eppure, non meno del Cavaliere, lo scienziato ha bisogno, dall’altro lato, per risolvere i rompicapi della scienza normale come pure della vita, di un “pensiero divergente”, flessibile, diagonale, eretico, caratterizzato dall’apertura mentale che è necessaria alla discussione, alla rivoluzione stessa che scaturisce dalla forza del pensiero e dalla dinamica della ricerca. Una simile dialettica fra tradizione e iconoclastia è la chiave per intendere la “tensione essenziale” che si deve dispiegare nella mente del Cavaliere. Di un fatto egli è consapevole: poiché nulla è stabile e fermo, la contingenza diventa per lui il presupposto per far convivere lo streben con l’umiltà, l’ardore con il senso del limite, l’eroismo con l’ironia. Non si tratta, come vorrebbero le fanfare di un anticlericalismo fuori stagione, di relativizzare il proprio punto di vista e di parificarlo orizzontalmente ad altri punti di vista variamente connotati, ma di leggerlo e interpretarlo in relazione costante alla propria mutevole condizione. L’assoluto non viene negato, né si confutano i valori che informano di sé la vita umana, ma l’uno e gli

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23 LA BIBLIOTECA IDEALE

altri vengono accolti nella coscienza della distorsione prospettica alla quale vengono sottoposti per il fatto stesso di essere percepibili. Rara, se non viene educata, è in effetti la capacità di un individuo di “sostenere una tensione che può talvolta divenire quasi intollerabile”, fra memoria e innovazione, fra tradizione e rivoluzione. La Cavalleria, dopo tutto, ambisce a quel tipo di educazione (la cui vitalità è in funzione della sua stessa difficoltà). Così, nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn mette in scena l’architettura profonda del progresso scientifico, ravvisandola nelle svolte paradigmatiche. Un paradigma (per il Cavaliere, per metafora, un grado del RSAA) è “un insieme anche implicito di credenze metodologiche e teoretiche intrecciate tra loro che permetta la scelta, la valutazione e la ricerca”. Un paradigma, inoltre, “non deve necessariamente spiegare tutti i fatti con i quali ha a che fare”. Senza la forza anteriore di un paradigma e del quadro indiziario e teorico che esso crea, tuttavia, non si darebbe attività scientifica: “abbandonare il paradigma” (abbandonare il percorso rituale o non coglierne la forza intrinseca, dal primo all’ultimo grado) “significa cessare di praticare la scienza che esso definisce”: significa, per forza d’analogia, abbandonare la Massoneria. Benché il paradigma, inoltre, possa isolare la comunità degli scienziati dai problemi “socialmente importanti che non sono riducibili alla forma di rompicapo” (lo stesso isolamento può colpire le comunità iniziatiche, quando il rito stesso non sia vissuto come un ponte, ma come uno specchio), resta il fatto che solo la comunità degli esperti (scienziati e massoni) sia il pubblico adatto alla critica di ciò che viene scoperto e discusso dall’attività scientifica (o, proseguendo la metafora, dalla comunità dei Cavalieri). Non si può chiedere a un daltonico un giudizio sulla tavolozza di un pittore. Criteri e metodi esterni al paradigma, in altre parole, non possono rivendicare alcun diritto di cittadinanza entro le tecniche e le metodologie dell’attività scientifica. Del resto, poiché non può “suscitare dubbi” la “analogia tra sviluppo sociale e sviluppo scientifico”, non dovrebbe nemmeno destarne quella tra sviluppo scientifico e percorso iniziatico. Nella loro natura, i 33 linguaggi del RSAA sono forse un correlato oggettivo di singolare pregnanza per intendere quelli che Thomas Kuhn chiama “insiemi mentali” (Einstellungen). Un fatto è certo: “Analogamente alla scelta fra istituzioni politiche contrastanti, la scelta tra paradigmi contrastanti dimostra di essere una scelta tra forme incompatibili di vita sociale”. A fronte della politica e della religione, il Cavaliere deve essere un tradizionalista-riformatore, o, come diceva di sé quel Carducci che sedeva nel Supremo Consiglio del RSAA, un “conservatore sovversivo”: ogni squilibrio innestato in quella dialettica verrebbe ad inficiare la radice dinamica dello sguardo scozzese recato ai problemi della natura e della storia. L’iconoclasta è una sentinella che veglia sulle icone che si rifiuta di adorare. Poiché, del resto, tutto si riconduce alla libertà e ai metodi di leggere, rileggere e interpretare un dato, Kuhn si sofferma di frequente sulla psicologia dello sguardo, sulla riforma gestaltica della visione, che nasce da un diverso paradigma e che al tempo stesso lo definisce. Vediamo non solo ciò che esiste, ma ciò che vogliamo vedere. Vediamo non solo ciò che possiamo, ma ciò che vogliamo distinguere e definire. L’incidenza del contesto storico, politico, individuale, sulle modalità della visione, è cogente. Del pari, è conclamata l’evidenza che 33 occhiali, sia pur disposti in una sola vetrina di limpido cristallo, consentono diversità di percezione non meno certe che progressive: il “pensiero convergente” ha bisogno della vetrina, non transige sulla necessità operativa della bacheca, senza la quale la molteplice visione garantita dagli occhiali stessi non sarebbe possibile: anzi, le lenti cadrebbero a terra, disperse e frante, inservibili. In effetti, il problema non è quello dei colori, ma, come avrebbe detto

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24 LA BIBLIOTECA IDEALE

Cusano, della vista che li rende preziosi e che, al fine, li porta quasi all’esistenza. Il problema è il daltonismo morale e intellettuale. Il “pensiero divergente” è allora, in questa direzione, quello che non si appaga della propria potenza visiva, né delle tonalità cromatiche consuete, ma che cerca di educare il proprio sguardo a distinguere, a conoscere, senza la tentazione di ritenersi unico od esclusivo: esso induce il Cavaliere ad aprire la vetrina, indossare gli occhiali, a guardarsi intorno curioso; né, del resto, esso si contenta sino a quando le giuste lenti non lo riconducano a una visione che è, per cultura, per tecnica, una nuova e seconda natura. Il Cavaliere diventa tanto più naturale quanto più la cultura lo educa e rinnova, riportandolo alla originaria, sorgiva capacità di visione. La scelta dell’occhiale perfetto non può che avvenire nell’alveo della tradizione, ma la nuova vista consente di ripensarla e riformarla. Il culturale ridiventa cultuale. Altra possibilità semplicemente non sussiste: “Quando i paradigmi entrano, come necessariamente devono entrare in un dibattito sulla scelta dei paradigmi, il loro ruolo è necessariamente circolare. Ciascun gruppo usa il proprio paradigma per argomentare in difesa di quel paradigma”. Al Cavaliere “convergente” e “divergente” non spetta infine di sostare, ma di attraversare 33 stazioni, leale verso di sé, verso il passato e verso il futuro che ancora non conosce, ma che prepara. Per lui, come per lo scienziato, non conta l’approdo, che è semplicemente una parte naturale del percorso, ma il metodo per raggiungerlo: non conta la meta lontana, ma il punto a partire dal quale ci si mette in cammino. Non conta la fine, ma l’inizio, che si rinnova 33 volte con dinamiche coerenti nella diversità, convergenti nella divergenza, varie nell’unità. Il mondo stesso non parlerebbe alla vita del Cavaliere senza la mappa che consente di percorrerlo. Se questo è vero, lunga è la via e gioioso è il cammino.

Ulisse e le Sirene, III sc., Museo del Bardo Tunisi

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25 ARCHIVI

ARCHIVI

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Contributi di:Fr. Giovanni Casa, 33° M.A. Gran Bibliotecario Fr. Giovanni Greco, 9°

Fr. Andrea Macinanti, 4°Fr. Stefano Romiti, 31°Fr. Marco Veglia, 9°

INFORMAZIONE SCOZZESE è una pubblicazione periodica a cura del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato. La rivista prende forma in Internet e può essere consultata sul web, stampata integralmente o per singole pagine, scaricata e salvata in formato pdf. Tutte le pubblicazioni, quadrimestrali, saranno sempre di� salvata in formato pdf. Tutte le pubblicazioni, quadrimestrali, saranno sempre di�sponibili nel tempo sia per la consultazione a video sia per la stampa. Le lettere alla rivista e i manoscritti degli Autori dovranno essere inviati online tramite il caporedattore([email protected]).

Direttore Responsabile Fr. Fernando Solazzo, 33° M. del Ruolo d’OnoreCaporedattore Fr. Giovanni Casa, 33° M.A. Gran Bibliotecario Progetto Grafico Fr. Roberto Giusti, 9°