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Indice

Introduzione ----------------------------------------------------------------------------- 5

1) Rigenerazione tissutale --------------------------------------------------------------------------------- 5

1.1) Processi rigenerativi

1.2) Processi infiammatori coinvolti

2) Microgravità ------------------------------------------------------------------------------------------------ 15

2.1) Microgravita’: effetti biologici

3) Campi elettromagnetici (CEM) -------------------------------------------------------------------------- 19

3.1) Campo Elettrico

3.2) Campo Magnetico (CM)

3.3) Onde Elettromagnetiche

3.4) Risonanza ionica ciclotronica

3.5) Campi elettromagnetici e sistemi biologici

3.6) Applicazione di campi elettromagnetici: effetti terapeutici

4) Il Laser ---------------------------------------------------------------------------------------------- 25

4.1) Principi Fisici

4.2) Generatori di luce laser

4.3) Parametri

4.4) Applicazioni del laser in campo bio-medico

4.5) Effetti terapeutici del laser

Introduzione ai modelli sperimentali --------------------------------------------- 32

5) In vitro: scratch assay ---------------------------------------------------------------------------- 32

6) In vivo: Hyrudo Medicinalis --------------------------------------------------------------------- 34

Scopo dello studio ---------------------------------------------------------------------- 37

Materiali e Metodi --------------------------------------------------------------------- 38

7) Colture cellulari ------------------------------------------------------------------------------------ 38

7.1) Fibroblasti

7.2) Cellule endoteliali

8) Citofluorimetria ------------------------------------------------------------------------------------ 38

9) Test di proliferazione ----------------------------------------------------------------------------- 39

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10) Espressione proteica ----------------------------------------------------------------------------- 40

10.1) Protocollo di estrazione delle proteine

10.2) Dosaggio di proteine

10.3) Elettroforesi

10.4) Western blotting

11) Test di migrazione in vitro ---------------------------------------------------------------------- 42

12) Modello in vitro: Scratch assay ---------------------------------------------------------------- 43

13) Modello in vivo: Hirudo Medicinalis---------------------------------------------------------- 43

14) Rotating Cell Culture System RCCS ----------------------------------------------------------- 44

15) Random Positioning Machine (RPM)--------------------------------------------------------- 44

16) Sorgenti di campi elettromagnetici (CEM) -------------------------------------------------- 45

17) Scratch assay con esposizione a CEM -------------------------------------------------------- 45

18) Trattamento laser MLS -------------------------------------------------------------------------- 46

18.1) Trattamenti in vitro

18.2) Trattamenti in vivo

19) Microscopia di immunoflorescenza ---------------------------------------------------------- 48

20) Analisi istologica----------------------------------------------------------------------------------- 49

21) Statistica -------------------------------------------------------------------------------------------- 49

Risultati ----------------------------------------------------------------------------------- 50

22) Effetto della µg sulla proliferazione di fibroblasti NIH-3T3 ----------------------------- 50

23) Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti (NIH-3T3) coltivati in µg simulata mediante

RCCS in confronto ai controlli (1xg) ---------------------------------------------------------- 51

24) Effetto della µg sulla capacità di migrare dei fibroblasti --------------------------------- 55

25) Scratch Assay su NIH-3T3 esposte 6 e 72 ore in µg ---------------------------------------- 55

26) Espressione proteica ------------------------------------------------------------------------------ 58

27) Valutazioni preliminari dei parametri CEM -------------------------------------------------- 59

28) Analisi della proliferazione e del ciclo cellulare su NIH-3T3 esposte a CEM --------- 60

29) Valutazione dell’efficacia dei CEM nella stimolazione su NIH-3T3 esposte

precedentemente a µg ---------------------------------------------------------------------------- 61

30) Effetto della radiazione laser NIR sulla migrazione di fibroblasti NIH-3T3

in modello di Scratch Assay --------------------------------------------------------------------- 62

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31) Effetto della radiazione laser NIR sull’espressione della proteina α-SMA

in fibroblasti ---------------------------------------------------------------------------------------- 64

32) Impatto della µg sull’interazione endoteliale-stromale relativa

ai processi riparativi ------------------------------------------------------------------------------ 65

33) Effetto della µg su un modello di wound healing in vivo (Hirudo medicinalis) ----- 69

34) Modello di wound healing in vivo e prove preliminari sull’effetto di contromisure

di tipo fisico ----------------------------------------------------------------------------------------- 70

Discussione ------------------------------------------------------------------------------- 72

Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------- 79

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Introduzione

1) Rigenerazione tissutale

1.1) Processi rigenerativi

Delimitare l'intero organismo e proteggerlo da qualsiasi agente esterno è una delle principali

funzioni svolte dalla cute. La ricostruzione della barriera epiteliale, eventualmente danneggiata per

cause varie, è quindi un processo biologico di grande importanza per la sopravvivenza

dell'organismo. Tale processo rientra nel più vasto campo della riparazione e rigenerazione dei

tessuti (Fig-1).

Fig-1. Fasi del del processo di riparazione tissutale

Nel percorso di riparazione del tessuto danneggiato vi sono molteplici problematiche che possono

influenzare le varie fasi della rigenerazione. Per esempio, una risposta eccessiva o troppo

prolungata del sistema immunitario può interferire con una corretta guarigione.

In questo contesto, la transizione dalla fase infiammatoria alla fase di proliferazione nella

riparazione della ferita è un passaggio importante nell'evoluzione del processo di cicatrizzazione.

(Landén N.X., et al. 2016). Innanzitutto, le cellule presenti nell'area danneggiata sono esposte a

pattern molecolari associati al danno, che vengono riconosciuti tramite toll like receptors (TLR)

inducendo la prima fase infiammatoria (Strbo N., et al. 2014; Tekeuchi N., et al. 2010).

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Tra le popolazioni cellulari che hanno un ruolo chiave nel wound healing ci sono i macrofagi, che

agiscono principalmente nella fase iniziale dell'infiammazione, fino al passaggio alla fase di

proliferazione.

Alcuni studi dimostrano che l'assenza o riduzione di macrofagi va di pari passo con la riduzione della

capacità rigenerativa della ferita e, inoltre, può verificarsi un aumento del rischio emorragico

(Sindrilaru A., et al. 2013).

Nelle prime fasi della riparazione della ferita i macrofagi presenti nel tessuto differenziano nel

sottogruppo M1. Questi sono associati ad attività fagocitica e alla produzione di mediatori pro-

infiammatori. In seguito, gli M1 si trasformano nel sottogruppo M2, rivelando un fenotipo

riparativo. I macrofagi M2 sono coinvolti nella sintesi di mediatori anti-infiammatori e nella

produzione di matrice extracellulare (ECM), nell'avvio della proliferazione dei fibroblasti, nonché

nei processi angiogenici. Quindi, se non si verifica la transizione M1-M2, il risultato è che la ferita

può diventare una lesione cronica come le ulcere venose e le ulcere nei pazienti diabetici (Sindrilaru

A., et al. 2011).

I meccanismi che determinano il riavvicinamento dei lembi della ferita e quindi la chiusura sono

principalmente due: il primo è la rigenerazione, dove i due lembi della ferita crescono e tendono a

riavvicinarsi fino a chiudere del tutto il gap, la seconda sfrutta la contrazione di miofibroblasti, con

il conseguente avvicinamento dei due lembi. Nei mammiferi, in base alla specie, uno dei due

meccanismi è preponderante sull'altro. Ad esempio, i roditori guariscono principalmente dalla

contrazione dei due margini, mentre nell'uomo la riepitelizzazione è il meccanismo preponderante

nella chiusura delle ferite (Volk S.V., et al. 2013).

Vi sono moltissime variabili che influenzano, in entrambi i casi, i tempi e la qualità della

rigenerazione tissutale. In primo luogo è evidente che l'area anatomica è alla base di queste

variabili, ovvero una ferita cutanea, posizionata su un'articolazione, presenta molte più

problematiche determinate dallo stress dinamico a cui è sottoposta e in questo caso vi è un'altra

variabile: la direzione e forma della ferita. Una ferita longitudinale al movimento di un'articolazione

avrà tempi più brevi rispetto ad una perpendicolare nella guarigione. Ovviamente, è altrettanto

chiaro che se la ferita occupa un'area più o meno vasta o profonda influenzerà in modo importante

tutti i meccanismi che ne derivano, dalla risposta infiammatoria in avanti.

Altro aspetto importantissimo è la contaminazione microbica, che, se presente, influenza

pesantemente il processo di guarigione. Non sono da sottovalutare lo stato e le caratteristiche del

paziente, compresa, la genetica e l'epigenetica.

La profondità delle ferite è un aspetto rilevante, in quanto maggiore è la distanza dalla superficie

cutanea, maggiore è il numero di tessuti (epidermide, derma, ecc..) che sono stati lacerati. In questi

casi la riparazione della ferita è più complessa e vede coinvolti un numero maggiore di tipi cellulari.

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In questi casi la riparazione inizia dalla formazione di un tessuto di granulazione che in termini

temporali anticipa la riepitelizzazione. Questa forma di riparazione della ferita è chiamata

guarigione di seconda intenzione.

Vi è una guarigione per terza intenzione. Questa si riferisce a ferite molto gravi per estensione o

profondità, generalmente con cospicua perdita di sostanza. Spesso queste ferite presentano una

notevole contaminazione microbica e, di conseguenza, una forte risposta infiammatoria, che può

mettere a repentaglio il recupero totale della funzione del tessuto, se non addirittura la vita del

paziente. Ferite di questo tipo vengono sovente mantenute aperte volontariamente dai medici, al

fine di ottenere un processo di guarigione più lento, ma qualitativamente migliore, in particolare

per quanto riguarda i tessuti più profondi. Nella maggior parte dei casi, queste ferite richiedono

suture o addirittura interventi di chirurgia plastica, quindi le cure devono essere effettuate da

personale specializzato. (Knobloch K., et al. 2010)

Quindi, in base all'entità del danno tissutale è possibile effettuare una stima sulla durata del decorso

delle fasi di guarigione.

Un aspetto importante nell’evoluzione del processo di guarigione è il tempo. Una ferita

superficiale, che non compromette una vasta area, ha tempistiche di riepitelizzazione normalmente

comprese fra gli 8 e i 10 giorni, mentre ferite più complesse posso richiedere oltre 30 giorni.

Nelle prime fasi di ricostruzione della cute i cheratinociti attivati, modificano il proprio citoscheletro

promuovendo l’avanzamento sullo strato epidermico grazie a formazioni lamellipoidali che

aderiscono alle proteine della matrice (Jacinto A., et al. 2001).

La migrazione delle cellule non è diretta dai margini della ferita verso il centro trascinando i lembi,

ma vengono ridotte le giunzioni cellulari, favorendo la costruzione di isole o ponti cellulari tra i due

lembi, con lo scopo di avvicinarli. Arrivati al centro della ferita, l'inibizione da contatto interrompe

il processo migratorio dei cheratinociti e la chiusura della ferita è terminata. In tutto questo

meccanismo ha un ruolo fondamentale la matrice extracellulare, che in ogni tipo di tessuto va a

costituire la componente strutturale e ne determina in gran parte le caratteristiche fisiche e

meccaniche.

Anche In altri tessuti, come ad esempio il muscolo, oltre che dalle cellule della risposta immunitaria

innata, il tessuto di granulazione viene costituito da macrofagi, fibroblasti, vasi sanguigni e una

matrice di collagene, glicoproteine, fibronectina e acido ialuronico (Santoro M.M., et al. 2005).

Lo studio del ruolo delle cellule staminali nel processo di rigenerazione tissutale è di forte interesse

per i ricercatori, in quanto sono considerate svolgere un ruolo importante in molte fasi di guarigione

della ferita (Tenenhaus M., et al. 2016). In una lesione cutanea, la ricostituzione del difetto cellulare

risultante è oggetto dell’intervento di cellule staminali adulte, mentre nella rigenerazione

dell’epidermide, sono le cellule staminali derivati dai bulbi piliferi e dalla nicchia epidermica

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interfollicolare a sostituire le cellule mancanti (Donati G., et al. 2015; Pastar I., et al. 2014). Una

deregolamentazione della nicchia staminale epidermica è presente in ulcere croniche, dove l’area

del danno è delimitata da infiammazione cronicizzata a causa di infezioni, ipossia, ischemia e/o

eccesso di essudato (Stojadinovic O., et al. 2014; Chen D., et al. 2016).

Le cellule staminali CD34+, cellule staminali mesenchimali e le cellule progenitrici endoteliali

sembrano supportare la formazione di nuovi vasi tramite effetti paracrini multipli e in particolare

promuovendo alti livelli di molecole pro-angiogeniche (Milan P.B., et al. 2016; Kusindarta D.L., et

al. 2016; Kong P., et al. 2013). Quindi, i recenti studi si concentrano sulla neoformazione dei vasi

sanguigni e sulla loro capacità di coadiuvare le giuste risorse per il processo di riparazione tissutale.

La neoangiogenesi, un altro passaggio fondamentale della rigenerazione tissutale, dalle primissime

fasi che seguono la lesione promuove la perfusione nell’area danneggiata di di nutrienti e cellule,

dalle cellule del sistema immunitario ai fattori di crescita e le citochine, che sono necessarie per

ottenere la riparazione del danno tissutale (Demidova-Rice T.N., et al. 2012).

Lo sviluppo di nuovi vasi si procede mediante un’organizzazione sulle tre dimensioni, creando una

struttura ad anello che va a delimitare l’area della ferita, così da garantire una vascolarizzazione

omogenea in tutta l’area della lesione (Sorg H., et al. 2007).

Eventuali disfunzioni nel processo di neovascolarizzazione causano problemi e ritardi nella

guarigione delle ferite e possono portare alla formazione di ulcere croniche, tipicamente osservate

in condizioni di insufficienza venosa, malattie aterosclerotiche, diabete. Ad esempio, in casi di ferite

croniche, una serie di cause influiscono sul microabiente nella riparazione del tessuto.

L’iperglicemia, infiammazione persistente, carenze di fattori di crescita e citochine riducono il

reclutamento di cellule endoteliali e suoi progenitori staminali (Demidova Rice T.N., et al. 2012).

Nuove terapie per scongiurare la formazione di cicatrici ipertrofiche o anche keloidi sono state

suggerite utilizzando trattamenti capaci di stimolare l’angiogenesi Mogili N.S., et al. 2012).

La formazione di tessuto cicatriziale è la conclusione della serie di processi finora descritti e molto

interesse è indirizzato verso i meccanismi coinvolti nelle diverse fasi, in quanto la cicatrice che ne

deriva differisce dal tessuto circostante per varie caratteristiche, prima fra tutte la minor elasticità.

La mancanza delle fibre elastiche può determinare un indurimento e una retrazione della cicatrice,

provocando talvolta tensione e anche limitazione del movimento. Nella cute vi è un minor

contenuto di pigmenti. I follicoli piliferi, le ghiandole sebacee e sudoripare non si ripristinano (Di

Pietro L.A. 2016).

Alcuni studi si sono focalizzati sui meccanismi di riparazione nel feto. In caso di danno tissutale, la

risposta riparativa non risulta nella formazione di una cicatrice non avviene, ma al contrario si

verifica un perfetto rimodellamento dell’area danneggiata con una completa rigenerezione. A

livello dell’epidermide e del derma viene fedelmente riprodotto il reticolo di matrice e collagene, i

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bulbi piliferi sono ripristinati come pure le ghiandole sudoripare. Alcuni studi hanno dimostrato che

ferite su feti di pecora esitano in un con completo recupero della struttura della cute fino alla fine

del secondo trimestre di gestazione (Walaraven M., et al. 2016).

Vanno però distinte due condizioni specifiche: la formazione fisiologica della cicatrice e la

formazione fisiopatologica di cicatrici ipertrofiche. Per far questo è necessario comprendere il ruolo

dei fibroblasti e dei miofibroblasti nella guarigione delle ferite. Nelle primissime fasi, i fibroblasti

dermici che si trovano ai margini della ferita vengono attivati dai fattori di crescita liberati nella

ferita stessa. Stimolati da tensioni meccaniche e dai fattori di crescita, in particolare dal fattore di

crescita derivato dalle piastrine (PDGF), si trasformano in protomiofibroblasti, che esprimono fibre

di stress. Questi si trovano nei primi tessuti di granulazione e nel tessuto connettivo normale con

elevato carico meccanico. Dopo circa 96 ore, compaiono nella ferita i miofibroblasti (Tomasek J.J.,

et al. 2002). Il protomiofibroblasto matura a miofibroblasto aumentando l’espressione di una

particolare actina: α – smooth muscle (α-sma) (Hinz B., et al. 2007).

Il miofibroblasto ha un ruolo cruciale per la chiusura della ferita: creando adesioni focali con la

matrice extracellulare e sfruttando le proprietà contrattili del suo citoscheletro, determina la

contrazione della ferita e il riavvicinamento dei lembi (Tomasek J.J., et al. 2002).

La cicatrice neoformata appare di colore rossastro e rimane tale per qualche mese. Questo

fenomeno è dovuto alla vasta capillarizzazione formatasi durante la cicatrizzazione.

Successivamente, la densità dei vasi diminuisce e la cicatrice acquisisce un aspetto più maturo,

ovvero una colorazione ipopigmentata. In questi intervalli di tempo la cicatrice acquisisce una

crescente resistenza alla trazione.

I fattori di crescita hanno un ruolo fondamentale nel processo di riparazione. Essi vengono rilasciati

da una varietà di cellule attivate nel sito della ferita. In generale, stimolano la proliferazione

cellulare e chemo-attraggono nuove cellule nell’area della ferita. Ad esempio il PDGF funge da

potente mitogeno, viene rilasciato dalle piastrine subito dopo la lesione richiamando neutrofili,

macrofagi e fibroblasti. Inoltre, stimola i fibroblasti a sintetizzare nuova matrice e induce

fortemente la produzione di tessuto di granulazione (Leask A. 2010).

TGF-β1 ha un ruolo importante nella guarigione della ferita. Viene rilasciato da tutte le cellule

presenti nella ferita, comprese le piastrine, i macrofagi, i fibroblasti e i cheratinociti. Fattore di

crescita pro-migratorio e pro-fibrotico, stimola direttamente la sintesi del collagene e diminuisce la

degradazione della matrice da parte dei fibroblasti. Quando viene applicato sperimentalmente

provoca un’accelerazione del wound healing. Tuttavia, un processo di riparazione troppo accelerato

può favorire la fibrosi, e quindi risultare in un danno (Walraven M., et al. 2014).

I meccanismi che conducono alla formazione di cicatrici fibrotiche sono ancora un argomento di

intensa ricerca. Le ferite che guariscono correttamente hanno segnali di "stop" che arrestano il

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processo quando il difetto dermico è riparato e l’epitelio è completamente ricostituito. Quando

questi segnali sono assenti o inefficaci il processo di riparazione può continuare senza sosta e

causare cicatrici eccessive. Le vie di segnalazione pro-fibrotiche e la riduzione dell'attività della

collagenasi sono risultate iperattivate nei pazienti che sentivano dolore nell’area della ferita

rimarginata (Armour A., et al. 2007). In questo meccanismo sono implicati diversi fattori come

l’inibizione dell’apoptosi e la continua presenza di fibroblasti attivati che secernono i componenti

della ECM (Wassermann R.J., et al. 1998).

Un altro aspetto riguarda la chiusura della ferita e di conseguenza la formazione della cicatrice: la

conformazione dei due lembi della ferita, la loro distanza e, l’entità dell’infezione sono aspetti che

possono comportare un eccesso di formazione di tessuto fibrotico.

Molta attenzione richiede il ruolo meccanico della cute e della cicatrice stessa. Negli esseri umani,

a differenza che negli animali dove sono molto rare, si possono presentare formazioni di cheloidi

ipertrofici. Questa tipologia di cicatrici patologiche si distingue sulla base delle caratteristiche

cliniche. Possono essere descritte come cicatrici che non hanno oltrepassato i confini originali della

ferita, ma appaiono sollevate, rossastre e pruriginose. Sono tipiche di aree del corpo sollecitate da

forze di trazione considerevoli come ad esempio le articolazioni, che inducono la ferita a

promuovere un tessuto maggiormente fibrotico. La terapia fisica con esercizi di movimento è utile

per ridurre al minimo le cicatrici ipertrofiche e la contrattura della cute articolare nell’estremità. La

cicatrice ipertrofica è un tipo di over healing auto-limitato che può regredire nel tempo (Ud-Din S.,

et al. 2014).

Il primo passo verso il trattamento dei cheloidi è il riconoscimento precoce e la scelta della terapia.

Spesso si formano in seguito a interventi chirurgici o a traumi di una certa entità. Solitamente viene

consigliata una manipolazione giornaliera del tessuto in modo da rendere la cicatrice più elastica e

meno aderente ai tessuti sottostanti. Ovviamente, nel caso la ferita necessiti di essere suturatà, è

di importanza cruciale la qualità della sutura effettuata e la prevenzione dell’infezione. (Mustoe

T.A., et al. 2002).

I pazienti che presentano un rischio maggiore di cicatrici eccessive possono beneficiare di tecniche

preventive: utilizzo di gel e unguenti, iniezioni intralesione di steroidi ecc. I trattamenti con fogli di

silicone e gel sono ampiamente utilizzati per cicatrici ipertrofiche ed è attualmente l'unico rimedio

con elevate evidenze di successo (O’Brien L., et al. 2013). I meccanismi di azione proposti da queste

terapie per la riduzione della cicatrice includono una migliore idratazione e occlusione, un miglior

controllo della temperatura e un aiuto nel mantenere l’adeguata tensione meccanica della cicatrice.

Una grande quantità di ricerche è incentrata sullo sviluppo di strategie di trattamento per ridurre o

prevenire la cicatrizzazione. Si sono inizialmente valutate strategie anti-TGF-β volte ad ottenere un

effetto anti-cicatrizzante. La complessità dei processi di rimodellamento della cicatrice ha reso però

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insufficiente la semplice aggiunta di TGF-β3 anti-fibrotico (Occleston N.L, et al. 2008). Questo indica

chiaramente che TGF-β non è l'unico fattore di crescita coinvolto nella formazione di cicatrici umane

e nel processo di fibrosi dovuto a ridondanza dell'azione dei fattori di crescita.

Studi clinici di fase II e III sono attualmente eseguiti utilizzando diversi nuovi farmaci per affrontare

le malattie fibrotiche, le fibrosi polmonari o del fegato oltre che le formazioni di cheloidi (Hinz B.

2016). Tra gli altri, l'effetto degli anticorpi contro TGF-β, utilizzo di integrina αvβ6, di interleuchina

IL-13, del fattore di crescita del tessuto connettivo CTGF/CCN2, ecc.

Inoltre, più recentemente si sono iniziati studi sulle proprietà meccaniche dei tessuti. Tali ricerche

si prefiggono di valutare quali stimoli meccanici possano entrare in gioco allo scopo di migliorare i

processi di wound healing e ridurre gli esiti di tipo fibrotico. Un ruolo fondamentale è interpretato

dalla matrice extracellulare, che in ogni tipo di tessuto va a costituire la componente strutturale e

ne determina in gran parte le caratteristiche fisiche e meccaniche (Caiado F., et al. 2011).

Una metodologia che si prefigge l’obiettivo di migliorare il ripristino dei tessuti che hanno subito

ferite di rilievo è l’ingegneria tissutale. Una delle tecniche più utilizzate e standardizzate è il

trapianto autologo, che presenta molti aspetti positivi, ma ha un limite importante: la disponibilità

di tessuto, in termini di quantità, e l’area di prelievo. Quindi, in alcuni casi, pazienti con ferite gravi,

abrasioni, bruciature ecc… non sono in grado di poter essere sottoposti a questa tecnica.

L'ingegneria dei tessuti ha lo scopo di creare strategie di tipo sostitutivo e/o rigenerativo per

ripristinare la funzione riparando i difetti del tessuto (Tenenhaus M., et al. 2016).

Le maggiori difficoltà sono legate a ricreare un ambiente in grado di promuovere l’omeostasi,

ottimizzando la sopravvivenza del tessuto. L’obiettivo è quello di fornire un supporto appropriato

(scaffold) in grado di favorire la sopravvivenza, la proliferazione e la differenziazione cellulare,

nonché una adeguata regolazione dell’apoptosi e dell’angiogenesi. (Nicholas M.N., et al. 2016).

Una parte importante dell’ingegneria dei tessuti è improntata alla ricerca e sviluppo di scaffold, che

Ad esempio, vengono sviluppati scaffold in grado di rigenerare la cute sfruttando i meccanismi

fisiologici che fanno parte della rigenerazione tissutale. Questi devono però rispettare

caratteristiche fisiche e biologiche del tessuto di riferimento come: dimensioni, porosità ed

elesticità, tipologia di collagene, fibrina, ecc (Corin K.A. et al. 2010; Dickinson L.E., et al. 2016).

Inoltre, il trapianto di cellule staminali e progenitrici, che può avvenire per iniezione diretta nella

ferita o per immissione nello scaffold, ha recentemente guadagnato interesse. Queste cellule sono

capaci, attraverso la chemotassi, di interagire con tutte le cellule attrici della rigenerazione della

ferita oltre che attivarsi verso una maturazione tessuto - specifica, allo scopo di ripopolare l’area

danneggiata. (Tenenhaus M., et al. 2016).

Purtroppo, ad oggi tutto ciò non ha ancora ottenuto i risultati sperati, ovvero ottenere dei materiali

in grado di rigenerare totalmente e completamente un tessuto sano e con caratteristiche fisiche e

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biologiche del tutto identiche a quelle fisiologiche. Nonostante siano stati comunque fatti passi

importanti verso questo obiettivo finale, ad oggi il trapianto autologo è l’unica tecnica ottimale per

risolvere chirurgicamente ferite gravi ed estese.

1.2) Processi infiammatori coinvolti

Un’ efficacie riparazione dei tessuti è fondamentale per la sopravvivenza di tutti gli organismi

viventi.

In una ferita la componente necrotica del tessuto e quella microbica provocano una reazione da

parte dell’organismo stesso che risponde al nome di risposta infiammatoria. Neutrofili, macrofagi,

cellule dendritiche e altre cellule residenti nel tessuto danneggiato vengono attivati da una serie di

segnali proveniente dalla sede del danno e la conseguenza è che le cellule attivate agevolano

l’infiammazione rilasciando fattori chemotattici e fattori di crescita, in modo da richiamare nella

sede della flogosi altre cellule del sistema immunitario. L’unico obiettivo comune è chiaramente

quello di riparare il danno, con la conseguenza finale di riportare il tessuto ad una condizione

fisiologica.

L'infiammazione è distinta da tre fasi che si susseguono, che comprendono un primo periodo pro-

infiammatorio (fase precoce), in cui elementi della risposta immunitaria innata promuovono il

reclutamento di altre cellule infiammatorie. Nella seconda fase, le proteine infiammatorie tendono

a diminuire, le cellule chiave come i macrofagi reagiscono contro gli agenti patogeni presenti nella

ferita commutando ad un fenotipo riparativo. Nella terza ed ultima fase, quando le cellule

infiammatorie escono dal sito di lesione o vengono eliminate mediante apoptosi viene ripristinata

l'omeostasi dei tessuti.

La risoluzione dell'infiammazione, al completamento della guarigione, non è un processo passivo.

Studi hanno suggerito che i neutrofili svolgono un ruolo attivo nella risoluzione dell'infiammazione,

andando a ridurre i fattori chemotattici che li hanno inizialmente attirati nel sito di ferita. (Serhan

C.N., et al. 2015).

Utilizzando un siero anti-macrofagi è stato evidenziato una compromissione della guarigione,

mentre nessun impatto è stato osservato quando i neutrofili sono stati bloccati. In studi su topi

adulti, nei quali le linee cellulari dell’immunità innata svolgono un ruolo critico durante la fase

iniziale del processo infiammatorio, proseguendo nelle seguenti fasi, mutano il loro ruolo e la loro

attività allo scopo di raggiungere una riparazione completa del tessuto (Duffield J.S., et al. 2005).

Nella cute l’esaurimento precoce dei macrofagi ostacola la normale granulazione e la formazione

di nuovo epitelio, l’esaurimento degli stessi provoca una riduzione del normale sviluppo di nuovi

vasi, con il conseguente rischio di emorragie. La drastica riduzione di questa linea cellulare nelle fasi

finali, invece provoca un’alterazione nella formazione della cicatrice (Lucas T., et al. 2010).

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Liu C. ha osservato mediante live imaging che nel cervello danneggiato di zebrafish i macrofagi

facilitano la formazione di vasi, inoltre, vanno a promuovere la riparazione di eventuali endoteli

danneggiati andando a posizionarsi tra i due margini della ferita (Liu C., et al. 2016).

Esistono macrofagi di diverso fenotipo, questo spiega perché in fase neonatale la rigenerazione del

tessuto avviene in modo da non provocare una formazione fibrotica, anzi il tessuto ritorna

totalmente alle condizioni originarie, e anche nei primi periodi successivamente al parto nel

neonato avviene qualcosa di molto simile in quanto i macrofagi embrionali derivanti sono ancora

presenti e attivi.

Questo non è vero per l’adulto, dove viene promossa la formazione di cicatrici, che in alcuni casi

come la riparazione del danno tissutale nel cuore adulto, non permettono di raggiungere una

riparazione ottimale in grado di riportare l’organo alle condizioni fisiologiche. È interessante notare

che l'inibizione di monociti, fonte dei macrofagi, migliora la riparazione cardiaca adulta (Lavine K.J.,

et al. 2014), Tuttavia, i dati hanno dimostrato che l'attivazione del macrofago è complessa e

influenzata da ontogenesi, fattori ambientali locali e cambiamenti epigenetici che consentono una

profonda riprogrammazione trascrizionale (Gomez Perdiguero E., et al. 2015).

Una problematica comune avviene al momento in cui si presentano disregolazioni funzionali dei

meccanismi alla base della rigenerazione tissutale e dei meccanismi infiammatori che la

compongono, favorendo una fibrosi di tipo patologico in grado in alcuni casi di interferire con le

funzioni normali del tessuto in oggetto (Wynn T.A., et al. 2012).

In questi casi i monociti e i macrofagi svolgono ruoli differenti nella riparazione del tessuto, coi i

primi che possono contribuire a lesioni tissutali collaterali, mentre la popolazione residente ha un

ruolo prettamente protettivo, mostrando attività anti-infiammatorie e pro-rigenerative. Tuttavia,

c'è una sostanziale sovrapposizione tra le due popolazioni. In alcuni tessuti danneggiati, ad esempio

lesioni tossiche di fegato, i monociti reclutati possono integrare o rimpiazzare i macrofagi residenti

che sono andati incontro a necrosi per la gravità del danno riportato (Wynn T.A., et al. 2016; van de

Laar L., et al. 2016).

Un altro attore che può essere responsabile di una formazione fibrotica eccessiva è il linfocita nella

risposta di tipo 2, che attraverso la produzione di IL-25 e IL-33 promuove fibrosi in vari organi, inclusi

pelle, polmoni e fegato (Vannella K.M., et al. 2016).

Alla base della comunicazione tra le varie tipologie di cellule presenti nell’area del danno tissutale

ed altre cellule richiamate in loco dal circolo sanguigno e da quello linfatico vi sono una serie di

molecole facenti parte dei fattori chemottatici e dei fattori di crescita. Tra questi il fattore di crescita

β (TGF- β) e le citochine di tipo 2 (IL-4; IL-13) possono essere causa, in condizioni specifiche, dello

sviluppo di tessuto fibrotico in seguito all’attivazione di una risposta ad un danno tissutale (Barron

L., et al. 2011). I macrofagi, una volta attivati da IL-4 e IL-13, sono importanti produttori di una

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varietà di fattori di crescita, tra cui TGF-β, fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF), fattore

di crescita derivato da piastrine (PDGF) (Wynn T.A., et al. 2016).

Inoltre, TGF- β1 promuove la riparazione del tessuto e la fibrosi con due meccanismi distinti. Evita

la produzione di mediatori pro-infiammatori, mentre contemporaneamente attiva i miofibroblasti

che facilitano la chiusura della ferita promuovendo depositi di collagene, che a volte possono

risultare eccessivi (Ferguson M.W., et al. 2004). Anche IL-13 presenta un comportamento simile in

quanto ha sia una funzionalità anti infiammatoria sia però una capacità di attivazione dei

miofibroblasti.

Infine, hanno un ruolo importante nella riparazione delle ferite altre cellule non collegate

direttamente alla risposta immunitaria, ma facenti parte comunque del meccanismo di riparazione

tra cui fibroblasti, cellule endoteliali, epatociti e varie cellule progenitrici. Proprio queste sono

emerse come obiettivi critici di segnalazione da parte di IL-4 e IL-13 successivamente a lesioni. Ad

esempio uno studio recente, che esplora i meccanismi di rigenerazione del fegato, ha dimostrato

che il recettore per IL-4 induce un segnale di proliferazione, successivamente ad una lesione, negli

epatociti, con gli eosinofili che forniscono l'IL-4 (Goh Y.P., et al. 2013).

Come già descritto, nella rigenerazione tissutale vi sono varie fasi necessarie: la produzione di

citochine e fattori di crescita, l’angiogenesi e la formazione di nuova ECM. In tutte e tre le fasi i

fibroblasti hanno un ruolo centrale, in quanto predominanti nel tessuto connettivo e responsabili

del deposito di componenti della membrana basale e dell'ECM, di conseguenza in grado di regolare

gli eventi associati al wound healing modulando la risposta immunitaria e mediando il wound

healing.

Avviene di conseguenza semplice quanto l’attività dei fibroblasti determina la risposta riparativa, il

completamento fisiologico della riparazione del danno tissutale o la fibrosi.

Rispondendo a citochine pro-infiammatorie prodotte dai macrofagi, vengono innescate

proliferazione e migrazione dei fibroblasti, che di conseguenza possono rinforzare la risposta

immunitaria locale mediante la produzione di citochine e di proteine extracellulari che possono

sviluppare la produzione di matrice (Bernardo M.E., et al. 2013). In questa fase i fibroblasti evolvono

il loro stato da pro-infiammatorio a rigenerativo promuovendo la sintesi di proteine e proteoglicani

della ECM, allo scopo di ristabilire la normale struttura tissutale (Karin M., et al. 2016). Un’errata

regolazione di questa interazione macrofagi-fibroblasti può però indurre un potenziale fibrotico nei

fibroblasti (Wynn T.A., et al. 2008).

Studi di lesioni in diversi organi hanno mostrato che l’inibizione dei macrofagi nelle varie fasi

specifiche dell’infiammazione interferiscono con le fasi successive e portano a riparazioni difettose

del tessuto bersaglio (Fiore E., et al. 2016; Klinkert K., et al. 2017; Perego C., et al. 2016).

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2) Microgravità

Lo studio degli effetti della µg sui processi biologici ebbe un grande impulso con l’inizio delle

missioni spaziali e con l’esigenza di garantire la sopravvivenza dell’uomo fuori dall’atmosfera

terrestre. Dagli anni ’60 iniziarono le missioni con equipaggio: i cosmonauti erano esposti a

condizioni di microgravità (µg), con risultati sconosciuti fino ad allora. I sintomi che venivano

riscontrati comprendevano nausea, mal di testa, letargia, vomito e malessere diffuso. Tutto questo

prese il nome di sindrome da adattamento allo spazio o SAS, più comunemente denominata mal di

spazio.

La conseguenza è stata che hanno preso campo studi rivolti a comprendere l’effetto della µg sui

processi biologici e sulla fisiologia umana. Infatti, l’assenza di gravità induce alterazioni funzionali

che causano problemi per la salute umana di carattere temporaneo a breve o lungo termine.

La µg è una condizione particolare nella quale un sistema è soggetto a un campo gravitazionale

minore di quello terrestre o, addirittura, tendente a zero. Ha notevole interesse in diversi settori

scientifici e tecnologici, evidenziando fenomeni che sulla Terra sono mascherati dagli effetti

dell’elevato campo gravitazionale.

Condizioni di µg si ottengono posizionando il sistema di cui si vogliono studiare le caratteristiche a

bordo di un veicolo spaziale la cui accelerazione av, sia quanto più prossima al valore locale

dell’accelerazione di gravità, g.

Applicando le trasformazioni di Galileo (per sistemi di riferimento non inerziali) l’accelerazione a₁

misurata nel sistema di riferimento del veicolo vale:

�⃗�₁ = �⃗� – �⃗�𝑣

moltiplicando entrambi i membri per la massa m del sistema e quindi applicando la seconda legge

di Newton si ottiene:

�⃗�₁ = 𝑚 𝑥 �⃗�₁ = 𝑚 (�⃗� − �⃗�𝑣)

che mostra che Il sistema subisce una forza peso F₁ che corrisponde ad un’accelerazione di gravità

prossima a zero.

A partire dagli organismi monocellulari fino ai mammiferi la vita sulla terra si è sviluppata ed evoluta

in presenza della forza di gravità terrestre. Non fa differenza l’uomo. Ad esempio il cuore, il nostro

muscolo più importante, “ha scelto” una posizione particolare data da una correlazione fra

pressione sanguigna e forza di gravità. Lo stesso vale per lo scheletro, che svolge il ruolo di

impalcatura per tutto l’organismo proprio allo scopo di potersi opporre alla forza di gravità

terrestre.

Già dagli anni ’80 i ricercatori hanno cercato risposte per ridurre i rischi a cui venivano sottoposti

gli astronauti, i quali nel periodo di permanenza fuori dall’atmosfera riscontravano: ridistribuzione

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dei fluidi, rallentamento del sistema cardiovascolare, ridotta produzione dei globuli rossi, un

indebolimento del sistema immunitario, disturbi del sonno e rigonfiamento facciale. Ritornati a

terra presentavano anche atrofia muscolare e deterioramento dello delle ossa.

Per effettuare un maggior numero di studi, sono stati sviluppati sistemi di simulazione della µg

come progettati macchinari e veicoli in grado di produrre simulazioni, come aerei in grado di

effettuare voli parabolici, che permettono di provocare una sensazione di perdita del peso corporeo

in fase discendente della parabola per circa 20-30 secondi. Vi sono poi sistemi in grado di simulare

la microgravità per studi su colture cellulari o piccoli animali.

2.1) Microgravita’: effetti biologici

L’assenza di gravità o microgravità, ovvero la condizione nella quale l’attrazione gravitazionale

terrestre è presente ma residua e tende a zero, è uno stato non fisiologico per il nostro organismo.

Proprio a questo proposito la medicina e la biologia hanno investigato sulle conseguenze

determinate dalla µg su tessuti, organi e singole linee cellulari, allo scopo di sviluppare

contromisure adatte ad opporsi a certe condizioni critiche che si possono presentare, in quanto

questo stato di alterazione delle funzioni fisiologico è, in alcuni modelli, paragonabile a condizioni

patologiche e a processi legati all’invecchiamento.

Molti studi hanno valutato l’effetto provocato dalla riduzione della forza di gravità sui sistemi

biologici cercando nuove contromisure specifiche ed efficaci.

Ad esempio, i muscoli scheletrici sono oggetto di studio dato che la loro funzione dinamica e

strutturale è tra le prime in evidenza a soffrire modifiche fisiologico-funzionali e l’atrofizzazione è

la prima conseguenza della µg. In uno studio, in seguito a valutazioni fatte su astronauti sono andati

a valutare la riduzione di massa muscolare di quadricipite e gastroecnemio, concludendo che

persino una breve permanenza di 15 giorni nello spazio può provocare un'atrofia muscolare

significativa (LeBlanc A., et al. 1995).

In un altro studio sono stati esaminati astronauti partecipanti a missioni di 16 e 28 giorni

rispettivamente con MIR e Shuttle. Hanno misurato riduzioni dei muscoli scheletrici dal 3% al 10%

già nella missione più breve, e da 5% a 17% nella più lunga. Queste atrofie si sono risolte

fisiologicamente in 30-60 giorni dal ritorno a terra. Oltre ad una ridistribuzione dei fluidi corporei

rilevata in entrambe le missioni, nella missione di 28 giorni è stata descritta anche una perdita di

minerale osseo del 3,4-3,5%, con il bacino che ne ha mostrato la maggior perdita, 13%. (LeBlanc A.,

et al. 2000). Il nostro scheletro in condizioni di µg perde alcune delle sue funzioni principali. Mentre

mantiene quella di protezione degli organi vitali, viene meno sia quello di impalcatura

dell’organismo, sia quella di serbatoio di calcio. Infatti, per ridurre glie effetti di osteopenia e la

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perdita di massa muscolare sono stati sviluppati dei tapis roulant capaci per mezzo di elastici di

creare una pressione all’astronauta che si esercita durante un periodo di camminata o corsa

(Fomina E., et al. 2017).

Anche in un breve periodo di adattamento alla µg i nostri reni eliminano il 60-70% in più di calcio.

La conseguenza è una riduzione della massa scheletrica e di conseguenza delle sue capacità

strutturali e di protezione (Schneider S.V., et al. 1994). un altro studio è stato assegnato agli

astronauti dell’International Space Station (ISS) un allenamento di 2,5 ore al giorno per 6 giorni a

settimana. Oltre al tapis roulant è stato aggiunto una serie di esercizi mediante un dispositivo

resistivo ARED (advanced resistive exercise device), che ha permesso di effettuare ulteriori 8

esercizi agli astronauti: squat, squat a gamba singola, pressa, sollevamenti per le braccia, tricipiti e

bicipiti (Smith S.M., et al. 2012).

Dopo 6 mesi nella ISS sono state effettuate delle analisi sugli astronauti: i muscoli gastrocnemio e

il soleo erano diminuiti rispettivamente del 10% e del 15% e la loro potenza di picco diminuita del

32%. Il volume muscolare era diminuito. L’utilizzo di questa strumentazione ARED ha migliorato

comunque i risultati ottenuti in passato mediante l’utilizzo del tapis roulant, di alcuni punti

percentuale la riduzione della massa muscolare della coscia con valori non risultati comunque

significativi (da 9-20% a 4-15%). Anche per quanto riguarda la riduzione della perdita di calcio dalle

ossa è stata ottenuta una riduzione in astronauti da -12% a livello del bacino e dell’anca

(Gopalakrishnan R., et al. 2010; Smith S.M., et al. 2014).

Quindi, si evince che per eliminare le problematiche muscolo scheletriche, ma anche

cardiovascolari prodotte dallo stress prodotto dalla µg, non sono sufficienti miglioramenti delle

tecniche di training degli astronauti, ma, anche se efficaci, devono essere coadiuvate da altri studi

per contromisure ancora più complete.

Questi risultati appena descritti parlano di condizioni fisiologiche in un ambiente ostile per l’uomo,

ovvero lo spazio, ma sono facilmente accomunabili a condizioni patologiche che si possono

presentare a terra nella popolazione come l’osteoporosi. Questo a sottolineare le possibilità di

ricadute di questi studi sulla comunità, che a prima vista potrebbero sembrare indirizzate

solamente alla salute degli astronauti.

Oggetto di studi è anche il sistema cardiovascolare, che oltre a svolgere un ruolo chiave per

l’organismo, ha un’organizzazione strutturale completamente determinata dalla presenza della

forza gravitazionale terrestre. Non è ovviamente un caso la posizione del cuore rispetto al corpo

umano e la sua capacità di contrazione è direttamente correlata alla distanza dalle estremità

inferiori e alla distanza dal sistema nervoso centrale. SI ha una variazione di pressione idrostatica

anche quando un uomo passa dalla posizione eretta ad una posizione di riposo supina, con un

conseguente calo dei battiti cardiaci al minuto.

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Questi accorgimenti sviluppati durante l’evoluzione vengono stressati in condizioni di µg

(Watenpaugh D.E., et al.1996). Il problema non si limita solamente al cuore, ma anche a tutti il

sistema vascolare, che sfrutta le pressioni e la forza di gravità per irrorare di ossigeno e nutrienti,

attraverso il sangue, tutto l’organismo. A livello intraoculare si hanno forti aumenti di pressione che

possono arrivare al 90% rispetto a terra (Draeger J., et al. 1995). Il cuore tende ad aumentare il suo

volume temporaneamente per la variazione delle pressioni agenti sui fluidi (Buckey J.C.Jr, et al.

1996). Il muscolo cardiaco è stato dimostrato subire una riduzione della massa dell’8-10% in

missioni spaziali di 28 giorni, paragonabile a test di bed rest, ovvero a soggetti sani che rimangono

per periodi medio-lunghi fermi in posizione supina in un letto (Perhonen M.A., et al. 2001).

La necessità di capire le problematiche legate alla sopravvivenza degli organismi terrestri in

condizioni di ridotta attrazione gravitazionale non si è limitata a studi effettuati sugli astronauti,

bensì molti studiosi hanno volto la loro attenzione sugli effetti provocati dalla µg su linee cellulari

specifiche o su campioni di singoli tessuti, sui quali l’assenza di forze meccaniche provocata dalle

condizioni presenti nello spazio provocano variazioni importanti a livello strutturale e anche

metabolico, influiscono sulla proliferazione e sulla differenziazione di cellule tessuto specifiche e su

cellule staminali adulte (Blaber et al.2014).

In collegamento con i risultati riguardanti l’apparato muscolo scheletrico sopra elencati ottenuti

sugli astronauti, attraverso vari esperimenti hanno determinato che la µg inibisce la

differenziazione, le funzionalità e la proliferazione degli osteoblasti (Landis W., et al. 2000; Hughes-

Fulford M., et al. 1996).

Un altro studio su cellule progenitrici di midollo CD34+ ne ha rilevato un decremento del numero

totale nei campioni sottoposti a condizioni di µg, una riduzione dell’eritropoiesi e un aumento della

differenziazione in macrofagi (Davis T.A., et al. 1996).

L’organismo umano subisce modificazioni al suo equilibrio dinamico a causa della µg, ciò riguarda

anche le fasi del wound healing. Questo risulta un importante aspetto legato al rischio di subire

danni traumatici in cui possono incorrere in primis proprio gli astronauti.

Alcuni risultati mostrano, nelle prime fasi successive al danno tissutale, un’alterazione della

capacità di adesione delle piastrine, un aumento della pressione sanguigna e di conseguenza

l’aumento del rischio emorragico in condizioni di µg (Cooke W.E., et al. 2005).

Risultati contrastanti però indicano la possibilità di un aumento anche del rischio trombotico (Rowe

J.W. 1998). I ricercatori hanno mostrato un aumento della viscosità del sangue e del suo volume,

un incremento del rilascio delle catecolammine e aumenti dell’anione superossido (Watenpaugh

D.E. 2001; Markin A., et al. 1998)

Durante i voli spaziali, nella fase infiammatoria del wound healing vengono implicati importanti

mediatori: PDGF, EGF e TGF-β. Alcuni studi hanno dimostrato che l’espressione del recettore del

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EGF viene alterata, riducendone il segnale (Rijken P.J., et al.1994). La down-regolazione avviene per

la produzione di TGF-β, con una conseguente riduzione della matrice extracellulare prodotta, e per

la trascrizione del recettore per PDGF (Akiyama H., et al. 1999). Sommando questi dati si può intuire

che è altamente probabile che i fattori di crescita correlati all’infiammazione, dovuta alla risposta

ad un trauma o una ferita, siano alterati nella loro funzione con la conseguenza di un rallentamento

della fase infiammatoria stessa.

Inoltre, altri studi riportano una riduzione della migrazione di neutrofili e monociti dal sangue

periferico nell’area della ferita (Taylor G.R., et al. 1986). I linfociti T mostrano un’inibizione

dell’attivazione dei fattori trascrizionali di alcuni geni (Simons D.M., et al. 2006).

Un altro effetto dovuto all’assenza di gravità dimostrato è una riduzione della produzione delle

citochine da parte delle cellule della risposta infiammartoria adattativa. La secrezione di IL-2 è quasi

completamente inibita (Licato L.L., et al. 1999). Tuttavia, pur essendo un induttore del IL-6,

quest’ultima incrementa nell’area della ferita. Anche IL-2 e il suo recettore vengono

significativamente soppresse in µg (Berry W.D., et al. 1991).

Si può concludere che la µg induce delle variazioni a livello di tutte le fasi del wound healing,

alterando l’espressione di vari fattori fondamentali di tale processo agendo anche sulle capacità di

proliferazione e differenziamento delle cellule protagoniste della risposta al trauma.

3) Campi Elettro Magnetici CEM

3.1) Campo Elettrico

La carica elettrica è una proprietà fondamentale della materia, definita in fisica come una grandezza

scalare, misurata in Columb nel S.I., che può assumere segno positivo o negativo e che, per qualsiasi

corpo, è sempre multiplo della carica elementare pari a quella dell’elettrone. Una carica puntiforme

è un corpo assimilabile ad un punto con una carica elettrica diversa da zero, come l’elettrone stesso

oppure uno ione.

Se in una regione dello spazio è presente una carica elettronica q₁, un’altra carica q₂ posta ad una

certa distanza r da essa risentirà di una forza attrattiva o repulsiva a seconda che le due cariche

siano rispettivamente di segno opposto o uguale. L’intensità della forza elettrica che ciascuna carica

esercita sull’altra è descritta dalla legge di Columb, e vale nel caso di due cariche puntiformi:

F = k q₁ q₂ r / r² (F forza elettrica; q₁ q₂ cariche puntiformi; K costante di Coulomb; r distanza fra le

due cariche).

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L’intensità della forza è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra le due cariche

puntiformi. Dividendo la forza a cui è sottoposta q₂ per la carica di q₂ stessa, si ottiene una

grandezza vettoriale definita come CE, generata da q₁, nel punto in cui viene spostata q₂:

E = F / q₂ (E è CE; q₂ carica puntiforme; F forza agente su q₂)

Il CE in un punto è quindi definibile come la forza elettrica per unità di carica in quel punto; l’unità

di misura nel S.I. è Newton/Coulomb (N/C) e la sua intensità si misura in Volt al metro (V/m).

In generale i CE sono grandezze vettoriali che rappresentano una proprietà dello spazio circostante,

generati da una o più cariche elettriche. Un’ altra carica posta in qualsiasi punto in cui il campo non

sia nullo risente della presenza del campo. Questa interazione si traduce in una forza attrattiva o

repulsiva verso la sorgente del campo, secondo la legge di Coulomb.

Si trova quindi che il CE generato da una carica puntiforme q è un vettore E diretto lungo le rette

che escono dalla carica, orientato verso la carica stessa se essa ha segno negativo ed in verso

opposto se ha segno positivo, in un punto distante da r da essa, ha intensità:

E = K (q / r²) (E è CE; k costante di Coulomb; q carica puntiforme; r distanza fra il punto considerato

e la carica q).

Le linee di campo sono linee che in ogni punto dello spazio sono tangenti al vettore CE in quel punto

e per cariche puntiformi sono rette radiali. Esse sono sempre linee aperte, nel senso che hanno

sempre origine o su una carica positiva o all’infinito, e finiscono sempre o su una carica negativa o

all’infinito: non si chiudono mai su se stesse.

L’interazione elettrica dipende in modo determinante dalla natura del mezzo in cui si esplica.

Questo può essere: un conduttore, al cui interno le cariche sono libere di muoversi, o un isolatore,

nei quali le cariche rimangono ferme anche se sottoposte ad un CE esterno.

Se all’interno del conduttore si genera un CE, le cariche libere si muovono, generando una corrente

elettrica costituita da un flusso di cariche elettriche in una direzione fissata.

Nei conduttori elettrolitici la corrente elettrica è costituita da un doppio flusso di ioni di segno

opposto, quelli positivi nel verso del campo e quelli negativi nel verso opposto.

L’intensità della corrente elettrica (i) è definita come:

I = Δq/Δt

Ovvero rappresenta la quantità di carica che attraversa la sezione di filo conduttore nell’unità di

tempo.

Nel S.I. l’intensità di corrente si misura in Ampere (1A = 1 Coulomb x 1S -1)

Nello studio della corrente elettrica, rivestono particolare importanza due tipi di corrente: continua

ed alternata.

La corrente continua circola sempre nello stesso verso ed è costante. La corrente alternata è

generata invece da una differenza di potenziale che oscilla, cambiando periodicamente segno. In

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questo caso le cariche si muovono alternativamente in un verso e nell’altro, quindi il verso della

corrente varia nel tempo.

3.2) Campo Magnetico (CM)

Come esistono due tipi di cariche elettriche (positive e negative) esistono due tipi di polarità

magnetiche: esse si indicano con N e S (Nord e Sud), ma non esistono cariche magnetiche separate.

Esiste un profondo legame fra fenomeni elettrici e magnetici: l’azione meccanica che una corrente

esercita su un dipolo magnetico (forze, momenti di forze) risulta in funzione dell’intensità della

corrente stessa e della distanza fra il magnete ed il circuito in cui la corrente circola.

Un altro importante fenomeno da considerare riguarda il fatto che un CM variabile è capace di

indurre una corrente in un conduttore (corrente indotta).

Un esempio è il solenoide, ovvero un filo conduttore avvolto in spire circolanti e parallele. In questo

caso il CM che si forma, quando nel solenoide scorre una corrente, è diretto secondo l’asse del

solenoide. Se viceversa sottoponiamo ciascuna spira ad un’induzione magnetica variabile si ottiene

una tensione indotta nella spira di ampiezza proporzionale alla variazione del flusso di induzione

magnetica, concatenato con la spira stessa, e inversamente proporzionale al tempo in cui la

variazione è avvenuta. Di conseguenza avremo nel solenoide l’insorgere di una corrente indotta.

L’unità di misura dell’induzione magnetica nel S.I. è il Tesla (T).

3.3) Onde Elettromagnetiche

Le onde elettromagnetiche sono parte integrante dell’ambiente in cui viviamo e la loro origine può

essere artificiale come per le onde radio e per le telecomunicazioni o naturale come per la luce

visibile o per i raggi cosmici. I parametri caratterizzanti un’onda elettromagnetica son la frequenza

o periodo, la lunghezza d’onda, la velocità di propagazione e l’intensità.

Vengono costituite da un fenomeno ondulatorio dovuto alla contemporanea propagazione di

perturbazioni periodiche di un CE e un CM oscillanti in piani tra loro ortogonali.

Le onde elettromagnetiche vengono classificate in base alla frequenza: la prima importante

classificazione riguarda la divisione in radiazioni ionizzanti, e non ionizzanti. Le prime si considerano

frequenze maggiori di 3x1015 Hz e per la loro elevata energia hanno la proprietà di ionizzare

molecole ed atomi, mentre le seconde, al contrario, non hanno energia sufficiente a separare gli

elettroni dalle orbite esterne degli atomi.

Sempre in base alla frequenza, fra le radiazioni non ionizzanti distinguiamo: le onde

elettromagnetiche ad alta frequenza RF (Radio Frequency), tra 30 KHz e 300 Mhz, generate ad

esempio da ripetitori radio-TV e dai sistemi di telefonia mobile, e le onde elettromagnetiche a

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frequenza estremamente bassa ELF (Extremely Low Frequency), la cui frequenza è composta fra 0

e i 300 Hz, prodotte in modo naturale dagli organismi viventi e dai CM terrestri.

3.4) Risonanza ionica ciclotronica

La risonanza ciclotronica (RIC) è un fenomeno correlato al movimento degli ioni nel CEM. La RIC

consiste nel movimento a spirale delle particelle cariche quando queste aumentano la loro energia

sotto l’azione di un CEM di appropriata frequenza ed intensità. Se esponiamo un sistema vivente

ad un segnale elettromagnetico molto debole, ma opportunamente sintonizzato, come accade ad

una radio con la frequenza di riferimento, questo potrebbe interagire in risonanza con una normale

funzione biologica che sviluppa deboli correnti alternate endogene a quella frequenza. In

letteratura sono ampiamente riportati gli effetti dei CEM-ELF con caratteristiche molto specifiche

quali la frequenza, l’intensità e la forma d’onda, osservati in vitro. Variando anche di poco questi

parametri l’effetto non è più rilevabile. Ad esempio, Gaetani R., et al. testano se l’utilizzo di CEM-

ELF applicati alla frequenza di risonanza ionica ciclotronica del calcio inducano la differenziazione

di cellule cardiache staminali. Nello studio, grazie al fenomeno della risonanza ottengono effetti

sulle cellule utilizzando intensità bassissime, nel range di microtesla e frequenze a 7Hz, in modo da

osservare effetti dovuti solamente ai CEM e non al riscaldamento cellulare (Gaetani R., et al. 2009).

3.5) Campi elettromagnetici e sistemi biologici

Gli organismi viventi sono sistemi elettrochimici complessi che si sono evoluti in un mondo in cui

sono presenti molteplici stimoli chimici e fisici diversi. Una delle proprietà del nostro ambiente è

quella di essersi evoluto sotto l’influenza di CEM naturali. L’esempio più rappresentativo è il sistema

visivo: l’occhio è un complesso meccanismo biologico deputato alla ricezione dell’intervallo visivo

dello spettro magnetico. Inoltre, l’occhio è dotato di sistemi filtranti che lo proteggono dai raggi UV.

Le interazioni elettromagnetiche sono utilizzate da una grande varietà di organismi, compreso

l’uomo, per regolare funzioni cellulari critiche come i ritmi circadiani e le funzioni di membrana dei

neuroni. Tutte le macromolecole biologiche sono sottoposte a forti condizionamenti magnetici: le

proteine devono la loro conformazione e il loro folding, quindi la loro funzione, a specifiche forze

magnetiche interne, così come le loro interazioni molecolari dipendono dallo stesso tipo di forze.

Quindi, i CEM sono percepiti dalle cellule e dagli organismi viventi e di conseguenza possono indurre

effetti biologici.

Le frequenze dei CEM presenti all’interno del nostro corpo sono inferiori ai 300 Hz e appartengono

quindi alla categoria delle frequenze estremamente basse. Inoltre, quando ci riferiamo ai CE

endogeni, non dobbiamo considerare solo quelli statici ma negli organismi viventi, dato che tutte

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le molecole cariche sono in costante movimento, dobbiamo considerare che sono presenti

soprattutto correnti elettriche indotte che a loro volta generano CM indotti (legge di Faraday).

Viceversa, componenti magnetiche inducono CE, così da affermare che in biologia possiamo parlare

di CEM in cui la parte elettrica è inscindibile da quella magnetica.

In letteratura non sono riportati molti studi su CEM endogeni ma troviamo maggiori informazioni

sulle misure della componente elettrica rispetto a quella magnetica perché più preponderante e

più facile da misurare. Inoltre, se i CE agiscono preferenzialmente sulla membrana cellulare e sulle

molecole presenti in essa, i CM penetrano in profondità, influenzano le reazioni biochimiche, i

patway cellulari e gli strati più profondi dei tessuti, diversamente da quelli elettrici che sono

schermati dalle proprietà dielettriche della membrana. Questo rende le loro misurazioni molto più

complesse.

Studi effettuati sia in vitro che in vivo, sugli effetti biologici dei CEM, hanno prodotto dimostrazioni

della loro efficacia in ambito biologico: è stata studiata la cinetica della differenziazione e della

proliferazione cellulare (Kim S., et al. 2010) l’aopotosi e l’espressione genica (Nikolova T., et al.

2005), la variazione di alcune attività enzimatiche (Paturno A., et al. 2010) e la concentrazione dei

secondi messaggeri come l’inositolo 3-fosfato (Korzh-Sleptsova I.L., et al. 2005). Vengono inoltre

riportati studi clinici sull’apparato muscolo-scheletrico (Morabito C., et al. 2010).

Durante il wound healing nuovi campi elettromagnetici vengono generati immediatamente nel sito

della ferita: è possibile che i CEM siano il primo segnale che le cellule del tessuto epiteliale ricevono

per iniziare la migrazione verso il sito in cui è avvenuta l’alterazione. Il segnale elettromagnetico

può durare fino a diverse ore e inviare segnali a cellule distanti fin od 1 mm dalla ferita. Dopo la

completa riepitelizzazione il segnale si interrompe (Mc. Gaig et al, 2005). Mc Gaig afferma che

“Forse, sia le singole cellule che i tessuti usano le correnti elettriche generate istantaneamente nelle

ferite come segnali per sigillare rispettivamente una membrana o una ferita”. Dallo studio di Adams

2007 risulta evidente come durante la rigenerazione della coda (corda spinale, muscoli e vasi) di

Xenopus si attivi una pompa H+ che modifica il potenziale di membrana, meccanismo necessario e

addirittura sufficiente per attivare il processo. Dopo l’amputazione, vi è una depolarizzazione della

membrana ma dopo 24h avviene una ripolarizzazione attraverso l’attività di una pompa V-ATPasi.

Adams dimostra che l’up-regulation della funzionalità della pompa durante la rimarginazione è

dovuto a una aumentata produzione di mRNA e di proteine in un tempo di circa 6 ore

dall’amputazione, evento che indica come questo sia uno dei primi meccanismi a essere messi in

atto per ripristinare la funzione fisiologica del tessuto. Chiffelet et al. riportano che una

depolarizzazione aspecifica del potenziale di membrana delle cellule epiteliali in caso di una ferita

promuove il riarrangiamento della morfologia del citoscheletro (Chiffelet S., et al. 2005). Anche

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Grasso et al. affermano che basse correnti endogene partecipano all’orientamento dei filamenti di

actina influenzando così la migrazione cellulare (Grasso S., et al. 2007).

La divisione cellulare in vivo è favorita dai CEM: così campi endogeni, in condizioni fisiologiche,

agiscono sulle cellule regolando la formazione del fuso mitotico, l’allineamento dell’asse di divisione

cellulare e, attraverso questo meccanismo, il posizionamento spaziale delle cellule figlie (Mc Gaig

C.D., et al. 2005).

I CM agiscono anche sull’orientamento di macromolecole: sono riportati effetti sul collagene

stimolato ad alte intensità (1T) (Torbet J., et al. 1984). Inoltre, l’orientamento di fibroblasti è

modificato dall’azione che i CM (4T - 4.7T) hanno sul collagene (Guido S., et al. 1993). Altri autori

(Kotani H., et al. 2000) riportano comunque un’azione dei CM (8T) sull’orientamento degli

osteoblasti in assenza di collagene. Per quanto riguarda la migrazione cellulare Iwasaka M., et al.

dimostrano che le cellule muscolari lisce in vitro si allineano parallelamente alle linee di campo

(Iwasaka M., et al. 2003), ipotizzando il seguente meccanismo: i CM agiscono con forza torcente

diamagnetica sulle proteine del citoscheletro, che si assemblano e disassemblano sia durante la

migrazione sia durante la divisione cellulare. Altri autori (Dini 2005) riportano effetti di CEM sulla

morfologia cellulare causati dall’incremento della concentrazione dello ione Ca++ durante

l’esposizione (Dini L., et al. 2005). Questi cambiamenti nella morfologia cellulare derivano dalla

riorganizzazione degli elementi del citoscheletro. A seconda della durata del trattamento, nelle

cellule si formano strutture costruite da filamenti di actina che inducono la formazione di

protrusioni della membrana citoplasmatica (ad un trattamento di maggior durata corrisponde un

effetto maggiore); al contrario, i microtubuli presentano una minor organizzazione strutturale,

probabilmente a causa della variazione della concentrazione del calcio intracellulare e

dell’alterazione dello stato di fosforilazione-defosforilazione delle proteine del citoscheletro.

In uno studio effettuato nel nostro laboratorio, un campo elettrico di bassissima intensità (1mT)

modifica la struttura dei filamenti di actina: promuovendo la formazione di fibre di stress e

aumentando l’espressione della proteina. Inoltre, viene indotto un aumento dell’espressione della

tubulina e vengono determinate ridistribuzioni dei microtubuli (Sereni F., et al. 2013). Lisi et al.

hanno riportato che l’esposizione a CEM di 50 Hz e di 2 mT promuove la differenziazione di cellule

nervose: durante l’esposizione aumenta il livello di calcio intracellulare e diminuisce quello del pH

(Lisi A., et al. 2006).

Studi in vitro hanno dimostrato che i CEM inducono un effetto osteogenico in osteoblasti di ratto e

la trascrizione dell’mRNA di proteine BMP-2 e BMP-4 correlate alla formazione ossea (Bodamyali

T., et al. 1998) Trattamenti combinati con BMP-2 e CEM hanno effetti additivi sulla proliferazione e

differeziazione osteoblastica (Selvamurugan N., et al. 2007).

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3.6) Applicazione di campi elettromagnetici: effetti terapeutici

La magneto terapia è ampiamente usata per la riabilitazione post operatoria e per le ferite cronche

favorendo la riduzione del dolore e velocizzando il processo di guarigione (Markov M.S., et al. 2007;

Morris C., et al. 2005).

A riguardo del wound healing i CEM attraverso l’incremento del flusso ematico in modo localizzato

stimolano il processo di guarigione, migliorando lo stato ischemico del tessuto. La stimolazione

incrementa la deposizione di collagene, aumenta il flusso ionico, la produzione di ATP, la sintesi di

proteine, la proliferazione e la migrazione (Markov M.S., et al. 2007).

Molti studi riportano effetti benefici dei campi per quanto riguarda l’incremento della circolazione

sanguigna, la stimolazione del sistema immunitario ed endocrino, ulcere, emicranie e malattie

degenerative dei nervi. E’ comunque da sottolineare che CEM usati con diversi parametri e

condizioni di esposizione producono diverse risposte biologico nello stesso tipo di tessuto. Nella

rivascolarizzazione, è stato osservato che CEM pulsati testati su conigli velocizzano la guarigione dei

tessuti attraverso l’incremento dello sviluppo della vascolarizzazione (Greenough C.G., et al. 1992).

Roland et al. hanno riportato lo stesso effetto su topi suggerendo l’uso dei CEM per la

rivascolarizzazione dei tessuti (Roland et al. 2000). L’applicazione localizzata dei CEM pulsati

aumenta la vasodilatazione arteriolare nei muscoli di ratto (Smith T.L., et al. 2004). La terapia ha

dimostrato migliorare anche la microcircolazione in pazienti anziani affetti da arteriosclerosi

(Markov M.S., et al. 2007). Molti studi riportano effetti benefici sulla riduzione del dolore in pazienti

affetti da diverse patologie quali ad esempio la fibromialgia (Paolucci T., et al 2016) e la neuropatia

diabetica (Mert T., et al. 2015).

Non sono stati riportati effetti collaterali riguardo alla terapia che risulta essere non invasiva e poco

costosa. Quindi, dati sperimentali e clinici dimostrano che i CEM-ELF esogeni hanno un profondo

effetto sui sistemi biologici. I dati in vitro suggeriscono un’influenza su morfologia e funzioni

cellulari. Gli studi sugli effetti biologici dei campi elettromagnetici sono essenziali per progredire

nelle applicazioni dalla magnetoterapia a livello sistemico.

4) Il Laser

Laser è l'acronimo inglese di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, ovvero

Amplificazione di Luce tramite Emissione Stimolata di Radiazione. Questa sigla indica un dispositivo

in grado di emettere un fascio di luce coerente e monocromatico, concentrato in un raggio

rettilineo estremamente collimato. Inoltre la luminosità (brillanza) delle sorgenti laser è

elevatissima a paragone di quella delle sorgenti luminose tradizionali. Le applicazioni sono svariate,

i laser ad elevata potenza possono essere utilizzati per il taglio, l’incisione e la saldatura di metalli,

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mentre quelli a bassa potenza sono ampiamente utilizzati nei campi della medicina sportiva,

fisiatrica e riabilitativa ed anche per stimolare la rigenerazione dei tessuti; la monocromaticità e

coerenza li rende ottimi strumenti di misura di distanze, spostamenti e velocità anche piccolissimi,

dell'ordine del millesimo di millimetro.

4.1) Principi Fisici

Un'emissione di onde elettromagnetiche simili al laser non esiste in natura; i quanti di energia o di

fotoni vengono naturalmente emessi dagli atomi a seguito dell'eccitazione degli elettroni, che si

spostano su orbite energetiche più elevate. Gli elettroni eccitati tendono poi a tornare a un livello

energetico più basso e più stabile in un tempo assai breve (tra il nanosecondo e il millisecondo);

questo successivo fenomeno si manifesta con l'emissione di un fotone o la produzione di calore.

La teoria su cui si basa il laser dice che se un fotone interagisce con un atomo già eccitato lo induce

a produrre un altro fotone, ottenendo 2 fotoni identici. Se questo fenomeno viene moltiplicato da

un’adeguata stimolazione energetica, nell'ambito di un sistema atomico omogeneo, si realizza

un'emissione di numerosi fotoni tutti uguali tra loro, coerenti per energia e frequenza. Le

caratteristiche della radiazione laser sono: la direzionalità, cioè l’emissione della radiazione è in

un’unica direzione al contrario delle sorgenti tradizionali. Più precisamente l'angolo solido sotteso

da un fascio laser è estremamente piccolo. La monocromaticità, (radiazione caratterizzata da una

sola lunghezza d’onda) che è una peculiarità dipendente essenzialmente dalla sorgente che ha

generato la radiazione laser. La brillanza, che nei laser è la quantità di energia emessa per unità di

angolo solido ed è incomparabilmente più elevata rispetto alle sorgenti tradizionali. In particolare,

è elevato il numero di fotoni per unità di frequenza. La coerenza, ovvero il fatto che le onde

elettromagnetiche sono tutte in fase tra loro, presentano cioè gli stessi punti nodali, e dunque non

interagiscono nel tempo e nello spazio. L'irradiazione è composta da onde assolutamente identiche

sia in senso energetico che temporale.

4.2) Generatori di luce laser

Sono composti da quattro elementi di base:

mezzo attivo: è costituito da sostanze che, opportunamente eccitate, realizzano l'inversione della

popolazione elettronica e generano il fascio fotonico. La composizione del mezzo attivo, che può

essere gassoso, liquido, solido o plasma, determina la lunghezza d'onda della radiazione.

sistema di pompaggio: rifornisce il mezzo attivo dell'energia necessaria per creare lo stato di

eccitazione atomica per l'inversione della popolazione;

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sistema di risonanza: le radiazioni che si generano nel mezzo attivo si riflettono ripetutamente nelle

facce piane a specchio di un cilindro;

sistema di collimazione: è il dispositivo che determina la forma finale del raggio laser, cioè lo “spot”;

Inoltre, i laser hanno la particolarità di poter emettere in modalità continua, dove la radiazione

viene emessa in modo costante per tutto il periodo di erogazione o in modalità pulsata con gli

impulsi che possono essere emessi con una frequenza assai varia (es. da 1 a 20000 Hz). Nei laser

pulsati si deve tener conto della durata dell’impulso, della potenza media e della potenza di picco.

4.3) Parametri

I parametri principali sono la lunghezza d’onda, lo spot size, tipo di emissione (continua o pulsata),

la fluenza e la potenza. Il primo parametro è alla base della tipologia di laser utilizzato e può essere

scelto anche in base al materiale irradiato, come ad esempio può avvenire per un tessuto organico.

Il secondo è l’area di distribuzione della radiazione laser sul bersaglio, da esso dipendono due

grandezze importanti per il trattamento, la densità di potenza e la densità di energia, correlate tra

loro dal tempo di erogazione. Il terzo parametro solitamente varia in base all’utilizzo, la potenza è

l’energia espressa nell'unità di tempo (Watt), essa è determinata dal livello energetico dei fotoni

emessi. Si distinguono: la potenza di picco che consiste nel più alto livello di potenza raggiunto

dall'impulso, e la potenza media, ovvero il valore medio della potenza espressa durante il tempo

attivo di tutti gli impulsi emessi nell'unità di tempo. La densità di potenza indica la potenza per unità

di superficie, e per il laser è il rapporto tra la potenza e la dimensione dello spot su cui si distribuisce

il fascio luminoso. L’energia invece è la potenza erogata nel tempo. Si distingue l'energia totale

dall'energia per unità di superficie, detta densità di energia.

4.4) Applicazioni del laser in campo bio-medico

Fin dall’antichità l’uomo aveva intuito l’importanza della luce solare e i suoi effetti benefici. Durante

lo sviluppo della società e delle sue conoscenze è divenuta sempre più chiara l’interazione tra luce

e benessere, che ha mantenuto nel tempo un’importanza assai rilevante. All’inizio del XX° secolo la

scienza ha intuito la possibilità di utilizzare l’interazione luce-tessuti in molte applicazioni cliniche.

Ad oggi, è rilevante l’utilizzo delle lunghezze d’onda del rosso e dell’infrarosso in campo medico e

le sorgenti attualmente usate sono generalmente laser, per la versatilità nelle diverse applicazioni.

In base alla potenza esiste una classificazione dei laser suddivisa in quattro fasce, che vanno da:

completamente innocui (<0,04mW) a pericolosi (laser industriali per il taglio di metalli) (<500mW).

Per quanto riguarda la lunghezza d’onda, è importante sottolineare che la finestra terapeutica 600-

1200 nm è un intervallo scarsamente assorbito a livello superficiale, che riesce a penetrare in

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profondità. La minor interazione con la gran parte dei cromofori endogeni fa sì che i fotoni emessi

penetrino fino agli strati tissutali più profondi (si ritiene teoricamente possibile circa 3-4cm) oltre i

quali la radiazione viene totalmente assorbita. Mano a mano che la radiazione penetra nel tessuto

perde di intensità con un andamento esponenziale (legge di Lambert-Beer). Questi laser con

emissioni nella finestra dell’infrarosso vengono considerati ideali per il trattamento delle strutture

biologiche collocate da 0,5 a 3 cm di profondità, come ad esempio il muscolo, i tendini e le giunzioni

muscolo tendinee.

L'energia assorbita da un tessuto posto ad una certa profondità ed esposto ad un raggio laser

dipende quindi dalla lunghezza d’onda (λ), dalla potenza (W), dalla modalità di erogazione della

potenza (PW o CW), dal tempo di esposizione e, infine, dalla superficie irradiata (spot). Tuttavia, le

interazioni della luce laser con i tessuti biologici dipendono anche da una serie di altri fattori, relativi

sia alle caratteristiche degli stessi tessuti sia alla radiazione luminosa.

I fenomeni ottici che si manifestano durante l’interazione tra luce e tessuti sono:

riflessione: un'aliquota della radiazione incidente viene riflessa e quindi non penetra nei tessuti. Per

minimizzare questo fenomeno, l'angolo del raggio incidente con il tessuto deve essere il più vicino

possibile a 90°;

trasmissione: indica la frazione di luce che si propaga attraverso il tessuto subendo lungo il percorso

una serie di fenomeni, quali la diffusione e l'assorbimento;

diffusione (scattering): particolare rifrazione a cui il raggio luminoso va incontro nei tessuti

sottocutanei. Lo scattering avviene in direzioni multiple, apparentemente casuali, in relazione alle

molecole con cui i fotoni si trovano ad interagire. I segnali di scattering vengono distinti in base alla

direzione che assumono:

o Forward scattering = solita direzione del laser

o backward scattering = opposta direzione del laser

o I fenomeni di diffusione sono influenzati notevolmente dall'indice di rifrazione del tessuto da

attraversare: più il tessuto è disomogeneo più lo scattering è evidente;

assorbimento: cessione dell'energia al tessuto. Dipende da molti fattori, in particolare da alcune

sostanze presenti all'interno dei tessuti, chiamate cromofori.

L’interazione tra la radiazione laser e i tessuti causa effetti importanti come:

Effetti fotochimici: si può verificare, successivamente all’assorbimento dell’energia radiante, un

riarrangiamento conformazionale o strutturale delle molecole e la formazione di nuove specie.

L’interazione fotochimica è molto selettiva e dipende dalla presenza nel tessuto di cromofori

endogeni. (sostanze normalmente presenti nei tessuti, come ad esempio molecole contenenti anelli

porfirinici) o esogeni (molecole somministrate/ immesse nei tessuti dall’esterno, come il rosa

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bengala ed il cardiogrin). A livello cellulare viene favorita l'attivazione enzimatica, l'incremento della

sintesi di acidi nucleici, delle proteine ed il turn-over metabolico;

effetti fototermici: il riscaldamento dei tessuti avviene per conversione dell'energia assorbita in

energia termica e si realizza a seguito delle vibrazioni e delle collisioni tra gli atomi eccitati. Gli effetti

del riscaldamento tissutale dipendono dall'intensità, dalla lunghezza d'onda e dal tempo di

esposizione alla radiazione;

effetti fotomeccanici: l'interazione tra un impulso luminoso ad alta energia e di brevissima durata

e un mezzo fisico, genera nel mezzo stesso la formazione di onde elastiche di pressione che si

propagano con la medesima direzione e verso dell'impulso che le ha generate. L'intensità di queste

onde è direttamente proporzionale alla potenza di picco dell'impulso ed inversamente

proporzionale alla durata dell'impulso stesso. Quindi, per ottenere onde pressorie valide, l'impulso

luminoso deve essere molto breve (<µs) e di elevata potenza di picco. Nel caso di laser con impulsi

>µs, bisogna comunque tener presente che gli effetti fototermici possono comportare effetti

fotomeccanici indiretti (dovuti per esempio a transitori cambiamenti di alcune proprietà della

matrice extracellulare).

4.5) Effetti terapeutici del laser

La letteratura è ricchissima di studi sugli effetti terapeutici dei laser.

Il laser ha un effetto anti-infiammatorio e anti-edemigeno perché è in grado di influenzare i

meccanismi della risposta infiammatoria a vari livelli. In clinica è stato rilevato che la

somministrazione di terapie laser porta ad una diminuzione della sintomatologia

dell’infiammazione avvertita direttamente dal paziente (Vladimirov Y.A., et al. 2004). Gli studi in

vitro hanno cominciato a far luce sui meccanismi molecolari e cellulari e i risultati hanno dimostrato

che la terapia laser può produrre cambiamenti dell’espressione di molecole pro e anti

infiammatorie. Ad esempio, Moriyama, et al. hanno dimostrato che l’espressione di iNOS (inducible

Nitric Oxide Synthases), di cui è noto il ruolo nel processo infiammatorio, viene up-regolata

(Moriyama Y., et al. 2004). In uno studio recente la terapia laser è utilizzata come potenziale

trattamento di dolore articolare o neuropatico cronico in modelli di iperalgesia, dove i ratti trattati

mostrano una riduzione del dolore che si conserva fino a 60 minuti dalle applicazioni (Micheli L., et

al. 2017).

Un altro effetto noto alla base di vari meccanismi del laser è l’antalgico. In seguito al trattamento

con un laser a diodi Ga-Al-As è stato descritto un blocco del potenziale d’azione nelle fibre nervose

periferiche (Jimbo K. et al., 1998), l’iperemia promuove il drenaggio delle sostanze algogene,

eliminando a monte le cause della sensazione dolorifica (Navratil L. et al., 2001; Ferreira D.M. et al.,

2005).

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La laser terapia ha anche una spiccata azione anti-edemigena, dovuta agli effetti sul microcircolo e

sui vasi linfatici e probabilmente sull’organizzazione e permeabilità degli endoteli (Baratto L., et al.

2010). Altro effetto ben documentato è l’effetto stimolante, che favorisce i processi di riparazione

e rigenerazione dei tessuti, grazie al contributo di vari fattori. La vasodilatazione, ad esempio,

aumenta l’apporto di nutrienti e di fattori di crescita. Tra questi ultimi, uno dei più importanti è il

fibroblast growth factor (FGF), che ha molteplici ruoli, tra cui quello di attivatore dei fibroblasti e

promotore dell’angiogenesi (Hudlicka. et al. 1992; Deveci et al. 2002). L’attivazione dei fibroblasti

determina un incremento di collagene, essenziale nella riparazione e rigenerazione dei tessuti

(Almeida-Lopes L. et al., 2001; Liu H. et al., 2008; Kovàcs, et al.1974). La neoangiogenesi è

indispensabile per assicurare l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive ai nuovi tessuti ed è

fortemente correlata al recupero muscolare (Hudlicka. et al. 1992; Deveci et al. 2002). Mioblasti

murini trattati con un laser IR hanno mostrato un aumento di MyoD, importante fattore di

maturazione, l’aumento di collagene e delle MMP (Vignali L., et al. 2011). In particolar modo nella

rigenerazione dei tessuti, processo biologico lento e complesso, effetti come l’aumento dei fattori

di crescita, la promozione dell’angiogenesi, la modulazione dell’infiammazione hanno una notevole

importanza in quanto partecipano al recupero del tessuto leso favorendo e regolando la

cicatrizzazione.

Alla base dell’effetto stimolante della radiazione laser è da evidenziare anche l’aumento della

produzione di ATP da parte dei mitocondri (Mochizuki-Oda N. et al., 2002; Kujawa J. Et al., 2004;

Oron U. et al., 2007). Inoltre, è ben nota la capacità di questi trattamenti di promuovere la

proliferazione (Tuby H. et al., 2007; Almeida Lopes L. et al., 2001; Moore P. et al., 2005; Chen C.H.

et al, 2008). Studi clinici sulla rigenerazione delle fibre nervose (Rochkind S., et al. 2001), hanno

dimostrato che viene accelerato il processo di riconnessione delle cellule nervose, rivitalizzando le

zone insensibili (Gigo-Benato D. et al., 2004; Rochkind S., et al. 2007). Altri studi hanno evidenziato

una riduzione dei tempi di guarigione delle ferite (Conlan et al., 1996) e delle fratture ossee (Al

Yaakobi et al., 1996). Nello specifico, in letteratura sono riportati alcuni studi sull’osso e sulla

stimolazione di osteoblasti, con aumento della loro attività e produzione di ECM in seguito al

trattamento con laser Nd YAG (Kim I.S., et al. 2010). Leonida A., et al. ha pubblicato studi su MSC e

osteoblasti in matrici 3D stimolate con laser Nd:YAG, concludendo che i campioni trattati hanno un

incremento della proliferazione rispetto ai controlli già a 7 giorni, mentre a 14 giorni evidenziano

un’aumentata differenziazione (Leonida A., et al. 2012).

La laser terapia può promuovere effetti biostimolanti su differenti linee cellulari, promuovendo

migrazione e proliferazione, nonché incrementare l’espressione dei fattori di crescita e l'attivazione

di patway cellulari coinvolti nella proliferazione stessa, nella sopravvivenza (Gao X., et al. 2009;

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AlGhamdi K.M., et al. 2012) e può anche modulare l'espressione di citochine infiammatorie (Basso

F.G., et al. 2015).

Tra le varie linee cellulari sensibili alla stimolazione laser i fibroblasti hanno mostrato subire un

aumento della proliferazione e della migrazione nel wound healing gengivale (Basso F.G., et al.

2012).

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Introduzione ai modelli sperimentali

5) In vitro: scratch assay

Lo Scratch Assay è una tecnica standardizzata largamente utilizzata proprio allo scopo di valutare la

migrazione di popolazioni cellulari su due dimensioni. Il saggio prevede una semina di cellule in

piastra in modo da ottenere un monostrato a confluenza parziale e di rimuovere un segmento di

cellule in modo meccanico, termico o mediante un danno di tipo chimico. Lo scratch, che può essere

di qualche millimetro, è l’area che verrà analizzata per studiare la capacità di migrare del campione

in esame.

Questa tecnica viene utilizzate per valutare diverse linee cellulari in contesti fisiologici o patologici

diversi, come ad esempio metastasi del cancro, la morfogenesi embrionale (Pouliot N., et al. 2000)

e la guarigione delle ferite (Reinhart-King C.A. 2008).

Le informazioni di base che si ottengono da questo saggio sono i tassi di chiusura dello scratch,

ovvero una misura di velocità da parte di un campione cellulare di invadere una superficie libera in

un intervallo di tempo. Solitamente un esperimento di Scratch Assay mette a confronto due cloni

cellulari, uno dei quali può essere stimolato o inattivato mediante stimoli di tipo fisico o di tipo

chimico, mentre il secondo funge da controllo. La differenza temporale ottenuta nella chiusura

dell’area da parte di entrambe i lembi dello scratch sarà il risultato finale. I dati possono essere

standardizzati e facilmente riproducibili.

La variabilità del saggio è data dai molti metodi che si possono utilizzare per effettuare lo scratch e

per esegure l’analisi dei dati, utilizzando immagini o time laps.

Per ottenere buoni risultati è fondamentale avere un alto livello di accuratezza e di riproducibilità

dell’esperimento. Ad esempio, risulta molto importante la dimensione dello scratch e soprattutto

la sua riproducibilità in termini di dimensioni paragonabili dell’area generata tra i singoli campioni

dell’esperimento.

I test di guarigione della ferita utilizzano solitamente linee cellulari standard o linee primarie isolate

da sangue o tessuto (Philippeos C., et al. 2012). Mentre per le prime i protocolli sono di facile

standardizzazione, per le linee primarie ogni laboratorio produce un proprio protocollo ottimale,

quindi la qualità del saggio dipende direttamente dalla professionalità degli operatori.

Se tutti questi aspetti vengono rispettati e riprodotti il risultato finale sarà uno sScratch Assay con

comparabilità e riproducibilità elevate.

Un altro aspetto che determina la qualità del saggio è la densità di semina e il tempo di incubazione

delle cellule. Questi due parametri influiscono sulla confluenza del monostrato cellulare, sulla base

dell’esperimento. Chiaramente, questa tecnica è vincolata alla linea cellulare utilizzata e all’utilizzo

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del clone specifico in base al numero di passaggi effettuati in piastra. Quindi è preferibile, per

aumentare la riproducibilità dei dati, usare campioni cellulari che siano ad uno stesso numero di

passaggi di piastra.

La valutazione della migrazione cellulare può tuttavia essere alterata dall’attività di proliferazione

delle stesse cellule. Per evitare questo falso positivo in molti lavori viene inibita la proliferazione,

ad esempio utilizzando farmaci come la actinmycin C (Reinhart-King C.A. 2008), in grado di arrestare

la mitosi, o la starvazione, una semplice tecnica non farmaceutica comunemente utilizzata che

riduce fortemente l’attività proliferativa del campione semplicemente riducendo al minimo la

quantità di siero fetale bovino presente nel terreno di cultura. Quest’ultima tecnica non può essere

utilizzata su linee cellulari primarie, in quanto esse non sopportano bene l’assenza di siero andando

in contro ad apoptosi.

Qualunque sia il metodo utilizzato, per manipolazione diretta o tramite l’utilizzo di inserti in

plastica, è importante notare che recenti ricerche suggeriscono che la geometria dello scratch

influenza il tasso di chiusura indipendentemente dall'uniformità della superficie di gap (Arciero J.C.,

et al. 2013; Vedula S.R., et al. 2012).

La prima tecnica è quella classica, viene effettuata manualmente dall’operatore utilizzando la punta

di una pippetta sterile, un ago o un altro strumento appuntito in grado di creare lo scratch. Risulta

molto importante inclinare correttamente la pipetta e applicare una pressione costante per creare

una larghezza di spaziatura coerente tra tutti i campioni (Straatman K. 2008). Questa tecnica non è

molto indicata nel caso di saggi che utilizzano matrici o comunque gel di supporto per la cultura

cellulare in esame, in quanto l'applicazione di troppa pressione può danneggiarle e di conseguenza

influenzare i tassi di migrazione (Hulkower K.I., et al.2011).

L’utilizzo di inserti ha effetti positivi evidenti sul saggio, in quanto permettono di ricreare in ogni

campione uno scratch omogeneo e costante grazie alla loro geometria. Il test di guarigione della

ferita viene avviato rimuovendo l'inserto. Va però mantenuta attenzione, le cellule possono aderire

all'inserto ed essere strappate dal monostrato al momento della sua rimozione, lasciando i bordi

frastagliati. Inoltre, può verificarsi una perdita di adesione dell’inserto dal fondo del supporto

(piastra o pozzetto) permettendo alle cellule di migrare in anticipo nell’area di migrazione. Queste

condizioni provocherebbero una conformazione dei lembi dello scratch non più uniforme e più

difficilmente comparabile con gli altri campioni. Ciò significa che l’utilizzo degli inserti non è

necessariamente più efficacie rispetto ad uno scratch prodotto manualmente.

Acquisire i dati in questi saggi significa effettuare valutazioni sul tasso di migrazione dei campioni

presi in esame. Per questo scopo, per lo più, si effettuano indagini in microscopia, con la quale si

verificano i vari stadi di avanzamento della chiusura del gap negli intervalli di tempo prestabiliti.

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Nello Scratch Assay la microscopia a trasmissione è solitamente sufficiente per monitorare l’area di

interesse nel tempo (De Rossi G., et al. 2013).

Allo scopo di effettuare analisi ottimali è consigliato acquisire immagini a vari intervalli, che posso

essere di 15 minuti o di alcune ore in base al campione cellulare in esame. Il microscopio potrebbe

essere dotato anche di software per l’acquisizione di immagini.

Lo scopo è chiaramente quello di raccogliere dati sulla chiusura nel tempo, solitamente nelle 24-48

ore.

Tracciare linee lungo i bordi principali e misurarne la distanza media o la superficie residua dello

scratch, valutandone la diminuzione in funzione del tempo, è un buon metodo comodo e semplice.

In alcuni studi si cerca di valutare il tempo di esatta chiusura del gap per osservazione diretta, ma

questo ovviamente comporta un impegno notevole ed una presenza continua dell’addetto

nell’intervallo di tempo preso dall’intero esperimento.

6) In vivo: Hyrudo Medicinalis

La famiglia delle Hirudinea è composta da varie specie di anellidi, tra le quali troviamo la Hyrudo

Medicinalis, ovvero la sanguisuga comune, un animale ematofago che si nutre di sangue di animali

vertebrati, solitamente mammiferi, rilasciando al momento del morso sia molecole anticoagulanti

sia molecole anestetiche. Si distinguono per essere animali parassiti non vertebrati, caratterizzati

da un apparato digerente molto semplice, ma allo stesso tempo ben organizzato. Il tubo digerente

non è rettilineo, bensì dotato di numerosi diverticoli in modo da consentire di incamerare un

quantitativo notevole di sangue che permette di sopravvivere per lunghi periodi senza nutrirsi (fino

ad oltre un anno).

Esistono documenti storici che evidenziano che fin dall’antichità questa specie animale è stata

accostata alla medicina: nell’Antica Grecia se ne conoscevano le capacità e il salasso è una pratica

che è stata utilizzata fino agli inizi del XX secolo. Galeno nei nel II secolo d.C. ne descriveva già

l’utilizzo per ridurre stati patologici dove i pazienti presentavano rossore diffuso, al tempo valutato

come un eccesso di sangue nell’ammalato che veniva risolto appunto mediante l’utilizzo di

sanguisughe. Fino al XIX secolo la pratica era quella di prelevare spesso considerevoli quantità di

sangue da un paziente al fine di ridurre l’apporto di sangue nelle arterie, non sempre con i risultati

sperati, escluse alcune pratiche come ad esempio l’utilizzo su pazienti affetti da ipertensione.

Infine, nel XX secolo questa pratica è stata abbandonata man mano che le conoscenze mediche e

farmacologiche avanzavano, fino ad un quasi totale disuso. Ai giorni nostri, l’utilizzo della

sanguisuga ad uso terapeutico è tornato in ambito di microchirurgia, dermatologia e di trattamenti

estetici. L’effetto terapeutico non è stato più legato all’ematofagia, ma dal continuo e costante

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sanguinamento della ferita lasciata dopo che la sanguisuga si è staccata, grazie alle proprietà

anticoagulanti, anestetizzanti, antiinfiammatorie e vasodilatanti. Infine, hanno ottenuto un nuovo

ruolo soprattutto per quel che riguarda il mondo della ricerca.

Questo invertebrato ha una relativa semplicità anatomica ed è un modello affidabile per studiare

una serie di eventi di base, come l’angiogenesi e il tessuto muscolare, ma anche per la riparazione

dei tessuti e il wound healing, grazie ad una sorprendente somiglianza con la risposta degli animali

vertebrati. Hirudo è anche un buon modello invertebrato per testare le azioni di farmaci, in quanto

le risposte evocate dai diversi stimoli sono chiare e facilmente rilevabili grazie alla loro piccola

dimensione e alla semplicità anatomica.

Questo modello è utilizzato per indagare la rigenerazione muscolare e il ruolo delle cellule staminali

ematopoietiche in questo processo, dimostrando che l'iniezione di una appropriata combinazione

di biopolimeri di Matrigel integrati con il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) è risultato

essere uno strumento molto efficace per isolare una popolazione specifica di precursore

ematopoietico, in grado di differenziarsi in cellule muscolari, e cellule endoteliali (Grimaldi A. et al.

2010).

Alcuni studi utilizzano le sanguisughe come modello dei meccanismi di angiogenesi in seguito ad

una ferita. de Eguileor testa questo modello di angiogenesi per mezzo di una ferita cutanea e con

lo stimolo di fattori neoangiogenici di origine umana. Risulta interessante come questi fattori

inducano comunque una risposta anche nell’animale invertebrato, indicando un’importante

similarità fra il processo angiogenetico umano e quello della sanguisuga stessa sia a livello

biochimico che a livello cellulare, in quanto coinvolge fattori di crescita simili e loro recettori (de

Equileor M., et al. 2001). Per queste ragioni hirudo medicinalis viene suggerita per l’utilizzo come

modello per attivatori o inibitori dell’angiogienesi e per indagare sui processi biochimici e cellulari

che ne fanno parte e che inducono la formazione di nuovi vasi.

Ad esempio, in uno studio viene valutato l’effetto del VEGF umano, fattore di crescita specifico per

la neoangiogenesi, fondamentale per il corretto sviluppo dei vasi sanguigni, oltre ad avere funzione

stimolante per la proliferazione di cellule endoteliali e a promuovere anche un aumento dei livelli

di calcio citoplasmatico. Questo studio è reso possibile dalla presenza di due specifici recettori per

VEGF simili: Flt-1 e Flk-1. Inoltre, viene dimostrato che specifici anticorpi rivolti contro questi

recettori riescono ad inibire la neoangiogenesi della sanguisuga (Tettamanti G., et al. 2003).

Tettamanti et studiano la Hirudo Medicinalis come modello di wuond healing. In seguito ad una

ferita chirurgica viene indotta la proliferazione dei fibroblasti parallelamente ad un cambiamento

nel fenotipo cellulare, ovvero inducono cambiamenti morfo funzionali influenzando indirettamente

la distribuzione del collagene attraverso il controllo del microambiente extracellulare. Il collagene

ha un ruolo importante per lo sviluppo del nuovo tessuto e ha funzioni meccaniche influendo sulla

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capacità di contrastare le tensioni tessuto-specifiche. Inoltre, funge da impalcatura extracellulare

per una rigenerazione accurata della componente cellulare, modulando diverse funzioni come

adesione, migrazione, crescita e differenziamento (Tettamanti G., et al. 2004).

L’aspetto più interessante per i nostri studi è però che questo modello è stato scelto, anche in vista

di futuri esperimenti, per essere sottoposto a condizioni di g reale. Infatti, la sanguisuga è stata

definita da Lotz (Lotz et al., 1972) “l'essere vivente che meglio di ogni altro può essere impiegato

per esperienze sui lunghi voli spaziali, anche perché dopo un pasto completo essa può vivere per

un anno e mezzo senza cibarsi”. Aggiungiamo noi, è un animale, che per le sue dimensioni, ci

permette di sottoporlo a condizioni di g indotte mediante i macchinari come la RPM e la RCCS in

laboratorio.

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Scopo dello studio

Lo scopo di questa ricerca è stato studiare l’effetto di fattori di tipo fisico sui processi di riparazione

e rigenerazione dei tessuti. L’attività si è focalizzata sugli stress meccanici in grado di influenzare i

processi di riparazione. Tali effetti sono ben noti, ma non altrettanto noti sono i meccanismi

d’azione che ne stanno alla base. Lo studio è stato progettato sviluppando:

messa a punto dei modelli in vitro di Scratch assay;

valutazione dei processi di rigenerazione e riparazione tissutale in condizioni di assenza di carico

gravitazionale;

studi degli effetti indotti da stimoli di tipo fisico sui modelli in vitro: quali le radiazioni Laser e i

campi elettromagnetici (CEM);

studio dell’interazione stromale mediante un modello in vitro di angiogenesi con fibroblasti

dermici e cellule endoteliali. Valutazione in condizione di assenza di carico;

sviluppo di un modello in vivo con Hirudo Medicinalis per la rigenerazione e riparazione

tissutale;

studio deglie effetti indotti da stimolo di tipo fisico: Laser.

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Materiali e Metodi

7) Colture cellulari:

7.1) Fibroblasti

Linee cellulari utilizzate: NIH-3T3, linea fibroblastica immortalizzata ottenuta da tessuto embrionale

di topo, e NHDF, modello di fibroblasti dermici umani.

Per il mantenimento in cultura e per tutti gli esperimenti entrambe le linee cellulari sono state

mantenute in Dulbecco’s Modified Eagle’s medium (DMEM) addizionato con streptomicina 100

μg/mL, penicillina 100 U/mL, glutammina 2 mM e siero fetale bovino al 10%, incubate a 37°C e 5%

CO2.

7.1) Cellule endoteliali

Utilizzo della linea cellulare endoteliale isolata dalla vena del cordone ombelicale umano (Human

Umbilical Vein Endothelial Cells) - HUVEC, ( Lonza, SRL, Milano, Italia).

Le cellule endoteliali sono state coltivate in piastre da 10 cm di diametro preventivamente trattate

con gelatina (1%), in incubatore a 37°C umidificato e aerato con CO2 (5%), in mantenimento con

Endothelial Cell Medium (ECM, Sigma-Aldrich St. Louis, MO USA) addizionato di Endothelial Cells

Growth Supplement (ECGS/H - idrocortisone e fattori di crescita quali hFGFB, VEGF, R31GF1, Acido

Ascorbico, HEGF, GA1000), alla concentrazione di 4μl/ml, di Penicillina/Streptomicina 100 U/ml, e

di L-Glutammina 2mM. Al mezzo di coltura è stato ulteriormente aggiunto Siero Fetale Bovino (FBS),

fornito da HyClone (South Logan, UT USA) in concentrazione del 10%. La gelatina è stata utilizzata

allo scopo di mimare la membrana basale e permettere alle cellule di aderire al fondo della piastra,

con orientamento analogo a quello in vivo. Una volta raggiunta la confluenza, le cellule sono state

staccate, con Tripsina-EDTA, e diluite 1:3 ogni 48 ore.

8) Citofluorimetria

Il principio su cui si fonda il citofluorimetro è la focalizzazione idrodinamica che consiste

nell’iniettare la sospensione cellulare in un circuito idraulico con sezione variabile fino ad un orifizio

di uscita, in un regime di flusso laminare. In tal modo le cellule sono progressivamente allineate e

costrette a percorrere singolarmente una traiettoria ben definita, fino al punto d’intersezione con

il fascio di luce di eccitazione.

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Presso il laboratorio è in dotazione un citofluorimetro a flusso FACScan Becton Dickinson con un

laser ad argon di 15 mWatt di potenza, raffreddato ad aria. Il laser ad argon ha una riga di emissione

principale nel blu (488 nm) e una nel verde (515 nm).

I campioni da sottoporre ad analisi citofluorimetrica sono ottenuti allestendo una sospensione

cellulare partendo da cellule in coltura. Per ogni campione si necessità 106 cellule. La

concentrazione cellulare delle sospensioni si calcola mediante conteggio in camera di Bürker, dopo

adeguata diluizione e colorazione con Trypan Blue. Di ogni campione sono letti 30000 eventi.

I dati ottenuti sono interpretati per evidenziare la distribuzione delle cellule nelle varie fasi del ciclo.

Lo strumento rappresenta la distribuzione delle cellule nelle varie fasi del ciclo tramite un

istogramma di distribuzione di frequenza, ottenuto in funzione della fluorescenza emessa dal

colorante Ioduro di Propidio e, quindi, del contenuto di DNA.

Nella lettura del grafico tipico di una popolazione diploide si rileva la presenza di due picchi, in

corrispondenza di valori di fluorescenza uno doppio dell’altro, relativi rispettivamente alle cellule

in fase G2/M e a quelle in G0/G1. La porzione di grafico compresa tra i due picchi è relativa alle cellule

in fase S, che presentano livelli di fluorescenza continui, crescenti e intermedi.

L’analisi del ciclo è effettuata da una work-station collegata al citofluorimetro.

L’analisi della distribuzione delle cellule nelle fasi del ciclo cellulare è eseguita con il software

ModFitTM (Verity Software House).

9) Test di proliferazione

Il test di proliferazione è stato effettuato usando la sonda fluorescente CFDA-SE. Il CFDA-SE è una

sonda fluorescente che entrata dentro la cellula lega covalentemente le proteine e viene de-

esterificata dalle esterasi cellulari senza più attraversare la membrana cellulare e uscire. Ad ogni

divisione cellulare la quantità di CFSE quindi di fluorescenza si dimezza, per cui viene valutata la

proliferazione delle cellule in base al decremento della fluorescenza rispetto all' incorporazione

iniziale della sonda. Le NIH-3T3, dopo il trattamento in microgravità per 72h, sono state marcate

con il CFDA-SE alla concentrazione 2,5 μM in PBS per 15 minuti. Dopo averle centrifugate è stata

aspirata la sonda in eccesso ed è stata presa un'aliquota per stimare la fluorescenza iniziale

incamerata dalle cellule al t0. Le rimanenti cellule sono state poi piastrate e fatte crescere in terreno

contenente FBS 10% per 24h. Quindi le 24h successive le cellule sono state staccate, centrifugate e

fissate in 3% paraformaldeide e analizzate al citofluorimetro. Il valore in fluorescenza ottenuto è

stato quantificato tramite software ModFit per stimare l'indice di proliferazione delle cellule nelle

24h dopo il trattamento in microgravità.

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10) Espressione proteica

Per lo studio sono state valutate le espressioni di α-SMA, E-CAD, VEGF e COX-2.

Per ottenere il 70% di confluenza i fibroblasti NIH-3T3 sono stati piastrati in quantità di 35 x105 e

mantenute in coltura per 24 ore con ECM addizionato di FBS al 10% fino al 70-80% di confluenza. Il

mezzo di coltura è quindi stato rimosso e sostituito con ECM contenente un quantitativo ridotto di

siero (0,1%) in modo da sincronizzare le cellule alla stessa fase del ciclo cellulare. A seconda delle

necessità di indagine, sono stati aggiunti gli stimoli. Le cellule sono state quindi riposte in incubatore

(37°C, 5% CO2).

10.1) Protocollo di estrazione delle proteine

Al termine della stimolazione il terreno è stato rimosso e, dopo aver effettuato tre lavaggi con il

tampone fosfato salino (PBS), è stato aggiunto un buffer di lisi preparato al momento e mantenuto

a bassa temperatura, contenente TRIS HCl 50µM, NaF 10 mM, EGTA 1mM, Triton X-100 1%, sodio

orto-vanadato (inibitore di fosfatasi) 1mM e cocktail di inibitori di proteasi (Sigma-Aldrich St. Louis,

MO, USA). Il TRIS HCl permette la stabilizzazione del pH durante la lisi proteica; gli ioni metallici

sono aggiunti per aumentare la solubilità delle proteine; il chelante EGTA riduce il danno ossidativo;

il Triton-X, viscoso, ha funzione detergente.

Il campione lisato è stato raccolto in provette, mantenuto a basse temperature e congelato in azoto

liquido con due cicli successivi per favorire l’ulteriore distruzione delle membrane lipidiche e la

liberazione delle proteine, quindi sottoposto a centrifugazione (13200 rpm, 20 minuti). Il surnatante

è stato utilizzato per il dosaggio proteico.

10.2) Dosaggio di proteine

La quantità di proteine presenti all’interno dei campioni è stata valutata con la spettrofotometria,

sfruttando le caratteristiche chimiche del colorante Comassie® Brilliant Blue G-250, introdotto da

Bradford nel 1976. Il colorante è in grado di assorbire differenti lunghezze d’onda in base alla

diversa forma chimica nella quale si trova, ed emettere, di conseguenza, una diversa colorazione:

rossa (assorbanza massima a 495nm) o blu (595nm). Le proteine presenti nel campione legano il

colorante attraverso i residui basici, aumentando il valore di assorbanza.

Per ciascun campione è stata utilizzata un’aliquota di 2,5 µl, diluiti con acqua distillata fino ad un

volume di 500µl, ai quali è stato quindi aggiunto il colorante in proporzione 1:1. Il quantitativo

proteico è stato riportato in µg/ml dallo spettrofotometro attraverso la comparazione con una

curva di taratura prodotta da un campione a dosaggio proteico fisso e noto, la BSA (Albumina Sierica

Bovina), utilizzata come standard alle concentrazioni di 5, 25, 50, 250, 500 µg/ml.

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10.3) Elettroforesi

L’elettroforesi è il processo attraverso il quale particelle cariche positivamente o negativamente,

immerse in un appropriato medium migrano, all’interno di un campo elettrico, verso il polo elettrico

avente carica opposta. Le proteine possono assumere carica positiva o negativa in base al pH del

mezzo, che può discostarsi dal punto isoelettrico (valore di pH al quale molecole con più gruppi

dissociabili hanno carica elettrica nulla); nel nostro caso il mezzo ha un pH leggermente basico,

determinando la dissociazione acida del residuo aminoacidico N-terminale e conseguentemente la

presenza nella proteina stessa di una carica negativa, che la induce a migrare verso il catodo, polo

positivo. I campioni di lisato proteico vengono fatti correre in un gel di poliacrilammide, preparato

facendo polimerizzare monomeri di acrilamide in presenza di piccole quantità di APS (ammonio

persolfato) che permette l’iniziazione del processo di polimerizzazione producendo dei radicali

liberi, e TEMED (tetra-metilen-diammina) che trasforma l’APS in specie radicalica, che reagisce coi

monomeri. Si forma il dimero N, N’ metilen-bis-acrilammide, che funge da agente cross-linking, in

grado di formare legami crociati. La porosità tipica del polimero così ottenuto permette la

separazione delle proteine durante la loro migrazione dal polo negativo al polo positivo in base alle

dimensioni. La velocità di separazione è direttamente proporzionale all’intensità del voltaggio

applicato (differenza di potenziale ai due elettrodi) e inversamente proporzionale alla densità del

gel; una maggiore concentrazione di poliacrilammide nella preparazione del gel riduce la

dimensione dei pori, trattenendo più facilmente le proteine caratterizzate da un basso peso

molecolare e dimensioni ridotte. La densità utilizzata per la separazione di αVβ3, Vimentina e E-

Caderina è del 10% di poliacrilammide. Per effettuare la separazione nei nostri campioni è stato

prelevato un volume di lisato corrispondente ad un quantitativo proteico di 25 µg, ed è stato poi

risospeso in un buffer di corsa. Nel buffer è presente SDS (Sodio Dodecil-Solfato o Sodio Lauril-

Solfato) (10% in g/l) un surfactante anionico in grado di legare le proteine a livello dei legami non

covalenti, denaturandole alla sola struttura secondaria e fornendo ulteriore carica negativa. Altri

componenti del buffer sono il β-Mercaptoetanolo (5%), che spezza i ponti disolfuro, Tris-HCl (0,5M),

glicerolo (10%), blu bromo fenolo (0,05%). Per favorire ulteriormente la denaturazione proteica i

campioni sono mantenuti a 100°C per 7 minuti in modo tale che la complessità delle proteine non

influenzi la corsa elettroforetica.

Il gel è montato in un supporto verticale avente agli estremi superiore ed inferiore due elettrodi

paralleli; viene inizialmente applicata una corrente elettrica di 80 mV per permettere

l’impaccamento dei campioni nel gel, aumentata successivamente a 180 mV. I campioni vengono

fatti correre parallelamente allo standard di pesi molecolari noti Dual Color Precision Plus (Bio-rad

Hercules, CA, USA).

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10.4) Western blotting

Le proteine con diversi mesi molecolari che sono state separate nella matrice polimerica vengono

trasferite su una membrana di nitrocellulosa, sulla quale potranno essere effettuate le indagini

qualitative e quantitative. La membrana di nitrocellulosa viene incubata con PBS contenente 5% di

latte scremato (Bio-rad Hercules, CA USA) e Tween (Sigma-Aldrich® St. Louis, MO USA) per un’ora a

temperatura ambiente. Le proteine presenti nel latte si legano ai siti liberi della membrana,

bloccando in questo modo i legami aspecifici. La membrana viene quindi incubata con l’anticorpo

primario (18 ore) in PBS contenente 0,05% Tween e 5% latte scremato. Dopo aver rimosso l’eccesso

di anticorpo primario la membrana viene nuovamente incubata per un’ora con l’anticorpo

secondario in PBS contenente 5% latte scremato e 0,05% Tween, coniugato con Perossidasi (HRP).

L’immunocomplesso che si è formato in seguito al legame proteina-anticorpo primario viene

riconosciuto e legato in questa fase dall’anticorpo secondario. La reazione che permette di

individuare la proteina di interesse è una reazione di chemiluminescenza prodotta dal Luminolo e

perossido di idrogeno in presenza dell’enzima Perossidasi legato all’anticorpo secondario. Il

composto che si forma emette una luminescenza in seguito a stimolazione luminosa prodotta dallo

strumento Chemidok XRS (Bio-rad Hercules, CA USA), che permette di rilevare le bande proteiche,

restituendo le immagini digitalizzate tramite il software di acquisizione Quantity One.

Le bande sono state normalizzate incubando la membrana con anti-β-actina (1:10000) per 18 ore e

con l’anticorpo anti-Mouse (1:2500) per un’ora, dopodiché sono state quantificate come densità

ottica mediante il software ImageJ fornito da NIH. La quantificazione è stata riportata come unità

densitometrica arbitraria, corrispondente al rapporto tra la densità ottica della banda della proteina

in analisi e quella della banda della β-actina.

11) Test di migrazione in vitro

I fibroblasti adesi alle microcarrier beads (5ml del campione in sospensione) sono stati inseriti in

piastre di Petri da 60 mm. Dopo 6 ore, le piastre sono state lavate per due volte con PBS allo scopo

di rimuovere le microcarrier beads e le cellule non adese in piastra. Le cellule migrate sulla

superficie della piastra sono state staccate con tripsina e contate, normalizzate in comparazione al

numero di cellule totali presenti sulle microcarrier beads.

12) Modello in vitro: Scratch assay

La linea cellulare presa in esame è stata seminata in piastre Di Petri da 60mm. Una volta raggiunto

l’80% della confluenza il campione è stato sincronizzato per 24 ore mediante la rimozione del siero

dal medium di coltura. Utilizzando un puntale da 200 μl è stato creato un taglio (scratch) nel

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monostrato cellulare. Il solco è stato monitorato e fotografato ogni 6 ore per 48 ore, utilizzando un

microscopio ottico con ingrandimento 10x e 4x. I campioni sono stati mantenuti in Dulbecco’s

Modified Eagle’s medium (DMEM) addizionato con streptomicina 100 μg/mL, penicillina 100 U/mL,

glutammina 2 mM e siero fetale bovino al 5%, incubati a 37°C e 5% CO2.

12.1) Scratch assay: analisi quantitativa

I dati riguardanti i risultati degli esperimenti di scratch assay sono stati elaborati mediante la

misurazione dell’area dello scratch in cm² di ogni campione, effettuata sulle immagini acquisite con

microscopia ottica.

Per ogni singolo campione la valutazione in punti percentuale è stata effettuata ponendo in

proporzione la diminuzione della superficie dello scratch ad un determinato tempo rispetto al

proprio tempo zero, ovvero al momento della produzione dello scratch.

13) Modello in vivo: Hirudo Medicinalis

Le sanguisughe utilizzate appartengono alla specie Hirudo Medicinalis (Hirudo medicinalis,

Annelida, Hirudinea, Ricarimpex, Eysines, Francia). Le sanguisughe sono state conservate in

apposito acquario, ad una temperatura di 20 °C. Una lesione chirurgica di circa 1 cm è stata eseguita

sulla porzione dorsale dell’animale, in posizione centrale rispetto all’estremità cefalica e quella

terminale. I due lembi della ferita sono stati poi suturati con due punti utilizzando un filo DAFLON

4/0. Si è utilizzato un numero pari di sanguisughe, divise in modo randomizzato in gruppi trattati e

gruppi di controllo.

Alla fine dell’esperimento e prima di essere sacrificate, le sanguisughe sono state anestetizzate con

una soluzione di etanolo al 10%.

Per le analisi di immunoistochimica gli animali sono stati fissati con glutaraldeide al 4% in tampone

cacodilato 0.1 M, pH 7.4. Per le analisi di immunofluorescenza sono stati congelati.

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Fig. 2 Allestimento di modello di wound healing in vivo con Hirudo Medicinalis

14) Rotating Cell Culture System RCCS

Negli esperimenti con culture cellulari le condizioni di microgravità sono state simulate mediante

RCCS (Synthecon, USA). Il campione, cellule aderenti, è stato inserito in un vessel da 10 ml di volume

con una proporzione di 2x10⁶ cellule per 50 mg di microcarrier beads (Cytodex 3, Sigma-Aldrich),5

mg/ml di beads, in terreno specifico per il tipo di cellule utilizzato. In caso di cellule non aderenti le

microcarrier beads non sono necessarie.

RCCS è stata impostata ad una velocità di rotazione di 15 rpm per le prime 24h, velocità che

consente alle cellule esaminate di aderire alle beads. La velocità di rotazione è stata aumentata

successivamente a 20 rpm, per generare le condizioni di µg. I campioni sono stati mantenuti in

queste condizioni per 24 o 72 h.

Alla fine del trattamento il campione è stato recuperato effettuando un doppio lavaggio del vessel

con pbs per poi essere inserito in una falcon da 50 ml. Le cellule si sono separate dal surnatante per

precipitazione, in quanto, adese alla beads, hanno sufficiente peso da sedimentarsi sul fondo della

falcon. In seguito a ulteriori lavaggi, le cellule sono state poi recuperate mediante tripsinizzazione.

15) Random Positioning Machine (RPM)

La RPM è costituita da due telai indipendenti, uno concentrico all’altro, collegati da dei rotori che

consentono una rotazione indipendente. Il campione in esame viene posizionato al centro dei due

telai (Fig. 3). Entrambi telai possono ruotare casualmente nelle 3 dimensioni nell'intervallo di 0-10

giri/min con variazioni nell'accelerazione e direzione del campione biologico nel tempo.

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Per effettuare gli esperimenti che utilizzavano come modello sperimentale Hirudo medicinalis, Le

sanguisughe sono state inserite in fiasche T75 con soluzione acquosa specifica per la loro

sopravvivenza e sono state sottoposte a condizioni di µg simulata per 48 o 96 ore.

Fig. 3 Random Positioning Machine

16) Sorgenti di campi elettromagnetici (CEM)

Come generatori di è stata utilizzata una sorgente Easy Qs (ASA, Vicenza), comunemente usata in

clinica per magnetoterapia, che consente di variare frequenza e intensità di campo da 5 a 50 Hz e

da 5 a 35 Gauss, rispettivamente (Fig.4).

17) Scratch assay con esposizione a CEM

I fibroblasti (NIH-3T3) sono stati coltivati in terreno DMEM ad elevato contenuto di glucosio (4,5

g/L), addizionato con penicillina (100 u/ml), streptomicina (100 µg/ml) e siero fetale bovino (FBS)

al 10% (v/v). Le cellule sono state seminate in piastre da 60 mm di diametro dove, una volta

ottenuta la confluenza cellulare dell’80%, è stato effettuato un cambio di terreno con DMEM privo

di FBS per indurre la sincronizzazione cellulare. Dopo 24h, il monostrato cellulare è stato inciso con

una punta da 200 µl. Quindi, per eliminare i detriti cellulari, è stato effettuato un lavaggio in PBS e

poi aggiunto Dulbecco’s Modified Eagle’s medium (DMEM) addizionato con streptomicina 100

μg/mL, penicillina 100 U/mL, glutammina 2 mM e siero fetale bovino al 5%, incubate a 37°C e 5%

CO2.

Le piastre sono state esposte per 10 minuti a campi elettromagnetici generati da sorgente Easy Qs

(ASA, Vicenza) di frequenza e intensità variabile (F = 5 Hz con I = 7,6 G; 12,4 G; 20,2 G - 10 Hz con I

= 8,5 G; 16 G; 27,2 G - 25 Hz con I = 9,8 G; 16,2 G; 29,2 G - 50 Hz con I = 7,5 G; 15,4 G; 24 G) oppure

da sorgente con frequenza ed intensità fissa (50 Hz, 1000 G). Il trattamento con Easy Qs è stato

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condotto con le piastre direttamente appoggiate sulla sorgente (Fig.1). Terminata l’esposizione, la

chiusura del taglio ad opera dei fibroblasti è stata monitorata mediante osservazione al microscopio

ottico (obiettivo Nikon, 4x) ogni 6h. Le piastre sono state mantenute in incubatore umidificato a

37°C e 5% di CO2.

Fig.4 Disposizione delle piastre Petri sulla sorgente di campi elettromagnetici Easy Qs (ASA,

Vicenza).

18) Trattamento laser MLS

Il trattamento laser MLS è stato effettuato su campioni di cellule NIH-3T3.

MLS è un laser di classe IV ed è costituito da due sorgenti (diodi laser) sincronizzate. I due diodi

hanno diversa lunghezza d’onda, potenza di picco e modalità di emissione. Il primo ha una modalità

di emissione pulsata con lunghezza d’onda λ=904nm e potenza di picco 25W; La frequenza può

essere impostata nell’intervallo 1-2000 Hz, variando di conseguenza la potenza media rilasciata.

L’altro diodo ha lunghezza d’onda λ=808nm e doppia modalità di emissione: continua o

frequenzata, sincronizzata rispetto alla radiazione pulsata. La frequenza degli impulsi può variare

da 1 a 2000 Hz, con potenza media fino a 1.1 W.

Per il trattamento, le cellule vengono seminate nei pozzetti della prima e della terza linea

orizzontale di un multiwell da 24, gli altri pozzetti vengono riempiti con inserti di cartoncino nero

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per evitare la diffusione e la riflessione della luce. La piastra viene poi posta all’interno di un

supporto appositamente progettato per consentire un trattamento a scansione. La piastra è

allineata con il manipolo del laser, il quale viene fatto scorrere su un binario sovrastante il supporto,

di dimensioni tali da assicurare una scansione omogenea sull’intera fila di pozzetti della piastra. Il

manipolo è posto a 2 cm di distanza dal fondo dei pozzetti, in modo tale che lo spot dei due diodi

laser sovrapposti, che investe perpendicolarmente la superficie del campione, abbia lo stesso

diametro dei pozzetti.

18.1) Trattamenti in vitro

I fibroblasti piastrati in multiwell da 24 pz sono stati portati ad una confluenza pari all’80%.

Effettuato lo scratch con una punta da 200 µl, è stato aggiunto terreno mancante di siero fetale

bovino (FBS). Questo passaggio dell’esperimento è stato preso come riferimento per il tempo zero

(T0).

Sono stati testati tre protocolli di trattamento utilizzando la funzione MLS Hi al T0h:

1Hz. – 6sec – 3J/cm²

1Hz – 12sec – 6J/cm²

1Hz. – 24sec – 12J/cm²

I 4 campioni utilizzati, tre trattati e un controllo, hanno subito un solo trattamento. Per le successive

48 ore sono state acquisite immagini mediante microscopia ottica dell’area riferita allo scratch del

monostrato.

18.2) Trattamenti in vivo

Le sanguisughe (Hirudo medicinalis, Annelida, Hirudinea, Ricarimpex, Eysines, Francia), sono stati

divisi casualmente in 4 gruppi (2 animali/gruppo): Gruppo di controllo, non esposti a radiazione

laser e Gruppo di trattati, animali sottoposti ai trattamenti laser. Per l’irraggiamento, le sanguisughe

sono state alloggiate in un particolare supporto che ne limita i movimenti e assicura il corretto

irraggiamento della lesione. Prima dell’intervento chirurgico le sanguisughe sono state

anestetizzate con una soluzione di etanolo al 10%.

Il primo trattamento è stato effettuato a 6 ore dal taglio e ripetuto ogni 48 ore per 2 o 4 sessioni.

Gli animali sono stati sacrificati a 24 ore dall’ultimo trattamento.

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48

T - 6 ore T 0 T 48 T 72 T 96 T 144 T 168

Chirurgia I

trattamento

II

trattamento

Stop

esperimento,

sacrificio

III

trattamento

IV

trattamento

Stop

esperimento,

sacrificio

Tab. 1 lina temporale dei trattamenti laser su modello di Hirudo Medicinalis

I trattamenti sono stati effettuati utilizzando un laser classe IV (MLS-HI, ASA srl) costituito da due

sorgenti (diodi laser) sincronizzate, che emettono ad 808 e 904 nm rispettivamente. La radiazione

con λ=904 nm è pulsata, con una potenza di picco da 140 W a 1kW±20%, la frequenza può variare

da 1 a 2000Hz (1-40Hz per la potenza massima); quella con λ=808 è continua (potenza massima

6W±20%), ma può essere erogata con modalità frequenzata (1-2000 Hz, 50% duty cycle),

sincronizzata rispetto alla radiazione pulsata.

Parametri: 40 Hz - 108 sec - 209,8 J - 5,24 J/cm²

19) Microscopia di immunoflorescenza

Dopo i trattamenti le cellule sono state fissate in acetone freddo per 5 minuti e poi lavate con PBS

Ca²⁺ e Mg. I siti di legame aspecifici sono stati bloccati utilizzando una soluzione di PBS contenente

il 3% di FBS. Le cellule sono state poi incubate overnight con anticorpo proteina-specifico (alpha-

sma e tubulina). Il vetrino, dopo lavaggio con PBS + 0,5% FBS è stato coniugato ad anticorpo

secondario con fluoresceina isocinato (FITC). E’ seguito un ulteriore lavaggio con PBS +0,5% di FBS

ed è stato effettuato il montaggio su vetrino porta oggetto. I campioni sono stati analizzati

mediante l’uso di un microscopio ad epifluorescenza utilizzando ingrandimento 100X. Per ogni

vetrino sono state effettuate 20 immagini prese in campi diversi allo scopo di effettuare un’analisi

approfondita e statisticamente significativa.

Il sistema è composto da un microscopio invertito ad epifluorescenza (Nikon Eclpse TE 2000-E) con

obiettivi ad immersione ad olio CSI S flour 40X (con apertura numerica N.A. 1:3) e CSI S flour 100X

(N.A. 1.3), con la possibilità di incrementare l’ingrandimento di un fattore pari a 1.5 la sorgente

scelta per l’eccitazione è una lampada (illuminatore) a LED (Light Emitting Diodes) contenente 4

sorgenti LED distinte, ciascuna caratterizzata da un diverso spettro di emissione. La sorgente è una

lampada ai vapori di mercurio (HBO 100 W, Osram). In base all’analisi da effettuare si interpone un

filtro adeguato alla lunghezza d’onda di riferimento. Lo spettro di emissione è caratterizzato da un

valore di FWHM (Full Width at Half Maximum) pari a circa 20 nm.

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49

20) Analisi istologica

Alla fine dell’esposizione a µg, l’animale è stato anestetizzato con una soluzione di etanolo al 10%

e poi interamente fissato in formaldeide al 4% in tampone fosfato 0.1 M, pH 7.4. Successivamente

sono stati prelevati, nell’area vicina al taglio, piccoli frammenti della porzione dorsale. Dopo

desidratazione con etanolo a gradazione crescente, il campione è stato incluso in paraffina per le

analisi al microscopio ottico. Sezioni istologiche di circa 6 μm sono state marcate con emotossilina

e eosina e analizzate al microscopio [microscopio Reichert Microstar IV light correlato di

fotocamera Eurekam 9 high-resolution (BEL Engineering, Monza, Italy)].

21) Statistica

I dati sono riportati come media ± deviazione standard e si riferiscono a tre esperimenti

indipendenti effettuati in triplicato. L’analisi statistica è stata effettuata utilizzando lo Student’s Test

per dati non accoppiati ed i risultati con p˂0.05 sono stati considerati significativi.

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50

Risultati

22) Effetto della µg sulla proliferazione di fibroblasti NIH-3T3

Il test di proliferazione è stato effettuato usando la sonda fluorescente CFDA-SE. I fibroblasti presi

in esame sono stati suddivisi in tre gruppi, uno di controllo e due sottoposti a condizioni di µg

simulata per 6 e 72 h, rispettivamente. Successivamente, le cellule sono state rimesse in coltura

con Dulbecco’s Modified Eagle’s medium (DMEM) addizionato con 10% di FBS per 24 ore.

Il risultato di questo test ha indicato (Fig. 5) che la proliferazione dei fibroblasti esposti per 72h a

μg è risultata più alta del 33,2% rispetto ai controlli, mentre si evidenzia nel campione mantenuto

per 6 ore in condizioni di μg una riduzione del 9,6% del tasso proliferativo in confronto allo stesso

controllo.

FIG. 5 - Proliferazione di fibroblasti NIH-3T3 dopo esposizione a condizioni di μg

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23) Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti (NIH-3T3) coltivati in µg

simulata mediante RCCS in confronto ai controlli (1xg).

Test citoflorimetrici hanno permesso di studiare il ciclo cellulare di fibroblasti NIH-3T3 mantenuti in

µg.

Dopo 6 ore in µg (Fig. 6) simulata non si osservano significative alterazioni della distribuzione di

cellule NIH-3T3 nelle varie fasi del ciclo rispetto al campione di controllo (1xg).

Fig. 6 - Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti esposti per 6 ore a µg in confronto a controlli (1xg).

Andando a valutare le quattro fasi del ciclo in campioni di fibroblasti che hanno subito una

esposizione a µg di 6 h e poi sono stati mantenuti per 18 ore in condizioni 1xg, si è osservato un

leggero decremento del numero di cellule nella fase G2 parallelamente ad un leggero incremento

di quelle in fase S. Non si osservano differenze tra il campione di controllo ed il campione esposto

a µg nella distribuzione delle cellule in fase G1 (fig. 7).

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52

Fig. 7 - Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti esposti per 6 ore a µg e successive 18 ore a 1xg in

confronto a controlli coltivati per 24 ore a 1xg

Risultati simili sono stati ottenuti con esposizione di 24h a µg simulata: non si sono osservate

differenze significative nella distribuzione delle cellule in fase G1 mentre è stato possibile osservare

nel campione trattato un decremento del numero di cellule in fase G2 a favore di un incremento di

quelle in fase S (Fig. 8).

1xg 6h+1xg 18h µg 6h+1xg 18h

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53

Fig. 8 - Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti (NIH-3T3) esposti per 24 ore a µg in confronto ai controlli

(1xg).

Infine, con esposizione a condizioni di µg simulata per 72 ore, la distribuzione delle cellule nelle

varie fasi del ciclo è risultata alterata rispetto al campione di controllo. Infatti si è osservata una

significativa diminuzione del numero di cellule in fase G1 ed un incremento di quelle in fase G2

rispetto al controllo. Inoltre aumentava il numero di cellule in fase S (Fig. 9).

1xg 24h µg 24h

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54

Fig. 9 - Analisi del ciclo cellulare di fibroblasti coltivati per 72 ore in µg in confronto ai controlli (1xg).

1xg 72h µg 72h

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55

24) Effetto della µg sulla capacità di migrare dei fibroblasti

La migrazione dei fibroblasti nel sito della lesione è un evento rilevante nel processo di riparazione

dei tessuti. Quindi, in prima analisi è stata valutata se un’esposizione a µg di 6 ore mediante RCCS

fosse in grado di indurre nel campione cellulare un effetto negativo nella migrazione, effettuando

il confronto con un controllo e mantenuto in piastra di Petri a 1xg.

Nel campione esposto a µg per 6h si osservava una significativa riduzione della migrazione rispetto

al campione di controllo (Fig. 10).

Fig. 10 - Indice di migrazione di fibroblasti esposti per 6 ore a µg.

25) Scratch Assay su NIH-3T3 esposte 6 e 72 ore in µg

Al fine di valutare più approfonditamente l’effetto della µg sulla migrazione dei fibroblasti, si è

effettuato uno scratch assay su campioni esposti a µg per per 6 e 72 ore. I campioni mantenuti in

microgravità sono stati confrontati con i controlli a 1xg.

Sia nei campioni esposti a µg per 6 ore (Fig. 11) che in quelli esposti per 72 ore è stata rilevata una

riduzione della capacità di migrare rispetto ai controlli (Fig. 12). Nel primo eperimento il controllo

ha ottenuto una chiusura dello scratch nelle 24 ore del 30,3%, mentre il trattato ha mostrato un

valore del 19,1 %. I dati sono ancora più evidenti dopo 72 ore di µg, in quanto il campione trattato

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56

ha ottenuto un dato del 15% di chuisura dello scratch, a confronto del controllo che ha mostrato

una migrazione cellulare pari al 46,88%.

Fig. 11 - Scratch Assay condotto su fibroblasti esposti a 6 ore di µg a confronto di

controlli mantenuti a 1xg.

Fig. 12 - Scratch Assay condotto su fibroblasti esposti a 72 ore di µg a confronto di

controlli mantenuti a 1xg.

T 0h T 18h T 24h

Ctr

T 0h T 18h T 24h

Ctr

µg

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57

La migrazione è un meccanismo che rende la cellula in grado di muoversi all’interno del tessuto,

utilizzando proteine di membrana capaci di formare adesioni dirette alla matrice extracellulare o

ad altre cellule adiacenti.

Il citoscheletro, in particolar modo i filamenti di actina permettono alla cellula di contrarsi e

allungarsi utilizzando proprio le proteine di adesione. Per questo motivo è stata presa in esame l’α-

SMA, una proteina coinvolta nell’attivazione dei fibroblasti e nella loro motilità. La l’α-SMA è una

delle sei diverse isoforme di actina identificate, che sono appunto componenti principali

dell'apparato contrattile delle cellule.

Le analisi di immunoistochimica effettuate su campioni di NIH-3T3 sottoposti a µg per 6 ore hanno

mostrato alterazioni delle fibre di alpha-sma, comparate ai controlli.

Le immagini (Fig. 13) mostrano filamenti di α-SMA diversamente distribuiti nei campioni in esame,

controllo e trattato. Nel primo si evidenziano fibre di stress organizzate, mentre nel trattato in µg

la proteina si concentra vicino al nucleo e i filamenti perdono la loro organizzazione formando un

groviglio.

Fig. 13- Espressione della proteina α-SMA in fibroblasti sottoposti a 6 ore di µg e relativi

controlli. Le immagini mostrano una variazione della disposizione strutturale della proteina

all’interno delle cellule sottoposte a µg rispetto ai campioni di controllo.

Ctr µg

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58

26) Espressione proteica

I risultati fin qui descritti hanno reso necessario analizzare l’espressione di alcune proteine e fattori

di crescita che sono coinvolti in modo diretto nei processi qui studiati (Fig. 14). L’espressione di α-

SMA, valutata mediante western bloting, ha mostrato una sua riduzione significativa (p˂00.5) del

38% nei fibroblasti esposti a 72 ore di µg rispetto ai campioni di controllo.

Le E-CAD fanno parte della famiglia delle caderine, proteine di membrana che formano giunzioni

molto resistenti con caderine di cellule adiacenti. La proteina lega all’interno della cellula i

microfilamenti, facendo così parte anch’essa del meccanismo contrattile della cellula. Come per l’α-

SMA, anche se con un dato che non risulta significativo, anche per E-CAD si è osservata una

diminuzione dell’espressione del 15% in seguito a 72 ore in µg, sebbene il dato non sia

statisticamente significativo.

Il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) ha ruolo centrale nel richiamo di cellule nella sede del

danno tissutale, con lo scopo di promuoverne la migrazione in loco e la proliferazione. Fra le cellule

bersaglio del fattore di crescita ci sono i fibroblasti e le cellule endoteliali. Il VEGF appartiene ad una

famiglia di proteine, e loro recettori, che vengono attivate al momento in cui è richiesta la

formazione di nuovi vasi sanguigni, o angiogenesi. Il VEGF viene prodotto da cellule dell’immunità

innata come i macrofagi e da altre cellule, come i fibroblasti, che a loro volta sono in grado di

esprimerlo durante la riparazione della ferita, con l’effetto di attivare le cellule endoteliali, di

promuovere la proliferazione di cellule bersaglio e aumentare i livelli di calcio citoplasmatici (Wynn

T.A., et al. 2016).

Fig. 14 - Espressione di marker di attivazione e di infiammazione in fibroblasti esposti per 72 ore a µg.

L’espressione di VEGF in fibroblasti sottoposti a condizioni di µg per 72 ore è risultata del 31%

(p˂00.5) minore che nel controllo (1xg).

E’ stata presa in esame anche l’espressione di un marker di infiammazione: la COX-2, la cui

espressione in cellule esposte a µg ha mostrato un aumento dell’87%, assai significativo (p˂00.5).

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Questa proteina fa parte delle cicloossigenasi, in grado di svolgere un ruolo pro-infiammatorio

mediante conversione dell'acido arachidonico nella prostaglandina endoperossido H2 (PGH2).

27) Valutazioni preliminari dei parametri CEM

Con l’obiettivo di utilizzare il trattamento con CEM per promuovere la migrazione dei fibroblasti, in

una prima fase dello studio si sono condotti esperimenti per valutare i parametri ottimali di

trattamento con CEM. Si sono valutati gli effetti di tre diversi trattamenti sulla migrazione di cellule

NIH-3T3:

5Hz - 25% intensità – 10 min – 7,5 G

25Hz – 50% intensità - 10 min – 15,4 G

50Hz -100% intensità – 10 min – 24 G

L’analisi è stata effettuata utilizzando un modello di Scratch Assay, con acquisizione di immagini

ogni 6 ore dei campioni in esame. Lo scratch è stato effettuato tramite un puntale da 200 µl (Fig.

15).

Il controllo, che non ha subito alcun trattamento con CEM, dopo 18h (T18) esibiva una riduzione

dell’area del graffio pari al 53,8% di T0.

L’esposizione a CEM con 7,5 G-5Hz ha mostrato un effetto significativo sulla migrazione dei

fibroblasti: a T18 l’area del graffio era ridotta del 78% rispetto a T0.

Il trattamento con 15,4 G-50 HZ risultava in una riduzione dell’area del graffio del 90% (T18) rispetto

a T0.

Infine, il trattamento con CEM 24G – 50 Hz ha prodotto una riduzione dell’area del graffio valutata

a T18 del 69,2% rispetto a T0.

Fig. 15 - Test di Scratch Assay condotto su fibroblasti esposti a CEM da 7,6G, 15,4G e 24G.

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60

28) Analisi della proliferazione e del ciclo cellulare su NIH-3T3 esposte a

CEM

La proliferazione e l’analisi del ciclo cellulare di fibroblasti murini NIH-3T3 esposti a campi

elettromagnetici (25 Hz; 16,2 G) sono stati valutati allo scopo di capire quali possono essere le

variazioni significative indotte dal trattamento in riferimento alle singole fasi del ciclo.

Dopo 72 ore (48 ore dall’esposizione a CEM) è stato evidenziato in grafico un aumento del numero

di cellule del campione trattato, che indica un aumento dell’attività mitotica. Questo dato viene

confermato, a confronto del controllo, a 72 ore dal trattamento (Fig. 16).

Fig. 16 - Curva di crescita di fibroblasti esposti a CEM (25 Hz; 16,2 G)

Analizzando il ciclo cellulare per singola fase si può osservare (Tab. 2) che la distribuzione delle

cellule, espressa in percentuale rispetto al numero di cellule totali, evidenzia una diversa

distribuzione nelle 4 fasi del ciclo: con 48h di esposizione a CEM, nel campione trattato si ha il

27,84% di cellule in fase in fase S rispetto al 14,81% del controllo.

Tab. 2 - Analisi del ciclo cellulare

Controllo

Trattato

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29) Valutazione dell’efficacia dei CEM nella stimolazione su NIH-3T3

esposte precedentemente a µg

In questa serie di esperimenti, i fibroblasti, precedentemente sottoposti a µg, sono stati esposti a

CEM allo scopo di valutarne l’efficacia nello stimolare il loro comportamento in termini di

migrazione.

Gli esperimenti sono stati suddivisi in base al tempo di mantenimento dei campioni in condizioni di

µg, 6 o 72 ore. In base ai risultati precedentemente descritti, i CEM utilizzati per la stimolazione

sono 7,5 G e 15,4 G.

Il trattamento più efficacie nel promuovere la migrazione di fibroblasti sottoposti a µg per 6 ore si

è rivelato quello da 15,4 Gauss, mostrando una chiusura del gap del 41,3% rispetto al controllo, che

ha ottenuto il 20% di riduzione della propria area. Il trattamento da 7,5 G ha ottenuto il 36,5% (Fig.

17). Tale risultato è stato confermato anche nei campioni sottoposti a 72 ore di µg, con il 43,3% di

riduzione dello scratch promosso dal trattamento CEM da 15,4 G, il 39% dal CEM a 7,5 G e il 18%

dal controllo. Quindi, entrambi i trattamenti CEM, a confronto con i controlli non stimolati, hanno

mostrato un aumento della migrazione, ma con una maggiore significatività mostrata dal

trattamento da 15,4 Gauss (Fig. 18).

Fig. 17 - Test di Scratch Assay su fibroblasti sottoposti a CEM in seguito a 6 ore di µg

T 0h T 18h T 24h

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62

Fig……….

Fig. 18 - Test di Scratch Assay su fibroblasti sottoposti a CEM in seguito a 72 ore di µg

30) Effetto della radiazione laser NIR sulla migrazione di fibroblasti NIH-

3T3 in modello di Scratch Assay

Sono stati testati tre protocolli di trattamento mediante MLS Hi:

1Hz –– 6sec – 3J/cm²

1Hz –. – 12sec – 6J/cm²

1Hz –. – 24sec – 12J/cm²

A 24 ore dal trattamento (T24), in tutti e tre i tipi di campioni si è osservato un aumento della

migrazione, ma il trattamento da 3J/cm² si è dimostrato il più efficace nel promuovere la

migrazione, con una riduzione dell’area dello scratch pari al 43% rispetto al proprio T0 (Fig. 19; Fig.

20). Nei campioni trattati con 6J/cm² e 12J/cm² la riduzione era del 21% e 23%, rispettivamente per

mentre nel campione di controllo era pari al 17% della superficie iniziale.

A 42 ore dal trattamento è stato confermato l’andamento già osservato a T24. Nel trattamento da

3J/cm² la chiusura risultava del 91%. I trattamenti da , 6J/cm² e 12J/cm2 inducevano una riduzione

T 0h T 18h T 24h

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63

dell’area dello scratch del 75% e del 63%, rispettivamente. Nel controllo la riduzione era pari al

60% (Fig. 21).

Fig.19 - Scratch assay su monostrati di fibroblasti esposti a trattamento laser NIR (T0)

Fig. 20 - Scratch assay su monostrati di fibroblasti esposti a trattamento laser NIR (T24)

C 3J/cm²

12J/cm² 6J/cm²

C

12J/cm² 6J/cm²

3J/cm²

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Fig. 21 - Scratch assay su monostrati di fibroblasti esposti a trattamento laser NIR (T42)

31) Effetto della radiazione laser NIR sull’espressione della proteina α-

SMA in fibroblasti

Sulle colture cellulari utilizzate nello scratch assay si è valutata mediante microscopia di

immunofluorescenza l’espressione e organizzazione spaziale dell’ 𝛼–sma, proteina citoscheletrica

considerata un marcatore di attivazione dei fibroblasti Nelle immagini si è evidenziato un notevole

cambiamento nella morfologia dei fibroblasti trattati con 3J/cm² rispetto al campione controllo.

𝛼–sma non è localizzata solo in zona perinucleare, come appare nel controllo, ma anche sotto la

membrana cellulare. (Fig. 22).

3J/cm²

6J/cm² 12J/cm²

C

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65

Fig. 22 - Espressione della proteina α-SMA in fibroblasti sottoposti a scratch assay ed esposti a

radiazione laser NIR

32) Impatto della µg sull’interazione endoteliale-stromale relativa ai

processi riparativi

Per valutare l’effetto della µg sull’interazione endoteliale-stromale sono state prese in esame

cellule endoteliali di origine umana (HUVEC).

I campioni sono stati suddivisi in tre gruppi in base al terreno di condizionamento utilizzato:

I) Medium da fibroblasti mantenuti per 72 ore a 1xg;

II) Medium da fibroblasti mantenuti per 72 ore in µg;

III) Medium EBM-2 (Endothelial Cell Medium)

Le immagini raccolte ci hanno mostrato che i campioni mantenuti per 48h in presenza di medium

derivante da culture di fibroblasti (NHDF) esposti a µg mostrano un decremento (54,7% a 48 ore)

della capacità di migrazione rispetto ai campioni di controllo, che hanno mostrato una totale

chiusura dello scratch a sia a 24 che a 48 ore. Il medium derivante da fibroblasti mantenuti a 1xg ha

C 3J/cm²

12J/cm² 6J/cm²

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un effetto sulla migrazione delle cellule endoteliali paragonabile a quello ottenuto nel campione

coltivato in terreno specifico EBM-2 (Fig. 23).

Fig. 23 - Colture bidimensionale di HUVEC in presenza di medium da fibroblasti esposti a µg, medium di

fibroblasti controllo (1xg) e medium EBM-2 (controllo positivo)

L’utilizzo di un modello di cultura 3D è stato previsto per studiare l’effetto della microgravità sulla

organizzazione dei fibroblasti e sulla loro capacità di influenzare la formazione di strutture tube-like

da parte di cellule endoteliali in un modello 3D di angiogenesi in vitro.

In Matrigel sono state coltivate cellule endoteliali umane per valutarne la capacità di formare

strutture tube-like in seguito a condizionamento con medium derivante da fibroblasti sottoposti a

µg per 72 ore.

µ

0 h 24 h 48 h

EBM

-2

1xG

µ

G

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67

Si evidenzia ancora una volta quanto il trattamento in µg dei fibroblasti riduca le loro potenzialità

inibendoli. Il medium derivante dallo stimolo in RCCS non è in grado di coadiuvare le cellule

endoteliali a formare strutture tube-like, a differenza dello stesso terreno derivante da campioni

NHDF mantenute a 1xg per le 72 ore. Quest’ultimo campione è paragonabile, nella sua capacità di

sviluppare strutture complesse all’interno di una cultura 3D con Matrigel, al campione di controllo

positivo che utilizza come terreno di cultura l’EBM-2 specifico per le cellule endoteliali (Fig. 24).

Fig. 24 - Colture tridimensionali di HUVEC in presenza di medium condizionato da fibroblasti esposti a µg,

medium di fibroblasti controllo (1xg) e medium EBM-2 (controllo positivo)

Infine, sono stati effettuati esperimenti di co-colture composte da NHDF e HUVEC avvalendosi delle

caratteristiche del Matrigel.

Seguendo i protocolli fin ora descritti, anche in questo caso i fibroblasti sono stati sottoposti a µg

per 72 ore, recuperati e piastrati in matrigel insieme alle cellule endoteliali formando una co-

coltura, andando così a valutare le capacità delle due linee di produrre un’interazione endoteliale-

stromale.

0 h 4 h 6 h

EBM

-2

1xG

µ

G

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In questo modo è stato evidenziato che già a 4 ore dalla semina entrambi i campioni mostrano una

moderata capacità di formare strutture organizzate, con una differenza non significativa tra le

immagini del campione di controllo (NHDF a 1xg) al confronto dei trattati (NHDF a µg) (Fig. 25).

Fig. 25 - Colture tridimensionali di fibroblasti e cellule endoteliali in Matrigel dopo 4 ore dalla semina. I

fibroblasti (verde) sono stati sottoposti per 72 ore a 1xG o a µG per poi essere posti in co-coltura con cellule

endoteliali (rosso).

Questo risultato diventa invece significativo con il passare del tempo: a 6 ore i campioni di controllo

mostrano una formazione di strutture capillari, mentre nel campione composto da fibroblasti

precedentemente sottoposti a µg avviene una evidente perdita dell’abilità da parte delle HUVEC di

formare queste strutture (Fig. 26).

Fig. 26 - Colture tridimensionali di fibroblasti e cellule endoteliali in Matrigel dopo 6 ore dalla semina. I

fibroblasti (verde) sono stati sottoposti per 72 ore a 1xG o a µG per poi essere posti in co-coltura con cellule

endoteliali (rosso).

1xG µG

µG 1xG

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69

33) Effetto della µg su un modello di wound healing in vivo (Hirudo

medicinalis)

Lo studio si è posto anche l’obiettivo di valutare l’effetto delle condizioni di µg simulata mediante

RPM su un modello in vivo di Hirudo Medicinalis.

Le sanguisughe sono state poste in fiasche T75 riempite con specifico mezzo di coltura ed esposte

a µg per 48 o 96. I controlli sono stati mantenuti nelle stesse condizioni eccetto l’esposizione a µg I

risultati ottenuti dimostrano che la µg induce un ritardo nella guarigione delle ferite e alterazioni

nel processo di riparazione. Sia dopo 48 (Fig. 27) che 96 ore (Fig. 28), le sanguisughe esposte a µg

mostravano una ferita poco rimarginata, parzialmente coperta da un epitelio caratterizzato da

cellule incapaci di formare un tessuto coeso, probabilmente a causa di difetti nelle strutture di

adesione. Negli animali di controllo è stato osservato un meccanismo di riparazione efficacie e una

evidente rigenerazione del tessuto.

Fig. 27 - Effetto della µg (48 ore) simulata nel modello di wound healing in vivo Hirudo medicinalis

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70

Fig. 28 - Effetto della µg (96 ore) simulata nel modello di wound healing in vivo Hirudo medicinalis

34) Modello di wound healing in vivo e prove preliminari sull’effetto di

contromisure di tipo fisico

In questi esperimenti si è valutata l’efficacia della radiazione laser NIR nel promuovere il processo

di guarigione in un modello di wound healing in vivo (Hirudo medicinalis).

Gli animali sono stati divisi in 4 gruppi. Ponendo come tempo di inizio dell’esperimento (T0) il

momento in cui è stata effettuata la ferita mediante bisturi, un gruppo trattato (insieme al proprio

controllo) è stato sacrificato a T72, dopo aver subito 2 trattamenti laser, mentre un altro gruppo,

sottoposto a quattro sessioni di laser terapia, è stato sacrificato con il corrispondente gruppo di

controllo a T168.

Il primo gruppo, trattato per due volte, ha mostrato una ferita stretta e rivestita da un sottile

epitelio multistrato. I tessuti connettivo e muscolare sottostanti mostrano una rinnovata continuità.

Il relativo controllo è apparso con un’ampia ferita del tessuto connettivo e della tonaca muscolare,

rivestito da un sottile epitelio superficiale.

Nei campioni sottoposti a quattro sessioni di trattamento si è osservato una quasi totale guarigione

della ferita che appare superficiale e rivestita da uno strato epiteliale continuo, il laser sembra

indurre una moderata rigenerazione del tessuto connettivo e della tonaca muscolare sui margini

della ferita (Fig.29).

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71

Nei campioni di controllo è ancora presente nella cute dorsale una piccola soluzione di continuo

non risarcita, che si estende nel connettivo, caratterizzata da epitelio superficiale sottile e

discontinuo. Inoltre, si osserva un tessuto cicatriziale notevolmente alterato dal punto di vista

qualitativo, caratterizzato da fibroblasti e cellule mesenchimali.

Fig. 29 - Effetti indotti da radiazione laser NIR su modello di wound healing in vivo Hirudo

medicinalis

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72

Discussione

Qualsiasi tipo di evento che procuri un danno tissutale può provocare nei pazienti una serie

problematiche a breve o a lungo termine, legate al recupero della piena funzionalità del tessuto

stesso.

Lo studio delle fasi di rigenerazione tissutale assume quindi un’importanza rilevante in medicina e

si riflette sulla società.

Gli aspetti che determinano una buona rigenerazione del tessuto sono molteplici, come ad esempio

la regione anatomica in cui è localizzato il danno e la sua entità. Rivolgendo l’attenzione all’apparato

tegumentario, principlmente alla cute, una lesione in prossimità di un’articolazione mobile

presenterà problematiche maggiori per il recupero a confronto con un danno della stessa entità

presente in un’area meno soggetta a stress meccanico.

Problemi possono derivare da disregolazioni funzionali dei meccanismi alla base della rigenerazione

tissutale o da condizioni patologiche preesistenti (diabete, insufficienza circolatoria, etc…), che

possono ritardare la guarigione fino all’instaurarsi di ulcere croniche o favorire una fibrosi in grado,

in alcuni casi, di interferire con le funzioni normali del tessuto in oggetto (Wynn T.A., et al. 2012).

Il programma di ricerca svolto si è focalizzato principalmente su fibroblasti e cellule endoteliali, che

hanno un ruolo di primaria importanza nei processi di riparazione e rigenerazione.

Ampio spazio è stato dedicato a studi condotti in condizioni di µg, simulata con due diversi tipi di

dispositivi (RPM e RCCS). Questa scelta è dovuta al fatto che le ricerche più recenti dimostrano

inequivocabilmente l’importanza dei fattori meccanici nella rigenerazione dei tessuti. Quindi poter

studiare i meccanismi cellulari e molecolari alla base dei processi di rigenerazione in condizioni di

assenza di fattori meccanici è estremamente utile per capire il ruolo che questi hanno nella

rigenerazione tissutale e poi applicare queste conoscenze nel campo dell’ingegneria dei tessuti.

Inoltre, si sono condotti esperimenti per valutare l’efficacia di altri fattori di tipo fisico (campi

elettromagnetici e radiazione laser) nel promuovere i processi rigenerativi. Tali fattori sono stati

anche testati come contromisure verso alterazioni indotte dalla µg (ossia da condizioni di assenza

di carico gravitazionale) e possono essere considerati valide strategie terapeutiche da applicare per

favorire la rigenerazione tissutale e per gestire le disfunzioni dei processi di riparazione dei tessuti

derivanti da cause diverse.

I modelli sperimentali scelti, che vanno dalle culture cellulari bidimensionali al modello animale,

con le culture cellulari tridimensionali come passo intermedio, ci hanno permesso di valutare

l’effetto dei diversi fattori, o della loro assenza, su alcuni meccanismi molecolari e cellulari che sono

alla base della rigenerazione dei tessuti ed anche sull’intero processo riparativo studiato in vivo.

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Nei primi studi si è valutato l’effetto dell’assenza di carico gravitazionale (µg simulata mediante

RCCS) sulla distribuzione delle cellule NIH-3T3 nelle varie fasi del ciclo cellulare. I risultati ottenuti

dimostrano che, in condizioni di µg, le cellule tendono ad accumularsi nella fase S, cioè nella fase di

replicazione del proprio DNA. Per tempi di esposizione brevi (6h) non si hanno effetti significativi

ma, valutando la distribuzione cellulare nelle varie fasi del ciclo dopo 18 ore (corrispondenti al

tempo di replicazione della popolazione cellulare considerata) dall’esposizione a µg, si osserva

comunque una tendenza delle cellule ad accumularsi in fase S. L’accumulo delle cellule in fase S

porta ad una diminuzione del numero di cellule nella fase successiva, cioè G2, la fase di crescita e

preparazione alla mitosi.

E’ interessante osservare che per72 ore di esposizione a µg, il numero di cellule in fase G2 aumenta,

mentre diminuisce quello in fase G1. Questo effetto fa ipotizzare che con tempi di esposizione più

lunghi si verifichi un processo di adattamento delle cellule in risposta alle condizioni di µg, con

conseguente sblocco del ciclo cellulare.

L’aumento della proliferazione osservato dopo esposizione a µg per 72h, può quindi essere dovuto

al parziale blocco del ciclo cellulare e alla successiva ripresa del ritmo proliferativo delle cellule

precedentemente accumulatesi nelle fasi S e G2. E’ noto che la migrazione dei fibroblasti nell’area

interessata dalla lesione è uno degli eventi precoci della riparazione tissutale. Pertanto, si è

valutata, mediante scratch assay, la capacità di migrare dei fibroblasti (NIH-3T3) dopo esposizione

di 72 ore a µg. I risultati di questo saggio hanno rivelato che sia per tempi di esposizione brevi (6

ore) che prolungati (72 ore) si ha una riduzione della capacità di migrazione nei fibroblasti. Lo

scratch non era rimarginato, evidenziando una riduzione della motilità dei campioni trattati a

differenza dei controlli.

Posto che le condizioni di µg corrispondono ad una assenza di fattori meccanici, il risultato ottenuto

è in accordo con le conoscenze che ad oggi abbiamo sui fibroblasti, la cui sensibilità agli stress

meccanici è stata evidenziata da molti studi (Gabbiani G., et al. 2003).

L’esposizione a queste condizioni crea un disequilibro nei sistemi e negli apparati dell’organismo e

questo fenomeno si osserva anche a livello cellulare dove, ad esempio nel citoscheletro e gli

organuli cellulari. Di conseguenza abbiamo posto la nostra attenzione sull’espressione dell’α-SMA

e sulla sua disposizione spaziale, che nei fibroblasti identifica un segnale del cambiamento

fenotipico in miofibroblasti (Darby I.A., et al. 2016).

Le analisi di immunofluorescenza effettuate su questi campioni hanno evidenziato un ri-

arrangiamento importante di α-SMA nei fibroblasti sottoposti a µg mostrando una diminuzione

delle fibre di stress, sostituite da una disordinata rete di filamenti, con addensamenti della proteina

in esame nella zona perinucleare. Inoltre, l’analisi proteica mediante western blotting, mostra una

diminuzione significativa di α-SMA (p <0,05) nei campioni esposti a µg rispetto ai controlli 1xg.

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Una ulteriore conferma che l’assenza di stimoli meccanici induce alterazioni funzionali nei

fibroblasti è la riduzione dell’espressione di E-CAD. Questa proteina è coinvolta nella formazione di

giunzioni aderenti a cui la rete dei filamenti di α-SMA è collegata. La sua diminuzione, anche se non

statisticamente significativa, è quindi coerente con la diminuzione dell’α-SMA.

Lavori precedenti, in cui venivano evidenziate alterazioni significative nella distribuzione dei

filamenti di actina e nell’espressione delle integrine (Monici M. et al., 2011), si trovano in accordo

con questi dati. Inoltre, altri autori hanno dimostrato la down-regolazione di geni che codificano

per proteine coinvolte nell’organizzazione del citoscheletro e nell’adesione (Beck M. et al., 2014).

L’importanza del risultato legato all’ l’α-SMA deriva dal ruolo significativo chequesta proteina

riveste nel processo dirigenerazione del tessuto, in quanto il suo aumento diespressione

corrisponde all’attivazione dei fibroblasti, che porta alla successiva transizione verso il fenotipo

miofibroblastico (Cherng et al. 2008). Questa particolare tipologia di fibroblasti svolgeun ruolo

estremamente importante nelle dinamiche di riparazione del tessuto perché, grazie alla capacità di

contrarsi, determina la contrazione della ferita e il riavvicinamentodei due lembi. (Park S., et al.

2007).

Lo studio dell'espressione proteica nei campioni esposti a μg, rispetto ai controlli 1×g, ha rivelato

anche una diminuzione significativa (p <0,05) del fattore di crescita pro-angiogenico VEGF e un

aumento significativo (p <0.05) di COX-2. Quest’ultimo è un enzima chiave di tipo pro-

infiammatorio, già descritto in altri sistemi cellulari esposti μg (Matsumoto et al., 1998).

Se l’assenza di stress meccanici induce effetti che provocano disfunzioni nei meccanismi che stanno

alla base del processo di riparazione, in letteratura si possono trovare molti studi che dimostrano

l’efficacia di altri fattori di tipo fisico, come i CEM e la radiazione laser, nel promuovere la

rigenerazione dei tessuti. Ad esempio, si riportano effetti positivi dei CEM sull’attivazione dei

fibroblasti, incrementandone il potenziale riparativo (Seeliger C., et al. 2014) provocando un

aumento della produzione di collagene e un aumento della transizione verso il fenotipo

miofibroblastico (Choi M.C., et al. 2015).

In questo studio, la prima valutazione effettuata sui CEM è servita a indentificare parametri ottimali

per la stimolazione, da utilizzare nei successivi esperimenti. Eseguendo test di wound healing in

vitro (Scratch Assay), si è appurato che il maggior effetto sui fibroblasti, corrispondente a una più

rapida chiusura dello scratch si otteneva con CEM Questi test hanno mostrato che con CEM da 25

Hz e 15,4G è stato possibile ottenere una maggior attivazione della motilità cellulare rispetto ai

controlli non trattati e rispetto ad altre intensità del campo elettromagnetico testate. Non capisco

e non mi pare corrisponda a quanto detto nei risultati

L’analisi è stata mirata alla valutazione della capacità dei CEM di indurre uno stimolo proliferativo

su fibroblasti NIH-3T3. I risultati hanno mostrato un aumento della capacità proliferativa già a 48

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ore dal trattamento, con un aumento significativo del numero di cellule dopo altre 24 ore. Il

risultato ha indicato anche un incremento dell’attività mitotica.

Lo studio del ciclo cellulare ha identificato una distribuzione nelle 4 fasi differente tra controlli e

trattati, con quest’ultimi che hanno evidenziato un aumento di cellule in fase S pari al 27,84% di

tutte le cellule del campione.

Successivamente, si è valutata l’efficacia del CEM selezionato nel ripristinare la migrazione dei

fibroblasti precedentemente inibita da esposizione a µg. Le cellule, una volta trattate sulla RCCS

per 6 o 72 ore, sono state piastrate in Petri da 60 mm e dopo 24 ore sottoposte a Scratch Assay.

Questo esperimento differenzia dai precedenti in quanto anche il campione di controllo è stato

sottoposto a µg. I trattati invece, dopo la produzione del gap, hanno subito il trattamento mediante

CEM, utilizzando le impostazioni selezionate nelle fasi preliminari di studio dei CEM.

Il risultato ottenuto ha confermato la capacità dei CEM di indurre uno stimolo migratorio nei

fibroblasti, anche se precedentemente stimolati in RCCS. Infatti, è stato possibile osservare che il

trattamento da 15,4 G si è rivelato maggiormente capace a indurre nei campioni un’attivazione

della motilità rispetto al proprio tempo T0.

Inoltre, risulta maggiormente ridotta l’area fra i due lembi del gap anche rispetto ai campioni

trattati con il CEM da 7,4 G.

Il modello di Scratch Assay è stato utilizzato anche al fine di studiare l’applicazione del Laser IR come

contromisura atta ad accelerare i processi di riparazione tissutale.

Numerosi studi in vivo e in vitro dimostrano che la radiazione laser con lunghezze d’onda comprese

nelle bande del rosso e dell’IR possono favorire i processi di riparazione tissutale. In molti di questi

studi si evidenzia come l’efficacia del trattamento sia fortemente dipendente dai parametri di

trattamento e, in particolare, dalla ″dose ″ (van Breugel H.H., et al. 1992).

Trascorse 24 ore dal trattamento laser è stato possibile apprezzare la migrazione dei fibroblasti

verso il centro dello scratch. Le varie dosi testate hanno mostrato, al confronto con il proprio T0

(valutazione della superficie dell’area dello scratch generato), una maggior capacità migratoria

rispetto al campione di controllo. Questi dati hanno anche evidenziato che la dose di 3J/cm² ha

indotto una migrazione più evidente.

Un dato significativo è stato ottenuto anche da analisi di immunofluorescenza sull’ α-SMA di questi

campioni. La radiazione laser con dose 3 J/cm² ha indotto nell’ α-SMA una distribuzione diversa

rispetto al campione di controllo, indicando un cambiamento fenotipico dei fibroblasti in esame.

Un secondo capitolo dei nostri studi ha valutato il possibile impatto della µg sull’interazione

endoteliale – stromale.

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I fibroblasti insieme alle cellule endoteliali sono tra i protagonisti dei processi di guarigione delle

ferite ed il loro comportamento è regolato da fattori biochimici e meccanici, non ultima la forza di

gravità. Inoltre, sono in grado di richiamare le cellule endoteliali e i loro precursori dal circolo

sanguigno, inducendone la proliferazione e l’attivazione della neo-angiogenesi (Li W.W., et al.

2015).

La capacità dei fibroblasti di migrare e transdifferenziare in miofibroblasti, influenza fortemente

l'evoluzione della guarigione a seguito di lesioni (Darby I.A., et al. 2016), sono così in grado di

regolare il rimodellamento del tessuto connettivo e la chiusura della ferita, combinando la loro

capacità di biosintesi della matrice extracellulare con la capacità contrattile acquisita dal

citoscheletro, che le rende simili alle cellule muscolari lisce.

Le cellule endoteliali attivate promuovono la neo-angiogenesi, ovvero la formazione di nuovi

capillari per irrorare di sangue e nutrienti il nuovo tessuto in fase di rigenerazione, e interagiscono

con citochine angiogenetiche, con la matrice cellulare e con fattori di crescita come il VEGF

(Herrmann M., et al. 2015).

L’esperimento di condizionamento si è basato su un saggio di scratch su cellule endoteliali, nel quale

è stato utilizzato un terreno derivante da un esperimento di µg indotta su fibroblasti.

Le HUVEC, mantenute con il medium di coltura precedentemente sottoposto a µg per 72 ore, hanno

evidenziato un ritardo nella chiusura del gap. Diversamente, il terreno derivante dal campione di

controllo di fibroblasti rimasti a terra è in grado di coadiuvare le cellule endoteliali nella loro attività

di migrazione in modo comparabile con il campione di controllo positivo, nel quale è stato utilizzato

come terreno lo specifico EBM-2 per HUVEC.

I fibroblasti in condizioni fisiologiche esprimono citochine e fattori di crescita in grado di richiamare

e attivare le cellule endoteliali allo scopo di favorire la neonagiogenesi, ma la mancanza di stress di

tipo meccanico può influenzare tale meccanismo, che abbiamo investigato mediante l’utilizzo un

modello di coltura con Matrigel, sostanza capace di mimare le caratteristiche della matrice

extracellulare e quindi le condizioni tipiche di tessuti 3D. I fibroblasti precedentemente mantenuti

per 72 ore in µg, seminati in Matrigel, hanno mostrato difficoltà a formare strutture più complesse

e cluster a confronto di campioni di controllo precedentemente mantenuti nelle stesse condizioni

strumentali ad 1xg.

Il Matrigel è stato utilizzato anche su le cellule endoteliali, così da poter valutare se lo stesso

condizionamento effettuato con il terreno proveniente da nHDF sottoposte a µg per 72 ore fosse

in grado di inibirne le funzionalità. In effetti, le HUVEC hanno mostrato una capacità alterata di

formare strutture tube-like tridimensinali.

L’ultima analisi in Matrigel è stata una prova di co-coltura, valutando gli effetti indotti dai fibroblasti

esposti a μg per 72 ore sui processi di tubulogenesi delle cellule endoteliali.

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Nelle prime ore di co-coltura sia controlli che trattati mostrano una moderata capacità di formare

costrutti tridimensionali, mentre i dati ottenuti a 6 ore dalla semina in Matrigel hanno descritto una

situazione ben diversa. Il campione di controllo mostra un’organizzazione complessa di entrambe

le linee cellulari, mentre al contrario i campioni con fibroblasti trattati a µg per 72 ore hanno

evidenziato che le cellule endoteliali non sono state più in grado di organizzarsi e di formare

strutture tridimensionali.

Qundi, questi dati sembrano essere in accordo tra loro indicandoci che una disregolazione nei

fibroblasti causata dal cambiamento degli stress fisici, ovvero l’induzione di µg, provocano in loro

un’incapacità di produrre quei fattori che, nelle fasi della rigenerazione del tessuto e nella

neoangiogenesi, sono in grado di attivare e stimolare le cellule endoteliali.

Sono stati messi appunto dei modelli in vivo con lo scopo di studiare il fenomeno del Wound Healing

in un quadro morfologico e funzionale nella Hirudo Medicinalis esposte a μg.

Il taglio chirurgico effettuato sul dorso dell’animale è stato subito suturato. Le sanguisughe sono

state poi esposte a periodi di µg per 48 o 96 ore mediante l’utilizzo della RPM. I risultati hanno

mostrato, in accordo con i dati ottenuti in vitro, che nelle sanguisughe sottoposte a μg il processo

di chiusura della ferita è avvenuto più lentamente. Sia dopo 48 che 96 ore di trattamento la ferita

è apparsa più ampia e parzialmente rivestita da un epitelio caratterizzato da cellule non ben

organizzate tra loro.

Esperimenti preliminari in vivo sono stati effettuati anche per testare la radiazione luminosa con un

Laser IR a due lunghezze d’onda. Questa categoria di laser è già stata dimostrata esser efficacie per

coadiuvare la rigenerazione di ferite inducendo la crescita dei fibroblasti, sintesi del collagene,

angiogenesi e successiva re-epitelizzazione (de Lima F.J., et al. 2014).

Anche in questo esperimento gli animali sono stati manipolati con la metodica descritta in

precedenza e i tagli dorsali sono stati trattati con la sorgente luminosa.

Dopo 2 trattamenti laser, la cute sul dorso degli animali di controllo ha presentato un’ampia ferita

del tessuto connettivo e della tonaca muscolare rivestita da un sottile epitelio superficiale, mentre

nei campioni trattati con il laser la ferita è apparsa stretta e rivestita da un sottile epitelio

multistrato.

I campioni che sono stati sottoposti a 4 trattamenti hanno mostrato nella cute dorsale del controllo

una piccola soluzione di continuo non risarcita, che si estende nel tessuto connettivo, caratterizzata

da epitelio superficiale sottile e discontinuo. Invece, nel campione trattato si è osservato una quasi

totale guarigione della ferita che è apparsa superficiale e rivestita da uno strato epiteliale continuo.

Inoltre, negli animali di controllo è stata osservata la presenza di fibroblasti e cellule mesenchimali,

in un contesto di alterazione dello stato qualitativo del tessuto. Il trattamento laser è sembrato

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indurre invece una moderata rigenerazione del tessuto connettivo e della tonaca muscolare sui

margini della ferita.

In conclusione, i risultati ottenuti nel corso della ricerca oggetto di questa tesi rivelano che la forza

di gravità e gli stress meccanici hanno un ruolo di rilievo nella regolazione delle varie fasi che

compongono i processi di riparazione e rigenerazione tissutale.

I cambiamenti morfologici e funzionali indotti dalla microgravità nei fibroblasti e in altre popolazioni

cellulari coinvolte nei meccanismi di riparazione restano ancora in parte sconosciuti e molti altri

studi saranno necessari per comprendere le possibili conseguenze sulla evoluzione dei processi

riparativi e sulla qualità del tessuto cicatriziale. Tuttavia, i dati raccolti negli studi sopra descritti

dimostrano in modo inequivocabile che i fattori meccanici influenzano in modo significativo il

comportamento delle popolazioni cellulari studiate.

In questa tesi abbiamo potuto osservare che l’assenza di stress meccanico dovuta alle condizioni di

µg può interferire con aspetti funzionali basilari, come la migrazione e la proliferazione dei

fibroblasti, ed anche con la capacità di interagire con altri attori primari della risposta al danno

tissutale.

Inoltre, dai risultati conseguiti emerge chiaramente che anche altri fattori di tipo fisico, come i

campi elettromagnetici e la luce, nella fattispecie le radiazioni laser NIR, possono produrre effetti

rilevanti su importanti programmi cellulari e anche supplire, almeno in parte, alla mancanza di

carico gravitazionale.

Questi studi possono contribuire a incrementare le conoscenze sulla regolazione dei meccanismi di

riparazione dei tessuti e, inoltre, possono aprire la strada per l’applicazione di stimoli di tipo fisico

nell’ambito delle terapie rigenerative, dando avvio a strategie terapeutiche integrate intervengono

la terapia cellulare, l’uso di scaffold tridimensionali e la stimolazione prodotta da fattori di tipo fisico

e biochimico.

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Ringraziamenti

Raggiungo con questa tesi un risultato importate, di cui poter andare orgoglioso. Per questo voglio ringraziare

le persone che mi hanno permesso di ottenere questo obiettivo:

iniziando dal mio tutor, la Dottoressa Monica Monici e tutto il gruppo di ricerca del laboratorio congiunto di

Fisica Medica, con i quali, non ho solo affrontato un percorso di formazione e lavoro, ma un’esperienza di

vita che porterò sempre con me. Sono cresciuto professionalmente e umanamente grazie alle capacità di

ognuno di loro, quindi ringrazio la Dottoressa Francesca Cialdai, il Dottor Alessio Gnerucci, la Dottoressa Paola

Faraoni e la Dottoressa Elettra Sereni, il Dottor Francesco Ranaldi, il Professor Franco Fusi e il Professor

Giovanni Romano, il Sig. Pasquale Imperiale. È stato davvero un immenso piacere.

Per lo sviluppo del progetto di dottorato vorrei ringraziare il Professor Daniele Bani e il suo gruppo di ricerca,

Il Professor Paolo Cirri e la Dottoressa Anna Caselli.

Un ringraziamento particolare va al Professor Sergio Capaccioli e al Dottor Matteo Lulli, che in questo

percorso hanno avuto una rilevanza indiretta, ma allo stesso modo importante.

Per arrivare fin qui non bastano però solo le proprie capacità, ma c’è sicuramente bisogno di un valore

aggiunto che viene dalle persone più care. Ringrazio i miei genitori, Susanna e Gianfranco, per avermi

sostenuto sempre e comunque, facendomi sentire ogni volta la loro stima e affetto. Ringrazio con il cuore

Alessia, semplicemente per avermi supportato e sopportato in ogni momento, e ancor di più nell’ultimo anno

di dottorato. Non è stato facile e non è nemmeno finita qui.

Un ringraziamento grande va a tutti gli amici, quelli veri. Non finirò mai di ringraziare Luca, Roberto, Alessio,

Nicolò, Riccardo, Alessandro, Giovanni e Daniele. Ognuno di voi mi ha dato una spinta verso questo risultato.

Grazie, grazie, grazie.

Un sorriso grande va agli amici del Circolo Universitario, in primis ad Alessandro e Ileana, al nostro vip Andrea

e ai condottieri Daniele e Stefano e tutti gli altri, con cui ho condiviso emozioni e avventure sportive davvero

bellissime. Far parte di questo gruppo, sugli sci o su una bicicletta, è stato e sarà sempre un grande piacere.

Infine, un piccolo ringraziamento a me stesso, al ragazzino che intraprese questa strada senza mai smettere

di sognare, per aver concluso un percorso emozionante che oggi volge al termine, ma che dentro di me

resterà sempre indelebile.