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De Iustitia 1 INDICE I presupposti della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. di Flavio Alessio CLEMENTE. Frazionamento del credito e abuso del processo: le Sezioni unite si pronunciano sulla proponibilità di domande separate per crediti relativi al medesimo rapporto di lavoro. di Vincenzo IAZZETTA. Gli interessi usurari nei contratti di mutuo anteriori alla legge 108 del 1996. di Lorenzo MARUOTTI. Nessuno è infallibile, nemmeno le società in house. di Romilda IERVOLINO. Pag. 2 Pag. 8 Pag. 20 Pag. 27

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De Iustitia

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INDICE

I presupposti della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.

di Flavio Alessio CLEMENTE.

Frazionamento del credito e abuso del processo: le Sezioni

unite si pronunciano sulla proponibilità di domande separate

per crediti relativi al medesimo rapporto di lavoro.

di Vincenzo IAZZETTA.

Gli interessi usurari nei contratti di mutuo anteriori alla legge

108 del 1996.

di Lorenzo MARUOTTI.

Nessuno è infallibile, nemmeno le società in house.

di Romilda IERVOLINO.

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Pag. 20

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De Iustitia

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I presupposti della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.

di Flavio Alessio CLEMENTE*

Cassazione civile, sez. VI-3, ordinanza del 6 dicembre 2016 (dep. 22/02/2017),

n. 4534, Pres. A. Amendola, Rel. M. Rossetti.

La facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige due

presupposti: in primo luogo, che sia concretamente accertata l'ontologica

esistenza d'un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che

non può essere assolto semplicemente dimostrando che l'illecito ha soppresso

una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di

sfruttamento economico; in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa

esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l'impossibilità (o

l'estrema difficoltà) d'una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e

non già dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegare e dimostrare gli

elementi dai quali desumere l'entità del danno.

Precedenti conformi

Cass., sez. III, sentenza del 19/06/1962, n. 1536; Cass., sez. II, sentenza del

03/04/1963, n. 838; Cass., sez. III, sentenza del 22/05/1963, n. 1327; Cass., sez. II,

sentenza del 16/10/1965, n. 2125; Cass., sez. III, sentenza del 25/07/1967, n. 1964;

Cass., sez. II, sentenza del 22/01/1974, n. 181; Cass., sez. I, sentenza del 23/10/1968,

n. 3418; Cass., sez. III, sentenza del 03/07/1982, n. 3977; Cass., sez. I, sentenza del

30/05/2002, n. 7896.

Precedenti difformi

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COMMENTO

La facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige due

presupposti: in primo luogo, che sia concretamente accertata l'ontologica

esistenza d'un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che

non può essere assolto semplicemente dimostrando che l'illecito ha soppresso

una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di

sfruttamento economico; in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa

esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l'impossibilità (o

* Dottore in giurisprudenza, specializzato in professioni legali.

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l'estrema difficoltà) d'una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e

non già dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegare e dimostrare gli

elementi dai quali desumere l'entità del danno.

Il ricorso alla liquidazione equitativa (art. 1226 c.c.) è consentito al giudice

quando il danneggiato ha dimostrato a) l’esistenza certa, ovvero altamente

verosimile, di un effettivo pregiudizio e quando b) tale pregiudizio

risulti di impossibile (o estremamente difficile) qualificazione (tale

difficoltà non può derivare «dalla negligenza della parte danneggiata

nell’allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l’entità del danno»).

Se il pregiudizio economico è incerto, è possibile ma non probabile, non sussiste

spazio per l’invocabilità dell’art. 1226 c.c. (così, Cass. 1536/1962, secondo la

quale il danno deve essere certo nella sua esistenza ontologica).

Nel caso di specie, a seguito dell’allagamento di un appartamento, la proprietaria

dell’appartamento del piano inferiore ha richiesto il risarcimento in via equitativa

al giudice per il danno da «diminuita godibilità del bene nell’arco temporale

necessario alle riparazioni».

La Corte però non ritiene accoglibile l’istanza risarcitoria del danneggiato perché

sfornita di prova circa l’esistenza del danno. Infatti, il danno patrimoniale

consistito nella perduta disponibilità di un bene è liquidabile in via equitativa in

quanto sia certo (per essere stato debitamente provato da chi si afferma

danneggiato) che sia stato sostenuto un esborso per procacciarsi utilità

sostitutive di quella perduta (così Sez. 3, Sentenza n. 25912 del 19.11.2013).

I giudici di legittimità aggiungono che il danno subìto dalla proprietaria

dell’immobile non è nemmeno di tipo non patrimoniale (art. 2059 c.c.): affinché

si configuri il danno in parola è necessario che il fatto costituisca reato ovvero

che leda interessi della persona costituzionalmente garantiti. In assenza delle

citate condizioni il mero disagio o fastidio non è risarcibile.

SENTENZA

FATTI DI CAUSA

1. Il consigliere relatore ha depositato, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., la

seguente relazione:

"1. C.A. ha impugnato per cassazione la sentenza con la quale la Corte d'appello

di Roma l'ha condannata a risarcire il danno patito da S.A., in conseguenza di

un allagamento accidentale proveniente dall'appartamento della prima, che

procurò danni al sottostante appartamento di proprietà della seconda.

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2. Col primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 116

c.p.c. deduce che la Corte d'appello, ritenendo provata l'esistenza del danno, la

sua derivazione causale dall'allagamento e l'ammontare di esso, avrebbe

utilizzato prove unilateralmente precostituite, quali una perizia giurata di parte.

Il motivo è inammissibile.

La valutazione delle prove è compito del giudice di merito, e non è sindacabile

in sede di legittimità. Non è, quindi, consentito sostenere in questa sede che

esistevano altri e più corretti modo di valutare le risultanze istruttorie, rispetto a

quello prescelto dal giudice di merito.

Aggiungasi che nel caso di specie la Corte d'appello non ha affatto fondato la

propria decisione su fonti di prova unilateralmente precostituite, ma ha tratto le

proprie conclusioni dalla valutazione organica ed unitaria di cinque fonti di prova:

una perizia di parte, una consulenza tecnica, una fattura, varie fotografie e la

prova testimoniale.

Né può costituire vizio della sentenza di merito, censurabile in cassazione, la

circostanza che la Corte d'appello abbia omesso di esaminare alcune fonti di

prova: è infatti pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che il giudice di

merito non ha l'obbligo di prendere in esame e confutare tutte le prove che

ritiene irrilevanti, ma è sufficiente che si limiti ad indicare le prove che ritiene

decisive, così implicitamente mostrando di non avere ritenuto utilizzabili o

decisive le fonti di prova non esaminate.

3. Col secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1226

c.c.. Deduce che la Corte d'appello ha accordato all'attrice il risarcimento del

danno da diminuita godibilità del bene nell'arco temporale necessario alle

riparazioni, nonostante nessuna prova fosse stata fornita dell'esistenza di tale

pregiudizio.

3.1. Il motivo appare fondato.

È pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tanto è consentito al

giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente

dimostrata l'esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d'un effettivo

pregiudizio.

È l'impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende

possibile il ricorso alla stima equitativa. Se, invece, è l'esistenza stessa d'un

pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile,

spazio non v'è alcuno per l'invocabilità dell'art. 1226 c.c. (così già Sez. 3,

Sentenza n. 1536 del 19/06/1962, secondo cui "la valutazione equitativa del

danno presuppone che questo, pur non potendo essere provato nel suo preciso

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ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica"; nello stesso senso, ex

plurimis, Sez. 2, Sentenza n. 838 del 03/04/1963; Sez. 3, Sentenza n. 1327 del

22/05/1963; Sez. 2, Sentenza n. 2125 del 16/10/1965; Sez. 3, Sentenza n. 1964

del 25/07/1967; Sez. 2, Sentenza n. 181 del 22/01/1974; Sez. 1, Sentenza n.

3418 del 23/10/1968; Sez. 3, Sentenza n. 3977 del 03/07/1982; Sez. 1, Sentenza

n. 7896 del 30/05/2002).

Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo

di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno

esista, indicando le ragioni del proprio convincimento. Ciò vuol dire che, nel caso

di danno patrimoniale consistito nella perduta disponibilità di un bene, il ricorso

alla liquidazione equitativa in tanto è ammissibile, in quanto sia certo (per essere

stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato) che sia stato

sostenuto un esborso per procacciarsi utilità sostitutive di quella perduta (così

Sez. 3, Sentenza n. 25912 del 19.11.2013).

3.2. Si propone pertanto l'accoglimento del secondo motivo di ricorso e la

cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Roma, la

quale nel tornare ad esaminare la sola questione della stima del danno da

mancato godimento dell'immobile si atterrà al seguente principio di diritto:

La facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige due

presupposti: in primo luogo, che sia concretamente accertata l'ontologica

esistenza d'un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che

non può essere assolto semplicemente dimostrando che l'illecito ha soppresso

una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di

sfruttamento economico; in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa

esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l'impossibilità (o

l'estrema difficoltà) d'una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e

non già dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegare e dimostrare gli

elementi dai quali desumere l'entità del danno".

2. La parte controricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma

2, con la quale ha insistito per il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il Collegio condivide le osservazioni contenute nella relazione, con le

precisazioni che seguono.

2. La Corte d'appello ha stimato il danno patito dalla sig.a S.A. nell'importo di

Euro 10.000, al netto della mora.

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Ha dichiarato di determinare tale importo "equitativamente" (e dunque, deve

ritenersi, ai sensi dell'art. 1226 c.c.).

Ha precisato che quell'importo era "comprensivo del pregiudizio derivante dalla

diminuita godibilità del bene nell'arco temporale necessario alle riparazioni".

È quest'ultima affermazione che rende la sentenza impugnata non coerente col

dettato dell'art. 1226 c.c., nella parte in cui ha monetizzato il suddetto

pregiudizio da "mancato godimento dell'immobile".

Come rilevato nella relazione, infatti, la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.

è consentita quando all'esito dell'istruttoria il danno risulti certo nella sua

esistenza, ma incerto nella sua consistenza.

Ora, la perduta possibilità di godere d'un bene immobile potrebbe in teoria

costituire tanto un danno patrimoniale, quanto un danno non patrimoniale.

Tuttavia nel caso di specie un danno patrimoniale da mancato godimento

dell'immobile non risulta non solo analiticamente dedotto, ma nemmeno indicato

dalla Corte d'appello. In particolare, la sentenza impugnata non riferisce se tale

pregiudizio patrimoniale sia consistito - ad esempio - nei costi sostenuti per

alloggiare altrove, ovvero nella perdita di canoni di locazione. Manca, dunque, il

presupposto primo per il ricorso alla liquidazione equitativa, ovvero l'esistenza

certa del danno. Ove, poi, la Corte d'appello avesse inteso liquidare in via

equitativa un danno non patrimoniale da mancato godimento dell'immobile, vi

sarebbe da rilevare che anche tale pregiudizio oltre a non risultare

analiticamente e tempestivamente allegato, non sarebbe risarcibile, in quanto il

fatto illecito non costituisce reato e non ha leso interessi della persona

costituzionalmente garantiti: non ricorre dunque alcuna delle condizioni richieste

dall'art. 2059 c.c., per la risarcibilità del danno non patrimoniale, secondo quanto

stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 26972 del

11/11/2008), le quali hanno altresì stabilito, nella medesima sentenza appena

indicata, che il mero disagio o fastidio non costituisce un danno risarcibile, in

mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2059 c.c..

3. Le osservazioni che precedono non consentono di condividere le osservazioni

svolte dalla controricorrente nella propria memoria, tutte incentrate sulla

esistenza d'una prova attendibile dell'esistenza del danno da mancato godimento

dell'immobile. E tuttavia, per quanto detto, nel caso di specie del danno

(patrimoniale e non patrimoniale) da mancato godimento dell'immobile

mancava, prima ancora che la prova, la sua deduzione in giudizio e la sua

risarcibilità.

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4. Il ricorso va dunque accolto limitatamente al secondo motivo, e la sentenza

impugnata va cassata con rinvio. Il giudice del rinvio, nel tornare a liquidare il

danno patito dall'attrice, applicherà il principio di diritto indicato nella relazione

preliminare sopra trascritta.

5. Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo,

cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Roma, in

diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della

Corte di Cassazione, il 6 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2017

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Frazionamento del credito e abuso del processo: le Sezioni unite si

pronunciano sulla proponibilità di domande separate per crediti

relativi al medesimo rapporto di lavoro.

di Vincenzo IAZZETTA*

Cass., Sez. Un., sent. 16 febbraio 2017, n. 4090.

“Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi

ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposti in

separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un

medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione,

inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque

“fondati” sul medesimo fatto costitutivo - sì da non poter essere accertati

separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una

conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale

- , le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta

in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela

processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa

mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne

oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c.

e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti un termine per

memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.”.

Precedenti conformi

Cass. S.U., n. 108 del 10 aprile 2000.

Precedenti difformi

Cass., S.U., n. 23726 del 15 settembre 2007; Cass., S. U. n. 26961/2009.

COMMENTO

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione ritornano sul tema, già affrontato in

diverse pronunce, dell’abuso del processo nel caso in cui siano proposte

molteplici domande per crediti riferibili ad un unico rapporto obbligatorio e,

specificamente, relativi al rapporto di lavoro.

* Dottore in giurisprudenza, specializzato in professioni legali.

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Allo scrutinio delle Sezioni unite è sottoposta la seguente questione: “se, una

volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico

contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del

suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il

frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con

l’improponibilità della domanda”.

Dopo aver sintetizzato i propri precedenti sulla questione (Cass., Sez. un.,

sentenze nn. 23726/2007 e 26961/2009), la Cassazione risponde negativamente

e afferma il seguente principio di diritto: “Le domande aventi ad oggetto diversi

e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata

tra le parti, possono essere proposti in separati processi. Se tuttavia i suddetti

diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse

parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un

possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo - sì da

non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di

attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una

medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte

in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse

oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di

siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto,

il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione

ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle

parti un termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.”.

Le Sezioni unite giungono a tale conclusione, dopo aver evidenziato che la tesi

della infrazionabilità dei crediti relativi ad un medesimo rapporto di durata non

trova conferma nella disciplina processuale. Numerose disposizioni, infatti,

depongono nel senso della proponibilità in tempi e processi diversi di domande

tese al recupero di singoli crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso

esistente tra le parti; il riferimento è agli artt. 31, 40, 104 c.p.c. in tema di

domande accessorie, connessione e proponibilità nel medesimo processo di piu

domande nei confronti della stessa parte. A queste va aggiunta la previsione in

tema di condanna generica e la necessità di esplicita domanda di parte affinché

l’accertamento su questione pregiudiziale abbia efficacia di giudicato ai sensi

dell’art. 34 c.p.c.

Un ulteriore argomento a sostegno della tesi negativa è individuato

nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in tema di estensione oggettiva

del giudicato che perderebbe di significato laddove si ritenessero improponibili

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domande precedute da altre a prescindere dal passaggio in giudicato della

decisione sul primo credito o dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria

successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri

tra le stesse parti di un medesimo rapporto di durata.

Si fa notare, inoltre, che una generale previsione di improponibilità della

domanda graverebbe ingiustamente sul creditore, il quale sarebbe privato della

disciplina peculiare relativa ai diversi crediti vantati: si pensi alla possibilità di

agire in via monitoria per crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al

giudice competente per valore per ciascuno dei crediti e con possibile

esposizione alla necessità di “scegliere” di proporre o meno una tempestiva

insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive

insinuazioni tardive per altri crediti. Ulteriormente, l’onere di azione contestuale

per crediti distinti, considerata la molteplicità dei regimi disciplinati (ad es. in

tema di prescrizione e di onere della prova), determinerebbe un allungamento

dei tempi del processo per la soddisfazione del creditore con violazione

contestuale del principio di economia processuale.

La Corte si sofferma anche su un’altra conseguenza pregiudizievole di non poco

conto ossia quella relativa all’attività economica. In particolare, si evidenzia

l’incidenza negativa di un unico processo per tutti i crediti riferibili a rapporti di

durata sulla circolazione del denaro, sugli scambi e sugli investimenti.

Le Sezioni unite operano poi una lettura speculare della disciplina processuale

precedentemente richiamata rilevando che essa è intesa a consentire, ove

possibile, la trattazione unitaria dei processi e ad attenuare o elidere gli

inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi.

In questo senso, il meccanismo di preclusione dopo il passaggio in cosa giudicata

della sentenza che chiude uno dei giudizi e il rimedio impugnatorio per la

sentenza contraria ad un precedente giudicato rispondono all’esigenza di evitare

la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati

contrastanti e la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una

medesima vicenda sostanziale.

Rispetto alle questioni relative ai crediti distinti, pur riferibili al medesimo

rapporto di durata, e inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo

precedentemente instaurato, “così da potersi ritenere già in esso deducibili o

rilevabili - nonché, in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto

costitutivo -, possono ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l’attore

abbia un oggettivo interesse al frazionamento”.

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Secondo i giudici della Cassazione, l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c. investe non

solo la domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative “modalità” di

proposizione. In quest’ottica, si riconosce al creditore procedente la possibilità

di provare ed argomentare circa il proprio interesse in caso di contestazioni da

parte del convenuto e, laddove manchi tale contestazione, si sancisce il dovere

del giudice - che rilevi ex actis la necessità di un interesse oggettivamente

valutabile al “frazionamento” e ne metta in dubbio l’esistenza - di indicare la

questione ex art. 183 c.p. e, se del caso, di riservare la decisione assegnando

alle parti termine per memorie ex art. 101 c.p.c.

Nel caso di specie, i giudici precisano poi le diversità tra gli istituti del TFR

(oggetto della domanda di rideterminazione tenendo conto di alcune voci

retributive percepite in via continuativa precedentemente proposta) e del premio

fedeltà (oggetto della domanda successiva di ricalcolo con inclusione dello

straordinario prestato a titolo continuativo). Si osserva infatti che la differenza

riguarda oltre che la fonte della pretesa creditoria (legale in un caso e pattizia

nell’altro), anche i presupposti e le finalità degli istituti. A parere della Corte,

appare diverso sia l’ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile che il fatto

costitutivo sicché non appare necessaria, nel giudizio in questione, la verifica

della sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile alla separata

proposizione delle domande.

SENTENZA

I FATTI DI CAUSA

FIAT GROUP AUTOMOBILES s.p.a. (già Fiat auto s.p.a.) ricorre con un unico

motivo nei confronti dell'ex dipendente A.G.S. per la cassazione della sentenza

con la quale la Corte d'appello di Torino ha accolto la domanda del predetto

intesa al ricalcolo del premio fedeltà con inclusione dello straordinario prestato

a titolo continuativo, in difformità dalla sentenza di primo grado che aveva invece

dichiarato improponibile la domanda siccome successiva ad altra anch'essa

proposta dopo la cessazione del rapporto di lavoro ed intesa ad ottenere la

rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci retributive percepite in

via continuativa. A.G.S. ha resistito con controricorso. FCA Italy S.p.a. (già FIAT

GROUP AUTOMOBILES S.p.a.) ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378

c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

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1.Con un unico motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2909

c.c., e art. 111 Cost., la società ricorrente - premesso che la domanda azionata

in questo processo è stata preceduta da altra domanda, anch'essa proposta dal

lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro dopo la cessazione del

rapporto, intesa ad ottenere la rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune

voci retributive percepite in via continuativa; che successivamente l' A. ha

proposto il presente giudizio volto al ricalcolo del premio fedeltà senza motivare

in alcun modo la scelta di "parcellizzare" i giudizi; che entrambe le domande

scaturiscono da un unico rapporto obbligatorio intercorrente tra la società e l' A.

ed avente ad oggetto il contratto di lavoro; che il lavoratore al momento

dell'attivazione della prima vertenza era nelle condizioni di fatto e di diritto per

far valere entrambe le pretese e non aveva addotto alcuna ragione a sostegno

della scelta di promuovere giudizi separati- ha sostenuto che la domanda

proposta nel presente giudizio viola il divieto di abuso del processo per indebito

frazionamento quale affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 23726 del

2007.

Con ordinanza interlocutoria n. 1251 del 2016 il collegio della sezione lavoro di

questa Corte ha dato atto che, con le decisioni numeri 11256 e 27064 del 2013,

altri collegi hanno sostenuto che il principio affermato dalle sezioni unite con la

sentenza n. 23726 del 2007 secondo la quale è vietato l'indebito frazionamento

di pretese dovute in forza di un "unico rapporto obbligatorio" - è applicabile

(anche) nelle ipotesi in cui siano avanzate diverse pretese creditorie derivanti da

un medesimo rapporto di lavoro, fonte unitaria di obblighi e doveri per le parti e

produttivo di crediti collegabili unitariamente alla loro genesi - la volontà delle

parti di stipulare un contratto di natura subordinata ex art. 2094 c.c.-:

collegamento, questo, ancora piu stringente nel caso di controversie promosse

entrambe a rapporto concluso, quando il complesso di obbligazioni derivanti dal

contratto è ormai noto e consolidato.

Non condividendo l'equiparazione del fascio di rapporti obbligatori retributivi e

risarcitori - derivanti dal rapporto di lavoro al "rapporto unico" considerato dalla

citata sentenza delle Sezioni unite, nè la sussistenza dei presupposti per imporre

al creditore di agire in un unico contesto in relazione a crediti diversi connessi

solo in virtu di una complessiva relazione negoziale o legale, e dubitando a

fortiori che dalla proposizione in differenti giudizi di una pluralità di domande

concernenti diversi crediti, pur riferibili ad un medesimo rapporto di lavoro ormai

cessato, possa farsi derivare l'improponibilità delle domande successive alla

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prima, il predetto collegio ha rimesso gli atti al Primo Presidente per

l'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite.

2. Risulta sottoposta allo scrutinio delle Sezioni unite la questione "se, una volta

cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto

giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto

rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il

frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con

l'improponibilità della domanda".

Con la sentenza n. 23726 del 2007 le Sezioni unite sono intervenute sulla

questione e, mutando il precedente orientamento (sent. n. 108 del 2000), hanno

affermato che non è consentito al creditore di una determinata somma di

denaro, dovuta in forza di "un unico rapporto obbligatorio", frazionare il credito

in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel

tempo. Tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per

sua esclusiva utilità con unilaterale aggravamento della posizione del debitore,

si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il

principio costituzionale del giusto processo, in quanto la parcellizzazione della

domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si traduce in un abuso

degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una

corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Piu recentemente le Sezioni unite, con la sentenza n. 26961 del 2009

(pronunciata in tema di giurisdizione), riferendosi alle obbligazioni pecuniarie

nascenti da un unico rapporto di lavoro, hanno ribadito quanto affermato dalla

sentenza n. 23726 del 2007, sostenendo che costituisce principio generale la

regola secondo la quale "la singola obbligazione" va adempiuta nella sua

interezza ed in un'unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa,

anche nell'eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal

creditore. Come emerge con chiarezza dalla lettura delle sentenze suddette,

quando le sezioni unite hanno discusso di (in)frazionabilità del credito si sono

riferite sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo

ad un unico rapporto complesso. Pertanto solo una interpretazione

dell'espressione "unico rapporto obbligatorio", avulsa dal contesto nel quale essa

è inserita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio

di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione

ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti

riferibili ad un unico rapporto di durata.

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Risulta inoltre evidente che l'infrazionabilità del singolo diritto di credito

(decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della

situazione sostanziale ma non dell'oggetto del processo, da relazionarsi al diritto

soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l'estensione considerata

dall'ordinamento) non comporta inevitabilmente (tanto meno implicitamente) la

necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi,

distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra

le stesse parti.

I rilievi che precedono non esimono tuttavia le Sezioni unite dal dare risposta al

quesito sopra prospettato (se il lavoratore, una volta cessato il rapporto di

lavoro, debba avanzare in un unico processo tutte le pretese creditorie maturate

nel corso del medesimo rapporto - quindi, piu in generale, se debbano essere

richiesti nello stesso processo tutti i crediti concernenti un unico rapporto di

durata - e se la proposizione delle domande relative in giudizi diversi comporti

l'improponibilità di quelle successive alla prima).

Tale risposta non può che essere negativa con riguardo ad entrambi i profili

considerati.

3. La tesi secondo la quale piu crediti distinti, ma relativi ad un medesimo

rapporto di durata, debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso

processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando

piuttosto questa costruita intorno a una prospettiva affatto diversa.

Il sistema processuale risulta, invero, strutturato su di una ipotesi di proponibilità

in tempi e processi diversi di domande intese al recupero di singoli crediti facenti

capo ad un unico rapporto complesso esistente tra le parti, come autorizza a

ritenere la disciplina di cui agli artt. 31, 40 e 104 c.p.c., in tema di domande

accessorie, connessione, proponibilità nel medesimo processo di piu domande

nei confronti della stessa parte. Ulteriori argomenti in tal senso possono trarsi

dalla contemplata possibilità di condanna generica ovvero dalla prevista

necessità, ex art. 34 c.p.c., di esplicita domanda di parte perchè l'accertamento

su questione pregiudiziale abbia efficacia di giudicato. D'altro canto,

l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggettiva del

giudicato - in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili -

perderebbe gran parte di significato se dovesse ritenersi improponibile

qualunque azione per il recupero di un credito solo perchè preceduta da altra,

intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibile ad uno stesso

rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in

giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della

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diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito

oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto

di durata.

La mancanza di una specifica norma che autorizzi a ritenere comminabile la

grave sanzione della improponibilità della domanda per il creditore che abbia in

precedenza agito per il recupero di diverso credito, sia pure riguardante lo stesso

rapporto di durata, e, soprattutto, la presenza nell'ordinamento di numerose

norme che autorizzano, invece, l'ipotesi contraria, rafforzano la fondatezza

ermeneutica della soluzione.

Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa

ad un credito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda

riguardante altro e diverso credito, ancorchè relativo ad un unico rapporto

complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore,

il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie derivanti da un

medesimo rapporto in uno stesso processo (quindi in uno stesso momento,

dinanzi al medesimo giudice e secondo la medesima disciplina processuale); con

conseguente indebita sottrazione alla autonoma disciplina prevista per i diversi

crediti vantati e perdita, ad esempio, della possibilità di agire in via monitoria

per i crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al giudice competente per

valore per ciascuno dei crediti - quindi di fruire del piu semplice e spedito iter

processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice-, e con possibile

esposizione alla necessità di "scegliere" di proporre (o meno) una tempestiva

insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive

insinuazioni tardive per altri crediti.

Che la perdita della possibilità di fruire di riti piu "snelli" per recuperare i propri

crediti costituisca perdita di una importante "caratteristica" di tali crediti (i.e. la

pronta "realizzabilità" sul piano processuale), nonchè vanificazione della pre-

valutazione del legislatore circa la possibilità, in determinate condizioni, di un

rito diverso e piu spedito, trova conferma in alcune recenti pronunce di questa

Corte (v. Cass. nn. 22574 del 2016 e 10177 del 2015), nelle quali si è affermato

che il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con

ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento

sommario di cognizione per la parte residua senza incorrere in un abuso dello

strumento processuale per frazionamento del credito.

In ogni caso, l'onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero

essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio - come

frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro - retributiva e

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risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a

diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente

complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore,

traducendosi quasi sempre non in un alleggerimento bensì - in un allungamento

dei tempi del processo, dovendo l'istruttoria svilupparsi contemporaneamente in

relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro

distanti nel tempo.

E' verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile

strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore

eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia

processuale, inteso come principio di proporzionalità nell'uso della giurisdizione.

E' infine il caso di evidenziare che l'affermazione di un principio generale di

necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo

rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte

successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli

conseguenze per l'economia.

Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti

di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese

(consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l'idea che essi

debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati - pena la perdita della possibilità

di farli valere in giudizio - in un unico processo monstre (meno "spedito" dei

processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un

sistema inteso a garantire l'agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la

circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti.

4. Le considerazioni che precedono non esauriscono l'analisi della problematica

in esame. La disciplina codicistica - relativa, tra l'altro, a connessione, domande

accessorie, preclusione da giudicato -, sopra richiamata perchè idonea a

testimoniare di un sistema che "contempla" - e perciò autorizza - l'ipotesi di

diverse domande proposte in tempi e processi differenti con riguardo a crediti

(diversi e tuttavia) riferibili ad un medesimo rapporto di durata, si presta in realtà

ad una significativa lettura speculare.

Se è vero, infatti, che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese

creditorie suddette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è

univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei

suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli inconvenienti della

proposizione e trattazione separata dei medesimi. L'ordinamento guarda con

particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano

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state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel

medesimo "ambito" oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone

la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di "preclusione"

dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e

comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a

precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall'esigenza

di evitare, ove possibile, la "duplicazione" di attività istruttoria e decisoria, il

rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della

conoscenza di una medesima vicenda sostanziale. Di tale esigenza si è

espressamente fatta carico la giurisprudenza di queste Sezioni unite (v. in

particolare, tra le altre, S.u. n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della

domanda ex art. 183 c.p.c., e S.u. n. 26242 del 2014 in materia di patologia

negoziale), nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in

contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda

"esistenziale", sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide

negativamente sulla "giustizia" sostanziale della decisione (che può essere

meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le

possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la

conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata

ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività

istruttoria e decisionale) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione

al rischio di giudicati contrastanti).

Si tratta di una giurisprudenza che afferma la necessità di favorire, ove possibile,

una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale

direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, "evitando di trasformare il

processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all'infinito".

Nel solco dell'indirizzo tracciato dalle citate decisioni deve ritenersi che, se sono

proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti, pur

riferibili al medesimo rapporto di durata, le questioni relative a tali crediti che

risultino inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente

instaurato, così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili - nonchè, in

ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo - possono

anch'esse ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l'attore risulti in ciò

"assistito" da un oggettivo interesse al frazionamento.

Quest'ultima affermazione impone un chiarimento.

Nella giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. n. 1540 del 2007, riferita

al principio di non contestazione) risulta chiara la consapevolezza che il "giusto"

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processo regolato dalla legge resta affidato non solo alle norme che lo regolano,

bensì anche agli stessi protagonisti del processo (giudice e parti),

responsabilizzati, ciascuno per quanto di "competenza", a dare concreta e

corretta attuazione alla relativa normativa.

Tali concetti, affermati dalla giurisprudenza di legittimità soprattutto con

riguardo al principio di non contestazione (di origine giurisprudenziale e

successivamente recepito dal legislatore nel novellato art. 115 c.p.c.), quindi con

riguardo, in particolare, alla posizione del convenuto, non possono che ritenersi

riferiti anche all'attore, il quale deve farsi carico di un esercizio consapevole e

responsabile del diritto di azione che la Costituzione gli garantisce.

Pertanto, se l'interesse ad agire esprime il rapporto di utilità tra la lesione

lamentata e la specifica tutela richiesta, è da ritenersi, nell'ottica di un esercizio

responsabile del diritto di azione, che tale rapporto abbia ad oggetto anche le

caratteristiche della suddetta tutela (ivi comprese la relativa "estensione" e le

connesse modalità di intervento rispetto ad una piu ampia vicenda sostanziale),

con la conseguenza che l'interesse di cui all'art. 100 c.p.c., investe non solo la

domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative "modalità" di

proposizione.

Non si tratta quindi di valutare "caso per caso" (in relazione al bilanciamento

degli interessi di ricorrente e resistente) l'azionabilità separata dei diversi crediti,

nè tanto meno si tratta di accertare eventuali intenti emulativi o di indagare i

comportamenti processuali del creditore agente sul versante psico-

soggettivistico.

Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile

alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo

rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile

giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.

Da ultimo, sul piano della dialettica processuale, è indubbio che al creditore

procedente debba essere consentito di provare ed argomentare ogni qual volta

il convenuto evidenzi la necessità di siffatto interesse e ne denunci la mancanza.

Ove il convenuto nulla abbia allegato o dedotto in proposito, il giudice che rilevi

ex actis la necessità di un interesse oggettivamente valutabile al "frazionamento"

e ne metta in dubbio l'esistenza, dovrà indicare la questione ex art. 183 c.p.c.,

e, se del caso, riservare la decisione ed assegnare alle parti termine per memorie

ex art. 101 c.p.c..

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, va affermato il seguente

principio di diritto: "Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di

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credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono

essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre

a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in

proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o

comunque "fondati" sul medesimo fatto costitutivo - sì da non poter essere

accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria

e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda

sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi

solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile

alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la

relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda

farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell'art. 183

c.p.c., e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per

memorie ai sensi dell'art. 101 c.p.c., comma 2".

Alla luce dei sopra esposti principi, e considerato che la domanda proposta dal

lavoratore nel presente processo è intesa al ricalcolo del premio fedeltà con

inclusione dello straordinario prestato a titolo continuativo, mentre la domanda

precedentemente proposta (anch'essa dopo la cessazione del rapporto di lavoro)

era intesa ad ottenere la rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci

retributive percepite in via continuativa, il ricorso della società non risulta

fondato.

Deve infatti osservarsi che gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa

fonte (legale l'uno e pattizia l'altro), nonchè differenti presupposti e finalità, non

risultando, in particolare, che il credito azionato in relazione al premio fedeltà sia

inscrivibile nel medesimo ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile in relazione

alla precedente domanda riguardante la rideterminazione del TFR, nè che i due

crediti siano fondati sul medesimo fatto costitutivo; onde è da ritenersi che ben

poteva il lavoratore proporre le domande suddette in diversi processi, senza

neppure la necessità di verificare la sussistenza di un interesse oggettivamente

valutabile a tale separata proposizione.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.

Attesa la complessità della questione trattata e la riscontrata esistenza di un

contrasto giurisprudenziale in proposito, sussistono i presupposti per

compensare tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese

di lite.

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Gli interessi usurari nei contratti di mutuo anteriori alla legge 108 del

1996.

di Lorenzo MARUOTTI*

Corte di Cassazione, I sez. civile, 31 gennaio 2017 n. 2484.

La Prima Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria, ha rimesso gli atti al Primo

Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite Civili in

relazione al contrasto sorto con riferimento alla applicabilità dei criteri fissati

dalla l. n. 108 del 1996 per la determinazione degli interessi usurari ai contratti

di mutuo ancora pendenti alla data di entrata in vigore della menzionata legge,

anche in considerazione degli effetti della norma di interpretazione autentica di

cui all’art. 1, comma 1, del d.l. n. 394 del 2000 (conv., con modif., nella l. n. 24

del 2001).

Precedenti conformi: Corte di cassazione, sentenza 29/1/2016 n. 801; Corte di

Cassazione, sentenza 19/3/2007 n. 6514; Corte di Cassazione, sentenza 27/9/2013 n.

22204.

Precedenti difformi: Corte di cassazione, sentenza 17/8/2016 n. 17150; Corte di

Cassazione, sentenza 31/1/2006 n. 2140; Corte di Cassazione, sentenza n. 11638 del

2016.

COMMENTO

La Corte di Cassazione ha preliminarmente chiarito che anche in ordine ai

contratti di mutuo fondiario, non si può eludere il divieto di applicazione di tassi

usurari in ordine agli interessi corrispettivi dovuti in virtu dell’accensione di un

mutuo.

La natura del divieto, la sua inderogabilità assoluta, la sanzione penale che ne

accompagna la violazione ex art. 644 cod. pen. così come novellato dall’art. l

della legge 7/3/1996 n. 108 e la correlata sanzione civile della non debenza di

alcun interesse in caso di superamento del tasso soglia ex art. 1815 secondo

comma, cod. civ., così come novellato dall’art. 4 della l. n. 108 del 1996,

inducono a ritenere che il sistema antiusura abbia un’applicabilità generale (con

riferimento alle tipologie contrattuali previste dall’art. 2 della 1. n. 108 del 1996)

* Dottore in giurisprudenza, specializzato in professioni legali.

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De Iustitia

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e non possa desumersene alcuna deroga in via interpretativa essendo necessaria

un’espressa disposizione legislativa contraria.

Sull’efficacia della normativa antiusura sui contratti sorti anteriormente

all’entrata in vigore della 1. n. 108 del 1996 ma che hanno avuto vigenza anche

successivamente ad essa, è intervenuta la legge d’interpretazione d’autentica

introdotta dall’art. l del d.1.29/9/2000 n. 394 convertito nella 1. 28/2/2001 n.

24, stabilendo che “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e

dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli

interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono

promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal

momento del loro pagamento”. La norma è stata dichiarata costituzionalmente

legittima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002.

Deve, tuttavia, rilevarsi che anche dopo l’entrata in vigore della legge

d’interpretazione autentica e la Corte Costituzionale, si sono sviluppati due

orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Per un primo orientamento, la legittimità iniziale del tasso convenzionalmente

pattuito spiega la sua efficacia per tutta la durata del contratto e risulta

irrilevante il dispositivo della legge n. 108 del 1996 nella successiva fase di

esecuzione del contratto. Viene valorizzato, da quest’orientamento, il dato

testuale dell’art. 1 del d.l. n. 394 del 2000 ed in particolare la locuzione

“indipendentemente dal loro pagamento”.

Per un diverso orientamento, le disposizioni che prevedono la nullità dei patti

contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi tali da raggiungere

la soglia dell’usura (introdotte con l’art. 4 della 1. n. 108 del 1996), “pur non

essendo retroattive, comportano l’inefficacia “ex nunc” delle clausole del

contratti conclusi prima della loro entrata in vigore sulla base del semplice rilievo,

operabile anche d’ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento,

non si era ancora esaurito”.

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Eurofinanziaria ha convenuto in giudizio Monte dei Paschi di Siena chiedendo la

ripetizione degli importi pagati in violazione della L. n. 108 del 1996, in virtu di

un contratto di mutuo fondiario stipulato il 17/1/1990 dell'importo di 14 miliardi

di Lire con ammortamento in 10 anni e tasso d'interesse 7,75 semestrale,

precisando che il Monte dei Paschi non aveva consentito la rinegoziazione del

mutuo dopo l'entrata in vigore della normativa antiusura.

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Il tribunale ha accolto la domanda di ripetizione dell'indebito all'esito

dell'espletamento di consulenza tecnica d'ufficio, condannando il Monte Paschi

di Siena al pagamento della somma di Euro 324.460 con interessi legali a far

data dal giugno 1999. In particolare, il Tribunale ha escluso la natura di mutuo

fondiario agevolato al contratto in questione ritenendo di conseguenza

applicabile la normativa antiusura.

La Corte d'Appello su impugnazione della banca ha invece respinto la domanda

proposta da Eurofinanziaria così argomentando:

il quadro probatorio induce univocamente ad affermare che il contratto posto in

essere deve qualificarsi di mutuo fondiario agevolato regolato dal D.P.R. n. 7 del

1976.

Tale tipologia contrattuale è assoggettata a normativa speciale che prevale sul

regime generale di cui all'art. 1815 c.c.. Ne consegue la legittimità dei tassi

d'interesse applicati.

Le puntuali difese dell'appellante fondate sulla normativa dettata in materia di

mutui fondiari (D.P.R. n. 7 del 1976, art. 14) sono rimaste prive di replica

adeguata.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Eurofinanziaria con

cinque motivi. Ha resistito con controricorso il Monte Paschi di Siena. Entrambe

le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Nel primo motivo viene dedotta sia sotto il profilo del vizio di violazione che ex

art. 360 c.p.c., n. 5, ante vigente la erroneità della qualificazione del contratto

di mutuo in oggetto come fondiario. La Corte ha adottato un criterio meramente

nominalistico. Nella specie non è stato raccolto il credito con obbligazioni

garantite (ovvero mediante le cartelle di mutuo fondiario).

Nel secondo motivo viene dedotta sia sotto il profilo del vizio della violazione di

legge che ex art. 360 c.p.c., n. 5, ante vigente l'erroneità della decisione della

Corte d'Appello relativa all'inapplicabilità nella specie della normativa antiusura

anche qualora il contratto fosse regolato dalla lex specialis.

Nel terzo motivo viene dedotto il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria

motivazione in ordine alla qualificazione del mutuo come "agevolato" senza

alcuna giustificazione e con palese illegittimità delle conseguenze (inapplicabilità

l. n. 108 del 1996) scaturenti da tale qualificazione, meramente affermate. La

censura viene formulata al medesimo fine anche ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

L'esame dei primi due motivi deve essere congiunto per ragioni di connessione

logica.

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L'indagine da svolgere preliminarmente riguarda l'applicabilità della normativa

antiusura al contratto dedotto in giudizio anche qualora fosse realmente

qualificabile come mutuo fondiario, regolato ratione temporis dal D.P.R. 21 luglio

1976, n. 7.

Ritiene il Collegio che il regime derogatorio della disciplina legale imperativa

relativa all'ambito di esplicazione dell'autonomia negoziale in ordine

all'applicazione degli interessi passivi, moratori o compensativi, sia limitato alla

non vigenza per contratti di mutuo fondiario del divieto di anatocismo. L'indice

normativo dal quale si trae tale conclusione è dettato dall'art. 14, del D.P.R.

sopra citato che così recita:

"Il pagamento delle rate di ammortamento dei prestiti non può essere ritardato

da alcuna opposizione. Le somme dovute a tale titolo producono, di pieno diritto,

interesse dal giorno della scadenza. La misura degli interessi di mora da

corrispondersi dai mutuatari agli enti sulle somme dovute e non pagate, stabilita

dal primo comma della L. 17 agosto 1974, n. 397, art. 2, può essere modificata

con decreto del Ministro per il tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il

credito ed il risparmio".

Tale deroga, peraltro non è piu vigente così come evidenziato dalla pronuncia

22/5/2014 n. 11400 di questa Corte che si riproduce: "Con l'entrata in vigore del

D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, (cosiddetto t.u.b.), secondo il quale qualsiasi

ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non

è piu fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma

di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni

della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c., rinvenibili nel

carattere pubblicistico dell'attività svolta dai soggetti finanziatori

(essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra

operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti

dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla

banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all'eguale importo di

interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole,

andavano a costituire la provvista per l'erogazione dei mutui). Ne consegue che

l'avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento

a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili,

comporta l'applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 c.c., e che il

mancato pagamento di una rata di mutuo non determina piu l'obbligo (prima

normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull'intera rata,

inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì

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escludere la vigenza di un uso normativo contrario". La applicazione ratione

temporis del citato art. 4, non autorizza, tuttavia, a ritenere, in mancanza di

qualsivoglia indicatore normativo proveniente dalla disciplina di settore e dal

sistema legislativo di tutela penale e civile dall'usura, che, limitatamente ai

contratti di mutuo fondiario, si possa eludere il divieto di applicazione di tassi

usurari in ordine agli interessi corrispettivi dovuti in virtu dell'accensione di un

mutuo. La natura del divieto, la sua inderogabilità assoluta, la sanzione penale

che ne accompagna la violazione ex art. 644 c.p., così come novellato dalla L. 7

marzo 1996, n. 108, art. 1, e la correlata sanzione civile della non debenza di

alcun interesse in caso di superamento del tasso soglia ex art. 1815 c.c., comma

2, così come novellato dalla L. n. 108 del 1996, art. 4, inducono univocamente

a ritenere che il sistema antiusura abbia un' applicabilità generale (con

riferimento alle tipologie contrattuali previste dallaL. n. 108 del 1996,art.2) e

non possa desumersene alcuna deroga in via interpretativa essendo necessaria

un'espressa indicazione legislativa contraria.

- Stabilita l'applicabilità, in astratto ed in via generale, anche ai contratti di mutuo

fondiario del sistema normativo antiusura contenuto nella citata L. n. 108 del

1996, occorre verificarne l'incidenza in concreto, ancorchè la questione non sia

stata trattata dalla Corte d'Appello, dal momento che, ove se ne dovesse

escludere l'applicabilità al contratto in oggetto, in quanto sorto anteriormente

all'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, si dovrebbe concludere il giudizio

con una statuizione di rigetto con correzione della motivazione in diritto.

Sull'efficacia della normativa antiusura sui contratti sorti anteriormente

all'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, ma che hanno avuto vigenza anche

successivamente ad essa, è intervenuta la legge d'interpretazione d'autentica

introdotta dal D.L. 29 settembre 2000, n. 394, art. 1, convertito nella L. 28

febbraio 2001, n. 24, stabilendo che "Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e

dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il

limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque

convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del

loro pagamento". La norma è stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla

sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002, nella quale si afferma "La

norma denunciata trova giustificazione, sotto il profilo della ragionevolezza,

nell'esistenza di tale obiettivo dubbio ermeneutico sul significato delle

espressioni "si fa dare (...) interessi (...1 usurari" e "facendo dare (...) un

compenso usurario" di cui all'art. 644 c.p., in rapporto al tenore dell'art. 1815

c.c., comma 2, ("se sono convenuti interessi usurari") ed agli effetti correlativi

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sul rapporto di mutuo. Il D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, nel precisare

che le sanzioni penali e civili di cui all'artt. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2,

trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente

usurarie, impone tra le tante astrattamente possibili un'interpretazione chiara e

lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla L. n. 108 del

1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della

suddetta legge ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di

ragionevolezza. La fattispecie sottoposta vaglio della Corte Costituzionale è

identica a quella sottoposta al presente giudizio.

- Deve, tuttavia, rilevarsi che anche dopo l'intervento legislativo d'interpretazione

autentica e l'avallo della Corte Costituzionale gli orientamenti giurisprudenziali,

ed in particolare quelli di questa Corte manifestano un netto contrasto.

- Una delle opzioni interpretative esclude che, all'esito dell'interpretazione

autentica intervenuta D.L. n. 394 del 2000, ex art. 1, convertito nella L. n. 241

del 2001, il superamento del tasso soglia degli interessi corrispettivi

originariamente convenuti in modo legittimo (senza oltrepassare il limite

dell'usurarietà), in corso di esecuzione del rapporto possa determinarne ex artt.

1339 e 1418 c.c., la riconduzione entro il predetto tasso soglia stabilito dalla

legge così come integrata dai D.M. periodicamente emanati al riguardo. Viene

valorizzato, da quest'orientamento, il dato testuale del D.L. n. 394 del 2000, art.

1, ed in particolare la locuzione "indipendentemente dal loro pagamento". La

legittimità iniziale del tasso convenzionalmente pattuito spiega la sua efficacia

per tutta la durata del contratto nonostante l'eventuale sopravvenuta

disposizione imperativa che per una frazione o per tutta la durata del contratto

successiva al suo sorgere ne rilevi la natura usuraria a partire da quel momento

in poi.

- Questo orientamento, formatosi su fattispecie consistenti in contratti stipulati

prima dell'entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, ha trovato recente conferma

nella sentenza 29/1/2016 n. 801 così massimata: "I criteri fissati dalla L. n. 108

del 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non si

applicano alle pattuizioni di questi ultimi anteriori all'entrata in vigore di quella

legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso variabile, come emerge dalla

norma di interpretazione autentica contenuta nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1,

comma 1, (conv., con modif., dalla L. n. 24 del 2001), che non reca una tale

distinzione. In precedenza il medesimo principio è contenuto nella sentenza

19/3/2007 n. 6514 (in motivazione) e 27/9/2013 n. 22204 in motivazione. Si

ritiene di non citare le numerose sentenze massimate che affermano i medesimi

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principi ma riguardano rapporti del tutto esauriti e non ancora in corso al

momento della vigenza della L. n. 108 del 1996 (a titolo esemplificativo si citano

Cass. 25/3/2003 n. 4380; 19/3/2007 n. 6514 e 17/12/2009 n. 26499).

Parallelamente all'orientamento illustrato se ne sviluppato uno speculare di

recente confermato dalla pronuncia 17/8/2016 n. 17150 così massimata: "Le

norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura

degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell'usura (introdotte

con la L. n. 108 del 1996, art. 4), pur non essendo retroattive, comportano

l'inefficacia ex nunc delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata

in vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d'ufficio dal giudice, che

il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito". Questa

pronuncia, unitamente a molte altre relative a fattispecie identiche non contiene

nello sviluppo motivazionale, il riferimento espresso alla citata norma

d'interpretazione autentica (D.L. n. 394 del 2002, art. 1) ed al successivo avallo

della Corte Costituzionale (si richiamano al riguardo anche le sentenze

14/3/2013 n. 6550, n.602 del 2013; 17854 del 2007). Nella pronuncia 31/1/2006

n. 2140 si fa, invece, espresso riferimento, a differenza che nelle altre,

all'intervenuta legge d'interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996, artt. 1

e 4, e alla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002. Ugualmente il

richiamo si ritrova nella sentenza n. 11638 del 2016. - In conclusione,

evidenziato il radicale contrasto anche sincronico tra i due orientamenti, il

Collegio ritiene di rimettere la causa al Primo presidente per l'assegnazione alle

Sezioni Unite di questa Corte.

P.Q.M.

dispone la trasmissione del procedimento al Primo presidente per l'eventuale

rimessione alle Sezioni Unite civili.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 novembre 2016. Depositato

in Cancelleria il 31 gennaio 2017

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Nessuno è infallibile, nemmeno le società in house.

di Romilda IERVOLINO*

Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196.

«Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione

pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque

incidere — come parimenti notato in dottrina – sul modo in cui essa opera nel

mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela

dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica».

«La disciplina di convivenza così sintetizzata permette, come efficacemente

spiegato in dottrina, che le società a partecipazione pubblica siano assoggettate

a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in

cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli

interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza

d’intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini

dell’organizzazione e del funzionamento».

Precedenti conformi: Cass.n. 22209/2013; Corte App. Napoli, n. 346/2013; Corte

App. Napoli, 15/7/2009; Trib. Palermo 11/2/2010; Trib. Velletri 8/3/2010; Trib. Pescara,

14/1/2014.

Precedenti difformi: Trib. Palermo 8/1/2013; Trib. Palermo, 18/1/2013; Trib. Napoli

9/1/2014; Trib. Verona 19/12/2013.

COMMENTO

L’ in house providing rappresenta un paradigma organizzativo mediante il quale

la P.A., al fine di acquistare beni e servizi, piuttosto che rivolgersi al mercato

mediante la procedura ad evidenza pubblica, si rivolge a soggetti che sottopone

ad un proprio penetrante controllo.

Caratteristica essenziale di questa modalità di affidamento di servizi pubblici è la

mancanza di alterità soggettiva tra affidante ed affidatario: quest’ultimo è infatti

comunemente definito alla stregua di una longa manus della P.A. ovverosia una

sua mera proiezione organizzativa.

Il ricorso a questa modalità di affidamento è ovviamente ancorata a presupposti

rigorosi, data la clamorosa possibilità di bypassare la gara pubblica.

* Dottoressa in giurisprudenza, specializzata in professioni legali.

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Tali presupposti, precedentemente di sola elaborazione giurisprudenziale

(derivanti dalla famosa sentenza Teckal del 1999), sono stati recentemente

codificati nel Nuovo Codice degli Appalti Pubblici che ne ha ridefinito i contorni

sull’onda del recepimento delle Direttive U.E. n. 23 e 24 del 2014.

Presupposti indefettibili affinché l’affidamento possa effettuarsi “direttamente”

sono: a) l’esistenza di un controllo analogo esercitato dall’affidante

sull’affidatario. Il “controllo” di cui trattasi deve esser tale da sviluppare una vera

e propria sorta di organizzazione gerarchica, di inglobare l’intera gestione

dell’ente, di incidere sulla struttura e la funzione dello stesso; b) l’attività svolta

dall’ente deve rivolgersi, nella misura dell’ 80% all’ente affidatario; c) la

partecipazione pubblica deve essere totalitaria, salvo diversa previsione della

legislazione nazionale e purché il capitale privato sia talmente marginale da non

consentire un’effettiva incidenza sulle finalità pubblicistiche.

Ciò chiarito, occorre, in secondo luogo rammentare che la forma generalmente

utilizzata dagli enti, anche quelli pubblici, è quella societaria.

La Giurisprudenza prevalente ha da sempre sottolineato che la forma societaria

non è incompatibile con il fine pubblico; che il nomen iuris non è capace di

alterare la natura e la vocazione pubblicistica dell’ente il quale, a dispetto della

struttura adottata, ben potrebbe sottrarsi ad alcune delle regole del diritto

comune per rispondere alle esigenze dello spirito pubblicistico che

l’Amministrazione aggiudicatrice intende realizzare.

L’ente affidatario in house, pertanto, quale species di ente pubblico, sarebbe

sottratto, nonostante la forma societaria, anche al fallimento.

Questa, almeno, era la posizione della giurisprudenza dominante fino al recente

arresto della Cassazione in commento, la quale, sulla scia di una Giurisprudenza

minoritaria ma lungimirante, ha optato per un radicale cambio di rotta, sancendo

definitivamente la fallibilità dell’ente in house.

Ritiene il Collegio, in conformità al precedente n. 22209 del 2013, che debba

andar ribadito il principio per cui «In tema di società partecipate dagli enti locali,

la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società

di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento

privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza,

pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che

con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della

concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di

uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità».

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Quanto sancito dalla Cassazione nella pronuncia in esame, viene poi confermato

e ribadito anche sul piano normativo.

All’art. 4, co. 13, del d.l. n. 95 del 2012 (ed. spending review) viene asserito un

principio secondo il quale le disposizioni del presente articolo e le altre

disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale

partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non

diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la

disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”. Tale norma,

da leggere in chiave di interpretazione autentica, è stata ripresa dal nuovo art.l

co.3 d.lgs. n. 175 del 2016, a norma del quale «per tutto quanto non derogato

dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione

pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di

diritto privato».

L’art. 14 del d.lgs. cit., infine, con disposizione che prende atto di un indirizzo

maturato nella giurisprudenza concorsuale, ha a sua volta precisato che «le

società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e

sul concordato preventivo, nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in

materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al

decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003,

n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39. ».

La ratio dell’affidamento in house risiede unicamente nell’evitare la gara pubblica

per quei soggetti che, nonostante la forma societaria, siano un prolungamento

della stessa Amministrazione aggiudicatrice, senza voler per questo attribuire

all’ente affidatario la natura di soggetto sovraqualificato rispetto a quegli enti

che rivestono la stessa forma, ma che non ne presentano i requisiti ai sensi

dell’art. 5 del nuovo Codice degli Appalti.

È noto il principio a norma del quale, allorquando sia evidente la vocazione

pubblicistica dell’ente che riveste la forma societaria, il danno cagionato allo

stesso, da parte degli amministratori, sia qualificabile come “danno erariale, con

conseguente giurisdizione della Corte dei Conti; qualora invece, al contrario,

emerga la predisposizione privatistica dello stesso, allora il danno è

opportunamente inquadrabile nell’epiteto del “danno sociale”, con relativa

giurisdizione del giudice ordinario.

Questo indirizzo interpretativo, fino ad ora maggioritario e consolidato, teso a

non dare rilievo al nomen iuris della struttura in cui si sostanzia l’ente affidatario,

appare adesso indebolirsi dinnanzi alla pronuncia in commento che conferisce

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dignità e rilievo alla forma con cui l’ente, sebbene affidatario in house, è

costituito.

«Su tale società, in questi casi, per quanto intesa come articolazione

organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o

addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si

determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella

comune — secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi ripresi dall’arti2 d.lgs.

n.175 del 2016 — ma senza il prospettato effetto di perdere l’applicazione dello

statuto dell’imprenditore»

La Cassazione innova la disciplina consolidata in materia, stabilendo pertanto

una responsabilità erariale solo aggiuntiva rispetto a quella sociale; e l’elemento

di assoluta innovatività risiede, si ribadisce, nel riconosciuto rilievo della forma

societaria.

Per cui la vocazione dell’ente, la sua predisposizione alla realizzazione di servizi

pubblici, la mancanza di alterità rispetto all’Amministrazione aggiudicatrice, tale

da consentire l’esonero dalla gara ad evidenza pubblica, non risultano piu

requisiti necessari e sufficienti per bypassare anche le ordinarie regole del diritto

comune.

«Sul punto già Cass. 21991/2012 aveva precisato che, ai fini dell’esclusione di

una società mista dal fallimento, non è di per sé rilevante la soggezione al potere

di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza

dell’espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la

vigilanza l’attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con

lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il

sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero

nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un

regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che,

invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse

disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche».

Ciò che rileva, ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore

commerciale, non è quindi il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del

soggetto. Le società nascono infatti

per limitare la responsabilità rispetto ai soci secondo un proprio ordinamento,

mentre la organizzazione prescelta per l’attività costituisce il mero riflesso della

nascita di un soggetto giuridicamente diverso dai soci, e dunque senza che a

loro volta le regole di organizzazione di questi valgano in modo diretto a

disciplinare il funzionamento e le obbligazioni di quello. «Una volta adottato,

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anche da parte dell’ente pubblico, il blocco-sintagma societario, nella fattispecie

della società a responsabilità limitata, la scelta di consentire l’esercizio di

determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l’interesse

pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta per un verso che queste

assumano i rischi connessi alla loro insolvenza».

La scelta del modello societario, in poche parole, anche tramite il sistema di

pubblicità legale cui la società stessa verrebbe sottoposta, determinerebbe un

legittimo affidamento dei terzi a poter soddisfare le proprie pretese ed i propri

crediti in caso di fallimento della stessa. Pretesa questa che non può restare

irrealizzata a fronte della vocazione pubblicistica dell’ente, il quale si avvarrebbe

dello schermo societario per sottrarsi alla procedura richiamata.

Vano quindi sarebbe il tentativo di attribuire alla società in esame la natura di

“ente speciale”. Infatti, seguendo la pronuncia della Cassazione, «solo quando

ricorra una espressa disposizione legislativa, con specifiche deroghe alle norme

del codice civile, potrebbe affermarsi la realizzazione di una struttura organizzata

per attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art.

2247 cc, con la possibile emersione normativa di un tipo con causa pubblica non

lucrativa. In difetto di tale intervento esplicito, il fenomeno resta quello di una

società di diritto comune, nella quale pubblico non è l’ente partecipato bensì il

soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la

disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella

privatistica che attiene al funzionamento della società convivono. E se è vero

che l’ente pubblico in linea di principio può partecipare alla società soltanto se

la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse

(secondo norme e vincoli resi più stringenti dal d.lgs. n.175 del 2016), una volta

che comunque la società sia stata costituita, l’interesse che fa capo al socio

pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extrasociale, con la

conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno

comunque natura privatistica (Cass. s.u. 17287/2006). Il rapporto tra società ed

ente è perciò di assoluta autonomia, non

essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sullo svolgimento

dello stesso rapporto e sull’attività della società mediante poteri autoritativi, ma

solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario e mediante la

nomina dei componenti degli organi sociali. (…)La disciplina di convivenza così

sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a

partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili

ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente

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rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la

destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece

assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del

funzionamento».

SENTENZA

Con distinti ricorsi L’area verde di Volonté Teresina & co. S.n.c. (per prima

notificante e dunque ricorrente in via principale) e Massimo Morandi (ricorrente

in via incidentale) impugnano la sentenza App. Milano 17.7.2014 n. 2773/14 in

R.G. 892 e 893/2014, resa al termine del giudizio in cui tanto la prima (insieme

ad altri creditori) quanto il secondo (nella qualità di ex amministratore)

contestavano la sentenza Trib. Como 17.2.2014 n.16 dichiarativa del fallimento

della società Mozzate Patrimonio s.r.l.

La corte d’appello, nel rigettare i reclami interposti ex art.18 l.f., superata

l’eccezione del difetto di legittimazione degli impugnanti, confermò la fallibilità

della società Mozzate Patrimonio s.r.l., nonostante la partecipazione al rispettivo

capitale del Comune di Mozzate, tenuto conto della qualità di società

commerciale della medesima, così realizzandosi in capo ad essa l’assunzione,

con l’iscrizione al registro delle imprese, della qualità di imprenditore

commerciale. Condividendo l’indirizzo che esclude una possibile indifferenza, ai

fini fallimentari, della natura di soggetto privato delle citate società, precisò la

corte che nessuna influenza poteva ascriversi all’attività svolta, allo scopo

perseguito, all’organizzazione interna. E pur considerando in ipotesi gli eventuali

limiti allo statuto privatistico in caso di società in house – cioè la società istituita

per finalità di gestione di pubblici servizi, con soci pubblici, attività in prevalenza

verso gli stessi e soggetta a controllo analogo a quello che questi esercitano sui

propri uffici -, doveva nel caso concreto escludersi che Mozzate Patrimonio s.r.l.

rivestisse tale natura, per difetto del requisito caratterizzante il citato controllo

analogo da parte del Comune, socio al 97,76%, ciò sulla base di quanto

accertato dalla Corte dei Conti in sede di diniego dei presupposti dell’affidamento

diretto di servizi comunali.

Il ricorso di L’area verde di Volonté Teresina & co. S.n.c. è su due motivi, quello

di Massimo Morandi su due motivi, ad essi resistendo con controricorso il

fallimento e il Comune di Mozzate. Tutte le parti hanno depositato memoria, il

fallimento in via ulteriore.

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

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Sul ricorso principale di L’area verde di Volonté Teresina & co. S.n.c. Con A primo

motivo si deduce la violazione dell’art. 1 l.f, mancando i requisiti soggettivi di

fallibilità in capo alla società debitrice, perché organismo di diritto pubblico non

fallibile ovvero società in house providing.

Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non

essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita,

come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune

partecipante.

Sul ricorso incidentale di Massimo Morandi.

Con A primo motivo si deduce la violazione dell’art. 1 l.f, mancando i requisiti

soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, perché in house providing

sin dal 2012 e di fatto avente natura giuridica pubblica.

Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non

essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita,

come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune

partecipante, che dal 2012 istituivano il controllo analogo con l’ente pubblico.

1.1 motivi di entrambi i ricorsi, da trattare congiuntamente per l’intima

connessione, sono infondati. Sulla premessa che i termini di diritto pubblico

corrispondenti sono, ratione temporis, anteriori alla rinnovata legislazione in

tema di appalti (varata con il d.lgs. 18 aprile 2016, n.50) e di società pubbliche

( d.lgs. 19 agosto 2016, n.175), la questione concerne la fallibilità o meno di una

società, costituita secondo le forme della società a responsabilità limitata,

affidataria da parte dell’ente territoriale pubblico partecipante di plurimi servizi

di gestione del relativo patrimonio, nell’ambito di un rapporto disputato quanto

alla prossimità al controllo analogo, proprio delle società in house. Ritiene il

Collegio, in conformità al precedente n. 22209 del 2013, che debba andar

ribadito il principio per cui “In tema di società partecipate dagli enti locali, la

scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di

capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento

privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza,

pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che

con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della

concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di

uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.”. Osserva invero

il citato arresto, con notazione pertinente ad una possibile risposta anche alle

contestazioni degli odierni ricorrenti, che “proprio dall’esistenza di specifiche

normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera

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del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato… può ricavarsi a contrario,

che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina

privatistica.”. Vanno così respinte le suggestioni dirette ad una compenetrazione

sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della

riserva di legge di cui all’art.4 della legge n.70 del 1975

che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo, così

ponendo un argine ad una ricognizione interpretativa che assuma dai tratti

materiali dell’attività quel titolo ad ogni effetto nei rapporti con i terzi. E per vero,

va anche ricordato che lo stesso art.l l.f. disegna l’area di esenzione dalle

procedure concorsuali attorno agli “‘entipubblicì\ non alle società pubbliche.

D’altronde lo stesso legislatore ha avuto modo di chiarire, all’art. 4, co. 13, del

d.l. n. 95 del 2012 (ed. spending review) vigente (vigente all’epoca della

dichiarazione di fallimento Trib. Como 17.2.2014 e poi abrogata, per il periodo

d’interesse, dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175), la sussistenza di una norma

generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del

presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di

società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che,

per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica

comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”.

Tale norma può essere richiamata come ulteriore conferma dell’indirizzo qui

applicato, dunque in chiave di concorrente interpretazione autentica e chiusura.

Essa poi è stata ripresa dal nuovo art.l co.3 d.lgs. n. 175 del 2016 (“Per tutto

quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle

società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice

civile e le norme generali di diritto privato”). L’art. 14 d.lgs. n.175 del 2016 infine,

con disposizione che prende atto di un indirizzo maturato nella giurisprudenza

concorsuale, ha a sua volta precisato che “Le società a partecipazione pubblica

sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo,

nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione

straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al decreto legislativo 8 luglio

1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con

modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39. “.

2. Né possono soccorrere altri istituti che si voglia piegare nel senso della

sollecitata sovrapposizione di norme e definizioni con oggetto l’attività (e non il

soggetto che la esercita), mutuando categorie della giurisprudenza

amministrativa. In particolare, per quel che qui giova indicare, il Collegio

ribadisce la non appropriatezza del ricorso alla figura dell’organismo di diritto

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pubblico, che nasce a qualificare gli operatori al cospetto delle amministrazioni

aggiudicatila, tenute, nella scelta del contraente, al rispetto della normativa

comunitaria e dei procedimenti di evidenza pubblica di fonte statale o regionale.

L’art. 3, co. 26, del codice degli appalti vigente pro temporis (d.lgs. 12 aprile

2006, n. 163, in vigore fino al 18.4.2016) ebbe chiaramente a statuire che,

quanto a lavori, servizi e forniture, soltanto “ai fini del codice” stesso è dettata

la definizione di “organismo di diritto pubblico… qualsiasi organismo, anche

informa societaria: – istituito per soddisfare specificatamente esigenze di

interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; – dotato di

personalità giuridica; – la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo

Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure

la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo

d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali

più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri

organismi di diritto pubblico”. Il profilo pubblicistico della società in house, in cui

l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quantomeno per

prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi ed uffici, appare

allora ispirato – in realtà – dal mero obiettivo di eccettuare l’affidamento diretto

(della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate) alle citate norme

concorrenziali, ma senza che possa dirsi

nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo

societario eventualmente assunto. Su tale società, in questi casi, per quanto

intesa come articolazione organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di

delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una

disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile)

rispetto a quella comune — secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi

ripresi dall’arti2 d.lgs. n.175 del 2016 — ma senza il prospettato effetto di

perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore. Le norme speciali volte a

regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale

e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere — come

parimenti notato in dottrina – sul modo in cui essa opera nel mercato, né

possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi

contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Sul punto già Cass. 21991/2012

aveva precisato che, ai fini dell’esclusione di una società mista dal fallimento,

non è di per sé rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo

pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell’espletamento del

servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l’attività operativa

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della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi

rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il sistema di pubblicità

legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo

affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina

conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che, invece, verrebbe aggirato

ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari

disposizioni pubblicistiche. Va così tuttora ripetuto il senso dell’art. 4 della legge

n. 70/1975, che nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere

istituito o riconosciuto se non per legge, mostra altresì di richiedere che la qualità

di ente pubblico, ove non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba

almeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed

inequivoco. Ne consegue che anche una disamina sulla motivazione con cui pur

App. Milano 17.7.2014, escludendo il controllo analogo, ha negato la sussistenza

di una società in house providing, alla stregua di una esplicita recezione della

puntuale analisi parimenti negativa condotta dalla Corte dei Conti (con delibera

del 2013, aggiornata al periodo successivo al 2010-2011, cioè al referto sul

partecipante Comune di Mozzate), risulta superflua. Così come non appare utile

una verifica del postulato di una società a partecipazione pubblica che,

rivestendo un carattere necessario per l’ente pubblico in ragione dell’attività

svolta, non potrebbe essere dichiarata fallita in virtù della oggettiva

incompatibilità fra tutela dell’interesse pubblico e normativa fallimentare, tenuto

conto che alla Mozzate Patrimonio s.r.l. era stato affidato in gestione e

manutenzione il patrimonio immobiliare sia proprio che del socio pubblico.

3.Né la supposta ed eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo

appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello

societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata

restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal

codice civile: ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello

statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la

natura del soggetto. Le società nascono infatti per limitare la responsabilità

rispetto ai soci secondo un proprio ordinamento, mentre la organizzazione

prescelta per l’attività è appunto il mero riflesso della nascita di un soggetto

giuridicamente diverso dai soci e dunque senza che a loro volta le regole di

organizzazione di questi valgano in modo diretto a disciplinare il funzionamento

e le obbligazioni di quello. Una volta adottato, anche da parte dell’ente pubblico,

il blocco-sintagma societario, nella fattispecie della società a responsabilità

limitata, la scelta di consentire l’esercizio di determinate attività a società di

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capitali (e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento

privatistico) comporta per un verso che queste assumano i rischi connessi alla

loro insolvenza. Per altro verso, nemmeno potrebbe darsi la paradossale

conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata

in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale siano

esentate dal fallimento: lo escludono la necessità di preindividuazione certa del

regime delle responsabilità e di quel rischio per cui l’ente pubblico-socio

risponde, salvi altri regimi di concorrente responsabilità dei suoi organi (Cass.

s.u. 5491/2014, 26936/2013), nei soli limiti del capitale di investimento immesso

nella società divenuta insolvente. L’annullamento ad ogni effetto della

soggettività dell’esaminata società, a ben vedere, procurerebbe altresì l’altro

paradosso di un’azione dei creditori sociali della società in house che

diverrebbero tutti creditori diretti dell’ente pubblico, con possibilità di azione

esattamente ed invece scongiurata laddove l’ente pubblico abbia scelto, come

visto, di delimitare la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società

partecipata. Ciò convince che anche l’intento di Cass. s.u. 26283/2013 (conf.

5491/2014) è solo quello di preservare l’erario dalla malagestio degli organi

sociali di società strumentali, in un’ottica selettiva e per quanto di rafforzamento

della responsabilità che ne investe gli organi, come poi recepito dal cit.

legislatore del 2016.

4. Anche nella vicenda non è pertanto invocabile, a fronte della partecipazione

dell’ente pubblico, un procedimento di riqualificazione della natura del soggetto

partecipato, nemmeno all’insegna della categoria, di volta in volta da disvelare,

di una società di diritto speciale. Come detto, solo quando ricorra una espressa

disposizione legislativa, con specifiche deroghe alle norme del codice civile,

potrebbe affermarsi la realizzazione di una struttura organizzata per attuare un

fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 ce, con

la possibile emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa. In

difetto di tale intervento esplicito, il fenomeno resta quello di una società di

diritto comune, nella quale pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o

alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina

pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che

attiene al funzionamento della società convivono. E se è vero che l’ente pubblico

in linea di principio può partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia

compatibile con la realizzazione di un proprio interesse (secondo norme e vincoli

resi più stringenti dal d.lgs. n.175 del 2016), una volta che comunque la società

sia stata costituita, l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di

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rilievo esclusivamente extrasociale, con la conseguenza che le società

partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura

privatistica (Cass. s.u. 17287/2006). Il rapporto tra società ed ente è perciò di

assoluta autonomia, non essendo consentito al secondo di incidere

unilateralmente sullo svolgimento dello stesso rapporto e sull’attività della

società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti

dal diritto societario e mediante la nomina dei componenti degli organi sociali.

Né, si osserva ancora, un eventuale abuso di tali poteri pubblicistici ovvero la

previsione di accordi anche contrattuali tra società ed ente, in costanza del tipo

societario operativo, possono farne aggirare il modello di responsabilità con

efficacia verso i terzi, ciò altrimenti dipendendo, sostanzialmente, da

imprevedibili scelte di mera convenienza, ancora una volta incompatibili con

l’adozione a monte dell’istituto societario. La disciplina di convivenza così

sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a

partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili

ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente

rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la

destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece

assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del

funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione,

ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono

soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano

certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.

I ricorsi vanno dunque rigettati, con condanna alle spese dei ricorrenti e

liquidazione come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta entrambi i ricorsi; condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore

dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate per ciascuno

in euro 10.200 (di cui 200 euro per esborsi), oltre al 15% forfettario sui compensi

e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art.13 co.l quater d.P.R. n. 115 del 2002,

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei

ricorrenti principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo

unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del co.1bis dello

stesso art. 13.