Incipit_Il ritorno del Budda

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Parigi, anni ’30 del XX secolo. Un milionario viene ucciso. La statuetta dorata di un Budda scompare. Un giovane studente russo, squattrinato e afflitto da vertiginose allucinazioni, è arrestato e accusato di omicidio. Snodandosi tra la livida e fervida immaginazione del protagonista e i vicoli bui dei bassifondi parigini popolati di disperati, il libro è in parte un racconto poliziesco, in parte un thriller filosofico e in parte una storia d’amore. Un romanzo dallo stile ipnotico, una riflessione vivida e feroce sugli strappi dell’esilio e gli inganni della realtà.

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GAJTO GAZDANOV

IL RITORNO DEL BUDDA

VOLAND

SÌRIN

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Gajto Gazdanov

Il ritorno del Budda

traduzione di Fernanda Lepre

Voland

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Titolo originale: Vozvraščenie Buddy© Gajto Gazdanov, 1949

© dell’edizione italiana Voland SRL Roma 2015

Tutti i diritti riservati

Prima edizione: maggio 2015

ISBN 978-88-6243-177-4

Dello stesso autore presso le edizioni Voland:Il fantasma di Alexander Wolf

Pubblicato con il sostegno dell’Istituto per la traduzione letteraria, Russia

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Morii – a lungo ho cercato le parole per descrivere quanto miaccadde e infine mi sono convinto che nessuna delle categoriedella mente a cui ero solito ricorrere me ne avrebbe fornito unadefinizione e che quella meno distante apparteneva proprio al-la sfera della morte – morii nel mese di giugno, di notte, du-rante uno dei miei primi anni all’estero. Non meno straordi-nario, del resto, era il fatto di essere il solo a sapere di questamorte, l’unico testimone. Vidi me stesso in montagna; un’as-surda e inevitabile necessità, avulsa da ogni considerazionepersonale, mi costringeva, Dio sa perché, ad arrampicarmi suun’alta parete quasi verticale. Qua e là, attraverso la sua super-ficie di pietra grigio-marrone, spuntavano chissà come piccolicespugli spinosi e in alcuni punti, lungo le crepe irregolari, sivedevano serpeggiare persino radici e tronchi di alberi inari-diti. In basso, nel luogo da dove ero partito, uno stretto corni-cione di pietra si snodava lungo il masso roccioso e ancora piùgiù, in un oscuro abisso, scorreva un fiume montano con unfragore remoto e attutito. Salivo ormai da parecchio tempo, ta-stavo con cautela le cavità della pietra e con le dita mi aggrap-pavo ora a un cespuglio, ora a una radice di albero, ora infinealle sporgenze della parete. Mi avvicinavo lento a un terrazzi-no roccioso invisibile dal basso da dove, non so perché ne fos-si certo, iniziava un piccolo sentiero; e non riuscivo a liberarmidal presentimento penoso e incomprensibile, come tutto quan-to vivevo in quel momento, che la sorte non mi avrebbe con-cesso di rivederlo né di percorrerne ancora una volta i tornan-

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ti disseminati di aghi di pino che si inerpicavano con volute ir-regolari. Ricordai in seguito di avere avuto la sensazione di es-sere atteso lì da qualcuno impaziente e avido di vedermi. Arri-vai infine quasi in cima e mi afferrai con la mano destra a unasporgenza dai contorni netti. Mi mancavano una manciata disecondi alla meta quando, all’improvviso, il duro granito mi sisgretolò sotto le dita e sentii il mio corpo precipitare con in-credibile rapidità verso l’abisso e sbattere ripetutamente controla roccia che sembrava prendere il volo davanti ai miei occhi.Poi, un urto di straordinaria violenza mi procurò un doloremortale ai muscoli delle braccia e mi tolse il respiro: rimasi ap-peso cercando convulsamente di tenermi con le dita intorpidi-te al ramo secco di un albero morto annidatosi lungo una cre-pa orizzontale. In basso c’era il vuoto. Ero sospeso, con gli oc-chi spalancati fissi su uno spazio di granito situato nel miocampo visivo e sentivo il ramo a poco a poco, in maniera qua-si inavvertibile, cedere sotto il mio peso. Per un secondo, ap-pena al di sopra delle mie dita, strisciò una lucertolina traspa-rente e io riuscii a scorgerne nitidamente la testa, i fianchi chesi sollevavano e si abbassavano con regolare frequenza e losguardo privo di vita, freddo e immobile, tipico dei rettili. Poi,con un guizzo impercettibile e repentino scattò verso l’alto escomparve. Subito dopo udii, ora più intenso ora più debole, ilsordo ronzio di un bombo, non privo d’altronde di una sua me-lodia molesta e affiorò in me come un ricordo sonoro, ancoraindistinto, ma quasi sul punto di definirsi. Intanto, il ramo con-tinuava a cedere sotto le mie dita e un terrore sempre più pro-fondo mi invadeva. Un terrore piuttosto difficile da descrive-re, in cui predominava la consapevolezza che stavo vivendo gliultimi minuti della mia vita: non c’era forza al mondo in gradodi salvarmi, ero solo, completamente solo e sotto di me, in unterribile baratro – lo percepivo con tutti i miei muscoli – mi at-

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tendeva la morte di fronte alla quale ero inerme. Non avevomai pensato prima che sentimenti come la solitudine e il ter-rore si potessero provare non solo nell’animo, ma letteralmen-te con tutta la superficie del corpo. E sebbene fossi ancora vivoe sulla mia pelle non ci fosse nemmeno un graffio, passavo conun’estrema rapidità, che nulla poteva arrestare né rallentare,dall’intima agonia a un tormento di ghiaccio e a un’insupera-bile angoscia. Soltanto all’ultimo secondo, o millesimo di se-condo, sentii una sorta di sfinimento, dolce e sacrilego a untempo, in certo modo inscindibile dal tormento e dall’angoscia.E mi pareva che se avessi potuto mettere insieme tutti i senti-menti provati nel corso della mia vita, ebbene, la forza di talisentimenti, nella loro totalità, sarebbe stata nulla al confrontodi quanto provavo in quei minuti. Fu il mio ultimo pensiero: ilramo cedette, si spezzò e rupi, cespugli, gradoni presero a tur-binare attorno a me a vertiginosa velocità come in una gigan-tesca spirale e infine, dopo un tempo interminabile, nell’ariaumida, sulle rocce a ridosso del fiume, risuonò il pesante scric-chiolio del mio corpo precipitato. Ebbi ancora per un secondodavanti agli occhi l’immagine della parete rocciosa a picco sulfiume, ma non riuscii a trattenerla, anch’essa si dissolse e nonrimase più nulla.

È questo il mio ricordo di una morte dopo la quale inspie-gabilmente continuai a vivere, sempre che quell’uomo fossi an-cora io. Fino ad allora, come accade alla maggior parte dellepersone, avevo sognato spesso di cadere e ogni volta mi ero sve-gliato durante la caduta. Ma nel corso della mia difficile ascen-sione – anche quando avevo incontrato i freddi occhi della lu-certola o quando si era spezzato il ramo sotto le mie dita – sa-pevo di non stare dormendo. Dunque in questo incidente pre-ciso e, in sostanza, banale, privo di qualsivoglia sfumatura ro-mantica o chimerica, c’era presumibilmente una duplice pre-

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senza: un protagonista e un testimone. Una dualità, del resto,appena percettibile, a volte quasi inafferrabile. Una volta tor-nato dal non essere ebbi la sensazione di ritrovarmi in un mon-do dove avevo vissuto un’esistenza illusoria, e non perché al-l’improvviso fosse mutato, ma per il fatto che nel caos confusoe fortuito di ricordi, ansie infondate, sensazioni contradditto-rie, odori, sentimenti e visioni non sapevo cosa in particolaredefinisse le caratteristiche della mia esistenza, cosa apparte-nesse a me e cosa ad altri, quale fosse il senso della mutevolecombinazione di elementi disparati dal cui assurdo insieme inteoria ero composto; un insieme cui era stato attribuito un no-me, un cognome, una nazionalità, un anno e un luogo di na-scita e un’intera biografia, cioè un lungo alternarsi di insuc-cessi, catastrofi e trasformazioni. Mi sembrava di risorgere len-tamente là dove forse non sarei dovuto tornare, dopo aver di-menticato quello che ero stato fino ad allora. Ma non si tratta-va di perdita della memoria in assoluto: semplicemente avevodimenticato in modo irreversibile cosa era importante e cosanon lo era.

Sentivo adesso in ogni circostanza della mia vita una curio-sa illusorietà, stratiforme e imprescindibile, sia nei confrontidi progetti e propositi, sia di situazioni immediate e concretedella mia esistenza che potevano cambiare completamente nelcorso di pochi giorni o di poche ore. Una condizione, del resto,a me nota perché faceva parte delle cose che non avevo di-menticato. Il mondo si componeva di fatti e sentimenti che ri-conoscevo, come se li avessi già vissuti in un passato lontano eora riemergessero dopo un sonno perduto nel tempo. Mi ac-cadeva persino in casi in cui, con ogni probabilità, mi imbatte-vo per la prima volta. Era come se nella gigantesca e caoticacombinazione di eventi diversi cercassi quasi a tentoni la viaun tempo già percorsa, chissà come e quando. Forse per questo

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la maggior parte degli avvenimenti mi lasciava indifferente esoltanto alcuni rari istanti, che presentavano magari solo ap-parentemente qualche coincidenza, trattenevano con forzastraordinaria la mia attenzione. Mi sarebbe stato difficile defi-nire in cosa si distinguessero dagli altri: una sfumatura in-spiegabile, un particolare fortuito, ma per me evidente. Quasimai riguardavano direttamente il mio destino o i miei perso-nali interessi, il più delle volte si trattava di visioni incom-prensibili che mi affioravano davanti agli occhi. Già prima, permolti anni di seguito, mi era accaduto di sentirmi come se nonappartenessi a me stesso e di partecipare in maniera esterioree marginale a quanto mi succedeva: avevo un atteggiamento ditotale distacco nei confronti della realtà, anche se si trattava dieventi burrascosi dove a volte si celava un pericolo mortale. Maconoscevo la morte soltanto in modo teorico e non ero in gra-do di penetrarne il vero significato che, con ogni probabilità,avrebbe suscitato nella mia anima l’orrore e mi avrebbe porta-to a vivere in modo diverso. Non di rado mi sembrava – quan-do rimanevo solo e nessuno mi impediva di immergermi inun’infinita serie di sensazioni, visioni e pensieri confusi – dinon riuscire a fare un ultimo sforzo per vedermi in una sola,netta e ampia rappresentazione e cogliere finalmente il signi-ficato nascosto e totale del mio destino, da sempre tracciatonella mia memoria come un casuale susseguirsi di eventi acci-dentali. Ma mai arrivavo a farlo e non riuscivo nemmeno maia capire perché un fatto qualsiasi, all’apparenza senza nessunaattinenza con me, all’improvviso assumesse ai miei occhiun’importanza tanto evidente quanto incomprensibile.

Era cominciato un periodo nuovo. La mia vita era attraver-sata da una lunga serie di emozioni straordinariamente forti,molte delle quali mai provate prima: sentivo l’arsura di spazideserti e un’inestinguibile sete, le fredde onde del mare del

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Nord avvolgermi mentre nuotavo per ore e ore verso una rivarocciosa e lontana, il caldo contatto del corpo abbronzato diuna donna mai conosciuta. Ed ero tormentato a volte da dolo-ri fisici tipici di malattie incurabili, di cui trovavo poi la descri-zione in manuali di medicina, malattie delle quali non avevomai sofferto. Ora mi ritrovavo cieco, ora storpio e soltanto dirado provavo una sensazione di felicità fisica, quando, tornatoin me, sentivo di essere sano e capivo che, grazie a un incom-prensibile concorso di circostanze, non ero affetto da alcunadolorosa infermità o mutilazione.

Certo, non sempre ero preda di queste sensazioni. In realtàera persistente il singolare senso di estraneità nei confronti dime stesso. Non appena rimanevo solo mi ritrovavo al centrodel movimento confuso di un vasto mondo immaginario chemi trascinava con sé in un vortice irresistibile e che a stentoriuscivo a seguire. Si trattava di un caos visivo e sonoro costi-tuto da una grande quantità di elementi di diversa natura; tal-volta era la musica di una marcia lontana scaturita da uno spa-zio chiuso fra alte pareti rocciose, oppure il tacito ondeggiaredi un infinito paesaggio collinare tutto verde, curiosamenteoscillante davanti ai miei occhi, o ancora il sobborgo remoto diuna città dell’Olanda dove si ergevano misteriosi trogoli di pie-tra in cui l’acqua colava con mormorio sempre uguale; e, a ren-dere più profonda questa evidente alterazione della realtà olan-dese, alcune donne con brocche sulla testa vi si dirigevano in fi-la, una dietro l’altra. In questo caos fluttuante non c’era alcunacoerenza logica né alcuna possibilità di uno schema armonico,sia pure remota. E nei periodi in cui esso prendeva il soprav-vento la mia vita psichica assumeva un carattere eccitabile e al-talenante. Non potevo conoscere con certezza la durata di unsentimento né sapevo cosa lo avrebbe sostituito il giorno o lasettimana dopo. E come, dopo avere imparato a leggere e scri-

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vere, ero rimasto colpito dai dialoghi dei miei primi libri in cuila gente parlava con frasi compiute e metteva al posto giustosoggetti e predicati con il punto finale, mentre nella realtà, misembrava, nessuno lo faceva mai, così adesso mi era quasi in-comprensibile come un uomo – contabile o ministro, operaioo vescovo – potesse essere fermamente convinto che il suo fos-se proprio il ruolo più importante e costante di tutti, come sel’abito talare del vescovo o la tuta da operaio in modo miste-rioso ed esatto corrispondessero alla ineluttabile e autenticavocazione di quanti li indossavano. Sapevo, naturalmente, chein un dato lasso di tempo e in certe condizioni un operaio nondiventa vescovo, così come un vescovo non si trasforma in ope-raio, e ciò non di rado continua fino a quando la morte, indif-ferente e inesorabile, non li renda uguali. Ma percepivo pureche il mondo, nel quale all’uno era stato destinato un ruolo e alsecondo un altro, all’improvviso può rivelarsi fittizio e illusorio,e allora tutto cambia in modo irriconoscibile. In altri termini,la mia esistenza si svolgeva in una realtà priva ai miei occhi dicontorni netti e in un certo senso definitivi, in essa non c’eraniente di duraturo, gli oggetti e i concetti che la componevanopotevano mutare forma e contenuto, come le misteriose meta-morfosi di un sogno interminabile. E ogni mattina, al risveglio,guardavo con confusa meraviglia gli stessi disegni della tap-pezzeria sulle pareti della mia camera d’albergo e ogni volta miparevano diversi dalla sera precedente perché da un giorno al-l’altro si erano verificati una grande quantità di mutamenti e,lo sentivo, anche io ero cambiato, trascinato da un movimen-to impercettibile e inarrestabile. Vivevo dunque a quel tempoquasi in un mondo astratto e mai vi trovavo quella logica delpensiero o delle cose che ad alcuni dei miei insegnanti sem-brava una legge fondamentale, necessaria e definitiva di ognievoluzione spontanea e di ogni esistenza umana.

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Fu in quell’epoca lontana e piena di incertezza che lo in-contrai: pareva essersi ridestato dal nulla apposta per apparir-mi dinanzi in quel preciso periodo della mia vita. Non era pro-priamente un uomo, era qualcosa di simile al ricordo alteratoe irriconoscibile di qualcuno che un tempo era esistito. Ora nonc’era più, era scomparso, ma non senza lasciare tracce poichéne era rimasto ciò che vidi quando per la prima volta mi si av-vicinò dicendo:

– Excusez-moi de vous déranger. Vous ne pourriez pasm’avancer un peu d’argent?1

Aveva un viso scuro, ricoperto da fitti e spessi peli grigio-rossicci, occhi gonfi e palpebre cadenti, indossava un cappellonero e logoro, una lunga giacca grigio piombo che poteva an-che essere un cappotto corto, scarpe biancastre bucate e pan-taloni marroni ricoperti di innumerevoli macchie. Il suo sguar-do però era diretto, tranquillo e chiaro. Ma in particolare micolpì la voce assolutamente discordante con l’aspetto esterio-re: regolare e bassa, con toni sorprendenti che denotavano si-curezza. Era impossibile non cogliervi il riflesso sonoro di unmondo diverso da quello a cui, con ogni evidenza, l’uomo ap-parteneva. Nessun vagabondo o mendicante poteva permet-tersi di parlare così, non ne aveva il diritto. E se avessi avuto bi-sogno di una prova irrefutabile che quell’uomo era il ricordovivente di un altro essere ora scomparso, ebbene, quella voce ele sue intonazioni inattese sarebbero state più convincenti diqualsiasi annotazione biografica. Tutto ciò mi portò a prestar-gli attenzione maggiore di quanta ne avrei data a un normaleaccattone venuto a chiedermi l’elemosina. Anche un’altra con-siderazione però mi spinse a tendere l’orecchio: il suo france-se era impeccabile, ma innaturale.

Questo accadeva alla fine di aprile nel giardino del Lus-semburgo; ero seduto su una panchina e leggevo delle note sul

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viaggio di Karamzin. Lui diede un’occhiata al libro e si mise aparlare russo, un russo molto puro e corretto in cui, però, do-minavano espressioni arcaiche: “Stimerei mio dovere…”, “Vo-gliate degnarvi di porre l’attenzione”. In pochi minuti riuscì adarmi su di sé informazioni a mio giudizio non meno fantasti-che del suo aspetto, dalle quali trapelarono l’ombra nebbiosadell’edificio dell’Università di Pietroburgo, la facoltà di Studistorici e filologici dove un tempo aveva fatto gli studi e, da qual-che accenno impreciso ed evasivo, un’immensa ricchezza, manon era chiaro se l’avesse persa o la dovesse ricevere.

Tirai fuori dieci franchi e glieli tesi. Lui si inchinò mante-nendo un’espressione di dignità del tutto fuori luogo e si tolseil cappello con movimenti larghi e ondeggianti che non avevomai visto in nessuno. Quindi, spostando con circospezione ipiedi nelle scarpe bucate, si incamminò senza fretta. Ma nem-meno il suo portamento lasciava trasparire l’apprensione ti-morosa e lo sfinimento fisico propri delle persone in quellecondizioni. Si allontanava lentamente; il sole di aprile ormaiera al tramonto e la mia immaginazione, avanti di qualche mi-nuto come un orologio difettoso, già creava – lungo la cancel-lata del Lussemburgo – la luce crepuscolare che sarebbe scesadi lì a poco, ma in quel momento assente. Mi rimase impressacosì la figura del mendicante, nel tenue chiarore di un crepu-scolo non iniziato, mentre si muoveva fino a svanire, immersanella pastosità lattiginosa del giorno che se ne andava. E in que-sta cornice fallace e illusoria rievocava immagini vaghe dellamia mente. Rammentai in seguito, una volta rientrato a casa,che quella luce, nella quale il raggio del sole appena scompar-so lascia nell’aria una traccia quasi impercettibile, ma ancoraben presente, della sua lenta dissoluzione, l’avevo vista in al-cuni quadri e, in particolare, in una tela del Correggio che almomento però non riuscivo a focalizzare.

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Questi sforzi di memoria, senza che me ne rendessi conto,generarono un altro fenomeno, non meno abituale e negli ul-timi tempi anzi addirittura accentuato: l’incessante susseguir-si di visioni che aveva preso a perseguitarmi. Ora mi accadevadi vedere una donna in un abito nero tutto abbottonato inten-ta a camminare con passo pesante per la stretta via di una cit-tà medievale, ora un uomo pingue, con gli occhiali, in un abi-to di foggia europea, smarrito e infelice, palesemente in cercadi qualcosa che non riusciva a trovare, o ancora un vecchio dialta statura in una strada tortuosa e piena di polvere, o occhidi donna sbarrati e pieni di terrore in un volto pallido a me bennoto da tempo. Durante queste allucinazioni provavo senti-menti penosi e nuovi mescolati a sensazioni legate a eventi del-la mia vita reale. E alcuni stati psichici determinati da causeinequivocabili persistevano anche dopo la scomparsa delle cau-se suddette, tanto che mi chiedevo quale fosse l’elemento pri-mario, se la causa o lo stato psichico; e se si trattava dello statopsichico, non era questo allora a determinare in certi casi an-che i princìpi irreversibili ed essenziali appartenenti al mondomateriale retto, sembrerebbe, soltanto dalle leggi della gravitàe delle relazioni fra i numeri? Un altro interrogativo mi assil-lava: cosa mi legava ai personaggi irreali che io non avevo maiinventato, ma che apparivano in modo tanto inaspettato da-vanti ai miei occhi, come l’uomo caduto dalla parete di rocciae nel cui corpo ero morto non tanto tempo prima? O la donnain nero, o quanti sicuramente mi aspettavano con l’ostinatabramosia di incarnarsi in me per un lasso di tempo breve e il-lusorio? Ciascuno era diverso dagli altri, era impossibile con-fonderli. Cosa dunque mi legava a loro? Le leggi dell’eredita-rietà, le cui linee disegnavano intorno a me arabeschi bizzarri,memorie dimenticate e chissà perché riemerse proprio dentrodi me, o infine il fatto di far parte di una collettività umana di

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dimensioni colossali, e la protezione che mi separava dagli al-tri e in cui era racchiusa la mia individualità di tanto in tantoperdeva la sua impermeabilità e disordinatamente vi irrompe-va qualcosa di estraneo, come un’onda si avventa e penetra nel-le fenditure di una roccia? Non potevo raccontare a nessunodelle mie visioni, sarebbero state prese per un delirio o una par-ticolare forma di follia. Ma non si trattava né dell’una né del-l’altra cosa. Ero in perfetta salute, i muscoli del mio corpo fun-zionavano con precisione automatica, seguivo senza difficoltài miei corsi universitari, le mie facoltà logiche e analitiche era-no normali. Non sapevo cosa fosse uno svenimento e quasi nonconoscevo la stanchezza fisica, sembravo fatto apposta per af-frontare il mondo vero, reale. Eppure un altro mondo illusoriomi perseguitava senza tregua e quasi ogni giorno, in cameramia o per strada, in un bosco o in un giardino, cessavo di esse-re me stesso, la persona nata nel tale luogo, il tale giorno, di-plomata alle scuole superiori qualche anno prima e ora stu-dente universitario e al posto mio emergeva con una necessitàimperiosa qualcun altro. Queste trasformazioni erano per lopiù precedute da sensazioni fisiche penose che invadevano avolte l’intera superficie del mio corpo.

Ricordo di essermi svegliato una volta nel cuore della nottee di avere sentito chiaramente i capelli – lunghi, grassi e ma-leodoranti – sfiorarmi il viso dalle guance flaccide e di avereavuto la percezione, stranamente familiare, della lingua che ta-stava gli spazi vuoti fra i denti mancanti. La consapevolezza diessere solo lo spettatore di un’apparizione e lo stesso odoresgradevole avvertito all’inizio erano scomparsi quasi subito. Eallora, lentamente, come chi piano piano distingue gli oggettiin una luce crepuscolare – caratteristica, d’altronde, dell’iniziodi tutte le mie visioni – avevo riconosciuto la nuova e penosaincarnazione di cui ero vittima: avevo visto me stesso come una

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donna anziana, con il corpo cadente e stanco di un pallore mal-sano. In una camera calda e soffocante, dove attraverso unapiccola finestra aperta su un cortile angusto e scuro fluiva il lez-zo greve tipico di un quartiere miserabile, giaceva su un len-zuolo biancastro e madido di sudore un’enorme figura decre-pita. Due seni lunghi e pesanti le ricadevano ai lati e il ventre nericopriva con una piega di grasso l’attacco delle gambe, grasseanch’esse, dalle dita dei piedi nere e irregolari. Accanto dor-miva, la testa rovesciata, un ragazzetto arabo dai capelli nerifitti e crespi; immerso in un sonno profondo, digrignava comeun cane i denti bianchi e mostrava il dorso e le spalle ricopertidi piccole pustole.

L’immagine della vecchia non aveva occupato a lungo la miamente, ma a poco a poco si era dispersa nella penombra e miero ritrovato nel mio letto stretto, nella mia camera con la fi-nestra alta su una via silenziosa del Quartiere Latino. L’indo-mani mattina, quando mi ero svegliato e poi avevo richiuso gliocchi, avevo notato – ma questa volta in modo nitido, da spet-tatore – che l’arabo non c’era più e nel letto era rimasto soltan-to il cadavere della donna con il sangue rappreso sul collo peruna terribile ferita. Poi non l’avevo più vista, era scomparsa persempre. Ma quella fu, senza dubbio, la sensazione più ripu-gnante mai provata: la sensazione di un vecchio corpo, grassoe flaccido, di una penosa inconsistenza muscolare.

Da quando avevo incontrato per la prima volta nel giardinodel Lussemburgo l’anziano mendicante russo che aveva lascia-to nella mia memoria un’impronta così nitida e ostinata – il ne-ro cappello lacero, la barba ispida, le scarpe rotte e quell’incre-dibile soprabito, metà cappotto metà giacca – erano passati cir-ca due anni. Un periodo di tempo lungo, quasi infinito, carat-terizzato dal silenzioso sciamare di visioni deliranti in cui si in-crociavano corridoi misteriosi, pozzi profondi simili a stretti

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abissi, alberi esotici lungo rive lontane di mari del sud, fiumineri scroscianti nel mio sonno e un ininterrotto susseguirsi digente diversa, uomini e donne, della cui apparizione mi sfug-giva sempre il senso ma ormai parte indissolubile della mia esi-stenza. Quasi sempre provavo una stanchezza spirituale e psi-chica, conseguenza di una follia multiforme e incessante chestranamente non influiva sulla mia salute e sulle mie capacitàe non mi impediva di dare a tempo debito gli esami né di ri-cordare con precisione le lezioni universitarie. A volte questotacito flusso si arrestava all’improvviso senza alcun preavviso;in tali casi ricominciavo a vivere spensierato e leggero, aspira-vo deliziato l’aria invernale e umida delle strade parigine, se-devo al ristorante e assaporavo con percezione felina il gustodella carne lacerandone con denti avidi i pezzi succosi.

In uno di questi giorni ero seduto in un grande locale delboulevard Montparnasse, sorseggiavo un caffè e leggevo ilgiornale. Dietro di me una voce maschile disse con sicurezza aconclusione – almeno a giudicare dal tono – di un discorso chenon avevo udito:

– E mi creda, ho un’esperienza sufficiente per affermarlo.Mi voltai. Mi era sembrato di cogliere nella voce qualcosa di

familiare. Ma non conoscevo affatto chi aveva parlato. Lo os-servai rapidamente: indossava un cappotto pesante, una cra-vatta rosso scuro annodata a un colletto inamidato, un vestitoblu, un orologio d’oro al polso. Portava gli occhiali e aveva unlibro davanti a sé. Accanto a lui sedeva una ragazza bionda sul-la trentina, un’artista che a volte avevo incontrato a casa di co-noscenti; fumava una sigaretta e sembrava non prestargli mol-ta attenzione. Poi lo sconosciuto chiuse il libro e si tolse gli oc-chiali – doveva essere presbite – e vidi i suoi occhi. Non riusci-vo a crederci: era lui, il mendicante a cui avevo dato dieci fran-chi nel giardino del Lussemburgo. Era riconoscibile soltanto

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dagli occhi e dalla voce, per il resto fra questo signore seduto alcaffè e lo straccione che due anni prima mi si era avvicinato emi aveva chiesto dei soldi non c’era assolutamente niente incomune. Non mi ero mai reso conto di quanto un abito potes-se cambiare una persona. Nella sua trasformazione c’era co-munque qualcosa di innaturale e poco verosimile. Era una sor-ta di movimento all’indietro nel tempo che mi pareva davverofantastico. Due anni prima quest’uomo era appena un’ombra,e adesso quest’ombra, come per miracolo, era tornata a essereciò che una volta l’aveva preceduta e la cui scomparsa avrebbedovuto essere irreversibile. Non riuscivo a riprendermi dallostupore.

L’artista si alzò e andò via facendomi un cenno di saluto conla mano, allo stesso tempo un salve e un arrivederci. Allora miavvicinai al tavolino dove era rimasto l’uomo dicendo:

– Mi scusi, mi sembra di avere già avuto il piacere di incon-trarla da qualche parte.

– Si accomodi, prego – rispose l’uomo con gentilezza paca-ta. – La sua memoria le fa onore. Lei è il primo fra tutte le mievecchie conoscenze ad avermi riconosciuto. Sostiene che ci sia-mo già visti? E ha ragione. È stato nel periodo in cui vivevo inun tugurio di rue Simon Le Franc.

Fece un gesto indefinito con il braccio.– Le piacerebbe sapere cosa mi è successo? Ebbene, comin-

ciamo col dire che i miracoli a questo mondo non esistono.– Fino a qualche minuto fa la pensavo esattamente come lei.

Adesso però comincio a dubitarne…– Invano – riprese. – Non c’è niente di peggio che fidarsi

delle apparenze. Possiamo pure costruirci sopra delle teorie,ma dobbiamo sempre tenerne presente il carattere del tutto ar-bitrario. Fra cinque minuti le cause della mia metamorfosi lesembreranno assolutamente naturali.

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