Inchiostro n°137 – Dicembre 2014

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1 Il giornale degli studenti dell’università di Pavia Dicembre 2014 Anno XIX - Numero 137

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Il giornale degli studenti dell'Università di Pavia. Numero di Dicembre

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Il giornale degli studenti dell’università di PaviaDicembre 2014 Anno XIX - Numero 137

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EDITORIALE 3di Irene Doda e Camilla Rossini

CAZZARO 4Giorgio Intropido

DUE DI DUE 6Cristina Ferrulli, Elisabetta Gri, Eleonora Salaroli, Elisa Zamboni

SPECIALE RACCONTI 8

NOTA BENE 16di Ignazio Borgonovo & Niki Figus

UNA SLITTA PER DUE 18Giorgia Ghersi

E STA SERA COSA GUARDO? 19Elisa Enrile

PUNK! 20Niki Figus

DIRETTORE RESPONSABILE: Simone

Lo Giudice

COMITATO EDITORIALE: Camilla

Rossini, Irene Doda, Eleonora Salaroli,

Elisa Zamboni

DIRETTORE SITO: Veronica Di

Pietrantonio

TESORIERE: Francesca Carral

IMPAGINAZIONE: Elsa Bortolotti

IMMAGINE DI COPERTINA: Matteo

Camenzind, Elsa Bortolotti

CORRETTORI DI BOZZE: Elisa Enrile,

Cristina Ferrulli,

Giorgia Ghersi, Elisabetta Gri, Matteo

Croce, Alessio Labanca

IN QUESTO NUMERO HANNO

COLLABORATO: Elsa Bortolotti, Matteo

Camenzind, Francesca Carral, Matteo

Croce, Veronica Di Pietrantonio, Irene

Doda, Elisa Enrile, Cristina Ferrulli, Niki

Figus, Giorgia Ghersi, Alessio Labanca,

Giulia Marini, Cristina Motta, Camilla

Rossini, Eleonora Salaroli, Stefano

Sondrini, Valeria Sforzini, Elisa Zamboni

Anno XIX - Numero 137 - Dicembre 2014

Sede Legale: via Mentana, 4 - Pavia

Contatti:

Simone 346/7053520

Eleonora 338/4208867

Elisa 346/3951170

[email protected]

Iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla

Commissione Permanente Studenti dell’Università

di Pavia nell’ambito del programma per la

promozione delle attività culturali ricreative degli

studenti.

Fondi 2014: 6162,76 euro

Il giornale degli studenti dell’università di Pavia

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Cami - Ire, dobbiamo dircelo: siamo due direttrici sull’orlo del-la rottamazione. È il momento di salutare la pagina 3 che per un intero anno ha sopportato i nostri editoriali. Scriviamo un dialogo, una riflessione conclusiva sulla nostra esperienza a Inchiostro?

Ire - Tipo il Papa e Scalfari che dialogano sui massimi sistemi? Allora iniziamo subito con i temi scottanti: qual è stato il tuo colo-re preferito della copertina?

Be’, ti dirò, non facile scegliere. Ora che siamo al termine dell’an-no e si preannunciano grandi innovazioni dal punto di vista della grafica, guardo le coper-tine dei numeri e penso che sia-no belle tutte così, assieme, blu, giallo celeste, rossa, arancione, verde, black&white e arcobale-no. Sono belle e sono figlie an-che nostre. È assurdo se penso a come eravamo quella prima sera, ti ricordi?

Certo, come potrei dimenticare? Era la nostra prima settimana da fuorisede, non avevamo il gas in casa ed eravamo andate a man-giare all’Osteria delle Carceri (perché poi?), prima di andare a dare un’occhiata al fantoma-tico “giornale universitario”. Un po’ a caso in realtà. Un inizio

degno delle migliori e più auten-tiche storie d’amore.

Vero. Chi avrebbe pensato, allo-ra, al Comitato Editoriale?

Di sicuro non mi passava neppu-re per la testa che un giorno sarei potuta essere a capo di qualcosa. Appena finito il liceo, matricola sperduta…E invece, dodici mesi dopo, eccoci prendere in mano la direzione del giornale. E in qual-che modo, grazie alla meraviglio-sa squadra della redazione, ce la siamo cavata. Il nostro anno da direttrici non è stato sicuramen-te una passeggiata. Credo che abbiamo violato una ventina di articoli dello Statuto dei Lavora-tori: impaginando e correggendo bozze per quindici ore di fila, la-vorando di notte… Ma secondo te, chi ce lo ha fatto fare? Come convinceresti una persona a entrare in redazione?

L’hai detto: eravamo due ragaz-zine sperse. Io non sapevo parla-re a più di tre persone, non sape-vo gestire un gruppo, avevo serie difficoltà a prendere decisioni. In questi due anni e mezzo, In-chiostro mi ha cresciuta come nient’altro. Qui si lavora sul se-rio, con correttezza e impegno. Si ha la possibilità di comunicare a un numero enorme di persone e,

auspicabilmente, di fare qualcosa di buono. Divertendosi come dei cretini per di più. È un’occasione imperdibile.E poi, le serate con la Redazio-ne…dai, raccontale tu.

La birra post-riunione è un mo-mento insostituibile e impor-tantissimo. Nessuno lavora sodo (e gratis!) per persone che non conosce e di cui non sa niente. Costruire un gruppo, delle buone relazioni, delle solide amicizie non è un contorno: è un tassello fondamentale del lavoro! E non esagero quando dico che buona parte dei colleghi sono stati per me come una famiglia, in questi due anni. Ma dimmi, che effetto ti fa lasciare? Io la sento come un’esperienza bella e formati-va, ma che ora è finita e prepara a qualcos’altro.

Sì, sono d’accordo. E anche se mi mancherà tutto questo, sono feli-ce di lasciare, perché ci vogliono menti fresche: in questi ultimi mesi, la Redazione si sta riem-piendo di persone con idee, con competenze nuove e necessarie, con buona volontà a palate. E sono felice che loro proseguano sotto una direzione nuova di zec-ca. A loro e a tutti i lettori, vorrei solo dire buona fortuna. E gra-zie grazie grazie grazie grazie.

Due direttrici sull’orlo della rottamazione si guardano alle spalle

di Irene Doda e Camilla Rossini

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di Giorgio Intropido

Era un cupo pomeriggio di luglio quando ritor-nai nella mia chiesa, dopo un anno dalla scomu-nica… ehm… no scusate, ho sbagliato l’attacco. Era una sera di settembre come tante quando, tele-comando alla mano, smitragliavo verso il televiso-re alla ricerca di qualcosa che fosse almeno lonta-namente entertaining. Ardua impresa direte, avete ragione, quando ad un certo punto - tra lo spot della Rai che tenta di convincere l’utenza dell’utilità di pagare il canone e un altro in cui persone visibil-mente troppo giovani per portare una dentiera ten-tano di venderti l’apposita pasta adesiva – l’appa-recchio si sintonizza su Rai Due. Ciò che riesco a percepire nei primissimi istanti è un senso di già vi-sto, già vissuto… sì, sembra essere un cabaret, stile Colorado. Col passare dei minuti la sensazione che nasce è qualcosa con la quale ho imparato a convi-vere da quando le All-Star erano considerate scarpe da sfigati: la vergogna. Ma non quella che si prova verso se stessi quando scarti il gelato e invece di gettare la carta butti il Magnum Algida nell’umido, no… è quel tipo di imbarazzo scaturito dalla visio-ne di qualcosa di estremamente fastidioso e pateti-co e assolutamente non-comico ma che per qualche strana ragione piace alla gente. Il programma era Made In Sud e non riuscivo più a muovermi. Il

disgusto per ciò che vedevo era tale da non per-mettermi di cambiare canale o staccare gli occhi, e una breve riflessione sulla comicità in generale scaturiva da sé. Troppo spesso mi ritrovo a fruire di contenuti etichettati come comici ma che, detto tra noi, muovono a pietà. Capisco che i gusti son gusti e che è bello ciò che piace e tutte ‘ste cazzate qua, però tutto questo relativismo estremo mi puz-za, parecchio. E non voglio dire che tutto il ridere italiano sia da buttare. Quello che intendo è che sia-mo fermi agli anni ’90***. Davvero ancora oggi, al tramonto del 2014, una battuta sull’Ikea o sul CEPU oppure un monologo basato sulle differenze tra i sessi del tipo uomini-calcio e donne-vestiti, fa ridere? Diverte? Sul serio? Ma dai. Come se l’u-morismo si fermasse al cabaret poi, quello stesso cabaret milanese che nasce al Derby e che ci ha regalato Teocoli, Jannacci, Cochi e Renato, Aldo, Giovanni e Giacomo, e che muore nello Zelig te-levisivo di oggi: neanche un pallido ricordo di ciò che fu. Umorismo non è solo lo sketch preparato a tavolino (e che spesso ha lo stesso effetto comico di un tavolino: nessuno), ma è anche (per alcuni) o soprattutto (per me) improvvisazione e sorpre-sa: se guardo una puntata a caso di Colorado so esattamente cosa aspettarmi, ma se ne ascolto una

PERCHÉ COMICO NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE DIVERTENTE

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PERCHÉ COMICO NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE DIVERTENTE

di Cordialmente ogni volta rischio un’operazione a cuore aperto. In quale direzione si potrebbe allora an-dare? Potremmo dirigerci sul più puro umorismo ran-domico alla (ah)iPiroso ma sarebbe troppo estremo. Direi allora di fare l’occhiolino ad una certa esterofilia ormai diffusa e provare a rifarci sulla stand-up co-medy americana. È vero, qualcosa anche noi in Italia abbiamo e abbiamo avuto, qualche esempio brillante più o meno soft non manca, ma bisogna scavare a fon-do per trovarli. In ogni caso siamo distanti anni luce dalla popolarità ma soprattutto dall’incisività dei temi trattati da questo tipo di intrattenimento d’oltreoceano. L’opera moralizzatrice dell’italiano medio non ha con-fini e non mi stupirei di vedere qualche benpensante sbraitare contro certa satira inadeguata mentre nuota nelle lacrime della d’Urso. Che dire di più… tantissi-mo. Ma non ho più battute a disposizione e neanche voglia. C’è di buono che è quasi Natale, il che signifi-ca sfondarsi di cibo e schiantarsi sul divano con la ta-chicardia a guardare Stanlio e Ollio su Rete4. Almeno loro… sono soddisfazioni.***Un piccolo appunto: dire che siamo fermi agli anni ’90 (che per quanto mi riguarda arrivano fino a metà anni 2000) non significa denigrarli o dimen-ticarsi che ci hanno regalato umoristi del calibro di Guzzanti (lui, non lei, e l’altra non la conto), Lut-tazzi, gli Elio e le Storie Tese (meriterebbero un di-scorso a parte ma va beh), la Gialappa’s Band, ecc. ecc.

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BARCELLONA – L’OMBRA DEL VENTO, Carlos Ruiz Zafón (edizione economica 2006, Arnoldo Mondadori Edito-re, pp. 439, 13€)Il figlio del libraio Sempere scova un misterioso libro nella labirin-tica biblioteca definita “Cimitero dei Libri Dimenticati” e, intrigato dalla lettura, cerca informazioni sull’autore; ma le opere di Julian Carax, la penna che firma il libro, sembrano essere introvabili. In seguito, Daniel Sempere scopre che a dar la caccia allo “scrittore maledetto” è un certo Lain Cou-bert, un individuo misterioso che vuole cancellare il ricordo di Ca-rax dalla memoria e dal tempo. Le indagini del giovane Daniel si snodano sullo sfondo di una Bar-cellona decadente, teatro di ami-cizie, amori, follie e crudeltà, tut-te vicende ed episodi che, a mano a mano, faranno crescere nel pro-tagonista l’amara consapevolezza di ripercorrere egli stesso la vita dello scrittore da lui tanto amato.

BUDAPEST – VIA KATALIN, Magda Szabò (2009, Einaudi, Super ET, pp. 202, €11,50)Libro di luoghi ed eventi: Via Katalin, sulle rive del Danubio a Pest, e le date fondamentali di Guerre mondiali e fredda.Nessuno comprenderà mai il si-gnificato di quel luogo, Via Ka-talin, ormai famiglia, sentimen-to, anima. Luogo che segnerà in

maniera irreversibile la vita e la morte delle famiglie che vi abi-tarono, così come i periodi chia-ve, i più importanti per dipingere le loro esistenze. Elekes, Birò e Held narreranno così gli intrecci delle proprie vite, con trionfi ma soprattutto sconfitte, attraverso le voci dei figli o riflessioni indirette dei familiari di turno. Libro dalla semplicità disarmante che lascia l’animo turbato per l’incapacità cronica dell’uomo di salvarsi dal destino.

FIRENZE – CRONACHE DI POVERI AMANTI, Vasco Pra-tolini (2011, BUR, pp. 459, 10€) Nella Firenze degli anni ’20 si in-trecciano le vicende degli abitanti di via del Corno. Pratolini ci pro-pone, insieme agli scorci di una delle città più suggestive del no-stro Paese, frammenti di vita vis-suta di personaggi che, nella loro ordinarietà, ci mostrano uno spet-tro variegato di personalità che solo la semplice realtà può rega-lare. Storie di un quartiere che si intersecano con la storia d’Italia dei primi anni del fascismo, il tut-to raccontato con un linguaggio popolare regionale che chiude il quadro realista del romanzo.

GINEVRA – FRANKEN-STEIN, Mary Shelley (2002, Mondadori, pp. 336, 9€)È alla fine del 1700 che il Dot-tor Frankenstein, amante delle

scienze e della filosofia naturale, decide di intraprendere il folle progetto di dare vita alla materia inanimata, creando così la Crea-tura che lo porterà alla rovina. È il romanzo del dolore e dell’amo-re, della gloria e della compas-sione, dell’individualismo e della solitudine. Calato in un’oscurità di elementi gotici, Frankenstein si presenta al pubblico come un drammatico racconto che si con-suma nelle parole del protagoni-sta mentre rivive gli orrori passati che ancora non conoscono fine. Dietro a questo classico immor-tale della letteratura c’è la giova-ne mano di Mary Shelley, che ha saputo toccare con singolare ma-estria la morale dell’800. Crudo, spettrale, vivo.

LONDRA – FEBBRE A 90°, Nick Hornby (2008, Guanda, pp. 256, 10€)Febbre a 90° è la storia di una vita raccontata attraverso i momenti chiave di un tifoso dell’Arsenal: singole partite di calcio scelte tra il 1968 e il 1992. Il protagonista, l’autore stesso, narra così alti e bassi della vita vera, il divorzio dei genitori, la scuola e l’univer-sità, l’amore, il destino, le delu-sioni umane, sovrapponendoli costantemente a quelli della sta-gione calcistica, con i suoi risul-tati, le sue partite noiose e quelle da fiato sospeso fino all’ultimo minuto. E benché questi due pia-

10 GRANDI LIBRI PER 10 GRANDI CiTTÀdi Cristina Ferrulli, Elisabetta Gri,

Eleonora Salaroli e Elisa Zamboni

Cosa c’è di meglio di un buon libro e una tazza di tè seduti accanto al camino sotto la copertina di plaid? Viaggiare, è ovvio! Perché allora non coniugare le due cose con un libro che sa di città?

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ni possano sembrare nettamente distinti a chiunque non sia tifoso, in realtà si influenzano costante-mente. Un libro semplice e ge-nuino, sincero, spesso comico e pungente, Febbre a 90° è l’omag-gio a una passione talmente per-meabile da dominare l’esistenza, diventandone metafora.

MOSCA – IL MAESTRO E MARGHERITA, Michail Bul-gakov (2003, Feltrinelli, pp. 552, 8,50€) Prendete un mattone di quasi 600 pagine e metteteci dentro: uno scrittore rinchiuso in manicomio, la sua bella amata, Satana in persona, uno spettaco-lo teatrale surreale, un gatto nero dalle dimensioni di un ippopo-tamo, un gran ballo, streghe che volano nude per la città e perfino Gesù Cristo e Ponzio Pilato, il tutto arricchito da una satira pun-gente ai limiti della comicità nel-la cornice della Mosca degli anni ‘30. Quello che ne esce fuori è un piccolo miracolo letterario, per usare la definizione datagli dal nostro Montale. Dato finalmente alle stampe quasi 30 anni dopo la sua ultima stesura (un travaglio durato 12 anni, fino alla morte dell’autore) Il Maestro e Mar-gherita è un’opera fuori dall’or-dinario e da ogni possibile clas-sificazione, ci troviamo di tutto: realismo e magia, commedia e tragedia, amore e distruzione. Fa-tevi un favore: leggetelo.

VIENNA – LA PIANISTA, El-friede Jelinek (2005, Einaudi, Super ET, pp. 298, €12,50)Erica Kohut è una pianista qua-rantenne nella città della musica, legata alla madre da una rela-zione ossessiva e tormentata. La gelosia e tirannia della madre, con cui è addirittura costretta a dividere il letto, la porteranno a una tormentata e dolorosa ricer-

ca dell’identità sessuale. Ricerca che, in un primo momento, fa en-trare in gioco la Vienna più oscu-ra: la Vienna degli squallidi peep-show di periferia, di cinema a luci rosse e prostituzione negli angoli del Prater. Ricerca che, invece, diventerà masochismo e voyeu-rismo nella Vienna più borghese, tra una lezione di piano e l’altra, con l’allievo Walter Klemmer. Uno stile difficile, intriso di di-scorso indiretto e diretto libero, di flussi di coscienza e descrizio-ni dettagliate, che abbatte senza pudore le convenzioni viennesi.

PARIGI – TROPICO DEL CANCRO, Henry Miller (2005, Feltrinelli, pp. 261, 8€) Quale miglior modo per adden-trarsi dentro Parigi e le sue strade malfamate, cantate da generazioni di poeti, se non attraverso il cru-do racconto di uno dei più gran-di innovatori letterari del ‘900? Dietro sentenze visionarie e sce-nari surreali c’è l’esistenza nella sua essenza più spontanea, che scalpita per essere vissuta senza filtri, senza censure: “Il mondo deve diventare carne; […] voglio piombarci sopra e divorare. Se il vivere è il meglio che ci sia, allo-ra voglio vivere, a costo di diven-tare cannibale”. Miller mantiene la parola e quello davanti a cui ci troviamo è la dissolutezza più sincera, senza pudore né remore morali, raccontata ora con un lin-guaggio spinto e greve, ora con una prosa raffinata e suggestiva seguente solo il proprio flusso di coscienza. Tropico del Cancro è l’autobiografia di un artista, di un animo a cui non è bastato vivere per l’arte ma che ha deciso di fare della sua vita arte stessa.

PRAGA – LA VITA SOGNATA DI ERNESTO G., Jean-Michel Guenassia (2013, Salani editore,

pp. 512, 16,90€)Dalla Prima Guerra mondiale alla modernità del secondo mil-lennio: il Novecento raccontato attraverso le esperienze di Joseph Kaplan, un cecoslovacco nato a inizio secolo, amante del tango e della sua professione di medico. Dalla natia Praga, la sua longeva vita lo porta ad affrontare e cura-re l’epidemia di peste ad Algeri, a sfuggire alla persecuzione degli Ebrei (essendo lui stesso di ori-gine semita), a innamorarsi e a essere abbandonato con la figlia, a sopravvivere nel clima di ter-rore della Cecoslovacchia comu-nista, a conoscere il fantomatico Ernesto G., ultimo residuo di un mondo di valori e ideologie or-mai sull’orlo del crollo. Joseph attraversa le realtà che flagellano il cosiddetto “secolo breve”, fa-cendoci sognare di averle vissute accanto a lui.

STOCCARDA – L’AMICO RITROVATO, Fred Uhlman (2009, Feltrinelli, pp. 96, 6€)Nella primavera del 1933 il gio-vane Hans Schwarz, di origine ebrea, conosce a scuola Konradin Von Hohenfels, di famiglia nobi-le e tra i due nasce una profon-da amicizia che ben presto verrà segnata dalla Storia. Con l’ascesa del nazismo Konradin si schiera infatti dalla parte del potere, con-vinto che Hitler solo rappresenti la salvezza per la Germania, e scrive tutto questo in una lette-ra indirizzata all’amico; Hans, con queste parole di tradimento, emigra in America. Ma è nelle ultime pagine di questo semplice romanzo che si arriva alla consa-pevolezza, sicuramente intuibile già dal titolo, che l’amicizia può infrangere la Storia ed entrare nell’eternità. Storico, Delicato, Spi

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1Ho sempre sognato di scappare. Non esiste al-

cun ostacolo morale, per me, tanto grande quanto questo bisogno; non la mancanza di

denaro, non il pallore di mia madre che svegliandosi noterebbe il cellulare spento abbandonato sul tavolo, qualche straccio dimenticato disordinatamente per la stanza, un biglietto scritto di fretta attaccato alla porta. Non c’è niente che mi trattenga dal dare una svolta alla mia vita, se non io. E quattro sudicie mura che mi co-stringono a stare con me stessa per otto giorni, a mar-cire in una stanza di venti metri quadri arredata con un letto duro dalle coperte ruvide, una piccola men-sola coperta dagli auguri di pronta guarigione da parte dei miei – pochi – amici, un televisore in bianco e nero e un’anima stanca che fa solo arredamento. Soffro di depressione. Non di quella che gli amanti del dramma inventano all’ennesima crisi di coppia, ma di quella che ti regala un biglietto di sola andata per una clinica di riabilitazione dopo un maldestro tentativo di suicidio con gli psicofarmaci. Lo psichiatra che mi è stato affi-dato è lo stesso che ha in cura Marta, la bambina che vede gli spettri, e Victor, l’uomo che dopo tre anni dalla sua morte crede ancora di dormire con la moglie. È un ometto insignificante, ha due folte sopracciglia che nascondono due cieli vuoti, mi guarda di sbieco come se fossi una bambola impolverata su una sedia, come faceva anche mio padre, prima di andarsene. Dice che coi tempi che corrono è un problema comune in mol-ti, che la colpa è della società spietata, una stratega di pessimo gusto che tira i fili a miliardi di marionette sempre in concorrenza per sentirsi perfette, avere l’ul-tima auto, una casa da sogno, essere come le stelle del cinema con le loro borse da capogiro. È convinto di sapere molto di noi, ma nemmeno si ricorda di avere davanti degli esseri umani – certo, strambi, impreve-dibili, bestiali, qualcuno pericoloso, ma sempre delle vite. Gli ho risposto che io i capogiri li ho quando bevo, e che con lo stipendio da operaia di mia madre le borse posso permettermi al massimo di averle sotto gli oc-chi ogni volta che due gambe da urlo mi ricordano la bambina paffuta che si chiudeva in spogliatoio nell’ora di ginnastica. Io ho vent’anni, dei quali perlopiù passa-ti a fare da madre a una madre che non c’è mai stata, e sono ancora quella bambina: le mie coetanee si ri-empivano la testa di fesserie, vestendo le bambole con tacchi vertiginosi e minigonne di jeans; io mi chiudevo con la fantasia in rifugi immaginari e speravo che qual-

SPECIALE “INCHIOSTROA VOLONTÀ”

“Inchiostro a volontà” 2014: anche la IX edizione del consueto concorso letterario indetto da Inchiostro ha visto la partecipazione di numerosi studenti dell’Unipv. La premiazione, svoltasi martedì 25 novembre alla libreria Feltrinelli, ha assegnato un IPad mini al primo classificato, una Smartbox al secondo e un

buono Feltrinelli da 50 euro al terzo.

1° POSTO: MIRIAM MALINVERNOBUTTARSI VIA

2° POSTO: FRANCESCO BIGNAMINISUI DUE CIGLI OPPOSTI

3° POSTO: ILARIA FRASCAROLOLA TRAPPOLA DI MARILYN

4° POSTO: SABRINA AMADORI GLI UCCELLI DI CARTA

5° POSTO: LUCA MARIANICARA SANTA LUCIA

Buona lettura, e tenetevi pronti per l’edizione 2015!

Buttarsi viadi Miriam Malinverno

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cuno, prima o poi, mi sarebbe venuto a prendere. Ho vent’anni, e non ha ancora bussato nessuno. Le persone che son qui, perché come me si sono per-se, odiano due cose: quello che gli altri pensano di loro e quello che loro pensano di loro stesse. Chi fin-ge di ascoltarci ha la sensazione di aver davanti dei casi incurabili, con un incessante bisogno di stare al centro dell’attenzione, che non si sanno riprendere perché non trovano la volontà di farlo; e nonostante il giudizio degli gli altri pesi posso assicurare che è più facile per me sopportare il loro pensiero piutto-sto che il mio. La forza di rialzarmi precipita con me ogni volta che mi sforzo di mantenere il sangue fred-do, di non farmi schiacciare a terra dalle mie paure. Tento di seguire tutte le dritte per evitare gli attacchi di panico e ogni volta so già di registrare un falli-mento; pretendere di più da me stessa rappresenta l’ennesimo tentativo perso di fare un passo avanti. Cadere, rialzarmi, cadere di nuovo. È il meglio che so fare.E mentre il cane si morde la coda la vita pas-sa, perdo anni di scuola, amici, possibilità. Avrei vo-luto diventare un medico per aiutare gli altri, e ora che non so nemmeno aiutare me stessa mi ritrovo circondata da camici bianchi che mi obbligano a in-goiare determinate pastiglie ogni poche ore, che mi proibiscono di ricaricare il cellulare perché “potresti pensare di impiccarti col filo del caricatore”, nei qua-li non riesco a trovare né talento né passione; alunni dell’indifferenza che dovrebbero tendermi la mano per tirarmi su, e invece mi lasciano affondare in questo oceano di follia. A ogni pillola che mi tocca cacciare giù con l’amaro in bocca riaffiora un ricor-do. Ora ho undici anni, sono nella mia camera tap-pezzata di poster dei Blue, mi copro le orecchie per non sentire i miei genitori urlare. Quando accosto la porta per rinchiudermi nel mio mondo non sento altro che quella di entrata che sbatte. Queste medi-cine hanno nomi inquietanti e il gusto della sconfit-ta. Ora ne ho sedici. È il mio compleanno, io e mio padre siamo seduti a un tavolo in un ristorante sul fiume, è un locale squallido, in cui i mariti stanchi portano le amanti, e gli spiantati le figlie in affida-mento. E’ da tre mesi che non si fa vivo. Non ho mol-ta fame: da un mese pratico una dieta estrema che la dietologa ha bollato sorniona come da “aspirante anoressica”, ma io non la ascolto; voglio perdere ven-ti chili di insulti, di scherni e di risolini soffocati in piscina, voglio essere come le attrici in tivù, con due gambe che non finiscono mai, io voglio la felicità. Ma questo a mio padre non interessa. Lui si guarda intorno lontano, lancia frecciatine alle cameriere, si sofferma ogni tanto sul mio viso spento e fa un sor-

riso impacciato, non mi guarda mai negli occhi, ci vede specchiato il suo schifo. “Tesoro, tu sai che io ti voglio bene, ma sai com’è, insomma, tua madre... Ti ho preso un regalino, spero che ti piaccia”. È una bellissima collana di perle con la quale cerca di far-si perdonare – e di comprarmi – prima di fuggire a Parigi con la sua nuova fiamma. Ho sempre pensato che l’essere umano sia stato programmato in modo da avere a disposizione un numero limitato di lacri-me per ogni persona, e io per lui le hoperse tutte. È il grido di un uomo ricoverato qui con me, in psichia ria, dopo aver perso il figlio a riportarmi alla real-tà. È una realtà scandita dai lamenti inutili dei miei compagni d’inferno, in una danza epilettica di infer-miere, noi formiche bruciate con la lente da un Dio capriccioso, pezzi di carne lasciati abbrustolire dal destino. Dio, ho solo vent’anni. È quello che dicono tutti qui, ma so che è così: io non sono pazza. Forse ha ragione lo psichiatra quando delira nei suoi di-scorsi maledetti, quando tenta di consolarmi affer-mando che sono solo nata in un tempo malato che ruota attorno a soldi e successo; dice che la scelta alla fine è sempre quella tra soffrire tutto d’un colpo e poi basta, o dilazionare il dolore in comode rate mensili. Ma comunque quello che lui pensa non è di mio interesse. Né quello che pensa la signora Tina, che ieri, dopo l’ora di confronto tra pazienti e psico-logi mi ha confessato di aver notato dei passi avanti. “Sei quasi pronta a tornare alla vita”, ha detto, “anco-ra un paio di giorni e saprai rialzarti da sola”, ha af-fermato con un enorme sorriso stampato in faccia. E mi rialzo eccome, ma per buttarmi di nuovo giù. Re-sto ancora qualche minuto a fissare questo vecchio soffitto pieno di crepe, e non so pensare ad altro che a un mondo migliore, lontano da qui, lontana dagli uomini. I custodi di questo posto nel commettere un raro atto di umanità hanno tralasciato le nostre insane intenzioni, e il balconcino che dà sull’ampio giardino del ricovero è accessibile a tutti. Il copione vuole che almeno tre medici controllino periodica-mente il locale per evitare sorprese spiacevoli, ma di me si fidano perché non ho inferto venti coltellate a mio marito, né passo la notte a parlare con le ten-de; e mentre uno mi sorride con un cenno del capo, l’altra continua impassibile a compilare la sua setti-mana enigmistica. Il corridoio che porta all’esterno è lungo e immerso nel silenzio ma i miei passi sono sempre più veloci, mi spinge la rabbia, o la speranza, o la noia, o tutto insieme. Quando ormai i miei piedi nudi toccano il fresco della ringhiera non conosco gesto più eroico che non darla vinta a questa assurda realtà. Uno, due, tre. E sono libera.

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Non avevo cuore di guardare troppo a fondo, negli occhi cupi di quel fiume. La debolezza che mi aveva convinto ad arrampicarmi fin lì

si dimostrava in quel momento ancora più vigliacca, più beffarda, lasciandomi ad esitare solo allora, dopo essermi issato lassù e aver scalato quel ponte posto ai confini della mia giornata. Le acque mi chiamavano, dal basso, torbide e setose, nella notte, le loro pieghe finissime a suggerire, a sussurrare il freddo mortale che si celava nel loro abbraccio. E io ero lì, con gli oc-chi inchiodati alle punte dei piedi, senza sapere come fare, incapace di trovare l’appiglio giusto, quel quid, quel qualcosa in più che mi facesse dire indietro non si torna, è troppo tardi per ripensarci. Come ci si sente a sentire la vita che ti vive, come se il tempo fosse sva-nito in un battito d’ali di farfalla, e tu, col tuo ritardo cronico, ingiustificato, non te ne fossi nemmeno reso conto? Vedere gli altri, intorno a te, i completi scono-sciuti come gli amici più cari, che lottano un giorno dopo l’altro, chi digrignando i denti chi con un sorri-so sulle labbra, senza mai darsi per sconfitti, trovando sempre la forza di reagire, dopo aver incassato il col-po. Io no, e in bocca, sulle labbra, solamente saliva, e il sapore ferruginoso del sangue. Sputare il tutto è sempre stata la sola reazione di cui fossi capace. Una volta ci credevo anch’io nei chiari di luna, nel manto delle stelle ricoperto da una coltre di nuvole sfuma-te dalla sabbia, nelle piccole grandi cose, nell’alone straordinario che fa da sfondo all’andirivieni quoti-diano, nel groviglio di storie incrociate e avviluppate che chiamiamo vita. Ma poi la vita, quella vera, vuole carne e sangue, ed è arrivato anche per me il giorno in cui mi sono sentito tutto cucito addosso, le giorna-te che si rincorrevano sopra la mia pelle, gli anni che vivevano di me, senza respiro, quell’aria di sentirsi le viscere svuotate e rese sgonfie da un vuoto colossale. E allora tutto, intorno a me, ha cominciato a guardarmi con fare minaccioso, gli anni di sforzi e sacrifici sono scomparsi in una raffica di vento, cancellati come la sabbia pettinata dall’instancabile carezza del mare; e ritrovarmi disilluso, stanco delle mie stesse idee che mi ero scelto, abbandonato ed isolato da quella massa da cui forzatamente mi ero voluto allontanare. E ora che da quella città me ne dovevo andare, niente mi rimaneva dell’entusiasmo degli inizi, solo la paura del vuoto che mi attendeva, fuori dal mio piccolo cortile,

2 Sui due cigli opposti di Francesco Bignamini

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capofitto nel poi del buio là davanti. È tanto diffici-le andarsene quanto è stato facile arrivare. Arrivare con le tasche piene di sogni e speranze, andarsene con l’amaro nel cuore. Arrivare con l’aspettativa di chi vuole scoprire un mondo infinito e andarsene con la coscienza che si è esplorato un fazzoletto di terra, angusto come il più tetro dei giardini, la sua fertile ricchezza lasciata a marcire, resa sterile dall’incuria. Gli anni passati a farsi vivere dalle ore, in un automatico avvicendarsi dei minuti, senza un senso, senza un perché, senza uno scopo. Scoprirsi a odiare quello che un tempo si ammirava, come un bambino che ha rotto il suo giocattolo, e niente prova per quei fili e quei congegni che lo anima-vano di luci colorate. Pensare a loro due, e a tutto quello che avevano costruito, insieme, con corag-gio. Lui, che adesso se ne stava uscendo dalla mia vita, come aveva fatto? Come aveva fatto, negli stes-si anni, nella stessa città, di fianco a me, a diventare tutto quello che avrei voluto essere io? Come aveva fatto a non vedersi morire davanti i propri miti? Ma forse era solo brama, furiosa invidia, la mia, eppu-re gli volevo bene davvero, avevo un’ammirazione sconfinata per lui, che mi era ormai quasi un fra-tello; noi due, dice il poeta, porcospini entrambi (le zampine soffici e i dorsi così tragicamente spino-si), che fingono soltanto di non seguirsi da lontano, costretti sui due cigli opposti della strada. E invece adesso sei qui. Non c’è più niente, ora, a dividerti dal vuoto. Sarebbe così semplice lasciarsi andare, rompere l’ultima barriera, mollare la presa dell’ac-ciaio consumato, la vernice vecchia di decenni, e lasciarsi cadere nel buio; da questa distanza l’impat-to con le acque non lascia scampo, è come tuffatsi di testa nel cemento, un colpo secco, uno schiocco brutale e poi più niente da dire. Il passato è come uno specchio rotto. Puoi provare a far tornare a combaciare ancora i pezzi, ma mentre lo fai ti tagli, con quei cocci aguzzi; ne fai un’immagine di te, di cristalli misti a sangue in continuo movimento, e tu cambi con lei, diventi tu stesso parte della storia che ti stai raccontando, consapevole delle falsità che vai amalgamando al vero, in una contraffazione di quello che sei. Il passato è come un buco nero, una voragine alle tue spalle. Puoi tentare di sfuggirgli, ma più corri più questa cresce sinistramente dietro di te, e la senti accarezzarti subdola i talloni. L’unica soluzione è quella di voltarsi e affrontarla, ma è fare i conti con un te che non sei tu, guardare in una tomba che scopri essere tua, in cui ti vedi vecchio

di tutte le tue ore. È come rivedere tutte le scelte che non sapevi di aver preso, fare i conti con tutte le oc-casioni sprecate, le piccole omissioni che ti hanno condotto verso i tuoi peccati, come il far tardi con gli amici invece di correre a casa dalla tua famiglia, senza pensare che, in un breve torno d’anni, quel-la famiglia potrebbe non esserci più. Sarebbe così facile lasciarsi andare di sotto, non ci sono sforzi particolari da richiedere, sarebbe la forza di gravità, e non una tua forza che non sai trovare, a decidere per te. E allora è veramente tutto qui? Anche nell’u-nica scelta che ti rimane vuoi che siano le cose a decidere per te? Vuoi restare qui, con gli occhi chiu-si, ad aspettare che siano gli altri ad accorgersi di te, a salvarti? O vuoi sgattaiolare fuori dalla gabbia, aiutare le persone che ami e impedire che il fuoco si propaghi ulteriormente? Schiusi gli occhi, sfug-gendo una volta di più al mio inferno personale, e li vidi lì, loro due, mentre scorrevano lungo l’ultimo tratto della navata: lui tranquillo e sorridente, quasi come se niente fosse, lei in un turbinio di velo bian-co, l’infinita cascata dei suoi capelli ad accarezzarle le spalle. « ... la Chiesa partecipa alla vostra gioia, e insieme con i vostri cari vi accoglie con grande af-fetto nel giorno in cui davanti a Dio, nostro Padre, decidete di ... » Perché in fin dei conti, anche nel peggiore dei casi, se non avessi fatto quelle scelte, giuste o sbagliate che fossero, non saresti lo stesso tu, sarebbe qualcun altro, lì, a guardarsi in cuore, e a porsi domande di tutt’altro genere. Ci vogliono anni di sofferenze brucianti, nell’ardore della forgia, per temprare a martellate una propria sofferta felicità. Ma i bambini giocavano rincorrendosi tra i banchi, stufi di aspettare e incuranti dei grandi, le loro voci ingenue e pure ad arricchire i suoni e le luci del-la festa. Li guardai sorridersi l’un l’altra, un’ultima volta, prima che mi voltassero le spalle, ma mi resi conto che non li avrei persi di vista, sarebbero stati solamente loro a non vedermi più, tagliandomi fuo-ri della loro prospettiva. E il loro sorriso, dopotutto, era anche il mio.

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Ho sempre avuto una passione per le piante rampicanti. Non so se sia per il loro aspetto sofisticato, per la loro capacità di vestire un

muro di mattoni con straordinaria eleganza, oppu-re se è l’immagine allegorica che evocano a colpir-mi tanto. Il loro obiettivo è spingersi verso l’alto, è arrivare sempre più su. E non si arrendono, si ag-grappano a tutto ciò che hanno, e, alla fine, quel-lo che per loro avrebbe dovuto essere un appiglio, uno strumento per raggiungere il loro scopo, viene completamente invaso dal loro incedere. Dal loro crescere. Il muro su cui poggiano quasi non respira più.È la pianta che comanda. E, quando raggiunge la cima dei tetti, si dimena, si contorce, torna a se stes-sa. Voglio dire, un rampicante sembra così debole, non può stare in piedi da solo, eppure poi diventa la parte essenziale di un tutto. Nessuno potrebbe più immaginare quel muro senza. Recidilo, distri-calo dalla parete, e preparati a sentire ogni passan-te chiedersi: “ehi, ma dove è finita quella pianta?” Ho cercato di diventare questo per te, ho cercato di trasformarmi in qualcosa che non avresti potuto abbandonare, senza sentirti un po’ vuoto. E, invece, non c’è alcuna reciproca esigenza l’uno dell’altra a legarci. Mi sono trasformata in un semplice stru-mento per il tuo auto-compiacimento. Mi sono ri-dotta a guardarti mentre fai a gara a chi ha la vita più complicata, o a chi se la complica di più. Non ti ho chiesto di decidere, né di scegliere. Cos’altro vuoi? Cos’altro, più della totale libertà? Mi guardi dicendo bugie, e sei quasi riuscito a convincermi di quanto tutto questo sia facile. Inevitabile. Probabil-mente questa situazione è il tuo habitat perfetto. E riesci anche a divertirti, perché il gioco lo conduci tu. Ho accettato io di farti da amante, è vero. E sa-pevo che cosa avrebbe comportato. E ora tu subisci me e te stesso, come se fosse solo colpa mia, come se tu fossi un’accidentale vittima di un fato che ti si è rovesciato addosso. Passi il tuo uso smodato di frasi fatte come intercalare, passi il tuo sparire senza dare spiegazioni, passino le tue strane antinomie, le tue incoerenze. Ma ci sono anch’io. E tu lo dimentichi. Mi chiedi di parlarti, ma non lo vuoi davvero. O meglio, il suono delle mie parole dovrebbe avere il solo scopo di divertirti. Di distrarti. Perché io sono “quella del divertimento”, e i problemi li hai già al-

trove, giusto? C’è già chi devi consolare, chi devi cullare tra le tue braccia se ha avuto una giornata difficile, chi devi sopportare se esagera, assecondare se urla. E non sono io. A ognuno il suo ruolo, giu-sto? Io sono relegata in un angolo remoto, ma ben illuminato, sotto un riflettore, magari senza vestiti (così ti dispenso dalla seccatura di togliermeli di dosso), e in rigoroso silenzio, ad aspettare tue di-sposizioni. Ed ecco creata la nostra perversione in-tellettuale, che poi non è altro che la pura e sempli-ce individuazione di un ruolo. Io non posso avere problemi, e, se ne ho, la cosa non ti riguarda. Perché sono “quella del divertimento”, e ti devo divertire. Fammelo ripetere ancora un po’, così lo fisso bene nella mente. Fammi mettere a fuoco quanto dovrò essere spregiudicata, e dammi ancora un paio di minuti per capire in quale angolo remoto potrò na-scondere il mio sarcasmo. Ma forse il problema è solo mio. Sai, i ruoli, a me, sono sempre stati stretti. Ho cercato per anni di inserirmi in qualche cate-goria. Dovevo essere sempre “qualcosa”. Mi piace-va essere definibile. Ma ho fallito, niente riusciva a rappresentarmi del tutto. E allora, mio malgrado, sono rimasta solo io. Niente da fare, non sono riu-scita nell’intento di trasformarmi in un’entità facil-mente individuabile. Mi sono trovata, a tutti gli ef-fetti, dispersa. E adesso più che mai, che sono (in un certo senso) entrata nella tua vita, mi manca la mia dispersione, la mia vacuità, il mio familiare senso di ubiquità. Preferirei essere niente, rispetto a quello che sono ora. Alla consapevolezza di dove mi trovo, così lontana da dove vorrei essere. Un’amante che non ama, un giullare di corte. E anche per questo mi sento inadeguata. Conosco bene la sensazione, è stata la stessa che ho provato ogni volta che mi sono trovata a ricoprire un ruolo, qualunque esso fosse. Ma ora basta, devo costringermi a tornare alla mia personale e controllata spontaneità. E’ il mio mondo, in cui tu sei entrato spaccando il vetro della finestra, e non ti sei nemmeno tolto le scarpe. Ti guardo, alla fine dei nostri incontri, e cerco di captare qualcosa dai tuoi rari silenzi, cercando di non ascoltare i tuoi sproloqui di circostanza. Scruto i tuoi movimenti, intercetto con attenzione la tra-iettoria dei tuoi sguardi, provo a capire a che cosa pensi. Provo ad ascoltarti per quello che mi stai di-cendo davvero, a dare voce a quella tua involontaria e taciturna sincerità. E, a volte, lo vedo, è come se mi guardassi e dicessi: ebbene? È questo il meglio che sai fare? E mi interrogo incessantemente, chie-dendomi se si tratti solo di quello che serve per bril-lare nel ruolo che per me hai scelto, oppure se (non)

3 La trappola di MarilynIlaria Frascarolo

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parli di qualcosa di più, di quello che mi serve per fare il salto di qualità, per uscire da questa malsana categoria. Mi sento un po’ una Marilyn, intrappola-ta per sempre nel ruolo di oca giuliva, un accosta-mento appioppatole senza che potesse accorgersi di cosa avrebbe comportato. Nella vita privata tutte le nostre doti recitative sono ridotte all’osso. Ciò che entra a far parte di quello che siamo si trasforma automaticamente in qualcosa che non riusciamo a gestire. E’ un’evoluzione e insieme un degenero, è una putrefazione autoindotta delle nostre capacità. Se guardo noi due da lontano, se cambio prospetti-va, provo una gran pena per me stessa. E’ come se fossi sottoposta a una messa alla prova continua, a un tremendo esame al quale non sono mai abba-stanza preparata, perché non si tratta solo di dati oggettivi, ma di non tradire le tue aspettative.È uno stress.Un caos.Non se ne esce.Combatto senza conoscere il mio nemico, cerco di migliorarmi per apparire più conforme a come mi vorresti tu. È diventato un “darti quello che ti man-ca” e “dartelo come nessun’altra potrebbe”.E se non ne fossi in grado? E se non fossi adatta a interpretare questa parte?Finiamola qui, avanti. E non mi guardare così. Non ha più senso, lo riconosci anche tu.No, aspetta ad accenderti la sigaretta, magari ti do un bacio dopo, ma sì, per salutarti.Per dirti addio.Fammi finire.E scordati di sentirmi dire che qui il problema sono io. L’unica mia colpa è stata quella di capire troppo tardi. Capire che non si tratta di essere migliori o più bravi in qualcosa, che non importa se sono più bella, o se lei fa meglio l’amore. Capire che non è dal paragone, né da una lista di pro e di contro che sa-rebbe scaturita la tua scelta. Capire che non avresti ripensato a chi ti assillasse di più, o a chi avesse la pelle più morbida.Non lo avresti fatto.Perché non c’è nessuna gara: c’è solo quello che pen-si tu.Ciò che conta non è mai stato che io fossi migliore di lei, finalmente lo so.Mettermi in relazione a qualcos’altro è un’inutile auto-annientazione. Non porta da nessuna parte. E’ un masochismo senza senso.La decisione nasce dalla semplicità.Tutto sta nel capire quale agglomerato di difetti pre-feriamo, e sceglierlo.

In questo sta l’ovvietà dell’amare, un concetto tal-mente chiaro dal venire costantemente ignorato. Come quel rampicante che siamo sempre stati abi-tuati a vedere, e che non notiamo più, finché non viene reciso.E tu, nella tua indolenza, hai fatto la tua scelta.E io me ne vado. Mi dispiace -

“Drìn!”Gli apro la porta e lo aspetto mentre sale le scale, sporgendomi dal pianerottolo. Mi do una rapida occhiata nello specchio retrostante, e mi gonfio un po’ i capelli (che gli piacciono tanto).Mi vede, entra, mi guarda negli occhi e mi sorride: “Non vedevo l’ora di vederti”. Si avvicina al mio viso e lo raccoglie tra le mani. Sta per baciarmi...

Va be’,glielo dico un’altra volta.

In un’epoca imprecisata l’umanità fu accoltellata da una serie di guerre economiche, che seppel-lirono la terra in una povertà cronica. Il mondo

cadde, come per incantesimo, in un sonno profon-do: ogni uomo seguiva quello che faceva l’altro, sen-za ormai chiedersi più il perché; l’acqua dei fiumi era diventata olio e lubrificava le pianure puntellate di arbusti color fumo, come fossero gli ingranaggi di una macchina. Ma le rondini riuscivano ancora a volare sopra le fronde degli alberi; così, un giorno di primavera, alcuni uomini che non avevano mai smesso di credere nella libertà decisero di trasferirsi sulle nuvole. L’idea partì da un impiegatuccio arric-chito, pelato, con dei lunghi baffi neri stile Hipster: il dottor X. Il suo sogno era quello di fondare una società dove il possesso non esistesse, allo scopo di scongiurare un qualsiasi scontro di carattere eco-nomico. E quale luogo migliore per un’utopia, se non il cielo? Lo seguirono un gruppo di artisti, tra di loro c’ero anch’io. Cos’avevamo in comune? Be’, innanzitutto, eravamo dei sognatori: ovunque cam-minassimo nascevano fiori, riuscivamo a incanta-re i boschi appendendo agli alberi le nostre idee;

4 Gli uccelli di carta Sabrina Amadori

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inoltre, mentre tutti quanti avevano gli occhi sottili e spenti, color dell’asfalto, noi li avevamo grandi, e trasparenti. Il dottor X dettò le regole: ogni settima-na un fattorino si sarebbe calato giù per acquistare i generi alimentari dalla terra, che poi sarebbero stati distribuiti quotidianamente ed equamente tra la gente. Tutto, coi suoi soldi; aveva infatti predi-sposto un grosso capitale per la realizzazione del suo sogno. Mai più l’obbligo di un lavoro, mai più l’obbligo di un guadagno: l’unica regola, insomma, sarebbe stata quella di non possedere nulla per es-sere felici. I figli sarebbero stati figli di tutti, sareb-bero stati leciti solamente i rapporti sessuali, non l’amore, poiché i primi sono libertà, il secondo no: un rapporto stabile avrebbe infatti implicato l’idea di gelosia, e quindi di possesso. Dunque, a maggior ragione, anche i matrimoni sarebbero stati vietati, dal momento che le persone non possono esse-re vincolate da un contratto. Eravamo giovani, ci sembravano delle richieste ragionevoli; la guerra ci aveva tolto tutto, non sapevamo nemmeno più cosa fossero l’amore e l’affetto. Chiunque fosse stato sco-perto avere una storia con un’altra persona, sarebbe stato buttato giù dal cielo; nessuno, infatti, avrebbe dovuto dimostrare che il piano del dottor X si era rivelato un fallimento. L’unica cosa che ci era con-sentita era di portare con noi gli oggetti necessari per coltivare la nostra passione. Così, mentre i cit-tadini dagli occhi grigi ridacchiavano accusandoci di voler solamente costruire un castello in aria, noi caricammo le mongolfiere di sogni, e abbandonam-mo per sempre la terra. Fu meraviglioso raggiunge-re le nuvole: lassù c’era tutto un mondo inesplorato, ricco di prati, corsi d’acqua e cascate. Le stagioni non esistevano a quell’altezza. Il dottor X, con gli occhi grandi e trasparenti come non lo erano mai stati, si sbottonò la camicia e si tolse le scarpe per sentire sotto la pianta dei piedi la freschezza dell’er-ba. Iniziò a farsi chiamare Il Legislatore. Tutti noi seguimmo il suo esempio. Le mongolfiere furono gettate giù, tutte tranne una: quella del fattorino. Avevamo tutto il tempo che volevamo, potevamo dedicarci alle nostre più grandi passioni, ininterrot-tamente. M’ero portata penna e quaderno per scri-vere le mie poesie; ogni cosa m’ispirava: un’ape su un fiore, un albero dalla forma particolare, i colori del tramonto e dell’alba, che da lassù avevano un fa-scino particolare. Quando mi capitava di osservare un formicaio, in tutti quei puntini neri non vedevo altro che tutti noi che collaboravamo per la realiz-zazione della felicità. La vita brulicava ovunque mi girassi; gli uomini e le donne, lì, non avevano avu-

to modo di deturpare il paesaggio. Per settimane lavammo i vestiti sporchi, per poi rindossarli una volta asciutti. Un giorno, però, Il Legislatore ci disse che ci saremmo sentiti ancora più leggeri se ce ne fossimo liberati per sempre; così li gettammo giù dalle nuvole. Immaginate gruppi di artisti disegna-re nudi sui campi, suonare la chitarra e scrivere al bagliore della luna. Erano in molti ad abbandonarsi all’amore carnale. Una sera un giovane, dopo esser stato con una ragazza, colse un fiore per lei. Il Le-gislatore decise di punirlo perché aveva strappato una creatura dalla propria terra. Lo gettò giù dalle nuvole; quello cadde, leggero come un fazzoletto di seta. L’episodio ci riempì di terrore anche perché, da allora, gli occhi del dottor X si velarono di cene-re. Tra tutti, forse, ero la meno sconcertata; in fon-do le regole ci erano state esposte chiaramente, e pure per realizzare la massima libertà, poiché possa sembrare un paradosso, c’è bisogno di qualcuno che mantenga l’ordine. Cambiai idea quando conobbi il ragazzo dai capelli lunghi. Era un pittore; iniziam-mo a trascorrere del tempo insieme, lui dipingeva e io scrivevo. Con la luna così vicina, purtroppo, era più facile innamorarsi. I nostri occhi, da trasparen-ti, iniziarono a prendere vari colori: scoprii un’infi-nità di sfumature prima sconosciute. Lui mi ritrasse sdraiata su una foglia di alocasia. L’acqua pizzicava le rocce e il torrente disegnava una linea azzurra sul nero della notte. Facemmo l’amore, e così la sera dopo, e quella successiva. Andavamo a nasconderci nei luoghi meno frequentati e, con l’aiuto di qualche amico, riuscimmo a mantenere il segreto. Gli oc-chi del dottor X, nel frattempo, divenivano sempre più grigi. Non sgorgavano lacrime dalla corteccia del suo volto quando decideva di buttare giù dalle nuvole due innamorati, o una madre che non vole-va trattare suo figlio come un bambino qualunque. La situazione, ora che l’aria aveva pizzicato le corde dei nostri cuori, era diventata insopportabile. Fon-dammo un gruppo, gli Uccelli di Carta. Ci riuni-vamo ogni giorno, in orari diversi, nei posti meno frequentati, e discutevamo su cosa fare. Eravamo dei sognatori, dei ragazzi giovani e innamorati, con degli ideali, e abbastanza intelligenti da capire che liberarsi del dottor X non avrebbe risolto il proble-ma. Ci sarebbe stato qualcun altro, forse persino tra di noi, che prima o poi avrebbe preso il suo posto. Preferimmo conservare di noi quell’immagine pura che avevamo, quella stima profonda che nutrivamo nella nostra arte e nei nostri pensieri. Gli Uccelli di Carta decisero dunque di spiccare il volo. Nessuno sarebbe stato laggiù pronto a prenderci, a salvarci;

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nessuno di noi, forse, sarebbe sopravvissuto. Ma andava bene così; avremmo potuto rubare la mon-golfiera del fattorino, ma questo non avrebbe risol-to il problema. Tornare a vivere sulla terra, infatti, era fuori discussione: nemmeno lì ci sarebbe stato più posto per noi. Non era colpa del dottor X, ma del sistema. E quella macchina, con tutti i suoi in-granaggi, ce l’eravamo portata dietro. Almeno, sbat-tendo le ali, forse avremmo soffiato una ventata così forte da segnare l’inizio di una nuova stagione. An-dammo dal Legislatore con gli occhi pieni di colori e i capelli folti e forti. Ci abbracciammo l’un l’altro, ci baciammo le labbra morbide e bagnate. Strinsi forte al petto il ragazzo dai capelli lunghi e, dato il

segnale, ci buttammo giù tutti assieme. Eravamo degli angeli, capaci di lanciarci nel vento e di lascia-re la pelle nel sangue, con la sola speranza che le nostre idee potessero ricucirla con un filo d’argento. Finimmo in mare, e le nostre ali di carta si sciol-sero a contatto con l’acqua. Credo che il dottor X sia ancora lì, in un qualsiasi angolo di cielo, seduto di fronte agli ingranaggi che continuano a girare; i suoi occhi, ormai, avranno assorbito il grigio di ogni singolo pezzo, di ogni bullone. Non so se le stagioni, lassù, effettivamente abbiano iniziato ad alternarsi, ma sono certa che, ogni volta che soffia il vento, dalla corteccia dura del Legislatore scenda lenta una lacrima.

Cara Santa Lucia,Quest’anno penso di essermi comportato bene: ho superato tutti gli esami universitari, ho parteci-pato alla Santa Messa tutte le domeniche e in tutti i bar in cui ho consumato ho chiesto lo scontrino

fiscale. Quindi ti chiedo se per favore riusciresti a regalare a mia sorella ed al suo fidanzato, entrambi lau-reati con il massimo dei voti, un posto di lavoro fisso così che possano esaudire il loro sogno nel cassetto: comprare una casetta tutta loro e poi sposarsi. Perché oggi le banche non danno nemmeno un Euro ad una coppia di ventisettenni come loro che ogni sei mesi rischiano di non avere più un lavoro e nessuna certezza o fiducia in un futuro che solo li angoscia e non permette loro di coronare l’amore che da nove anni li unisce ma che la crisi divide.Inoltre ti chiedo se riusciresti ad aumentare un po’ la pensione di Marcello, il mio vicino di casa, che dopo una vita di sacrifici e rinunce non può godersi serenamente il meritato riposo. Nonostante abbia lavorato mezzo secolo, costretto anche ad emigrare in Svizzera perché le valli bergamasche non offrivano molte possibilità, oggi non può permettersi un posto nella Casa di Riposo comunale e per potersi pagare una ba-dante che lo aiuti nelle faccende domestiche e gli faccia un po’ compagnia è stato costretto a vendere quel fazzoletto di orto e quel piccolo pollaio che rappresentavano la sua unica passione e l’unico passatempo che riempiva le sue giornate dando loro un senso. E poi ti chiedo se cortesemente riusciresti a far sì che Andrea, il papà del mio amico Omar, riceva tutti i pagamenti per i lavori che ha fatto negli ultimi anni. Perché in questi anni di crisi, lui, un piccolo artigiano, ha continuato a lavorare, ma sempre più sono stati coloro che per furbizia o per sciacallaggio non hanno saldato i loro debiti; così, per mantenere in ordine i conti della famiglia, è stato costretto a ritirare Omar dall’Università, stroncando i suoi sogni e la moglie tutte le mattine deve andare a fare le pulizie negli uffici di un’impresa edile. Ormai in famiglia lavorano in tre su cinque ma per arrivare a fine mese devono fare i miracoli.Infine se proprio ti senti generosa ti chiedo che l’Atalanta vada in Europa e che io trovi una ragazza alta, magra, bionda, occhi azzurri, pelle morbida, con curve ben definite, e se possibile, anche intelligente e sim-patica.Ah dato che tu sei in cielo salutami il nonno e la nonna e di’ loro che li penso sempre e che mi mancano tanto tanto!!

Un bacione Un Folle Sognatore

5 Cara Santa Lucia Luca Mariani

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VACANZA. Tra ore di lezione ed esami da preparare, finalmente arrivano le tanto bramate vacanze di Natale. Studenti tediati, tra enormi libri mai aperti e dispense ancora da fotocopiare, si preparano a racimolare i pochi risparmi sfuggiti alle case editrici per comprare i classici regali dell’ultimo minuto. Tuttavia, tra ore di sonno da recuperare e poltrone che devono riprendere la forma del nostro sedere, stormi di universitari si preparano a buttare via la propria vita guardando l’ennesima serie TV. Connessioni da anni Novanta spremute per vedere gli ultimi episodi di Breaking Bad e Game of Trones, telecomandi consumati per fare zapping tra How I met your mother (eh, quella, certo!) e Master of Sex, passando per l’intramontabile Criminal Minds e la neopromossa Forever. Tuttavia, per chi non è mai sazio di serie TV o è stufo di guardarsi per l’ennesima volta Una poltrona per due e Mamma ho perso l’aereo, Inchiostro propone 5 serie TV tutte da gustare.

BABBO NATALE CI PORTA 5 SERIE TVdi Ignazio Borgonovo & Niki Figus

TRUE DETECTIVE. Louisiana. 1995, uno stra-no caso di omicidio e un serial killer in azione. 2012, data di riapertura del caso e possibile com-plotto interno. Rustin “Rust” Cohle (magistral-mente interpretato da Matthew McConaughey) e Martin “Marty” Hart (Woody Harrelson), col-

HOUSE OF CARDS. Oggi. Washington DC. Qui si svolgono le vicende di Frank Underwood -po-litico machiavellico interpretato dal premio Oscar Kevin Spacey- che, dopo la mancata nomina a Se-gretario di Stato, mette in atto la sua vendetta così

da raggiungere i vertici del potere. Perché guardarla? Non abbiamo solo una delle migliori prove recitative di K.S., ma anche una trama mai scontata e un cast all’altezza del premio Oscar. Vi sfido a trovare un at-tore che non sia perfetto per il ruolo assegnatogli!

leghi dall’opposto carattere e dalle vite inaspettata-mente molto simili, sono chiamati a indagare. Il tutto sapientemente ideato e sceneggiato da Nic Pizzolat-to, che riesce ad alternare con maestria momenti di filosofia a crudo realismo. True Detective è un raggio di sole nella grigia banalità delle crime/drama series.

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DOCTOR WHO. Prendete la fantascienza per come era vista negli anni ‘60 -così materiale, così meccanica, così terrestre- e immaginate di attualiz-zarla. Tecnologie odierne vengono veicolate con l’immaginario fantascientifico di mezzo secolo fa: già solo questo rende il serial unico. Aggiunge-

THE WALKING DEAD. Avete presente un classi-co survival zombie, tra cervelli da far esplodere e futili tentativi di restare in vita? Bene. The Walking Dead non è questo, ma decisamente molto di più! Azione frenetica, colpi di fucile indirizzati a non-morti e colpi di testa dei sopravvissuti si interval-lano a una psicologia tutt’altro che banale e rara-mente vista in passato sul piccolo schermo. Ogni

THE MENTEALIST. Zugzwang è un termine scacchistico che indica il momento nel quale uno dei giocatori, indipendentemente dalla sua prossi-ma mossa, subirà uno scacco matto. Patrick Jane ha giocato una partita a scacchi lunga una vita contro la sua nemesi: John “il Rosso”. Ma ora una nuova

azione porta a una reazione, ogni dialogo aggiun-ge qualcosa di nuovo all’indecifrabile mosaico di un’esistenza irrimediabilmente compromessa, con nuovi valori e nuove implicazioni etiche trattate con notevole profondità. Una prospettiva differen-te e rivoluzionaria, in grado di cogliere in maniera unica la fragilità umana. “Dio è morto”e gli uomini devono scegliere se essere vittime o carnefici.

te ora un protagonista sempre cangiante, mai per troppo tempo interpretato dallo stesso attore. Tutti i “Dottori” hanno saputo essere tali, ma anche do-nare qualcosa al personaggio e arricchirlo. Doctor Who è LA serie TV, e perdersela non è un’opzione!

realtà aspetta Patrick e Teresa Lisbon, la sua inse-parabile compagna. Riusciranno i due a convive-re con loro stessi? E con l’FBI? O il mentalista ha intenzione di estrarre dal cilindro l’ennesimo dei suoi numerosi “trucchetti”? Stay tuned, c’è magia sia per “babbani”che affezionati.

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Rimpiangere di non essere ancora al 10 novem-bre invece che alzarsi festanti ogni mattina per aprire la casellina del calendario dell’avvento, sperare di trovare sotto l’albero un aggeggio per fermare il tempo e allontanare più possibile gli imminenti appelli della sessione invernale invece che godersi le lucine per le strade e le vetrine dei negozi addobbate con la neve. Questo è il bello del dicembre universitario. Ma tra un libro e un caffè una pausetta ogni tanto è d’obbligo e quale modo più produttivo di sva-gare la mente se non arrovellarsi su un grande e controverso dilemma “teologico”?Più o meno tutti sanno che le tradizioni riguardo alla figura di Babbo Natale sono molteplici e diverse nelle varie parti del mondo. Ma sono dovuta approdare dalla Liguria alla Grande Mela (Pavia) per scoprire che anche nella ter-ra del sì non tutti “spacchetta-no” i doni di Babbo Natale, o meglio non solo. C’è una nu-trita schiera di furbacchioni che invece di aspettare il ca-nonico 25 dicembre anticipa tutto di una decina di giorni e riceve i regali già il 13 a Santa Lucia. Cerchiamo di delineare la contesa in maniera scientifica. In alcune regioni italiane come il Trenti-no, il Friuli, la Lombardia, l’Emilia e il Veneto chi ritira le letterine è Santa Lucia e nella notte tra il 12 e il 13 dicembre la tradizione vuole che la Santa entri nelle case dei bambini buoni e por-ti regali e dolciumi. Sia i fans della slitta con le renne per i quali Santa Lucia era solo legata al detto “Santa Lucia il giorno più corto che ci sia”che i loro colleghi stanno attenti a preparare

tutto ad hoc in modo da accogliere la visita nel mi-gliore dei modi: latte e biscotti per ristorare Babbo Natale; arance, caffè, mezzo bicchiere di vino rosso e del fieno per l’asinello che trasporta i doni. Il mo-nito ad andare a dormire presto ricorre in entrambe le tradizioni, ma le donne, si sa, sono sempre un po’ più vendicative, quindi se qualcuno è sorpreso ancora in piedi dopo l’”ora x” deve stare attento perché la Santa potrebbe arrabbiarsi e è famosa per “punire” gettando la cenere negli occhi.L’unico inconveniente, ma forse tendo ad amplificar-lo perché sono un po’ di parte, è che dopo aver aper-to i doni di Santa Lucia, niente e nessuno ci esonera dall’andare dritti dritti a scuola come tutti gli altri

normalissimi giorni dell’anno, invece che stare a crogiolarsi tra regali scartati e

caramelle. Così come quella di San Nicola

da Bari (Santa Claus) pare che la tradizione di Santa Lucia risalga a Gregorio Magno, il quale invitò i missionari come San Patrizio, che erano soliti cristianizzare le festi-vità celtiche, a non estirpare

tradizioni millenarie, ma a de-viarle in pratiche più virtuose.

Alla fin fine perché questa tradi-zione si sia diffusa solo in alcune

zone del nord Italia e non altrove pur-troppo non è chiaro nemmeno consultando

tutti i forum “al femminile” e i vari surrogati di Yahoo Answers.Qualcuno (spero) avrà pensato che si tratti di una que-stione abbastanza oziosa. Ma da piccola, se ci fosse stata la possibilità di unire le tradizioni e ricevere i regali sia da Santa Lucia sia da Babbo Natale, io avrei voluto saperlo.

Una slitta per dueBabbo Lucia o Santa Natale, ad ognuno la tradizione che preferisce

di Giorgia Ghersi

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Una slitta per dueBabbo Lucia o Santa Natale, ad ognuno la tradizione che preferisce

di Giorgia Ghersi

Quando si arriva alla conclusio-ne di un anno, per bello o brutto che sia stato, viene naturale tira-re le somme. E se c’è tempo per ripensare alla devastante vacan-za estiva o a quel cavolo di esame che ci ha distrutto l’esistenza e privati della gioia di vivere... per-chè non riflettere anche su tutte le cavolate che ci hanno tenuti incollati al divano salvandoci da una sana e costruttiva vita piena di sport, passeggiate e cibo ipo-calorico?Parliamo di programmi televisivi quindi, i più privi di trama e ra-gione di esistere che, è inutile na-scondersi, tutti almeno una volta (o anche tutti i giorni) abbiamo guardato e preferito agli affasci-nantissimi Philippe Daverio e Alberto Angela.Vorrei partire da un canale nato da poco tempo e da subito diventato il preferito di tutti gli individui di sesso maschi-le: Dmax, una vera e propria mi-niera di cacciatori, uomini adde-strati a sopravvivere in condizioni estreme, venditori e compratori. Ed è proprio a quest’ultima cate-goria che appartiene Il banco dei pugni, girato dentro la American Jewelry and Loan di Detroit, ar-rivato ormai all’ottava stagione. Chi non conosce la famiglia Gold,

famosa per le teatrali litigate di Seth e Ashley e soprattutto per le ridicole quanto disoneste offerte ai clienti? Che stiano portando la tazza del WC di casa o una mano di Abramo Lincoln poco impor-ta, in ogni caso sappiate che LES CI STA RIMETTENDO. Per par condicio è necessario citare un altro canale, un bel po’ diverso dal precedente perché completa-mente tinto di rosa, il regno del-le casalinghe e delle regine dello “zapping in cerca di qualcosa di meglio”: Real Time. I program-mi da citare sarebbero svariati, inutile negarlo, ma ritengo che il primo posto vada alla centocin-quantamilionesima edizione di Ma come ti vesti?!, condotto da Enzo Miccio e Carla Gozzi. Tutti sappiamo fin troppo bene di cosa si tratta: i due guru italiani della moda si sono assunti l’oneroso compito di salvare dalla malattia del cattivo gusto mamme lavora-trici e donne in crisi di mezz’età o in crisi e basta, che hanno abban-donato tacchi a spillo e minigonne per tute e pantofole. Neanche gli uomini sono salvi dalla loro furia che, bisogna ammetterlo, porta sempre a risultati che soddisfano tutti i partecipanti, festeggiati dal conclusivo “bollicine!” dei due

conduttori. È giusto non dimenti-carsi poi delle reti nazionali, che regalano sempre grandi emozioni. Si è concluso da poco Tu si que vales in onda il sabato sera su Ca-nale 5, condotto dalla farfallina di Belen Rodriguez e dal post-ittaro Francesco Sole. I Giudici Maria De Filippi, Gerry Scotti e Rudy Zerbi avevano il difficile compito di giudicare come talento o meno chi gli si esibiva davanti, aiutati in parte da un quarto giudice diverso per ogni sera, portavoce del pare-re del pubblico. Idea carina, già vista in Italia’s got Talent (an-che se in realtà ce n’è uno prati-camente per ogni nazione), che fa emergere molti ragazzi e ragazze capaci, ma che come sempre per spettacoli di questo genere ha l’i-nevitabile svantaggio di mettere in ridicolo persone che non si ren-dono conto dei propri limiti, o non hanno nessuno che possa metterli in evidenza. Insomma, ne abbia-mo avuti per tutti i gusti e per tut-te le esigenze, ed è inevitabile che ora lascino un vuoto incolmabile dentro di noi e soprattutto sui no-stri divani. Ma si sa, le vacanze finiscono presto, la befana arriva subito e con lei l’anno nuovo... e chissà quali meravigliose chicche ha in serbo per noi!

E STASERA COSA

GUARDO?Per non rimpiazzare

con panettone e regali i compagni di un anno

di Elisa Enrile

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NATALE. Santo o profano, è da sempre uno dei momen-ti più gioiosi e felici di tutto l’anno. Attraversare le stra-de con un leggiadro sorriso, ricambiato da persone felici, che si muovono nell’armonia cosmica della gioia natalizia, tra la candida neve e luci di mille colori che adornano la città. I bambini guarda-no fiduciosi sotto l’albero, aspettando e pregustando di scartare i regali che il vec-chio e giocondo San Nicola gli porterà, sapendo che le birichinate fatte durante l’an-no saranno perdonate da un mondo più buono e giusto.

LA FAMIGLIA si riunisce a tavola, pranzo e cena, per scambiarsi affetto e regali. Ri-sate adornano le tovaglie na-talizie e i porta-candele dorati della nonna, mentre tra brindi-si e abiti di gala la magia del Natale avvolge tutta la casa. Tutti tranne uno: lui, il solito, quello stano, la pecora nera della famiglia. UN PUNK-ROCKER. Già, lui non ama il Natale, anzi, lo detesta. Consumismo, ipocri-sia, fiducia nel futuro e osti-nato ottimismo: l’intera socie-tà si dedica all’autoerotismo finalizzato all’appagamento dell’io. Ma nulla è perduto; esiste un solo modo per con-vincere un punk a cedere ad

un jingle natalizio, quello che segue: i cinque regali da fare a un punk per convincerlo (co-stringerlo) a festeggiare il na-tale.

- JINGLE NATALIZIO. È ormai appurato che i “clas-siconi” provocano molte più conversioni di una lettura di Bibbia; dunque, per convin-cere un punk-rocker, accen-dete lo stereo e assaporate la voce di Joey Ramone che canta “Merry Christmas, I don’t want to fight tonight”. Oppure, se nemmeno l’ultimo album di Dee Dee smuove il vostro disadattato, ripiegate su “Oi to the world”, album dei The Vandals. I classici “A gun for Christmas” e “My first Christmas (as a woman)” ral-legreranno le vostre feste con il racconto di un miracolo natali-zio avvenuto durante una clas-sica rissa tra punk e skinhead. Ah, la magia delle feste...- IL FILMONE. Non c’è fe-stività che si rispetti senza un relativo film al seguito. “SLC Punk!” fa al caso vostro: un gruppo di ribelli alla ricerca di se stessi e del loro annulla-mento nella religiosissima Salt Lake City. La colonna sonora “Sex and violence” dei The Exploited vi introdurrà nel magico mondo dell’anarchia, tra scazzottate, ironia e un fi-nale che...

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- LA LETTERINA. Un punk-rocker certificato non scrive la lettera a Babbo Natale perché, dopotutto, “non sa cosa vuole, ma sa come ottenerlo”, parola di Sex Pistols. Tuttavia, non rinuncia a scrivere una lista, in particolare, quella cantata dalle fantastiche L7: “Shitlist”. Ispirandosi alla traccia dell’al-bum “Bricks are heavy”, il vo-stro reietto non chiederà nulla a Santa Claus, ma si limiterà a scrivere cosa pensa di lui e del Natale, insultandolo. È dunque consigliabile, se vivete con questi ribelli, comprarvi una stufa, perché si prevede in arri-vo solamente del carbone.

- RACCONTO DELLA VI-GILIA. Siccome leggere è troppo mainstream, il punk, che pur ama i racconti, si de-dica alle narrazioni in musica. Ecco, dunque, qualcosa che fa per voi: “The priest they called him”, testo di William Burrou-ghs e musica di Kurt Cobain. La storia di un tossicomane il giorno della vigilia, diretta-mente dalla penna dell’uomo che, nel tentativo di emulare Guglielmo Tell, sparò in te-sta a sua moglie. Una voce penetrante, accompagnata da un’improvvisazione che ini-

zia sulla falsa nota di “Silent night” e che finisce in un gioco di feedback e distorsione: “Mi sono solo masturbato per una mezz’ora”, parola di Kurt.

- IL SENSO DELLA VITA. Il Natale ci porta sempre ad alcune riflessioni, su quanto è o potrebbe essere differen-te il mondo, la nostra vita, le persone, etc. Persino un punk-rocker, anche se di nascosto, ci pensa; è quindi d’obbligo regalare una qualsiasi opera-re dei The Germs di Darby Crash. Quest’ultimo, infatti, volendo restare per sempre fa-moso, il 7 dicembre 1980, si procurò un’overdose di eroina e morì, in modo tale che tutti avrebbero parlato di lui (e del punk); tuttavia, il giorni dopo, Mark David Chapman sparò e uccise John Lennon. Già, life is crap and marry punk-rock Christmas!

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Buone Feste

dalla redazionediInchiostro