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in collaborazione con la Biblioteca di Limena presenta Campiello stregato 2013 remake a modo nostro della finale 2013 del famoso Premio Letterario a cura di Alessia - Antonella L. - Antonella Z. - Beatrice - Carla - Cristina - Daniela B. - Daniele - Enrico V. - Graziano - Marisa - Valeria venerdì 18 ottobre 2013 alle 20.45 in Biblioteca

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in collaborazione con la Biblioteca di Limena presenta

Campiello stregato 2013 remake a modo nostro della finale 2013 del famoso Premio Letterario

a cura di Alessia - Antonella L. - Antonella Z. - Beatrice - Carla - Cristina

- Daniela B. - Daniele - Enrico V. - Graziano - Marisa - Valeria

venerdì 18 ottobre 2013 alle 20.45 in Biblioteca

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Cate, io

di Matteo Cellini

presentazione di Carla De Angelis

letture di Antonella Lorenzato

Matteo Cellini è nato a Urbino nel 1978, vive a Urbania e insegna lettere

in una scuola media. Nel 2013 vince il Premio Campiello - Opera Prima

con il romanzo intitolato : “Cate, io”.

Già dal titolo questo libro è ostico: “cate virgola io”… ma come si legge? Cosa vuol dire?

Provo ad aprirlo:

“Mi chiamo Caterina mentre mio fratello attorciglia elastici alle cose nell’altra camera e mia madre

chiama”

Questa frase ha nei miei pensieri l’effetto di una tagliola: mi introduce in un universo personale

con un taglio netto rispetto al resto del mondo…

Andiamo bene! Apro il libro e scivolo nei pensieri categorici di una diciassettenne.

Frasi veloci, piene di immagini e rimandi, ironiche e divertenti. Un flusso continuo che

dall’affermazione di sé del titolo, mi immette nel valanga delle riflessioni di questa ragazza

brillante, alle prese con le sue ossessioni e inevitabilmente concentrata a guardare il suo ombelico

per prevenire gli attacchi e, sicuramente, i dolori, perché… perché quando esce di casa Caterina

non è più Caterina, ma è Cater-pillar, Cate è ciccia, Cate è bomba: lei per prima usa questi termini,

così non ci starà male quando gli altri rideranno di lei e del suo “sovrappeso”

“Cammino e ho il mio costume indosso: un panneggiato, indolente, fluttuante manto di grasso.

Sono una supereroina e risolvo i problemi. Salvo il mondo.

Sono la possibilità ambulante di un paragone che salva; che toglie dalle mani la palma della

più brutta, della più grassa, della più sola. Sono Cate-bomba, un residuo bellico inesploso dai tempi

delle medie”

Caterina è una ragazza di 17, quasi 18 anni molto intelligente, pungente, autoironica e queste doti

le usa per affrontare il mondo con la sua diversità.

Siamo gli eroi della dismisura, perché avere chili di troppo è questione di quantità. Per fare me

hanno impiegato più pongo che per fare te. Per questo motivo io corro più piano, mi stanco più

facilmente. Però siamo uguali.

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Al mercato, mi si vendesse a peso, costerei di più, tu meno, ma saremmo entrambi sogliole, totani

o capponi.

Invece tu sei una ragazza e io no.

Invece tu sei un bambino e Oscar no.

Noi siamo obesi. E l’obesità non è semplicemente una categoria tra tante, non è un criterio per

classificare le persone. Ma per dividere le persone dalle non-persone.

Ma noi sappiamo che spesso l’autodifesa porta all’isolamento, e la paura del dolore allontana da

coloro con cui vorremmo condividere qualcosa. D’altra parte Caterina sta attraversando l’età

critica delle superiori:

La scuola superiore è il mondo. … Cresci e non permetti più che siano i genitori a decidere di te; ad

altri, agli AMICI hai dato questo potere.

Da adesso in poi saranno la misura della tua felicità.

La scuola, il punto di ritrovo, i giardinetti diventano importanti come palcoscenici.

Eppure Caterina non è sola: ha intorno a sé persone che l’ammirano, le vogliono bene, ma non le

vede!

Come la sua compagna di banco, ad esempio:

Anna l’Annoievole mi gira intorno come un satellite. …

Anna deve avere un raccoglitore di buone azioni, dove aggiunge un bollino ogni volta che prova a

farmi uscire, a coinvolgermi… Anna non sa nulla del modo in cui vedo il mondo, di tutte le mie

costruzioni e decostruzioni, dei punti dove si concentra la disperazione, come preme forte.

Lei si affaccia dalla sua normalità, guarda disotto e tende una mano. Ma pesa la metà di me ed è

una persona: io con le persone ho pochissimo in comune, troppo poco per diventare amici o anche

per innamorarmi.

Non possiamo frequentarci

Un altro personaggio curioso è la magrissima nonna, che fin da piccola ha cercato di farle risolvere

il problema di “trovare se stessa” con diete e chissà che altro, ora ci prova con i libri:

Inaspettatamente pensò ai libri; ai libri come pastiglie rettangolari e colorate, con una confusa idea

di quello che potessero contenere: poesie, romanzi, disegni, saggi.

Era convinta che una tra le migliaia di pagine della biblioteca di Urbania parlasse di me: che

dovesse per forza parlare di me: salvandomi. Che mi permettesse di capire.

Anche se c’è poco da capire. Ho addosso chili e chili di ciccia che non se ne vogliono andare, che

non sono capace di togliermi di dosso. Nonna immagina pensieri aggrovigliati e inestricabili: la

letteratura sarebbe una specie di idraulico liquido per spazzarli via.

… Lei molto ingenuamente crede che la letteratura sia la chiave della mia salvezza. Che io sia una

serratura difficilissima e la letteratura una chiave passepartout.

Questo tentativo della nonna ha un effetto meraviglioso, perché avvicina Caterina alla

professoressa di lettere, che lei adora, ammira, e che effettivamente riuscirà ad aprire quella

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serratura, a farle scoprire con le sue DEBOLEZZE (cioè: quelle della prof!) cosa veramente sia

l’affetto, l’amicizia. Quell’amicizia che si basa non sulla pretesa di ricevere attenzioni e scambi in

quanto Dovuti, ma sullo scambio costruito e condiviso. Riesce ad iniettare il seme del dubbio sulle

certezze dei sentimenti feriti, l’unico in grado di far fiorire nuovi sguardi:

Oppure non c’è nessun prima e nessun dopo, lei è sempre stata così, e io non me ne sono mai

accorta.

Grazie a questa esperienza di “amare nonostante tutto” Caterina capisce l’estensione del suo

egoismo, la trappola delle sue autodifese, del concentrarsi su sé stessi per prevenire dolori

maggiori, comprende cosa significa “tenersi per mano”:

Non è così facile.

Ci vuole Anna per riuscirci.

E Caterina, questa Caterina, per accorgersene.

Quello che rende meritevole questo romanzo è la maturazione scritta in prima persona.

Non abbiamo a che fare con un diario che involve nelle elucubrazioni di una 18enne. Si tratta di un

racconto che si svolge nell’arco temporale di circa due mesi, con fatti concreti che si susseguono

nei giorni intensi che precedono il compleanno di Caterina (la fatidica festa dei 18 anni) e

l’evoluzione fino alle feste natalizie e all’arrivo della neve.

Sebbene i fatti vengano raccontati da un punto di vista univoco e ben preciso, quello di una

ragazzona di quasi 18 anni, il romanzo arriva a concludersi con un campo visivo che si apre a

più occhi e più persone.

Vengono messi in scena sentimenti e situazioni, senza cadere nella retorica dell’amore di coppia

adolescenziale che salva tutto, e senza la presunzione di aver sconfitto in un solo colpo tutti i

fantasmi delle paure che attanagliano, ma con l’umiltà di aver semplicemente trovato la voglia di

camminare guardandosi attorno, nonostante i nostri limiti, nonostante le nostre presunzioni di

capire, nonostante i preconcetti e i pregiudizi che ci rendono vittime, ma che ci possono anche

rendere i carnefici di noi stessi.

Davanti, ho una silenziosa distesa di carta.

Cammino.

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Geologia di un padre

di Valerio Magrelli

presentazione di Marisa Fracon

letture di Enrico Vecchiatti

L'autore di questo libro, Valerio Magrelli - classe 1957 - è docente di letteratura francese

all'Università di Cassino, più conosciuto come poeta con raccolte che compaiono fin dal 1980 che

non come prosatore.

“Ebbene... per molti anni ho cercato inutilmente di scrivere testi in prosa, ma mi sono trovato

sempre a fallire. Avevo preso atto, insomma, del fatto che la narrativa non faceva per me”

Che cosa la bloccava?

“Può far sorridere, ma la mia difficoltà era legata ai nomi dei personaggi. Mi sembravano finti,

poco credibili”.

Poi cos'è cambiato?

“Trascorsi dodici anni dal mio primo libro di poesia, un amico carissimo, Gianni Celati, mi ha

chiamato un giorno per propormi di scrivere un racconto... ho tentato di spiegargli che la narrativa

non faceva per me. Alla fine, non potendo dire di no, sono riuscito a trovare la formula giusta”.

E qual era?

“Ho scritto un racconto che era una sorta di saggismo autobiografico condito con aneddoti, storie,

narrazioni minime. Così, parlando di me, sono riuscito a aggirare l'ostacolo dei nomi, che in pratica

non c'erano... In qualche modo ho trovato la strada giusta tanto da scrivere e pubblicare tre libri in

prosa: Condominio di carne, La vice vita, Addio al calcio ed infine quest'ultimo Geologia di un

padre con cui concorro in questo importante remake qui a Limena...”

Geologia di un padre. In qualche modo questo quarto libro in prosa chiude un percorso aperto

dagli altri tre.

Sì. Adesso sono consapevole di aver scritto un unico libro, anche se diviso in quattro. Il secondo e il

terzo li ho scritti di slancio... Il primo e quest'ultimo, invece, hanno richiesto almeno dieci anni di

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lavoro l'uno. Confesso che in “Geologia del padre” mi sono rifatto ad un grande narratore del '900:

a Sebald che inframmezzava al testo fotografie, disegni. Ma al suo confronto sarei stato solo un

modesto imitatore. Per evitare questo, ho pensato ad una Prefazione muta che raccoglie alcuni

disegni di mio padre. E che conserva il titolo originale pensato per il libro.

Il titolo originale era L'uomo di Pofi. Quale il significato...

L'uomo di Pofi è un riferimento a resti umani emersi dal sottosuolo nel comune di Pofi, in Ciociaria.

Il luogo di nascita di mio padre. Questo titolo, che compare solo nella Prefazione, si riferisce al

lavoro di “scavo” che ho dovuto compiere per dare “sostanza” a quei frammenti di memoria che

messi assieme fanno un inventario di ricordi e che ricostituiscono alcuni momenti della vita di mio

padre.

Il libro può essere definito un Poemetto in prosa in 83 capitoli di varia lunghezza - 83 come gli anni

vissuti dal padre - con cui l'autore recupera ricordi privati e storia patria. Ricostruisce così una

speciale biografia del padre Giacinto attraverso un sistema di scavo, di carotaggio di faglie di ricordi

sovrapposti, mettendo insieme brandelli di memorie, schegge di esperienze vissute, riflessioni,

senza una precisa scansione temporale.

Cap. 53 “Il mucchio di foglietti sparsi dove avevo trascritto i miei appunti per quasi dieci anni dopo

la morte di mio padre, sembrava una cesta piena di pulcini: che pigolio saliva da quel paniere, in cui

avevo raccolto e conservato tanti foglietti! Sapevo che ogni voce era una gola che domandava cibo.

Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un'infinita matassa di storie.”

Quale la motivazione all'assemblaggio di questi foglietti in una forma di micro romanzi, di racconti,

di apologhi ...

Cap.29 “Desiderio di rievocarlo: perché? Forse perché mi manca. È come se soffrissi per la mia

morte. Infatti, ai suoi occhi, il morto sono io. Io l'ho perso, nella stessa maniera in cui lui ha perso

me. (…) Parlando di lui, passo dalla sua parte, gli giro dietro, gli vedo le carte, mi vedo al di là del

tavolo da gioco, e scopro che per il suo sguardo io non esisto più. Morendo, lui ha perso suo figlio.

Un nodo talmente complesso da non capire più a quale dei due capi ora mi trovi.”

Che ritratto di padre emerge? Ne emerge un uomo con tutte le sue contraddizioni, come tutti noi

d'altronde. Un padre esasperato ed esasperante, sorridente e ombroso, battagliero e mite. La

natura umana, se non è mistificata, è essenzialmente tragicomica e con questi tratti di autentica

verità Valerio Magrelli ce la porge. Ascoltiamo alcune righe, esilaranti e tenere al contempo, sul

carattere iroso del padre.

“Non so da dove venga quel senso di pienezza che nasce rispondendo a un'aggressione. Deve avere

a che fare con le endorfine, una reazione chimica elementare, tribale, testicolare. (…)

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Un pasticcere incarta dei cornetti alla panna con le mani insozzate dai soldi, dal lerciume. Lui paga

il conto e poi, come niente fosse, inizia a scaraventarli via, uno dopo l'altro, contro la parete del

negozio. Schizzi, urla, esplosione dei lieviti-proiettili.(...)

Visita alla Basilica di San Pietro. Due immensi portoni, uno per entrare, uno per uscire. Tutti in fila,

da bravi, tranne un gigantesco tedesco pelato. Sprezzante, fende la folla contromano, e pretende di

uscire dal portone d'entrata. Nessuno si ribella, tranne lui, ovviamente. Vedo mio padre sporgersi

dalla calca, allungarsi a fatica, alzarsi sulle punte, e colpire con metodo il cranio luccicante

dell'insubordinato. Il quale non reagì in alcun modo, e finì per trovare la via d'uscita facendo finta

di niente.(...)

Un folle, mi dicevano gli amici stupefatti. (…) Un posseduto, una specie di medium incontrollabile,

pronto a cadere preda del dio Furore…

Le pagine, che possono sembrare a volte caricaturali, si rivelano invece piene di tenerezza e

comprensione e non si può immaginare una doppia biografia migliore, doppia perché, attraverso il

ricordo del padre l'autore parla di sé, scopre come - padre e figlio - appartengano alla medesima

materia. Alla medesima narrazione. E infatti...:

Cap.23 ”...io sono legato a mio padre da un'ombra, dall'ombra che lo ha sempre incalzato. Una

parte dell'ombra mi ha segnato, mi ha intaccato. Non così a fondo come lui, ma di striscio,

lasciandomi a metà strada rispetto al suo buio ipocondrio. Così mi riconosco - quasi salvo - ma

ancora marchiato dall'incontro col male domenicale, con la Noia Bubbonica.”

Magrelli appartiene a quella categoria di artisti-sismografi che attraverso la loro storia, e persino

attraverso le loro idiosincrasie, riescono a cogliere i terremoti, gli spostamenti della coscienza

contemporanea.

Pur aprendosi il testo con una citazione da Freud “Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse

da vivo”, a lettura conclusa il richiamo all'inventore della psicoanalisi sembra indicare che - in

questo viaggio attorno alla figura del padre - Magrelli si sia mosso verso altre verità, scansando, in

parte, i dogmi psicoanalitici.

Eppure il secolo XX è stato il secolo della rivolta contro i padri: ma niente di tutto ciò trapela in

queste pagine. Nessun complesso edipico, nessun riferimento ad altri miti greci di contenuto

affine.

Piuttosto Magrelli descrive, nella relazione col padre, una condizione perennemente asimmetrica,

ma priva di qualsiasi punto di equilibrio stabile e definitivo. I rapporti evolvono nel tempo e si

capovolgono. Se all'inizio è il padre che accudisce il figlio bambino, sarà poi il figlio che accudirà il

padre anziano.

E le pagine che riguardano il padre anziano e malato, sono pagine di grande intensità emotiva.

Cap.18 ”...Era già anziano quando una notte fu colto da una febbre altissima: arrivai che era in

trance, sorridente, pacato e insieme perfettamente lontano. Dove era finito? (…) Quella distanza

diventò malattia, invadendo lentamente la sua vita nel giro di pochi mesi. Di lì a poco cominciarono

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i preparativi per un'altra spedizione: mio padre si accingeva ad entrare nelle Terre di Parkinson.(...)

Ha continuato a galleggiare a lungo, come in assenza di gravità, nella stratosfera della sua

malattia, isolato nel nulla, definitivamente sganciato da sé e dal linguaggio.”

Il linguaggio di Magrelli in questo libro risente dell'esperienza poetica del suo autore: è un

linguaggio asciutto, nervoso, concentrato, a tratti metaforico. Un linguaggio colto, ricco di

tecnicismi e neologismi. Ma proprio questa particolare scrittura è estremamente efficace nel

comunicare quanto sia difficile elaborare un congedo, a chiudere una importante relazione.

Dopo questi stralci letti, queste poche parole di introduzione ad un libro che mi è piaciuto molto e

che, indipendentemente dalla gara, consiglio come lettura, ci congediamo con una poesia che

insieme ad altre tre, conclude il testo. Alla fine il poeta riprende il sopravvento sul prosatore.

Con questo testo Valerio Magrelli ci vuol dire che tra le generazioni c'è un passaggio di testimone:

dal padre al figlio e poi al figlio del figlio.

È immagine di poesia, la figura

paterna che si nutre di me,

la tenia che divora da dentro la mia vita?

Immagine di poesia è la figura

di mio figlio, che beve proteso

verso il rubinetto alzandosi

su un piede, mentre l'altra gamba,

prodigio della statica,

distesa oscilla in aria, contrappeso

magico per bilanciare la sete.

Avessi anch'io la sua grazia

nell'equilibrare la fame

di chi dentro di me

si sporge e mi dilania!

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Figli dello stesso padre

di Romana Petri

presentazione di Alessia Meggiolaro e Daniela Bergamin

Romana Petri è nata a Roma nel 1965 e vive tra Roma e Lisbona. Oltre che

scrittrice è editrice, traduttrice e critica letteraria, scrive per «Il

Messaggero» e «La Stampa». Con questo libro dimostra di essere una

grande narratrice di storie, di personaggi e di situazioni. La sua scrittura,

apparentemente semplice, è in realtà ricercata, arcana, suggestiva; è una

musica carica di sentimento ed emozioni.

Figli dello stesso padre è la storia di due fratellastri, Germano e Emilio; figli di due madri diverse

ma dello stesso padre, Giovanni. Due fratelli lontani. Lontani nel lavoro, nella vita e nel carattere,

perché cresciuti separatamente, e con attenzioni diverse da parte del padre. Germano ha da poco

compiuto 49 anni ed è un noto pittore. È alto un metro e 92, leggermente sovrappeso. I capelli che

da bambino erano stati biondo paglia, sono ormai di un castano chiaro illuminato da qualche filo

bianco. È sempre stato piuttosto bello e continua ad esserlo. Non è sposato e la sua vita

sentimentale, fin da quando era giovane, è sempre stata piuttosto movimentata.

Nascere a Roma e continuare a viverci non era stata una scelta, solo pigrizia. Tutti quei viaggi che

aveva fatto con la madre da bambino in giro per il mondo, fin da quando di anni ne aveva 8 e i suoi

genitori si erano separati per prendere definitivamente strade così diverse che solo su di lui ogni

tanto convergevano per poi riprendere le loro rispettive direzioni, insomma tutto quel movimento

prematuro gli aveva attaccato addosso qualche freno.

Emilio, invece, è un quarantenne sposato e vive per la famiglia. Dice di sé:

Mi sono diplomato al liceo Manzoni di Milano con il massimo dei voti, mi sono laureato alla Statale

di Milano in Matematica con il massimo dei voti, ho fatto un master a Parigi e uno a Pittsburg,

dove ormai ho una cattedra da otto anni. Speravo di diventare alto e invece sono un uomo minuto,

di bassa statura.

E sono il figlio non voluto di mio padre.

La storia comincia oggi e comincia con Emilio che riceve un invito a una mostra del fratello a Roma.

Sarà l’occasione per rivedersi dopo anni di silenzio reciproco e tentare di fare i conti con

un’infanzia trascorsa a contendersi le attenzioni del padre, sempre perso dietro a nuove

avventure.

Tutta la vita a cercare di compiacerlo. L’umiliazione del piccolo verso il grande. No, non era la

parola giusta. La parola giusta era devozione. Una carriera scolastica e universitaria ai vertici per

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stare all’altezza sua che della scuola e dell’università se ne era fregato. Che lui fosse il migliore era

una cosa scontata, qualche exploit di Germano, invece, il padre lo viveva come un avvenimento. A

quella stregua non lo avrebbe raggiunto mai. Gli sembrava quasi di sentire la voce del fratello:

“Little saputel è sempre spacciato”. Potere della diseguaglianza quando l’amore paterno non è

imparziale. Fossero stati figli della stessa madre, sarebbe stato tutto diverso.

Sono questi i sentimenti di Emilio, frutto della relazione extraconiugale di Giovanni con Costanza

che causerà la fine del matrimonio con Edda, la madre di Germano. Quest’ultimo, traumatizzato

dalla separazione dei genitori, vedrà nel fratello minore la causa della sua sofferenza. Un rancore

che nemmeno gli anni riusciranno a placare:

- Devi farla finita, Emilio. C’è la mia vita e la tua. Non puoi averle entrambe.

- Ma che stai dicendo?

- Quello che sai da un pezzo. Per quale motivo credi che tra noi non abbia mai funzionato?

- Non lo so, dimmelo tu.

- Perché tu vuoi essere me. E la cosa peggiore è che ti insinui, Emilio, credi che io non lo sappia? Ti

insinui e ti allarghi. Sembri un polpo. E recrimini. Ogni tuo gesto, ogni tuo sguardo è una

recriminazione. È come se tu non facessi altro che dirmi: “Ecco tutto quello che non ho avuto e non

ho fatto è perché l’hai avuto e fatto tu”. Sei lagnoso. Lo sei sempre stato.

Ad accumunarli è l’amore insoddisfatto per il padre Giovanni, una figura possente, passionale ed

egocentrica, che ha abbandonato la madre di Germano perché la sua nuova donna aspettava un

figlio, Emilio, per poi abbandonare poco dopo anche lei come tutte le altre donne della sua vita.

La pazienza di Costanza fu degna del suo nome. Giovanni la tenne sulla graticola per oltre un anno.

Si era invaghito di Silvia, una ragazza molto giovane e con poca esperienza, che si vedeva

corteggiata da un uomo molto più grande di lei con due figli da due donne diverse. Quindi anche

con lei, Giovanni usò lo stesso stratagemma utilizzato con Germano, non solo le disse che quel

figlio gli era stato carpito con l’inganno, ma che da subito la storia con quella donna era stata da

lui chirurgicamente chiusa. C’era il figlio, certo, ma con Costanza tutto era finito nel momento in

cui lei aveva deciso di non abortire. Così la giovane si sentì immediatamente legittimata quale

fidanzata ufficiale. Giovanni fu straordinariamente diabolico, riuscì a far accettare a Costanza la

presenza della ragazza dicendole che si trattava di una storia passeggera, le disse che il figlio

l’aveva voluto lei a tutti i costi, quindi non solo doveva assumersi tutte le responsabilità, ma non

doveva nemmeno limitarlo nella sua vita privata. Per colpa sua aveva dovuto dire addio alla sua

amata famigliola, per lei non avrebbe di certo rinunciato a quei pochi benefici che tale perdita gli

aveva concesso: “Quali benefici” gli aveva chiesto Costanza mentre allattava. “Fare il cazzo che

voglio”.

E mentre il padre colleziona donne su donne, i due fratelli collezionano pezzi d'infanzia disturbata

e dolorosa. Germano ritiene Emilio il colpevole della rottura tra i suoi genitori; Emilio, dal canto

suo, soffre il disprezzo del fratello e le palesi dimostrazioni d'affetto che il padre riserva al figlio più

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grande e nega a lui. La vicenda viene sviscerata in ogni singolo dettaglio, in ogni virgola, in un

collage passato - presente facilmente comprensibile e senza tregua. A contorno, un panorama di

personaggi finemente delineati tra cui: il portoghese Duarte, che diverrà il marito della madre di

Emilio, le estati dalla nonna con la psiche seccata dall'alcol, che imita le smorfie degli eroi di

fumetti letti dai nipoti, uno zio perfido e astioso come nessuno, Roma e le formiche, la passione di

Emilio.

È un romanzo psicologico, in cui ad essere investigata è la famiglia cosiddetta allargata, più che

quella di oggi, quella dei primordi, prima che la legge sul divorzio venisse promulgata in Italia: un

atto di civiltà assoluto ma filtrato attraverso gli occhi di due bambini che al progresso etico e civile

avrebbero preferito certamente una "famiglia normale".

Il 12 maggio 1974, 37 milioni di italiani vennero chiamati alle urne per votare quello che sarebbe

stato il secondo referendum dopo la scelta tra monarchia e repubblica. Chi era a favore del divorzio

doveva votare no, chi era contro doveva votare si. Una bella confusione per un paese come l’Italia.

Tutti quelli che erano a favore del divorzio tremavano all’idea che molti potessero equivocare. Per

non parlare della televisione che aveva vietato l’affermazione e la negazione in ogni programma

per non influenzare i votanti. Si arrivò addirittura a far slittare l’Eurofestival, all’epoca molto

seguito, in cui Gigliola Cinquetti ebbe la sfortuna di presentare una canzone che si chiamava Sì e

nella quale c’era un verso che diceva Sì… all’amore ho detto sì.

Alla fine del romanzo, i due fratelli si riavvicineranno.

- Sono contento.

- Di che? gli chiede Germano.

- Di tutto. Torno in America diverso.

- Dirai di certo molte più parolacce.

- Sì, ma mia moglie non se ne accorgerà. In casa parliamo solo inglese e io ho imparato a dirle solo

in italiano.

- Beh, ho fatto di te un uomo libero.

- Abbiamo fatto abbastanza entrambi.

Si abbracciano. Restano così. Tutti gli anni trascorsi ricostruiti in un abbraccio.

- Non abbiamo avuto il tempo di vedere quell’altro film, gli sussurra all’orecchio Emilio mentre lo

abbraccia.

- Quale? chiede Germano.

- "Era mio padre". Ti ricordi quanto gli piaceva? E poi ripeteva in continuazione quel titolo, ma con

accento siciliano, chissà perché.

- Oggi non avrebbe nemmeno più senso rivederlo, gli dice Germano.

- Perché?

- Perché era nostro padre.

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Nessuno sa di noi

di Simona Sparaco

presentazione di Valeria Prosdocimi

letture di Antonella Zanon

Nessuno sa di noi è una storia di dolore e rinascita, capace di scuotere

l'anima perché costringe il lettore a porsi molte domande scomode, prima

fra tutte: che cosa farei io al posto della protagonista?

È la storia di Luce, Pietro e del piccolo Lorenzo. Ė proprio Luce che si racconta e racconta della sua

famiglia. Ė una giovane giornalista di 35 anni che cura una rubrica di posta su una rivista e convive

da qualche anno con Pietro, giovane e affermato imprenditore che proviene da una famiglia

benestante. Dopo un lungo periodo di tentativi falliti finalmente Luce rimane incinta del piccolo

Lorenzo. È proprio qui che inizia il romanzo. Luce è al settimo mese di gravidanza, è nello studio

del suo medico dove deve sottoporsi a una delle ultime ecografie. Attende con altre donne il suo

turno, sfoggiando con orgoglio il suo pancione e ascoltando i movimenti dentro di sé del suo

piccolo, in un intimo dialogo che nessuno può udire.

Siamo tutte qui. Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica

sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna

sfoglia una rivista con un'espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia.

Qualcun'altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se

dietro quella porta ci fosse davvero la minaccia di un'espulsione. Siamo tutte madri in attesa di

un'ecografia.

Fino a quel momento è stata un'attesa come tante altre fatta di nausee, attacchi ormonali, esami,

preparativi, progetti e sogni. Ma dopo quell'ecografia tutto cambia: Lorenzo è sempre lì, dentro il

ventre di sua madre, ma non è più soltanto il bimbo che porterà il nome del nonno partigiano, ora

è un bimbo malato, che se dovesse riuscire a sopravvivere alla nascita, avrebbe una vita fatta di

sofferenza e difficoltà. Soffre di displasia scheletrica: le sue ossa e il suo torace non crescono.

Prima Luce e Pietro erano felici, una vita piena di prime volte li attendeva: il primo sorriso, la prima

parola, i primi passi.

Ed è il caos dentro e intorno a questa giovane coppia che si trova a decidere se portare avanti la

gravidanza o interromperla. Devono decidere e in fretta.

Qui si delineano i caratteri: Pietro è solido, forte apparentemente lucido e razionale, Luce invece è

lacerata, arrabbiata, delusa.

In lei sorgono le prime domande: è colpa mia? Cosa ho fatto o cosa non ho fatto? E intanto aspetta

il dolore che non arriva immediato ma piano piano man mano che acquista la consapevolezza del

significato di quello che sta accadendo; e allora Luce soffre per sé, per Lorenzo e per Pietro perché

non ha saputo proteggerli dal dolore. La coppia comincia ad allontanarsi:

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Pietro non può sentire Lorenzo che scalcia, per lui è più facile...

Ci siamo persi nella nebbia. Non abbiamo idea di dove stiamo andando. Non ci sono segnali ad

indicarci la direzione, nessuna orma sul terreno. Eppure abbiamo il privilegio di poter scegliere

quale sentiero ignoto intraprendere, quale via imboccare verso il nulla.

Luce deve scegliere.

Esci Lorenzo. Ti prego dimostrami che questi scienziati si stanno sbagliando... che tu ce la farai,

contro la morte, contro il dolore. Imparerai ad amare, diventerai grande. Magari anche un genio

della matematica o della filosofia... Insieme supereremo i pregiudizi le avversità. Lavoreremo per

un mondo migliore. Cerco Pietro. Lo prego con lo sguardo, lo imploro.... La vita non è sempre un

dono mi sta dicendo, e non è neanche un dovere. Se siamo qui, ora, significa che in qualche modo ci

è stata data la possibilità di scegliere. Un altro tipo di dono, sì. Per quanto assurdo possa sembrare,

quello di una morte senza agonia. Lasciare che nostro figlio si addormenti senza aver visto altro

che il mondo dentro di me.... si può donare la vita, ma si può dire lo stesso per la sopravvivenza?

Così Luce e Pietro scelgono la strada dell'aborto terapeutico recandosi all'estero perché in Italia

non è consentito oltre la 23esima settimana di gestazione. Per loro inizia un tormentato percorso

di elaborazione del lutto prenatale che metterà a dura prova la loro unione e il loro amore.

Luce ora si sente una casa abbandonata, un luogo disabitato e depredato:

Lorenzo andandosene ha spento tutte quante le luci. Si è solo dimenticato di chiudere la porta.

Ma qui ormai non c'è più niente da portar via.

Si lascia andare al dolore, si allontana da Pietro e cerca conforto in altre donne che hanno vissuto

esperienze come la sua. Ma si rende conto che in Italia parlare di aborto terapeutico è tabù e

l'unico mondo dove questo tabù cade è il mondo della rete, dei blog, dei forum.

Qui Luce legge le storie di tante donne, alcune contro l'aborto, altre che pur con una diagnosi di

malattia del feto hanno portato avanti la gravidanza, ma comprendono quante non hanno fatto la

stessa scelta e altre che, come Luce, hanno abortito per risparmiare sofferenza al proprio

bambino, ma ora vivono tormentate dal senso di colpa.

Tra queste voci Luce trova la sorgente della sua rinascita: si rende conto che queste donne pagano

le conseguenze di una decisione e si macerano nella vergogna e nel senso di colpa reso ancora più

doloroso dal fatto che alla loro scelta non viene riconosciuta dignità e rispetto.

Ed è di questo che Luce ha bisogno: dignità e rispetto per suo figlio e per la sua scelta; perché

Lorenzo non è un figlio perso, un bambino che non ce l'ha fatta. Lorenzo non è un fatto

vergognoso:

No, Lorenzo è stata una scelta, una scelta ben precisa. Dolorosa e lucida, che ha solo bisogno di

essere rivendicata ad alta voce per poter essere compresa. Una scelta che ho preso in coscienza,

come madre e come compagna dell'uomo che amo. Abbiamo fatto nostro un diritto, di cui mio

figlio era stato privato: il diritto a difendersi.

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Dopo questa esperienza Luce è profondamente cambiata, riesce a vedere la realtà con una

maturità che le permette di andare oltre l'apparenza. Ora può vedere Pietro, il suo dolore, i suoi

tentativi di raggiungerla nel buco nero dove era finita, la sua paziente attesa. Ora può riuscire ad

immaginare anche Lorenzo e a convivere con il suo pensiero:

Ora lo so che presto imparerò a cercarlo, nelle luci della notte, nelle folate improvvise di vento,

nella solitudine dei ricordi, nei tramonti color grano di primavera. Ma soprattutto so che presto, un

giorno non molto lontano imparerò a conviverci.

Ma Pietro è ancora lì? È riuscito a resistere accanto a Luce?

Siamo ancora noi. Frammenti di un mosaico incapaci di incastrarsi ma che in qualche modo

restituiscono alla perfezione l'immagine finale... Ora so cosa voglio. Voglio camminare insieme a

lui, mano nella mano, finché avremo forza nelle gambe e aria nei polmoni. Magari lui davanti e io

dietro, perché a me piace seguirlo, come fanno gli animali quando si mettono in fila dietro al

capobranco. Nelle carovane tutti conoscono la meta finale del viaggio, eppure si mettono in fila.

Per non sentirsi soli forse. O per non correre il rischio di perdersi.

Alla fine anche Luce partecipa al forum perché anche lei ora può dare qualcosa a quelle donne:

Lorenzo è stata la prima scelta importante. Mi ha cambiata profondamente, ma non la rinnego. Ho

bisogno piuttosto di scriverla e di raccontarla al mondo. Di togliere il velo di omertà che si stende

invisibile sopra le nostre teste, per poter tornare a guardarci allo specchio e scrollarci di dosso il

peso della colpa, che ci portiamo dietro da migliaia di anni, perché siamo state dipinte Eve, Medee

e Antigoni, ma solo noi conosciamo i misteri insiti nella natura materna, il senso ultimo e profondo

delle nostre scelte.... Ora sono pronta. Sono pronta alla vita… non la pretendo come fosse un

diritto. La vivo semplicemente. Vivo la mia di vita, così piena ed imprevedibile, senza chiedermi se

un giorno sarà anche capace di moltiplicarsi e generare nuova vita... Ora l'ho capito, in questo

imponderabile viaggio non ci sono certezze, possiamo solo camminare avanti, cercando di non

avere motivi per non farlo a schiena dritta.

L'autrice di questo romanzo, Simona Sparaco, è una giovane e coraggiosa scrittrice al suo terzo

libro, che si è lanciata nell'affrontare un argomento come l'aborto terapeutico di cui poco si parla

con una scrittura forse un po' spartana ma certamente accessibile a tutti. La struttura narrativa

diventa occasione per portare l'attenzione su un tema controverso e delicato con un linguaggio

dolce e potente allo stesso tempo che come un'onda emotiva coinvolge e travolge il lettore, senza

però puntare il dito e prendere una reale posizione. Vincitore del Premio Roma per la narrativa

Nessuno sa di noi merita di essere sostenuto come esempio di scrittura al servizio del dibattito

sociale.

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È dalle madri che partiamo. Da quella carezza lontana che odora di latte e attenzioni... Mio figlio

non ha mai incontrato il mio viso, e se fosse nato, forse, non mi avrebbe neanche riconosciuta. La

mia carezza è stata un ago che gli ha tolto il respiro. Ma è da me che è partito, e dentro di me si è

fermato. È dalle madri che sempre partiamo, ed è alle madri che sempre torniamo, una volta

concluso il viaggio.

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L'ultimo ballo di Charlot

di Fabio Stassi

presentazione di Beatrice Motta

letture di Graziano Pigato

Charlie Chaplin ha ottantadue anni quando la Morte, alla Vigilia di Natale

del1971, va a trovarlo per l'ultimo viaggio: egli si è da tempo ritirato in

Svizzera, ma non è ancora pronto per lasciare questo mondo; il suo

ultimo figlio, Christopher, è ancora piccolo e lui vuole vederlo crescere. Il

vecchio attore propone un patto alla Morte: lei tornerà ogni Natale, ma,

finché Chaplin riuscirà a strapparle una risata, avrà un altro anno di vita. È così che inizia la lunga

lettera di Chaplin al suo giovane figlio Christopher, alla vigilia dell’ultimo Natale, quello del 1977, a

cui egli sa di non sopravvivere. Sono passati sei anni da quel patto e ormai il suo tempo è arrivato:

l’estremo regalo natalizio al figlio, ormai quindicenne, è una lettera in cui raccontargli un'ultima

favola, quella della nascita del cinema, ma soprattutto la storia della sua vita: l’infanzia di miseria a

Londra; la malattia psichiatrica della madre; il lavoro nel circo, una straordinaria e commuovente

esperienza che gli regalerà la sensibilità di riconoscere la ricchezza umana negli emarginati e l’arte

del mimo; la sua partenza per gli Stati Uniti; l’instancabile pellegrinaggio da un lavoro all'altro alla

ricerca ostinata, inquieta, visionaria di un suo posto nel mondo, una ricerca alimentata dal

desiderio di imparare, di migliorarsi sempre, di non fermarsi mai, fino all’incontro con il suo grande

amore, il cinema. Con una prosa ricca di sfumature poetiche Fabio Stassi ha scritto un

commovente omaggio a Charlie Chaplin, reinventando, nella libertà della fantasia letteraria,

episodi tratti dalla biografia dell’attore, e un omaggio anche al cinema, ricostruendo gli esordi

dell’epopea di un’arte magica, quella del cinema appunto, “una protesta contro la morte”, capace

di nutrire l’illusione di conservare la vividezza della vita oltre ai suoi stessi confini per regalarla ai

posteri. Così Stassi, per bocca di Chaplin, immagina la vera misconosciuta nascita della cinepresa

Dicono che l'universo sia nato da una grande e incomprensibile esplosione. Secondo me,

deve essere successo sulla pista di un circo. Una donna volteggiava in aria e un uomo ne

catturò il movimento in una scatola magica, e lo riprodusse all'infinito, fino a popolare di

ombre la terra, e a riempirla di segatura, di risate, di lacrime. Non può che essere

andata così, perché solo nel disordine dell'amore ogni acrobazia è possibile.

“Tutto svanisce tranne i desideri che abbiamo avuto”, dice Charlie Chaplin. Questa è la forza

propulsiva che ha nutrito la sua fantasia e la sua determinazione: i nostri sogni sono una promessa

d’amore che noi facciamo a noi stessi e che con testarda, caparbia levità non dobbiamo smettere

mai di inseguire.

Quante volte si nasce nella vita, così tante che bisogna imparare subito ad allevarsi da sé,

a non smettere mai di nascere.

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Il cinema è stato il grande sogno realizzato da Charlie Chaplin perché è esso stesso un sogno ad

occhi aperti: la magia del cinema è quella capace non solo di perpetuare la vita oltre ai suoi

confini, ma anche di regalarle uno sguardo nuovo.

Come avviene nella creazione del celebre personaggio di Charlot:

Quel pomeriggio di pioggia del 1914 in cui cercavo nello spogliatoio maschile della

Keystone un costume per una scena che stavamo girando, tenevo bene a mente quello che mi

aveva detto Fred Karno, che in tutte le storie ci vuole un pizzico di malinconia. Per me non era

difficile trovarla: la portavo già negli occhi, nelle mani, nel sangue. A sentire le donne, avevo

un poco di tristezza anche negli inguini, ma questo finiva sempre per affascinarle. Pensai che

se avessi potuto metterne un briciolo in una comica, forse avrei potuto sedurre chiunque. Era il

comune senso delle proporzioni che dovevo stravolgere. Scelsi così un paio di calzoni sformati, mi

abbottonai a fatica un gilè e una giacca troppo stretti e calzai due scarpe enormi e logore.

Mi guardai allo specchio. Non mi ero mai sentito così a mio agio. Il mio vestito era una

disubbidienza. Ci aggiunsi una bombetta, un bastone, una cravatta a farfalla. Mancava solo un

ultimo dettaglio: mi agitai i capelli e mi incollai sotto al naso un paio di baffetti neri e per

la prima volta seppi qual era la mia faccia.

“Il mio vestito era una disubbidienza”. Il segreto della comicità dolce e malinconica di Charlie

Chaplin, secondo Fabio Stassi, sta nell’aver saputo farsi beffa dell’ingiustizia e della miseria del

mondo, capovolgendo lo sguardo, girando sottosopra la foto del mondo per darle nuove

proporzioni, capaci di trovare un nuovo, sospeso, precario e fragile equilibrio, “l’equilibro

dell’imperfezione”, che restituisca nel lampo della risata dignità e bellezza a chi non l’ha ricevuta

dalla storia.

Il trucco è sempre lo stesso: fare in modo che qualcosa vada storto e che il mondo appaia

rovesciato, sottosopra. Il meccanismo della comicità è un meccanismo sovversivo. Se un gigante

cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a

un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo o a un vecchio senza nessuno sforzo, noi

ridiamo. Perché è tutto il contrario di quanto accade nella vita. La comicità è una capriola,

un uomo che si rialza dopo un capitombolo o un altro che sta sul punto di cadere ma non

cade mai. La comicità è mancina come me, Christopher. Irride i ricchi, rimette le cose a

posto, ripara le ingiustizie. Come diceva Frank Capra, chiude le porte ai prepotenti e le fa

aprire ai deboli e 'agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. E quest'incredulità

che ci riempie gli occhi di lacrime. Sin dall'inizio, da quando cantai la canzone di Jack

Jones al posto di mia madre, suscitare il riso e le lacrime è stata la mia infantile protesta contro

la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell'odio e di tutte le forme sbagliate che

finiscono per governare le relazioni umane.

Fabio Stassi ha saputo raccontare con commozione e leggerezza la lezione spirituale ed

esistenziale di Charlie Chaplin, simbolicamente espressa da quella danza, evocata nel titolo e nella

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copertina del libro, capace di elevarsi sopra la pesantezza del mondo e della morte per celebrare

l’incanto della vita, in grado di stupire e di regalare attimi di felicità a chi è capace di crederci.

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L'amore graffia il mondo

di Ugo Riccarelli

presentazione di Cristina Rosetti e Daniele Rossetti

La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta.

Questa citazione, una delle preferite da Ugo Riccarelli, è di Fernando

Pessoa.

Il 21 luglio mi ha salutata e se n’è andato in punta di piedi, in silenzio e senza far rumore.

Mi ha lasciata in mezzo alle sue parole, scritte su libri, lettere, appunti, e con la sua immagine che

mi rimbalza addosso da ogni angolo del web.

Mi ha fatto promettere che avrei continuato a sorridere come facevo sempre, o meglio quasi,

accanto a lui e che avrei chiesto agli amici di ricordare di lui l’ironia, l’allegria e la voglia di mordere

la vita.

Queste le parole della moglie Roberta alla premiazione del campiello.

Riccarelli, un emigrante al contrario, come amava ripetere, era nato da famiglia toscana a Ciriè, nel

Torinese. Alla sua storia familiare, in particolare alla storia di sua madre, è dedicato l’ultimo libro,

L’amore graffia il mondo, un libro sui figli, sulla tenacia dell’amore materno. Il piccolo Ivo nasce

debole di una malattia ai polmoni: in questa vicenda Riccarelli dipinge non solo un'allusione al

proprio destino ma soprattutto l’eroismo di una mamma forte come la locomotiva cui deve il

nome di battesimo.

«L'amore graffia il mondo, aveva detto Riccarelli in uno degli ultimi incontri dedicati al Premio,

vuol essere «un omaggio a tutte le donne». Signorina, la fragile, tenera e determinata protagonista

del romanzo, è una sorta di eroina del quotidiano come milioni di donne. Forse è una specie di

emblema delle donne del secolo scorso. Quello che più mi ha dato nel raccontarla - aveva spiegato

lo scrittore - è stata la possibilità di mettere le mani dentro una parte dolorosa dell'umanità, il

sacrificio».

Sentiamo ora il momento del sogno di Signorina, quello di diventare una stilista, il cui seme viene

posto da un singolare incontro.

Il treno si fermò e per un breve istante tutto sembrò ghiacciato, sospeso, finché Delmo abbassò il

braccio e come in una danza il mondo si mise in moto.

Rimase in quel modo a digerire la scorpacciata di immagini che l’avevano frastornata come lo

spettacolo di un circo così si accorse solo all’ultimo momento del signore che la stava guardando.

Era un omino secco, vestito con una livrea elegante, con tanto di piccolo cilindro e una valigetta

nera. Aveva dei baffetti appena accennati e due occhi stretti a mandorla, che luccicavano dietro un

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paio di occhialini tondi. Lui la fissò, le allargò un sorriso gentile, si piegò un pochino e lei sentì l’aria

riempirsi di un dolce profumo di legno.

Si avvicinò alla panchina e vi appoggiò la valigetta, la aprì e dall'interno estrasse un foglio di carta

colorata, lo stese sul piano di marmo e cominciò a piegarlo con gesti eleganti e rapidi, mentre

accompagnava i movimenti con la sua parlata misteriosa, fatta di suoni incomprensibili.

Alla fine l’omino prese dalle sue mani la bambola e pose attorno al giocattolo di pezza il foglio di

carta che adesso era diventato in tutto e per tutto un piccolo vestito colorato, delicato e perfetto ,

con un paio di spalline e una taschina sul davanti.

Signorina rimase da sola, a contemplare la sua bambola risplendere di una nuova grazie e

eleganza, con quel fragile vestito che le toglieva gli anni di consunzione e lo sporco fasciandola con

la grazie che hanno le cose semplici e leggere.

A soli sette anni si ammalò di polmoni, come si diceva allora, e ha inizio il suo calvario sanitario che

sfocia nel trapianto di cuore e polmoni in Gran Bretagna, intorno ai 35 anni. Molti mesi in

quell’ospedale in attesa del donatore e attaccato a un respiratore. Quando il trapianto gli ha ridato

la vita (anche alla madre, che in L’amore graffia il mondo appare come una madonna addolorata

alle prese col figlio perennemente morente), decise di scrivere la sua storia.

Un libro malinconico e dolce, al quale Riccarelli - che sapeva sarebbe stato il suo ultimo - ha

consegnato la chiave della sua vita, disperata e coraggiosa.

Un libro scritto quasi in osmosi con il pulsare della Vita, la Vita innanzitutto, in perfetta

comunicazione fra il dentro e il fuori dal Sé.

Sentiamo ora le riflessioni di Signorina fra la vita ideale e la vita reale, un modo trascendente di

dare aria ai suoi talenti, al ritmo del respiro di Ivo.

”Ci fu un periodo della sua vita in cui Signorina credette che il tempo le sarebbe stato alleato, e che,

se lei avesse resistito a difendere quello che amava, tutto si sarebbe rinforzato e sarebbe rimasto

unito e vivo.

Ma nel tempo, invece, il respiro di Ivo si inaspriva, obbligando il bimbo a grattugiare l’aria per

mangiarla a morsi, neanche fosse un blocco di pane duro.

Signorina così se ne stava coi sensi all’erta, in un sonno che non era mai vero, a temere e aspettare

il raspare del fiato del figlio che saliva dal lettino, per poi prenderlo in braccio, cullarlo, dargli

sorsetti d’acqua.

Confrontava la vita presente con quella ideale, e questa ipotetica vita era allo stesso tempo un

luogo fantastico nel quale si aggirava per calmare le sue ansie e l’origine stessa di quelle ansie,

quando si rendeva conto della distanza ancora da percorrere per raggiungere quanto lei sperava,

.poiché continuava a esistere soltanto la vita dove Ivo, in barba al tempo, grattava il respiro

sempre più ferocemente”

Quasi una dissonanza.

Da un lato la scrittura di Ugo Riccarelli, lieve, sospesa, eppure colma di dolore, sfiorata da una

malinconia troppo nascosta per non essere manifesta.

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Dall’altro lato l’uomo sempre allegro, gioviale, che di malinconico non aveva proprio nulla. Come

se la sua malattia fosse un destino, da vivere con eleganza, da riservare con pudore ai suoi libri.

Riccarelli sorprende tutti gli amici facendo convivere le pesanti terapie antirigetto (che sapeva gli

avrebbero accorciato la vita) e un lavoro letterario matto e disperatissimo. Sempre con

un’autoironia disarmante. Amava ricordare che al comune il suo inquadramento era un quarto

livello: “a regola io sono quello che dovrebbe fare le fotocopie”, diceva sorridendo agli amici.

Athos, il fratello di lettere e di cuore rimasto a Pisa, lo chiama e lo invita alla pigrizia: “Stai buono

Ugo, riguardati un po’, che diavolo ci vai a fare fino a Bari per presentare il libro?”. E lui fingendo di

non capire: “Oh, io non sono mica come te, io mi do da fare”. E si sbatte in giro tra una dialisi e

l’altra per raccontare che la letteratura è la medicina di tutto. Aveva urgenza di portare in libreria il

libro sulla madre, il suo modo di chiudere i conti con una vita a due stadi: nascita e sopravvivenza.

Si accaniva sulla scrittura e, per giustificarsi e schernirsi, diceva sfottendo i sani: “Ho fretta, ragazzi,

non sono mica come voi che avete un sacco di tempo”.

“Ora devi solo pensare a riposare, hai il cuore un po’ stanco”, le disse Ivo sorridendo.

Lei lasciò che le palpebre si chiudessero e ancora scivolò nel buio, dove le parve di vedere

l’immagine del suo cuore logoro, mezzo strappato.. Lo osservò con attenzione e vide che gli strappi

si sarebbero potuti riparare facilmente con un filo forte e qualche punto dato bene, ma proprio

mentre si avvicinava per rammendarlo, si rese conto che era pieno di tutto quello che lei aveva

cercato di salvare con l’amore, finendo per tradire la magia dell’omino cogli occhi a mandorla…

Allora si alzò, finalmente senza pesantezza e fardelli, attraversò le mura della stanza e andò a

cercarlo. Lo trovò a casa che dormiva, e allora gli si mise accanto e cercò inutilmente di cacciare in

gola il boccone d’amore che ancora una volta voleva uscire da lei, per strappargli col linguaggio

assurdo dei sogni quello che aveva appena capito, togliendosi con un gesto lento l’orrenda camicia

da notte che le avevano messo in ospedale.

Per mostrargli il suo corpo nudo, graffiato, sanguinante.

Guastato dall’amore.

ALESSIA Meggiolaro - ANTONELLA Lorenzato - ANTONELLA Zanon - BEATRICE Motta - CARLA De Angelis -

CRISTINA Rosetti - DANIELA Bergamin - DANIELE Rossetti - ENRICO Vecchiatti - GRAZIANO Pigato - MARISA

Fracon - VALERIA Prosdocimi

(06/11/2015)