IN CAMMINO CON LA STELLA · pubblicazioni biblico-teologiche, ... la liturgia e la matematica. Le...
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Gianna Piazza
IN CAMMINO CON LA STELLA
Schede di approfondimento: vita e messaggio
del Beato Luigi Monza
A tutte le mie sorelle che cercano la verità
per tradurla ogni giorno
in una carità pratica e silenziosa.
I discepoli di un vecchio Rabbi discutevano animatamente
su come giungere alla verità. “Occorre seguire la via dei
padri con tutte le forze. Anche una piccola distrazione può
allontanarci dalla Via”, diceva il primo.
“E’ un modo sbagliato”, sentenziò il secondo, “non fai
altro che rafforzare l’ego. La vera via consiste nel seguire
gli insegnamenti, abbandonare tutte le cose e lasciar fare a
Dio”.
Non riuscendo a mettersi d’accordo, si rivolsero al Rabbi. Il
primo discepolo parlò della via dello sforzo; il maestro
ascoltò pensieroso, poi disse: “Il tuo è il vero cammino”.
L’altro parlò della via dell’abbandono a Dio, e anche a lui
il Rabbi disse: “Il tuo è il vero cammino”. Un terzo
discepolo, che stava ascoltando lì vicino, disorientato si
rivolse al Rabbi: “Maestro, è impossibile che tutti e due
abbiano ragione!”. “Anche tu hai ragione”, rispose sereno il vecchio Rabbi.
5 Febbraio 2010
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PRESENTAZIONE
Questo contributo è nato da una richiesta della Diocesi di Concordia-Pordenone, nell’anno
sacerdotale indetto da Benedetto XVI (2009-2010), per facilitare la conoscenza del Beato Luigi
Monza ed essere utilizzato come strumento di studio da insegnanti, catechisti, educatori.
Aggiungerei: da tutti quelli che, volendo migliorare la conoscenza dei fratelli di fede, sanno gustare
“le grandi cose che Dio opera in coloro che lo amano e riconoscono così che il Suo nome è santo”
(cfr Lc 1,49).
Ne sono nate quattro “Schede” che non hanno il carattere di soli dati biografici, contributi di
spiritualità specifici, conoscenza storica di fatti recenti, individuazione di testimonianze
particolarmente toccanti, ma sono tutto questo insieme e avrebbero anche la pretesa di stimolare
un’ulteriore riflessione.
Chi leggerà se ne potrà avvalere, infatti, per avviare percorsi di approfondimento-ricerca su
determinati ambiti di interesse, personale o di gruppo1.
Per fare questo, potrà tener conto della stessa modalità utilizzata per la stesura del testo,
riprodotta in maniera uguale in tutte le schede e precisamente:
• Il racconto: brevi dati biografici relativi alla vita del Beato.
• Il contesto storico: fatti di storia della Chiesa relativi agli anni vissuti dal Beato.
• Il suo insegnamento: come il pensiero e la vita del Beato può illuminare il cammino di ogni
credente.
• Le testimonianze: coloro che, relativamente ai punti di cui sopra, hanno saputo donare la
vita, sino alla fine.
Con tutto ciò, non ritengo di aver esaurito la presentazione del Beato ma neppure di aver
banalizzato, per dovere di “sintesi”, la figura e il messaggio.
La sua è una storia che molti ritengono semplice, forse scontata in alcuni passaggi. Una storia che
non si aspetta riconoscimenti per essere arrivata a formulare teorie su come si istruisce, si educa,
si conduce, si è maestri, si progetta. Tuttavia è una storia che diventa trasparente e sottile nel suo
stesso dispiegarsi e che non ha bisogno di argomentazioni filosofiche a supporto di ciò che
esprime ed opera. 1 Esiste un Archivio apposito a Ponte Lambro (Como), presso l’Associazione “La Nostra Famiglia”, dove sono raccolti gli scritti del Beato Luigi Monza, le testimonianze di chi l’ha conosciuto, le relazioni dei vari Convegni dopo la sua morte e altri contributi specifici. Per la richiesta di eventuali pubblicazioni si rimanda alla Sede di cui sopra: tel. 031625111 Alcune di dette Pubblicazioni sono visibili anche nel Sito Internet: www.donluigimonza.it
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Di lui non esistono - o non esistono ancora - raccolte di scritti tali da selezionare e catalogare i testi
in volumi corposi, ma la semplicità del suo dire ha toccato e tocca le corde profonde della vita
interiore. A lui ben si addicono le parole evangeliche: «Quando fai l’elemosina, non sappia la tua
sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,4). Con lui, attraverso le citazioni medesime2, siamo condotti
a compiere un cammino da speleologi, in profondità, ma anche in sicurezza.
Luce e corda (contemplazione e azione) sono il suo fermo ancoraggio in Colui che non lascia mai
deluse le nostre attese, a patto che non scambiamo la certezza che manterrà le sue promesse con
la pretesa di veder colmati i nostri desideri.
La sua costanza nel credere che «tutto posso in colui che mi dà forza» (Fl 4,13) lo ha condotto a
insistere per far comprendere che quel Pane - «Non mi importunare. Ormai la porta è chiusa e i
miei figli già dormono» (Lc 11,5-9) - si può e si deve chiedere: con la consolazione di vedersi,
prima o poi, esauditi. E non su elementi di piccolo taglio ma su una “santità di vita” che è per tutti e
per ciascuno, in qualsiasi stagione ci si trovi.
INTRODUZIONE Ho letto un giorno che rendere partecipi altri del dono ricevuto è il miglior modo di ringraziare. Da
allora me ne sono sempre ricordata, anche in quell’ottica di condivisione di cui è stata testimone la
prima comunità cristiana e, dopo di lei, tutti coloro che hanno ben compreso il messaggio
evangelico. Ecco perché, nel consegnare queste riflessioni a chi me le ha richieste, mi sento di
ringraziare per l’opportunità offerta: scavare nella vita e nel messaggio del Beato Luigi Monza per
raccontare un’esperienza che si rifrange in molteplici sfaccettature, tutte ugualmente preziose e
belle.
Alla luce delle Beatitudini (Mt 5-7), vera regola di vita del discepolo e, secondo S. Tommaso,
sintesi di perfezione cristiana. E’ stato bello ripercorrerle collocando, nel loro contesto, la vita del
Beato e le esperienze toccanti di alcuni testimoni del secolo scorso.
E’ sempre possibile, infatti, ricondurre quanto accade a verità già dette dalla Parola e
rappresentate, per ciascuno di noi, da situazioni, persone, fatti che ci provocano nel senso
etimologico del termine: ci chiamano fuori per riconoscere chi siamo e verso quale direzione ci
muove il nostro universo interiore che dà forza alla freccia del nostro agire.
Silvano Fausti3 ricorda come «gli antichi ritenessero che ogni persona nasceva con una sua stella,
che con lui si spegneva. Quella di personaggi importanti era una cometa. L’uomo, da sempre ha
2 I testi in corsivo del presente contributo sono tratti da Scritti vari del Beato Luigi Monza, Archivio di Ponte Lambro. 3 SILVANO FAUSTI, gesuita, dopo aver compiuto gli studi di filosofia e teologia con un dottorato sulla fenomenologia del linguaggio presso l’università di Münster in Germania, è stato docente di teologia. Da trent’anni risiede in una cascina alla periferia di Milano (Villapizzone) con una comunità di gesuiti dediti al servizio della Parola e inserita in una comunità più ampia di famiglie aperte ai problemi dell’emarginazione. E’ autore di numerose pubblicazioni biblico-teologiche, sia di studio, sia di divulgazione.
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cercato di vedere negli astri l’indicazione della traccia che lo porta a destinazione. Egli infatti abita
sempre altrove, ovunque “straniero” (A. Camus) perché estraneo a sé, fino a quando non dimora là
dove è nato. Ma, contemplando il cielo, non ha perso la terra. Al contrario, ha potuto orientarsi e
muoversi su di essa in modo sensato, rendendola abitabile e bella. Lo sguardo verso l’alto ha
generato in basso la poesia e l’astronomia, la misura del tempo e dello spazio, la danza e la
musica, la liturgia e la matematica. Le cose belle e buone, per i mortali, sono figlie del cielo, stelle
fiorite sulla terra. Scienza e arte, filosofia e religione, tutta la cultura viene dalla contemplazione del
cielo, suo riflesso sulla terra. Dove andare? La strada luminosa è visibilmente tracciata, da oriente
a occidente. Ma l’enigma del bivio rimane. Ciò che invano si cerca fissando le profondità del cielo o
vagando sulla superficie del globo, lo si può trovare solo nel cuore»4.
Questo Beato ha percorso un cammino; si è chiesto quale fosse la giusta direzione da prendere;
ha cercato e seguito la “sua stella”: con rigore e dolcezza, con entusiasmo e momenti di affanno,
con l’intuizione del sogno e la concretezza della carità operosa. Ha compreso, giorno dopo giorno,
che la meta del cammino dell’uomo è la stessa Dimora di Dio - il bel Paradiso - dove lo vedrà così
come Egli è; dove, appena giunto, sarà accolto da un abbraccio d’amore; un abbraccio così
intenso che gli scioglierà le inevitabili scorie che si porta addosso fino a “quel Giorno”.
Dal momento in cui inizia ad esistere, ogni essere umano riceve un destino eterno, un’esistenza
che non finirà, una vita che sarà un continuo conoscere, un continuo scoprire, un continuo stupire
e, per questo, un continuo gioire anche quando il dolore verrà.
Lo aveva ben compreso don Luigi Monza nell’alternanza di gioie e di difficoltà che la vita gli ha
riservato; di momenti di sorpresa inattesi e di improvvisi cambiamenti che parevano stroncare sul
nascere un sogno appena abbozzato. Ma ha capito - e vissuto - che c’era una possibilità
sorprendente su tutto e sempre: un amore senza misura, che mai si arrende; un bisogno coltivato
nel segreto - ma poi proclamato “sui tetti” - di annunciare che siamo figli di Dio e, per questo,
fratelli fra di noi; siamo il capolavoro di Dio, tutti creati a Sua immagine e somiglianza (Gn 1,27).
Lui, nella semplicità e ferialità dei giorni, ha percorso un cammino che potrebbe sembrare
estremamente normale, facendo “straordinariamente bene le cose ordinarie” e, in questo percorso
di normalità, ha raggiunto quella pienezza a cui tutti siamo chiamati. Ha seguito la sua stella,
cercando e trovando la linea corretta che essa gli aveva indicato.
Una stella che esiste anche per ciascuno di noi e ci aiuta a compiere quel passaggio necessario
perché si smetta, ad un certo punto, di con-siderare (stare con le stelle) e si incominci a de-
siderare, perché ormai si conosce la direzione in cui muoversi.
Così, il racconto della sua vita illumina anche il nostro cammino; non perché pedissequamente ne
seguiamo le tracce senza mai alzare lo sguardo ma perché, essendo orientati e guidati -
ciascuno dalla propria stella - possiamo giungere là dove già siamo stati amati, da sempre.
4 Cfr S. FAUSTI, Occasione o tentazione, Milano 1997, 15-16.
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SCHEDA N. 1
BEATI I MITI E I POVERI IN SPIRITO
«Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5)
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5,3)
IL RACCONTO
C’era bisogno che la mitezza risuonasse nei cuori quando Luigi Monza veniva alla luce il 22
giugno 1898. C’era bisogno di parlare di bontà, proprio in quei mesi che erano stati segnati dalle
lacrime di molte madri e mogli e dal sangue di altrettanti padri, mariti e figli.
Quando Luigi nasceva a Cislago, in quel borgo tra Saronno e Varese, e che allora contava circa
3000 abitanti, era ancora vivo l’orrore suscitato dalla dura repressione degli scioperi per l’aumento
del prezzo del pane, ordinata dal generale Bava Beccaris a Milano e culminata nelle cannonate di
viale Piave che si spararono sulla folla mentre attendeva il cibo presso il Convento dei
Cappuccini.
Anzi, rimane il dubbio che i cannoni fossero stati puntati ad arte verso quel luogo e a quell’ora,
quando non si pensava allo sciopero ma al cibo e, più che gli operai, erano raccolti i poveri
dell’opulenta Milano5.
La sua prima scuola d’amore fu la sua povera casa; i suoi primi maestri e testimoni del primato
della carità, cioè dell’amore che si spende e preferisce donare anziché pretendere, furono i suoi
genitori. I suoi primi aiutanti e compagni in questa scuola d’amore furono i suoi fratelli (due morti
da piccoli e uno appena tornato dal fronte dopo la prima guerra mondiale) e la sorella (diventata
Suor Tommasina tra le suore della carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea) con i quali imparò
come ci si vuole effettivamente bene l’un l’altro e che cosa vuol dire concretamente «amarsi come
fratelli». In una parola: la sua famiglia gli insegnò, con la vita di tutti i giorni, lo stile della Chiesa
primitiva, lo stile del Vangelo.
Una famiglia povera di contadini, come tante di inizio secolo XX, dove la vita dei campi ha una
sua regola, un suo ordine ed una sua disciplina. Il seme gettato scompare nella terra e per lunghi
mesi rimane nascosto. Così, ogni anno il contadino e la sua famiglia si educano all’attesa;
sperano, fiduciosi, che il lavoro dia frutto perché sanno che un Altro è padrone del tempo e delle
stagioni.
Vera scuola di povertà è stata la vita dei campi per il piccolo Luigi, battezzato dopo poche ore
perché si temeva per la sua salute; cresimato a poco più di un anno per i medesimi motivi di
precarietà e approdato finalmente anche alla scuola elementare, sia pure con scarso successo
5 Cfr E. APECITI, Dare la vita, Milano 1998, 15.
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(dovette ripetere la seconda classe).
Una certa disciplina spirituale gli venne dall’Oratorio che, tra le varie attività, proponeva quella di
fare il chierichetto; compito che comportava non poche condizioni, come le risposte in latino al
celebrante mentre il resto della gente recitava devotamente il Rosario. Con queste medesime
risposte si consolidava così in lui la certezza che Dio è buono e che «rende lieta la giovinezza»6.
Restò sorpreso perciò il suo parroco, don Luigi Vismara, di fronte al diniego e alla fuga di Luigi
dopo che gli venne rivolta la domanda: «Vuoi farti prete anche tu?».
Stupore? Sconcerto? Sensazione di vedere scoperto il proprio segreto? Tuttavia, placato il
tumulto del cuore, Luigi iniziò il suo cammino di piccolo Seminarista, prima a Penango Monferrato
(Asti) presso l’Istituto Missionario salesiano e poi, dopo un periodo di interruzione degli studi
quando subentrò nel ruolo di capofamiglia (il padre, caduto da un albero, restò paralizzato) presso
il Collegio Villoresi di Monza. Non mancarono le accuse di insensibilità pronunciate, nei suoi
confronti, dai parenti stessi mentre la mamma, con quel raro coraggio di madre che spinge il figlio
sui sentieri della vita, gli disse:«Non preoccuparti per noi. Tu va’, per il Signore».
Ma un altro sacrificio si stava prospettando per lui: il 10 aprile 1918 fu chiamato alle armi e vi
rimase fino al termine della guerra.
Verrà ordinato sacerdote, finalmente, nel settembre 1925 dopo essersi formato secondo l’ideale
sacerdotale proposto dal Cardinale Andrea Ferrari: «Il prete amerà, ed amerà molto; egli non
scambierà lo zelo con il furore, la prudenza con la debolezza, la semplicità con la pusillanimità»7.
IL CONTESTO STORICO Come crebbe il giovane Luigi? Si possono raccogliere molti elementi attorno ad una data: il 1900.
Esso chiudeva e apriva un secolo e fu il primo Anno Santo dopo 125 anni, dopo un periodo
tragico (e per questo meraviglioso) per la Chiesa. Il secolo precedente si era aperto senza Papa: il
29 agosto 1799 Pio VI era morto in esilio (un eufemismo per non dire: prigioniero) in Francia, a
Valence, ed i giornali avevano annunciato che con la sua morte era finita la Chiesa Cattolica,
poiché dispersi erano ormai i cardinali, ridotti a semplici cittadini; soppresso lo Stato Pontificio e
con esso tutta la Curia romana; confiscati tutti i suoi beni e trasferiti forzatamente a Parigi gli
Archivi Vaticani ed i tesori dei suoi Musei, molti dei quali sono andati perduti per sempre.
Ci vollero sei mesi e il benevolo permesso di Napoleone che ormai aveva preso il potere e
contava sull’appoggio dei cristiani perché i cardinali, riuniti nel monastero protetto dell’isola di S.
Giorgio a Venezia, eleggessero il nuovo Papa, Pio VII. L’inizio di questo pontificato, che
cominciava un secolo nuovo, fu mesto e povero e più che mai evangelico. Non ci fu tempo per
celebrare un anno santo in quei frangenti. Né furono tempi migliori quelli successivi: nel 1825 la 6 Era una delle risposte all’inizio della S. Messa e che, allora, veniva proclamata in latino. 7 Dalla Lettera pastorale dell’ingresso in Diocesi del Cardinale Andrea C. Ferrari.
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tensione per i moti rivoluzionari che agitavano l’Europa, spinse a tenere il Giubileo in modo minore
e nel 1850 il papa preferì sospenderlo perché erano troppo freschi i ricordi dei moti del 1848-49 e
della prima guerra d’indipendenza italiana. Infine, nel 1875, Pio IX si era volontariamente
rinchiuso in Vaticano per protestare contro la mancanza di indipendenza che gli era derivata dalla
presa di Roma, divenuta capitale d’Italia con la breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870.
Ora, nel 1900, tutti speravano si aprisse un secolo nuovo, foriero di speranze e maggior
benessere; che lasciasse il posto dell’odio all’amore; portasse pace e non più guerra; giustizia e
non più violenza; libertà e non oppressione. Forse erano speranze utopiche: i segni della
prepotenza e della violenza erano molto più forti sia in Italia che nel contesto europeo e mondiale.
A queste ombre il papa Leone XIII aveva voluto opporre la speranza e aveva affidato il Giubileo e
il nuovo secolo al Sacro Cuore, consacrandogli l’umanità8.
In molte case, e certamente anche nella casa di Luigi a Cislago, si custodiva con venerazione -
spesso proprio sopra la porta d’ingresso - l’immagine del S. Cuore, che invitava ad avere fiducia
in un Dio che ci ama con tutto il Suo cuore; che vuole sempre il nostro bene, anche quando a noi
sembra difficile crederci.
Come sembra difficile credere all’onestà di certi comportamenti che si verificavano proprio in
quegli anni a Milano, dopo che la promozione sociale favorita dalla Legge Coppino (1876) per
l’istruzione dei bambini nella scuola elementare - con la gratuità e la aconfessionalità della stessa
dai sei ai nove anni di età - dovette fare i conti con la ben poco chiara posizione riguardo
all’insegnamento della religione nelle scuole medesime, sostituita piuttosto da un corso di
educazione ai doveri dell’uomo e del cittadino.
Propriamente Coppino, con la sua legge, non precisava se l’insegnamento della religione fosse
abolito e così alcuni comuni (per esempio Bologna, Brescia, Genova, Napoli, Modena, Torino,
Venezia) interpretarono il silenzio della legge come un’esclusione dell’insegnamento. Altri comuni,
ad esempio Milano, lasciarono liberi i maestri di insegnarla, a seconda dei desideri delle famiglie
degli alunni stessi.
Quando però una maestra fece dire «le preghiere» in classe prima delle lezioni, si scatenò una
polemica tale che si dovette ricorrere ad un’inchiesta che, per vari motivi, si allargò a macchia
d’olio. Poiché i genitori (25.000 sui 27.000 interpellati!) si pronunciarono favorevolmente nei
confronti dell’insegnamento religioso ai figli (così come 32 genitori su 40 avevano approvato le
«preghiere» fatte recitare in classe da quella insegnante), il Consiglio comunale di Milano scelse
lo status quo e si decise che nelle scuole si continuasse come si era fatto fino ad allora. Il
seguente anno scolastico, comunque, la maestra che aveva dato inizio a quella “querelle” ed una
sua collega, furono trasferite per intervento del Ministero. Il caso era risolto ed il problema,
chiuso9.
8 Cfr E. APECITI, Dare la vita, Milano 1998, pp. 23-25. 9 Ibidem, pp. 32-34.
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Il SUO INSEGNAMENTO
Di fronte a questi fatti, sia della vita personale, sia del contesto storico-sociale, cosa ritroviamo
negli scritti di don Luigi e quale insegnamento ne deriva per noi? Lui scrive:
«Lasciatevi condurre; Lui, il Signore, può condurre anche solo me e se mi ha creato, devo
pensare che non mi ha creato a caso…Lui e me. Questa è la realtà; questa è la vita».
Se ripensiamo a questa frase alla luce delle esperienze fatte da lui; alla luce di tutti gli imprevisti,
le partenze e i ritorni (dal Seminario, dalla guerra ecc…) probabilmente riusciremo ad avvertire
quel senso di apertura, di fiducia, di speranza, di sguardo profondo che, già da allora, sapeva
gettare sulla comune realtà quotidiana.
Pensiamo alla fiducia e alla forza interiore di quando afferma: «Il Signore a ognuno ha assegnato
un compito da svolgere sulla terra. Egli ci darà i mezzi per la buona riuscita e anche il premio».
E’ un invito a lasciarsi condurre, animati dalla convinzione che il Signore ci accompagna
personalmente in ogni nostra fatica; che è quasi lì come curvato su ciascuna delle sue creature per
orientarla; per non farla sentire sola; per dirle che nel compito - magari per niente facile - che deve
affrontare c’è una Presenza che ha in mano le fila della storia e che impedirà che tutto venga
travolto dal caos o dal disordine.
Cosa insegna allora a noi questo primo momento degli anni giovanili, delle origini della vita di don
Luigi?
Per prima cosa ci insegna a non avere timore, a non scoraggiarci di fronte al “grigio quotidiano”
(come è stato definito da Giovanni Paolo II).
Il Beato insisteva moltissimo su questo aspetto; quasi tutte le sue Lettere chiudono con un invito,
uno stimolo ad andare avanti nonostante tutto, a credere che il Signore interviene anche e
soprattutto in ciò che a noi sembra impossibile; che la Provvidenza non abbandona le persone.
Certo, non a buon mercato, tanto è vero che: «…E’ poi del tutto secondo l’economia della
Provvidenza che, quando vuol preparare un’anima a maggior perfezione, la fa passare attraverso
molte difficoltà». Ma la difficoltà vissuta con semplice spirito di fede e accettata con paziente
attesa, predispone a volgere lo sguardo sul più grande disegno di bene che Dio ha in cuore per
ciascuna delle sue creature.
Un altro insegnamento riguarda la famiglia. I forti legami che univano la sua famiglia d’origine, i
valori umani e morali che ne costituivano il fondamento, hanno creato un’impronta salda e sicura
dentro di lui. Una famiglia povera, tribolata, “mutilata” per la morte dei fratelli e l’incidente del padre
che rimase paralizzato e fu condotto a morte precoce. Accanto a tanto dolore, però, don Luigi ebbe
anche l’esperienza di una mamma mite, piena di fede, schiva, presente nella vita e nella vocazione
del figlio, dignitosa nella propria condizione di vedova e di povera che sa sacrificare, alla
realizzazione della chiamata sacerdotale, ogni sua necessità e bisogno di sostegno economico ed
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affettivo. E quando don Luigi, nel suo ministero, ripercorse e avvicinò tante situazioni familiari,
così si espresse: «Questi fiori sono i vostri figlioli usciti dalle mani di Dio e consegnati a voi,
genitori, per essere cresciuti, allevati, educati nel santo timor di Dio. I figli sono fatti di imitazione;
vogliono fare quello che fanno i grandi, specie i genitori. Felici quei genitori che ai propri figli
possono dire come già S. Paolo: “Siate imitatori di noi…”». L’imitazione e l’educazione a quel dono
dello Spirito che è il timore di Dio, avevano in lui radice profonde, legate agli affetti più cari.
Infine, si coglie la capacità che ha avuto di proporre ampi orizzonti, di avere un respiro grande,
uno sguardo lungimirante e aperto, di spaziare con il pensiero e il cuore quasi abbracciando una
totalità planetaria pur restando fermo, ancorato alla situazione reale del momento.
In uno scritto leggiamo: «Vedete, questa terra è un giardino per il Signore». Ora, il giardino è il
luogo dove si passeggia, ci si riposa, ci si incontra. All’inizio della creazione è nel giardino che Dio
incontra l’uomo; è nel giardino che gli fa una promessa di salvezza che si compirà, poi, in un altro
giardino, quando la pietra rotolerà via dal sepolcro. Don Luigi, che pur era stato testimone di due
guerre mondiali, ha osato affermare che la terra è un giardino. Perché ha saputo riconoscere i
segni del passaggio, della presenza del divino e perché il suo sguardo sapeva andare oltre le
situazioni del momento; le stesse immagini del momento. In una Lettera indirizzata ad una persona
di Saronno diceva: «Attenta ai molti inganni che può trovare ad ogni passo. Pensi che tutto finisce
e ricordi, in tutte le circostanze, questa frase: questo mi vale per l’eternità».
Dunque, senza confini di spazio nè di tempo.
TESTIMONIANZE
Padre Duval (Beati i poveri in spirito)
Nella lunga fila di nove fratelli, il mio posto era il quinto. A casa mia la religione non aveva alcun
carattere solenne: ci limitavamo a recitare quotidianamente le preghiere della sera tutti insieme.
Mi rimane vivamente scolpita nella memoria la posizione che prendeva mio padre in quei momenti
di preghiera.
Egli tornava stanco dal lavoro dei campi, con un gran fascio di legna sulle spalle. Dopo cena si
inginocchiava per terra, appoggiava i gomiti su una sedia e la testa fra le mani, senza guardarci,
senza fare un movimento nè dare il minimo segno di impazienza.
E io pensavo: mio padre, che è così forte, che governa la casa, che sa guidare i buoi, che non si
piega davanti al sindaco, ai ricchi e ai malvagi!...Mio padre, davanti a Dio, diventa un bambino.
Come cambia aspetto quando si mette a parlare con Lui!
Dev’essere molto grande Dio, se mio padre si inginocchia davanti! Ma dev’essere molto buono, se
si può parlargli senza cambiare il vestito!...
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Non vidi mai mia madre inginocchiarsi: era troppo stanca la sera per farlo. Si sedeva in mezzo a
noi, tenendo in braccio il più piccolo. Indossava un grembiule nero che le scendeva fino ai tacchi, e
lasciava andare i capelli castani in disordine, giù per le spalle. Recitava anche lei le orazioni dal
principio alla fine, senza perdere una sillaba, ma sempre a voce sommessa. E intanto non
smetteva un attimo di guardarci, l’uno dopo l’altro, soffermando più a lungo lo sguardo sui più
piccoli.
Ci guardava, ma non diceva niente. Non fiatava nemmeno se i più piccoli la molestavano,
nemmeno se infuriava la tempesta sulla casa o il gatto combinava qualche malanno.
E io pensavo: “Dev’essere molto semplice Dio, se gli si può parlare tenendo un bambino in braccio
e vestendo il grembiule. E dev’essere anche una “persona” molto importante se mia madre,
quando gli parla, non fa caso nè al gatto, nè al temporale!....
Le mani di mio padre e le labbra di mia madre m’insegnarono, di Dio, molto più che il Catechismo.
Luigi Santucci (Beati i miti)
Carissimi, vi rivolgo questo messaggio per darvi, come meglio ci riuscirò, un conforto. Il passato
non è solo, vedete, una parola, è qualcosa di ben più. Come lo possiamo abitare? Con la memoria
e con l’amore. Vi raccomando, figli cari: date ai vostri bambini l’infanzia più bella possibile, più
favolosa possibile. Un’infanzia soprattutto di pace, di armonia, con lo spettacolo (che a me
purtroppo è mancato) di un’intesa e di un’armonia, possibilmente di un amore che duri e si
approfondisca.
Se posso darvi un viatico, una formula che può sembrare artificiosa ma non lo è, sotto il vostro
tetto, io vi raccomando, sotto gli occhi dei vostri figli, siate espansivi, coccoloni l’uno verso l’altra.
Non cedete - col passare degli anni - alla stanchezza dell’esprimere i vostri sentimenti famigliari.
La vita intorno è spesso tanto crudele, cinica e arida; la vita dev’essere invece "dolcezza", deve
avere la violenza e la testardaggine della dolcezza.
Io vorrei che voi, nell’amare l’altro, scriveste su una vostra ideale lavagna domestica alcune parole
- come dire - più stimolanti, più prepotenti. Le parole... entusiasmo, immaginazione, cocciutaggine;
e magari anche, sì, le parole… pietà, innamorata, memoria, e sogno.
E quando quell’entusiasmo sia minacciato, quando il vostro partner vi abbia un po’ scocciato, o,
magari peggio, irritato e trattato male, allora io vorrei suggerirvi una formula. Voi dovete investirlo allora - il vostro compagno o compagna - di una grande pietà. Una pietà
struggente, materna; ma voglio dire di più: angelica. E andare a immaginarlo (il vostro partner, ma
anche il vostro fratello o sorella, o il vostro amico, secondo il caso) nella sua più lontana infanzia:
quando era innocente, del tutto adorabile, e figurarvelo allora quando lui piccolino, nel gran
caleidoscopio del destino, s’incamminava verso di voi.
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Oppure (facendo tutti gli scongiuri del caso) immaginatela, questa creatura a voi cara, ma con cui
momentaneamente la convivenza si è fatta più difficile, più spinosa, immaginatela al punto della
sua morte. Quando rivede nell’ultima fantasmagoria, come dicono, tutte le cose, le ore vissute con
voi. E si dispera di esservi spiaciuto, di avervi magari offeso.
Se dovessi lasciarvi in questo testamento un solo vocabolo, un solo "grido" di raccomandazione,
sarebbe questo: generosità. Siate generosi, sempre, l’uno verso l’altro, l’uno verso tutti. La
generosità non s’illustra - e me ne guardo bene - con massime né con riferimenti particolari. Vi dico
solo: siate generosi, e poi siate tutte le altre cose. Sarete felici e fortunati. La generosità è la testa
e la coda di quella cosa più grande, metafisica, che è la carità: è il suo aspetto spicciolo e
quotidiano; e vorrei dire che la generosità ha un suo aspetto "sportivo", una sua euforia come
premio immediato; sì, la generosità è la ruffiana della gioia... E la gioia è importante. Credeteci
nella gioia; e andatene a caccia, tutti i giorni.
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SCHEDA N. 2
BEATI GLI AFFLITTI E I PURI DI CUORE
«Beati gli afflitti, perché saranno consolati» (Mt 5,4)
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8)
IL RACCONTO
Il primo ambito del suo ministero sacerdotale si svolse a Vedano Olona, un paese distante da
Varese solo sette chilometri, che contava in quegli anni circa 3600 abitanti, dediti soprattutto
all’agricoltura. La fede della popolazione era viva – come in tutta la diocesi ambrosiana – la
frequenza al catechismo e all’oratorio era generale e molto alta quella ai Sacramenti; consistente
la partecipazione alle Pie unioni, alle Associazioni cattoliche (dalle Figlie di Maria, alle Conferenze
di S. Vincenzo, all’Azione Cattolica) e alle Confraternite, soprattutto quella del SS. Sacramento.
Frequenti erano pellegrinaggi ai Santuari e intensa la devozione alla Vergine.
Don Luigi si inserì con l’entusiasmo tipico di un giovane prete in tutte le attività parrocchiali mentre
era ancora vivo , sullo sfondo, l’esempio di altri sacerdoti che avevano costellato il secolo
precedente con lo stile della carità: da mons. Luigi Biraghi, fondatore delle Marcelline, Istituto
dedito all’educazione cristiana delle ragazze10; a don Luigi Casanova che si dedicò alla cura dei
sordomuti dimessi dai ricoveri, per assicurarne la formazione permanente e l’inserimento sociale
attraverso la costituzione di Case-Lavoro ed infine fondò l’Istituto San Vincenzo per i minorati
psichici11; a don Domenico Pogliani, Fondatore dell’Ospizio Sacra Famiglia per gli Incurabili di
Cesano Boscone, per l’accoglienza di portatori di handicap fisici e psichici provenienti soprattutto
dalla campagna, dove non godevano della stessa assistenza di quelli della città di Milano12; a
Carlo Salerio che, tornato dalla Melanesia, fondò la Casa di Nazareth per la rieducazione delle
giovani pericolanti13; a molti altri, tutti dediti ad opere del cui stile si era fatto erede lo stesso
Cardinal Tosi (che ordinò sacerdote don Luigi) e che nel suo testamento lasciò scritto: «Si
ricordino tutti i sacerdoti, e specialmente quelli in cura d’anime, che dopo la grazia di Dio, il
segreto per lavorare con animo e con frutto in mezzo alle anime, è di amarle e guardarle con
occhio di fede soprannaturale»14.
10 MARY FERRAGATTA, Monsignor Luigi Biraghi Fondatore delle Marcelline, Brescia, Queriniana, 1979. 11 ANGELO RECALCATI, Don Luigi Casanova Fondatore dell’Istituto San Vincenzo, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, 1981, 81-94. 12 GUIDO VIGNA, Dalla Parte degli ultimi. Vita e opere di un parroco di campagna: don Domenico Pogliani, Cesano Boscone, Istituto Sacra Famiglia, 1988. 13 VITTORIA PAPA, La Casa di Nazareth per la rieducazione delle giovani di Padre Carlo Salerio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura i Vittoria Folli, Milano 1981, 25-35. 14 Testamento spirituale, «Rivista Diocesana Milanese» 20 (1929) 77.
13
Uno sguardo che il nostro Beato ebbe sempre, mescolando sapientemente disciplina e carità fin
dai quei primi tempi del suo ministero, i medesimi anni in cui il fascismo si era «tolto la
maschera», come si disse quando Mussolini si assunse davanti al Parlamento (3 gennaio 1925) la
responsabilità dell’uccisione di Giacomo Matteotti.
Con quel discorso, poi, iniziava la dittatura con il suo corredo di prepotenza e di repressione, che
hanno sempre come frutto il dolore e il sangue e, alla fine, travolgono in un gorgo di morte i loro
stessi ispiratori.
Don Luigi impegnò dunque tutte le sue energie nell’Oratorio, tra i ragazzi e i giovani, organizzando
attività sportive, canore, teatrali; tutto con quell’intensità spirituale che aveva plasmato lui stesso,
convinto di due cose: che la missione dell’educatore «è di aiutare i fratelli ad incamminarsi sui
sentieri della gioia evangelica»15 e che con i giovani vale la massima di Claudel: essi «sono fatti
per l’eroismo e non per il piacere».
In questi anni del Fascismo, avrebbe però sperimentato anche su di sé le conseguenze di quel
«Beati gli afflitti». Dopo che venne sciolta la società sportiva dell’Oratorio (Viribus Unitis) per i
continui scontri con l’altra squadra fascista e dopo un attentato organizzato ad arte contro il vice
podestà, don Luigi venne arrestato e, mentre veniva portato via dai carabinieri, ad una giovane
che lo guardava incredula ed addolorata, disse: «Coraggio! Il Signore è con noi! Chi lotta per il
bene non ha nulla da temere!». Queste parole sarebbero state il suo programma per i mesi
successivi. In carcere, dunque, come delinquente comune, senza poter celebrare neppure la
Messa e sottoposto ad estenuanti interrogatori. Ad un amico confidò che si era però ricordato
delle parole evangeliche: «Quando sarete portati davanti ai tribunali a cagione del mio nome,
mettete il cuore in pace e non premeditate le vostre risposte perché io vi darò lingua e sapienza a
cui i vostri avversari non potranno resistere» (Mc 13,9) e questo stesso sentimento di pace fu
quello che lo accompagnò all’uscita del carcere, quando la tentazione di sentirsi un fallito era
veramente grande.
Infatti, nell’obbedienza conseguente ad andare presso il Santuario di Saronno (dopo i pochi mesi
trascorsi a Milano nella parrocchia S. Maria del Rosario) operò un discernimento coraggioso:
poteva rassegnarsi e seguire la via di una malintesa docilità che si trasforma in rancore
scaricando la colpa del proprio fallimento sugli altri, su chi comanda.
Invece intuì che c’era un’obbedienza più alta e più vera da praticare: quella fatta a Dio e che
passa nel cuore dell’uomo. Bisogna coltivare la “purezza di cuore” per comprendere che c’è
l’obbedienza dell’amore: quella di chi crede che la parola “basta” non esiste nel vocabolario della
carità; di chi sa che, alla sera della vita saremo giudicati sull’amore e, dunque, quando vede che il
suo servizio d’amore è impedito, cerca dove possa compierlo meglio.
Il Santuario di Saronno, per un giovane prete di trent’anni, poteva essere il segno di una sconfitta.
Lì non c’era Oratorio e l’unica attesa sembrava quella del confessionale; attesa fatta di
15 PAOLO VI, Es, Ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975, n.5.
14
nascondimento e di silenzio. Eppure lì, la Provvidenza, aveva deciso di annodare in modo
significativo i fili dell’arazzo della vita di don Luigi. Lì, nel confessionale, ascoltò le confidenze di
chi coltivava in sé il desiderio di consacrazione ma, per motivi familiari e ormai di sopraggiunta
età, non poteva realizzarlo secondo i canoni del tempo. Lì, don Luigi pensò alla forma di vita
laicale, di consacrazione, nell’esercizio di una qualsiasi attività professionale e testimoniando lo
spirito di una comunità fraterna: esattamente come i primi cristiani.
Occorre notarlo: il progetto che don Luigi perseguì costantemente fu il frutto di un ascolto;
l’ascolto di fratelli e di sorelle e, con loro, l’ascolto di Dio. Perché solo guardando con gli occhi di
Dio si possono vedere, nei cammini delle persone, i semi che Lui vi ha gettato per cogliere quale
sia la stagione del loro sbocciare e per non lasciarli morire.
IL CONTESTO STORICO Chi avrebbe pensato – proprio negli anni in cui don Luigi diventava sacerdote – che la società
italiana era vuota e il mondo lontano, anzi ostile a Dio e alla Chiesa?
Dal 1924 era iniziata la lotta per il controllo, da parte del fascismo, dell’educazione e la
progressiva eliminazione della libertà educativa continuò negli anni successivi: il 9 gennaio 1927
fu soppressa la FASCI (Federazione Associazioni Sportive Cattoliche Italiane) e il 9 aprile 1928 fu
la volta dell’ASCI ( Associazione Scoutistica Cattolica Italiana). Alle parole accorate di Pio XI
indirizzate al Cardinale di Milano - Ildefonso Schuster ( 26 aprile 1931) - che ribadivano come il
fascismo si dicesse cattolico ma si attendeva che ciò avvenisse non solo di nome ma di fatto, la
reazione del Governo fu durissima: il 29 maggio 1931 Mussolini ordinò lo scioglimento dei circoli
giovanili di Azione Cattolica e della F.U.C.I. Solo il 2 settembre 1931, per la mediazione del Padre
gesuita Pietro Tacchi Venturi e del fratello del Duce, Armando Mussolini, si arrivò ad un accordo
che assicurò la sopravvivenza dell’Azione Cattolica, ma limitandone l’attività al campo religioso e
riducendola ad una entità maggiormente controllabile16.
Per la Chiesa fu un cammino di maturazione: non era ancora accaduto, nella sua lunga storia, che
essa dovesse convivere con regimi totalitari mentre – vale la pena ricordarlo – tutto il mondo di
allora sembrava affascinato da questa forma di governo. Se si percorre una cartina geografica,
se ne ha l’evidenza: accanto alle tre forme più note (Italia, Germania, Unione Sovietica), in
Polonia assistiamo alla dittatura di Rydz Smigly (1926-1935); in Jugoslavia abbiamo la guerra
civile con le violenze degli ustascia e la nascita (10 aprile 1941) dello Stato satellite della Croazia
con a capo Ante Pavelic, feroce nazionalista e, purtroppo, cattolico. In Bulgaria, re Boris non
nasconde la sua ammirazione per i regimi totalitari; in Grecia, dal 1935 abbiamo la dittatura di
Metaxas; in Brasile, nel 1931, abbiamo la rivoluzione di Vargas. In Cina, la guerra civile tra
16 ENNIO APECITI, Li amò sino alla fine, Milano 2009, 52-53.
15
Chang-Kai-Shek e Mao-tse-tung, portò alla leggendaria Lunga Marcia di Mao (1935) ma anche
all’invasione, con metodi disumani, da parte del Giappone17.
Anni tragici, per la dignità degli uomini e la libertà dei cristiani; purtroppo sono avvenimenti poco
conosciuti.
L’inizio simbolico si può porre nell’autunno del 1915, quando il Governo turco decise
l’annientamento del popolo armeno, uno dei popoli di più antica tradizione cristiana: re Corsoe si
era fatto battezzare, insieme al suo popolo, nel 312/313. Erano poi sopravvissuti nell’oceano
musulmano sino all’inizio della prima guerra mondiale, ma l’odio si scatenò; circa due terzi della
popolazione armena fu eliminata per fame, violenza, annegamento, attraverso marce forzate di
centinaia di chilometri, gettate nei dirupi ecc…Solo un quarto degli oltre due milioni di Armeni che
vivevano in Turchia sopravvisse, compresi centomila bambini che vennero salvati perché ceduti a
famiglie turche o curde. Fu una strage di tali dimensioni che non si trovò neppure il vocabolo per
descriverla: ancora oggi viene chiamata “Il Grande Male”, artificio lessicale che serve ad alcuni
Governi e a molti studiosi per negare che quello armeno sia stato il primo genocidio del
Ventesimo secolo, l’inizio della Shoah. E’ certo che Hitler il 22 agosto 1939, illustrando ai suoi
gerarchi i progetti futuri di «purificazione razziale», rispose a chi levava obiezioni: «Chi parla
ancora oggi del massacro degli Armeni?»18.
Allarghiamo ulteriormente il cerchio. In Messico, la persecuzione, iniziata con la Costituzione di
Queretaro (5 febbraio 1917), dopo aver tentato di distruggere il santuario di Guadalupe (novembre
1921) si accanì con la Legge Calles del 1926 che conteneva norme impressionanti: stabiliva la
soppressione delle diocesi e la confisca delle chiese; eliminava tutte le comunità religiose e
proibiva di emettere i voti; aboliva l’insegnamento religioso e puniva i genitori che insegnassero la
religione ai loro figli; erano cancellati tutti i simboli religiosi (nomi, crocifissi, oggetti ecc..). Per
quanto riguarda il clero, oltre all’espulsione dal Messico di tutti i preti stranieri, stabiliva che ci
fosse un solo prete per 15.000 fedeli; ogni sacerdote era tenuto a recarsi ogni giorno in questura,
con obbligo della firma, pena il carcere, come un delinquente comune. Si ha la certezza che
questa persecuzione costò il martirio di 5.300 tra vescovi, sacerdoti e laici impegnati. Per gli altri,
non lo sapremo forse mai su questa terra. Eppure il mondo non mosse un dito. Certo, il 29 giugno
1929, finalmente, su pressione degli Stati Uniti, si arrivò all’arreglo ( cioè all’accomodamento), che
però non ebbe grandi effetti19.
Non meno violento fu il massacro di cattolici in Spagna dove non si volle tanto punire uomini
specifici o loro presunte colpe quanto fu piuttosto un tentativo di far scomparire la Chiesa in sé.
Come scrive lo storico Hugh Thomas: «Mai, nella storia d’Europa e forse in quella del mondo, si
era visto un odio così accanito per la religione e i suoi uomini».
Ci furono casi, come quello del parroco di Navalmorel sottoposto allo stesso supplizio di Gesù, a
17 Ibidem, 54. 18 Ibidem, 55. 19 Ibidem, 56.
16
cominciare dalla flagellazione e dalla corona di spine per finire alla crocifissione sulla porta della
chiesa. Ma anche il martoriato si comportò come il Cristo, benedicendo e perdonando chi lo
tormentava. Ci furono religiosi rinchiusi nel recinto dei tori da combattimento con taglio finale delle
orecchie come per gli animali. Ci furono preti e suore arsi vivi a centinaia. Una donna, “colpevole”
di essere madre di due gesuiti, fu soffocata incastrandole in gola un crocifisso. Ad un certo punto
mancò la benzina, impiegata a fiumi per bruciare non solo gli uomini ma pure le opere d’arte e le
antiche biblioteche della Chiesa: un disastro anche culturale per cieco odio verso la fede.
La casa delle salesiane di Madrid fu assaltata e incendiata e le religiose violentate e ridotte agli
estremi a bastonate dietro l’accusa di dare ai bambini caramelle avvelenate. Le salme delle
monache di clausura furono dissepolte ed esposte in pubblico, per dileggio.
Dal luglio 1936 la strage divenne spaventosa e generalizzata: nei modi più atroci vennero uccisi
4.184 preti diocesani, 2.365 frati, 283 suore, 11 vescovi, per un totale di 6.832 vittime “clericali”.
Decine di migliaia, poi, i laici uccisi anche solo perché trovati in possesso di una medaglietta
religiosa o dell’immagine di un santo20.
IL SUO INSEGNAMENTO Il primo periodo di ministero sacerdotale a Vedano Olona fu dunque breve ma intenso e, come
detto, segnato da una sofferenza che solo pochi conoscono. Il successivo, a Saronno, ebbe i toni
di una ripresa anche se può essere più paragonata ad un terreno incolto da dissodare che alla
raccolta di frutti maturi tipica della stagione avanzata. Ma del resto, cardine e rimando costante
del suo insegnamento fu proprio quello del chicco di grano: solo se accetta e attraversa, nel buio,
il marcimento nascosto e la spaccatura del proprio essere, potrà assistere al momento fecondo
che farà la gioia di chi miete.
Oltre l’immagine e mettendo a fuoco la realtà di dolore e sofferenza costituita dal carcere prima e
poi dalla situazione di dignitosa povertà e di “vigilato politico” (almeno all’inizio) a Saronno, quale,
dunque, il suo insegnamento? Leggiamo: «Non temete la sofferenza e preparatevi ad affrontare
qualsiasi prova che al Signore piacerà mandarvi…». E ancora: «Con Dio, il dolore è gioia. Senza
Dio, la gioia è dolore. Non temete mai il soffrire quando c’è il Signore. Temete piuttosto la gioia
quando non c’è il divino. Preferite piuttosto il dolore alla gioia, perché il dolore porta infallibilmente
i suoi frutti. Quando avete un dolore più forte di voi, avete il diritto di aspettarvi da Dio qualche
cosa di grande, di bello».
Ci si accorge che non sono parole improvvisate ma che trovano radice in una triste, personale
esperienza maturata in carcere tra umiliazioni e incomprensioni di ogni genere. Lì è certo che don
Luigi visse la diffidenza e il sospetto. In fondo la situazione non si sbloccò immediatamente o a
20 VITTORIO MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Milano 1992, p.511 s.
17
breve, come ci si sarebbe potuti aspettare e i ritardi, i rimandi, il silenzio, il grigiore dei giorni tutti
uguali trascorsi in mezzo a gente comune, provata dagli sbagli medesimi a cui aveva ceduto,
sarebbero stati sufficienti per fiaccare qualsiasi resistenza umana oltre a costituire una ferita di
non poco conto nella sua giovane vita sacerdotale. Quel richiamo invece a «qualsiasi prova» vuol
dire che in lui andava maturando anche quella saggezza che conduceva le persone anziane di
una volta a considerare che ciò che il Signore chiede non è mai troppo e che interroga ancora i
più dubbiosi di oggi con la domanda: possibile che debba sempre piovere sul bagnato?
Don Luigi aveva capito le priorità da assegnare quando diceva: «La cosa essenziale è Dio. Nulla
allora turba, scoraggia, preoccupa» e trovava la radice del vero conforto umano e spirituale nel
«farsi coraggio, anche nella sofferenza, perché si sa che Dio è sempre con noi», consapevole poi
che, comunque, «ciò che affligge, ha breve durata».
Ecco, dunque, ciò che può insegnarci: la necessità di perseverare, di essere forti, di non
scoraggiarci pur in mezzo alle più grandi difficoltà perché c’è sempre un fine di bene, “per coloro
che amano Dio” ; c’è sempre un’opportunità nuova regalata a noi proprio in quella situazione, in
quel giorno, in quell’ora che vorremmo allontanare o dimenticare. Anche lui poteva, in fondo,
rassegnarsi e dirsi: pazienza, mi è andata male, come a tanti. Invece perseverò e propose - a se
stesso e chi condivideva con lui le situazioni - una via d’uscita, una misura alta: quella dell’amore.
L’amore, la carità pratica dei primi cristiani; quella che fa vedere nel nemico un amico e dona il
coraggio di alzare lo sguardo, senza ipocrisia, con un comportamento che potrebbe essere
giudicato folle (la follia dei santi!): «Anche se voi morite di dentro, dovete sorridere!».
Un nemico che è facile incontrare anche per noi, tutti i giorni; il nemico che può essere
semplicemente l’altro perchè, dopo il peccato, è percepito così dal mio egoismo: non mi concede
il suo bene; mi fa del male; non mi vuol servire.
Don Luigi l’aveva ben compreso; per questo considerava l’amore al nemico come qualcosa che ri-
crea la persona cioè crea qualcosa dove non c’è nulla. O meglio, mette del bene dove c’è il suo
contrario in modo tale che il male non si raddoppi (come succede se viene restituito) ma si annulli
perché contrastato e vinto con un bene maggiore.
In uno dei “5 Punti”, veri pilastri spirituali lasciati da lui quale cammino di sicura perfezione e
maturazione verso una santità di vita proposta a tutti, leggiamo: «Esercitare la carità con eroismo
e, nel privilegio della persecuzione, dire al persecutore: “…tu mi sari fratello in Cristo”».
Una carità eroica, dunque, che nel suo pensiero ma anche nell’esperienza spicciola della sua vita
presentava due sfaccettature. Innanzitutto il “morire quotidiano” citato nei suoi scritti, fatto di
eroismo nascosto ma reale come se, goccia a goccia, venisse indicato come donare la vita perché
altri ne fossero nutriti e come contagiati da una inattesa fraternità. Solo così – e questo è il
secondo volto – si comprendono appieno le parole utilizzate per accennare al dono totale della
vita, quando la violenza esterna se ne impadronisce.
18
La persecuzione, nel senso vero del termine, è considerata dunque non solo possibile ma
addirittura un “privilegio”. E’ condensata, in questa parola, la conoscenza, la partecipazione,
l’adesione affettiva e spirituale alle persecuzioni che avvenivano in quell’epoca, in Europa e nel
mondo. Il contesto storico appena descritto, ha generato le splendide – ma anche umanamente
terribili – testimonianze con cui la Chiesa ha seguito il Suo Maestro.
Altra sottolineatura è che don Luigi ha avuto la capacità di essere profeta. Profeta è colui che sa
leggere la realtà con gli occhi di Dio e sa bene che Questi è il primo a soffrire del male di cui
l’uomo è vittima. Certo, «il male si aggira come leone ruggente cercando che divorare» leggiamo
nella prima lettera di Pietro, ma non può annientare il bene perché non può annientare Colui che è
il Bene, Dio stesso. Il profeta perciò denuncia il male ma termina sempre con parole di speranza.
Infatti, scrisse:«I premi che vengono dopo il dolore sono il vero bene. Aspettatevi, dopo un dolore
forte, grazie speciali e personali e constaterete come il Signore vi ha ricompensato, a dismisura».
Conosceremo, dal racconto che seguirà della sua vita, quale “dismisura” Dio aveva in serbo per
lui.
TESTIMONIANZE
Josè Sanchez del Rio, Luis Magaña Servìn e i martiri di Guadalajara (Beati gli afflitti) Josè Sanchez del Rio , originario di Sahuayo aveva tredici anni (era nato il 28 marzo 1913) ed
apparteneva agli Aspiranti dell’Azione Cattolica. Erano gli anni della “guerra cristera”, combattuta
dai cattolici messicani come reazione alle leggi antireligiose instaurate dal governo che dapprima
umiliarono e poi perseguitarono apertamente la Chiesa21. Josè, a poco più di dieci anni già
svolgeva un apostolato spicciolo in mezzo ai suoi compagni, insegnando loro a pregare e
accompagnandoli in chiesa per adorare l’Eucaristia. Allo scoppio della “guerra cristera” nel 1926, i
suoi due fratelli maggiori si arruolarono in quella sorta di esercito popolare che cercava di ridonare
al Messico la sua libertà religiosa: lui no, perché con i suoi 13 anni era poco più di un bambino.
Tanto fece e tanto disse, però, che l’anno dopo riuscì a farsi arruolare come aiutante da campo e,
poco dopo, come portabandiera e clarinettista del generale Luis Guizar Morfin. Proprio a
quest’ultimo, nel corso della cruenta battaglia del 6 febbraio 1928 durante la quale il cavallo del
graduato venne ucciso, il piccolo Josè cedette la propria cavalcatura per consentirgli di mettersi in
salvo, perché, diceva, “la vostra vita è più utile della mia”. Non solo: con il suo fucile copri le spalle
21 Potremmo risalire al 1855, quando Benito Juarez preso il potere, diede inizio alla legislazione antireligiosa e nel 1861 fece confiscare tutti i beni della Chiesa. Per dare un’idea della difficoltà di descrivere sinteticamente i fatti, basti ricordare che dal 1841 al 1891, in Messico si verificarono settantadue colpi di stato e si promulgarono trentasei costituzioni. Per approfondimenti: JOSE’ GUADALUPE POSADA, La rivoluzione messicana, Bari 1974. PAOLO GULISANO, Viva Cristo Re! Cristeros: il martirio del Messico 1926-1929, Rimini, 1999.
19
al generale fino a che gli restarono colpi in canna. Scontato che, poco dopo, sul quel ragazzino,
disarmato e appiedato, le truppe federali sarebbero riuscite facilmente a mettere le mani. Per
colmo dello scherno lo rinchiusero nel battistero della sua chiesa, ormai ridotta a stalla ed a
carcere dei “cristeros”. Dall’esterno lo sentivano cantare e pregare ad alta voce, anche quando lo
percuotevano, lo seviziavano e lo insultavano. Non gli fecero alcun processo, perché sarebbe
stato imbarazzante per i suoi carcerieri processare un ragazzo; tentarono piuttosto di fargli
rinnegare la fede promettendogli, oltre alla libertà, denaro a profusione, una brillante carriera
militare, addirittura l’espatrio negli Stati Uniti: tutte offerte respinte con sdegno al grido di “Viva
Cristo Re, viva la Madonna di Guadalupe”. Il 10 febbraio, dopo che il piccolo Josè convinse i
genitori a non pagare il riscatto chiesto loro dal governo e dopo essere riuscito a ricevere di
nascosto la comunione come viatico dalle mani della zia Magdalena, i soldati sfogarono su di lui
tutta la loro ferocia, spellandogli lentamente le piante dei piedi, facendolo camminare sul sale e
trascinandolo senza scarpe su una strada selciata fino al cimitero, mentre il piccolo Josè,
spintonato come Gesù sulla strada del calvario e ormai ridotto ad una maschera di sangue,
continuava a gridare la sua fede. Giunti al cimitero, prima di ucciderlo, gli chiesero cosa avrebbe
voluto dire a suo padre e Josè rispose: «Ditegli che ci rivedremo in cielo». Imbestialiti, i soldati lo
presero a pugnalate dentro la fossa che aveva preparato mentre diceva:«Avanti, ancora un poco
e poi sono con Gesù». Finalmente un colpo di rivoltella lo uccise. Aveva avuto il permesso di
scrivere alla sua mamma un’ultima lettera:«Cara mamma, mi hanno catturato e stanotte mi
fucileranno. E’ venuta l’ora che io ho atteso tanto. Ti saluto insieme ai miei fratelli e ti prometto
che in Paradiso preparerò un buon posto anche per voi tutti».
E’ stato beatificato il 20 novembre 2005 insieme a Luis Magaña Servìn che pure fu membro
dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana. Quando nel febbraio 1928 un gruppo di
soldati dell’esercito Federale occupò il suo paese (Arandas), ordinò che fossero subito arrestati i
cattolici che simpatizzavano con la resistenza attiva contro il Governo. Fra questi vi era Luis che
aveva 26 anni. Non avendolo trovato a casa, lo sostituirono con il fratello più piccolo. Quando Luis
lo venne a sapere, si presentò dinanzi al generale chiedendo la libertà di suo fratello in cambio
della sua: «Io non sono mai stato un ribelle cristero come voi credete, ma se mi si accusa di
essere cristiano, allora sì, lo sono, e se per questo devo essere ucciso, ben venga». Senza
indugi, il militare decretò la sua morte. Poco prima che fosse eseguita la sentenza, nell’atrio della
chiesa parrocchiale, Luis chiese la parola e disse: «Plotone che mi devi uccidere: desidero dirvi
che da questo momento vi perdono e vi prometto che appena sarò alla presenza di Dio, sarete i
primi per i quali intercederò». Detto questo, esclamò: «Viva Cristo Re e Santa Maria di
Guadalupe!». La scarica di proiettili non coprì la sua voce.
Parole simili aveva pronunciato il giovane avvocato (36 anni) Josè Anacleto Gonzàles Flores
sottoposto a torture inaudite – ricordato tra i martiri di Guadalajara – e le sue espressioni ebbero
tale effetto che venti soldati, uno dopo l’altro, si rifiutarono di finirlo. Lo fece il generale Ferreira
20
con sei colpi al cuore.
Al funerale dei martiri di Guadalajara parteciparono 50.000 persone.
Da non dimenticare che furono centinaia i sacerdoti uccisi. Come Padre Elia Nieves, agostiniano,
catturato mentre celebrava Messa in una soffitta. Prima di essere fucilato, disse ai soldati:«In
ginocchio, figli miei. Prima di morire, voglio darvi la mia benedizione». I soldati obbedirono e si
inchinarono per la benedizione. Il capitano del plotone, infuriato per la scena, sparò in pieno petto
al sacerdote, fulminandolo mentre ancora benediceva.
La prima Messa in una piazza messicana fu celebrata il 20 maggio 2000, durante il Primo
Congresso eucaristico dopo la Persecuzione: l’ultimo era stato tenuto nel 192422.
Christian de Chergé23 (Beati i puri di cuore)
Ad- Dio24
Se mi capitasse - e potrebbe essere oggi - di essere vittima del terrorismo che sembra voler
inglobare adesso tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa e
la mia famiglia ricordassero che la mia vita è stata offerta a Dio e a questo paese.
Essi devono accettare che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraneo a questa
partenza brutale. Preghino per me: come potrò essere ritenuto degno di una simile offerta?
Sappiano associare questa morte a molte altre, altrettanto violente e abbandonate nell'indifferenza
e nell'anonimato.
La mia vita non vale più di un'altra. Ma neanche di meno. In ogni caso, non possiede l'innocenza
dell’infanzia. Ho io vissuto abbastanza per ritenermi complice del male che sempre, ahimè, prevale
nel mondo, e anche di quello che mi potrebbe colpire ciecamente.
Mi piacerebbe, quando sarà il momento, disporre di un lasso di lucidità che mi permetta di
sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, così come di perdonare di tutto
cuore a chi mi avrà ferito.
Non posso desiderare una morte di questo genere: mi sembra importante dichiararlo. Infatti, non
vedo come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del
mio assassinio. 22 La nuova Costituzione del 1991 concede alcune libertà religiose. Dal 1992 ci sono relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Messico. Nel 2000 il Partito Rivoluzionario Istituzionale, al potere ininterrottamente dal 1929 (71 anni!), travolto dagli scandali e dalla corruzione, perse le elezioni a favore di Vicente Fox, che in campagna elettorale si proclamò pubblicamente cattolico. 23 Figlio di un militare, conobbe l’Algeria da bambino e vi trascorse ventisette anni di servizio militare in piena guerra d’indipendenza. Dopo gli studi al Seminario dei Carmelitani a Parigi, divenne monaco nel 1959. Nel 1971 si trasferì in Algeria e divenne il priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine. Profondo conoscitore dell’Islam e sotenitore del dialogo interreligioso, il 26 marzo 1996 venne rapito, insieme ai suoi confratelli, da fondamentalisti islamici. 24 Questo testamento è stato pubblicato in appendice a Lettere dall’Algeria, di P. Claverie, Milano 1998, pp.305-307.
21
Costerebbe troppo caro ciò che forse verrà chiamato la «grazia del martirio», se la si dovesse a un
qualsiasi algerino, soprattutto se dice di agire per fedeltà a ciò che crede essere l’islam.
Conosco il disprezzo che ha potuto essere riversato sugli algerini globalmente presi. Nello stesso
tempo sono a conoscenza delle caricature dell'islam incoraggiate da un certo idealismo
disancorato dalla realtà: è troppo facile tacitare la propria coscienza identificando questa via reli-
giosa con gli integrismi dei suoi estremisti.
Per me, l’Algeria e l'islam sono altra cosa: sono un corpo e un'anima. Penso di averlo proclamato a
sufficienza, tenendo conto di ciò che ne ho ricevuto e ritrovandovi così spesso il filo diretto e
conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in
Algeria e già nel rispetto dei credenti musulmani.
Naturalmente, la mia morte sembrerà dar ragione a coloro che mi hanno prontamente considerato
un ingenuo e un idealista: «Dica adesso ciò che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che verrà
infine dato spazio alla mia più lancinante curiosità.
Ecco che potrò, se Dio vuole, immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con lui
i suoi figli dell'islam così come li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua
passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre quella di stabilire la
comunione, e di ricomporre la somiglianza, giocando con le differenze.
Dopo aver perduto questa vita, totalmente mia e totalmente loro, rendo grazie a Dio che sembra
averla voluta tutt'intera per questa gioia, contro e nonostante tutto.
In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di
oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a
tutti i miei familiari, con la certezza del centuplo che verrà accordato come promesso!
E anche tu, amico dell'ultimo minuto, che non ti sarai reso conto di quello che stavi facendo25. Sì,
lo voglio anche per te questo grazie e questo ad-Dio, programmato da te. E auguriamoci di poterci
ritrovare, ladroni beati, in paradiso, se lo vuole Dio, nostro Padre di tutti e due. Amen! Inch’Allah
Algeri, 1° dicembre 1993
Tibhirine, 1° gennaio 1994
Christian
25 Ispirandosi a questo Testamento, Paola Stradi ha scritto le seguenti parole musicate da Thérèse Henderson e Nancy Uellmen: «Il mio ultimo pensiero è per te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi: stanne certo, io ti perdono. E vorrei che sulle mani ti restasse non il sangue ma il profumo di un amore che non sai. Seme che forse sboccerà. Insc’Allah, Insc’Allah, Shalom».
22
SCHEDA 3
BEATI I MISERICORDIOSI E GLI OPERATORI DI PACE
«Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5,7)
«Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9)
IL RACCONTO
Come accadde che don Luigi fu chiamato a vivere la virtù della misericordia? Il 5 agosto 1936 era
morto il parroco di S. Giovanni alla Castagna, in Lecco, e il Cardinal Schuster colse l’occasione
per chiedere ai parrocchiani di rinunciare all’antico privilegio di eleggere il loro parroco,
promettendo che avrebbe inviato loro un parroco «secondo il cuore del Signore». Come fu, don
Luigi, un pastore così? Un primo segno potremmo trovarlo nella risposta che diede ad una sua
parrocchiana, Teresina, quando gli chiese se era contento di essere stato mandato a Lecco come
parroco. Rispose:«Sono contento di fare la volontà del Signore che mi ha chiesto questo»26.
Dunque il primo criterio del pastore è di essere contento di fare la volontà di Dio; di saperlo amare
dove Lui chiama a servire; di amare come Lui che non considerò un tesoro geloso il suo essere
Dio, ma umiliò se stesso, facendosi obbediente al Padre (cfr. Fil 2,5-11).
Pastore secondo il cuore del Signore è anche colui che fa dei Sacramenti della Chiesa il cuore
della sua vita. Tale fu don Luigi. Le testimonianze al Processo di Beatificazione sono concordi
sulla sua devozione mentre celebrava, sulla sua assiduità al confessionale, sulla sua sollecitudine
per le persone ammalate. Egli aveva il dono raro, oltre che di leggere nei cuori, anche di
comunicare con il cuore; di far percepire che credeva in quello che celebrava e diceva.
Amore e devozione all’Eucarestia rendevano le sue processioni sempre solenni e raccolte e,
secondo alcune testimonianze, capaci di portare il sereno anche quando il cielo minacciava
pioggia. In tanti poi hanno deposto di averlo visto, all’alba, già in Chiesa e comunque era noto a
tutti i parrocchiani che la luce accesa a lungo, nella notte, faceva compagnia al parroco raccolto in
preghiera accanto al tabernacolo. Del resto, non è stato trovato – e forse non lo sarà mai – un
apostolato più fecondo di quello fatto con la preghiera.
Il suo zelo pastorale si manifestò non solo nell’impegno a mantenere le strutture tradizionali della
parrocchia, ma a cercare di adattarle ai nuovi tempi e soprattutto di renderle vive; di riempirle di
contenuto. Si può pensare alla cura che ebbe per la catechesi, per le Confraternite, per l’Azione
Cattolica. Non si tratta di fare un elenco di attività, delle riunioni che, soprattutto in quel tempo,
avevano una scadenza programmata. Bisognerebbe invece intuire dalle sue parole quale fosse lo
26 Dalla Relazione: “Alcune note su don Luigi Monza a chiarimento di alcuni fatti della sua vita parrocchiale a S. Giovanni di Lecco”, Archivio delle Piccole Apostole di Ponte Lambro (Como).
23
spirito che proponeva, quali fossero alcuni suoi punti formativi. Per lui era talmente importante la
catechesi – o “dottrina”, come si diceva allora – che giunse a formulare un paradosso: «E’ meglio
ascoltare la S. Dottrina che la S. Messa. Perché, se ascoltano la S. Dottrina, ascolteranno pure la
S. Messa, ma se non vengono alla Dottrina a poco a poco lasceranno di venire anche alla
Messa». In sintesi, era la cura della formazione dei giovani e dell’apostolato dei laici ciò che lo
muoveva, in profonda sintonia con il suo Cardinale che, senza sosta, insisteva su queste realtà.
Nella parrocchia don Luigi cercò di accogliere tutti, in particolare sia durante la guerra che dopo. I
testimoni ricordano l’ospitalità discreta agli sfollati, cui mise a disposizione la sua casa; ai
partigiani, che nascose o rifornì di viveri; agli ex-fascisti, che aiutò a sfuggire alle vendette e,
quando le subirono, ne persuase i parenti al perdono, convinto che «il cristianesimo è nato e
cresce sulla misteriosa legge del perdono». Anche per questo fu “operatore di pace”.
Non si limitò poi alla cura del gregge raccolto nell’ovile, ma cercò di incontrare anche i lontani. I
testimoni raccontano: «Si intratteneva con gli uomini; magari quando li vedeva in osteria, li
avvicinava, pagava loro da bere»27. Ancora: «Ricordo che sopra casa mia abitava un certo
Bonacina, comunista sfegatato. Quando si sposò la figlia, don Luigi colse l’occasione per
avvicinarlo. A quei tempi non era consuetudine celebrare la Messa, ma don Luigi in questo caso
l’ha celebrata»28.
In questi stessi anni in cui svolgeva il suo ministero pastorale a Lecco, don Luigi continuò a
coltivare quel sogno o quella intuizione che, a poco a poco, prendeva forma e si visibilizzava
attorno a persone che, come si diceva precedentemente, non avevano potuto realizzare la loro
consacrazione in ambiti religiosi ben noti. Don Luigi si chiese in che forma, con quali modalità
dare concretezza alla intuizione. E fu una forma innovativa all’interno della Chiesa, che riconobbe
gli Istituti Secolari, il 2 febbraio 1947, con la promulgazione della Costituzione Apostolica «Provida
Mater Ecclesia».
Le prime persone che aderirono a questo progetto di presenza secolare nel mondo ma con un
impegno radicale di consacrazione a Dio - così come don Luigi l’aveva pensato - furono persone
qualsiasi, che non portavano esteriormente segni distintivi di appartenenza ed erano immerse a
pieno titolo nella società di allora; all’inizio con impegni di tipo spirituale (Corsi di Esercizi) o
assistenziale, quando nel periodo della seconda guerra mondiale si trattò d accogliere gli sfollati.
Ma a queste “anime volonterose” - come furono definite le “Piccole Apostole della Carità” (questo
il nome dell’Istituto Secolare) nella prima bozza di Costituzioni stilata da don Luigi - si stava
aprendo, per mano della Provvidenza, un altro campo di azione. Nel 1946, il direttore dell’Istituto
Neurologico C. Besta di Milano, Prof. Vercelli, chiese di occuparsi dei bambini portatori di
handicap psichici. La proposta venne accettata, come modalità concreta di esprimere quella
fraternità che trovava la sua radice nella carità dei primi cristiani e degli apostoli, nucleo di
ispirazione del carisma delle Piccole Apostole. 27 Dalla testimonianza di Giuseppina Dell’Oro, Archivio delle Piccole Apostole di Ponte Lambro (Como). 28 Dalla testimonianza di don Franco Colombo, Archivio delle Piccole Apostole di Ponte Lambro (Como).
24
Nasceva così l’Opera apostolica denominata – per scelta stessa di don Luigi – “La Nostra
Famiglia”: cura, riabilitazione, amore. Scienza e tecnica, al servizio della carità. E’ bello trovare un
parallelismo nello stesso impegno di parroco così come don Luigi lo portò avanti nella sua
parrocchia: cura delle anime a lui affidate, come il pastore buono che va in cerca della pecora
smarrita; riabilitazione delle anime che, per debolezza umana, per sventura o per qualsiasi altro
motivo avevano bisogno di rinfrancarsi in un nuovo cammino di speranza, con nuove possibilità di
accoglienza e perdono; amore verso tutti, in genere, ma in particolare verso i più poveri, perché
sono quelli che Dio predilige; sono coloro che, se invitati a pranzo o destinatari di un favore, non
possono contraccambiare; tutte persone che – magari anche ricche esteriormente – sono troppo
deboli, vulnerabili o ferite dalla vita e manifestano una infinita sete d’amore.
Don Luigi vide che il mondo si allontanava da Dio e, anziché scoraggiarsi, scelse uno stile
preciso: l’icona della chiesa primitiva. Con il desiderio di testimoniarlo; non di predicarlo, di tenere
relazioni, di fare simposi ecc… ma «facendo assaporare la gioia di vivere fratelli, in Cristo». Con
una carità che diventa pratica, che si fa famiglia, che mette tutto in comune. Come lui, parroco-
pastore con i suoi parrocchiani. Come “La Nostra Famiglia” si propose e si propone di fare
attraverso le persone che lì vi operano. Come le Piccole Apostole cercano di fare in qualsiasi
parte del mondo si trovino (Italia, Africa, Brasile, Ecuador, Cina) e in qualsiasi servizio siano
impegnate.
L’Istituto, l’Opera nata non fu dunque qualcosa che don Luigi coltivò accanto e oltre il suo essere
parroco; fu il frutto maturo di un prete che non potè fare molto ma aveva seminato il sufficiente. Fu
qualcosa che nacque dal suo cuore di parroco, dall’esercizio della misericordia affidata alle mani
ed al cuore del prete. Nacque dal suo essere «Pastore secondo il cuore di Dio».
IL CONTESTO STORICO
Negli anni del ministero apostolico di don Luigi a Lecco, si aggirava come uno spettro per l’Europa
ed era quello che annunziava “l’annientamento scientifico” della Chiesa. Vale a dire, la Chiesa,
anche in Europa e in alcune parti del mondo, si trovava nelle stesse condizioni dei primi secoli:
era in missione. E’ sufficiente ricordare tre momenti – quasi tre spaccati – delle vicende storiche
per rendersene conto e capire ancora meglio come la proposta di un ritorno alle sorgenti, allo
stile, al pensiero, ai gesti dei primi cristiani potesse risuonare come un antidoto «»all’imperante
egoismo pagano», come don Luigi lo chiamava.
Innanzitutto la situazione in Germania, dove la Santa Sede tentò di salvare il salvabile attraverso
una troppo rapida firma del concordato con Hitler (luglio 1933). Purtroppo esso si rivelò inutile:
dopo pochi giorni dalla sua firma, il Führer varò la legge per la sterilizzazione degli ammalati fisici
e psichici e per l’inizio della persecuzione agli Ebrei. Poco dopo, la stampa cattolica, compresi i
25
bollettini parrocchiali, fu soffocata; le grandi associazioni cattoliche di beneficenza si videro
confiscati tutti i beni; la Gioventù hitleriana cercò di assorbire le organizzazioni giovanili cattoliche,
come era già successo in Italia.
Si diede inizio ad una campagna di denigrazione del clero, fornendo grandissima pubblicità ad
ogni processo contro ecclesiastici: per raccogliere prove, la polizia segreta invadeva i conventi e
si fece in modo che ci fosse almeno un processo per settimana.
Pio XI cominciò a denunciare pubblicamente le violazioni della libertà operate dal nazismo e a
inondare il Führer di note diplomatiche di protesta29, oltre a bollare le leggi razziste. Considerato
però l’accanirsi del Nazismo contro la Chiesa, Pio XI passò a gesti clamorosi: contro una precisa
norma governativa che “impediva attacchi e critiche inconciliabili con le esigenze della politica
statale”, scrisse un’enciclica. Dopo averla fatta stampare e diffondere segretamente, quando fu
certo che era pervenuta a tutte le parrocchie tedesche, ordinò che nella domenica delle Palme, da
tutti i pulpiti tedeschi si leggesse l’enciclica Mit brennender Sorge (marzo 1937). Fu un momento
drammatico: la stampa tedesca la ignorò per alcuni giorni, mentre la Gestapo si scatenò alla
caccia dell’enciclica, chiudendo tutte le tipografie in cui fu trovata30. Il fatto merita attenzione non
solo per le sofferenze che generò nel mondo cattolico tedesco e austriaco, ma anche per la
fortezza d’animo con cui alcune persone dimostrarono, a costo della vita, che la libertà non può
essere incatenata. Se ne parlerà nelle Testimonianze.
Non furono anni tranquilli neppure in Italia se si pensa che nel 1938 Mussolini, nel momento di
acuta tensione, in seguito all’alleanza con il Nazismo dovette promulgare le leggi razziali.
La risposta del Papa fu chiara: «Cattolico vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico,
separatistico…Questo spirito di separatismo finisce con non essere neppure umano». In effetti,
nel settembre dello stesso anno furono emanate le prime norme discriminatorie: gli ebrei furono
esclusi dall’insegnamento e dalle scuole; espulsi dalle Forze Armate, dalle Accademie, dagli
Istituti d’Arte e in genere dagli Uffici pubblici. Nell’ottobre fu proibito agli Ebrei l’ingresso in Italia e
in novembre, il giorno dopo la famosa Notte dei cristalli31 quando in Germania furono devastati i
negozi degli ebrei, si dichiarava nullo ogni matrimonio di un italiano con una persona non ariana.
Papa Ratti sostenne anche la chiara posizione del Cardinal Schuster manifestata in un discorso
aperto nel Duomo di Milano, lodandone l’insegnamento che rientrava esattamente nei suoi doveri
pastorali. Infine, mentre procedeva la persecuzione antisemita, diede disposizione ai Vescovi
degli U.S.A. e del Canada perché si adoperassero a facilitare l’ammissione nelle loro Università di
studiosi ebrei espulsi dalla Germania.
29 Cfr ENNIO APECITI, Li amò sino alla fine, Milano 2009, 59. Durante il processo di Norimberga, il Ministro degli Esteri del Reich, von Ribbentrop, dichiarò che gli era francamente impossibile affrontare il Führer sull’argomento del Vaticano. 30 Ibidem, 58-60. 31 Ibidem, 65. Da ricordare che la Kristallnacht vide la distruzione delle Sinagoghe e di 7500 negozi appartenenti ad Ebrei di cui circa 26.000 furono deportati in campi di concentramento. (LEON POLIAKOV, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, 1995).
26
Morì mentre stava organizzando un progetto di espatrio degli Ebrei in Brasile32.
Infine, per completare un necessario quadro storico, occorre accennare al mondo comunista e
alla persecuzione nell’Unione Sovietica. Il libro nero del comunismo individua circa novantaquattro
milioni e mezzo di vittime, considerando solo quelle strettamente riconducibili all’oppressione
comunista e la cui eliminazione è documentabile: le cifre complessive altrimenti raggiungerebbero
valori umanamente impensabili.
Un’impresa, un genocidio cominciato subito dopo l’ascesa di Lenin al potere, che in questo modo
espresse il suo giudizio: «La religione è una sorta di gin spirituale nel quale gli schiavi del capitale
annegano la loro forma umana e le loro esigenze ad una qualsiasi vita umana decente»33.
Con la concessione di poter fare chiara propaganda antireligiosa, si diede inizio alla terribile
persecuzione della Chiesa ortodossa ma non fu meno drammatica la sorte dei cattolici. Il progetto
di annientamento del cristianesimo era lucido. Non a caso nel 1932 fu pubblicato il Piano
quinquennale antireligioso che aveva come scopo di “mettere al bando” l’idea di Dio in cinque
anni. Dal 1936, Stalin riformò la Costituzione in vista della costruzione dello Stato comunista: altri
15 milioni di uomini conobbero lo sterminato Arcipelago Gulag, descritto da Solgenitsin.
Fu la più spaventosa persecuzione che la Chiesa abbia vissuto nella sua storia: quella di
Diocleziano durò solo otto anni; questa quasi quaranta.
Anche in questo caso, la decisione di chi, pur potendo salvarsi insieme alla sua famiglia scelse di
rimanere fedele alle persone e ai luoghi dove questa sofferenza si consumava, verrà ripresa nelle
Testimonianze.
E le notizie venivano diffuse – magari non con tutta l’ampiezza di visione “critica” di cui si può
beneficiare solo a distanza di tempo – ma certamente L’Osservatore Romano informava il mondo
cattolico;così anche don Luigi ne era al corrente. Alla luce di ciò comprendiamo meglio alcune sue
espressioni, mentre l’insegnamento che ci sentiamo rivolgere ci tocca ancor più da vicino.
IL SUO INSEGNAMENTO
Anche questa terza tappa del percorso, del racconto di una vita, è fruttuosa per quegli sprazzi di
luce che possono indicare un cammino o comunque incoraggiarci ad osservare le realtà più
semplici con occhi diversi.
Don Luigi era stato mandato a Lecco e, se si considera che questo luogo è agli estremi della
Diocesi ambrosiana, si può pensare come questo ulteriore spostamento poteva essere vissuto
con la tentazione di abbandonare tutto, compreso il sogno, l’intuizione del nuovo germoglio che
stava sbocciando. In fondo fu don Luigi stesso che, in una confidenza all’amico Dajelli espose
chiaramente il vissuto di essere mandato «lontano dai miei giovani, creando non poche difficoltà 32 Ibidem, 66. 33 Ibidem, 60.
27
anche nel seguire l’Opera». Era oggettivamente vero, ma come visse realmente questo distacco e
cosa lasciò a noi come insegnamento?
Innanzitutto don Luigi si pose in una linea di ubbidienza, consapevole di un valore che gli
spalancò il cuore perché «nell’ubbidire è la vera libertà»; disponibile anche a lasciare il progetto
tanto amato perché nella vita «ci si prefiggono chissà quali mete ma poi ci si accorge che si è
nulla e che solo si è tutto nelle mani di Dio». Questo perché «ci si deve convincere che l’ideale
non è quello che ci mettiamo in testa noi, bensì quello che stabilisce Dio per noi». Possiamo perciò affermare che è stato capace di aprire il cuore all’inatteso, all’inaspettato:
capacità che può avere solo una persona interiormente libera, non legata da interessi, rigidità di
schemi, programmi stabiliti. E’ la capacità di chi , con autentica saggezza evangelica, legge nei
fatti quotidiani le timide proposte – non i “comandi” – che Dio rivolge a ciascuno mentre attende la
nostra risposta: «il Signore non impone mai nulla; è estremamente delicato. Ti dice: vuoi? Sempre
e solo: se vuoi…». Don Luigi non aveva fatto previsioni a breve o lungo termine; è stato
semplicemente attento e aperto alle circostanze della vita, ai reali bisogni dei fratelli, ai richiami
che lo Spirito gli suscitava dentro. Ha avuto anche uno sguardo di concretezza sulle possibilità
umane di realizzazione; sui limiti e sui difetti al punto che poteva scrivere: «Il Signore forse
vorrebbe di più ma si accontenta, pur dovendosi accontentare».
Pensando all’Opera che definiva «Opera di Dio» non si fissò rigidamente in un solo ambito; anche
perché per lui, l’Opera per eccellenza era la Carità: come categoria mentale innanzitutto, poi come
prassi di comportamento, come fedeltà al Vangelo. Questa è l’Opera di Dio: siamo noi che
umilmente e docilmente ci lasciamo catturare dal suo amore. I gesti vengono di conseguenza.
La sua libertà interiore, poi, si radicava in un’idea e in una visone di Dio come Padre e questo gli
permetteva di stabilire con Lui una relazione autentica, non basata su precetti, regole o
adempimenti esteriori ma un rapporto amicale e fiducioso: «Dio è Padre e, come tale, è
impossibile che dopo averci dato la vita non ce la conservi. Egli però mira al bene e permette,
qualche volta, che soffriamo…però è fedele e non vuole che la prova sia superiore alle nostre
forze; quando meno ce l’aspettiamo, ecco sopraggiungere il conforto». Pensava certamente non
solo ai momenti di sofferenza personale ma anche a tutta la gamma di sofferenze con cui, come
pastore, entrava in contatto e al dolore che attraversava in quei tempi l’umanità. Eppure si
mantenne sereno, sempre, perché diceva: «sappiamo di avere a che fare con un Dio buono e
misericordioso e che ci verrà accordato il perdono. Davvero tra gli attributi di Dio, più che la
potenza e la sapienza, spicca maggiormente la bontà».
Da questa bontà don Luigi stesso attingeva ogni giorno uno stile di misericordia con cui avvicinare
le persone; per cui esercitò sì la misericordia delle opere materiali ma, ancor più, quella delle
opere spirituali, per esempio la misericordia come apertura disponibile del cuore che si manifesta
nell’ascolto attento, paziente, cordiale per consigliare l’interlocutore secondo il disegno di Dio. Un
disegno che andò anche per lui chiarendosi cammin facendo, come quel sentiero intravisto e
28
intrapreso a Saronno che divenne, a Lecco, strada dal tracciato chiaro e sicuro. Una chiarezza e
una forza che non si improvvisano ma che si consolidano giorno dopo giorno nella fedeltà e nella
costanza della preghiera: «…quella di un’anima umile, che si riconosce indegna di essere
esaudita; quella che penetra nei cieli».
TESTIMONIANZE
Pavel Florenskij34 (Beati i misericordiosi) Figlioli miei carissimi…abituatevi, imparate a fare tutto quel che fate con passione, ad avere il
gusto del bello, dell’ordine; non disperdetevi, non fate niente senza gusto, a qualche maniera.
Ricordatevi che, nel «pressapochismo» si può perdere tutta la vita e, al contrario, nel compiere in
maniera ordinata, armoniosa, anche cose e opere di secondaria importanza, si possono fare tante
scoperte, che poi vi serviranno come sorgenti profondissime di nuova creatività…
E non solo. Chi fa «a qualche maniera», impara a parlare nello stesso modo, e la parola trascurata
implica poi di conseguenza anche un pensiero confuso.
Figlioli miei carissimi, non permettete a voi stessi di pensare in maniera trascurata. Il pensiero è un
dono di Dio, richiede che ce ne prendiamo cura.
Essere chiari e responsabili nel proprio pensiero è il pegno della libertà spirituale e della gioia del
pensiero.
Era tanto che volevo scrivervelo: guardate più spesso le stelle. Quando provate dolore nell’anima,
guardate le stelle oppure l’azzurro del cielo. Quando vi sentite tristi, quando qualcuno vi offende,
quando non vi riesce qualcosa oppure vi sopraffà la tempesta interiore, uscite fuori e rimanete a tu
per tu con il cielo. E allora la vostra anima si placherà.
Non rattristatevi e non datevi pena per me. Se sarete lieti e coraggiosi, ne sarò confortato anch’io.
Sarò sempre con voi nell’anima e, se il Signore lo permetterà, verrò a voi di frequente per vegliare
su di voi.
Vi prego miei cari, quando mi seppellirete, di fare la comunione in quello stesso giorno, o se
questo proprio non dovesse essere possibile, nei giorni immediatamente successivi. E in genere vi
prego di comunicarvi spesso dopo la mia morte.
La cosa più importante che vi chiedo è di ricordarvi del Signore e di vivere al suo cospetto.
Con questo, vi ho detto tutto quello che ero in grado di dirvi. Il resto non sono che dettagli o
particolari secondari. Ma questo non dimenticatelo mai.
34 Uomo di fede e di scienza, teologo, fisico e matematico, ordinato sacerdote nella Chiesa Ortodossa in Russia. Dopo la rivoluzione del 1917, iniziano le persecuzioni da parte del regime sovietico ma Pavel rifiuta di seguire in esilio gli altri intellettuali per rimanere accanto alla sua gente. Muore nel 1937, fucilato in un bosco nei pressi di Leningrado dopo aver passato anni nelle Solovki, le “isole dell’inferno”.
29
Franz Jägerstätter (Beati gli operatori di pace)35
Scriverò solo qualche parola, così come essa mi esce dal cuore. Scrivo con le mani legate, ma è
meglio così che se fosse incatenata la volontà. Talvolta Dio ci mostra apertamente la sua forza,
che Egli dona agli uomini che lo amano e non preferiscono la terra al cielo. Né il carcere, né le
catene e neppure la morte possono separare un uomo dall'amore di Dio e rubargli la sua libera
volontà. La potenza di Dio è invincibile.
Siate ubbidienti e sottomettetevi alle autorità: queste parole vi arrivano oggi da ogni parte, anche
da persone che non credono quasi per nulla in Dio e alle Sacre Scritture.
Se ci si dedicasse con la stessa assiduità con cui si è tentato di salvarmi dalla morte terrena a
mettere in guardia ciascun uomo contro il peccato mortale, e perciò contro la morte eterna, ci
sarebbe davvero già il paradiso in terra.
C'è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli. Forse le azioni che si
compiono diventano giuste solo perché si è sposati e si hanno figli? O forse l'azione è migliore o
peggiore solo perché la compiono anche altre migliaia di cattolici?
Forse anche fumare è diventato una virtù perché lo fanno migliaia di cattolici? Si può allora anche
mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo
stesso non ha forse detto: «Chi ama la moglie, la madre e i figli più di me non è degno di me»?
A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volontà se non ci è neppure concesso,
come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o
ingiusta? A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male?
Io credo che si possa anche prestare cieca obbedienza, ma solo se così facendo non si danneggia
nessuno. Se al giorno d'oggi gli uomini fossero un po' più sinceri ci dovrebbe essere, credo, anche
qualche cattolico che dice: «Sì, mi rendo conto che quello che stiamo compiendo non è bene,
tuttavia non mi sento ancora pronto a morire».
Se Dio non mi avesse dato la grazia e la forza di morire, se necessario, per difendere la mia fede,
forse farei semplicemente ciò che fa la maggior parte della gente. Dio può infatti concedere la
propria grazia a ciascuno come Egli vuole. Se altri avessero ricevuto le molte grazie che ho
ricevuto io, forse avrebbero fatto cose molto migliori di me.
Forse molti pensano di essere tenuti a sopportare il martirio e a morire per la loro fede solo quando
si pretenderà da loro di abbandonare la Chiesa. Io mi azzardo a dire molto apertamente che chi è
pronto a soffrire e a morire, piuttosto che offendere Dio con il più piccolo peccato veniale, è anche
disposto a morire per la propria fede. Questi avrà maggior merito di chi viene condannato pur di
non abiurare pubblicamente la Chiesa, perché in questo caso si ha semplicemente il dovere, se
non si vuol commettere peccato grave, di morire piuttosto che obbedire.
35 Contadino cattolico di Sankt Radegund, un paesino dell’Alta Austria,; un uomo comune che finisce con la condanna a morte per il suo rifiuto di essere «soldato di Hitler». Aveva scelto di non servire l’esercito del Terzo Reich e di non combattere per la sua affermazione in Europa.
30
Un santo disse: «Anche se una sola menzogna detta per adeguarsi alle circostanze permettesse di
spegnere tutto il fuoco dell'inferno, non bisognerebbe dirla perché mentendo, anche per necessità,
si offende Dio». Qualcuno potrà pensare che simili considerazioni nel XX secolo possono
sembrare ridicole. Sì, è vero, noi uomini siamo cambiati in molte cose, ma Dio non ha tolto uno iota
dai suoi comandamenti. Perché poi si vuole sempre cercare di rimandare la morte, come se non si
sapesse che prima o poi dovrà arrivare? Forse i nostri santi si sono comportati così? Non credo
proprio. O forse dubitiamo della misericordia di Dio, come se potesse davvero aspettarci l'inferno
dopo la nostra morte. In realtà me lo sarei meritato, con i miei numerosi e gravi peccati, ma Cristo
non è venuto nel mondo per i giusti, bensì per cercare ciò che era smarrito. E affinché nessun
peccatore debba avere dubbi, ce ne ha dato un esempio proprio in punto di morte, salvando il
buon ladrone.
Non avremmo mai alcuna serenità su questa terra se sapessimo che Dio, il Signore, non ci
perdona e perciò dopo la morte dovremo vagare per sempre nell'inferno. Se pensieri del genere
non portano alla disperazione l'uomo, ciò significa che egli non crede più in una vita oltre la morte,
o che si immagina l'inferno come un locale di divertimenti, dove c'è sempre allegria. Se un nostro
buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di
prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la
vecchiaia? Non credo proprio. E cos'è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un
lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un
momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive
del paradiso? Naturalmente non dobbiamo dimenticare che prima ci dovremo purificare nel
purgatorio, ma esso non dura in eterno e chi in vita si è sforzato di aiutare con le proprie preghiere
le povere anime dei morti ed è stato devoto alla Madre di Cristo può essere sicuro di non doverci
stare a lungo. Si potrebbe quasi svenire nel pensare alle gioie eterne del cielo! Come ci rende
subito felici una piccola gioia che proviamo in questo mondo! Eppure che cosa sono le brevi gioie
terrene rispetto a quelle che Gesù ci ha promesso nel suo regno?
Nessun occhio ha mai visto, nessun orecchio ha mai udito e nessun cuore d'uomo ha mai
conosciuto ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano36.
36 Questo testo, tratto dalle annotazioni stese in carcere nel periodo successivo alla condanna del 6 luglio 1943, è stato definito il testamento spirituale di Franz Jägerstätter, ed è conservato nella basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina, luogo memoriale dei testimoni della fede del XX e XXI secolo, affidata da Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant'Egidio. I testi di Franz Jägerstätter qui riportati sono tratti da F. Jägerstätter, Scrivo con le mani legate, a cura di G. Girardi, Piacenza, Editrice Berti, 2005.
31
SCHEDA 4
RALLEGRATEVI ED ESULTATE
«Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,12)
IL RACCONTO
Dopo gli anni spesi in un servizio senza misura, vale la pena concentraci, in questa ultima parte
del racconto, sul brevissimo periodo della prova finale: la malattia e la morte; in tutto, un mese.
Merita, perché al di là dei fatti successi, si coglie, in estrema sintesi, il senso di tutto quanto don
Luigi ha vissuto e delle scelte operate. In fondo è “dalla fine” che si capisce l’inizio e si ha una
migliore visione d’insieme; è dalla meta che si guarda al cammino compiuto; è da come ci si
“consegna” che acquista valore ogni gesto precedente.
La prova suprema, cui tutti siamo chiamati, fu dunque quella della morte di don Luigi. Si sapeva
che soffriva di disfunzioni cardiache ma si potevano benissimo legare a reazioni emotive. Si erano
manifestate, ad esempio, nel 1950, in occasione dell’annuncio dell’approvazione dell’Istituto
Secolare delle Piccole Apostole della carità. Una nuova manifestazione si era avuta al momento
della morte della mamma (17 aprile 1953). Il fisico, perciò, era già provato e non lo aiutarono
certamente l’espandersi dell’Opera - come l’apertura della nuova casa per i bambini disabili a
Varazze - e gli impegni parrocchiali, resi più esigenti dalla visita pastorale del cardinale Schuster
(nel 1952) con quel richiamo a darsi tutto ma ad una sola attività: o la Parrocchia o l’Opera.
Nei mesi estivi del 1954 si manifestarono i primi disturbi che si acuirono in concomitanza con la
celebrazione di un funerale (sarebbe stato l’ultimo). Don Luigi non volle mancare ai suoi doveri di
parroco: il defunto era un uomo rimasto a lungo lontano dalla Chiesa e che proprio lui, con la carità
del pastore, aveva avvicinato e persuaso a ricevere quelli che allora si chiamavano “gli ultimi
sacramenti”: l’Unzione degli infermi e il Viatico. Fu consigliato e si persuase almeno a non
accompagnare la salma al cimitero, come era solito fare. Confidò che si sentiva molto male e ci si
accorse presto che si trattava di un problema cardiaco grave.
Visse i suoi ultimi giorni e le sue ultime ore in una grande serenità; si potrebbe dire in una
atmosfera di gioia pacata ma sicura, capace di irradiarsi attorno come una specie di effetto alone.
Notarono in lui la capacità di vero abbandono nelle mani del Signore, ben espressa nella risposta
data a chi lo interrogava: «Cosa sta dicendo al Signore?». E lui: «Che sono contento di fare la sua
volontà». Dunque, non un’accettazione passiva ma quasi l’espressione di una riconoscenza che
permette, nella fatica, di dimostrare un bene ancora più grande. Del resto: «E’ nella prova che si
diventa forti e si chiarifica il vero amore».
E’ pertinente citare anche la dichiarazione di Maria Valsecchi, testimone al Processo di
32
Beatificazione: «Diceva che era contento anche di morire, perché l’Opera era di Dio. Era molto
sereno e fiducioso. Gli rincresceva morire per l’Opera ma, se questa era volontà di Dio, metteva
nelle sue mani l’Opera e tutto». Perché, quali le radici di questa gioia serena?
Don Luigi sapeva che l’invito alla gioia scandisce la storia della salvezza: da Abramo, il cui figlio
Isacco, anche solo nel nome è un richiamo alla gioia (Isacco vuol dire: il sorriso di Dio oppure Dio ti
sorrida) alla Pasqua mosaica. La gioia è il costante invito dei profeti, riassunto in quell’inno di Isaia
che è diventato segno del Natale: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande
luce…Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (Is 9,1). Anche il Vangelo è un invito alla
gioia, sin dall’inizio: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo…»
(Lc 2,10). La gioia è la compagna del cristiano, anche nella sofferenza della prova. Fëdor
Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov, fa dire allo starec Zosima: « La vita è un paradiso e noi siamo
tutti in paradiso, ma non vogliamo capirlo; e invece, se volessimo capirlo, domani stesso il mondo
intero diventerebbe un paradiso…Il paradiso è nascosto dentro ognuno di noi».
La mancanza di parola fu, per don Luigi, la sua ultima croce. Dopo ogni visita di qualcuno che gli
era stato amico, balbettava: «Pazienza, pazienza». E la pazienza è una nota caratteristica della
gioia; quella che gli fece dire – quando notava i volti e gli sguardi preoccupati -: «Vedrai, vedrai,
ma vedrai» e noi non abbiamo ancora finito di vedere mentre “i suoi occhi hanno visto la salvezza”
(cfr Lc 2,30).
IL CONTESTO STORICO Alla celebre espressione di Leon Bloy: «Non vi è che una sola tristezza: quella di non essere
santi» fa riscontro, in un’immagine positiva sulla quale possiamo soffermarci un momento, la
schiera dei santi e beati che popolano le circa 3.400 statue posizionate nel Duomo di Milano. Tra
queste - dal 1° novembre 2008 - quella del Beato Luigi Monza, sul capitello della colonna a destra
dell’altare della Madonna, a 18 metri di altezza.
Mettiamo a fuoco l’immagine, in questo ultimo scorcio di contesto storico, anche solo per dire che
don Luigi non fu “isolato” nel suo cammino verso la santità, anzi, la Chiesa ambrosiana in
particolare vanta diversi beati o santi, anche recenti.
Nella sua morte lo aveva preceduto di un mese il suo cardinale, il beato Alfredo Ildefonso
Schuster, che proprio tre anni prima aveva incoronato l’immagine della Madonna di Varigione, in
Lecco (tanto cara a don Luigi). Allora, il 29 giugno 1951, congedandosi, il cardinale aveva detto:
«Preghi per me, curato, perché come io ho incoronato la Vergine in terra, così Lei incoroni me un
giorno, in cielo». Furono “incoronati” a distanza di un mese, l’uno dall’altro: il cardinale il 28 agosto
1954 e il parroco il 29 settembre del medesimo anno. Accanto a loro lo erano e lo sarebbero stati
un nugolo di uomini e donne che hanno fatto definire la Chiesa di Milano «terra di santi» e che «a
33
Milano, la santità sembra di casa». Oltre ai due cardinali che scandirono la vita stessa di don Luigi,
il cardinale Andrea Carlo Ferrari beatificato il 10 maggio 1987 e il cardinal Alfredo Ildefonso
Schuster beatificato il 12 maggio 1996, non possiamo non ricordare Giovanni Battista Montini –
Papa Paolo VI – la cui causa di canonizzazione è in fase avanzata. Ma don Luigi trovava altri
confratelli ad aspettarlo in cielo: il beato Serafino Morazzone parroco anche lui di una zona non
lontana da S. Giovanni di Lecco; il beato Luigi Biraghi che fu direttore spirituale nel Seminario di
Corso Venezia in Milano e venne beatificato con lui il 30 aprile 2006; il beato Luigi Talamoni che
aveva mosso i suoi primi passi sacerdotali proprio presso quel Collegio S. Giuseppe di Monza
(allora era un Seminario) dove lui aveva cominciato il suo cammino di seminarista, come prefetto.
Dopo due anni lo avrebbe raggiunto il beato Carlo Gnocchi (beatificazione: 25 ottobre 2009) che
aveva iniziato il percorso sacerdotale proprio insieme a lui.
Vale la pena osservare che la “categoria” di santità che caratterizza questi beati è la carità. E
questo ricorda le parole stesse di don Luigi: «Chi vuole essere apostolo, pratichi la carità, vada in
aiuto di chi soffre, rinunci al superfluo e, visitando i poveri, conoscerà veramente la povertà. Chi
può, dia; chi non può, preghi. Nulla è mai troppo al servizio di Dio».
La santità è un servizio d’amore per l’umanità intera. Infatti: «Come non è concepibile un
cristianesimo senza amore, così non è concepibile un cristiano senza l’espansione della sua carità
che deve abbracciare tutto il mondo. Non dite: “Io voglio salvarmi”; dite invece: “io voglio salvare il
mondo”. Questo è il solo orizzonte degno di un cristiano, perché è l’orizzonte della carità».
In questo ampio orizzonte non vanno però ricordate solo figure sacerdotali ma anche i laici che
hanno seguito e raggiunto il cammino della perfezione: Gianna Beretta Molla, esempio di santità
matrimoniale beatificata nell’aprile 1994; Marcello Candia, imprenditore, divenuto missionario in
Amazzonia; Giuseppe Lazzati, che certo conobbe e collaborò con don Luigi perché fu a lungo
responsabile dell’Azione Cattolica Milanese e fu fondatore lui stesso di un Istituto Secolare.
Tutte queste persone – beatificate o in cammino per esserlo – insieme a tante altre, rendono lungo
l’elenco dei santi. Si può solo contemplarli insieme, per ringraziare e per sentire che essi sono per
noi una grazia, una garanzia e un impegno. Una grazia perché ogni beato è “esempio” di Dio e
conduce a Lui. Una garanzia perché ci rendono sicuri che, attraverso la loro intercessione, Dio
ascolterà la nostra preghiera. Un impegno perché tutti – noi insieme a loro – siamo chiamati alla
santità e perché…«si legge nella storia del cristianesimo che i pagani si convertivano non tanto per
i miracoli, quanto piuttosto per il disprezzo che i primi cristiani avevano della gloria e del denaro».
Le tre tentazioni più subdole e più diffuse – dell’avere, del potere e dell’apparire – minano ancora
oggi alla radice la fragilità umana. Ma proprio in questo siamo chiamati a resistere e a diventare
“come loro”, santi e beati, (Se questi e queste, perché non io?); non per gloria, ma per esempio:
per essere in pienezza come Lui ci desidera; per ritornare, insieme, a quella Casa da cui tutti
veniamo.
34
IL SUO INSEGNAMENTO
Dando uno sguardo retrospettivo, si potrebbe riassumere così l’insegnamento offerto da don Luigi
non solo negli tempi della sua vita terrena, ma nella visione d’insieme da lui colta e attualizzata in
silenzio e nel nascondimento: il tempo quotidiano è l’ora della fedeltà e della santità.
Innanzitutto la categoria “tempo” da lui vissuta - forse non completamente consapevolizzata -
come categoria di qualità, come tempo pieno, tempo sacro: ricco di senso e di contenuti che sono
poi i doni a noi offerti o i compiti che ci vengono assegnati37. Il tempo come luogo fondamentale in
cui vivere, con costanza e tenacia, il servizio della carità e il servizio della fede. Il quotidiano,
vissuto non come categoria disancorata da un passato che si fa ri-cordo (riportare al cuore) grato e
da un futuro che lui viveva certamente nell’abbandono alla Provvidenza, ma come banco di prova
delle realtà ritenute essenziali per una vita da spendere in pienezza. Ricordando che, sempre:
«Tutto si può risolvere con un gesto generoso dinnanzi al Signore».
Don Luigi viveva il suo quotidiano con totale fiducia nella Provvidenza, senza pre-occuparsi - «Non
abbiate preoccupazioni che vi ammazzino» cioè senza mettere prima una occupazione, pur giusta,
quale è il lavorare, il servire, senza aver prima chiesto al Signore di donargli, nell’oggi che aveva
davanti, la forza di compiere la sua volontà.
Nel quotidiano, era certo che Dio era contento di lui - «Dio è contento di quello che possiamo o
facciamo noi» - e che gli avrebbe dato la forza necessaria per compiere il suo dovere. Per questo
possiamo dire che fu nella fedeltà quotidiana dei primi anni a Vedano Olona, che pose le
premesse alla sua vocazione alla santità. Come fu nella fedeltà quotidiana del confessionale a
Saronno che maturò l’ascolto dello Spirito, l’intuizione di una via nuova, cui obbedire nonostante le
prove subite e l’incomprensione di chi gli stava intorno. Cioè, fu nella quotidianità fedele che egli
svelò la sua vocazione di prete e fondatore, anche se non volle mai che lo si chiamasse così
perché: «Unico Fondatore è Dio».
Fu nella fedeltà quotidiana – anche fedeltà alla prova quotidiana (pensiamo alla malattia del padre,
alla continua interruzione degli studi, al carcere) – che si svelò la sua vocazione alla santità. Il
Papa Giovanni Paolo II, nella Novo Millennio ineunte, parlava (n.31) di una “pedagogia della
santità”, di una educazione ad una misura “alta”, impegnativa che però , nello stesso tempo, è
ordinaria perché è il modo naturale di essere di un cristiano, di un figlio di Dio e dunque di tutti gli
uomini, indistintamente.
La santità - quella di don Luigi e quella a cui tutti noi siamo chiamati - non è dunque un incidente di
percorso perché, se così fosse, non si potrebbe imitare; è la normale vocazione di chi sa di essere
creato a immagine di quel Dio il cui nome è santo (Lc 1,49). L’uomo non è fatto di terra, come
spesso si dice, ma di Cielo ed è per questo che…«I nostri piedi devono essere sulla terra ma i
37 Cfr ARMIDO RIZZI, Il problema del senso e il tempo, Assisi, 2006.
35
nostri occhi devono essere rivolti al cielo». Don Luigi, con la sua vita ordinariamente santa, ci
ricorda che possiamo e dobbiamo guardare con occhi diversi anche alle prove, alle sofferenze, alla
morte.
Chi conobbe don Luigi in quel tempo - quando moriva - al di là della ristretta cerchia di Lecco e del
seme appena gettato a Varazze e a Ponte Lambro, oltre certamente ai personaggi della Curia
arcivescovile? Eppure la quotidianità fu il luogo della sua santità, perché fondata e costruita con
«quella carità che non si arresta a metà strada».
La santità passa dunque per la quotidianità, per la normalità: «fare straordinariamente bene le
cose ordinarie…perché la santità non è quell’eroismo che dura pochi attimi…occorre dare la vita e
darla tutta». La santità passa per la fedeltà alle cose di ogni giorno, ai doveri di ogni giorno, ai
compiti di ogni giorno, cogliendo in ognuno di essi la proposta che Dio rivolge: «Vuoi? Se vuoi, Io ti
do il modo di praticare l’amore».
Don Luigi è morto da quasi 60 anni e potrebbe venire spontaneo domandarsi: ma oggi, cosa ci
direbbe di nuovo, quale insegnamento ci indicherebbe, adatto ai nostri tempi così diversi dai suoi?
Tentazione sottile, proprio perché ragionevole e comprensibile. Ma tentazione. Perché è carisma
dei santi la capacità di essere adeguati ai tempi sempre nuovi.
Sta a noi, dunque, scoprirlo, magari ripercorrendo le linee di sempre ma sempre nuove del
Vangelo che anche lui ha ripercorso lasciandoci quelle preziose perle della sua spiritualità - da
infilare nella collana della nostra vita – di cui la più splendente è stata l’amore al nemico. Lui è
diventato santo così; ora la sfida è per noi.
TESTIMONIANZE Annalena Tonelli (Rallegratevi e gioite) E’ tempo di concludere…La vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la
mia religione non ha tanti e poi tanti comandamenti ma ne ha uno solo; che non serve costruire
cattedrali o moschee, né cerimonie, né pellegrinaggi…che quell’eucarestia che scandalizza gli atei
e le altre fedi racchiude un messaggio rivoluzionario: «Questo è il mio corpo fatto pane perché
anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini». Se non amo, Dio muore sulla terra; se non amo,
Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo
ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito.
Vorrei aggiungere che i piccoli, i senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo, ma
tanto agli occhi di Dio, i suoi prediletti, hanno bisogno di noi e non importa nulla se la nostra azione
è come una goccia d’acqua nell’oceano. Gesù non ha mai parlato di risultati. Lui ha parlato solo di
lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdonarci sempre…I poveri ci attendono. I modi del servizio sono
36
infiniti e lasciati all’immaginazione di ciascuno di noi. Non aspettiamo di essere istruiti nel campo
del servizio. Inventiamo….e vivremo nuovi cieli e nuova terra ogni giorno della nostra vita38.
Madeleine Delbrel (sull’ordinarietà e l’importanza delle piccole cose per diventare santi) C’è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n’è altra che Egli lascia nella moltitudine, che
non “ritira dal mondo”. E’ gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive
un’ordinaria vita da celibe. Gente che ha malattie ordinarie e lutti ordinari. Gente che ha una casa
ordinaria e vestiti ordinari. E’ la gente della vita ordinaria. Gente che s’incontra in una qualsiasi
strada. Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo
amano la porta che si è richiusa definitivamente sopra di essi. Noialtri, gente della strada,
crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è
per noi il luogo della nostra santità. Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché, se
questo necessario ci mancasse, Dio ce lo avrebbe già dato39.
Le piccole circostanze della vita sono dei “superiori” fedeli. Non ci lascano un attimo ed i “sì” che
dobbiamo dir loro si succedono gli uni agli altri. Quando ci si abbandona ad esse senza resistenza,
ci si ritrova meravigliosamente liberi da se stessi…Il trillo del telefono. La chiave che gira male
nella toppa. L’autobus che non arriva, che è zeppo, o che se ne va senza aspettarci. Il nostro
vicino di sedile che occupa tutto il posto, o il vetro che vibra fino a stordirci. E’, ancora,
l’ingranaggio della giornata…E’ il tempo con le sue variazioni raffinate… E’ l’aver freddo o avere
caldo, l’emicrania o il mal di denti. La gente che si incontra. Le conversazioni che i nostri
interlocutori scelgono. Il signore maleducato che ci urta sul marciapiede. Le persone che hanno
voglia di perdere tempo e che ci acchiappano…E’ piegarci alle manie della nostra epoca. E’ avere i
vestiti di tutti, le abitudini di tutti, il linguaggio di tutti…Quando ci saremo abituati a consegnare la
nostra volontà all’arbitrio di tante piccole cose, non troveremo più difficile, all’occasione, fare la
volontà del nostro caposervizio, di nostro marito, dei nostri genitori. Allora possiamo sperare che ci
sia facile anche la nostra morte. Non sarà una cosa grande, ma una successione di piccole
sofferenze ordinarie accettate una dopo l’altra.40
38 A cura di M.FAGIOLO D’ATTILIO e R. ZANINI, Io sono nessuno, Cinisello Balsamo (MI), 2004, pp 212-215. 39 Cfr MADELEINE DELBREL, Noi delle strade, Milano 2005. 40 Cfr MADELEINE DELBREL , La gioia di credere, Torino 1970.
37
CONCLUSIONE
Di don Luigi si è concluso il Processo di Beatificazione il 30 aprile 2006 in piazza Duomo a Milano.
I Santi, come già detto, sono una garanzia: l’uomo non sarà mai solo nel suo cammino. Gli uomini
tutti sono, oltre che individui splendidi nella loro singolarità, anche fratelli e sorelle. Dio stesso ha
voluto che gli uomini lo comprendessero. Per questo è venuto a farsi «fratello»; perché le creature
formassero la sua grande famiglia, la Chiesa: questa «casa dell’uguaglianza, della fraternità; dove
ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, grandi e piccoli, uomo o donna sono uguali davanti a Dio.
Perché a tutti è annunciata la stessa parola; a tutti sono fatte le medesime promesse. Dove il
povero sente la sua dignità e il ricco comprende la sua missione. Reciproco nasce il rispetto e ,
dal rispetto, l’amore che li avvicina».
Lo ha ricordato anche Benedetto XVI ai giovani di Colonia: «La Chiesa è come una famiglia
umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio […] è bello appartenere ad una
famiglia vasta come il mondo, che comprende il cielo e la terra, il passato, il presente e il futuro. In
questa grande comitiva di pellegrini camminiamo insieme con Cristo, camminiamo con la stella
che illumina la storia».
Ripercorrendo la vita del Beato, attraverso il racconto fatto, ci si è accorti che sia in lui, sia nel
contesto in cui è scorsa la sua esistenza, si sono verificati elementi di opportunità per vivere le
Beatitudini evangeliche in maniera attualizzata. Ma con quale significato per lui? Vediamole, così
come sono state presentate.
Nella mitezza e nella povertà vissute da don Luigi riecheggiano le parole evangeliche «Imparate
da me che sono mite e umile di cuore» (Lc 14,1.7-14). Lui non si è mai appoggiato su se stesso,
sulle proprie forze ma ha confidato totalmente in Dio; privo di qualsiasi potere e mettendo a
disposizione le proprie energie, la propria esistenza, i propri doni per un servizio senza misura.
Nell’afflizione e nelle prove in cui è trascorsa la sua vita, non si è rammaricato al punto da non
riuscire a realizzare quanto aveva in animo, ma piuttosto, con vera purezza di cuore, ha compiuto
la volontà di Dio e solo quella, riservando unicamente a Lui l’obbedienza di un cuore indiviso.
Ha compiuto le opere di misericordia descritte nella Parola, seguendo l’invito di Gesù: «Va’ e
anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37). Come vero operatore di pace, ha seminato e lavorato per la
pace soprattutto là dove c’era amarezza, delusione, scontento, desiderio di rivalsa.
Le Beatitudini sono state per lui uno stile di vita; un colore e una tonalità di azione.
E’ anche vero che ognuno di noi ha la “sua” beatitudine41; ciò che lo rende felice, nella misura in
cui sa far felici gli altri: «Fate contenti i vostri fratelli sulla terra e Dio farà felici voi, in cielo».
La beatitudine di don Luigi si può riassumere così: «Se vi dicessero…vorrei scrivere la vita del
cristianesimo in un bel volume; questo volume in una pagina; questa pagina in una riga; questa
riga in una sola parola, noi gli risponderemmo dicendo: scrivi “Amore”».
41 CARLO MARIA MARTINI, Il discorso della Montagna, Milano 2006, p. 52.
38
E alla sua gioia di amare, Dio stesso gli ha risposto con un’altra beatitudine, un altro augurio di
“felicità”: «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà occupato in tal maniera! In verità, vi
dico che lo costituirà su tutti i suoi beni» (Mt 24 45-51).
A tutti coloro che hanno avuto la pazienza di giungere al termine della lettura completa di questo
contributo, potrebbe restare un’ultima perplessità.
Come fare, nelle situazioni in cui ciascuno si trova, per corrispondere in pienezza all’invito
evangelico come fece don Luigi e, come lui, altri testimoni conosciuti o semplici persone la cui
memoria si manterrà viva solo in Dio?
Non è sufficiente la semplice indicazione: va dove ti porta il cuore! Perché il cuore umano,
separato al centro come la Via Lattea, ha desideri tra loro contrari (cfr Gl 5,17) che bisogna
ascoltare e conoscere bene. Diceva Solženicyn nel suo “Arcipelago Gulag”: «La linea che separa
il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore? Nel
corso della vita quella linea si sposta, ora sospinta dal male, ora liberando il posto per il bene che
fiorisce». La questione è dunque ardua e sempre sottoposta a serio discernimento per ciascuno.
Si racconta anche che «le Sirene, affascinanti e demoniache abitatrici di un isola a occidente delle
grandi acque, metà donne e metà uccelli, con la malia del loro canto seducevano irresistibilmente
i naviganti che dovevano passare per quello stretto di mare. E li facevano tutti perire contro gli
scogli. Nel suo viaggio di ritorno, Ulisse tappò con cera gli orecchi dei suoi compagni, perché non
le udissero e ne fossero sedotti. Quanto a sé, si fece saldamente legare all’albero maestro, per
sentirne la voce senza subirne le conseguenze disastrose. Orfeo, invece, intonò un canto più
melodioso che incantò le Sirene, lasciandole mute e di sasso»42.
Allora, come fare per non lasciarsi ingannare dalle Sirene di oggi che intonano canti nelle
direzioni più diverse e certamente non favoriscono il cammino di chi si lascia ammaliare? Non
basta mettere la cera negli orecchi - impossibile, perché il canto risuona dentro il cuore - né giova
farsi legare all’albero maestro, bello ma atroce!
Occorre invece liberare il “canto migliore”, quello che ognuno di noi conosce e sa esprimere;
quello che ci costruisce nella completezza della nostra persona; quello che realizza la nostra
santità: «Una grande santità, come Dio vuole e il mondo attuale richiede».
42 Cfr SILVANO FAUSTI, Occasione o tentazione, Milano 1997
39
APPENDICE
PROSPETTO CRONOLOGICO DELLA VITA DI DON LUIGI MONZA E DEL PROCESSO DI BEATIFICAZIONE
1898: 22 giugno, il Servo di Dio nasce a Cislago (Va) da Pietro e Luigia Monza ed è battezzato
nella Chiesa di S. Maria Assunta. 1899: 23 luglio, riceve il sacramento della Cresima dall'arcivescovo di Milano il Beato Andrea
Carlo Ferrari. 1904: Luigi viene iscritto alla prima elementare maschile. Come risulta dai registri della scuola,
egli dovette ripetere la classe seconda nell'anno 1906/07. 1905: maggio: Luigi fa la prima Comunione e la frequenza alla mensa eucaristica diventerà
quasi quotidiana. 1913: settembre: Luigi viene mandato dal parroco don Luigi Vismara con due altri ragazzi
all'Istituto Salesiano di Penango Monferrato (Asti). Una gravissima infermità del padre, costringe il Servo di Dio a trascorrere al paese i mesi estivi.
1916: il parroco don Vismara propone di fargli ottenere un posto gratuito presso un seminario diocesano.
1916: 1° ottobre: Luigi entra nel Collegio Villoresi di Monza come prefetto. 1917: 16 gennaio: muore il padre. 1918: 10 aprile: viene arruolato nell'esercito italiano. 1919: 20 febbraio: viene congedato.
marzo-giugno: termina gli studi della quinta ginnasio nel Collegio Arcivescovile di Saronno. Prosegue con gli studi liceali.
1922-24: frequenta il 1° e il 2° corso di teologia presso il Collegio Rotondi di Gorla Minore (Va). 1924-25: frequenta il 3° e il 4° corso di teologia presso il Seminario di Corso Venezia a Milano. 1925: 28 giugno: è ordinato suddiacono; 15 agosto: è ordinato diacono.
19 settembre: è ordinato sacerdote e nominato coadiutore presso la Parrocchia di San Maurizio in Vedano Olona (Va), di cui è parroco don Pietro De Maddalena.
1927: notte fra il 28 e il 29 giugno: vengono esplosi dei colpi di pistola contro un gerarca. Don Luigi Monza viene incarcerato e accusato di tentato omicidio (17 luglio 1927). Dopo quattro mesi viene scarcerato, ma gli viene ingiunto di non mettere più piede a Vedano. E’ destinato alla Parrocchia di S. Maria del Rosario in Milano.
1928: novembre: è trasferito al Santuario di Nostra Signora dei Miracoli a Saronno. 1933: incontro con Clara Cucchi che diventa sua penitente. 1936: 23 ottobre: è nominato parroco di San Giovanni alla Castagna di Lecco. 1937: acquisto del terreno di Vedano Olona. 1938: Clara Cucchi è eletta "prima superiora".
13 luglio a Teglio comincia la prima esperienza di vita comune delle prime tre Piccole Apostole della Carità.
30 settembre: apertura della casa di Vedano Olona. 1940-45: la casa di Vedano viene occupata dagli sfollati. 1945: don Luigi Monza e Clara Cucchi presentano un primo abbozzo dell'opera a S.E. il card.
Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano. Il fine dell'opera è quello di «penetrare nella società con la carità dei primi cristiani».
1946: gennaio: il prof. Giuseppe Vercelli propone al Servo di Dio di occuparsi dei bambini anormali psichici.
1947: 2 febbraio: Pio XII pubblica la Costituzione apostolica Provida Mater. 1949: 20 dicembre: erezione canonica delle Piccole Apostole della Carità. 1950: 18 gennaio: l'arcivescovo di Milano, beato Card. Ildefonso Schuster erige la «Pia
unione» in Istituto secolare di diritto diocesano. 18 febbraio: muore Clara Cucchi a San Remo. 1952: 7-8 luglio: visita pastorale alla chiesa di S. Giovanni alla Castagna del Card. Schuster. 1954: 29 settembre: il Servo di Dio muore a San Giovanni di Lecco.
40
1968: 10 novembre: trasporto della salma del Servo di Dio dal Cimitero di S. Giovanni alla Cappella dell'Istituto di Ponte Lambro (Co).
1987: 23 giugno: Nihil obstat della Santa Sede all'inizio del Processo di Canonizzazione. 24 novembre: prima sessione del Processo diocesano sulla vita e le virtù e la fama di
santità del Servo di Dio. 1991: 23 febbraio: conclusione del Processo diocesano. 1993: 22 gennaio: dichiarazione di validità del Processo diocesano. 21 giugno: apertura del Processo sul miracolo attribuito a don Luigi. 1994: 1 giugno: conclusione del Processo sul miracolo. 1997: 22 giugno: la Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis viene depositata presso la
Congregazione per le Cause dei Santi a Roma. 2003: 20 giugno: la Positio viene esaminata da una Commissione di nove teologi che danno
parere positivo. Anche la Commissione composta da Vescovi e Cardinali, riunitasi il 2 dicembre, si esprime positivamente.
20 dicembre: il Santo Padre Giovanni Paolo II firma ed emette il decreto che dichiara Venerabile il Servo di Dio don Luigi Monza.
2004: 26 novembre: viene presentata la Positio relativa al miracolo. La Positio viene esaminata da una Commissione di medici che esprimono parere favorevole. Lo stesso parere viene espresso dalla Commissione dei teologi e identico giudizio viene espresso dalla Commissione dei Cardinali e dei Vescovi.
2005: 19 dicembre: il Santo Padre Benedetto XVI avvalla il decreto relativo al miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio don Luigi Monza.
2006: 30 aprile: a Milano il Venerabile Servo di Dio don Luigi Monza è proclamato Beato. dicembre: Papa Benedetto XVI promulga il “Breve Apostolico”, l’Atto ufficiale della
beatificazione, testo manoscritto su pergamena e sigillato con il sigillo papale. E’ un importante documento che ratifica la causa di beatificazione di don Luigi Monza.
41
42
INDICE
PRESENTAZIONE pag. 3
INTRODUZIONE » 4
SCHEDA N. 1 – BEATI I MITI E I POVERI IN SPIRITO » 6
- Il racconto » 6
- Il contesto storico » 7
- Il suo insegnamento » 9
- Testimonianze » 10
SCHEDA N. 2 – BEATI GLI AFFLITTI E I PURI DI CUORE » 13
- Il racconto » 13
- Il contesto storico » 15
- Il suo insegnamento » 17
- Testimonianze » 19
SCHEDA N. 3 – BEATI I MISERICORDIOSI E GLI OPERATORI DI PACE » 23
- Il racconto » 23
- Il contesto storico » 25
- Il suo insegnamento » 27
-Testimonianze » 29
SCHEDA N. 4 – RALLEGRATEVI ED ESULTATE » 32
- Il racconto » 32
- Il contesto storico » 33
- Il suo insegnamento » 35
- Testimonianze » 36
CONCLUSIONE » 38
APPENDICE: Prospetto cronologico della vita di don Luigi Monza » 40
e del processo di Beatificazione
INDICE » 42