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4 “In bona salute de animo e de corpo”. Malati, medici e guaritori nel divenire della storia di Giovanna Motta Una storiografia specializzata proveniente dai settori delle scienze esatte ha coniugato magistralmente saperi tecnici e memoria storica mostrando il lungo cammino dell’evoluzione del pensiero scientifico e ponendo in evidenza le scansioni temporali che segnavano l’avanzamento del sapere in maniera particolarmente significativa. L’impegno per così dire istituzionale degli storici della medicina ha dato luogo a una corposa messe di opere che si sono avvalse - in prevalenza, se non esclusivamente - delle conoscenze tecnico-scientifiche maturate in seno alle proprie discipline, alle quali nel tempo se ne sono aggiunte quelle di altra provenienza settoriale. Dopo le avanguardie dei primi del Novecento, negli anni Settanta, storici europei di diversa matrice hanno ampliato il loro campo di indagine e anche in Italia, dove la ricerca si era rivolta principalmente alla storia politico-istituzionale, gli studiosi si sono aperti ad altri ambiti rivolgendo la loro attenzione a temi economici e sociali che coinvolgevano ogni aspetto delle società. Dopo il racconto dei grandi avvenimenti e della storia dei grandi personaggi a livello individuale, si andava costruendo una storia collettiva, comprensiva degli eventi che riguardavano gli uomini comuni: come vivevano, cosa mangiavano, come si vestivano, come si curavano coloro che avevano costituito le masse senza voce, quando attendevano ai loro mestieri nella vita di tutti i giorni o quando seguivano in battaglia condottieri illustri le cui gesta sarebbero arrivate fino a noi? Al contempo si assumeva la piena consapevolezza di quanto fosse necessario connettere quella storia alle altre scienze sociali, come avevano mostrato in anticipo Marc Bloch, Lucien Fevre, Fernand Braudel e i molti altri studiosi riuniti intorno alle due famose riviste Past and Present e Les Annales, cenacolo di intellettuali illustri. Superata così la centralità della storia “a una sola direzione”, i ricercatori hanno cominciato a indagare su temi un tempo considerati minori come la famiglia, l’alimentazione, l’abbigliamento, la malattia, segnando il passaggio verso l’ampio contesto della storia sociale e della civiltà materiale. Una tale rilevante transizione metodologica poteva avvalersi ormai dell’applicazione sistematica dell’interdisciplina e diventava la premessa per il conseguente impiego di un metodo che non conosceva confini tematici e di conseguenza proponeva l’utilizzo di fonti che fino a quel momento erano state trascurate o non erano state considerate valide. Alle opere nate da quella impostazione in Francia e in Inghilterra si venivano ad aggiungere appropriate traduzioni di testi stranieri che consentivano sempre meglio l’accesso a un patrimonio comune agevolato dalla felice accessibilità linguistica. Le scienze sociali, e con esse la storia, conquistavano un’articolazione sempre più ampia e guardavano ormai allo sviluppo dell’economia, alla fisionomia delle città, al carattere produttivo e climatico del territorio, e così via, cioè a ricerche inedite condotte in modo nuovo, in relazione agli uomini, alle loro esistenze quotidiane, al loro quadro psicologico. Nel lavoro svolto nel corso di molti anni secondo tale metodo, nelle indagini sulle classi sociali, sulle strutture della parentela, sul ruolo della donna, sui circuiti dei beni alimentari, su temi insomma di rilievo sociale, la salute e la malattia non potevano non suscitare domande e curiosità, così nel tempo è germogliata l’idea di raccogliere alcune riflessioni sorte nell’ambito dell’esperienza dei non/medici per dare voce a storici, letterati, economisti , demografi, giuristi, i quali attraverso fonti a loro congeniali, quasi improprie - cioè poste in essere per altri fini e qualche volta del tutto non contigue al settore della medicina - raccontassero delle realtà interessanti, forse neppure troppo note, che meritavano di essere raccolte. Viste nell’ottica della storia sociale - in un contesto di lungo periodo attraverso il quale in presenza di una infinita molteplicità di avvenimenti e di implicazioni si snoda il processo della complessa evoluzione delle società - le sorti della Sapienza Università di Roma

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“In bona salute de animo e de corpo”. Malati, medici e guaritori nel

divenire della storia

di Giovanna Motta

Una storiografia specializzata proveniente dai settori delle scienze esatte ha coniugato

magistralmente saperi tecnici e memoria storica mostrando il lungo cammino dell’evoluzione del

pensiero scientifico e ponendo in evidenza le scansioni temporali che segnavano l’avanzamento del

sapere in maniera particolarmente significativa. L’impegno per così dire istituzionale degli storici

della medicina ha dato luogo a una corposa messe di opere che si sono avvalse - in prevalenza, se

non esclusivamente - delle conoscenze tecnico-scientifiche maturate in seno alle proprie discipline,

alle quali nel tempo se ne sono aggiunte quelle di altra provenienza settoriale. Dopo le avanguardie

dei primi del Novecento, negli anni Settanta, storici europei di diversa matrice hanno ampliato il

loro campo di indagine e anche in Italia, dove la ricerca si era rivolta principalmente alla storia

politico-istituzionale, gli studiosi si sono aperti ad altri ambiti rivolgendo la loro attenzione a temi

economici e sociali che coinvolgevano ogni aspetto delle società. Dopo il racconto dei grandi

avvenimenti e della storia dei grandi personaggi a livello individuale, si andava costruendo una

storia collettiva, comprensiva degli eventi che riguardavano gli uomini comuni: come vivevano,

cosa mangiavano, come si vestivano, come si curavano coloro che avevano costituito le masse

senza voce, quando attendevano ai loro mestieri nella vita di tutti i giorni o quando seguivano in

battaglia condottieri illustri le cui gesta sarebbero arrivate fino a noi? Al contempo si assumeva la

piena consapevolezza di quanto fosse necessario connettere quella storia alle altre scienze sociali,

come avevano mostrato in anticipo Marc Bloch, Lucien Fevre, Fernand Braudel e i molti altri

studiosi riuniti intorno alle due famose riviste Past and Present e Les Annales, cenacolo di

intellettuali illustri.

Superata così la centralità della storia “a una sola direzione”, i ricercatori hanno cominciato a

indagare su temi un tempo considerati minori come la famiglia, l’alimentazione, l’abbigliamento, la

malattia, segnando il passaggio verso l’ampio contesto della storia sociale e della civiltà materiale.

Una tale rilevante transizione metodologica poteva avvalersi ormai dell’applicazione sistematica

dell’interdisciplina e diventava la premessa per il conseguente impiego di un metodo che non

conosceva confini tematici e di conseguenza proponeva l’utilizzo di fonti che fino a quel momento

erano state trascurate o non erano state considerate valide. Alle opere nate da quella impostazione in

Francia e in Inghilterra si venivano ad aggiungere appropriate traduzioni di testi stranieri che

consentivano sempre meglio l’accesso a un patrimonio comune agevolato dalla felice accessibilità

linguistica. Le scienze sociali, e con esse la storia, conquistavano un’articolazione sempre più ampia

e guardavano ormai allo sviluppo dell’economia, alla fisionomia delle città, al carattere produttivo e

climatico del territorio, e così via, cioè a ricerche inedite condotte in modo nuovo, in relazione agli

uomini, alle loro esistenze quotidiane, al loro quadro psicologico.

Nel lavoro svolto nel corso di molti anni secondo tale metodo, nelle indagini sulle classi sociali,

sulle strutture della parentela, sul ruolo della donna, sui circuiti dei beni alimentari, su temi

insomma di rilievo sociale, la salute e la malattia non potevano non suscitare domande e curiosità,

così nel tempo è germogliata l’idea di raccogliere alcune riflessioni sorte nell’ambito

dell’esperienza dei non/medici per dare voce a storici, letterati, economisti, demografi, giuristi, i

quali attraverso fonti a loro congeniali, quasi improprie - cioè poste in essere per altri fini e qualche

volta del tutto non contigue al settore della medicina - raccontassero delle realtà interessanti, forse

neppure troppo note, che meritavano di essere raccolte. Viste nell’ottica della storia sociale - in un

contesto di lungo periodo attraverso il quale in presenza di una infinita molteplicità di avvenimenti

e di implicazioni si snoda il processo della complessa evoluzione delle società - le sorti della

Sapienza Università di Roma

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medicina si intrecciano perciò a una serie di altri fattori coevi. Le profonde trasformazioni che

intervengono fra Tre e Quattrocento, se per un verso producono cambiamenti epocali che via via

mutano la struttura politica degli Stati e dunque le forme di governo - repubblicane, oligarchiche,

signorili - dall’altra provocano crisi istituzionali e sconvolgimenti sociali che attivano un diffuso

malessere esistenziale. Il progresso della riflessione filosofica e del pensiero politico e lo sviluppo

dell’economia creano i fili di una fitta trama sulla quale si innestano i grandi eventi che disegnano il

nuovo volto delle società occidentali: l’esplosione dell’economia cinquecentesca, la nascita del

protocapitalismo, la rivoluzione scientifica del XVII secolo, l’affermazione del pensiero razionalista

dell’Illuminismo, che avrebbe marcato con la sua influenza la civiltà europea aprendo nuove

prospettive in ogni campo. Tra il XVI e il XVIII secolo si verificano cambiamenti profondi destinati

a segnare la “transizione” da un’epoca all’altra attraverso una trasformazione che non è solo

scandita dalla cronologia quanto piuttosto dal mutamento strutturale, mentre si affermano le nuove

istituzioni dello Stato laico, con molteplici implicazioni che indurranno cambiamenti significativi in

ogni campo, come l’articolata gestione del potere, la complessa realtà delle classi sociali, il nuovo

volto delle città rinascimentali, nell’architettura, nell’arte, nei modelli di comportamento. É su

questo sfondo che matura una specifica cultura medica, impregnata ancora a lungo di saperi antichi

fortemente codificati che sarà difficile scalzare, ma alimentata da ulteriori conoscenze frutto

dell’avanzamento del pensiero scientifico.

Anche dall’altra parte, però, cioè dalla parte dei malati, comincia a cambiare qualcosa e sembra

manifestarsi una diversa percezione della malattia che, per così dire, costruisce nuove storie

individuali e collettive modificando il modo di rapportarsi alla salute. Le domande sono molte e

possono essere infinite: in che modo l’uomo del Rinascimento affronta i malesseri del corpo e le

sofferenze dell’anima; quale significato assumono per lui i concetti di salute e di infermità, di

terapia e di guarigione; quale comprensione ha della malattia; in che misura è in grado di affrontare

il dolore fisico? E ancora, come lo raggiunge l’immagine del medico, spesso stigmatizzata nella

mentalità collettiva e quale consapevolezza ha della morte? Sono questi alcuni degli interrogativi

che ci si è posti nell’affrontare il tema, nelle pieghe di discipline apparentemente “lontane” che

invece hanno consentito di cogliere il palpito della vita di tutti i giorni - nelle grandi città dei poteri

forti come nei villaggi periferici di mondi appartati, fra la permanenza di un immaginario medievale

e le verità della scienza positivista - e raccontano l’intricato rapporto fra salute e società, fra nascita

e consolidamento di saperi nuovi, di regole etiche, di diritti. A siffatti quesiti mi hanno aiutato a

rispondere studiosi di varia estrazione disciplinare, colleghi e amici con i quali condivido da anni

interessi scientifici e consuetudine di indagine. Ci ha guidati un’ampia documentazione conservata

presso archivi di Stato e di enti religiosi, archivi privati delle famiglie e delle aziende, una serie di

tipologie di fonti - atti notarili, corrispondenze private e specializzate come quelle mercantili, libri

degli enti assistenziali, libri dei morti, dati statistici, opere storiche, filosofiche, pittoriche, letterarie

- che nell’intricata transizione dal medioevo all’età moderna e nel difficile e tortuoso cammino che

prende le mosse dalla spiritualità medievale per approdare al razionalismo scientifico, ci ha

consentito di seguire da vicino le modalità con cui gli uomini nelle società di Antico Regime si

rapportano alla malattia e alla cura, ai medici, ai guaritori, alla morte. La paura è tanto presente che,

quasi per far fronte al turbamento delle coscienze individuali, fioriscono dei veri e propri manuali

che suggeriscono un giusto modo per prepararsi “all’arte di morire”, per esempio coltivando la

volontà di pentirsi dei propri peccati, offrendo cospicue donazioni agli ordini religiosi, indossando il

saio dei penitenti. La fragilità psicologica derivante dal mutamento negli stili e negli ideali di vita è

forse anche la risposta alla fragilità fisica che le continue ondate di epidemie evidenziano portando

alla morte un gran numero di persone colpite dal contagio. Ascoltiamo direttamente la loro voce

così come è stata fissata dai documenti:

Vi aucuro de mantenervi in bona salute de animo e de corpo

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è questo l’auspicio ricorrente nella corrispondenza dei mercanti che popolano le piazze regionali e i

grandi centri internazionali. Il loro è un lavoro che richiede innanzi tutto delle condizioni fisiche

eccellenti, altrimenti mai avrebbero potuto fare quella vita di viaggiatori a breve o a lunga distanza,

sfidando le stagioni, percorrendo le terribili strade dell’epoca, imbarcandosi su navi umide dalle

fetide cambuse, affrontando pericoli d’ogni sorta. Le loro storie sono particolarmente documentate

per il fatto che essi hanno frequentato apposite scuole, acquisendo una preparazione tecnica sia

nella tenuta dei libri di conto - per mezzo dei quali riescono a tenere sotto controllo la situazione

aziendale - sia attraverso i carteggi con i quali si mantengono in contatto con la Compagnia e con i

collaboratori. La loro presenza è significativa poiché, come dice Cipolla, l’intera “espansione

europea è essenzialmente un’avventura commerciale” in quanto essi prendono parte allo sviluppo

delle economie europee e ai loro scambi commerciali come protagonisti, vendendo e comprando,

esercitando il credito, fondando banche, finanziando principi e sovrani, dunque condividono non

solo la dimensione economica della loro epoca, ma interagiscono in una molteplicità di occasioni,

politiche, belliche, culturali; sono viaggiatori, collezionisti, mecenati, amano la bellezza e la cultura,

costruiscono palazzi di città e rifugi di campagna. E in ogni azione, sempre guardano all’utile loro e

di conseguenza sono attenti a ciò che avviene nel mondo, quando una guerra li costringe a cambiare

il tragitto verso i mercati o lo scoppio della peste può bloccare le loro preziose balle di merci

ritardando le consegne e frenando i commerci.

All’inizio della carriera, gli intraprendenti mercatori ci appaiono forti e giovani, pronti ad affrontare

ogni pericolo in mare e in terra pur di concludere un buon affare, disposti a raggiungere lontane

zone di produzione, in cui approvvigionarsi di merci pregiate da vendere a caro prezzo. Affrontano

ogni fatica nei viaggi e nel lavoro senza esitare e senza accusare problemi di salute, anzi temendo

sopra ogni cosa un qualsiasi malanno che possa malauguratamente limitarne l’attività. Un noto

mercante di Prato, Francesco Datini (1335-1410), a capo di una grande azienda con sedi in Francia,

in Spagna, in Toscana, scrive alla moglie (Rosati) di stare attenta a non ammalarsi perché sarebbe

un vero disastro:

sapiti guardare e pensa a stare sana, che altro non ci mancherebe se

noe, che tue o io, fossomo malati!

Nei molti libri delle loro aziende tenuti alla maniera toscana della “partita doppia” i mercanti

segnano entrate e uscite, dalle più importanti riferibili ai grossi affari conclusi in ogni parte del

mondo alle spese minute, mettendo insieme questioni professionali e fatti privati; fra le tante

scritture che si riferiscono agli acquisti e alle vendite di merci, ne ricorrono alcune relative alle

elemosine fatte ai poveri, alle offerte di denari e di candele riservate alle chiese, alle doti a favore di

una figlia o di una sorella, ma solo eccezionalmente registrano somme impiegate per curarsi. Nelle

loro carte solo qualche riferimento generico come “spese in suo male”, “quando egli ebbe male”,

cioè un piccolo rimedio di fronte a una febbre, un mal di gola, un disturbo passeggero:

Once tre, e sono a compimento di tutte le medicine sino a questo dì

scrive Tuccio, un mercante toscano del primo Cinquecento fra le “spese minute di chasa” annotate

nel suo libro mastro nel quale ha un conto aperto a favore dello speziale Gianello Chillé, che di

solito salda a fine anno con pochi spiccioli, giusto l’acquisto di qualche leggero medicamento. E un

altro mercante di Palermo, annota:

a mastro Gismondo Pellegrino, speziale, per medicine e altre chose

tarì sette per lo chosto di anpolle conperato de la moglieri di

Perotto e grani 16 per pillole cinque pigliate da detto mastro

Gismondo, le quale l’ò mandate ad Alchamo”

e ancora un altro fa i suoi ordini:

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tarì cinque per lo costo e spese di due libre d’arsenico e di

rebarbaro

La modestia delle somme, quasi irrisorie, con tutta evidenza è un indice di rimedi banali, spesso non

si tratta neppure di medicine vere e proprie quanto piuttosto di una polvere, un unguento, poca roba

insomma, per qualche acciacco piuttosto che per una vera malattia. Solo quando sono avanti negli

anni, (di solito fra quaranta e cinquant’anni circa, ma anche oltre poiché non sono rari i casi in cui

qualcuno arriva a ottanta e persino a novant’anni) e la salute comincia a diventare malferma, allora

specie nella corrispondenza si trovano frequenti riferimenti ai loro malanni e al modo in cui li

curano, cominciano a scrivere di pillole, sciroppi, pomate, a seconda dei casi, accusando mal di

stomaco, mal d’ossa, mal di reni. Non mancano i riferimenti a disturbi agli occhi e al calo della

vista, che non sempre è buona. Il noto mercante di Prato Francesco Datini, nelle sue lettere alla

moglie Margherita, inesauribile miniera di informazioni, scrive: “mandami gli occhiali miei ch’io

lasciai costà” (1394), mentre il duca Francesco Sforza nel 1462 ordina al suo ambasciatore a

Firenze di acquistare tre dozzine di occhiali di diverso tipo, da custodire in apposite scatole affinché

non si rompano, “una docena de quelli sono apti et convenienti a la vista longa, zoè da covane; et

un’altra che siano convenienti a la vista curta, zoè de vechy” (Levy Pisetzky).

Ma se dallo speziale i mercanti comprano poco, gli vendono invece molto, poiché gli forniscono le

materie prime di cui quello ha bisogno per approntare i suoi preparati secondo regole che già nel

primo Cinquecento sono state precisate e che ha l’obbligo di seguire. In diversi Stati viene infatti

affrontata la questione della corretta preparazione dei farmaci, come fa precocemente il comune di

Firenze che insedia una commissione mista, di medici e di speziali, per studiare la materia dando

vita a un primo ricettario al quale è obbligatorio attenersi nella lavorazione dei rimedi

farmacologici. Più in generale, negli Statuti delle città vengono precisati i prodotti che possono

essere venduti al minuto esclusivamente dagli speziali e quelli destinati sia alla preparazione dei

medicamenti che ad altri artigiani che li usano nel loro lavoro, come tintori, conciatori di pelli,

cartai. Per tutto ciò di cui hanno bisogno, gli speziali dunque, fanno i loro ordini ai mercanti ai quali

chiedono prodotti specifici: da loro acquistano spezie, zucchero, cera, sublimato di vario tipo,

allume, anici e confetti, olii, saponi, noci di galla, ma soprattutto si approvvigionano di consistenti

quantità di mercurio che veniva usato per la confezione di unguenti, essenziali nella cura delle

manifestazioni esterne della sifilide. Fra tanti altri, lo attesta nei suoi libri Giovanbattista del Pitta,

un mercante pisano che negli ultimi anni del Quattrocento vive a Palermo, il quale li definisce

“unguenti d’anpolle”, cioè pomate per le bolle. E comprano pure in gran quantità droghe e spezie di

vario tipo, zucchero, alcool, olio di lino, allume di rocca, argento vivo, tutti necessari per preparare

polveri, pozioni, pomate, che conservano in bella vista in contenitori (arbanelli o albarelli,

dall’arabo al barani, vaso per droghe) di suggestiva bellezza, nei quali si esprime la cultura

specifica di ogni paese nell’ampia gamma della produzione di ceramica apotecaria.

Albenelli d’unguento di anpolle comperato dalla mogliera di

Perotto di Alcamo

Gli “arbarelli d’unguento” ai quali fanno riferimento le fonti, negli inventari delle botteghe degli

speziali compilati dai notai oppure nei libri dei mercanti che ne riportano il contenuto e il prezzo,

possono essere di diversa tipologia, in quanto riferibili alle caratteristiche specifiche delle

manifatture nelle diverse regioni degli Antichi Stati italiani o degli altri paesi europei, dunque

presentano una varietà di impasto, di colori, di smalti, che va dalle “crete” più modeste alle

maioliche d’arte. Qualche volta simulano la forma di un segmento di bambù, forse in quanto

all’origine le sostanze provenienti dall’estremo oriente venivano trasportate all’interno delle canne

scavate (Motta), sovente nei territori che si affacciano sul Mediterraneo sono di evidente influenza

orientale anche nel colore degli smalti preferibilmente verde o blu. Oltre ai vasi, come raccontano in

dettaglio gli inventari delle spezierie, la bottega è munita di un’ampia strumentazione che

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comprende mortai, caldaie per bollire gli infusi, barattoli, libri. Per giungere in quei ricchi empori i

prodotti necessari a porre in essere i composti da utilizzare nelle terapie, hanno viaggiato come le

altre merci lungo i circuiti del grande commercio internazionale che disegnano itinerari significativi

e, data la loro importanza in termini economici, possono cambiare le sorti di un paese o di un

sovrano. Le “spezie”- termine generico con cui si indicano generi diversi, dal pepe alla cannella,

dalla noce moscata al garofano o allo zenzero - erano sempre arrivate in Europa via terra attraverso

la Repubblica di Venezia, cerniera privilegiata negli scambi commerciali con il Levante ottomano e

con l’Oriente, che sulle spezie asiatiche aveva costruito gran parte delle sue fortune. Come

riferiscono i mercanti,

i navili àno carichi di pepi, gengiovi, garofani e canelle, noce

moscada e onni altra spezieria

A un certo punto accade però che un importante mercante, Francisco Mendes, avendo prestato

somme ingentissime al re del Portogallo che non poteva restituirgliele, ottiene in cambio la

concessione per l’importazione del pepe di cui il sovrano aveva il monopolio. Così da quel

momento le spezie, dai luoghi di produzione in Asia (spesso possedimenti portoghesi o comunque

territori in cui i sovrani lusitani realizzano una loro penetrazione commerciale), raggiungono

Lisbona e da lì in soli dieci giorni via mare arrivano al porto di Anversa, formidabile piazza

commerciale cinquecentesca, da dove si irradiano in tutto il Vecchio Continente. La città

fiamminga, d’altronde, si era sviluppata anche grazie alla presenza dei molti marrani - “i nuovi

cristiani”, cioè ebrei costretti a convertirsi al cattolicesimo - che, scacciati dai territori dei Re

Cattolici, lì avevano costituito una forte comunità all’interno della quale la famiglia Mendes era

certo la più importante. Quella concessione per l’importazione del pepe contribuisce ad alimentare

le sue ricchezze e ad accrescerne il mito.

Malattie e politica. Nell’arco della storia le società sono segnate dalla guerre come dalle malattie

che infuriano con ferocia decimando intere generazioni: la guerra è uno strumento consueto, specie

quella rivolta contro l’Impero ottomano, le epidemie influiscono in misura decisa sulla popolazione

- provocando conseguenze di ogni tipo, colpendo i singoli individui ma soprattutto segnando il

destino di intere comunità, falcidiano la popolazione - e dunque incidono pesantemente sulla sua

struttura, demografica, sociale, produttiva. Una epidemia può innescare conseguenze a catena,

diminuisce le braccia necessarie al mercato del lavoro, abbassa di conseguenza i consumi, modifica

gli equilibri sociali scatenando rivolte dei ceti meno abbienti, modifica i comportamenti degli

uomini, per esempio limitando la propensione alla promiscuità sessuale, può ritardare i matrimoni e

le nascite dilatando ulteriormente un periodo caratterizzato da un basso tasso demografico. Gli

storici, precocemente, hanno cominciato a osservare il nesso tra pandemie e politica, tra endemie e

società, poiché un conflitto poteva scaturire anche da una situazione di forte disagio causata da una

epidemia di tifo o di colera, cioè da malattie che dilagavano all’improvviso, e alcune società

potevano essere segnate da malattie endemiche più lente, ma persistenti e quasi impossibili da

vincere. Qualche autore (Grmek) ha parlato efficacemente di una “geografia” della medicina, altri

hanno coniato la dizione di topografia medica (Annales 1963), dando corpo all’idea dell’esistenza di

pre-condizioni capaci di favorire l’insorgenza dei morbi e di caratteristiche dell’ambiente che

potessero accentuare l’incidenza delle malattie, secondo quanto cominciava a vedersi quando

l’Europa si andava espandendo oltremare, in Asia, in Africa, nelle Americhe, ponendo gli uomini

del Rinascimento di fronte a nuove malattie che si aggiungevano alle vecchie. (Dello stesso autore

molti studi sulle origini delle malattie e soprattutto l’interessante spartiacque fra malattia reale e

malattia concettuale). E se all’interno del continente africano gli esploratori incontravano condizioni

per loro terribili, tra malaria e febbri tropicali di vario tipo, accadeva pure che la presenza degli

europei potesse danneggiare gli indigeni - anche con una semplice influenza o un morbillo - assai

vulnerabili di fronte ai mali più banali provenienti dal vecchio mondo. In effetti, allo stesso modo di

quanto può accedere oggi nelle molte realtà delle megalopoli contemporanee, anche nelle società di

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Antico Regime le condizioni ambientali con tutta evidenza influiscono sul livello della salute,

poiché il fatto che gli uomini abitino in luoghi malsani, in zone paludose o in terre esposte ora alla

siccità ora a gelate ricorrenti potenzia gli effetti delle malattie, come la sottoalimentazione rende

una popolazione indebolita dalla carestia facile preda dei contagi. Il grande matematico Francesco

Maurolico, attento ai fenomeni naturali, mentre studiava i terremoti, scriveva della Sicilia

fu un anno infelice (il 1511) per l’intemperie dell’aria e per la

moltitudine di malattie

ponendo in relazione cioè l’aria malsana - dunque le condizioni ambientali, con l’aumentata

incidenza di affezioni. D’altronde, lungo i secoli che attraversano il medioevo e l’età moderna le

carestie sono parte integrante della vita degli uomini. Il sistema di produzione, in gran parte delle

terre ancora a lungo caratterizzato da culture estensive, comportava rese agricole basse nel settore

della cerealicoltura, dunque era sufficiente un’annata di mancato raccolto per mettere in crisi

l’intero assetto della catena risorse-consumi-numero della popolazione. Una siccità particolarmente

accentuata che acutizzasse la mancanza d’acqua spesso cronica, di certo soffocava ogni altra

attività, l’impoverimento dei suoli, la distruzione di una monocoltura come quella del frumento (o

della canna dalla quale si traeva lo zucchero) arrestava mulini e trappeti, impediva le esportazioni di

merci ricche che avrebbero consentito l’introito di danaro, bruciava i pascoli indispensabili

all’allevamento del bestiame.

E l’Europa, che pure complessivamente sta meglio di altri continenti, deve fare i conti con lo spettro

della fame: Braudel individua 85 carestie in Francia nei secc. X-XIII, cinque in Germania in un solo

secolo fra Sette e Ottocento, un centinaio a Firenze in quattro secoli, oltre alle infinite crisi locali

che incidono sul tessuto capillare delle società. La fame si fa sentire in campagna come in città,

dove però le istituzioni preposte hanno il compito di immagazzinare riserve per i tempi magri, allora

attira masse di poveri che per cercare di sopravvivere invadono i centri urbani. E’ anche questa la

ragione per cui alle carestie seguono inesorabilmente le epidemie che hanno gioco facile sulla gente

stremata dalla mancata disponibilità di cibo, lasciando una scia di guai e di dolore tanto più grave

quanto più lunga e terribile è stata la carestia che ha reso fragili tutti, ma ancor più gli anziani, i

bambini, le donne incinte. E tra le epidemie, la casistica disegna terribili graduatorie e registra

tremendi primati. Fra tutte, la peste è forse la principale protagonista delle paure collettive, ma

anche il colera non scherza nel falcidiare gli uomini, né è da meno la sifilide; la malnutrizione, la

promiscuità in cui vive la maggior parte delle persone, la mancanza di igiene, l’aria malsana dei

molti luoghi paludosi, diventano fattori aggiuntivi di rischio che incidono fortemente sul tasso

demografico con cesure accentuate, almeno fino al XVIII secolo, ma anche oltre. Ondate ricorrenti

di peste hanno infierito sull’Occidente europeo per secoli, sia nella forma della peste bubbonica

trasmessa dalle pulci dei ratti neri, sia in quella polmonare il cui contagio passava da uomo a uomo.

Anche se come prima pandemia documentata si considera quella del XII secolo, è con la seconda,

violentissima, che la peste diventa endemica. Nell’ottobre del 1347 la peste “entra” in Europa dal

porto di Messina. Proveniente dalla Mongolia e dal deserto del Gobi arriva in Occidente attraverso i

territori della Russia, lungo il basso Volga penetra in Crimea e da quel momento si propaga via

mare diffondendosi con un ritmo sorprendente: “si manifestò con una virulenza inusitata e nel giro

di tre anni eliminò brutalmente un quarto della popolazione europea”- dirà Cipolla -. Provoca infatti

una grave frattura nella crescita complessiva delle economie regionali, sia per l’evidente

conseguenza della mancanza di mano d’opera nelle campagne che per il blocco inevitabile del

settore commerciale dovuto al calo della domanda e dei consumi, di particolare importanza per la

maggior parte dei centri manifatturieri che andavano compiendo il loro percorso evolutivo. Le città

italiane - Venezia specialmente, Genova, Pisa, Firenze, Bologna, in cui si consolidavano le

manifatture di pregio, come le grandi piazze europee, Londra, Bruges, Anversa, che producevano

tessuti di lana, panni fini, damaschi e velluti da esportare in tutto il mondo - vivevano dei loro

rapporti commerciali e si organizzavano proprio intorno ai porti, frequentati dalle marinerie

internazionali e da gente d’ogni paese interessata agli scambi. L’ampiezza della rete commerciale

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facilita la diffusione, il carattere peculiare che costituiva la forza di quelle realtà diventava origine

della loro fragilità, poiché a livello sanitario quell’affluenza di persone e di carichi si trasformava in

pericolo, creava un’emergenza per la salute e un allarme sociale. “La velocità dell’estensione del

morbo fu fenomenale... l’epidemia aveva colpito aree dell’entroterra, si era propagata in tutta la

Francia lungo le principali vie commerciali sul Rodano, la Saône, la Senna, il Reno”(Naphy-

Spicer). Svizzera, Germania, Brandeburgo, la malattia non conosce confini, i grandi centri urbani

perdono tra il 20 e il 40% della popolazione, i più esposti sono quelli che lavorano a contatto con le

masse fra le quali possono annidarsi quanti già sono stati contagiati, il rischio è grande per i poveri

che svolgono mansioni umili ma anche per i medici e per le molte categorie che assistono i malati o

debbono occuparsi dei morti. Se pure molte delle epidemie non risparmiano neppure ricchi e

potenti, è intuitivo che gli strati inferiori della società sono maggiormente esposti e mentre chi può

prende delle precauzioni - lascia le città per rifugiarsi in campagna, interdice l’accesso agli estranei,

brucia biancheria e mobilia, accende aromi disinfettanti - gli emarginati sono facile preda del male.

La peste moltiplica le paure, si teme che in ogni ammalato si nasconda un appestato, è una vera

tragedia collettiva, anche se non si può escludere che in molti casi possa non trattarsi della terribile

epidemia ma di altre patologie con sintomi simili, come la tubercolosi o la febbre tifoidea.

L’impatto sulla società è comunque devastante come distruttive sono le conseguenze della sua

reiterata riproposizione (con una oscillazione compresa fra i sei e i dodici anni) dalle quali derivano

non solo danni economici e sociali ma anche atteggiamenti psicologici scaturiti da sensi di colpa e

dal timore dell’ira divina, puntualmente evocata dagli uomini di Chiesa che rinviano alla parola di

Dio richiamando i versetti sacri: “perciò il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste (Libri

profetici, Isaia); “farò giustizia di lui con la peste e con il sangue” (Ezechiele 38,22); “ho mandato

contro di voi la peste, come un tempo contro l’Egitto (Amos 4,1); “diede sfogo alla sua ira, non li

risparmiò dalla morte e diede in preda alla peste la loro vita” (Libri Poetici, Salmi 77,50). Sullo

scorcio del medioevo si diffondono appositi manuali che indicano quale possa essere il miglior

modo di affrontare la morte, consigliando le pratiche da seguire per mettere in salvo la propria

anima pentendosi dei peccati, ma additando pure le ultime decisioni terrene: farsi seppellire nelle

chiese dei monasteri, assumere l’abito monacale quale segno di umiltà, seguire pratiche liturgiche,

offrire elemosine e lasciti nel testamento a favore di istituti religiosi che avrebbero favorito

l’ottenimento della grazia divina. Ciò vuol dire che gli uomini del Quattro e del Cinquecento

sentono di essere in pericolo di vita e hanno la percezione della paura di fronte alla malattia che può

portare alla conclusione della loro vita terrena.

Seguiamo più da vicino lo stato d’animo di chi ha vissuto la terribile esperienza dell’epidemia di

peste attraverso le parole di Francesco Datini (Rosati) nelle lettere che invia alla moglie mentre il

contagio imperversa in Toscana (1389)

v’è grande moria, mortovi gran numero di persone; Al morto

faccia Idio verace perdono, se gli piace. Morì que l’abate di San

Bartolomeo che parea non dovesse mai morire, e vi forno 100

morti al dì

Anche i viaggiatori come i mercanti sono particolarmente esposti, in paesi con ogni tipo di clima,

nel contatto con gli altri, per le strade e nelle osterie ma soprattutto sulle navi, con tanti uomini

d’equipaggio e i passeggeri imbarcati con i loro carichi. Nei documenti più volte si ripete la notizia

di uno di loro che è passato a miglior vita proprio per avere contratto il male

mercoledi a vespro venne un amico da Vinegia e presegli la febre,

si ch’è morto di pistolenza (1398); in Lucha messer Jacopo morì di

pistolenza in pocha d’ora (1526)

di quest’ultima pestilenza, occorsa mentre torna da Anversa a Lucca, un altro mercante pisano,

Tuccio Fieravanti, scrive

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io sono tornato è pochi giorni da fFirenze e per ancora non

mi hano lasato entrare in Lucha per sospeto de la peste era in

ditto loco, sono di fora a una villa di uno mio amico dove ò

fato la Pascua, pensate con che piacere!

Le principali città delle Fiandre, infatti, sono immediatamente invase dal contagio che lì trova le

migliori condizioni per diffondersi ulteriormente, poiché quelle piazze commerciali costituiscono

un forte richiamo per i mercanti. Bruges, Anversa, Gand, pullulano di operatori commerciali

stranieri che da quei porti raggiungono Southampton per comprare panni inglesi, e così la peste

arriva immediatamente anche a Londra e a Bristol per raggiungere successivamente la Svezia, la

Norvegia, l’estremo nord dell’Europa. Mille e mille microstorie raccontano le vicende del terribile

morbo, i documenti conservati negli archivi tracciano il profilo di società dolenti fissando le

immagini degli eventi più devastanti. Innumerevoli esempi si moltiplicano all’infinito per diversi

secoli, negli Antichi Stati italiani come in tutti i paesi europei ed extra-europei, nelle molte realtà

delle città portuali dove le epidemie approdano, partendo da lontano, dalla Cina e dall’India,

penetrando attraverso i molti snodi punto d’approdo e di smistamento per le merci e per gli uomini,

fra le piazze commerciali d’Oriente e i mercati mediterranei. Fatta eccezione per la sifilide, le

epidemie partono dall’Asia e arrivano in Europa attraverso la Turchia, strettamente integrata sul

quadro europeo negli scambi commerciali, che non sono episodici ma strutturali e resi sempre più

stabili nel corso di tre secoli, codificati da accordi e trattati con la Sublime Porta, anello di

congiunzione fra mondo occidentale e territori del vicino e dell’estremo Oriente.

Storici, letterati, viaggiatori, intrecciano le loro trame ai terribili momenti in cui divampa il

contagio, descrivono scene di morte e di disperazione, l’aneddotica è ampia e tratteggia periodi di

grandi sofferenze. Solo raramente quei terribili eventi diventano la causa imprevedibile di una

circostanza positiva, come quando nel 1593, a causa del dilagare della peste a Londra, si chiudono i

teatri e Shakespeare per sopravvivere accetta di scrivere dei sonetti per il conte di Southampton

decidendo così il suo destino e quello della drammaturgia mondiale o come quando a Venezia, in

ringraziamento della peste del Seicento, si erige un’opera architettonica del valore di Santa Maria

della Pietà, simbolo di devozione e segno di quanto la religione possa consolare e dare forza agli

spiriti tanto duramente provati. Anche perché - è quasi superfluo aggiungere - l’epidemia, contro la

quale anche l’esperienza empirica dei medici poteva far poco, viene subito considerata un segno

della collera di Dio, una punizione per i peccati degli uomini e in conseguenza di ciò monta

un’ondata di religiosità per così dire forzata, cioè finalizzata a riottenere la grazia divina

compromessa da atteggiamenti “eretici”. E chi, se non gli ebrei potevano essere considerati

colpevoli? Ancora una volta gli eredi di Mosé dovevano affrontare nuove imputazioni e nuove

emarginazioni “negli anni Quaranta del Trecento gli ebrei vennero additati come untori in Francia,

Italia, Svizzera e Germania... a Strasburgo, Norimberga, Ratisbona, Augusta, Francoforte” (Naphy-

Spicer). E ciò, malgrado che fra loro fossero numerosi i medici che si occupavano della salute degli

stessi cristiani. Via via che la peste si diffonde e diventa la malattia più temuta, si pone la necessità

pratica di rispondere con prontezza a quella circostanza critica che sta mutando il volto della

società, attirando masse di marginali dalle campagne, bloccando i porti e i commerci, diffondendo

la paura del contagio. Nel corso del XV secolo l’idea di Stato che si fa avanti induce chi governa a

sentirsi sempre più responsabile nei confronti della popolazione, prende corpo allora l’istituzione di

apposite strutture, un primo sistema di organizzazione sanitaria che si avvale degli Uffici di Sanità i

quali crescono simmetricamente allo sviluppo delle città (un altro segno della capacità innovativa

del Rinascimento) cercando di far fronte alle necessità in qualche modo, emanando una normativa

specifica che tenda almeno a limitare i danni. Le magistrature immediatamente preposte si rendono

presto conto che la malattia è contagiosa e che la propagazione avviene non solo attraverso gli

uomini ma anche attraverso le merci caricate sulle navi, per ciò non consentono neppure che

vengano aperte le balle - si disinfettano anche le lettere che sono parte integrante dell’attività

commerciale - procurando tanti problemi ai mercanti che debbono rispettare le consegne.

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E’ panni di Monza e di Firenze non sono arrivati e per esere alcuno

sospeto di peste in qualche banda di qui e ancora in Lombardia,

mai li ànno voluti lasare entrare in Lucha (1527) Per rispetto di

questo morbo che niuno non può andare atorno, questa peste per

tutto mi fa stare sospeso e non so che camino avermi a fare. E mi

pare mill’anni, ché la peste è già in più di 150 case e tutte volte si

va alargando e ne more assai, per modo che l’omo non sa da cui

aversi a guardare

scrive nel primo Cinquecento un mercante alla sua Compagnia per giustificarsi del fatto di non

potere rispettare i tempi di consegna.

E con il commercio si ferma una rete complessa di scambi che invece è il segno distintivo della

crescita di quelle società, dunque i governanti si rendono conto che è in pericolo anche l’ordine

sociale e per mezzo di circostanziate normative, dato che i medici non riescono a curare l’epidemia,

cercano almeno di rallentarne lo sviluppo, di contenerne le conseguenze disastrose, di effettuare un

controllo attraverso l’emanazione di certificati sanitari che facciano da filtro negli spostamenti da

un luogo a un altro. Ma è soprattutto la concettualizzazione dell’isolamento la novità che porta alla

decisione di non porre immediatamente in contatto chi arriva nelle città con chi vi abita, ma di

sottoporlo a un periodo (variabile) di osservazione in apposite zone a ciò preposte. L’istituzione dei

lazzaretti diventa una nuova frontiera, che non potendo fare altro si occupa almeno della

prevenzione creando un sistema che tende a ostacolare la propagazione del contagio. Si interviene

imponendo il cordone sanitario attorno alle zone infette, nelle quali non si può entrare ma

soprattutto dalle quali non è consentito uscire, si diffonde l’uso della quarantena, temuta e odiata dai

mercanti e dai viaggiatori che nei loro percorsi incappano in ritardi che rischiano di danneggiare i

loro affari e i loro progetti proprio perché a fine cautelativo in caso di emergenze sanitarie sia gli

uomini che le merci vengono fermati

giunto costà a Lucha non so quello avermi a fare pe’ mandare ‘e

panni a’ conpratori dappoiché nun si pole nemanco isbalarli (1526)

Tale situazione comporta un grave impegno organizzativo e finanziario per le istituzioni politiche

che debbono preparare nuove categorie di amministratori, magistrati, medici, incaricati di una serie

di mansioni e anche dei rifornimenti annonari ormai resi più complicati per le difficoltà degli

scambi. In un primo tempo, per circoscrivere l’epidemia si trattengono nei lazzaretti sia i malati

incurabili come i lebbrosi che quelli colpiti da malattie contagiose come la peste - la Repubblica di

Venezia già nel 1423 destina un’apposita struttura su una delle sue isole lagunari (Vanzan

Marchini) - poi, mano a mano, il consolidamento del concetto di solidarietà cristiana fa crescere

l’impegno dell’assistenza da parte delle congregazioni religiose e delle opere pie che trasferiscono

gli incurabili in appositi luoghi di cura specializzati, i lebbrosari, destinando i lazzaretti a chi ha

contratto un’epidemia o a chi provenga da viaggi in paesi a rischio e debba perciò essere sottoposto

alla quarantena. Fra Cinque e Settecento, specie nelle città portuali, le autorità pubbliche cercano in

tal modo di arginare i danni e, anche se i risultati di quella pratica non saranno significativi, per

mezzo di quelle strutture si propongono di ridurre almeno le conseguenze, non solo per motivi

umanitari ma proprio perché il brusco calo della popolazione minaccia la consistenza demografica

delle società e di conseguenza oltre che un’emergenza sanitaria è anche causa dell’arresto nello

sviluppo commerciale. Per tali ragioni nei diversi paesi nasce una specifica normativa in materia

che di volta in volta produce una serie di fonti legislative emanate sia dalle autorità amministrative

cittadine che da quelle ecclesiastiche - bandi, dispacci, disposizioni - al fine di regolamentare, oltre

che il governo generale della sanità, quei settori che possano rappresentare un rischio per la

popolazione propagando il contagio: pauperismo, vagabondaggio, prostituzione, sono considerati

come un pericolo sociale, perché gli emarginati vivono nella miseria e spostandosi d continuo

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contribuiscono a diffondere le malattie, allo stesso modo delle donne “impudiche”. Ogni tentativo

sarà infruttuoso, l’Europa per secoli sarà colpita dalla peste, almeno fino al XVIII secolo, che nel

Levante ottomano perdura ancora fino all’Ottocento. La penisola italiana affronta il problema prima

di altri paesi pure avanzati come i Paesi Bassi e l’Inghilterra, non solo attraverso istituzioni intese

ad affrontare l’emergenza - come si è visto nell’esempio precoce della Serenissima - ma con

apposite magistrature permanenti. A tali organismi, nati intorno alla metà del Cinquecento con

diversa composizione a seconda dei caratteri politici e strutturali degli Antichi Stati, vengono

riconosciute ampie competenze nel settore dell’amministrazione della salute. Nel prosieguo del

tempo, da tale impegno si farà un ulteriore passo avanti ponendosi come obiettivo non solo

l’approccio alla malattia come necessità sociale ma anche la cura, spostando sempre più avanti il

confine della conoscenza medica. Molte altre epidemie segnano la storia degli uomini dall’antichità

al medioevo, all’età moderna, secondo un triste inventario che ne scandisce il ritmo. Come la peste,

la sifilide conquista un terribile primato. In breve tempo assume proporzioni mondiali e secondo

l’ipotesi prevalente che ne ha individuata l’origine (tra le altre avanzate) viene attribuita all’incontro

degli europei con gli indigeni del Nuovo Mondo, quando a causa di rapporti promiscui con i nativi

il contagio si propaga per via sessuale. Detta sia mal napoletano che mal francese, la malattia

nell’arco di pochi anni, dalla Spagna, invade tutta l’Europa in una forma virulenta che stermina la

popolazione, tanto che sorgono apposite strutture per la cura degli ammalati, sia a Londra che a

Parigi dove, in un luogo terribile in cui in un solo letto si collocano fino a sette, otto malati - l’Hotel

Dieu - si trattano le piaghe cauterizzandole con ferri roventi e anche in Italia sorgono apposite

strutture per ricoverare gli ammalati. La percezione è quella di una vita che sempre di più è soggetta

al pericolo di infermità e di morte, sulla scia del manuale dell’Ars moriendi - l’opuscolo

devozionale anonimo del XV secolo diffuso nella comunità dei fedeli, poi seguito da molti altri -

che aveva mostrato quanto la morte fosse sentita nella sua fisicità e al tempo stesso nella sua

dimensione spirituale e mistica.

La sifilide ha una forte impronta sociale, oltre a essere alla pari della peste e di altri castighi di Dio

un segno inviato ai peccatori, questo morbo ha una connotazione ulteriore data non più da un

qualsivoglia genere di peccati ma da quello della lussuria e per tale ragione nelle opere letterarie e

teatrali spesso costituisce un elemento di derisione; incide anche sui rapporti tra la gente, i sifilitici

come altri infelici vengono scherniti ed emarginati e tale modello rimane per secoli nelle comunità,

come dimostrano le ingiurie lanciate contro alcuni sventurati in un piccolo centro della Calabria

ancora nell’Ottocento, dei quali si diceva che fossero “nfranzesati”, cioè colpiti dal mal francese.

Per manifestazioni esterne e per le forme più tenui a lenta evoluzione si impiega il mercurio che i

mercanti di tutto il mondo comprano e vendono in gran quantità poiché viene usato in larga misura,

è l’unico palliativo che si conosca per curare almeno le manifestazioni cutanee conseguenti

all’infezione, anche se a tempi lunghi è nocivo, procura amnesie, instabilità mentale, demenza, e in

molti casi la morte per avvelenamento. Braudel riferisce che prontamente la malattia attacca “tutta

la massa della popolazione, dai vagabondi fino ai signori e ai principi” senza escludere neppure gli

uomini di Chiesa (come i papi, si riferisce a Giulio II, il cardinale Soderini), e i sovrani. Tra i molti

ammalati illustri, l’elettore di Sassonia Giovanni Gorgio IV che muore di vaiolo (Herczog), il re

d’Inghilterra Enrico VIII, non a caso molto propenso alla promiscuità amorosa, consumato dalla

sifilide, le figlie di Maria Teresa d’Asburgo anch’esse colpite dal vaiolo che proprio nel XVIII

secolo aveva avuto effetti devastanti e, infine nel Regno delle Due Sicilie, la regina Maria Cristina

di Savoia uccisa dal colera nel 1836. Già l’anno dopo la scoperta dell’America, la sifilide aveva

invaso tutta l’Europa e a metà Cinquecento era già arrivata nella lontanissima Cina. Solo dopo

cinque secoli, nel 1905 in Germania, viene scoperto il batterio a forma di elica, il Treponema

pallidum (Tognotti).

Il vaiolo, virus in grado di infettare l’uomo come gli animali, rappresenta un’altra delle paure

ataviche, potendo comportare esiti mortali o comunque lasciare terribili tracce sul volto di chi riesce

a sopravvivere. Soprattutto nel Settecento l’Europa è segnata da questa epidemia che in alcuni

paesi, come la Francia, uccide un quarto della popolazione totale. La propagazione avviene

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attraverso il contatto con uomini e cose infette; febbre alta e manifestazioni cutanee sono i segni

distintivi, nel decorso della malattia le macchie diventano vescicole purulente, ulcere che

successivamente si cicatrizzano lasciando la pelle butterata. Un primo vaccino viene approntato dal

medico inglese Edward Jenner (1749-1823) che nel 1796 impiega il virus del vaiolo bovino dopo

aver notato che le donne addette alla mungitura (evidentemente esposte al virus bovino) non

contraevano il vaiolo umano. In precedenza, lady Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a

Costantinopoli, aveva introdotto la vaccinazione in Inghilterra, avendo appreso che le donne

circasse seguivano il sistema di pungersi con un ago che era stato infettato con il pus vaioloso,

immunizzandosi così contro la malattia. La signora aveva portato a conoscenza degli studiosi tale

procedimento ma passeranno ancora venti anni di ricerche e di sperimentazioni prima di arrivare

dalla realtà delle tecniche empiriche locali - che si eseguivano anche in India e in Persia - e alla vera

e propria terapia scientifica (Lo Sardo). La vaccinazione costituisce all’epoca un momento di

grande rilievo medico e scientifico, la sua portata è tale da scatenare dispute accese e contrasti

anche etici, infatti in un primo tempo la scoperta di Jenner trova qualche resistenza da parte delle

autorità ecclesiastiche a causa della “contaminazione” dell’uomo con il siero animale che gli veniva

inoculato, ma con la maggiore apertura delle idee sociali e scientifiche seguite alla rivoluzione

francese - pure attraverso un processo complesso che lega scienza e illuminismo - le concezioni

libertarie dovute al cambiamento epocale fanno sì che cessi ogni ostruzionismo e la vaccinazione

antivaiolosa possa diventare una pratica diffusa (in Italia si lega al nome di Luigi Sacco che nel

1799 la applica nella Repubblica Cisalpina). Come sostiene Foucault, “le scienze illuministiche

della terra e della vita possedevano una nuova componente storica che si sarebbe incuneata tra la

scienza e le sue precedenti giustificazioni teologiche” (Outram); la filosofia naturale (che solo

nell’Ottocento si chiamerà scienza) stava ormai affermando i concetti di sperimentazione e di utilità

pratica che avrebbero svincolato l’uomo da tutto ciò di metafisico in cui aveva creduto in

precedenza, trovando nuove definizioni in un processo dinamico che lo avrebbe condotto dalle

forme di conoscenza ancora insicure al reale processo di avanzamento del XIX secolo. La

tubercolosi, che sin dal periodo ellenico era stata considerata contagiosa, a partire dal Cinquecento e

per tutto il Seicento è presente in Europa sotto varie forme - polmonare, intestinale, meningite

tubercolare -. La trasmissione avviene di solito attraverso l’apparato respiratorio, ma il contagio può

trasmettersi anche attraverso quello digerente, uno dei veicoli principali è il latte bovino ancora non

pastorizzato contenente appunto bacilli tubercolari. Ma è nel ‘700 che si diffonde una forma più

violenta della malattia, proveniente forse dall’India (Braudel), che imperversa fino a tutto il secolo

decimonono provocando una mortalità elevatissima.

Se tutte le epidemie vengono interpretate come segno del castigo di Dio, la lebbra (morbo di

Hansen) ancor più delle altre viene vissuta come punizione divina e colui che porterà sul suo corpo

le piaghe profonde di quel male verrà considerato impuro (“Il sacerdote lo esaminerà e se vedrà che

la pustola si è allargata sulla pelle, lo dichiarerà impuro”, Levitico 13,8). Giunta probabilmente

dalla Grecia, non è ancora molto presente in Europa nel primo medioevo ma comincia a propagarsi

intorno al XIV secolo. Si comprende subito che la trasmissione avviene per contagio diretto con gli

ammalati, le gravi lesioni prodotte sono molto evidenti e inducono immediatamente ad adottare

come misura di sicurezza l’isolamento degli infetti in luoghi lontani in cui gli infelici, privati dalla

pietà dei sani, nascondono i loro volti e i loro corpi, deturpati dalla malattia che ha un lunghissimo

decorso e dunque non li porta rapidamente alla morte. Il terrore del contagio fa diventare crudeli, gli

ammalati sono costretti a indossare un saio che li renda riconoscibili e a portare dei sonagli che

avvertano tutti del loro sopraggiungere, separati dal resto della società ricevono qualche minima

assistenza dagli ordini religiosi o da quanti si incaricano della loro sopravvivenza come atto di

carità o di penitenza per espiare i propri peccati. Molto diffuso nel medioevo e spesso con esiti

mortali, il “fuoco di S. Antonio”, veniva così denominato in quanto il Santo, che era uno dei

fondatori del monachesimo orientale, aveva fama di guaritore dell’herpes zoster. Come mostra

l’iconografia tradizionale, Antonio Abate è sempre raffigurato con il fuoco e con un piccolo suino,

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entrambi riferibili alla cura di quel male: sulla parte infiammata infatti si spalmava il grasso di

maiale che probabilmente leniva il dolore.

Alle malattie “antiche” nel corso dei secoli se ne sommano altre, magari già presenti in altre forme

che tuttavia “esplodono” in modo particolare fra Sette e Ottocento. Si diffondono pellagra, malaria,

tifo, colera. La pellagra viene individuata nel 1730 dal medico spagnolo Casal che la definisce “mal

della rosa” e ne indica la probabile origine nelle carenze procurate dal tipo di dieta alimentare. Ma è

nell’ultimo trentennio del XVIII secolo che se ne riconosce correttamente la causa derivante dal

regime alimentare dei contadini più poveri i quali nelle zone di produzione del mais si nutrivano

esclusivamente di quello. La mancanza di vitamina PP che è presente in altri alimenti come il latte, i

cereali diversi dal mais, le verdure, provoca alterazioni cutanee e delle mucose, disturbi della

digestione e del sistema nervoso e miete migliaia di vittime all’anno. Ancora una volta, bisogna

aspettare il Novecento per arrivare al cambiamento dei rapporti sociali nelle campagne e di

conseguenza nei sistemi di produzione che portano al miglioramento del tenore di vita e

dell’alimentazione. E’ il tema che è stato dissodato da molti autori i quali hanno studiato il rapporto

fra diffusione della malaria (e delle altre “febbri intermittenti”) e sviluppo economico, ponendo in

relazione cioè economia, fenomeni biologici, benessere sociale. La malaria, molto diffusa nei

diversi continenti e così chiamata perché attribuita alla “mala aria” dovuta ai miasmi delle zone

paludose (e perciò detta anche paludismo), pure essendo stata già presente nell’antichità e descritta

da Ippocrate, viene studiata fra Sette e Ottocento, quando ancora molte terre non sono state

bonificate, prendendo le mosse dall’analisi dell’ambiente in cui la malattia è diffusa. Le grandi zone

umide - lagune, saline e stagni, tutti luoghi a metà fra terre e mare, nelle Fiandre, in Francia, negli

altri paesi della costa atlantica come di quella mediterranea, l’Italia con vaste aree nell’Agro

Romano e Pontino, la Maremma “amara”, il Veneto - sono luoghi pericolosi per la salute, in cui le

febbri sono endemiche. Nel 1880 Laveran, in Algeria, dimostra che il paludismo viene provocato da

un protozoo nel sangue periferico umano, Marchiafava e Celli a Roma lo studiano e lo chiamano

plasmodium, altri trovano il vettore che lo trasmette, la zanzara anofele (Manson in Cina, Grassi,

Bignami e altri in Italia). A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo si ottengono risultati

importanti nell’individuazione del processo di trasmissione della malattia, prima ipotizzato e poi

individuato attraverso la zanzara anofele, ma solo alle soglie del Novecento le grandi opere di

bonifica riusciranno a incidere in maniera significativa sull’andamento della malattia. Nel 1906

Camillo Golgi ottiene il premio Nobel per i suoi studi dimostrando l’associazione fra la periodicità

delle febbri malariche (terzana e quartana) e il ciclo del plasmodio. Il colera, proveniente dall’India

dove era endemico, nel primo Ottocento aveva colpito sia l’Asia che Africa, giunge poi in Europa

attraverso l’esercito russo di ritorno dalla campagna in Persia e fra il 1831-1832 si propaga dalla

Russia in Polonia, in Ungheria, in Germania, quindi fra il ’35 e il ’38 provoca numerose vittime in

gran parte degli Antichi Stati italiani, al nord come al centro e al sud. La situazione disastrosa

rappresentata dalle statistiche ufficiali, in mancanza di conoscenze specifiche sulla malattia induce

le autorità amministrative a disporre misure di sicurezza per arginarne la diffusione, cosicché in

ogni regione vengono creati appositi cordoni sanitari attraverso i quali si cerca di bloccare l’accesso

ai confini, con conseguenti danni alle economie locali. Si ferma il commercio, cominciano a

mancare i mezzi di sussistenza e i pur limitati medicamenti, la superstizione e la paura dilagano ed

entrano persino nell’ambito della politica, usate (dai liberali) in funzione antigovernativa per

sobillare le popolazioni contro i governanti e infatti non mancano disordini e tumulti scatenati da

voci che insistentemente riproponevano l’esistenza di avvelenatori e di “untori”. L’epidemia di

colera, comunque, ha effetti devastanti soprattutto nell’Italia meridionale sia per le condizioni di

maggiore indigenza che per la densità della popolazione e le precarie condizioni igieniche. Per

quanto riguarda il tifo, va ricordato che sotto tale nome, prima dell’Ottocento, erano ricomprese

malattie simili (con sintomatologia comune, febbri alte, eruzioni cutanee, delirio, meningismo) ma

con origine ed esiti diversi: tifo addominale (ileotifo); tifo esantematico (dermotifo), contagioso ed

epidemico, trasmesso dai pidocchi, tifo murino (trasmesso dalle pulci) tifo amarillico o febbre

gialla. Nei casi benigni la durata è di un paio di settimane, altrimenti può indurre gravi

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complicazioni, cardiache, polmonari, gastriche, neurologiche. Si tratta di una malattia infettiva

tipica dei paesi con gravi carenze igienico-sanitarie che moltiplicano i fattori di rischio, spesso

accentuate a causa di guerre o di eventi naturali come terremoti e alluvioni. Nel 1829 a Parigi le

tipologie vengono distinte e se ne descrivono le tipiche manifestazioni esterne (la roseola tifosa) e le

specifiche conseguenze. Dal 1850 Jenner, Wilson e Budd continuano la ricerca, quest’ultimo

proponendo la denominazione per il tifo addominale di febbre enterica e dimostrandone la

trasmissione per via alimentare; nel 1880 Eberth e Koch individuano e descrivono il bacillo e nel

1896 Pfeiffer e Kalle sviluppano il primo vaccino anti-tifico. Un altro passo avanti si deve al

medico francese Charles Nicolle (1909), ma la risoluzione della malattia avviene in epoca

abbastanza recente, quando Salk in America mette a punto un nuovo vaccino (1955).

Quando si esaurisce l’ondata epidemica? Come si è detto, le epidemie influiscono drasticamente

sul tasso demografico. Abitualmente, però, dopo la prima ondata che abbatte in misura consistente

il numero della popolazione, la fase successiva registra una nuova impennata. Dopo ogni tragico

evento la popolazione tende a crescere, come era accaduto proprio dopo la peste del 1348 - quella

descritta dal Boccaccio - che l’aveva ridotta in maniera significativa. Il tasso di crescita aumenta

fino al Cinquecento, con un indice percentuale alto ( oltre il trenta per cento), poi subisce una nuova

diminuzione nell’ambito del più generale fenomeno della crisi del Seicento, secolo che si

impoverisce anche sul piano demografico, per risalire in maniera consistente nel corso del

Settecento - più del cinquanta per cento - fino a diventare esorbitante nell’Ottocento, quando specie

nella seconda metà del secolo, alimenta forti correnti migratorie che si irradiano negli altri

continenti. Bisogna anche dire che nel suo percorso temporale, ogni epidemia è scandita da fasi

diverse, generalmente ha inizio con un primo picco violento cui segue un andamento più lento, poi

si spegne e l’infezione cessa, pur rimanendo latente, e può ricomparire anche dopo molto tempo.

Ma come avviene l’esaurimento dell’ondata epidemica, quando e perché a un certo punto la

malattia finisce? In una rosa di ipotesi diverse, ha trovato qualche consenso un’interpretazione per

così dire malthusiana (Naphy-Spicer) secondo la quale esiste un limite naturale che livella la

popolazione in ragione delle risorse alimentari, e quando tale limite viene superato la natura stessa

interviene per abbassare il numero degli abitanti con carestie ed epidemie che incidono in misura

più o meno decisiva ma sempre tragica dal punto di vista umano, interrompendo l’andamento di

cicli produttivi pure qualche volta altamente positivi. Lebbra, colera e vaiolo, pure in momenti

diversi, sembrano estinguersi autonomamente. Non tutti sono d’accordo, l’importante dibattito sulla

scomparsa di queste e di altre malattie vede gli studiosi confrontarsi sia sulle origini che sulla

cessazione dei contagi, a proposito della quale alcuni hanno introdotto il concetto di “arresto

spontaneo”, sono convinti cioè che dopo l’evoluzione della malattia si crei una sorta di equilibrio tra

l’agente patogeno e l’ospite, una specie di immunizzazione che porterebbe l’infezione a rimanere

sempre presente ma occulta e senza più efficacia. “Il est aisé de comprendre le mécanisme

biologique de ces phénoménes en invoquant le schéma néo-darvinien, c’est à dire la sélection

s’opérant au niveau des structures moléculaires du code génétique” (Grmek). Secondo quanti si

sono occupati specificamente delle origini e della scomparsa delle infezioni epidemiche, né il

miglioramento di vita e dell’igiene, né le quarantene o l’aumentata resistenza degli uomini ne

giustificano pienamente la fine, poiché le ragioni sarebbero da ricercarsi piuttosto nel complesso

meccanismo dell’antagonismo: un’epidemia avrebbe fine in quanto scacciata, esautorata, da un’altra

anche del tutto difforme dalla prima. La quasi totale sparizione di malattie come la peste e la lebbra

sarebbe dovuta proprio all’affermazione di altre che hanno espulso le precedenti - come la

tubercolosi che cresce in Europa quando le altre due si arrestano - anche se è necessario distinguere

i due casi in quanto la lebbra è una malattia cronica a lenta progressione che riguarda solo gli

uomini e che, pur comportando negli anni orribili mutilazioni, raramente porta alla morte, mentre la

peste - che invece viene condivisa fra gli uomini e diverse specie di animali - scoppia

improvvisamente con una forte febbre e in pochi giorni può condurre alla morte. Grmek sostiene

peraltro che per quanto riguarda il passato, si possano studiare solo le tendenze principali e le

caratteristiche di fondo della patogenesi storica ma non si possa andare oltre, in assenza di una

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corretta diagnosi e data la difficoltà a precisare una serie di altri fattori come per esempio un

censimento esatto di tutte le malattie e la loro stessa definizione. Soprattutto a proposito di

quest’ultima c’é da dire che nel corso dei secoli e specialmente in età medievale, sotto il medesimo

termine venivano classificate malattie molto diverse, per esempio nel caso della lebbra avrebbe

potuto trattarsi di psoriasi, di tubercolosi cutanea, di altre dermatiti o infine della stessa sifilide che

comportava manifestazioni superficiali della pelle. Dunque quantificare il fenomeno è assai difficile

per lo storico o il demografo, anche se le analisi effettuate dai paleontologi su ossa di ammalati nei

cimiteri dei lebbrosi, in linea di massima, hanno confermato l’esattezza delle diagnosi. Senza dire

poi che nel tempo cambia anche il vocabolario medico, dalla nosologia medica fondata sulla

sintomatologia esterna e sul concetto di “umori”, i medici passano alla nosologia anatomica ed

eziologica, dunque può non esserci una piena relazione fra i termini impiegati per indicare una

malattia piuttosto che un’altra (Grmek). Spesso, di fronte a patologie diverse, la diagnosi è quella

generica di “febbre”, che può nascondere una brucellosi (o febbre maltese) contratta attraverso il

latte, un’influenza grave come la spagnola, oppure una tosse o un catarro, febbri intermittenti o

remittenti, reumatismi, “mal de la pietra” (calcoli alla vescica o al rene), persino una difterite

(comparsa in Spagna nel XVI secolo). In realtà il termine è nell’uso comune di chi accusi un

qualunque male suo o di altri

egli ebbe istanotte una gran bussa chon una gran febre

racconta un mercante a un suo collaboratore riferendosi a un viaggiatore al quale ha offerto

ospitalità, ma non è chiaro di che febbre si tratti, può essere il più banale malessere come il sintomo

di una malattia seria, o più propriamente una febbre terzana cioè un attacco di malaria che

indebolisce fortemente, come viene riferito in una lettera in cui si dice

non è ben sano e tutto dì casca... il maestro dice gli durerà dieci o

dodici dì

Inoltre, gli agenti patogeni cambiano nel tempo, “le malattie si trasformano, hanno la loro storia,

che dipende da un’evoluzione possibile dei microbi e dei virus e da quella del terreno umano in cui

vivono” (Braudel) e poi spesso sono mascherate sotto nomi diversi poiché le descrizioni dei sintomi

possono mutare in ragione di una serie di variabili, allo stesso modo delle difese immunitarie delle

loro vittime, colpite soprattutto se in cattive condizioni generali. Oltre alle epidemie, anche altri

malanni quotidiani affliggono gli uomini di ieri come di oggi, mal di stomaco e di petto, mal d’ossa,

mal di reni, mal di denti

io ò auto questa settimana uno gran male di stomaco (1398);

mandami quell’acqua per purgarmi; acqua di finocchio che

anche tu ti possa purgare

La moglie di un mercante medievale soffre di un male a una gamba e scrive al marito lontano:

Io no’ sono uscita di casa poscia ch’io tornai qui per questa

mia gamba perché m’a deto il medico ch’io no’ l’afanni tropo

(1394)

Uno si è ammalato di itterizia

pare al maestro che sia male disposto dentro, dice no’ vide mai

più soza acqua che la sua ed egli è gialo

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Qualche altro cerca un rimedio efficace per un dolore che lo affligge da vari giorni:

io ò auto questa settimana uno gran male di stomaco, arei

bisogno d’un poco di malvagia

Alle volte anche un mal di denti può creare preoccupazione, specie se si tratta di bambini delicati.

Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo III e regina di Napoli molte volte racconta dei malanni

dei suoi figli nelle lettere inviate agli augusti suoceri, i sovrani di Spagna

Isabelita tiene un enfriamento general per todo el cuerpo, pero creo

que le viene por que le salen las muelas... ha tenido un poco de

fiebre hasta que no termine de sacar sus benditos dientes

E quando la bambina continua a stare male si preoccupa terribilmente per le conseguenze provocate

dalla febbre alta

la infermedad de mi querida Isabelita, a la qual le vino una

convulsión tan terible que creía que moría... le volvieron las

convulsiones e fu en el punto de morir

Altre volte le malattie colpiscono nel corso dei viaggi, quando soggetti abituati a una vita sedentaria

si trovano a dovere affrontare disagi di ogni genere esponendosi alla durezza del clima o mangiando

cibi ai quali non sono avvezzi. Sovrani, dignitari di corte, personaggi più o meno illustri,

viaggiatori, esploratori, contraggono febbri, infreddature, polmoniti, affezioni intestinali di vario

genere. I malanni possono essere frutto anche del tipo di lavoro che si svolge, come accade ai

corrieri medievali che patiscono disturbi agli occhi e ai polmoni, perché correndo per raggiungere le

stazioni di posta sono esposti ai disagi delle stagioni, e oltre al freddo, al vento, alla polvere,

respirano pure aria infetta attraversando zone paludose e malsane (Le Goff): chi abita vicino alle

marrane si ammala di malaria, come i minatori si ammalano di silicosi e gli abitanti delle montagne,

per la mancanza di iodio, di tiroiditi e gozzo endemico. Per ogni malattia, oltre che rivolgersi al

guaritore, spesso si ricorre anche alla preghiera raccomandandosi ai santi, come mostrano gli ex-

voto offerti in ogni epoca per grazie ricevute, antiche tavolette dipinte che raffigurano la scena del

miracolo, con l’apparizione del santo invocato e i segni della malattia dalla quale si è ottenuta la

guarigione. La devozione popolare testimonia un’ampia gamma di situazioni, gambe e braccia

ferite, cadute da cavallo mentre si lavora nei campi o da qualche nave in procinto di naufragare,

uomini minacciati da lupi o inseguiti da tori, cuori fiammeggianti che esprimono la riconoscenza

dei devoti per lo scampato pericolo. Nel tempo anche pittori famosi non disdegneranno questo

genere, al quale si dedicheranno autori sempre più specializzati in scene votive, passando dalle

tavolette alle piastrelle in ceramica decorata su cui ritraggono malati che lasciano il letto ormai

guariti, paralitici che lanciano via le stampelle, partorienti felici accanto ai neonati, una serie di

situazioni in cui la fede ha consentito di riconquistare la salute.

Ci sono poi malattie dei poveri e malattie dei ricchi. Una in particolare affligge questi ultimi, la

gotta, che è assai diffusa a causa delle abitudini alimentari basate sul consumo delle carni,

specialmente di selvaggina, malgrado i medici assai precocemente avessero cominciato ad avvertire

che bisognava essere moderati nel mangiare. Nei documenti di varia tipologia e soprattutto nelle

lettere, i riferimenti a questo tipo di malattia sono ricorrenti e raccontano di amici e collaboratori

afflitti dal male:

Tomaso à le gotte; Gerolamo prese llo male delle ghotte; del male

de la mia gamba, la quale gratia de Dio è ben ridutta, sono

pressoché guarito; facio poco conto de l’oppinione d’altri de

l’esser gotte

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accennando anche al modo di curarla poiché, nell’importante transizione della scienza ufficiale che

si apre verso l’accettazione di rimedi empirici, tra medioevo ed età moderna si diffondono

indicazioni pratiche su come affrontare sia la gotta della mano (ciragra) che quella più diffusa del

piede (podagra) e dell’anca (sciatica). Importante in tal senso è il ruolo di opere di divulgazione

come i Consilia che diventano un genere tipico della tradizione medica italiana favorita dalla

traduzione dei testi latini in volgare (analogo fenomeno di divulgazione tra il XIV e il XV secolo si

verifica anche in altri settori della formazione culturale, per esempio nell’aritmetica che a Firenze

viene insegnata ai mercanti in apposite scuole su testi in volgare regionale). L’intento è didattico ma

anche pratico e risponde all’esigenza di preparare il lettore indirizzandolo alla cura che sarà diversa

a seconda della natura della malattia, del tipo di dolore e di colore dell’arto ammalato, del tipo di

umore, se cioè si tratta di umori semplici - l’umore sanguigno o quello collerico o ancora quello

malinconico - o “permisti”, poiché diversa deve essere la terapia alla quale in ogni caso si procede

ricorrendo alle erbe (Navarro Salazar). Una malattia di tutti i giorni con cui bisogna imparare a

convivere è la “maninconia” di cui soffre Marco Datini che accusa anche di essere afflitto

dall’insonnia (1398). Veniva considerata conseguenza dell’atrabile, cioè della bile nera (umore

secco e melanconico) che arrivava alla milza in eccesso, provocando un forte stimolo allo stomaco e

dunque comportando anche disturbi di gastrite. Spesso infatti il malinconico è magro, irritabile,

bilioso appunto e per analogia viene riferito alla terra, fredda e secca ma gode di una certa

considerazione, come portatore di una maggiore sensibilità che lo rende vocato facilmente all’arte o

alla filosofia.

Approccio scientifico alle malattie nel tempo. Quali che siano le malattie dalle quali l’uomo deve

difendersi, è intuitivo che, nel tempo, mutino criteri e metodi in ragione del processo di

avanzamento complessivo delle conoscenze umane in ogni campo e specificamente in quello delle

scienze. Nella medicina pre-scientifica i curatori si rivolgono anche all’esperienza pratica della

tradizione popolare che spesso comprende il ricorso alla magia. Poi via via, nel trascorrere dei

secoli, così come si attua il progresso nell’ordine politico e in quello economico che segna la

transizione dal feudalesimo al capitalismo, simmetricamente si svolge il lungo cammino che

conduce dall’arte alla scienza medica. Nel XV secolo la medicina è ancora basata sulla dottrina

galenica (da Galeno, il maggior medico greco dell’antichità del II sec. d.C.) fondata sulla teoria

degli spiriti - naturale, vitale, animale - e degli umori: sangue, flegma, bile gialla, “atrabile” . La

convinzione che l’equilibrio tra gli umori determinasse le diverse tipologie di temperamento:

sanguigno, flemmatico, melanconico, collerico, persiste in larga misura almeno fino al secolo

XVIII. Tutte le malattie venivano ricondotte alla discrasia degli umori negli individui, di

conseguenza ogni terapia era rivolta a ripristinare l’equilibrio umorale, come le purghe e i salassi

che venivano usati per alleggerire il corpo da un eccesso di umori, o anche come i cibi e i farmaci

anch’essi rivolti a riportare nella norma il tono degli umori alterati. Le medicine erano costituite per

lo più da “composti” e ristabilivano l’equilibrio grazie alle sostanze dei loro ingredienti, mentre

l’alimentazione - che costituiva un importante presidio terapeutico - veniva usata sia dai medici che

a livello popolare su base empirica, attribuendo specifiche proprietà a questo o a quell’alimento.

Quando l’offerta si amplia a seguito della conquista americana, i nuovi prodotti, che hanno un

notevole valore nutritivo, calorico ed energetico come il mais o i fagioli, vengono identificati per

analogia con ciò che si conosce: il mais con il frumento e gli altri cereali, i fagioli con quelli già noti

di origine asiatica (fagioli dell’occhio). Manca tuttavia la conoscenza analitica dell’anatomia, la

medicina galenica non riesce a valutare gli effetti “interni” del cibo e collega ogni umore alla natura

e alla qualità di uno dei quattro principi elementari costituenti la materia. Il sangue, caldo e umido,

corrisponde all’aria; la flemma, bianca, fredda, vischiosa, all’acqua; la bile gialla, calda e secca, al

fuoco; l’atrabile, secca e umida, alla terra. Gli alimenti possono agire sugli umori corporei

provocando la malattia o al contrario preservando la salute, però “ne’ nomi stessi variano li

Galenici; perché alcuni vogliono che rigorosamente chiamar si debbano sangue bilioso, pituitoso e

malinconico; altri, poi, pituita, bile e malinconia” (Malpighi). Fra Quattro e Cinquecento la

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medicina insegnata nelle scuole e praticata dai medici è dunque ancora quella galenica, tuttavia

l’avanzamento scientifico pone nuovi interrogativi. Il lungo percorso del rinnovamento ha bisogno

di tappe molteplici e differenti rivolte a riformare la medicina tradizionale con importanti scansioni

dovute all’evoluzione del pensiero scientifico in un coacervo di segni diversi, tra la nuova ideologia

della Riforma e l’azione decisa della Controriforma, tra umanesimo e manierismo. Nel XVI secolo

prende corpo l’ardente desiderio di raggiungere un sapere universale, cresce cioè “l’idea che la

chiave per raggiungere l’intelligenza completa della realtà” (Evans) possa consistere nelle discipline

che riguardano le facoltà mentali, dunque per indagare sulle loro potenzialità si deve procedere

verso zone inesplorate che conducono alla concezione occultistica del mondo. La magia e

l’astrologia diventano parte integrante del processo di transizione culturale - nella filosofia degli

intellettuali come nella società dove diventano di moda, nei salotti come a corte - che in sostanza si

allontana dalla concezione aristotelica per rivolgersi a quella neoplatonica al fine di superare la

rigidità metodologica e la concezione deterministica per accedere al concetto di trasformabilità.

Tale convincimento dà luogo alle dottrine ermetiche - che pongono in rilievo l’unità primordiale

dell’umanità - e al principio della cabala, basata sull’esistenza di una rivelazione cosmologica,

come strumento di indagine dei misteri divini. Con il Rinascimento “rinasce” il mondo antico e nel

contrasto tra fede e ragione, la neoscolastica - che riprende la filosofia cristiana medievale rivolta a

difendere razionalmente la religione rivelata - veicola gli effetti della Controriforma spagnola e lo

sviluppo del cabalismo cinquecentesco, mentre il ritorno a modelli medievali induce a credere in un

disegno divino intellegibile solo attraverso la rivelazione. Si guarda al principio di autorità, che i

cattolici trovano nell’infallibilità della Chiesa e i protestanti in quella delle Sacre Scritture, ma con

il fiorire della filosofia naturale tale principio comporta che la conoscenza di Dio si possa

raggiungere attraverso “la mediazione dell’intelletto addestrato. Ecco allora il ruolo del mago,

dell’iniziato all’alchimia e all’astrologia” (Evans).

Il ricorso all’occultismo si avvale del contributo di Fracastoro (1478?-1553) e soprattutto di

Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541), figura straordinaria anche se

discussa, che impronta di sé la medicina cinquecentesca. L’illustre personaggio è figlio di un

medico (Guglielmo) e di una donna - che alla fine del XV secolo dirige l’Ospedale dei pellegrini

situato in un centro poco distante da Zurigo, dove appunto il padre si era stabilito provenendo dalla

Germania -. Tutta la vita di Paracelso è caratterizzata dal precoce interesse per la scienza alla quale

viene iniziato dal padre sia per quanto riguarda la conoscenza delle erbe medicinali che per gli studi

di metallurgia e di mineralogia; Guglielmo Bombast von Hohenheim, infatti, per un periodo insegna

anche tecnica mineraria e studia sia i minerali che lì venivano estratti come piombo, ferro, vetriolo,

oro, cinabro (solfuro di mercurio, prezioso per gli alchimisti), sia le malattie dei minatori, di

particolare interesse per l’industria estrattiva che costituiva il fulcro dell’economia tedesca del

Cinquecento. L’esistenza di Paracelso è anche segnata dai continui viaggi da lui intrapresi al fine di

ampliare la sua esperienza in Europa occidentale come in quella centro-orientale, da Basilea a

Colonia e Parigi, a Mosca e Costantinopoli, alle città italiane di Padova, Bologna e Ferrara -

quest’ultima in particolare estremamente importante per la sua formazione -. In qualità di medico

chirurgo prende anche parte alla guerra nei Paesi Bassi del 1516-17 acquisendo grandi conoscenze

pratiche e si arruola pure nell’esercito danese come chirurgo militare.

Rientrato nella mitteleuropa risiede a Salisburgo e a Strasburgo, è sempre un protagonista di primo

piano nell’ambiente scientifico e nelle società dominanti di ogni città, raccogliendo grandi consensi

ma scatenando anche l’opposizione violenta dei collegi medici e delle autorità accademiche delle

Università, a lungo legate al sapere tradizionale. A Basilea nel 1527 scoppia la peste e Paracelso,

che è medico municipale e professore, per la prima volta tiene le sue lezioni, anziché in latino, in

tedesco, lingua che introduce all’Università e nei saggi scientifici. Si contrappone con forza al

mondo accademico accusando medici e farmacisti di sfruttare la condizione dei malati e si schiera

contro la Chiesa cattolica colpevole a suo avviso di frenare l’avanzamento della scienza: “da

Erasmo a Pracelso, da Campanella fino a Giordano Bruno, tutti questi pensatori svolgono la loro

ricerca spesso in contrasto con il pensiero e le regole ecclesiastiche del tempo, ma non in contrasto

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con la religione, essendo spesso essi stessi uomini di chiesa, ma vivendo la propria religiosità in

maniera innovativa enfatizzando il divino che è nell’uomo e nel mondo” (Lo Giudice). Condannato

all’esilio, lascia precipitosamente la città recandosi prima in Alsazia poi a Norimberga.

Egli è un innovatore in tutto, propone una tariffa fissa per l’onorario dei medici e cura gratuitamente

i poveri, ma in special modo sostiene la necessità e l’urgenza del cambiamento della medicina.

Formula una dottrina medica (spagìria) che studia l’origine delle patologie riconducendole alle leggi

della natura - biologiche, fisiche, cosmiche - e ne propone la cura per mezzo di procedimenti

chimici dai quali trarre preparati efficaci derivati dalla scomposizione degli elementi e dalla loro

ricomposizione. Sostiene la stretta relazione tra medicina, magia e astrologia, in quanto le forze

magiche hanno il potere di influire sul creato e dunque sul rapporto uomo-natura. Nel processo di

avanzamento della conoscenza umana, tortuoso, estremamente complesso e difficile da cogliere

nelle sue contraddizioni, con Paracelso - sempre avversato e più volte denunciato come impostore

ed eretico - si va affermando una netta corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo, un

parallelismo tra individuo e universo, partendo dal quale egli ritiene necessario comprendere la

realtà empirica per giungere al contenuto sotteso dei fenomeni, come fanno i filosofi naturali che

studiano le “forze attive del mondo... per cogliere le forze motrici di natura spirituale che agiscono

tramite un assetto divino delle corrispondenze”. La ricerca però non si basa su un processo di libera

induzione, ma segue uno schema in maniera aprioristica, con l’obiettivo non solo di conoscere e

descrivere le forze della natura ma anche di governarle attraverso un controllo operativo attuato per

mezzo della magia: “la magia era un’arte naturale e non nera, dato che la causa ultima che la

rendeva praticabile era di origine divina e non diabolica” (Evans). Pur proponendo il nuovo, in

effetti, Paracelso intende avvalersi di concetti irrazionali e a fronte del pensiero rinascimentale che

va modernizzandosi e già afferma il rigore logico come metodo di indagine intende ancora servirsi

di strumenti metafisici come la magia, ma anche l’alchimia, che in fondo altro non è se non la

chimica dell’epoca, al tempo stesso comprensiva di elementi naturalistici e mistici.

È una prima evoluzione sistematica della scienza medica, con sostanziali cambiamenti nell’indagine

sulle piante, che già prelude alla botanica moderna, e dell’anatomia che indirizza alla nuova

medicina la quale realizza il passaggio dalla pratica medica a una più precisa configurazione

professionale. Tuttavia, malgrado i segni di progresso, permangono molti limiti pure diagnostici che

non consentono la comprensione dei mali, ancora imputati a ragioni di carattere sovrannaturale. La

malattia non proviene dall’uomo ma dalla natura e dunque anche la medicina ha la stessa origine -

sostiene Paracelso - sicché l’intervento del medico deve partire dalla natura, che è la maestra del

medico e procedere attraverso l’esperienza empirica. Secondo la sua tesi, poiché l’uomo ha come

obiettivo la ricerca di Dio, anche la ricerca scientifica deve essere magica, e quindi la stessa

medicina per curare l’ammalato deve avvalersi della magia e dell’alchimia. Il suo intento di

riformare le conoscenze mediche (e le scuole) attraverso il ricorso alla magia e all’alchimia solleva

contro di lui il sospetto di eresia, ma le sue molteplici opere mostrano interessi molto ampi - fra il

1530 e il 1536 scrive trattati sulla sifilide (De morbo gallico), sulla peste, sulle terme e le proprietà

delle acque, sulla chirurgia -. Nel 1530 completa le sue opere fondamentali Paramiro (Guardare

oltre il meraviglioso) e Paragrano (Guardare oltre il granello). Rivolge la sua attenzione anche a

malattie di interesse psichiatrico come l’isteria e l’epilessia costruendo una sua dottrina delle

passioni basata sul dualismo salute-malattia/bene-male e collegando anche in questo caso la

malattia, anche quella mentale, agli astri (De generazione stultorum, Colonia 1567). Egli sostiene

che, quando l’uomo non è capace di governare gli istinti animali, questi prevalgono sullo spirito

divino; ogni stella controlla i singoli organi - per esempio Saturno sovrintende l’attività della milza

che induce la “malinconia” - e ciascuna passione viene scatenata dalle singole stelle poiché l’uomo

è in stretta relazione tra microcosmo e macrocosmo, anche per quanto attiene ai “veleni” introdotti

nel suo corpo attraverso l’alimentazione. Paracelso conquista una grande fama di guaritore, riprende

i viaggi, parte integrante della sua proposta scientifica di creazione di un “medico itinerante” che

non intende lavorare sulla base di un sapere teorico ma vuole viaggiare per conoscere. Insomma,

l’aspirazione a un sapere totalizzante, il sapere pansofico (enciclopedico e sistematico dal forte

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intento didattico) costituisce il tentativo di giungere a “una sistematizzazione del molteplice e del

diverso”. Nel corso del XVII e XVIII secolo, però, l’affermazione della chimica scientifica

(Lavoisier, Dalton, ecc.) decreta il tramonto degli alchimisti e il loro sogno di trasformare in oro

ogni altro metallo vile, poiché lo sviluppo del pensiero scientifico che abbandona il dogmatismo

aristotelico si basa ormai sul metodo sperimentale. Nel processo evolutivo della scienza medica,

una tappa importante è quella segnata dalla pubblicazione De motu cordis, di Guglielmo Harvey

(1578-1657), stampato a Francoforte nel 1628, una pietra miliare nel cammino della fisiologia.

Dall’antichità, la medicina galenica aveva guardato alla circolazione del sangue “come una sorta di

movimento delle maree”, basandosi sul principio emodinamico dei flussi e dei riflussi, convinta che

a soprassedere a tale funzione fosse non solo il cuore ma anche il fegato. E’ proprio Harvey,

laureato presso l’Ateneo di Padova, a individuare come unico centro il muscolo cardiaco da cui

parte il flusso sanguigno e al quale torna. Ciò mostra come, per fasi successive, le idee innovative

mutano l’intero contesto culturale ideologico, filosofico, economico, con studiosi di enorme rilievo

come Galileo (1564-1642) e Cartesio (1596-1650) che rappresentano appunto la nuova scienza che

si va affermando. Poi nel Settecento innumerevoli intellettuali animano la scena culturale europea

dando un apporto significativo al processo di avanzamento filosofico, giuridico, economico,

tecnico-scientifico, reinterpretando ruoli e significati delle società di Antico Regime, introducendo

paradigmi politici e teorie economiche inedite (come il liberismo), nuove analisi e prospettive. Il

credo di cui si nutre il secolo dei Lumi è essenzialmente la negazione totale dell’origine divina del

potere dei sovrani, cui si accompagna la convinzione che quel potere debba piuttosto realizzare

l’interesse generale della popolazione. Montesquieu e Rousseau segnano la nascita di un’era novella

sul piano dell’elaborazione della teoria politica, come Beccaria e Filangieri su quello dell’analisi

giuridica e Quesnay su quello dell’economia, con la fisiocrazia proposta in sostituzione della

precedente linea di politica economica mercantilista e il liberismo di Adam Smith che introduce il

concetto della divisione del lavoro quale significativo mezzo per lo sviluppo dei processi produttivi.

In tale clima culturale non può che crearsi un nuovo impulso della scienza attraverso l’utilizzazione

di metodi di indagine empirici che stimolano gli studiosi nel campo della fisica sperimentale come

della chimica moderna. Per la medicina, è forse possibile enucleare dal più generale fenomeno

illuminista il suo punto di forza consistente nella scelta dell’esperienza diretta e della concezione

razionale che rifiuta ormai ogni aspetto sovrannaturale. Gli enciclopedisti hanno il merito di

“purgare” la scienza dalla metafisica! Come le scienze naturali che esprimono personaggi rimasti

nella memoria collettiva quali Linneo (Carl von Linné, 1707-1778) che per primo realizza la

classificazione delle specie animali e vegetali, o Lazzaro Spallanzani (1729-1799) che fa

dell’esperienza il filo conduttore delle sue ricerche - compiendo importanti scoperte specie nel

campo della riproduzione - anche le scienze mediche compiono progressi notevolissimi, in

particolare sull’affinamento del metodo che si avvale ora dell’osservazione e della sperimentazione:

molte delle malattie anche note vengono descritte raccogliendone i sintomi e seguendole nel loro

andamento - cardiopatie e febbri palustri - altre, fino a quel momento sconosciute come il diabete,

vengono individuate per la prima volta. Al processo di cambiamento delle società corrisponde

simmetricamente quello delle scienze, pure in modo diverso a seconda del profilo politico,

economico, culturale, dei vari paesi europei. Le novità introdotte dalla rivoluzione industriale hanno

mutato mentalità e contesti produttivi ma è soprattutto la trasformazione dell’assetto istituzionale

seguito alla Rivoluzione francese e al periodo napoleonico a indurre, fra XVIII e XIX secolo, un

nuovo corso nelle discipline scientifiche. Attraverso il sistema didattico e di ricerca introdotto si

giunge alla professionalizzazione della scienza, che diventa organica alle strutture dello Stato e,

specializzandosi, per la prima volta divide il sapere tra cultura filosofica e attività scientifica. Nel

tempo, le prime grandi sedi universitarie come Padova o Bologna organizzano in Italia i saperi

codificati e ne fanno l’oggetto di ciò che oggi viene definita offerta formativa, precisando sempre

meglio i curricula, aggiungendo ai primi nuclei di insegnamento discipline definite sempre meglio

nelle loro specificità, inaugurando (fra Sette e Ottocento) nuove cattedre, di chirurgia, ostetricia e

farmacia, pediatria. In particolare quest’ultima si afferma in Europa fra Sei e Settecento grazie al

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lavoro di molti medici che cominciano a studiare la specificità delle malattie infantili. Nei territori

dell’Impero asburgico, l’ampio respiro riformista dell’età teresiana e giuseppina non si limita a

intervenire su economia, finanza, amministrazione, ma si occupa pure dell’Università. Insieme a

laboratori attrezzati e all’istituzione di ulteriori cattedre - medicina teoretico-pratica e clinica,

ostetricia, operazioni chirurgiche - parte integrante dell’operazione di rinnovamento è la chiamata di

professori “di chiara fama”. Fra questi, Spallanzani che nel 1769 viene invitato a ricoprire la

cattedra di storia naturale, all’epoca appartenente alla facoltà di filosofia; in particolare si giunge al

riassetto della Facoltà di medicina di Pavia con un nuovo profilo - risultato del Piano didattico

(1771) e di quello scientifico (1773) - sostenuto anche materialmente da Vienna, che congiunge per

la prima volta lavoro intellettuale e lavoro manuale (Cosmacini). Interessanti i programmi di studio

della Sapienza di Roma che compaiono nei bandi pubblicati per ogni anno accademico

dall’avvocato del concistoro (assemblea dei cardinali) rettore della Sapienza che “nell’instruttione

delli scolari dell’una e l’altra legge della medicina” notifica le lezioni che verranno tenute:

istituzioni civili, canoniche e criminali, medicina e medicina pratica “ogni giorno eccettuate le feste

della Santa Chiesa e una vacanza la settimana, la quale quando si incontrino quattro lettioni seguite

regolarmente sarà il giovedì di ciascuna settimana e ogni sabbato la repetitione generale. Inoltre si

detteranno e spiegheranno le seguenti materie nei giorni assegnati, divise fra ore mattutine e ore

vespertine: Le Pandette; De oficio et potestate iudici; De morbis thoracis, ecc.”. In Francia, dove

l’andamento è più rapido proprio per la cancellazione delle preclusioni di classe, conseguente alla

Rivoluzione, vengono immessi sul mercato professionisti provenienti dai ceti inferiori, in Germania

l’Università di Berlino (articolata in quattro facoltà: teologia, diritto, medicina, filosofia) fondata da

Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) nel 1809 aspira al rinnovamento della cultura tedesca

forse anche come reazione alla sconfitta di Jena subita a opera di Napoleone. Nel fervore degli

intellettuali della sua epoca, l’imperatore vede la cassa di risonanza del suo potere che si propaga

anche in Italia nella costituzione della Repubblica Cisalpina (1797) mentre a Milano nasce l’Istituto

di Scienze, lettere e arti attraverso il quale si estende l’influenza anche in ambito culturale della

Francia, la cui forza di attrazione, tuttavia, riguarda più propriamente l’intera Europa, Berlino come

Pietroburgo, fatta eccezione per l’area anglosassone - Londra, ma anche Boston e Filadelfia -.

Ovunque si va affermando la concezione di una scienza nuova, intesa come strumento del progresso

sociale che diventerà il segno dominante delle teorie progressiste dell’età contemporanea. Il secolo

d’oro della medicina, infatti, è l’Ottocento quando nella ricerca (ma non del tutto nella società)

viene messo da parte l’elemento metafisico, che tuttavia era stato un elemento di grande

suggestione nel processo di crescita della storia culturale europea. L’analisi ora diventa sempre più

scientifica e ormai il medico nelle sue valutazioni usa nuovi indici, la temperatura, il numero delle

pulsazioni, la percussione del torace (per la prima volta), ma soprattutto considera l’essere umano

nel suo insieme, non solo nella parte malata. Fra i diversi sistemi che emergono - l’animismo,

l’eclettismo, il meccanicismo, ecc. che rinviano a concezioni diverse - la nota comune è data

dall’attendismo, secondo il quale la malattia è lo strumento usato dal corpo per liberarsi dagli

elementi nocivi, dunque non va bloccata o combattuta, per esempio interrompendo una febbre.

Bisogna invece aspettare la capacità della natura di curarsi ripulendo il corpo dalle parti infette,

perciò il medico deve intervenire in maniera tenue, consigliando purghe, diete, salassi, bagni

termali, tutto ciò che possa facilitare il processo di purificazione dell’organismo senza interrompere

la sua azione che dovrebbe condurlo alla guarigione in modo naturale. L’osservazione intanto dà

luogo alla formazione di apposite tavole dei sintomi, consentendo lo studio analitico delle malattie e

l’impiego di rimedi specifici per curare “le lesioni organiche” - come sostiene per primo lo

psichiatra francese Pinel - e infatti trovano applicazione la china contro le febbri, la digitale per

l’idropsia, i vescicanti sul torace contro la polmonite, e così via. Nasce a Parigi il primo ospedale

pediatrico, l’Hôpital des Enfants Malades (1802). Soprattutto, però, si dà spazio alla prevenzione,

privata e pubblica. I medici scrivono trattati di igiene per indicare a ciascuno il modo di rimanere in

buona salute e gli Stati si preoccupano sempre di più di trovare sistemi in grado di proteggere la

popolazione da ondate epidemiche e malattie infettive come tifo e pertosse. D’altra parte, l’unico

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sistema contro il dilagare delle epidemie è ancora quello usato in passato di fermare chi arriva per

quaranta giorni, isolando i sospetti nei lazzaretti, anche se spesso neppure così si riesce ad arginare

il contagio. Nasce una nuova consapevolezza da parte degli amministratori come degli abitanti, i

primi ormai considerano come loro specifico dovere la cura della salute pubblica per la tutela della

quale è necessario porre in essere un’apposita normativa, i secondi acquisiscono una prima

coscienza civile che li induce, per esempio, a denunciare i casi di infezione contrariamente a quanto

si faceva in precedenza. Nel corso del XIX secolo maturano altre teorie che si legano a quello

passato, in sintonia come in contrapposizione. Per un verso si conferma la considerazione del

metodo scientifico, ma dall’altro si combatte il ruolo critico e individualista dell’illuminismo,

ritenuto responsabile della disgregazione della società, rifiutando ogni astrattezza e tenendo conto

esclusivamente della realtà oggettiva. Non si può non ricordate poi che a questo punto del cammino

degli uomini si supera l’idea meccanicistica di Newton che aveva considerato l’universo come una

macchina ciclica e si inaugura una differente visione della natura. La grande novità nel campo delle

scienze biologiche è la teoria dell’evoluzione di Darwin (1809-1882) che afferma il suo impianto

materialista negando la creazione divina dell’universo. La conseguenza più rilevante de L’origine

delle specie è il superamento della concezione antropocentrica e l’affermazione di un mondo

naturale in cui si attuano continui cambiamenti, alcuni dei quali danno luogo alla selezione naturale.

Ne consegue che anche l’uomo a questo punto ha una derivazione da qualche forma animale,

affermazione che non poteva non suscitare il coro di sdegno da parte del sapere tradizionale che

infatti grida allo scandalo. Malgrado ciò l’evoluzionismo segna uno spartiacque per la sua influenza

non solo sulle scienze biologiche ma anche su quelle sociali, “aprendo” da quel momento

all’antropologia considerata ora come scienza degna di avere una propria autonomia disciplinare in

grado di scandire il cammino degli uomini, dalle aggregazioni originarie delle popolazioni

extraeuropee alle società industrializzate del Vecchio Continente.

Nella riflessione storica però, l’Ottocento, oltre che il secolo dell’affermazione dello Stato liberale e

dei movimenti nazionali, è anche il momento in cui l’economia conquista un proprio spazio

autonomo sia nell’elaborazione dei pensatori che nelle realizzazioni pratiche. Nel processo di

crescita della società capitalista borghese, tra la prima e la seconda metà del secolo, da una parte si

delinea l’indipendenza degli industriali e dei capitalisti dallo Stato che deve garantire la libertà

dell’azione individuale, dall’altra emerge la questione sociale sostanziata nella polarizzazione fra

chi possiede i mezzi di produzione e chi invece offre lavoro all’industria o all’agricoltura

modernizzata. In tale contesto nasce un nuovo soggetto politico, quello della classe operaia,

costituita appunto dai lavoratori. La loro condizione, tuttavia, è tale da attivare l’analisi fortemente

critica da parte dei socialisti utopisti i quali intervengono proponendo progetti di riforma finalizzati

al superamento della separazione fra proprietà dei mezzi di produzione e lavoratori. Saint-Simon,

Fourier, Owen, Proudhon, formulano ipotesi di una soluzione pacifica dei conflitti sociali, alla

ricerca di una nuova forma di organizzazione produttiva e sociale. Il razionalismo scientista o

positivismo di Auguste Comte (1798-1857) scandisce una nuova fase della filosofia che sostiene al

tempo stesso il potere spirituale degli scienziati e il potere temporale degli industriali (e dunque si

basa sull’accettazione della rivoluzione industriale), senza scegliere tra spiritualismo e materialismo

ma guardando esclusivamente a obiettivi concreti. Il positivismo si avvale dell’osservazione e della

sperimentazione, l’unica via per la conoscenza diventa quella del metodo scientifico in ogni campo

e del pragmatismo - cioè la ricerca di ciò che è utile alla società -. Fonte dell’esperienza è sia la

storia dell’uomo che la sua azione piuttosto che la realtà esterna a essa, le enunciazioni non sono più

assolute ma relative, la scienza crea istituzioni e classificazioni e si organizza nell’articolazione

delle strutture scolastiche. Nel successivo corso del movimento socialista, agli utopisti si

contrappone il socialismo scientifico che intende affrontare le questioni sociali nel loro divenire

storico e prende corpo la teoria sviluppata da Marx, la concezione materialista della storia, che

considera l’economia prioritaria anche rispetto allo Stato (e dunque alla politica) e legge la società

in funzione dei rapporti di produzione. Si avvia una graduale apertura liberale e costituzionale e

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nascono movimenti liberali che nei diversi paesi realizzano lo Stato nazionale che cambia la

struttura interna delle società e incide sui complessi equilibri internazionali.

Con tutta evidenza, tali avvenimenti che trasformano metodi, obiettivi e modelli ideologici in

campo economico, politico, culturale, non possono non influire anche sul sistema e sui criteri delle

discipline scientifiche. Per tale ragione, dunque, cambia profondamente anche l’ambito della

scienza che fino al secolo precedente, pur con gli avanzamenti realizzati, si era posta ancora come

attività delle élites - singoli individui, istituti, università -. Nel XIX secolo invece la scienza si

trasforma rendendo istituzionale la figura dello studioso che ormai si occupa in maniera esclusiva di

scienza e diventa un vero e proprio professionista, legato all’insegnamento universitario e

all’indagine scientifica. Questa, da adesso in poi, viene organizzata secondo un vero e proprio

“sistema”e si diffonde attraverso pubblicazioni che rendono possibile la “comunicazione” fra i

cultori delle diverse discipline. In questa fase si attua più compiutamente il rapporto tra ricerca

teorica e sperimentazione e dunque tra scienza e tecnica. La “rivoluzione” della medicina che si

afferma specificamente nella seconda metà del secolo consolida la tendenza riformatrice e, una

volta acquisito il bagaglio teorico e pratico necessario ad affrontare le malattie infettive per mezzo

dell’isolamento e delle vaccinazioni, sviluppa sempre meglio il settore della sanità pubblica

istituendo apposite figure in seno alle amministrazioni nazionali, quale per esempio l’ufficiale

sanitario, che ormai affermano la rilevanza pubblica della medicina sia per quanto concerne le cure

che per quanto attiene alla prevenzione (è quanto accade, per esempio, nell’Italia liberale).

I medici e gli altri curatori. Un importante filone di indagine riguarda il rapporto degli uomini con

le diverse categorie di guaritori. In che modo i malati si riferiscono a loro? Bisogna dire che nelle

società precapitalistiche generalmente il contatto della popolazione con il medico non è affatto

positivo sia per quanto riguarda la fiducia nella sua preparazione che per quanto attiene al

pagamento delle cure. In effetti varie ragioni influiscono su tale rapporto e contribuiscono a creare

una incomprensione o addirittura una frattura fra medico e paziente, quando sembra spenta

l’impronta dei medici ippocratici concentrati sull’anthropos (essere umano) e la medicina diventa

una delle forme del potere nella sua sostanza e nella sua forma, nelle teorie e nelle pratiche del suo

esercizio. C’è intanto una obiettiva difficoltà da parte della popolazione a rapportarsi a una figura

singolare che si offre come diversa anche nel modo di vestire, poiché il medico abitualmente usa un

abito nero (o porpora), qualche volta di seta, porta con sé un bastone rosso, al collo una grossa

catena, alle dita anelli d’oro con pietre preziose, senza dire poi del cosiddetto “dotor de la peste” il

quale indossava una maschera a forma di uccello dal lungo becco che aveva una importante

funzione pratica in quanto conteneva una sorta di filtro con erbe mediche cui era affidato il compito

di inibire il contagio dell’aere pestifero. Bisogna poi comprendere il linguaggio spesso astruso che

il medico usa per fare sfoggio della sua erudizione e c’è anche la preoccupazione di doverne pagare

l’intervento.

Tale atteggiamento derivava dal fatto che in seno alla società medievale gli elementi sociali più

deboli erano stati indotti ad aspettarsi l’assistenza gratuita in conseguenza del precetto cristiano che

imponeva a tutti di praticare la carità, per cui ogni buon cattolico a titolo personale era tenuto a fare

le sue offerte per le cure dei poveri e ogni istituzione religiosa se ne occupava anche in maniera

specifica. Nel tempo, via via che si era andato affermando il livello professionale dei medici, aveva

preso corpo il principio della loro remunerazione - anche se a lungo si tratta di onorari modesti - e

nella mentalità collettiva quel venir meno dell’attività assistenziale offerta “dall’alto” era sembrato

un tradimento del principio di solidarietà sociale. Nella transizione dal medioevo all’età moderna

pagare il medico diventa ineluttabile e nascono appositi contratti, stipulati alla presenza dei notai e

sottoposti a condizione, in cui il medico si obbliga a guarire l’ammalato entro un certo periodo di

tempo, di provvedere egli stesso alle medicine, di pretendere il pagamento a guarigione avvenuta. Il

malato, da parte sua, si impegna nel contratto stesso a dire onestamente quando si sentirà guarito

facendo scattare a quel punto il suo obbligo di pagare. Ė una valutazione soggettiva, questa, e

spesso per alcune malattie l’accertamento oggettivo è assai difficile - per esempio se l’ammalato

continua a dire di sentire ancora male - sicché come accade in altri tipi di accordi, dall’una e

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dall’altra parte non mancano contrasti e litigi per contestare il mancato pagamento, per mettere in

dubbio i rimedi proposti o per dilatare i tempi di guarigione (Pomata). Anche se in seguito tali

contratti - pur validi a tutti gli effetti sul piano giuridico - verranno messi in discussione,

costituiscono comunque una tappa importante nel lungo percorso dell’affermazione della pratica

medica, tenendo presente che malgrado le difficoltà l’arte dei medici e speziali è comunque

considerata, come si può vedere dagli Statuti della Firenze medievale che la annovera fra le sette

arti maggiori unitamente a quelle dei giudici e dei notai, dei “cambiatori”, dei mercanti di panni e

lanaioli, a sottolineare l’importanza della loro presenza in seno alla società urbana. Malgrado ciò,

quello fra medico e paziente è un rapporto “squilibrato” assimilabile per molti versi ad altri - propri

delle società di ordini - fra poteri forti e classi sociali subalterne (Pomata parla di “rapporto

verticale”). Va anche detto che prima di Paracelso il medico raramente entrava in contatto con

l’ammalato - erano il cerusico e il chirurgo a occuparsi dei vari interventi, dai salassi alle analisi -

poiché egli conosce la malattia solo in astratto, da un punto di vista teorico; è Paracelso, tra le altre

innovazioni, a propugnare una più stretta conoscenza fra medico e malato poiché secondo la sua

etica il medico ha come obiettivo fondamentale quello di curare gli uomini (e giungere così alla

verità), dunque ha l’obbligo di usare correttamente il suo sapere. Egli sostiene che, dato che un gran

numero di medici poco preparati non riesce a ottenere la guarigione dei malati ed esercitano la

professione solo per arricchirsi (non esita a definirli “lupi”), questi debbono scomparire dalla

società che invece ha bisogno di persone in grado di svolgere il loro compito – una vera e propria

arte - allo scopo non solo di curare il male ma anche di operare per il miglioramento dell’uomo che

deve tendere alla perfezione.

Se la gente umile diffida fortemente del medico, fra i ceti elevati si ricorre a lui più di frequente,

magari con animo incerto, dubitando comunque dei suoi metodi ma pure alle volte confidando nelle

sue capacità. E infatti, un mercante di fronte a un amico ammalato, dice

abiamo chiamato questi medici migliori che ci sono

e aggiunge che bisogna cercare il maestro Giovanni

però ch’io ò fede in llui egli è nostro amicho e

mediante la grazia di Dio egli farà quello gli fia

posibile per rendello sano e io istarò a vedere, di qui

domattina, com’egli istarà.

In altri casi il parere è di segno opposto e si crede piuttosto nelle capacità di ripresa dell’ammalato

in quanto “la natura si solleva con semplici rimedi dove il medico per lo contrario l’aggrava di molto

con quei tanti sciroppi, pillole ed altri gallenici composti” (Redi), per arrivare poi a giudizi ancor più

duri, come quello pronunciato da Spallanzani che sentenzia: “la massa universale de’ medici è più di

danno che di utile all’umanità sofferente” (Mazzarello). E ancora, “ ci sono di quei dottori al mondo!

Due dottori gli avevo portato, e si misero a baruffare tra di loro, uno diceva di operare, l’altro diceva

di non operare. E intanto il malato morì. Se dovessi farvi l’elenco di tutte le persone che questa gente

ha spedito all’altro mondo, vi strappereste i capelli” (Rabinovich). Proprio per tale generale

diffidenza se non proprio disistima nei confronti di una categoria di professionisti spesso penalizzati

in seno alle società, i patti di guarigione comprendono un apparato di garanzia quasi esclusivamente

a favore dell’ammalato, che è il segno evidente di quanto sia basso il consenso sociale nei confronti

dei medici. Questi, pur di esercitare, si mortificano accettando pagamenti differiti o subordinando il

loro onorario alla guarigione, tenendo sempre conto che quest’ultima, come del resto la malattia,

viene definita in termini pragmatici e non clinici, cioè riferita alla parte malata e non al soggetto

considerato nel suo insieme. A dimostrazione del fatto che si tratta di un accordo come tanti altri che

vengono conclusi giorno per giorno, è curioso notare come le date previste per saldare il conto del

medico sono le stesse di quelle fissate per ogni transazione commerciale, cioè l’abituale scadenza

della fiera d’agosto che per tradizione in ogni società veniva fissata in rapporto ai cicli agrari. Va

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anche detto che per molti secoli essi non esercitano in maniera esclusiva la professione separandola

da altri interessi, perciò possono essere al contempo notai, uomini di chiesa, prestatori di denaro,

mercanti, che si occupano di affari o svolgono ogni altra attività, specie dove non ci sono rigide

corporazioni di mestieri che lo impediscano. Rabelais (1494-1553), per esempio, laureato a

Montpellier, esercita a Lione e diventa medico personale del vescovo di Parigi in Roma, ma è

celebre per il suo Gargantua et Pantagruel; Giorgio Agricola (George Bauer, 1494-1555), studia a

Lipsia e in Italia filosofia, medicina e scienze naturali, nel 1524 esercita la professione in Boemia,

grande bacino minerario, ma è conosciuto per il De re metallica (1530), pubblicato in italiano a

Basilea nel 1563 con il titolo L’arte dei metalli. Solo più avanti nel tempo l’impegno dei medici si

concentrerà esclusivamente sull’esercizio della medicina che a lungo accompagnano alla magia: nel

corso dell’espansione portoghese in Asia e Africa, il mercante Pietro Vaglienti riferisce: “un dotore

in medicina nostro fiorentino, el qual per via di astrologia e di segnali de’ cieli, conobbe che non era

sopra la terra uomo che potesse travagliarsi di tal viaggio fare e metere in opera, che la Maestà del re

del Portogallo” (Formisano). Ancor più interessante e complessa è forse l’atmosfera creata nel suo

castello di Praga da Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612) di cui gli arciduchi riuniti a Vienna nel 1606

dicono: “Sua Maestà si interessa solo a maghi, alchimisti, cabalisti e gente simile… possiede anche

un’intera biblioteca di libri di magia. Si adopera in continuazione per eliminare completamente Iddio

sì da potere in futuro servire ad altro padrone”. La preoccupazione è evidente, Rodolfo è figlio del

suo tempo, attraverso l’occultismo spera “di penetrare la realtà empirica per giungere alla realtà che

è sottesa ai fenomeni” (Evans) e crea attorno a sé un ambiente cosmopolita velato di mistero,

composto da gente di ogni religione e di vario livello culturale, persone che arrivavano da ogni dove,

accomunate dalla ricerca esoterica sulle quali pesa il sospetto di eresia. Se molti allievi provenienti

da paesi stranieri si laureano presso le università di Padova e di Bologna, altrettanti italiani si

irraggiano in tutta Europa raggiungendo posizioni di rilievo acquisendo grande considerazione

presso le corti dove si incaricano di curare papi e sovrani consigliandoli per mantenersi in salute,

assistendoli nella malattia, assicurandosi in ogni caso prestigio e privilegi economici. Tra Cinque e

Seicento, nutrita è la presenza dei medici di corte, i quali godono di uno stipendio fisso in cambio del

quale sono obbligati a svolgere il loro lavoro in esclusiva, anche se spesso la vitalità dei commerci è

tale che non rinunciano a portare a termine qualche buono affare.Essi si stabiliscono sia nelle regge

occidentali - alla corte del Re Sole come a quella dei re di Spagna - che presso la corte di

Costantinopoli, dove pure importante è la presenza di medici italiani (come Luigi Cantone, nato in

provincia di Roma) ed ebrei, tra i quali mi piace ricordare Mose Hamon, medico del sultano, il quale

era figlio del medico di Selim I e che ha un figlio, Joseph, che sarà anch’egli medico di corte. Pure in

altre città del Mediterraneo, come Palermo, gli ebrei prima di essere esplulsi, oltre che fare gli

interpreti e i commercianti, avevano esercitato la medicina e continuano a farlo nelle città e presso le

corti dei paesi in cui sono costretti a emigrare.

Altri medici legano il loro nome a specifiche qualità professionali di cui rimane memoria nella

storia della medicina: è il caso di Girolamo Fracastoro, medico e letterato, professore di logica

all’Università di Padova, che ancora nel Settecento viene ricordato per le sue opere sul vaiolo nel

corso delle lezioni tenute da Vittorio Emanuele Sergio, primo professore di economia nello Studio

di Palermo (Pulejo). Come non ricordare il celebre Marcello Malpighi (1628-1694), fondatore

dell’anatomia microscopica che individua per la prima volta i globuli rossi; Giovanni Ingrassia

(1510-1580), medico siciliano nominato protomedico da Filippo II, dal Senato della città ottiene

una pensione di 3.000 scudi per l’impegno profuso nella peste (del 1575); Pietro Castelli (1574-

1662), importante medico di Roma, autore del trattatello Responsio chimica, che insegna a Messina

dove fonda l’Orto botanico; Giovanni Battista Morgangni (1682-1771), fondatore della clinica

medica; Domenico Cardullo, un farmacista che preparava una teriaca rinomata in tutta Italia; Jean

Astruc (1684-1766), laureto a Montpellier, professore di anatomia a Tolosa e di medicina a Parigi,

autore fra l’altro di un trattato di pediatria (Fabi); Alessandro Brambilla (1728-1800) passa alla

storia come colui che in Italia unifica chirurgia e medicina, oltre a “esportare” a Vienna le celebri

cere anatomiche (importante strumento nell’insegnamento) che si producevano a Firenze e da lì si

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erano diffuse in tutta Europa; Michele Sarcone (1732-1797), pugliese formatosi all’Università di

Napoli, studia i metodi per impedire il diffondersi della peste; Bergonzoni Michele, bolognese,

insegna scienze mediche a Milano, Sartoris Giuseppe, torinese, è dottore di filosofia e medicina,

nonché membro dell’Accademia delle Scienze di Torino; Valentino Magnini di Pistoia (1799)

studia chirurgia all’Ospedale di S. Spirito in Roma; Domenico Cotugno (1736-1822) è un

anatomico napoletano che descrive per la prima volta la sciatica (ischiade nervosa), individua la

presenza di albumina nei nefropatici, si occupa di profilassi della tubercolosi; altri due medici

dell’Ottocento: Paiola Francesco (1816) incomparabile “operatore” del mal della pietra, notissimo a

Vienna; Verderamo Emanuele, napoletano (1820) addottorato a Salerno presso la facoltà di

medicina, è il primo a ottenere una cattedra di ostetricia nell’Università di Kasan (Kazan’) sulle

frontiere con l’Asia. Un gran numero di medici italiani, tra Cinque, Sei e Settecento, conquista

posizioni di prestigio presso la corte dei re di Polonia: il dottissimo medico-teorico Antonio Gazzi

di Padova (1539) esercitava la sua professione con successo in Ungheria quando, ammalatosi

gravemente il re di Polonia Sigismondo I, era stato chiamato a curarlo, cosa che fa “con esito non

meno fortunato che sollecito” (porta con sé il figlio Simone, anch’egli dottore in medicina che alla

morte del padre ne prenderà il posto come medico di corte); Giovanni Andrea Valentini segue la

salute di Sigismondo il Vecchio e la moglie italiana Bona Sforza (1541) presso la cui corte

eserciterà anche Giacomo Ferdinando di Bari (1543) autore di un trattato sulla peste ed erudito nelle

lettere latine, come era in uso nei medici dell’epoca. Presso i re polacchi si possono trovare molti

altri medici italiani (spesso medici-letterati), specialmente provenienti da Lucca che era diventata

un polo di aggregazione di pensatori “propagatori e fautori delle nuove dottrine religiose contrarie

al dogma cattolico”, come il priore del monastero di San Frediano, Pietro Martire, e altri che

avevano fatto dei proseliti; tra questi, Simone Simoni (1588), autore di un’opera pubblicata non a

caso a Ginevra, il quale sospettato di essere seguace di Lutero aveva dovuto lasciare la città e dopo

essere stato in Svizzera aveva insegnato filosofia a Lipsia, ma intanto per vivere aveva esercitato la

medicina e proprio in qualità di medico era stato chiamato a Cracovia alla corte di Stefano Batori

dove aveva trovato molti altri italiani, fra i quali Niccolò Boccella che insegnava privatamente

chirurgia a Padova e Marcello Squarcialupi di Piombino (Ciampi). Gli esempi potrebbero

continuare all’infinito, ma i pochi riferimenti penso possano bastare a mostrare la portata degli

scambi fra paesi anche lontani in questo specifico settore della storia culturale che appare aperta ai

contatti tra i singoli individui e le istituzioni politiche o amministrative. Ciò che si vede meno è il

rapporto tra medici e pazienti, tuttavia, è interessante notare come, oltre ai tanti medici illustri e alle

grandi personalità scientifiche sostenute e protette da sovrani potenti, nei documenti si trovino citati

anche quelli comuni che appartengono alla realtà della vita quotidiana in una serie di situazioni di

vario segno in cui la loro presenza è variamente considerata, oltre che a seconda della fascia sociale

ed economica anche in base alle epoche storiche, poiché le aumentate conoscenze possono offrire

maggiori garanzie di guarigione agli ammalati e dunque far crescere la loro fiducia nei confronti di

chi deve curarli. Pure l’impiego del termine medico ha bisogno di qualche precisazione, poiché

nelle fonti d’abitudine viene usato in maniera assai generica e in realtà comprende in sé categorie

professionali diverse, quali quelle del magister medicus e del fisico-medico. Tali denominazioni,

anche se usate come sinonimi, indicano competenze diverse, i medici chirurghi sono diversi dai

medici fisici o dai medici particolari, i fisici non sono parificati ai medici veri e propri, e così via,

scendendo poi a un livello più basso dove i barbieri e i cerusici completano l’offerta. Tra questi

ultimi, i primi fanno i salassi, estraggono i denti, si spingono fino a indicare qualche rimedio contro

le epidemie, mentre i secondi eseguono le operazioni di ernia, di cataratta, di “mal della pietra”, tutti

casi in cui i medici non intervengono. Ciò ha indotto gli storici a segnalare, quale dato centrale nello

svolgimento dell’esercizio medico, la distinzione tra professione vera e propria e attività artigianale,

tra conoscenza teorica ed esecuzione, né c’é da stupirsene poiché nel passaggio dal medioevo all’età

moderna una analoga articolazione riguarda anche altre categorie. Nel caso dei mercanti, per

esempio, chi ha frequentato apposite scuole apprendendo l’aritmetica o la computisteria (cioè

acquisendo un bagaglio teorico-tecnico) si differenzia dalla infinita miriade di commercianti che a

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vario titolo comprano e vendono merci che scaricano dalle navi, depositano nei magazzini dei porti,

trasportano dai luoghi di produzione ai mercati locali e internazionali. Perché l’evoluzione del

mestiere in professione comporta la separazione del management dal lavoro esecutivo - cioè si

distingue la capacità di gestione dal lavoro manuale - ragione per cui nella considerazione sociale a

lungo persiste una differente valutazione tra quanto attiene al lavoro intellettuale, al pensiero, e

quanto invece riguarda il “lavoro di mani”. Ciò vale persino per i chirurghi, a favore dei quali si

leva Tommaso Garzoni di Bagnacavallo, autore nella seconda metà del XVI secolo di un trattato, il

primo del genere - La piazza universale di tutte le professioni del mondo - il quale offre loro una

nuova legittimazione definendo l’arte del chirurgo “illustre e celebre... e la professione del medico

divina” (Tucci). Tuttavia ci vorrà molto tempo prima che cadano del tutto i pregiudizi sui chirurghi,

che fino al XVIII secolo restano un po’ ai margini, malgrado nei documenti più diversi ricorra

l’esortazione a non fare di tutta l’erba un fascio affinché l’ignoranza di alcuni non debba portare

discredito all’intera categoria. Nel variegato mondo dell’offerta medica, fra categorie professionali

tanto diverse si creano dei circuiti separati ma comunicanti, che si articolano fra diverse tipologie di

curatori, mostrando nel tempo come la regolamentazione della professione medica si svolga

simmetricamente alla crescita delle città e delle istituzioni urbane.

Di una posizione di rilievo gode il protomedico, spesso richiamato nelle fonti che rinviano

l’immagine di una figura di prestigio. Egli viene scelto abitualmente da un corpo elitario, il Collegio

dei medici, salvo casi diversi dovuti alla differente legislazione propria degli Antichi Stati italiani:

nel Regno di Napoli, per esempio, in analogia a quanto accadeva in Spagna, era nominato

direttamente dal sovrano e infatti veniva denominato regio (De Rosa) allo stesso modo di quanto

avveniva nei possedimenti spagnoli in Sicilia, a Palermo, Messina, Catania e Modica. Il

protomedico in ogni caso è al centro dell’organizzazione medica, rappresenta il vertice di una

struttura che è preposta al controllo del processo di formazione dei nuovi medici, al loro percorso di

addottoramento, all’uso dei prodotti pericolosi come i veleni, insomma ha la facoltà di interferire

sull’esercizio della professione delle varie categorie, dottori, speziali, aromatari, barbieri, chirurghi,

mammane (levatrici). Dottori e chirurghi, però, debbono essere ammessi al Collegio medico dove

studiano filosofia per tre anni e medicina per cinque (più un anno di chirurgia specifico per i

chirurghi), quindi in base agli Statuti cittadini svolgono un anno di pratica e infine ottengono la

licenza dal protomedico. Il meccanismo di selezione che accerta i requisiti richiesti limita il numero

dei medici “legittimi”, ma a essi se ne aggiungono altri ai quali viene anche concesso di esercitare la

professione, pur mantenendoli a un livello inferiore rispetto ai primi. Il protomedico svolge inoltre

la funzione di foro privilegiato nelle vertenze fra medici e malati, che possono riguardare sia il

mancato pagamento che la mancata guarigione, entrambi previsti, come si è visto, quale condizione

necessaria per il perfezionamento del contratto stipulato. Anche i farmacisti sono obbligati a

compiere un apprendistato prima di esercitare e debbono rispondere a determinati requisiti, per

esempio debbono essere battezzati, godere di una buona reputazione, non essere stati mai chiamati

in giudizio dall’Inquisizione (dall’esercizio della farmacologia al sospetto di stregoneria il passo è

breve!), conoscere la grammatica, saper leggere e avere fatto pratica presso un vecchio farmacista.

Per di più, oltre al permesso delle autorità locali, devono dimostrarsi abili nella preparazione delle

medicine con vari metodi, bollitura, mistura, tritatura. Infine, hanno l’obbligo di disporre di almeno

500 ducati in valore di merci. Il farmacista o speziale differisce dal semplice commerciante di

droghe in quanto tratta sostanze come i veleni. Altre figure sono i dottori non laureati, i dottori

empirici - che si occupano di mali “minori” come affezioni agli occhi, infreddature, piaghe

provocate dalla sifilide che curano con unguenti di propria preparazione - e sono soggetti anch’essi

al controllo del protomedico dal quale ottengono una licenza che stabilisce le loro competenze. Ma

se la professione medica nel tempo assume sempre di più una configurazione composita per la

confluenza in essa dell’impianto dottrinale e dell’esercizio pratico, la medicina popolare, ancora a

lungo presente nelle società di Antico Regime, si avvale del riscontro empirico tramandato dalla

tradizione che si moltiplica all’infinito in ogni paese associandosi agli apporti delle culture regionali

che registrano un ampio riconoscimento ad altri personaggi. Oltre che dell’opera dei dottori veri e

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propri e di quella delle altre figure di guaritori come speziali e barbieri, conciaossa e osteopati,

infatti, gli ammalati si avvalgono di curatori abusivi dei quali in linea di massima si fidano e che

non si escludono l’un l’altro ma si integrano, in una sorta di scala in cui i malati accedono intanto al

primo gradino per percorrere gli altri in seguito, se necessario. Solo quando il contatto iniziale con il

curatore clandestino non ha dato i suoi frutti si rivolgono al medico legittimo, il quale spesso non fa

altro che ricorre agli stessi rimedi usati sia dagli abusivi che dalla medicina familiare; decotti,

infusi, pozioni, pomate, sono frutto della mescolanza di saperi antichi e di ancor più vetuste

superstizioni e dureranno a lungo nella cura più o meno efficace di gran parte dei malanni di ogni

giorno. “Attraverso i malati i due circuiti, quello ufficiale e quello clandestino della pratica

terapeutica, si intersecano e si incrociano… il mondo legale e quello illegale non sono due mondi

separati” (Pomata). Le donne, depositarie delle tradizioni regionali e familiari, intervengono come

primo momento di cura, se poi le cose peggiorano eventualmente si ricorre allo speziale o alle altre

categorie di curatori. La gamma dei rimedi è infinita e qualche volta fantasiosa: semi di cumino

usati come digestivo o come stimolante contro l’inappetenza; infusione di radici di gramigna per i

reni, di semi di lino ammollati contro il mal di pancia; polveri astringenti di vetriolo “usto” per

asciugare piaghe, chiudere ferite, guarire il vaiolo, sezionare i cadaveri (per le sue proprietà

antisettiche); acidi vegetali come l’aceto e l’agro di limone per facilitare la circolazione e renderla

“meno suscettibile di calore”. E ancora: per guarire dai calcoli e purificare il sangue, decotto filtrato

di foglie di carciofo da bere durante la giornata; per gli occhi, infuso di semi di camomilla bolliti,

posto in un bicchierino in cui si lava l’occhio ammalato; contro il mal d’orecchi, olio “ferrato” (che

si otteneva introducendo un ferro arroventato nell’olio d’oliva), applicazioni di mirto e pinoli per

migliorare le prestazioni sessuali. L’aceto dei sette ladri era un’altra antica cura seguita dalla

medicina popolare per molti mali, a base di aceto, aglio, canfora; nel ‘500 a Roma si usava carne di

vipera preparata in vario modo nei casi di avvelenamento; sterco di gallina contro i funghi velenosi,

ma anche- secondo un medico padovano - le pere; polvere di unicorno o dente di narvalo sia contro

il veleno che contro l’epilessia. Non mancano rimedi sofisticati, come “l’acqua di legno”

consistente in un decotto del legno di guaiaco, un albero delle Antille lì usato contro la lue,

importato dai Fugger di Augusta, banchieri di Carlo V, che Paracelso denuncia come speculatori dal

momento che il guaiaco non aveva alcun effetto positivo; la polvere di bezoar (calcolo che si forma

nell’apparato digerente dei ruminanti, specie dell’antilope) come antidoto del veleno; il decotto di

radice di salsapariglia, pianta dell’America del sud, anche questa antilues (dall’Antidotarium

romanum, seu de modu componendi medicamenta, Roma 1583); la galla, una escrescenza di alcune

piante provocata da un insetto o da un parassita vegetale, che per il suo contenuto di tannino veniva

usata nella concia e nella tintoria ma anche in medicina. Nelle scienze occulte si impiegano piante

“magiche” ritenute sacre, come l’eliotropio, il vischio, l’ortica. Per molti secoli l’acquavite viene

usata contro la peste, la gotta, il mal di gola, qualche volta forse approfittando del rimedio per bere

un bicchiere in più, per esempio di slivoviz, un’acquavite prodotta nei Balcani ottenuta dalle prugne,

che veniva considerata un ottimo rimedio, probabilmente anche per aggirare il divieto dell’uso degli

alcolici. Fra tanti rimedi, quelli che vengono maggiormente impiegati sono la treggea, una

composizione medicinale in confetti, la cassia – un’erba originaria dell’India e dell’Arabia della

famiglia delle leguminose, ad azione decongestionante e lassativa - e soprattutto l’otriaca (triaca o

anche utriaca), un composto medicinale consigliato in molte affezioni e di sicuro effetto dal

momento che si trattava di un preparato costituito da molti ingredienti, ma a base di oppio, che

dunque portava sollievo a ogni tipo di dolore; Margherita Datini, con lo zelo abituale, raccomanda

al marito

fa che ti sappi guardare da questo umido e fa’ preparare confetti e

otriaca

Cibo-medicina, un legame sempre più stretto. La diversa cultura medico-scientifica creatasi nel

corso del tempo induce a una nuova mentalità anche per quanto riguarda un nuovo modo di

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intendere il rapporto cibo-salute: se da una parte con la conquista americana si allarga l’offerta

alimentare, dall’altra la logica dei contrari propria della dieta galenica - umido e caldo, dolce e

forte, e così via - comincia a guardare al valore nutritivo degli alimenti, alla loro capacità di dare in

misura maggiore o minore il senso di sazietà. A partire dal XVIII secolo si riescono a individuare

direttamente le sostanze presenti negli alimenti (Cipolla) e non più paragonandole a quelle dei cibi

noti. Cambia la mentalità in materia di alimentazione e di attenzione alla salute, come mostra la

nascita dei tacuina sanitatis che illustrano appunto le proprietà dei cibi. L’alimentazione assume

significato sociale e il nuovo corso del pensiero scientifico-medico influenza le modalità di vita in

seno alla società. Il cibo, che da necessità è divenuto piacere, assume un’ulteriore valenza che è

quella medica, specie nelle classi borghesi mercantili (più pronte ai cambiamenti di quelle con

tradizioni radicate come l’aristocrazia), dove cresceva l’attenzione a una vita di qualità che

riservava ampio spazio al cibo ma al tempo stesso intendeva conoscerne gli effetti sulla salute. Il

terrorismo dei medici sulla dieta viene da lontano! Anche se il concetto è già presente nella pratica

medica dei greci, una vera dietetica risale all’età medievale, quando fiorisce una nutrita letteratura

che ha per oggetto l’indicazione di precetti igienici, naturalmente basati sulle conoscenze empiriche

dell’epoca. Fa parte di questo primo bagaglio una serie di indicazioni sull’igiene corporale, sulle ore

di sonno, sulle caratteristiche dell’ambiente; si sconsigliano i luoghi che abbiano un aere malsano

nocivo alla salute, ma soprattutto si disapprova l’abitudine di mangiare troppo, asserendo la validità

del digiuno a fini terapeutici

non vi è nulla che giovi di più alla salute che astenersi dal cibo,

specie quando lo stomaco è pieno; tanto più semplici sono le

vivande e le medicine che si pigliano, tanto meglio è per l’uomo

(Arnaldo di Villanova)

Un trattato della fine del XV secolo propone l’uso appropriato di determinati cibi, che vengono

descritti nelle loro caratteristiche prevalenti indicandone i benefici. Così si sa che le zucche, di

natura fredda e umida, mitigano la sete ma possono essere lassative, la cipolla, di natura calda e

umida, si “muta in acqua”e può dare pesantezza al capo; l’aglio, di natura calda e secca, è utile

contro i veleni, il frumento, di natura calda e umida, matura gli ascessi, la pasta di farina di

frumento, di natura calda e umida, giova al petto e alla gola ma fa male agli stomaci deboli; il riso,

di natura calda e secca, è buono contro i bruciori di stomaco ma fa male a chi già soffre di coliche;

la spelta, (una pianta annuale graminacea dalle piccole spighe diradate simile al farro), anche questa

giova al petto, ai polmoni, alla tosse, ma fa male allo stomaco; i fagioli, di natura calda e umida,

sono diuretici e nutrienti, ma danno nausea e cattivi sogni; il latte, utile per i polmoni, può portare

febbri; il formaggio fresco, natura fredda e umida, modifica il corpo e ingrassa, dà oppilazione,

mentre quello vecchio, di natura calda e secca, fa male al mal della pietra e ai reni; la ricotta viene

considerata di difficile digestione, che invece viene favorita dal sale, che però fa male al cervello e

alla vista; il pane di semola ingrassa ma dà oppilazioni ai visceri; le; carni di vitello è consigliata a

chi fa molto esercizio ma fa male ai malati di milza; i pesci freschi fanno ingrassare e quelli salati

possono portare una malattia simile alla lebbra; l’olio ammorbidisce e guarisce le ferite, ma dà

vomito e nausea; lo zucchero purifica il corpo e giova ai reni e alla vescica; il miele ha un’azione

purificante. Un manuale di medicina del Cinquecento sconsiglia l’uso eccessivo della pasta

(Patrone; Rebora) e il medico e botanico Mattioli, nello stesso secolo, scoraggia l’uso dei pomodori

che - sostiene - possono risultare velenosi (è noto ormai come siano all’origine di forme di

intolleranze e di allergie).Altre volte la rinuncia al cibo è parte di un percorso penitenziale.

Alimentarsi è un bisogno primario dell’uomo e negarlo diventa un’azione meritoria, un sacrificio

che verrà ricompensato. Per chi ha fede questo esercizio diventa uno strumento di redenzione, le

storie dei santi e della vita dei religiosi nei chiostri raccontano esempi estremi di digiuni e

mortificazioni della carne che fanno del superamento della fame un elemento importante delle loro

pratiche spirituali esaltando l’annullamento del corpo anche attraverso il rifiuto di nutrirsi. In

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qualche caso la storiografia ha ipotizzato che si potesse trattare, specie per le sante, di veri e propri

casi di anoressia.

Se in taluni casi il medico arriva a dosare il cibo o imporre un digiuno perché ciò può diventare

parte integrante della sua terapia, in altri al contrario consiglia al malato di interrompere l’astinenza

e di mangiare, magari ricorrendo a qualche cibo considerato particolarmente nutriente, secondo

quanto testimonia Margherita Datini che ne 1394 scrive

mi sono morta di fame in questa quaresima e il medico dice che io

òne più male di debolezze che d’altro e dicemi ch’io mangi pollo

pesto e così ò fatto e farò, tanto ch’io mi sento risuscitata...

e in una sua lettera al marito lontano, da moglie affettuosa, gli raccomanda di fare attenzione

all’umidità e a ciò che mangia e gli consiglia anche di dormire a sufficienza, mostrando come ormai

sullo scorcio del medioevo ci sia già la percezione del rapporto fra alimentazione, riposo e salute.

La mancanza di sonno viene considerata come una possibile causa di malessere e di malanni futuri

mangiate di quelle chose che credete che vvi siano buone ... fa che

tti sapi guardare da questo umido… e guardatevi da questo vegiare

disordinatamente poiché mi pare que voi siete più uso di vegiare

que tute l’antre persone... fa peggio una mala note che no’ uno

mese di verno... guardatevi da questo vegiare disordinatamente, per

non tribolarvi

Viene valutato anche l’uso dei bagni, che tuttavia ha pure i suoi detrattori, poiché alcuni medici

consigliano di astenersi da un uso eccessivo. Le pratiche termali erano diffuse fin dall’antichità in

età romana come nel Quattro-Cinquecento prevalentemente per curare catarri, affezioni della pelle,

infermità alle articolazioni; le acque, la bellezza dei luoghi e l’atmosfera serena e ridente

dell’accoglienza decretano precocemente la fortuna delle città balneari, da Pozzuoli in età romana a

Baden in Svizzera alla fine del XV secolo (che si svilupperà maggiormente nel XVIII secolo), alle

sorgenti sulfuree ungheresi raccontate dal noto naturalista Ulisse Aldrovrandi (1522-1605), anche se

lo sviluppo dei bagni termali esplode nell’Ottocento e sempre nello stesso secolo, al contrario di

quanto si era sempre affermato, si avanza qualche limitazione al sonno, che se troppo prolungato

“non fa che alimentare l’indolenza e la poltroneria. In massima generale non deve oltrepassare le

nove ore per gli adolescenti, le sette ovvero le otto al più per i giovani e per gli adulti. A ragione i

medici si sono scagliati contro l’uso di dormir sulla piuma, poiché il calore eccessivo che essa

concentra snerva anima e corpo” (Duscuret).

Sia nella considerazione della gente che deve affrontare i malanni che si presentano nella vita

quotidiana senza arrivare ancora alla patologia vera e propria, sia nella concezione assistenziale che

presiede al trattamento dei malati negli ospedali, si connota ben presto uno stretto rapporto tra

fattori ambientali e salute. Per rimanere sani bisogna fare attenzione a ciò che si mangia e a ciò che

si beve, la connessione fra alimentazione, stile di vita e medicina è sempre più evidente. Gli eccessi

alimentari o l’insediamento in un territorio malsano, tipico delle zone infestate dalla malaria in cui

appunto il paludismo è endemico, come si è detto, costituiscono per i medici delle pre-condizioni

per molti mali. Se però è impossibile sottrarsi alla malaria, è certamente più semplice prevenire una

gotta attraverso un’alimentazione più austera. Il collegamento cibo-salute è presto riconosciuto,

come si evince dai ricettari degli ospedali che “comunicano” sia con i libri di cucina che con i

trattati di scienze naturali e botaniche. Le scritture si incontrano e qualche volta si sovrappongono,

come per la trattazione delle proprietà delle erbe e delle piante, della frutta e delle insalate, che

vengono scelte sia dall’erborista che dal cuoco e possono servire per i pasti di chi sta bene oppure

vengono indicati come rimedio a chi sta male. I pareri sugli alimenti e le relative prescrizioni però

non sono unanimi e variano a seconda delle conoscenze dei tempi, cibi e bevande di conseguenza

vengono diversamente valutati sulla base di una migliore comprensione dei meccanismi funzionali,

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alla quale contribuiscono scoperte più avanzate e possibilità di disporre di nuovi rimedi. Mano a

mano che si comincia a comprendere meglio le proprietà delle sostanze alimentari e a considerarle

separatamente le une dalle altre - carni, pesci, uova, ecc. - ogni consiglio è finalizzato alla

conservazione della salute attraverso il mantenimento di un regolare funzionamento dell’organismo

e il rispetto di regole alimentari che tengano sempre più conto del valore della dieta.

Dai sontuosi banchetti dell’aristocrazia si passa alle tavole borghesi che mostrano già la nuova

mentalità che comincia a guardare alla salute e, precocemente, anche all’estetica: nel Carteggio

degli oratori mantovani alla corte Sforzesca 1450-1500 (a cura di M. Nadia), Ippolita Sforza

(sorella di Galeazzo Maria duca di Milano, che nel 1465 aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso

d’Aragona, futuro re di Napoli) si preoccupa di apparire troppo grassa. La duchessa è vestita “a la

napoletana, di raso negro con maniche strette et un mantelletto curto de damascho bianco a le

spalle”, ma è preoccupata che il vestito la faccia apparire troppo grassa, allora rivolgendosi a un

nobile della corte gli chiede come gli pare quell’abito e l’altro risponde “le sta meglio che non la

faceva in la turca quando la vidi” (1468, Covini). Nell’indicazione delle diete, i medici introducono

un nuovo elemento di valutazione cominciando a considerare anche il dispendio energetico e per

tale ragione arrivano a modulare schemi alimentari diversi a seconda delle classi sociali e del tipo di

lavoro. Ci si serve del cibo per scandire le differenze, in ragione dei diversi consumi si indicano le

pietanze che debbono essere consumate dai cortigiani e quelle invece che sono più adatte ai

contadini. Le categorie sociali vengono presentate come tipologie umane diverse, l’una nobile e

sensibile, l’altra rozza sia per abitudini che per complessione fisica e tale separazione viene ripresa

nelle opere mediche in cui si precisano le diverse proprietà degli alimenti e si consigliano cibi forti

come le carni di maiale o di oca, l’aglio e la cipolla, ai contadini e a quanti svolgano lavori pesanti,

mentre si riservano cibi più delicati a chi fa una vita sedentaria. In ogni caso viene rappresentata una

separazione netta del corpo sociale, nell’uso dei cibi come nella collocazione a tavola che divide

nettamente i due archetipi sociali con una fisicità contrapposta, quella del cavaliere e quella del

villano. Un’apposita alimentazione viene studiata per gruppi sociali di particolare interesse come gli

eserciti e gli equipaggi e in occasioni specifiche si applicano tabelle alimentari che mostrano una

cura sapiente nel bilanciamento dei cibi fra proteine, carboidrati, vegetali. Per i soldati in battaglia o

gli equipaggi sulle navi si seguono appositi criteri nutritivi prevedendo diversi alimenti: carne e

pesce salati, formaggio e legumi, riso, “biscotto” cercando soprattutto di procurarsi cibi freschi,

verdure, frutta, agrumi, per scongiurare il pericolo dello scorbuto (Motta). Appena è possibile, ci si

approvvigiona di limoni e arance che sembrano produrre effetti miracolosi: “e noi levavàmo alcuno

malato de la barca e con quelle melarance funno sane” (Formisano). Si comprende molto presto

l’importanza dei cibi e delle bevande in relazione all’effetto che hanno sulla salute, considerandoli

straordinariamente efficaci o al contrario valutandoli come dannosi. Di solito i medici sconsigliano

la varietà dei cibi - che stimola l’appetito e la golosità inducendo a consumare di più - e a partire dal

XIII secolo, assai precocemente cominciano ad ammonire contro gli eccessi alimentari, le sostanze

grasse e il troppo frequente impiego delle carni, non tralasciando di raccomandare oltre a una sana

alimentazione e al sonno anche l’esercizio fisico e finanche una buona attività sessuale. Si occupano

pure delle bevande derivanti da processi di fermentazione, come la birra della quale esaltano le virtù

medicinali, o di quelle esotiche considerate tonificanti, come tè, caffè, cioccolato. Quest’ultimo,

prima di affermarsi come golosità per i ricchi, da qualcuno viene consigliato come rimedio, mentre

altri fino alla fine del XVII secolo lo guardano con sospetto. Il tè invece è per tutti una bevanda

straordinaria, ma è soprattutto del caffè che si discute poiché alcuni ne celebrano gli effetti positivi

e altri invece ne biasimano l’uso sostenendo persino che possa danneggiare la fertilità degli uomini.

Fra le molte opere che fioriscono a favore o contro il caffè, particolarmente interessante quella

dell’abate Giuliano Ettorre che alla fine del XVIII secolo scrive delle sue qualità. Il caffè,

“scoperto” per caso nello Yemen - un pastore aveva riferito a un monaco che le sue capre, dopo

aver mangiato un certo tipo di arbusto carico di bacche, erano rimaste sveglie per tutta la notte

continuando a saltare - inizialmente era conosciuto solo in Egitto e da lì prima era stato portato

dagli ottomani a Costantinopoli arrivando in seguito in Europa, presumibilmente introdotto dai

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veneziani che con i turchi avevano assidui rapporti. L’uso di sorbire il caffè diventa di moda e nella

seconda metà del secolo XVII si espande in Inghilterra, a Parigi, ad Amsterdam, ad Amburgo, ma

oltre che allietare il gusto la nuova bevanda produce effetti positivi sulla salute. I molti sostenitori

ne esaltano ogni proprietà: in bocca, oltre a essere gustoso, ha la funzione specifica di pulire i denti:

i quali strofinati con la polvere di caffè diventano nettissimi e

bianchissimi

nello stomaco, aiuta la digestione - assai più di quanto non possa fare il vino - cosicché tutti i popoli

dell’Asia, dell’Africa e anche dell’Europa ai quali la legge di Maometto vieta l’uso del vino, in

luogo di esso si servono del caffè che non solo non ubriaca ma è pure un rimedio mirabile per

guarire dall’ubriachezza.

La digestione, o prima concozione come viene chiamata in medicina, “consiste nella separazione

dei cibi che si fa nello stomaco in una sostanza bianca e fluida che si chiama chilo che, fermentato

addovere, si converte in un sangue sottilissimo e puro le cui particelle crescono, si nutriscono e si

mantengono poi nel loro stato naturale per mezzo della circolazione; e ciò è quello che si chiama

seconda o terza concozione”. Poiché i difetti della prima fase digestiva non si correggono mai nella

seconda o nella terza, cioè da un cattivo chilo non può derivare un buon sangue, né da un cattivo

sangue un buon nutrimento, dunque il chilo deve raggiungere la perfezione. Il caffè, essendo

composto da una parte sottile e volatile e dall’altra grassa e terrea, addolcisce il chilo, fortifica la

fermentazione consumando gli umidi superflui delle parti nutritive, assorbe gli acidi indigesti e

impedisce i coaguli che vengono ritenuti la causa più comune delle malattie. E siccome giova

moltissimo nella medicina l’unire l’esperienza alla ragione, così è bene riflettere che quantunque i

turchi mangino più legumi e latticini e frutti che non carne “e si servono ancora per la maggior parte

di pane azimo e pochissimo cotto, lo che dovrebbe rovinare interamente il loro stomaco, pure essi

sono rarissime volte incomodati, appunto per l’uso continuo che fanno del caffè”.Le Notizie

istorico-fisiche sul caffè raccolte dall’abate Giuliano Ettorre (1791) si diffondono sulle virtù della

miracolosa bevanda “nelle malattie del basso ventre, di colica, oppilazioni, renella, ed anche della

podagra che sono sorelle carnali” e a sostegno delle sue parole l’autore cita noti sapienti

dell’antichità e autorevoli medici a lui coevi come il dottore de la Closure, celebre medico francese,

che aveva curato molti disturbi femminili con il caffè caldo in quanto rendeva il sangue più fluido,

dopo il parto ristabiliva le forze spese, durante il puerperio giovava loro moltissimo. Mallembrok,

un altro medico, tedesco, autore di un trattato sulla podagra “vaga scorbutica”, riporta innumerevoli

esperimenti in cui aveva curato con immediato esito positivo pazienti danesi, svedesi e olandesi

(molto esposti alle malattie ipocondriache scorbutiche forse a causa dell’alimentazione assai ricca di

carni) grazie all’impiego sistematico del caffè. Monin, medico di Grenoble, usava il caffè diluito nel

latte nelle malattie di petto e nelle febbri quartane, putride e maligne; in tal modo, fra gli altri aveva

guarito la moglie del tesoriere della città “quantunque avesse la milza molto ingrossata e dura”. Il

dottor Felice Caravaggi, toscano, inviato dal cardinale Garampi a Montefiascone, scrive nel 1784

Istruzioni pratiche ad uso de’ chirughi di campagna in cui sostiene che le nuove bevande impiegate

a fini curativi da celebri medici “sperimentatori” si sono rivelate più giovevoli ai malati di altri

rimedi, come appunto il caffè che ha effetti miracolosi anche nel calmare il mal di capo. Racconta il

già citato dottor de la Closure di averne provato personalmente l’efficacia, essendo tormentato

“acerbamente” da emicranie dolorosissime per le quali aveva fatto invano salassi, bagni e digiuni.

Grazie all’uso del caffè era finalmente guarito, allo stesso modo di una bella e nobile signora

parigina, madame de Briere che era ricorsa ai più bravi medici e quando i chirurghi si erano risolti

alla trapanazione del cranio che ne avrebbe quasi certamente provocato la morte, un arcidiacono suo

amico l’aveva riportata alla vita con la somministrazione di caffè ben caldo e molto zuccherato.

Altre possibili terapie: metalli, pietre preziose, musica. Il caso del caffè è esemplare e mostra come

nel tempo, per le terapie, si prendano in considerazione nuovi elementi. Infatti si cominciano a

consigliare ipotesi alternative rispetto al percorso della medicina vera e propria, rimedi semplici,

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non invasivi che non suscitino paura o apprensione negli ammalati, anzi che possano calmarli anche

sul piano psicologico, come l’uso di profumi, di colori, di metalli, di pietre preziose. Anche

Paracelso si era occupato delle proprietà terapeutiche dei metalli studiando il modo di evitarne la

tossicità e quanto alle pietre, esse avevano goduto di grande considerazione in età medievale e poi

ancora nei primi secoli dell’età moderna per una loro presunta influenza benefica sulla persona che

le tenesse a contatto del proprio corpo, la cultura della cabala inoltre ne aveva esaltato le valenze

attraverso molte ipotesi affascinanti quanto improbabili. L’età del razionalismo illuminista, invece,

che aveva invalidato l’elemento metafisico sembrava averne decretato il tramonto, ma non del tutto

poiché si continuava a credere che “i succhi metallici” delle pietre - come li aveva chiamati Boyle

nel suo Trattato dell’origine e delle proprietà delle pietre preziose - potessero essere utilmente

applicati in medicina. Contro tale convinzione, ancora presente alla fine del Settecento, si levano le

parole di Louis Dutens, membro della Società reale di Londra e dell’Accademia delle Iscrizioni e

belle lettere di Parigi, il quale nella sua opera Delle pietre preziose e delle pietre fine coi mezzi di

conoscerle e valutarle (edita a Venezia nel 1780 e tradotta dal francese in italiano da Ludovico

Antonio Loschi), scrive parole di fuoco contro chi ancora crede di poter soccorrere gli ammalati

ricorrendo a sistemi che ormai meritano di essere cancellati dal contesto delle terapie scientifiche.

Dutens è drastico, non mostra dubbi, non crede affatto ai succhi metallici, ironizza sul suo secolo

che pur essendo “illuminato” lascia a lui il compito di combattere simili dicerie e contesta l’utilità

degli effluvi delle pietre sugli ammalati. “Quanto alle virtù soprannaturali e mediche attribuite alle

pietre preziose, reca stupore il vedere genii tali quali furono Plinio e Galeno appo gli antichi, dotti

naturalisti, medici di grido e valenti chimici de’ giorni nostri, sostener favole fondate sulle proprietà

delle pietre preziose, che sarebbero appena scusabili in bocca di una nutrice o tentare di render

conto delle loro virtù medicinali in una maniera atta a porre in discredito la medicina”.

Anche la musica, mirabilmente definita come “una serie di suoni che si chiamano tra loro che non ci

fu data unicamente per molcere le orecchie, ma eziandio per alleviare i dolori e calmare le

passioni”, in taluni casi viene considerata una buona terapia. Se ne occupa specificamente Duscuret,

dottore in medicina e in lettere dell’Accademia di Parigi, il quale pubblica nel 1888 un volume

intitolato La medicina delle passioni nel quale - dopo aver definito le passioni “che sono così

chiamate perché l’uomo non le forma, ma le soffre, cioè va soggetto alla loro azione, è passivo” -

approfondisce il tema nei suoi molteplici aspetti: divisione delle passioni secondo i moralisti e

secondo i medici; cause delle passioni e loro effetti sull’organismo; fattori determinanti come clima,

sesso, alimentazione, educazione. Duscuret riferisce come già nell’antichità la musicoterapia fosse

ben nota e applicata spesso nel curare affezioni nervose e malattie prodotte da qualche causa

morale, ma lamenta la scarsa applicazione di questa terapia, dovuta al fatto che non ci si crede fino

in fondo “si ha il timore del ridicolo, di essere derisi ma anche un solo malato guarito o sollevato,

un solo pazzo restituito alla ragione, un solo infelice liberato da una passione che lo tiranneggi può

essere una buona ricompensa”. Racconta infatti di un ministro di Napoleone che nel 1815 era

caduto in una sorta di insania accompagnata da allucinazioni che mostravano al suo spirito attonito

spettri minacciosi pronti ad afferrarlo. Gli accessi di questa affezione mentale erano seguiti da

palpitazioni, da moti convulsi delle membra inferiori, da insonnia e da una profonda tristezza. Il

suono dell’arpa, che ha in sé qualcosa di magico, gli dava un po’ di calma, gli conciliava il sonno e

dissipava gli accessi ipocondriaci. In un altro caso, il dottor Mercurin, in un ospedale situato presso

le Bocche del Rodano, curava i suoi pazienti affetti da demenza con la musica e la danza ottenendo

i più felici risultati. E ancora: una giovane colta da malinconia, di costituzione molto debole,

soffriva di convulsioni e sincopi che duravano delle ore, si temeva per la sua fine, quando il suo

medico, il dott. Alibert, aveva voluto provare se la musica che ella molto amava potesse recare

qualche ristoro alle sue orribili sofferenze. Il medico aveva chiamato un violoncellista, il celebre

Bènazet, e dopo che l’artista aveva cominciato a suonare un pezzo dolce e mesto che egli valutava

appropriato ai sentimenti dell’inferma, questa si era calmata in maniera evidente per il suono del

magico violoncello, aveva cominciato a battere il tempo con i movimenti ritmici del capo e dopo

circa mezz’ora si era addormenta placidamente. Dopo qualche settimana di terapia la donna, che era

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sembrata in punto di morte, era già convalescente. Molti altri casi simili riportati da Duscuret

attestano l’efficacia della musica sulla salute, inoltre egli nei disturbi psicologici e psichici

ripropone il rapporto fra cibo e salute, non solo con riguardo allo stato fisico ma anche guardando ai

disturbi per così dire caratteriali a seconda che il paziente sia un tipo ambizioso, vendicativo, geloso

o affetto da epatite cronica. In forza dei soli medicinali quegli ammalati non guarivano, ma in

diverse occasioni si era ottenuto un sensibile miglioramento, secondo quanto egli scrive: “per i

nostri consigli o per qualche ingegnoso stratagemma giungiamo a indebolir la passione che si agita.

Per combattere le passioni eccitate, gli alimenti sono meno efficaci di quanto non siano nel caso di

problemi organici, tuttavia si consigliano diete leggere di latte, frutta e acqua, sappiamo del resto i

bramini essere debitori della dolcezza del loro carattere alla gran sobrietà e alla dieta vegetale a cui

si obbligano per tutta la vita. I sanguigni e i sanguigni biliosi, naturalmente portati a passioni

eccentriche come l’amore e l’ira vedranno calmarsi l’ardore del loro carattere sotto l’influenza di un

cibo vegetale, mucillaginoso, poco sostanzioso. Gli individui linfatici e inerti debbono assoggettarsi

a un alimento tonico e anche un po’ eccitante, per esempio il vino schietto, medicinale prezioso per

loro, per gli altri sarebbe un vero veleno il quale non farebbe che mantenere un fuoco troppo attivo

che circola nelle loro vene”.

Nell’introduzione rivolta ai lettori, l’incipit: “il progresso che le scienze in questi recentissimi anni

han fatto in Europa è notabile e maraviglioso ed in special modo nella Francia e in Alemagna.. .fra

molti ottimi libri venuti in luce”. La Medicina delle Passioni presenta un quadro “rapido”

dell’uomo e lo esamina dal punto di vista morale analizzando le sue passioni che “han forza sul

cuore e sulla mente e cagionano certa infermità e spessissimo morte”, non trascura alcun mezzo e

nulla lascia intentato per la completa guarigione morale, “prescrive un’igiene tutta morale e

dell’idea, come che l’idea appunto è la parte inferma e da guarirsi”. E come mezzo principale di

guarigione considera la religione che costituisce un principio congenito, connaturato all’uomo, che

esercita su di lui una grande forza con cui quello riesce a superare le amarezze e le difficoltà della

vita, “col dimostrar che l’uomo ha Dio per padre e la terra per esilio lo avvezza a patire in pace e

rassegnato le sciagure e a volgere un sospiro al cielo, quasi offerta volontaria di olocausto; al cielo,

seconda patria del cristiano da dove solo piovono le gioie terrene e le eterne”. Dopo tali

considerazioni di natura spirituale, Descuret passa agli aspetti pragmatici delle questioni e dice che

un buon sistema legislativo e delle istituzioni efficienti in campo sociale possono fare molto per la

salute degli uomini consentendo loro una maggiore “felicità”, in modo che la mente libera da ogni

angustia terrena possa vivere animata da un perenne sorriso e non più scossa dall’impeto delle

passioni. Egli sostiene che il patologo debba studiare il rapporto di causa-effetto esistente tra

professioni e malattie e poiché le occupazioni giornaliere hanno grande influenza sul carattere, stila

una classificazione: professioni che esercitano soltanto lo spirito; professioni che esercitano soltanto

il corpo; professioni che esercitano ambedue. Ci sono dunque uomini per l’anima, come i preti,

uomini di guerra come i soldati, di toga come avvocati, giudici, e notai, e ci sono ancora letterati e

scienziati, disegnatori, commercianti e lavoratori, e naturalmente ci sono i medici che sono uomini

per il corpo. A ciascuna categoria corrispondono pregi e difetti, ai medici vengono riconosciuti

come qualità l’istruzione, l’umanità, il coraggio, il disinteresse, come colpe l’invidia, la gelosia, e

l’irreligiosità poiché la loro professione - oltre ad annoverare uomini notevoli per la loro pietà e per

il loro sapere - conta fra i suoi seguaci molti increduli e materialisti. Invece “niuno più di loro, in

mezzo a tante miserie dell’umanità, potrebbe vedere la necessità dei conforti della religione

d’amore che santifica gli affetti e consola gli aneliti dell’agonia” (Descuret). Quanto agli

inconvenienti, vengono messi in evidenza il pericolo delle malattie contagiose, la fatica continua,

l’ingratitudine dei malati, e soprattutto il fatto che il medico diventa schiavo della sua professione:

“sul più bello di un convito o di una onesta ricreazione, nel cuor dell’inverno e della notte, ei deve

tutto lasciare e pronto a correre ove lo chiama il grido dell’umanità languente”.

Donne e medicina, un rapporto difficile. La pluralità degli approcci al tema trattato impone qualche

riferimento, sia pure sintetico e generale, al rapporto donne-medicina, rapporto che può essere

individuato scandendo differenze e percorsi con riferimento alla cronologia, alle fasce sociali, alla

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cultura antropologica, ma che è sempre assai significativo. I linguaggi sono molteplici e le vie lungo

le quali intraprendere la ricerca infinite, tuttavia come dato unificante credo si possa offrire quello

di una sostanziale “distanza” delle donne dalla medicina ufficiale, conseguenza della sostanziale

misoginia delle società di Antico Regime, difficile da estirpare anche nelle epoche successive. Né

questa prima considerazione può stupire più di tanto se è vero - come è vero - che a lungo lo spazio

della donna è quasi esclusivamente quello domestico, salvo la destinazione alla vita monastica

(indotta o addirittura imposta) o a qualche accadimento specifico come il pellegrinaggio, entrambi

riconducibili alla dimensione spirituale. La storia tuttavia registra primati ed eccezioni che affidano

la libertà di qualche “spazio aperto” a matrone romane, sante medievali, dame dell’età moderna -

sovrane, intellettuali, mercantesse - che riescono ad affermare un proprio personale percorso in

società che pur laicizzandosi continuano a non considerare la donna come soggetto (la famiglia si

baserà ancora per molto tempo sulla subordinazione del sesso femminile a quello maschile). Il

mondo è caratterizzato dalla differenza di genere, le donne solo eccezionalmente si incontrano con

gli uomini a un livello di parità e gli archivi qualche volta consentono solo di scorgere una precoce

presenza delle donne proprio nel cuore del regno degli uomini - valga per tutti l’esempio di due

pittrici molto note tra Cinque e Seicento, Sofonisba Anguissola (1535-1626) e Artemisia

Gentileschi (1597-1652), che impongono la loro creatività sfidando i maschi su quello che era stato

un loro esclusivo terreno professionale -. Rispetto a poche deroghe, comunque, una enorme

casistica di segno opposto mostra il lungo cammino delle donne e le difficoltà del loro inserimento

nella società degli uomini che il ricordo di qualche successo non riesce a cancellare; nel corso dei

secoli, in ogni ambito, cercano una propria identità, poiché i ruoli consentiti - di moglie, madre,

religiosa - non assicurano loro un reale riconoscimento. Le donne vengono considerate in funzione

degli obiettivi politici degli Stati e utilizzate per favorire strategie matrimoniali in grado di

assicurare forti alleanze tra dinastie reali e famiglie dominanti oppure seguite dal potere religioso

che le guida o le reprime nella vita monastica, in qualche misura dunque si può dire che in questi

casi il mondo degli uomini entri in contatto con il mondo femminile, sia pure per il proprio interesse

(per stabilire, vietare, reprimere) i medici invece, a lungo, rimangono del tutto estranei all’universo

femminile sia nel riconoscere loro una legittimazione culturale e professionale che persino nel

considerarle come pazienti. Per molti secoli il corpo delle malate si svela solo ad altre donne, le

mammane e qualche “medichessa” che di solito sono presenti al momento del parto, ma va

precisato che spesso le donne autorizzate a esercitare la professione medica, pur potendo praticare

pubblicamente, sono comunque prive di una adeguata preparazione universitaria. Quando poi, nel

corso dell’età moderna, fiorisce una legislazione che vieta l’esercizio a coloro che non provengano

dall’apposita formazione conseguita negli Studi, le donne vengono del tutto eliminate da quel

mondo e i medici cominciano a occuparsi anche delle malattie femminili, con il significativo

apporto delle levatrici. Per queste ultime, nel 1513 il medico tedesco Eucharius Rosslin, scrive un

vademecum per aggiungere delle nozioni teoriche alla loro riconosciuta perizia pratica (King). Gli

storici registrano eccezioni eccellenti anche nell’ambito specifico della medicina, in cui il dominio

degli uomini, se possibile, è ancora più assoluto: nella Scuola Medica Salernitana, per esempio,

celebrata per il suo alto livello, le donne sembrano godere di una certa stima, anche se dell’esistenza

di qualcuna di esse, come la famosa Trotula, si è dubitato; una donna a Napoli nel 1321 viene

autorizzata dalla Corte ad assistere delle pazienti (King); una “medichessa”, Teodora Chichizola da

Zoagli (Rapallo) nel 1413 cura il figlio del doge di Genova, Leonardo Montaldo (Ferretto); fra

medioevo ed età moderna, in Svizzera, un certo numero di donne ottiene una licenza medica e

diverse donne sono contigue all’ambiente dei medici, come figlie o come mogli, e spesso li

affiancano e collaborano con essi mostrando indubbie capacità. Ciò che manca è il riconoscimento

del loro ruolo ed esse man mano riescono ad aprirsi un varco là dove la società e gli Studi sono più

avanzati, dunque presso le Università di Padova e di Bologna, dove pare preparassero i corpi che

servivano nelle aule per le lezioni di anatomia. Sembrano però compiti subalterni quelli ai quali

possono accedere, fermo restando che invece sono molto presenti nel campo dell’ostetricia e della

botanica, ma solo fino al XVIII secolo quando cresce il numero nei medici laureati che erodono

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anche questo spazio femminile. Sempre nel Settecento il primato spetta alla Germania, famosa per

le donne istruite anche come medici e levatrici, tuttavia bisogna arrivare all’Ottocento per avere i

primi veri successi femminili, pur continuando a persistere il rifiuto della comunità dei medici ad

accogliere al loro interno le donne. In Europa, a Edimburgo, la prima donna si laurea in medicina

nel 1812 (Miranda Stuart Barry); a Zurigo nel 1867; in Svezia il re Carlo XV, nel 1870, concede

alle donne di esercitare la medicina, ma per loro vengono organizzati dei corsi separati, uguali a

quelli degli uomini ma non insieme a essi; in Russia, l’Accademia di S. Pietroburgo inaugura una

specifica sezione per le donne, che tuttavia troveranno delle restrizioni nell’esercizio della

professione, contrariamente a quanto avviene in Francia dove le laureate in medicina hanno accesso

sia alla professione che alla ricerca. In Olanda, nel 1881, si ha la prima farmacista Aletta Jacobs, in

Spagna le donne possono frequentare la facoltà di medicina ma solo a Madrid, in Italia Ernestina

Paper si laurea a Firenze nel 1877, seguita da Maria Valleda Fané a Torino nel 1878. Anna

Kuliscioff (una delle fondatrici del Partito Socialista Italiano, che prende parte alle lotte per il

riconoscimento di una reale libertà delle donne e per i loro pieni diritti), rifiutata dall’Università di

Roma, espulsa dalla Francia, riuscirà a iscriversi alla facoltà di medicina in Svizzera, a laurearsi a

Napoli nel 1887, a specializzarsi in pediatria a Torino e a Padova; Maria Montessori è la prima

laureata a Roma nel 1894. A New York, Ruth Jackson è la prima donna ortopedico (1830), nella

stessa città, Elizabeth Blackwell nata a Bristol, dopo avere studiato privatamente ed essere stata

rifiutata in tutte le Università, viene accettata al Geneva Medical College (la facoltà aveva messo ai

voti il suo ingresso e poiché era stato considerato uno scherzo avevano risposto tutti positivamente),

dove si laurea nel 1849. Ma negli Stati Uniti, già nel 1880 la Scuola Medica di Filadelfia conta

cinquecento donne medico e nel 1921 l’American Gynecological Society (fondata nel 1876)

ammette la prima donna, Sarah Adamson Dolley.

Se in campo professionale le donne sono relativamente poche, sono invece assai numerose come

ammalate, spesso per la loro particolare sensibilità soggette maggiormente degli uomini ai mali non

solo del corpo ma anche dell’anima. Naturalmente le fonti raccontano soprattutto di ammalate

illustri che possono affliggersi per la mancata nascita di un erede o per una grave malattia che ne

mette in pericolo la vita, con conseguenze dolorose dal punto di vista affettivo ma anche politico.

Nel suo rapporto con la malattia e con la sofferenza, il mondo femminile offre una casistica quasi

illimitata e molto diversificata, dalle umili popolane alle aristocratiche e alle sovrane. Spesso per

esempio, donne importanti che per il ruolo simbolico e rappresentativo loro imposto dalle società di

appartenenza debbono intraprendere dei viaggi, si ammalano proprio in quelle occasioni che le

espongono a difficili condizioni climatiche e a fatiche alle quali non sono abituate. È quanto accade

alla madre di Lorenzo de’ Medici, Lucrezia Tornabuoni che per l’appunto in viaggio si ammala di

polmonite e a donna Beatrice Mendes - che appartiene alla più importante famiglia di ebrei

convertiti di Anversa - costretta a fuggire dopo la denuncia di praticare ancora la religione ebraica,

che si ammala mentre è in viaggio verso Venezia; viene assistita da un medico molto importante,

Joao Rodrigues di Castelbranco (che aveva assunto il nome latinizzato di Amatus Lusitanus), il

quale la cura con una conserva di rose mandatagli da Ferrara che aveva guarito il cognato Diogo,

ma che a lei non procura grande giovamento (un altro medico che opera ad Anversa è Diogo Pires,

di Evora). La stessa Cristina di Svezia, figura mitica della storia al femminile, che parte subito dopo

la sua abdicazione, proprio in viaggio contrae una pleurite. Altre volte le donne si trovano citate

come mogli di medici o sono elencate fra quanti chiedono una pensione o una “limosna”

evidentemente in quanto prive di mezzi dopo la morte del marito, come fa Isabel de Alice, vedova

del dottor Madera, medico de Camara del re di Spagna e protomedico generale, che nel 1607 ottiene

“seiscentos ducados por una vez”. Le regine, e con loro altre dame dell’alta nobiltà, si affidano a

medici di fiducia, come don Manuel de Larraga e don Mucio Sorra, che si occupano della salute

della regina di Napoli Maria Amalia, prima sofferente per le difficili gravidanze e poi afflitta

costantemente dalle malattie dei figli infanti. Nel XIX secolo, la medicina ufficiale comincia a

indagare sulla diversità fisica, “di costituzione”, fra uomini e donne (fino al XVII secolo si era data

per scontata anche una sua inferiorità morale) e se ne scandiscono i bisogni per così dire energetici

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sostenendo che all’uomo servono cibi animali che lo rendano più robusto e al tempo stesso più

fiero, mentre per le donne è sufficiente un minore apporto alimentare poiché: “la sensibilità

predominante nel loro apparecchio digestivo fa che meglio si adattino ai cibi vegetali”. La donna

prende minor quantità di alimento e digerisce più presto, l’uomo sente il bisogno di liquori

“spiritosi” cui l’altra è meno incline e al suo sistema nervoso assai più sensibile che robusto la

donna “dee senza fallo quella squisitezza di giudizio, quella penetrazione della mente che le fa

cogliere in un baleno infinite gradazioni le quali sfuggono a un uomo: tuttavia, perché questa fine

percezione accompagna massimamente le ultime sensazioni, avviene che ella dimentichi le altre e

non possa quindi apprezzare i rapporti e il tutto. Così, più atta a sentire che a ragionare, ella si

distingue nelle opere in cui primeggiano grazia e sentimento, ma ben di rado si innalza a’ vasti

concetti del genio”(Descuret). Donne minate dalle malattie o anche in fin di vita sono protagoniste

in tante e tante opere di pittori celebri, come Saskia ritratta da Rembrandt che rappresenta la

giovane moribonda consumata dalla febbre (Yourcenar), oppure l’ammalata che giace nel letto a

baldacchino, rappresentata da Steen in La visita del dottore, senza dimenticare la forza dei dipinti di

Frida Kalo, intellettuale trasgressiva che vive a pieno l’esperienza della rivoluzione messicana, la

quale inventa un personale linguaggio dei segni per raccontare il suo dramma. Tormentata da una

malattia congenita (spina bifida) e da un incidente automobilistico nel quale aveva rischiato la vita e

che la condizionerà per sempre, la Kalo esorcizza il dolore fisico e l’angoscia esistenziale attraverso

l’espressione pittorica: l’agonia del suo corpo che subisce ben trentadue interventi - schiena, bacino

fratturato, una gamba spezzata - non cancella ma anzi esalta la sua volontà di vivere e la pittura

diventa per lei una terapia del dolore.

Come spero di aver mostrato, nell’ampio ventaglio offerto dalla molteplicità di spunti, è possibile

ascoltare numerosi linguaggi che dicono l’intrigata complessità del tema sul quale si è lavorato. Le

testimonianze scaturite dalle fonti d’archivio hanno consentito di scorgere le pene quotidiane degli

ammalati e il loro difficile rapporto con il sapere medico, tendenzialmente conservatore salvo le

innovazioni proposte di volta in volta nel limite delle possibilità offerte dalle conoscenze acquisite

nelle varie epoche. In una dialettica spesso aspra che intanto si allacciava ai grandi cambiamenti

epocali del pensiero filosofico ed etico, politico ed economico, la cultura positivista e scientista fra

Otto e Novecento ha tentato anche di proporre l’affermazione della medicina sociale, in un

coacervo di segni che pur fra mille contraddizioni ha consentito alla società di evolversi e di

guardare sempre con maggiore interesse ai più umili, considerati non solo come individui ma come

popoli.

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