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SOMMARIO

Forse non tutti...

Diseguaglianze

di Meno Occhipinti

p. 12

Del doman non v’è certezza

Siamo in piena campagna elettorale e se

non fosse che in gioco c'è il nostro futu-

ro, ci sarebbe di che ridere

di Carlo Poerio

p. 13

Foto, mobili e carretti

Quasi un editoriale Vintage di Antonio La Monica p. 04 Per mercatini andar

Unire l’utile al dilettevole

di Laura Ciancio

p. 06

Occhio Strabico

W i Bitcoin

di Carlo Blangiforti

p. 08

Versi Diversi

È una curiosa creatura il passato

di Emily Dickinson

p. 09

Tra foto e moto

Il vintage è una moda e non si ...

di Saro Distefano

p. 10

Le cose che hanno acquistato un valo-

re per ciascuno di noi restano

di Ciccio Schembari

p. 16

Fotorama

Piccole cose di buon gusto

di Meno Baglieri

p. 18

Parole Sante

Il passato

di Lucio Anneo Seneca

p. 19

Altrocchio

Il nuovo Sisifo

di Carlo Blangiforti

p. 19

Verde Chiaro

C'è del marcio in Danimarca

di Aldo Adamo

Tra foto e moto

di Saro Distefano

p. 10

Il vintage è una moda e non si può spiegare

L’acqua in bollore

di Vittore Collina

p. 24

Il vintage: un muoversi tra passato e presente con la complicità del motivo esteti-

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p. 20

Il rugby in bianco e nero

Il vintage nello sport con la palla ovale

di Meno Occhipinti

p. 22

L'acqua in bollore

Il vintage: un muoversi tra passato e

presente con la complicità del motivo

estetico

Di Vittore Collina

p. 24

Un suono vintage

La Fender Stratocaster del 1954

di Patrizia Vindigni

p. 26

Più Libri, Più Liberi

Non è il libro ad essere vintage ma la

lettura

di Martina Annibaldi

p. 28

Il ritorno di Rita

Storie

di Nick Neim

p. 30

Ascoltare la musica con il walkman

La funzione sociale del vintagista

di Ester Procopio

p. 30

Arretrati p. 38 Colophon p. 40

Un suono vintage

di Patrizia Vindigni

p. 26

La Fender Stratocaster del 1954

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Quasi un Editoriale

Vintage

An

ton

io

La

Mo

nic

a

particolarità, l'unicità e il valo-re di qualsivoglia oggetto d'an-nata. Oggetto che, al pari di un buon vino ben vendemmiato, ha acquistato valore con il tempo. Un capo di abbigliamento che ha contraddistinto un'epoca. Un particolare pezzo d'arredo

Chi ancora non crede al po-tere delle parole dovrebbe soffermarsi solo pochi se-condi su uno dei termini più diffusi oggi. "Vintage". Agget-tivo francese che vuol dire più generalmente "vendemmia". Oggi la parola è usata per sottolineare la

o quello che volete. Insom-ma, sarà la povertà dei tempi attuali, sarà che, come diceva Gaber, quando è moda è mo-da, ma oggi il "vintage" sem-bra aver preso il sopravven-to. Alcuni segnali rivelatori: non costituisce più vergogna farsi vedere, persino nelle realtà più provinciali, presso i mer-catini dell'usato. Gli stessi, prima appannaggio degli ap-passionati delle poche cose d'epoca che si chiamavano antiquariato, oggi appaiono frequentatissimi. Persino il mercato discografi-co, in coma vegetativo da de-cenni, torna a respirare fa-cendo leva sul ritorno, assai discutibile per gli audiofili, sullo scricchiolante vinile. Gli oggetti di uso comune, come gli occhiali, alcuni mo-bili, tornano di prepotenza su stili degli anni che furono. Fe-

Ru

bric

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nomeno questo che, più che vintage, si definisce retrò. Ma la sostanza non cambia ed è questo il fulcro di questo quasi editoriale. "Vintage" è bello, divertente, spinge ad una sano riutilizzo degli oggetti, ha persino una valenza etica ed ambientale. Tuttavia c'è anche qualcosa che non va... Sembra quasi il sintomo di un malessere diffuso, di una nostalgia che viaggia all'indietro ma non verso un Eden perduto, quanto in direzione di pochi decenni addietro. Gli anni Ottanta, prima immaginati come ricettacolo di cattivo gusto e disimpegno, oggi sembrano davvero l'età dell'oro. Perché? Siamo dav-vero così incapaci di creare qualcosa di nuovo, innovati-vo senza guardare al recente passato? Stiamo davvero così male, siamo così insoddisfatti al punto da vagheggiare tra-mite le cose un ritorno ad un altro ieri che fino a ieri appa-riva persino scialbo? Così sembra essere la vita oggi. E a chi ha già compiuto i 40 anni o giù di lì non resta, tra contratti precari e incer-tezze esistenziali, che la sod-disfazione di notare lo sguar-do tutto ammirato del ragaz-zino super fashion e modaio-lo che ti chiede con voce tre-mante dall'emozione: "ma quei Ray-Ban a goccia sono originali? Dove li hai trovati?". È il vintage baby.... e per un attimo il mondo torna a sor-riderti!

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Per mercatini andar

Unire l’utile al dilettevole

La

ura

C

ian

cio

tornata da un rosario. Al di sot-to, le scansie con le cassette di arance, mele, limoni, mandorle e olive, pronte per la vendita al dettaglio. E’ la bottega di Augu-sto “il siciliano” che ogni setti-mana trasporta i prodotti della sua terra, alle pendici dell’Etna, fino a Capena, borgo campa-gnolo del Lazio, e nei diversi

Un grammofono a tromba, una macchina da scrivere “Continental” anni trenta, un pesante registratore di cassa primo novecento, poggiati sugli scaffali alti della frutteria di un paesino di campagna, accom-pagnati da una vecchia foto di famiglia in bianco e nero e da una immagine di padre Pio con-

mercati ortofrutticoli del cir-condario. Quegli oggetti vinta-ge, raccattati chissà dove, sono disposti lì ad abbellire l’angolo del garage che sovrasta il ban-cone della bilancia. Gli oggetti di una volta, recu-perati dalle cantine o comprati nelle fiere e nei mercatini, oggi fanno ‚tendenza‛ e i loro costi sono lievitati. Chi ha viaggiato attraverso il nord Europa sa che in quei Paesi non si è mai buttato via il patrimonio del passato, non solo architettonico e culturale ma anche quello degli oggetti di uso comune e quotidiano. Così, se in Italia potremmo stupirci di vedere una ragazza spingere la sua bici-carretto, alquanto datata e piena zeppa di spesa, nel centro di Cope-naghen non si volta nessuno a guardarla. Lì, il recupero e il riuso si pratica da sempre. In Germania i postini girano su vecchie bici con il portapacchi

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per consegnare la posta. In Europa si vedono camper di trent’anni prima risistemati (ma neanche tanto) che si av-venturano pigramente per le strade meno turistiche. I mer-catini sono dappertutto e tanti oggetti di una volta sono an-cora da usare, non sono solo decorativi. Quando si svuota-no le soffitte delle nonne, in Provenza, in Borgogna, in Bre-tagna, si riversano sulle ban-carelle manufatti in alluminio, vecchie lattiere o bricchi, utensili in ferro, chiavi, pomel-li, maniglie, attaccapanni e cornici, cavalli a dondolo in legno, valigie e cappellini. Tut-to, o quasi, pronto per avere una nuova vita in altri luoghi. Confusione, brusio, scossoni dei corpi che ingombrano ogni palmo di terreno, mani che cercano, occhi che squa-drano, menti che valutano, voci che chiamano, libri usati sparpagliati e buttati lì a ca-saccio, con dediche e sottoli-neature, scrivanie, buffet e consolle di modernariato, bic-chierini in vetro e servizi da caffè di porcellana finissima, alzatine in vetro per la frutta, minigonne anni settanta e pantaloni a zampa, giubbotti in pelle alla Fonzie e centrota-vola ricamati. Il mercato delle pulci lo si ama o lo si odia, per lo stesso motivo. Può essere paradiso o inferno. O ci si infi-la dentro con tutta l’anima la-sciandosi trascinare dall’onda della folla oppure si diserta e si scappa via il più lontano possibile. C’è chi i colori ama vederli in cartolina e nel pae-saggio tranquillo e chi preferi-sce tingersi delle tempere a

tinte forti del mercato. Chi vi entra è fondamentalmente un curioso. Uno che è alla ricerca di qualcosa, anche se non sa esattamente cosa. Quasi im-possibile tornare a casa senza aver conquistato un pezzo che sembra unico, d’antan. Osser-vare nel suo insieme la merce datata esposta sui tavoli sca-raventa in un tempo già acca-duto e muoversi tra le banca-relle è come camminare tra le storie degli altri, quelli che ci hanno preceduto. Gli oggetti hanno il loro vissuto e far rivi-vere un vassoio di peltro o un vaso portafiori in vetro è ri-creare un ponte con il passato, dare continuità alla storia. In alcuni mercati si tratta an-cora, per stabilire il prezzo. Mai andati al Gran Bazar di Istanbul? Per i mercanti la trat-tativa è più importante dell’ac-quisto. Può durare anche ore. Ma a loro non interessa, per-ché il tempo non è importan-te. Non hanno fretta. Spesso invitano il viaggiatore a bere il

tè, in quanto ospite, poi si pat-teggia sul costo della merce e infine si porta via il narghilè o il tappeto antico. Se invece non si raggiunge un accordo, salutano con rispetto, al pari che se si fosse portato via qualcosa di esoso. Parigi, Porte de Clignancourt. Mercato delle pulci di Saint Ouen. Sembra sia il più gran-de al mondo. Sette ettari di superficie con botteghe e ne-gozietti che spuntano ovun-que e dove sono esposti tanti pezzi unici, anche di antiqua-riato. Tra queste stradine Woody Allen ha girato il film ‚Midnight in Paris‛ e non è difficile credere che abbia tro-vato un’atmosfera molto par-ticolare… Questo luogo nacque intorno al 1870 quando i robivecchi, buttati fuori dal centro di Pari-gi, si stabilirono nel paesino di Saint Ouen, che fu raggiunto già nel 1908 dalla metropolita-na. Il mercato dei robivecchi

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Carlo Blangiforti

OcchioStrabico W i Bitcoin

dopo un’osservazione superfi-ciale si comprende che questo è un ghetto. Un quartiere dove dimorano povertà, emargina-zione e rabbia. Per arrivare al mercato camminiamo un quar-to d’ora a piedi. E’ un giorno di dicembre del 1997, lontano an-cora dagli attentati della jihad. Fa freddo ed è quasi ora di pranzo. Il marché aux puces ci travolge letteralmente e ci per-diamo nei suoi labirinti. La fame ci fa infilare in una trattoria da-gli arredi kitsch anni cinquanta e dalle decorazioni natalizie pe-renni. L’atmosfera è rinvigorita da una brava cantante mora che si esibisce “live“ in canzoni di Edith Piaf e nel repertorio tradizionale francese. Così mangiamo un menù senza arte né parte, su tavolini in condivi-sione con sconosciuti commen-

attirò l’attenzione e si ampliò con i rigattieri, gli antiquari, i venditori di vestiti. Dalla città cominciarono ad arrivare compratori e oggi è frequen-tato da collezionisti e antiqua-ri di tutto il mondo. Scesi dalla metropolitana, ci appare una città diversa, dia-metralmente opposta a quella incontrata nel centro. Un quar-tiere dormitorio di lavoratori immigrati, palazzoni decadenti, grandi magazzini economici e un popolo lontano, in tutti i sensi, dai parigini. Prima di arri-vare alle porte del mercato di Saint Ouen, odori di spezie e musiche arabe, volti di norda-fricani, abitanti non lontano dalle fabbriche dove lavorano come manodopera a basso co-sto. Qui l’integrazione tanto proclamata non si vede. Anche

sali che parlano animatamente. Il proprietario, decisamente vin-tage come il locale, è addetto alla cassa e la cantante, non proprio giovanissima, passa col cestino per le offerte dopo averci offerto le sue “chansons”. Ora, a distanza di tanti anni, mi chiedo se da questa bettola, diventata imperdibile per chi va a Parigi, sia passato Renzo Ar-bore prima di far uscire il suo “Vintage… Ma non li dimostra” o prima di aver arredato la sua fantasiosa e variopinta casa con gli oggetti più strani e im-probabili, più divertenti e inutili che ci siano, tutti o quasi rigo-rosamente da collezione e d’an-nata, denominati da lui stesso “cianfrusaglies”.

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Versi Diversi

Em

ily

D

ick

inso

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È una curiosa creatura il passato Ed a guardarlo in viso Si può approdare all’estasi O alla disperazione. Se qualcuno l’incontra disarmato, Presto, gli grido, fuggi! Quelle sue munizioni arrugginite Possono ancora uccidere!

È una curiosa creatura il passato

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Tra foto e moto

Il vintage è una moda e non si può spiegare

Sa

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Dis

tefa

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gapixel, un quarto di quanto oggi può vantare uno scalci-nato telefonino cinese…) venne immediatamente per-cepito, dagli addetti ai lavori e dagli appassionati, che un mondo volgeva alla fine, e un mondo tutto nuovo si affac-ciava velocemente. Da allora la tecnologia ha viaggiato a velocità impensa-

Mi appassiona molto la moda del vintage in due settori. Di-stanti, ma non troppo, tra di loro. Le macchine fotografi-che e le motociclette. Quando, e ormai saranno quasi vent’anni, iniziarono ad essere disponibili in com-mercio le camere digitali (la mia prima, una Olympus, aveva un sensore di 3,2 me-

bili, ed oggi tutti, e proprio tutti, scattano fotografie. S’intende digitali. Oltre ai sel-fie, oltre ai piatti di pasta fo-tografati per essere visti su Facebook, oltre alle feste di compleanno con gli obiettivi appannati, è digitale anche la foto di copertina di National Geographic. E però. Però non sono pochi i miei amici e conoscenti che appena si scatta col cellulare (ma vale lo stesso anche per la favolosa Leica, se digitale) sbottano di brutto e comin-ciano a criticare (quando trattasi di persone di senso) e a coglionare (quando trattasi di, appunto…) contro il digita-le e a favore dell’analogico. Le motivazioni sono tante, e, dal mio punto di vista, nessu-na valida, se non la (inutile) aurea romantica del cambia-re rullino e attendere poi la sorpresa dello sviluppo.

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La unica persona, fortemente critica verso la fotografia di-gitale, e al cui ragionamento mi sento di dover dare ragio-ne, è mia madre. Lei non ha mai fotografato in vita sua. Non conosce la differenza tra digitale e ana-logico. Ma se, e lo grida ai suoi figli e a suo nipote, non riesce più a vedere una foto, è certamente colpa della ri-voluzione digitale. Il suo è ra-gionamento semplicissimo: quando c’erano i rullini si fa-cevano poche foto ed erano in pochi a farle. Quelle poche foto si guardavano, spesso si ammiravano, e poi si conser-vavano in appositi album che, a distanza di cinquanta anni, si possono andare a sfogliare e rivedere, quindi, quelle foto, anche se sovente ingiallite. Da quando si scattano tantis-sime, ma proprio tantissime foto e sono in tantissimi a farlo, le foto si possono ve-dere solo nei tre pollici dello schermo dello smartphone e in quello da quindici del com-puter. Mia madre non possie-de né l’uno né l’altro, e per-tanto non vede nessuna foto, se non quando suo nipote, mosso a passione, ne mostra col cellulare una sequenza di trenta in dieci secondi, ché mia madre non ha nemmeno fatto in tempo a inforcare gli occhiali ‚ppa vicinanza‛. Ancora di più mi impressiona questa recente moda, per una volta partita dall’Europa e non more solito dagli USA, che esalta una operazione

invero singolare: mettere sul mercato (e venderne migliaia di esemplari, molti di più di quanto si possa immaginare) motociclette modernissime e antichissime. S’intende nello stesso esemplare: ovvero la stessa moto è antica nell’a-spetto (si privilegia, di questi tempi, lo stile della fine anni ’50 inizio anni ’60) ma moder-nissima nella tecnologia (a parte le ruote a raggi, sono moderni i freni, i copertoni, l’alimentazione, gli scarichi). Di suo parrebbe un assurdo. E però, spiegano gli appassio-

nati, in tal maniera si può viaggiare e divertirsi (è utile ricordare che, a differenza delle automobili, le motoci-clette sono mezzi di traspor-to ‚futili‛, oggi si acquistano per diletto) con moto sicure, ecologiche, scattanti e stabili, e però con l’aspetto bello delle moto antiche, evidente-mente (almeno per gli appas-sionati) più belle di quelle contemporanee. È la moda, non si può spiegare.

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Forse non tutti SANNO CHE...

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anno la percentuale era del 28,7%. Forse non tutti sanno che l’I-talia è al 20° posto tra i Paesi in cui la diseguaglianza di reddito è maggiore. È possibile che le politiche

Forse non tutti sanno che c’è un Paese nel quale il 30% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Forse non tutti sanno che in quel Paese, l’Italia, lo scorso

per il sostegno al reddito delle famiglie meno abbienti non solo non hanno funzio-nato ma hanno fatto cresce-re le diseguaglianze?

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Diseguaglianze

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Del doman non v’è certezza

Siamo in piena campagna elettorale e se non fosse che in gioco c'è il no-stro futuro, ci sarebbe di che ridere C

arl

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Po

eri

o

essere già in piena campa-gna elettorale. A chi la segue, non sarà sfuggito un partico-lare piuttosto evidente: il ri-torno di una generazione di politici di età piuttosto avan-zata che credevamo definiti-vamente usciti dalla politica

Ancora non conosciamo la data in cui saremo chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento italiano e neanche se voteremo con la legge elettorale approva-ta recentemente "a colpi di fiducia". Però sappiamo di

del Paese. Politici di cui nes-suno sentiva la mancanza, senza alcun valore o qualità e spesso discutibili. Insom-ma, politici che per le quali-tà possedute non è possibi-le considerare vintage ma solamente vecchi. Se un

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significativi di quello che sarà il tenore di questa campagna elettorale e dei politici che l’animeranno. Ricordo, per esempio, un recente programma televi-sivo di prima serata, con conduttore zerbino e, come ospite, un discusso ex sena-tore ex cavaliere ed ex tan-te altre cose. Ad un certo punto della trasmissione, si sente l’ex affermare che l'e-vasione fiscale è una deplo-revole piaga di questo no-stro Paese. Lui, un pregiudi-cato condannato in via defi-nitiva a quattro anni perché ha frodato gli italiani per 280 milioni di euro di fondi

merito va riconosciuto al centrosinistra renziano che ha governato in questi ultimi anni, ammesso che questo sia un merito, è l'aver dato nuova vita a personaggi che pensavamo finalmente rele-gati tra i ricordi del passato. Quelli brutti, ovviamente. I renziani, purtroppo, hanno dimostrato che non sempre il nuovo è meglio del vec-chio e nemmeno che il futu-ro sarà migliore del passato. Siamo in piena campagna elettorale e se non fosse, co-me al solito, che in gioco c'è il nostro futuro, ci sarebbe di che ridere. Non sono man-cati episodi particolarmente

neri, uno che non è finito in galera perché tre anni li ha avuti condonati, uno che è stato definito da un tribuna-le italiano un "delinquente naturale", dice a qualche milione di telespettatori che l'evasione fiscale è da de-plorare. Quella degli altri, immagino! Come se non ba-stasse, l’ex di cui sopra non prova alcuna vergogna nemmeno quando, nel cor-so della stessa trasmissione, tuona contro i parlamentari che "cambiano casacca", os-sia passano da un partito all’altro, da un gruppo par-lamentare ad un altro, nel classico stile dei voltagab-bana. Tralasciando di rac-contare, tuttavia, quando i parlamentari se li comprava lui a suon di milioni, per far cadere un governo o per manovre di palazzo. Altro esempio di singolare pessi-ma comicità riguarda un al-tro politico, sicuramente più giovane dell’ex ma che allo stesso pare ispirarsi, aven-do fatto ciò che al predetto ex veniva contestato (dalle piazze e in Parlamento!). Lo stesso, pare abbia dichiara-to guerra alle false notizie che potrebbero circolare in rete nel corso di questa campagna elettorale per-ché, secondo lui, è a causa delle stesse che ha perso un referendum su una riforma costituzionale e tutte le ele-zioni avvenute nell'ultimo biennio, tutte, comprese quelle al suo paesello natale

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prattutto, in grado di espri-mere concetti credibili per-ché comprovati dalla pro-pria storia personale; tutti coloro che desiderano se-guire una sinistra coesa e con l'obiettivo di governare il Paese, sappiano che le va-rie sigle e siglette contrarie ad allearsi con il Partito De-mocratico, per il momento sono impegnate ad organiz-zarsi e, pertanto, ‚del doman non v’è certezza‛. Di proba-bile, c’è che continueremo a vivere di politici che si nu-trono di neoliberismo, di libero mercato e di società dei consumi; c’è che conti-nueremo ad ascoltare le bieche rivendicazioni di un'opinione pubblica sem-pre più chiusa in se stessa, individualista e spesso vio-lenta; c’è che non verrà po-sto alcun freno agli effetti nefasti del turbocapitalismo dai consumi standardizzati, come la distruzione pro-gressiva dell'ecosistema, del mutamento climatico già in stato avanzato o dello sfrut-tamento delle risorse ener-getiche pensando che siano infinite. Ancora, continuere-mo a subire sempre più il dramma delle migrazioni o della mancanza di lavoro. Assisteremo alla definitiva trasformazione del nostro sistema scolastico pubblico in azienda per la produzio-ne di mano d'opera man-sueta e di individui che avranno come uniche aspi-razioni l'apparire ed il con-

dove, evidentemente, lo co-noscono bene. Aveva anche promesso, il giovane politi-co anti bufale, di abbando-nare la politica se avesse perso il suddetto referen-dum. Purtroppo si è rivelata una bufala pure quella. Si-mile campionario di politici sfacciati e ridicoli è comun-que in ottima e nutrita com-pagnia in questo inizio di campagna elettorale, carat-terizzata da cronaca politica demenziale per la quale il bianco diventa nero, la me-moria del passato non esi-ste ed il futuro è una pro-messa raccontata da nani, ballerine, finti giovani, fara-butti autentici e potenziali farabutti.

Coloro che invece sperano nell'avvento di una forza politica di sinistra, capace di tradurre in proposte con-crete le tematiche rilevanti e sensibili che riguardano il nostro quotidiano vivere ed il nostro futuro; che auspi-cano la nascita di politici in grado di proporre e pratica-re nuovi stili di vita, dimo-strando che gli stessi sono possibili; che vorrebbero seguire politici capaci di ri-portare all'attenzione dell'opinione pubblica con-cetti come uguaglianza o giustizia sociale, sempre più mal sopportati o considera-ti con fastidio dalla stessa; che sognano una figura po-litica capace di parlare un linguaggio semplice ma, so-

sumare. Assisteremo, inol-tre, al dilagare dei nuovi fa-scisti e della mafia capitali-sta e finanziaria. Se saremo particolarmente sfortunati, e per ora le probabilità sono abbastanza alte, assistere-mo anche ad una guerra nu-cleare. Due capi di stato che definire folli è da ottimisti, già da tempo stanno giocan-do a chi ce l'ha più lungo, il missile nucleare. L’opinione pubblica nel frattempo è moribonda, sempre più afflitta da una nuova forma di alienazione, collegata alla diffusione delle tecnologie della comunicazione. Que-ste ultime stanno distrug-gendo i legami sociali veri, reali e autentici, sostituiti da pseudo rapporti tra indivi-dui che pensano di esistere perché "connessi" ad una rete di social network in ogni momento della loro esistenza. Invece, le piazze come quelle della manife-stazione del 2 dicembre per rivendicare ‚pensioni più giuste e dignità del lavoro‛, rimangono (quasi) desolata-mente vuote.

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Foto tratte liberamente da internet e contrassegnate per essere riutilizzate

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Il mal di vivere dei giovani

Rimettiamo i figli e il loro lavoro al centro del nostro agire...

Cic

cio

S

che

mb

ari

I mobili antichi. Erano gli anni cinquanta, avevamo ereditato da mia nonna paterna, morta a novantaquattro anni, un cante-rano a tre cassetti in noce no-strana. Quasi uguale a quello riportato in foto. Con i piedi più snelli e più slanciati. Più elegante. Forse del settecento. In quegli anni c’era la mania di dare via i mobili vecchi. C’era gente che li comprava. Gente

benestante. Gente che aveva la "stravaganza" di comprare mobili vecchi. Noi li davamo via. Uscivamo da un periodo di ristrettezza, di miseria, di fati-ca. Era cominciata l’epoca nuo-va dell’abbondanza, dell’agia-tezza, della funzionalità, della minor fatica. Avevano inventa-to la formica. Che bella la for-mica: bastava passarci un pan-no umido ed era subito pulita! Quei mobili vecchi, di legno buono, nati dalle mani di esperti ebanisti, veri capolavo-ri, ci ricordavano quel passato. E li davamo via. Con sollievo. Così io e mia sorella abbiamo dato via il canterano del sette-cento. Per un "piatto di pasta-sciutta". Non ricordo la cifra. Ricordo che ci realizzammo un bel nulla. Ricordo la facilità con cui il compratore, un forestie-ro, tirò fuori i quattrini. Ricor-do lo sguardo che mi rivolse: perché vendete, per quattro soldi, un mobile così bello?!

Vintage: una cosa che ha ac-quistato valore nel tempo e torna di moda. Le mode van-no e vengono. Ma le cose che hanno acquistato un valore per ciascuno di noi, quelle re-stano. Anche quando scom-paiono, anche quando le ab-bandoni. Restano. Il tema di questo mese mi ha richiamato tre cose che hanno acquistato valore per me.

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a Roma, me la rubarono. In-tanto la mia conoscenza in campo era cresciuta e ricom-prai la Canon con due obietti-vi zoom: il 35/80 mm e l’80/200 mm. Era bello ricercare e curare le inquadrature. Sei colpito da un paesaggio. Decidi di foto-grafarlo. Lo stai vedendo con una visuale di 180 gradi. La macchina ha una visuale infe-riore e l’inquadratura che fai può non essere interessante. Devi renderla interessante, capire meglio cosa ti ha colpi-to del paesaggio, cosa val la pena raccontare. Devi metter-ci del tuo. Giochi, scegli, deci-di, crei, ci provi gusto. Era bello giocare con la luce utilizzando in modo opportu-no i tre elementi in dotazione: la sensibilità della pellicola; l’apertura del diaframma dell’obiettivo; il tempo di esposizione. Una sensibilità della pellicola più alta ti dà più possibilità, però ha una grana più grossa. L’effetto può essere voluto e

Avevo sedici anni e quello sguardo mi restò impresso. In seguito mi rifeci. Alla gran-de. Furono in tanti e in tutta Italia a dare via i mobili vecchi. Di legno buono. Costruiti da bravi ebanisti. Così, alla fine degli anni settanta – insegna-vo a Bologna – ebbi modo di comprare, per pochi soldi, un canterano a quattro cassetti di castagno, una credenza di ol-mo e due comodini di noce. Non da antiquari. Da due or-dini religiosi che finanziavano le loro attività di beneficenza svuotando gratuitamente le case e rivendendo a buon prezzo i mobili. Quando ritornai a Ragusa me li portai dietro e, assieme a qualche altro pezzo comprato e a quelli ereditati, costitui-scono il mobilio di casa mia, di cui sono contento e orgoglio-so. Molto! Perché sono di le-gno massello, perché sono belli, perché c’è la maestria antica dell’artigiano. Ma quel canterano a tre cassetti di mia nonna lo rimpiango. Sempre! La fotografia in bianco e ne-ro. Un mio compagno di scuo-la e d’università, ch’era rima-sto qualche anno indietro e a cui avevo dato un buon aiuto nella preparazione delle prime materie di matematica, mi re-galò, per la mia laurea, una macchina fotografica. Una Voigtländer ad ottica fissa. A Venezia, dove ero andato a insegnare, nel fare una foto con l’auto scatto, scivolò nel canale e andò perduta. Ma la nata passione per la fotografia rimase. Così comprai una Ca-non reflex ad ottica intercam-biabile coll’obiettivo in dota-zione, il 50 mm. In un autogrill,

apprezzato, ma non sempre. A maggiore apertura del dia-framma corrisponde un tem-po di esposizione più breve. E viceversa. Un’apertura di dia-framma grande dà poca pro-fondità di campo per cui l’og-getto messo a fuoco viene ni-tido e lo sfondo sfuocato. Va bene per i primi piani, per i ri-tratti: risaltano meglio. Per i visi va meglio l’obiettivo da 80 mm. Per le persone intere, i paesaggi, le strade. . . va me-glio il 35 mm e il diaframma poco aperto così viene tutto a fuoco e se il tempo di esposi-zione è più lungo, non fa nien-te, tanto il paesaggio è fermo. L’80/200 mm lo usi per avvici-nare oggetti non raggiungibili, per isolare un particolare. Se un lato della strada è illumi-nato dal sole e l’altro in ombra, come regolare l’esposizione? Se regoli sulla parte in ombra, quella illuminata viene tutta bianca o quasi; se fai viceversa ottieni nitida la parte illumina-ta e quasi tutta nera l’altra. An-che un volto ha una parte illu-

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ripresa. Giochi, scegli, decidi, crei, ci provi gusto e godi nel vedere l’immagine emerge lentamente e comporsi sulla carta bianca. Poi si impose il colore. Mi ade-guai e abbandonai la camera scura. Della mia infanzia e fanciullez-za ho pochissime foto. Meno di dieci. Dell’adolescenza qualcuna di più. All’epoca era-no pochissime le persone che possedevano una macchina fotografica. Con i miei figli mi sono rifatto. Ho raccontato con le foto la loro crescita. Poi sono uscite le macchine digitali. Totalmente automati-che. Non devi pensare a nulla. Non devi porre attenzione alle luci, alle ombre. Inquadri e scatti. Anche coi telefonini puoi fare foto. Ne puoi scatta-

minata e l’altra in ombra. Come fare? Giochi, scegli, decidi, crei, ci provi gusto. Era bello andare in giro con la macchina fotografica carica. Sai che vuoi costruire un rac-conto con le immagini. Scatti le foto. Gli scatti non sono illimi-tati. I rullini costano. La stampa costa ancora di più. Allora poni attenzione a ciò che vedi e de-cidi cosa fotografare e cosa tralasciare. Costruisci il tuo racconto. Giochi, scegli, decidi, crei, ci provi gusto. Mi appassionai. Comprai un ingranditore e mi feci la came-ra oscura per sviluppare i rulli-ni e stampare le foto. Era bello giocare con la luce dentro la camera oscura. Si aprono nuove possibilità. Ag-giusti, integri, completi quello che hai fatto nella fase della

Meno Baglieri

FotoRAMA Piccole cose di buon gusto

re all’infinito. Non costano nulla. Oggi tutti fanno foto. In continuazione. Una sequenza illimitata di fo-to, non è un racconto. È una riproduzione della vita. Stupi-da: per riprendere la vita, so-spendi la tua vita. Passiva: di tuo non ci metti nulla. Inutile: non la puoi comunicare. Se ci provi, ti tocca sospendere di nuovo la tua vita. I miei figli, come tanti, si sono messi a scattare foto. Io ho smesso di fotografare. Ho chiuso con una fase della mia vita. Ho svenduto macchina fotografica e ingranditore. Ho cominciato a far l’attore e a raccontare con le parole.

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operaincerta 19

L

uci

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S

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Il passato

Ru

bric

a

Parole Sante

Estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che di-menticano il passato, trascurano il presente, temono il futu-ro: giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati occupati tanto tempo senza concludere nulla.

Carlo Blangiforti

AltrOcchio Il nuovo Sisifo

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20 operaincerta

Verde CHIARO

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Ad

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o C’è del marcio

in Danimarca

Ru

bric

a

È una pianta vintage o re-trò? È o non è? Strano, ma questa domanda mi ricorda qualcuno, qualcuno che va-

gava, appunto, per la Dani-marca. Lì trovò anche del marcio. Non sappiamo se riuscì a trovare anche un’A-

spidistra, vista la longevità che riesce ad avere questa pianta. Di sicuro c’era nel periodo vintage. Nelle case borghesi e nobiliari dell’epo-ca, dove si aveva il gusto e il tempo di pensare anche allo spirito, c’era sempre una pianta di Aspidistra, che nel ragusano era semplicemen-te chiamata ‚le foglie‛. E so-no le foglie la parte predo-minante di questo cespuglio verde, foglie che hanno dato pure il nome scientifico. Guardata con attenzione, infatti, la foglia ricorda uno scudo, scudo che in greco si dice aspis: da qui il no-me Aspidistra. Originaria dell’Oriente pare che possa vivere più di cen-to anni. Questa sua longevi-tà mi fa credere che possa esistere ancora qualche Aspidistra vintage, se consi-

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CONSIGLI VERDI Nel Prato: in questo mese, considerato che molti lavori di ma-nutenzione andranno sospesi, puoi pensare alla revisione delle attrezzature: per il tosaerba si consiglia la revisione da un meccanico specializzato. Nel giardino: prepara le nuove aiuole vangando e incorporan-do concime; puoi impiantare rose, arbusti e piante da frutto a radice nuda. Le piante da interno: attenzione agli eccessi d'acqua e agli sbalzi di temperatura. Il bonsai: con i i riscaldamenti accesi bisogna garantire al bon-sai da interno la giusta umidità posizionandolo su un sotto-vaso con materiale drenante bagnato (vedi akadama) Nell’orto: semina Pisello e Fava; inizia a trapiantare la cipolla.

E se vuoi saperne di più puoi sempre

telefonarmi al 348.0180141 o scrivermi [email protected]

deriamo come periodo ine-rente quello che va dal 1920 al 1980. Nel caso non sia possibile avere un’Aspidi-stra cinquantenne, puoi ac-contentarti di un’Aspidistra retrò. La troverai con facilità nei vivai e nei garden assor-titi. È facilissima da coltivare. Ama i posti senza il sole di-retto o con poca luce. Resi-ste bene alle escursioni ter-miche, dai -5° ai + 40° e sop-porta anche periodi di sicci-tà. Pertanto ti consente, se sei alle prime armi, di misu-rare la tua capacità agricola e di avere con facilità una signora verde da curare, una signora squisitamente re-trò… buon lavoro verde…e attento ad Amleto…

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come si gioca oggi, nono-stante anche allora si giocas-se in 15, ci fossero le mischie e le touches e il pallone fosse sempre ovale. Ma ciò che sembra simile non è necessariamente uguale. Negli anni settanta il pallone era di cuoio, il ‚mitico‛ Walla-by della Adidas, quello color beige con le punte nere. Pe-sante e con pochissimo grip (il grado di aderenza del pallo-ne alle mani, ndr), quando il Wallaby si bagnava diventa-va una saponetta ingoverna-bile, ancora più pesante di quanto non lo fosse natural-mente perché, man mano che toccava terra, questo ac-cadeva evidentemente nei campetti spelacchiati di peri-feria o in quelli senza un filo d’erba del Sud, vi si appicci-cava tanto di quel fango che,

Il rugby non è sempre stato quello che conosciamo oggi: dirette televisive in alta defi-nizione, giocatori ‚statue greche‛, abbigliamento e materiale tecnico ipertecno-logico. Anche nel rugby c’è stato un tempo in cui si giocava in bianco e nero. Erano i ‚gloriosi (?)‛ anni settanta, quelli del Cinque Nazioni commentato in Tv da Paolo Rosi, dell’Italrugby che gio-cava ancora la coppa Fira, con la seconda squadra del-la Francia, la cosiddetta ‚Nazionale B‛, che la faceva da padrona, dei giocatori con la pancetta (quando non panciona), del campio-nato di serie A che non era ancora diventato ‚Top Ten‛ o ‚Eccellenza‛. E anche il modo di giocare a rugby era molto diverso da

Il rugby in bianco e nero

Il vintage nello sport con la palla ovale

Me

no

O

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ipin

ti

per far ritornarlo al colore originale, bisognava ra-schiarlo o metterlo sotto un getto d’acqua. Mischie e touches, come detto, ci sono sempre state, d’altronde sono l’essenza di questo sport, ma a vedere oggi le vecchie immagini in bianco e nero, si stenta a credere che anche quello fosse rugby. Oggi in mischia siamo abituati ai tre tempi, ‚bassi‛, ‚lega‛, ‚via‛, e solo a questo punto, quando l’arbi-tro dà una pacca al mediano di mischia o gli fa un cenno, il pallone può essere intro-dotto nella mischia e i 16 uo-mini possono iniziare a spin-gere. Prima, invece, non ap-pena l’arbitro assegnava la mischia, le prime linee en-travano subito in contatto e le due mischie potevano già spengere, ancora prima che

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l’ovale fosse introdotto. Ancora più irriconoscibile è la touche. Si lanciava con molto meno tecnica di oggi, i cambi di posizione (l’uomo designato a fare proprio l’o-vale che si sposta in avanti o indietro per ingannare l’av-versario, ndr) non esisteva-no e non era permesso ‚l’ascensore‛ (due giocatori che sollevano un terzo com-pagno per aiutarlo ad ag-guantare l’ovale, ndr). Si sal-tava, tutti allo stesso mo-mento, il più bravo, o chi aveva più coordinazione, conquistava il pallone. E poi si giocava a ritmi più blandi, i giocatori erano me-no ‚atleti‛ e più ‚uomini‛. Non c’era il professionismo, durante di giorno si lavorava e la sera ci si allenava.

Era un rugby più a misura d’uomo. Lo si poteva giocare a livelli medio-alti anche se non si era un colosso tutto muscoli e velocità. I giocatori di mischia avevano la pancia e i trequarti un fisico ‚normale‛, non c’erano quei semidei che siamo abituati a vedere oggi. Era normale ve-dere gli uomini di mischia ancora a terra, mentre il pal-lone era già dall’altra parte del campo. Oggi invece non è raro vedere le seconde e le terze linee, se non anche i piloni, partecipare al gioco aperto. Il rugby di oggi è certamente

più spettacolare, non è un

caso che, a differenza di

quello in bianco e nero, lo si

vede più spesso in televisio-

ne (anche se, a dire il vero, in

questi ultimi anni l’offerta, al-

meno in Italia, è leggermente

diminuita, forse perché la Na-

zionale non vince più come un

tempo, ndr) ma noi, sarà col-

pa dell’età, quando ripensia-

mo a quel rugby, lo facciamo

con una certa nostalgia. E, lo

ammetto, non è una cosa

molto bella… Che avessero

ragione Al Bano e Romina

(ancora due dell’epoca del

bianco e nero, la cosa diven-

ta preoccupante) a dire che

la ‚nostalgia è canaglia‛ per-

ché ‚ti prende proprio quan-

do non vuoi e ti ritrovi con

un cuore di paglia e un in-

cendio che non spegni mai‛?

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sentire e vedere a distanza (a partire dalle e-mail fino a Sky-pe, WhatsApp, e ai vari so-cial network …). Gli spazi che siamo in grado di 'frequentare' oggi, dunque, sono tanti, implicano rapidi o rapidissimi spostamenti dell' attenzione e comportano una mobilità mentale e fisica deci-samente accresciuta rispetto al passato. Per accennare alle analisi fat-te su queste tematiche, l' 'universo' in cui ci muoviamo oggi è decisamente più com-plesso ed è fatto di piani, di sistemi, sottosistemi, gerar-chie, sovrapposizioni, diffe-renze, interdipendenze ... Il che mette in serio pericolo categorie consolidate (e all'apparenza granitiche) quali quelle di 'realtà', 'verità' e di 'causalità.*1+ Oggi abbiamo i mezzi per col-tivare una grande quantità di

Trovo che il vintage sia in perfetta sintonia con la dina-mica delle cose di oggi. I mezzi che abbiamo a dispo-sizione consentono una mo-bilità impensabile fino a qualche decennio fa sia sul piano fisico degli spazi che su quello meno fisico delle comunicazioni. A parte l'uso dell'auto, cresciuto lenta-mente e con una tradizione assai più lunga, solo di re-cente gli aerei, i voli low cost, i treni veloci hanno introdot-to nell'uso comune dimen-sioni spaziali che in prece-denza erano appannaggio di pochi. Ma, più o meno con-temporaneamente, anche sul piano delle comunicazioni la 'mobilità' si è accresciuta e forse non è così esagerato dire che sia 'esplosa': il 'vicino' e il 'lontano' hanno assunto lineamenti nuovi, data la facilità di scrivere,

L’acqua In bollore

Il vintage: un muoversi tra passato e presente con la complicità del motivo estetico V

itto

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rapporti; per muoverci (fisicamente o meno) tra luo-ghi e contesti diversi; per gio-care tanti ruoli secondo mo-dalità e contenuti anche assai diversi. Attorno a noi si apro-no e si chiudono spazi mate-riali e più spesso immateriali, percorribili in tante direzioni, che ci ospitano più o meno fugacemente in senso fisico ma anche no. Anzi in un sen-so che tende a diventare sempre meno fisico, meno statico e piuttosto plurale. Esempio: un tempo andava-mo a ritirare lo stipendio in banca ogni mese; oggi di-sponiamo dell'home banking, di carte varie e per i contanti (se proprio necessari) ci sono i tanti bancomat. Visto in questo contesto il vintage è, in fondo, un muo-versi disinvoltamente tra tempi e luoghi; andare su e giù tra passato e presente

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con la complicità del motivo estetico. Le rappresentazioni del tem-po come fluire universale e lineare non sembrano più tanto soddisfacenti: nel sen-tire comune, in prima istanza, il tempo non è più tanto il religioso cammino dell'uma-nità su questa terra con l'o-biettivo finale dell'eterna sal-vezza. E non è più, neanche, marcia progressiva dell'uma-nità verso un futuro in co-stante miglioramento. Oggi queste grandi interpre-tazioni lineari della storia umana convivono faticosa-mente con l'incalzare delle scadenze a breve termine, con la molteplicità di prestiti e saldi, con le tante molle che premono da ogni parte, col criterio performativo di spe-cifiche finalità e anche col capriccio di modeste evasio-ni.

In questo ambito il gusto del vintage si inquadra bene. Col vintage, nel quadro del nostro microcosmo persona-le, prendiamo il tempo e lo spazio per mano, avanti e in-dietro, seguendo ricordi, in-tuizioni, slanci estetici, mode tramontate e riscattate … con il piacere delle scelte che ci distinguono e il gusto anche di discostarsi e contraddire, in un bazar di movimenti e di sistemi che si fanno, si disfa-no, si intrecciano, si ignorano … Sappiamo bene la fortuna della metafora della 'società liquida' di Bauman. Michel Serres ne Le passage du Nord-Ouest del 1980*2+ usa un'al-tra immagine, quella delle molecole dell'acqua che bol-le: sempre un ambiente liqui-do e sempre il movimento; ma, se guardate le particelle dell'acqua in ebollizione, ve-

dete un agitarsi irregolare di minuscole bollicine che van-no in tutte le direzioni, si ur-tano, sbattono contro le pa-reti, si inseguono, deviano, si avvicinano, si allontanano, salgono, scendono … una vi-sione meno sintetica (= meno performante), ma più aderen-te nel rappresentare la vita odierna. In un simile quadro il vintage, come estetico zigzagare tra tanti sistemi e tante tempora-lità, mi sembra proprio a casa propria. _______ *1+ In una molteplicità di fat-tori in movimento difficilmen-te a una causa segue sempre un solo unico effetto. *2+ Il libro fu pubblicato da Les Editions de Minuit, a Pari-gi.

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to. Ha quasi le caratteristiche di un buon vino, al punto che esistono delle annate in cui il risultato produttivo è parti-colarmente apprezzato, dagli amatori più esigenti, per le caratteristiche tecniche e di costruzione. Sono gli anni precedenti al 1970 (antecedenti al periodo di cessione della casa Fender alla CBS) in quanto la produ-zione era ancora semi arti-gianale. Un altro periodo ri-guarda gli anni 1980 (81/83) perché furono gli anni in cui Dan Smith ne sovraintende-va la lavorazione, riuscendo in poco tempo a risalire il precipizio nel quale, le scelte solo commerciali della CBS, era precipitato l’interesse per il prezioso strumento. Il catalogo uscito nel 1981, do-po una drastica riduzione

È un suono che dovrebbe essere vintage quello della Fender stratocaster del 1954 ma questa chitarra, frutto del genio di Leo Fen-der, è ancora oggi uno stru-mento musicale attualissi-mo e particolarmente ama-

Un suono vintage

La Fender Stratocaster del 1954

Pa

triz

ia

Vin

dig

ni

della produzione per ritro-vare il senso dell’artigianato anni cinquanta, fu sicura-mente uno dei più interes-santi della Fender. Il gusto e l’amore per questa splendi-da chitarra ripresero un nuovo incredibile vigore. Tornando un attimo al mo-mento della sua nascita è necessario ricordare che Leo Fender, dopo aver dato già vita alla Telecaster, ideò e realizzò, con la collabora-zione di Freddie Tavares, Rex Gallion e Bill Carson, questa chitarra senza cassa armonica, con tre pick up e una leva del vibrato. La chi-tarra si presentò con una nuova forma, con più tasti che permettevano, di rag-giungere con facilità note più alte e con i pick up di-sposti in modo da rendere il suono ancora più pulito. Leo Fender

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Con la Strato si decise di dare anche una maggiore leggerezza alla chitarra, dandole vita con l’uso di on-tano e frassino, eliminando elementi non essenziali. Dall’introduzione di nuovi elementi tecnici, dalla ricer-ca di semplificazione e stu-dio del suono, si arrivò, il 15 maggio 1954, alla produzio-ne della prima Strato. Suo-nata da musicisti famosi, ascoltata in centinaia di concerti, la Strato impiegò davvero poco tempo a di-ventare uno degli strumenti musicali più desiderati nel tempo. L’amore per la musica, per il suono, per le emozioni di un concerto, ha fatto si che, in alcune aste, l’offerta per l’acquisto di una Stratoca-ster storica, come quella di Eric Clapton, raggiungesse la cifra vertiginosa di 950.000 dollari. In quell’oc-casione fu lo stesso Eric Clapton a vendere la chitar-ra per devolvere la cifra ad una associazione d’aiuto per alcolisti e tossicodipen-denti. È una chitarra che conquista per i suoi suoni, con un ba-gaglio di leggenda che su-scita emozioni in chi la sce-glie, con le sue radici pro-fondamente legate ad un mondo colorato di tanto blues e rock. _____ Con la consulenza del mae-

stro Luca Passafiume.

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28 operaincerta

gine consumate, sottolineate,

piegate per non perdere il se-

gno, sia ormai un oggetto vin-

tage.

Qualcosa che rimanda più al

passato che al presente e, me-

no che mai, al futuro. ‚ Ora ci

sono gli Ebook‛, ho pensato. E

sbagliavo.

Una volta uscita dalla Nuvola e

tornata a casa ci ha pensato

l’istat a smentirmi: nel 2016, in

Italia, solo il 7,3% della popola-

zione al di sopra dei 6 anni ha

letto libri in formato digitale.

Una percentuale persino più

bassa rispetto a quella rilevata

per l’anno precedente ( i dati

sul 2015 parlano dell’8,2 % della

popolazione).

Non è il libro, l’oggetto libro ad

essere vintage ma la lettura.

In Italia, nel 2016, circa 4 milioni

di persone in meno rispetto al

Anche quest’anno, dal 6 al 10

Dicembre, si è tenuta a Roma

la Fiera Nazionale della Picco-

la e Media Editoria. Più Libri

più Liberi, giunta ormai alla

sua sedicesima edizione, ha

accolto nella nuova location

della Nuvola progettata da

Massimiliano e Doria-

na Fuksas oltre 500 editori

editori. Indubbiamente uno

degli eventi editoriali più atte-

si della Capitale. Tra un incon-

tro con gli autori, un’esibizio-

ne musicale e una lezione di

giornalismo mi sono chiesta

cosa rappresentino i libri in

questa nostra era ormai per-

meata dalla tecnologia. E ho

pensato che un libro, un libro

in quanto oggetto con la sua

carta, la sua rilegatura, il suo

odore un po’ polveroso o un

po’ di colla a caldo, le sue pa-

Più libri, Più liberi

Non è il libro, l’oggetto libro, ad essere vintage, ma la lettura

Ma

rtin

a

An

nib

ald

i

2010 hanno letto libri. Circa 33

milioni di persone non hanno

letto nemmeno un libro

nell’arco dell’anno, si tratta del

57,6% della popolazione, il pic-

co più basso mai toccato negli

ultimi 16 anni.

Le donne leggono più degli

uomini ( i non lettori si atte-

stano intorno al 64,5% contro

il 51% delle non lettrici) au-

menta il numero dei non letto-

ri anche tra i bambini.

A colpirmi è soprattutto un

dato che connette il calo della

pratica di lettura con l’utilizzo

di Internet: nel 2010, tra coloro

che utilizzano internet quoti-

dianamente, i non lettori rap-

presentavano il 30,9%; nel

2016, esaminando la stessa

categoria, l’Istat ci dice che, a

non leggere nemmeno un li-

bro, sono il 45,6% delle perso-

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operaincerta 29

ne.

Insomma, più tempo si passa

a girovagare nel mirabolante

mondo del web meno tempo

si dedica alla lettura. Mi chie-

do se sia possibile invertire il

trend, ma la risposta che mi

do non è confortante.

La lettura è vintage, vintage è

il suo lento rituale che ci porta

attraverso epoche, pensieri,

storie, che ci spinge a cono-

scere noi stessi attraverso la

fantasia di altri, che ci spinge

ad assecondare il tempo e

non a forzarlo. Un libro si as-

sapora con la stessa lentezza

con cui si degusta un sigaro, è

un’esperienza, un viaggio sen-

za meta.

In un mondo che corre sem-

pre un po’ più svelto di noi, un

mondo in cui le parole, le im-

magini, le notizie ci attraversa-

no senza lasciare traccia, tutto

questo acquista un sapore an-

tico e i libri sembrano quasi

diventare testimoni di un’epo-

ca che non esiste più.

Nei miei ricordi di bambina

mia nonna la sera, dopo una

tazza di latte bollente, prende-

va in mano un vecchio libro di

fiabe preso alla bancarella

dell’usato a 1.500 lire. Leggeva

per ore, scorrendo col dito

sempre le stesse storie, le

stesse parole, le stesse imma-

gini colorate.

Chissà se le nonne del futuro

ameranno il vintage.

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30 operaincerta

tro la vecchia chiesa, non è stato

mai preciso e il recente inter-

vento di pulizia non ha elimina-

to quella sua caratteristica,

scorre avanti le ore come abbia

fretta di giungere alla fine della

giornata, segna le noveetrenta-

cinque. Il sole lo colpisce in pie-

no e il biancore del recente re-

stauro – da grigio e opaco che

era stato sino a qualche mese

prima – lo fa spiccare in mezzo

alla cupezza dei vecchi tetti. Mi

avvio verso il vecchio palazzo

della Cancelleria. Devo percor-

rere cinque-seicento metri e

l’aria fresca mi invoglia a tenere

un passo veloce, so ormai che in

dieci minuti arriverò al vecchio

palazzo: parcheggiata la macchi-

na, percorro la strada che fian-

cheggia le case affacciate alla

stretta vallata dove scorre un

fiumiciattolo, giungo alla piaz-

zetta della vecchia chiesa, supe-

Capita a volte che, in uno stretto

vicolo del vecchio borgo arroc-

cato sul colle quale è il nostro

cervello, s’intrufolino inattese

figure, comparizioni che disser-

rano imposte e vetrate d’un cupo

palazzo dove polvere e scorie

s’erano depositate incontrastate,

agitando pipistrelli e fantasmi

ch’ivi s’erano insediati, scompi-

gliando la nostra quiete

Novembre. Sono passate da

poco le nove quando lascio la

macchina al posteggio di largo

San Pietro. La mattinata è lim-

pida, con un azzurro nel cielo

che il freddo di tramontana

rende brillante, l’aria sembra

un cristallo ripulito apposita-

mente per la giornata che sem-

bra fragile come un vecchio

calice poggiato sul limitare del-

la finestra pronto a precipitare

e frangersi. Guardo il campani-

le dell’orologio che spunta die-

Il ritorno di Rita

Storie

Nic

k

Ne

im

ro il campanile dell’orologio,

salgo le scale che dal fondo

scalano la collina verso la città

nuova e, in una decina di minu-

ti, arrivo al portone del palazzo

signorile dove ho allestito la

mostra fotografica. Vado spedi-

to. La strada, laggiù in fondo,

prima di infilarsi fra due file di

case, si allarga un poco a for-

mare una balconata sulla valle e

sul fiume che vi scorre con po-

che acque; proprio lì stanno

due signore. Due donne a spas-

so, penso; si capisce che stanno

osservando senza alcuna fretta,

come chi vuole gustarsi bene

ciò che sta guardando. Sono

ben vestite e ognuna ha il tele-

fonino in mano, pronto a scat-

tare foto. Intanto che mi avvici-

no mi rendo conto che la figura

di destra, quella più vicina alla

balconata, mi è familiare; la ri-

conosco: è Rita. Nel giro di due

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operaincerta 31

giorni è la terza volta che la in-

contro. Non è che la cosa sia

strana, in un quartiere antico,

circoscritto, che obbliga quasi a

percorsi sempre uguali per

spostarsi da un posto all’altro,

è facile incontrarsi varie volte, e

io quel percorso lo faccio quat-

tro volte al giorno. Eppure nei

giorni precedenti non era capi-

tato di incontrarmi con Rita.

- Scusi è lei Guido, Guido Poca-

me?

- Sì. Mi dica.

Intanto che rispondevo a quella

singolare e improvvisa doman-

da mi alzai da dietro il compu-

ter su cui scrivevo e mi avviai

verso l’ingresso dove era com-

parsa la donna e dove si era

fermata. Avevo guardato quel

viso che, affacciandosi all’uscio

della stanza dove era allestita la

mostra, aveva fatto la doman-

da. Un viso corto, un ovale per-

fetto, occhi piccoli ma vividi e

mobili, scuri; no, non conosce-

vo quella donna, il suo viso non

mi ricordava nessuno ma lei

dava a capire che mi conosce-

va.

- Non mi riconosci?

Era passata al ‘tu’ con natura-

lezza e intanto sorrideva con

un sorriso che mi ricordò qual-

cosa, alcunché di lontano e di

oscuro nascosto in qualche an-

golo della mente che non rime-

scolavo da molto tempo. La

guardai bene, appuntai lo

sguardo ma non la riconobbi.

- Mi dispiace ma non mi ricordo

codesto viso.

Risposi, adeguandomi automa-

ticamente al ‘tu’.

- E certo, sono trascorsi

trent’anni e io in viso sono mol-

to cambiata; e poi sono anche

ingrassata di cinque chili.

Disse con quel suo sorriso sbi-

lanciato sul lato sinistro. Perché

questo ridere a sinistra? Mi

chiesi stuzzicato da una vaga

sensazione di dimestichezza.

Guardai ancora con attenzione

quella figura: i capelli, la statura,

il capo.

- No, mi dispiace, mi deve per-

donare ma non la riconosco.

Ero ritornato al ‘lei’ come a vo-

ler sottolineare a quella donna

che il suo viso e la sua figura

non mi stimolavano alcun ricor-

do. Eppure la mente mi ordina-

va ‘guardala bene’; appuntavo

gli occhi nei suoi e percorrevo

la linea del naso e delle guance

e degli archi delle sopracciglia

alla ricerca di un appiglio, di un

neo, di una fossetta che mi ri-

cordassero a chi potesse appar-

tenere quel viso e quella voce;

neanche la voce mi ricordava

niente come la bocca da cui

scaturivano quelle parole che

pronunziava con una certa

affettazione e priva di ogni in-

flessione dialettale. Stette an-

cora qualche istante in attesa

giusto il tempo di avvicinarci

poi, come avesse trattenuto per

troppo tempo il fiato:

- Sono Rita. – Disse.

Pronunziò quelle due parole e

stette in sospensione in attesa

della mia reazione. Le quattro

lettere del nome entrarono nel-

la mente, percorsero in un lam-

po lo spazio di tempo per giun-

gere agli anni della giovinezza

nel tentativo di scovare un viso

familiare; lo snidarono e me lo

resero presente all’istante. Non

trovai alcuna corrispondenza

fra i miei ricordi della Rita di

trent’anni fa e la donna che ave-

vo davanti. Può capitare, mi dis-

si. Intanto però, la familiarità

con cui la donna si proponeva e

la certezza con cui aveva pro-

nunziato il suo nome mi fecero

sbarrare gli occhi, la bocca si

aprì per pronunziare ‘Rita?’ con

una interrogazione di increduli-

tà e di sorpresa.

- Sì, sono proprio io.

E intanto che confermava la sua

identità si avvicinò e mi abbrac-

ciò e mi tenne stretto. Si staccò

un attimo, mi guardò dritto ne-

gli occhi e ritornò ad abbrac-

ciarmi.

- Si, sono proprio io. Non avre-

sti mai potuto riconoscermi, so-

no cambiata parecchio.

Era effettivamente cambiata

molto, niente del suo volto me

la ricordava, soltanto il sorriso

mi aveva avvisato, qualche atti-

mo prima, che poteva essere

una persona a me familiare. In-

tanto mi resi conto che Rita non

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32 operaincerta

no tre.

- Sono ritornata da cinque gior-

ni e ho intenzione di fermarmi

per almeno un paio di mesi. In

passato sono venuta rare volte

e sempre per pochi giorni tutti

dedicati ai parenti, non avevo

tempo di cercare le vecchie ami-

cizie.

- E tuo marito come sta?

Ecco la domanda che apriva un

sentiero pericoloso, almeno per

me.

- Oh, mio marito! Umberto è

morto due anni fa.

- Non abbiamo saputo niente

nessuno, almeno io non l’ho sa-

puto. Del resto, da quando sei

andata via, non ho più avuto tue

notizie né da te né dagli amici.

All’inizio ho cercato di sapere

qualcosa, un tuo indirizzo, un

recapito, niente. Alla fine mi so-

no arreso.

Mi augurai che l’acredine che

avvertivo dentro non trasparis-

se. Quello che andavo dicendo

non era esattamente ciò che era

successo ma il tempo stravolge

le verità e l’improvviso incontro

voleva che io dicessi di avere

cercato sue notizie dopo la sua

partenza. In realtà non l’avevo

cercata, anzi, avevo tentato di

cancellarla dalla testa e da tutto

me stesso.

- Senti, sono con la mia amica

che dobbiamo visitare la vec-

chia chiesa qui in piazzetta, tu

sino a quando sei aperto?

si staccava da me e non mi re-

stò altro da fare che stringerla

anch’io.

- Oh, Guido, quanto tempo!

Così dicendo si sciolse dall’ab-

braccio lasciandomi ancora le

braccia appoggiate alle spalle

come a non voler interrompere

il contatto. Avevo avvertito il

suo corpo attraverso i vestiti e

questo fatto mi aveva messo in

lieve imbarazzo. Non so se Rita

se ne accorse ma fu in quel

momento che si allontanò di

un passo.

- È stato un caso, passavo dalle

scale per raggiungere la piaz-

zetta della chiesa e ho visto

fuori il cartellone della mostra,

quando ho letto il nome ho su-

bito pensato che potevi essere

tu e sono entrata. Ti ho subito

riconosciuto, tu non sei cam-

biato molto.

Si fermò, forse voleva leggere

la emozioni che, pensavo, stes-

sero giocando a rimpiattino sul

mio volto e nei miei occhi. Un

senso di ritegno mi faceva re-

stio a manifestare quello che

stava succedendo dentro di

me: un ribollire di pensieri e

ricordi che urgevano per pre-

sentarsi all’attenzione e alla

considerazione. Una domanda

su tutte.

- Ma tu non eri a Milano? Quan-

do sei ritornata? È da molto che

sei qui?

In realtà le domande risultaro-

- Di mattina dalle noveetrenta

sino all’una, nel pomeriggio dal-

le treemezza sino alle sette, fi-

no alla fine del mese.

- Allora adesso vado con Giu-

liana che mi aspetta ai piedi

della scalinata, nel pomeriggio

ritorno da sola, guardo la mo-

stra e ci facciamo una bella

chiacchierata. Va bene?

- Si, va bene, io qui sono.

Mi tese la mano, mi abbracciò

di nuovo, continuando a ripete-

re ‘verrò, nel pomeriggio verrò’

come a voler imprimere un sol-

co nel suo futuro prossimo che

doveva percorre. L’accompa-

gnai al portone, iniziò a scende-

re la scalinata che porta alla

piazzetta, si girò ancora una

volta sorridendomi e salutan-

domi con la mano. Raggiunse la

sua amica e scomparvero die-

tro l’angolo. Ritornai alle mie

fotografie. Allora tutti i pensieri

nella mia testa, non più tenuti a

freno dalla volontà di non far

trasparire i sentimenti, sembra-

rono infestati dal ballo di San

Vito e iniziarono un sabba di

malinconia, rancore, gioia, rival-

sa; era ritornata e mi aveva te-

nuto le braccia al collo: speran-

ze, delusioni, inquietudini,

sconforti, attese, desideri si sta-

vano scatenando affollandomi

la testa e il sentimento. Con un

moto di stizza nei confronti di

me stesso, come un direttore

d’orchestra che con un gesto

della mano e della bacchetta

zittisce decine di voci strumenti

e cori, misi a tacere tutti gli stril-

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operaincerta 33

li interni e iniziai a mettere or-

dine a tutto quell’assembra-

mento. Era necessario.

Trent’anni, erano trascorsi

esattamente trent’anni e cin-

que mesi dal giorno che era

sparita dalla mia vita, non so da

quella di tutti gli altri, dalla mia

sicuramente sì. Avevo ventitré

anni, lei diciannove, da un paio

di anni uscivamo insieme, era-

vamo i fidanzati del gruppo, ci

tenevamo per mano, ci scam-

biavamo tenerezze e carezze, e

quando la sera l’accompagnavo

a casa, ci fermavamo nel vicolo

cieco proprio sotto l’orologio e

lì esploravamo i territori dell’in-

timità assaporando fino in fon-

do la dolcezza dell’eccitazione.

Ci amavamo. Ero innamorato di

Rita, lei, visto il seguito e la fine

della nostra giovane relazione,

non so. Dall’oggi al domani,

nella comitiva, apparve Umber-

to; era alto, aveva il colore dei

capelli biondo scuro e gli occhi

di un colore azzurro che sem-

brava incantesimare le ragazze.

E poi era settentrionale e parla-

va con quell’accento privo delle

cupezze del nostro dialetto,

con tutte le sillabe ben pronun-

ziate simile ai giornalisti televi-

sivi, dando l’impressione di

pretendere l’attenzione di tutti.

Rita in un primo momento

sembrò non accorgersi di quel-

la parlata, di quegli occhi né dei

capelli del settentrionale; ma il

pomeriggio che andammo a

ballare da Giuseppe e quello

sguardo azzurro verde mare si

infilò in quello marroncino di

Rita, lei ne fu incantesimata, si

accorse di Umberto, si dimenti-

cò di me, si agganciò al milane-

se, se lo prese e lo seguì sino a

Milano per sposarselo. Diceva-

no tutti che c’era riuscita, io

pensavo che mi aveva lasciato

col culo per terra. E col culo per

terra rimasi per quasi un anno

non riuscendo a trovare una

sostituta che schiacciasse il

chiodo piantato da Rita. Per la

rabbia presi le foto in cui appa-

rivamo insieme e iniziai a epu-

rarle con le forbicine per le un-

ghie come se il suo viso fosse

stato un’unghia rotta da elimi-

nare e sanare. Mi ricordo che

non erano molte le foto da rifi-

lare e adesso, d’improvviso mi

rivedo con l’ultima foto in mano

in cui entrambi guardiamo il

mare seduti sulla sabbia di Pun-

ta Bianca; era una bella foto,

non ebbi il coraggio di rovinar-

la: che senso avrebbe avuto

quella foto con me da solo se-

duto in faccia al mare? la rispar-

miai ma la relegai nel fondo di

un cassetto fondo.

Continuai la mia vita. Il pensiero

di Rita lentamente scomparve

dalla mente fino a rintanarsi in

qualche angolo buio continuan-

do a dettare un motivo di la-

gnanza nei confronti delle ra-

gazze, di tutte. Non mi sono

sposato per due motivi: primo

perché la freddezza e l’insensi-

bilità che mi avevano lasciato

l’abbandono e la rottura li ave-

vo trasferiti sulla considerazio-

ne con cui guardavo le donne,

non sono degne di fiducia; se-

condo perché di soldi per poter

mantenere una famiglia pensa-

vo di averne pochi e poi non

sentivo la necessità di un nido

familiare. Le donne non manca-

vano, la macchina fotografica

era un ottimo specchietto di

richiamo e io ne ho approfittato.

Intanto che questi pensieri mi

ruotavano in testa e ricostruivo

la mia vicenda con Rita e le con-

seguenze – mi sembrava – che

ne erano discese, giravo per i

due saloncini dove erano distri-

buite le foto guardandole senza

vederle, in quella carta stampa-

ta vedevo piuttosto quello che

andavo srotolando con i ricordi.

La foto, quella foto di me e di lei

a Punta Bianca – mi dissi – la

devo ritrovare, la devo cercare

oggi stesso così, questo pome-

riggio, quando viene gliela mo-

stro, voglio vedere che faccia fa.

Cosa volevo constatare? Quel

pensiero divenne un’urgenza

che mi spinse a chiudere prima

dell’orario la mostra e precipi-

tarmi a casa per cercarla.

Eccola qui, la foto. L’avevo ritro-

vata in mezzo a tante altre e a

qualcuna di quelle ritagliate a

suo tempo, non le avevo butta-

te. È un cartoncino fotografico

di piccolo formato, appena

dieciperquindici; i colori sono

sbiaditi e hanno subito una ve-

latura color seppia che la fa es-

sere quello che in realtà è: una

foto di più di trent’anni fa. Io e

Rita – qui la riconosco – siamo

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34 operaincerta

quel periodo. Mi sento svuota-

to, come quando un palloncino

gonfio d’aria, per un qualche

buco invisibile lentamente si

svuoti. Adesso sto seduto al ta-

volo con tutte le carte sparse sul

ripiano tenendo in mano il car-

toncino con me e Rita che sorri-

diamo. Assecondo l’ondata pro-

vocata dal ritrovamento della

foto e mi infilo nei ricordi di

quel periodo come penetrassi in

un intricato bosco di cui un tem-

po si conoscevano bene i sen-

tieri e gli anfratti e del quale or-

mai si è persa ogni conoscenza

ma non la memoria, un periodo

di giovani anni, di pensieri velo-

ci, di forti spinte, di cambiamen-

ti estremi: tutto ci era permesso

pensare, poco ci era consentito

fare. O forse era il contrario.

Rita mi sta accanto, quasi si ap-

poggia a me, tiene la foto in ma-

no e intanto la guarda notando

particolari.

- Mamma mia come siamo gio-

vani qui! quanti anni potevamo

avere? Già, io diciannove e tu

ventitré. Com’ero magra e

com’eri carino tu; qui sei tutto

nero e abbronzato.

Da quando era arrivata non ave-

va smesso di parlare. Nella sua

voce notavo appena una lieve

inflessione milanese. Parlava

così, come se le parole fossero

di materia liquida, ci godeva a

carezzarle prima di lasciarle

uscire. Adesso che l’ascoltavo

con calma mi ricordavo di que-

sto suo modo di articolare le

seduti sulla sabbia vicino al ba-

gnasciuga, entrambi in panta-

loncini corti e camicia, la mia

mano sinistra è poggiata sulla

sua mano destra, ci guardiamo

sorridendo di un sorriso che lo

scatto fotografico ha reso fisso

e immobile. Eravamo andati a

Punta Bianca di sicuro assieme

agli altri per fare il bagno e di

certo avevo chiesto a qualcuno

degli amici di scattare con la

mia macchina fotografica una

foto intanto che stavamo sedu-

ti davanti al mare. Ricordo be-

ne quando in camera oscura

sviluppai la pellicola e poi la

stampai. Il liquido dello svilup-

po ci fece emergere dall’emul-

sione e poi il fissaggio ci stabi-

lizzò nella posa, sorridenti;

pensai allora che quella foto

sigillasse una promessa di ‘per

sempre’. Così non fu.

Intanto che guardo i due giova-

ni che eravamo stati io e Rita

seduti sul bagnasciuga, sento

come un tepore che lentamen-

te m’invade e mi frughi nelle

viscere e vada scovando un

antico umore chiuso lì dentro e

lasciato a depositarsi, simile a

una polvere nell’aria che lenta-

mente e senza alcun rumore si

deposita sul pavimento di una

stanza chiusa, opacizzando,

con una patina grigia, le matto-

nelle. Scopro che non l’avevo

perdonata del tutto, che non

era passato l’astio nei suoi con-

fronti. Mi prende una malinco-

nia, simile a velo di tulle, che si

frappone fra me e i ricordi di

parole che per lei rappresenta-

va un’arma di seduzione, si era

sempre sforzata di correggere

l’inflessione dialettale per usci-

re dalla grettezza della provin-

cia, e ci era riuscita. Era ambi-

ziosa lei. Tiene la foto in mano,

sorride, mi guarda, ritorna a

guardare la foto, commenta, mi

riguarda e intanto parla, dice di

lei, di noi che eravamo giovani,

delle amiche, del perché è ritor-

nata, di quando ripartirà e della

sua intenzione di tornare per

stabilirsi di nuovo qui; a qua-

rantanove anni non se la sente

di restare bloccata nelle nebbie

e nello smog di Milano. La vita-

lità del sud ti fa amare la vita –

dice – e io amo la vita, il sole,

l’aria, il mare, e poi ci sono alcu-

ne persone particolari a cui ten-

go molto. Ma non precisa di chi

si tratti. La osservo e interven-

go solamente per confermare

dati e date o per precisare posti

e situazioni. Mi rendo conto che

intanto che parla, poggia spes-

so le sue mani sulle mie o mi

tocca il braccio o addirittura si

appoggia col fianco con la scu-

sa di farmi osservare un parti-

colare della foto, una volta mi

sfiora il viso con dita calde e

ben curate.

Poi d’improvviso si ricorda che

deve visitare la mostra, mi

prende sottobraccio e vuole

essere accompagnata per com-

mentare ogni singola foto. Io

spiego e lei osserva con diligen-

za, ogni tanto un ‘sei sempre

stato bravo, tu’; si sofferma,

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operaincerta 35

chiede di un particolare, discu-

te su un effetto, dice ‘bravo,

bello’, mi stringe il braccio in

segno di approvazione. Guar-

diamo le quarantacinque foto e

in tutto quel tempo non si stac-

ca da me, anzi a un certo punto

mi sembra che abbia preso

possesso del mio braccio e ho

l’impressione che non sia in-

tenzionata a lasciarlo. Ecco –

penso (sospetto) a un certo

punto – si sta offrendo, sta

esplorandomi, sta cercando di

farmi capire che vuole ripren-

dere l’antica storia da dove l’a-

vevamo interrotta, come se il

suo matrimonio e i trent’anni

trascorsi fossero soltanto una

parentesi aperta con la sua par-

tenza e che è giunto il momen-

to di chiudere con il suo ritor-

no. Mi ripropone un antico

amore come io le avevo ripro-

posto un’antica foto. Adesso

stiamo di fronte, la osservo in-

tanto che continua a parlare e

lentamente prendo coscienza

che non m’importa più niente

di lei. Il colore seppiato del car-

toncino fotografico ha intacca-

to l’umore nero che si era de-

positato in me, ha spazzato il

pavimento della mia coscienza

da ogni polvere. So che Rita al

massimo può rappresentare

una scheggia del passato ormai

lontana, quasi una macchia di

un qualche liquido oleoso che

ha lasciato la sua impronta alo-

nata sulla tovaglia di tutti i gior-

ni. Eravamo giovani.

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36 operaincerta

meno senso l’atteggiamento di chi vive solo nel presente, immerso nel flusso continuo e logorante delle notizie, sempre nuove ma anche facil-mente vecchie: il tempo del consumo e dell’obsolescenza si è ristretto a tal punto che si può venire tacciati di esse-re vintage anche quando non si è cambiato la macchina o il cellulare per più di cinque an-ni, cosa che non molto tempo fa era assolutamente norma-le. Il vintagista sa che il passato è importante, è radice, non solo quello studiato tra i banchi di scuola ma soprattutto il pro-prio e quello dei genitori o nonni: per ripercorrerlo è sufficiente tornare con la mente ai ricordi dell’infanzia, interrogare i parenti; le storie raccontate dalla nonna o dal nonno sono sempre le stesse, ma hanno quel qualcosa di

«Quando andavo alle superio-ri (liceo artistico nei primi an-ni 2000 n.d.r.) mi sono procu-rata un walkman per ascoltare la musica, perché mi piaceva così, il modo in cui si sentiva era diverso, ma sì, migliore in un certo senso» Ho raccolto questa testimo-nianza di vintagismo *1+da un’amica, durante un viaggio in macchina. L’atteggiamento del vintagista può apparire incomprensibile, a tratti as-surdo: privarsi di quanto di più innovativo offra questa generazione in termini tec-nologici e altro, perché e con quali vantaggi? Recuperare il passato recente (non troppo antico o - peggio - arcaico, altrimenti si sareb-be storici, archeologi), quello di cui nessuno sembra ricor-darsi più nonostante la vici-nanza temporale, invece, ha un senso. In verità, ha molto

Ascoltare la musica con il walkman

La funzione sociale del vintagista

Est

er

P

roco

pio

affascinante. La realtà è, sempre, in continuo scorri-mento ma i loro discorsi so-no come le pagine di un libro che si può leggere e rilegge-re, assaporando ogni volta i contorni delle lettere: quelle descrizioni, quei visi, quei racconti rivivono e acquista-no solidità. Carpe diem, “cogli il giorno”, diceva Orazio nell’undicesi-ma Ode: « […] Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile, / il tem-po: cogli il giorno, il meno pos-sibile fiduciosa in quello suc-cessivo» L’invito di Orazio è suggesti-vo, parla di non affidarsi a tempi futuri, lontani, impro-babili, ma di vivere nell’oggi, nell’adesso. Non è semplice da spiegare, ma credo che il suo invito a cogliere il pre-sente non sia da intendersi come totale oblio sia di ieri

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operaincerta 37

che di domani, ma sia – per paradosso - fortemente con-nesso con il racconto – che diventerà del passato, per forza di cose - scritto o orale come rito attualizzante. D’al-tronde, lo dice a chiare lette-re: ‚mentre parliamo sarà fug-gito, inesorabile, / il tempo”. Il tempo, il presente è per sua natura inafferrabile, fugge: come afferrarlo, coglierlo se non cristallizzandolo? Il vintagista non è un sempli-ce nostalgico: il suo relazio-narsi con il passato sa di re-cupero, di perenne attualiz-zazione, di cristallizzazione. In questo senso la passione per il vintage è uno dei pochi riti dei giorni nostri di recu-pero e culto del passato: at-traverso il lavoro del vintagista personaggi e prodotti del recente passato diventano icone e miti e si eternizzano, acquistando una solidità alquanto preziosa perché ci consegna un’eredi-tà a cui, come collettività, possiamo fare riferimento. ______________________ *1+ Attenzione, questa parola non

esiste, è un neologismo - come si

suol dire – e per di più derivante da

un prestito (ancora un termine spe-

cialistico: parola non presente nell’i-

taliano ma importata da altre lin-

gue), nello specifico un anglici-

smo, vintage, a sua volta derivante

dal latino. Per approfondimenti, il

consigliatissimo articolo di France-

sca Dragotto, Quando la vendemmia

sa di retrò (https://

tuttopoli.com/2012/01/22/alla-

scoperta-della-lingua-36/).

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38 operaincerta

Numeri ARRETRATI

A c

ura

de

lla

R

ed

azi

on

e

2015 124 - Terrore! 123 - Nonsense 122 - Il Paradiso 121 - Il Purgatorio 120 - L’Inferno 119 - Il dialogo 118 - Le sirene 117 - L’approdo 116 - Al volante 115 - Fuoco 114 - Liberi Libri 113 - Polizia 2014 112 - Il sangue 111 - La fortuna 110 - Il disprezzo 109 - Regno animale 108 - Regno vegetale 107 - Regno minerale 106 - Comunicare 105 - La crisi 104 - Casino 103 - La Chiesa 102 - Casa dolce casa

2017 147 - Io sto male 146 - Cartellino rosso 145 - Fratellanza 144 - Uguaglianza... 143 - Libertà... 142 - Fenomeni 141 - Antagonismi & Conflitti 140 - Fratelli maggiori 139 - Homo Faber 138 - Antipodi 137 - Fantastiche creature 2016 136 - Uomo vs macchina 135 - Ridi Pagliaccio! 134 - Le pietre 133 - Venere 132 - Tabacco… 131 - Bacco... 130 - Nell’abisso 129 - Oronero 128 - Al Nord! 127 - The Sound of Silence 126 - Energie 125 - De Mysteriis

2013 101 - Il Male 100 - V come Vendetta 99 - Gli occhi 98 - 10 anni 97 - Disegni Animati 96 - Corna 95 - La vita è sogno? 94 - Flos floris 93 – L’isola che c’è 92 - xxx-mission 91 - Cavallo di ferro 90 - Futuro interiore 2012 89 - Radio 88 - Cara perfida Albione 87 - Douce France 86 - Tre 85 - Due 84 - Uno 83 - La camicia 82 - Ponti 81 - Di pancia 80 - Il vuoto 79 - Nella merda 78 - Anno nuovo, vita nuova

Dodici anni di idee...

Ru

bric

a

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operaincerta 39

2011 77 - Rosso 76 - Bianco 75 - Verde 74 - Libera uscita 73 - Appesi allo zodiaco 72 - Gli specchi 71 - Il deserto 70 - Sliding Doors 69 - Terremoto 68 - Senza peccato 67 - Itagliani!!! 66 - Made in Japan 2010 65 - Re e regine 64 - Rivoluzione! 63 - Num3ri 62 - La fuga 61 - ... e Fantasia 60 - Amore... 59 - Pane... 58 - Imago 57 - In nome della legge 56 – L’assenza 55 - Che barba 54 - Il dittatore 2009 53 - La mamma 52 - Africa 51 - Il mare 50 - Stile libero 49 - Rock ‘n’ Roll 48 - Droga 47 - Sesso 46 - Le stagioni 45 - Mercato globale 44 - Reciclaggio 43 - Volta la carta 42 - Caro amico ti scrivo 2008 41 - Le mie prigioni 40 - Riveder le stelle 39 - Vite in vendita

38 - Paure 37 - Spettacolarte 36 - E io pago 35 – L’unione _ La separazione 34 - Sogni e sonni 33 - Bianconero 32 - Lavoratori? 31 - Omosessuali 30 - Ssshhhh 2007 29 - Per passione 28 - Generazione Boh 27 - La Repubblica dei comici 26 - I musicomani 25 - Buonviaggio 24 - Numero verde 23 - È festa! 22 - Pazzo! 21 - TraPassato e futuro 20 - Menzogna e verità

19 - D’Io 18 - Pubblicità padrona 2006 17 - Muri 16 - La notte 15 - Argentina 14 - Tutti a scuola 13 - I piaceri 12 - H2O 11 - Giocosporco 10 - Trinacria 09 - Cara democrazia 07 – L’altra metà 06 - Condonato 2005 05 - Guerra e fame 04 - La famiglia 03 - Zoo 02 - La musica della città 01 – Via vai

Page 40: in 1 · È una curiosa creatura il passato di Emily Dickinson p. 09 Tra foto e moto Il vintage è una moda e non si ... di Saro Distefano p. 10 Piccole cose di buon gusto

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Il COLOPHON

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Operaincerta.it Mensile di opinioni, culture, politica, satira, informazione, formazione e incontro. n. 148 del 14 dicembre 2017 Testata iscritta nel registro dei giornali e dei periodici del Tribunale di Modica in data 02/08/2005 al numero 1/05

Catherine Deneuve e Françoise Dorléac ne Catherine Deneuve e Françoise Dorléac ne Les Demoiselles de Rochefort Les Demoiselles de Rochefort (1967)(1967)