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verde notte

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e roberto lamantea

amos edizioniin margine

€ 5,00

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amos edizioniin margine

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© roberto lamantea

bookman oldstyle è il carattere usato per la stampa di questo piccolo libro;

e american typewriter (numeri di pagina)

copertina © Lorenzo De Nobili

isbn 978-88-87670-23-3

amos edizioni di michele toniolovia san damiano, 11 – 30174 venezia-mestre

tel. 3336457682 www.amosedizioni.it . e-mail:[email protected]

roberto lamantea

VERDE NOTTE

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Sono andati? Fingevo di dormire

perché volli con te sola restare.

Ho tante cose che ti voglio dire...

o una sola, ma grande come il mare,

come il mare profonda ed infinita.

Sei il mio amor e tutta la mia vita.

La Bohème, quadro quinto

Gottes Schweigen

Trank ich aus dem Brunnen des Hains

(Silenzio di Dio

Bevvi alla fonte del bosco)

GEORG TRAKL, De profundis

Es ist die Seele ein Fremdes auf Erden

(È l’anima straniera sulla terra)

G.T., Sebastian im Traum

In der Stille

Tun sich eines Engels blaue Monhaugen auf

(Nel silenzio,

Si aprono, papaveri azzurri, gli occhi di un angelo)

G.T., Amen

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i liuti d’acqua

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Il suono da carillon dell’abete rosso.

Lo specchio grigioazzurro, nevato, illumina

la notte, richiama pensieri dormienti.

Trasparenza nel verde acquario della mente.

Nel buio danzano attese, bisbigli, batuffoli; il

languido sonno dei gelsomini.

Una luce è là, ora, nella stanza piumata – dai

vetri di miele respira sulle pareti di quercia, il

vaso d’antico vetro azzurro. Nuvole, soffi, luce

di legno, selvosa e notturna.

O gioia, liuto e tuono.

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I suoni del silenzio; la pioggia sul ferro delle

panchine. L’azzurro del bosco. Il verde di

maggio, vivido d’acqua. Il verde sonno degli

abeti, le dita più chiare dei germogli sugli

aghi bruni. I grappoli esausti dei glicini.

La pioggia ovatta i suoni del giardino. L’altro

pensiero, l’altra lingua.

La velatura fonica s’addensa. Ora piove più

forte. Un brivido di freddo. La pioggia lirica

gli smeraldi dei pini. Essere soli è anche

questo udito tattile; gocce sulle corde di un

pianoforte. Grammatica dell’udire.

Le viole schiudono gli occhi, stanche. Sono

appannati i vetri dello sguardo. Cinguettii, e

un merlo, là in alto, solo.

Non dirò a nessuno di questo mio mondo

leggero; del mio sogno. I fiori d’acqua ora non

hanno corpo. Ora sono del colore dell’aria,

come me. Il giardino dorme senza sogni.

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Il lago. La veranda di rose. La scala di legno,

schiodata. Non viene mai nessuno, qui. La

casa è isolata, a pochi metri dall’acqua. Poi

c’è una radura, il bosco di faggi e betulle si

specchia nel lago. Il legno è scortecciato,

le alghe e il muschio l’hanno succhiato,

intagliando le ère del vecchio albero.

La barca è gonfia d’acqua.

La porta è aperta dal tempo, sconnessa. Un

nido d’insetti; forse, di una civetta cieca. C’è

odore di umido, un odore scricchiolante. Là

troverò un nido d’erbe.

L’autunno è musica d’un lunare azzurro.

Tremano i tasti, le brine. Laggiù una canna

si spezza, il riflesso nell’acqua m’acceca. E’

tempo di dormire, sotto la coperta di foglie,

tra i rami e gli ultimi ronzii degli insetti. Il

tempo verrà.

Sento odore di muschi e resine, l’oro del

bosco è un velo. Dalle foglie gialle un mer-

lo chiama. Non lo vedo; vedo la ragnatela del

cielo, i rami gentili.

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Vedeva i laghi di luce del bosco di betulle, i

faggi, i mirti, i rovi, gli agrifogli.

La musica verde del bosco lo pungeva.

I roseti, in un abbandono viola.

Dalle statue di pietra si scioglievano scialli

di rose sfocate dall’autunno e dalla pioggia.

Vide i glicini dallo scorrere impetuoso dei

rami, sorpresi dalla luna in un biancore lat-

teo. Già era via, fuggito nel bosco. Il dondolìo

di un cespo di foglie.

I rami di vetro nero erano un ammicchio

sottile.

La voce del merlo risuona da uno stecco alto.

Una tortora. Un cigno scivola sullo specchio

verde. Il merlo canta. Spirali di foglie danza-

no, a elica, o a voli ampi, ritmati. Il bosco è

innevato. Solo qualche foglia tintinna là.

Un violino lontano, oltre gli sterpi. Un’unica

nota di pianoforte.

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Tendeva verso le trasparenze. Gli azzurri

slavati delle montagne; i boschi, lontananze

d’abeti e betulle, di pini traforanti la neve.

I fiori del silenzio, bollicine da bassorilievi

d’acqua, vocali da un suono celeste, arpa di

vento.

Un suono chiaro chiama dai sambuchi, un

occhio rosso di crisantemi. Santuari d’erbe

morte mormorano dal folto, germogli secchi,

verderana.

Una lingua di loto affiora in una corolla car-

nosa, senza sepali. Ranuncoli d’oro tintinna-

no allo specchio. Un bianco lattice lo riga, il

latte del papavero.

Guardo negli occhi la luce. Mi ferisce a dardi

rossi.

Un liuto d’acqua. La corda metallica vibra.

Una polla d’acqua come un fiore di sabbia.

Nella calura, nido d’insetti, vermi verdi sulle

foglie.

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Una foschia è nell’aria, bianca.

Il respiro è denso. Fiori argentei sui muri – o

la calce si gonfia, cocci d’intonaco cadono sul

piancìto di legno, file di silenziosi insetti neri.

La stanza è un bosco; foglie, rami, vertigini

l’avvolgono.

Ecco il giardino. Le arpe, il profumo dei tigli,

i viali tessuti d’edera e rovi. Alberi sono crol-

lati: vestiti dall’edera bianca, sono nidi per i

rigògoli.

Il tappeto di foglie secche scricchiola. L’oc-

chio enigmatico della salamandra. Nel cavo

di un vecchio tronco, un orologio. Non ha lan-

cette. Là vicino, una polla d’acqua.

Un cancello arrugginito: c’era un sentiero

qui.

Il sonno tarla gli occhi. Mi abbandono lì, tra

l’edera, i ceppi umidi, l’acqua, i rovi, gli in-

setti. Sento l’odore aspro del muschio, della

terra, un velo azzurro di genziana.

Nel parco statue, trasparenze – e il viola del-

l’acquario.

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E’ metafisico il gelo, l’inverno, la brina, gli

abeti, la notte, l’azzurro, la lama del pensiero.

Ma amo le sinuosità, la morbidezza, i fiori,

le luci flautate, una donna, l’oro-arancio del

tramonto sulla pelle nuda, lo sbocciare dei

sensi.

La microscopia degli insetti, le scanalature

delle cortecce, le vene delle foglie – e l’eroti-

smo della velatura – i batuffoli di nebbia in

un ghiacciolo.

Sono legato alla vita, al fluire, al delicato

sbocciare di movenze e malizie.

L’amore ha un colore di libellule che sfio-

rano stupite il sonno; un nastro di cera sul

limite di un’alba; il ronzio di un maggiolino

sul mogano.

Bianchi brividi scorrono lungo le pareti, la

pioggia tocca dolcemente le grandi foglie della

magnolia, riga i vetri.

Amo un ricordo che non è carne ma vapo-

re, un profumo lontano dove oscilla un pen-

dolo tra attesa e memoria; il suono cavo di

una conchiglia, le alghe nere su un ciottolo,

il trinìo di un picchio sulla corteccia di una

robinia.

Mormorii dell’amore vuoto, una fotografia di

betulle.

Il suono del fuoco brucia la carta di una si-

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garetta; la luce appannata di una lampada

musica sui fogli di carta bianca.

Luce d’oro, un vento; e il verde intenso del

prato e delle foglie. L’oro volgerà in arancio,

in bronzo. E’ l’ora dell’amore, “l’ora iridata e

opalina delle sei’’ (Salinas, Vigilia del piacere,

ricordi?).

Il sole è andato via. Rimane una luminosità

ventosa, una conchiglia di luce velata, sulla

villa e nel cielo; il pallido azzurro sbianca,

come appassendo.

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Qui respira la calma della prima estate, e il

vapore del lago profuma di canne e di rose.

Una luna di quarzo verde illuminava la val-

le. L’argento delle canne vaporava nel chiaro-

re. L’occhio, l’azzurra conchiglia.

Il richiamo del picchio insonne nella musica

delle colline, liuti d’acqua.

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La “g’’ è il suono della gioia, così limpido, go-

lare. Me n’ero innamorato quand’ero “ghiotto’’

del mondo. E tutte le varianti foniche della

“g’’: dalla gh dura alla gli, ogni parola che si

musicasse in quei suoni era per me perfet-

ta; allora anche parole poco connotate, aglio,

aguglia, mi gioivano sonore nella pronuncia.

Sino al simbolo magico che le nutriva, la cel-

lula germinante, la morula, l’edera che tutto

avvolgeva, luglio, e la collana di nomi che ne

germogliava, lùgio, lugliàtica, lugliembre, lu-

glienga – Luglierina, ti chiamavo.

Un’azzurra nebula copre ora le mie parole

che più non risplendono di quella luce estiva.

Si volgono alla notte, al suo pallore e brina. E’

sbocciato il vuoto come un fiore velenoso che

tutto respira, rìvoli e vetri.

Dalla vetrata violetta, alla veranda che dava

sul giardino, il sole di settembre rifletteva i

bagliori – l’assenza di mia madre, in viaggio

per Edimburgo, in Scozia, nella brughiera de-

solata.

I riflessi violacei mi stupivano. Dal loro orlo

sfocato veniva una luce ovale, sorpresa di tro-

varsi lì, dolcemente casta. Sbiancava, e gli ori

della sera occhieggiavano oltre i vetri, sugli

avori del nonno, la tabacchiera, gli specchi,

la mènsola di legno di quercia.

(continua...)

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Roberto Lamantea è nato a Padova nel 1955.

Ha pubblicato quattro libri di poesia: Eucalip-

tus (Rebellato, 1975), Ibis azzurro (Cittadella,

1979), Xilofonie (Mirano, 1994), Nel vetro del

cielo (Amos Edizioni, 2006). Per Amos Edizio-

ni ha scritto Un sogno necessario. Saggio su

arte e violenza, che si può leggere gratuita-

mente sul sito della casa editrice.

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