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a SOMMARIO u 01- 2010 A. M. 3 In questo numero EDITORIALE Andrea Margheri 9 La responsabilità, questa sconosciuta TEMPO REALE Silvano Andriani 17 Sulla regolazione della finanza / La difficile uscita dalla crisi Nicola Cacace 25 I fatti di Rosarno. Una lezione / Una miscela esplosiva. Bugie, criminalità e vergogna Luigi Agostini 33 Modelli di partito / La ricostruzione del soggetto collettivo IL FILO DI ENZO 39 La lunga strada ascendente di Bob Maron da capo proletario all’orchestrina jazz, alle ronde, alla gloria armata del Viminale LETTERATURA, ARTE, SCIENZE UMANE Elio Matassi 43 Etica e cura di sé / Una possibile conciliazione Ernest 53 Il sarto di Ulm di Lucio Magri / L’ipotesi del «genoma gramsciano» Iginio Ariemma 63 Attualità del pensiero di Bruno Trentin / La nascita del sindacato dei diritti Mario Caronna 77 Riflessioni su I Malavoglia / La «coralità» siciliana come coralità nazionale OSSERVATORIO SOCIALE Davide Imola 89 Rendere produttivo e tutelare il knowledge work sarà il grande compito di questo secolo NOTE A MARGINE Fabio Nicolucci 29 La Cina nuova potenza mediorientale? Fabio Nicolucci 74 Gaza 103 HANNO COLLABORATO

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aSOMMARIO

u01- 2010

A. M. 3 In questo numeroEDITORIALE

Andrea Margheri 9 La responsabilità, questa sconosciutaTEMPO REALE

Silvano Andriani 17 Sulla regolazione della finanza / La difficile uscita dalla crisi

Nicola Cacace 25 I fatti di Rosarno. Una lezione /Una miscela esplosiva. Bugie, criminalità e vergogna

Luigi Agostini 33 Modelli di partito /La ricostruzione del soggetto collettivoIL FILO DI ENZO

39 La lunga strada ascendente di Bob Maron da capo proletario all’orchestrina jazz, alle ronde, alla gloria armata del ViminaleLETTERATURA, ARTE, SCIENZE UMANE

Elio Matassi 43 Etica e cura di sé /Una possibile conciliazione

Ernest 53 Il sarto di Ulm di Lucio Magri /L’ipotesi del «genoma gramsciano»

Iginio Ariemma 63 Attualità del pensiero di Bruno Trentin / La nascita del sindacato dei diritti

Mario Caronna 77 Riflessioni su I Malavoglia /La «coralità» siciliana come coralità nazionaleOSSERVATORIO SOCIALE

Davide Imola 89 Rendere produttivo e tutelare il knowledge work sarà il grande compito di questo secoloNOTE A MARGINE

Fabio Nicolucci 29 La Cina nuova potenza mediorientale?Fabio Nicolucci 74 Gaza

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Direttore: Andrea Margheri

Comitato di direzione:Luigi Agostini, Silvano Andriani, Beniamino Lapadula, Agostino Megale,Giacinto Militello, Fabio Nicolucci,Alfredo Reichlin, Enzo Roggi, Giorgio Ruffolo, Riccardo Terzi, Walter Tocci

Comitato di redazione:MilanoFrancesca Bucci (coordinamento editoriale),Alessandro Facchini, Pietro Margherivia Manara, 5 - 20122 Milanotel. 02-54123260, fax [email protected] di RomaPiazza di Pietra, 34 - 00186 Romatel. 06-69924022 - fax 06-69780182

Osservatorio sociale:Agostino Megale (coordinatore), Riccardo Sanna, Riccardo Zelinotti

Sito internet:Alessandro Facchini (coordinatore responsabile)www.gliargomentiumani.com

Garanti:Guido De Cristofaro, Arnaldo SciarelliEditore: Editoriale Il Pontevia Manara, 5 - 20122 MilanoDirettore responsabile: Giorgio FranchiStampa: Abbiati, Via Padova 5, 20127 MilanoRegistrazioni: Tribunale di Milanon° 697 del 10/11/99Progetto grafico interno: Silvia RuffoloCopertina: Giuseppe D’Orsi

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Innanzi tutto, le scuse dell’editore agli abbonati, ai lettori, aicollaboratori, al comitato di direzione della rivista per il ritardocon cui affrontiamo il nostro decimo anno di vita. Spero che lescuse vengano accettate insieme all’impegno – che siamo sem-pre riusciti a mantenere – della regolare uscita di 11 numeri di«Argomenti umani» e dei 4 numeri di «I Quaderni - Le scien-ze dell’uomo».Veniamo a questo numero. L’editoriale riprende l’analisi del-la crisi italiana. Questa volta, l’attenzione si concentra sullaquestione della legalità e dell’efficacia della Pubblica ammini-strazione a partire dalle primissime notizie sulle vicende dellaprotezione civile e al ‘quadrato di Villafranca’ formatosi im-mediatamente in una malaccorta difesa preventiva. Ma il ra-gionamento va oltre: si cerca qualche risposta sulla inquietan-te disarticolazione istituzionale, geopolitica e sociale del Paeseche si avvicina al punto di non ritorno.In Tempo reale Silvano Andriani esamina le prospettive diuscita dalla crisi del capitalismo globale con particolare riferi-mento alle nuove regole della finanza che sono al centro delladiscussione negli Stati Uniti e in Europa.Nicola Cacace prende in esame i fatti di Rosarno per coglier-ne il senso più generale. Si tratta davvero di un evento cru-ciale nella realtà attuale del Paese, in cui confluiscono pro-cessi diversi di crisi sia sul piano sociale – lo sfruttamento be-stiale degli immigrati –, sia sul piano istituzionale – l’impo-

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tenza dello Stato a frenare le esplosioni di razzismo della cuiorigine si è fatto complice per le scelte sciagurate della Lega– sia, infine, sul piano dell’azione, invasiva ed eversiva, dellacriminalità mafiosa.Luigi Agostini riprende il tema decisivo della forma partito.Ogni possibilità di creare un’alternativa democratica vincenteal centrodestra, di rilanciare la coesione e promuovere la rina-scita della nazione passa dalla costruzione di un nuovo sog-getto collettivo, capace di rappresentare esso stesso un canaledi vasta partecipazione popolare e fronteggiare la disgregazio-ne istituzionale.In Letteratura, arte, scienze umane Elio Matassi propone unasua ricerca filosofica sul rapporto tra l’etica e la cura di sé. Conquesto secondo termine si intende un concetto molto com-plesso e l’analisi storico-filologica di Matassi porta addiritturaal rovesciamento del significato comune: da un egocentrismonarcisistico a una delega ad altri della rappresentanza di sé e,quindi, a una limitazione. Il percorso di Matassi – partendodalla condizione iniziale di divaricazione apparentemente irri-mediabile dei due termini – consente di arrivare a una possi-bile conciliazione attraverso le citazioni illuminanti di Goethe,Heidegger, Bourdieu, Furedi e Nussbaum.Ernest propone una lettura articolata del bel volume diLucio Magri Il sarto di Ulm. Non si tratta solo di ricostruirele diverse posizioni e il confronto anche aspro sul ruolo cheil Pci ha realmente svolto nella costruzione della Repubblicademocratica e nel dibattito politico e culturale italiano (e,forse, europeo). Se occorre inquadrare tale ruolo nel muta-mento profondo della realtà, bisogna anche accettare sino infondo la conclusione della fase storica novecentesca e farefronte all’esplosione di una realtà mondiale e italiana total-mente nuova, che richiede un’analisi e un progetto di sinistraaltrettanto innovativi.Iginio Ariemma prosegue la sua puntuale analisi del pensie-ro e dell’azione di Bruno Trentin. Il suo lavoro si è concen-trato in questo saggio sul «sindacato dei diritti» e sul signifi-

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cato di rinnovamento che questo concetto ha avuto nell’inte-ro movimento.Mario Caronna prende in esame I Malavoglia di GiovanniVerga per sottolinearne, con il grande valore letterario, il si-gnificato nazionale sia come rappresentazione della questionemeridionale, sia come contributo alla formazione della lette-ratura della Nuova Italia.Conclude il numero l’Osservatorio sociale dedicato questa vol-ta a una ricerca di Davide Imola sul problema davvero cru-ciale delle professioni e del loro ordinamento nella normativaitaliana.

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A N D R E A M A R G H E R I La responsabilità, questa sconosciuta

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È più che evidente che la deriva della democrazia italiana si èaccelerata: ora si profilano gli scogli di un naufragio possibileanche in tempi brevi. La letteratura storica e sociologica e, piùancora, i materiali giudiziari offrono un elenco sterminato difattori critici che concorrono tutti assieme a provocare la dis-soluzione del sistema Paese sia sul terreno istituzionale delladirezione politica, sia su quello delle relazioni tra le compo-nenti sociali organizzate, o le tendenze ancora spontanee.Sembrano indeboliti l’autorità e il ruolo dello Stato; di quelfulcro centrale che nella storia della Repubblica ha dato uncerto ordine, anche se approssimativo e provvisorio, al movi-mento verso il futuro disegnato dalla Costituzione: consoli-damento della democrazia, della partecipazione delle grandimasse popolari alla direzione politica e amministrativa, del-l’unità sostanziale della nazione.È agghiacciante ripercorrere, nella trascrizione delle intercet-tazioni telefoniche e nelle dichiarazioni (o giustificazioni) deiprotagonisti, la formazione nella Protezione civile di un siste-ma di potere che dall’emergenza delle catastrofi naturali o so-ciali, si è esteso via via a tutti gli eventi di grande rilievo conscadenza temporale più o meno ravvicinata. Come ha scrittoScalfari, si è passati dal riconoscimento della necessità dei soc-corritori di un terremoto o di un’alluvione di ‘passare col ros-so’, all’estensione di questo diritto a chi avrebbe dovuto gesti-re la preparazione materiale di eventi sportivi, di riunioni po-litiche, di manifestazioni fieristiche. E la giustificazione fonda-mentale è il tempo. Se si vuole fare presto non c’è altra via chesospendere la normativa vigente e percorrere le stesse vie del-

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EDITORIALEAndrea Margheri La responsabilità,

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l’emergenza. Se nell’urgenza si apre la via a eventuali profitta-tori, questo va considerato come una distosione da corregge-re caso per caso, con interventi mirati.Nella difesa del metodo generale, non c’è stato cedimento:quella era e resta la via da seguire.Ma è facile e molto amaro scorgere le crepe irrimediabili diquesta difesa. Intanto, generalizzando le procedure di emer-genza non si è solo aperta la via alla collusione tra appaltatorie decisori corrotti. Si è gettato alle ortiche ogni criterio di pro-grammazione ottenendo in molti casi il risultato di far saltaretutte le scadenze temporali e di dilatare i prezzi, come insegna,ad esempio, l’esperienza dei Mondiali di nuoto. Ma, ancorapiù grave, generalizzare i criteri dell’emergenza ha significatofare esattamente il contrario di ciò che si era promesso: ha si-gnificato svilire e marginalizzare le strutture della Pubblicaamministrazione. Il contrario delle riforme promesse.La minaccia della corruzione si associa, così, a qualcosa di an-cor più radicale, la marginalizzazione della Pubblica ammini-strazione. Il deterioramento di un «bene pubblico» fonda-mentale per la convivenza civile. Si va anche oltre la Prote-zione civile. Basti pensare alla Società per azioni già costitui-ta nel campo della Difesa. Al di là della pressione dei ‘comitati di affari’, al di là della col-lusione e dei conflitti di interesse che emergono così chiara-mente dalle inchieste, le vicende di queste ultime settimanepongono un problema culturale. Ma quale concezione, qua-le idea della società sta dietro alla spinta privatistica, a un me-todo di governo fondato sulla sfiducia nello Stato e nella de-mocrazia? In realtà Berlusconi appare perfettamente coeren-te. Sin dalla sua discesa in campo aveva fatto prevalere gli ar-gomenti di un privatismo rozzo e miope, di una diffidenzaostile contro lo Stato, di una rimozione totale del problemadella disuguaglianza tra i cittadini. Questo era l’impasto ideo-logico a cui il Grande Imbonitore, forte di un apparato me-diatico così imponente, ha affidato la sua ricerca di consenso.Con successo. E per un lungo periodo storico l’accozzaglia

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culturale di elementi liberisti, individualisti, localisti, privati-sti, populisti ha cementato un blocco di forze reazionarie emoderate maggioritario, dai suoi seguaci diretti provenientida Forza Italia, ai cofondatori del Pdl di origine An, sino aiseguaci di Bossi e della Lega. E dietro questo schieramentopolitico ha funzionato anche una rete di interessi concretimolto vasta e articolata, da Nord a Sud, dall’impresa picco-la e media, alle grandi concentrazioni finanziarie, a corpora-zioni professionali, a gruppi sempre più consistenti di lavo-ratori di pendenti. Questi ultimi sono stati attratti dalla demagogia sfrenata del-le risposte localiste e populiste della Lega ai problemi impel-lenti della globalizzazione. Quelli hanno aderito all’antistata-lismo a al costante ammiccamento antifiscale e, soprattutto,a quella visione «aziendalista» dello Stato di cui Berlusconi èil principale portatore e che postula «un uomo solo al co-mando», la massima elasticità nelle relazioni con Parlamentoe organi di garanzia, la spregiudicatezza nei confronti di osta-coli normativi e giuridici. La stessa emersa così potentemen-te nella vicenda della Protezione civile.Certo, si è trattato sempre di interessi e di speranze difformi,talvolta divergenti. Ma tenute insieme dall’aspettativa del ri-sultato, del «fare» concreto e visibile. Aspettativa che non acaso è stata e resta sostanza principale e ossessiva del messag-gio propagandistico e della polemica di Berlusconi. Mi pare ormai più che evidente che negli ultimi mesi i nodidello schieramento di centrodestra sono venuti via via dipa-nandosi anche e soprattutto per la difforme e comunque in-sufficiente risposta alla crisi globale e alle sue conseguenzesociali che le diverse componenti stanno dando. Ora i pro-cessi di crisi industriale e occupazionale logorano l’ottomi-smo forzato del governo. Tali processi si intrecciano con ledifficoltà e gli squilibri istituzionali provocati dal dirigismoautoritario del presidente del Consiglio nei confronti delParlamento. Tutto ciò in un clima avvelenato dal permanen-te attacco alla Magistratura.

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In sostanza, questione sociale e questione democratica con-corrono a determinare una più aspra e minacciosa fase poli-tica. In questa nuova fase l’unità del centrodestra si sfalda esi disperde. Non basta più la propaganda a nascondere lanatura profonda delle contraddizioni. È sempre più eviden-te la rottura tra le diverse componenti nell’analisi del rap-porto tra Nord e Sud, o nel fronteggiamento dell’immigra-zione, o nella esplicazione dei diversi ruoli istituzionali. Permolto tempo le offese di Bossi all’unità d’Italia, anche se ri-badite nello statuto della Lega, potevano essere ignorate co-me chiacchiere da caffé. Oggi si vede che le parole sono pie-tre, che si è lasciato crescere e prosperare il seme della malapianta e si scorge il segno di una disgregazione pericolosadella nazione. «Bella e perduta», come Villari indica la patrianel suo nuovo volume di storia del Risorgimento.In questo quadro, di nuova divisione del centrodestra, la vi-cenda della Protezione civile e della sua gestione degli appal-ti è diventata un altro possente fattore di crisi e di instabilitàistituzionale. Ha ragione Bersani: non possiamo affrontare iproblemi del Paese come una permanente e generale emer-genza. E tutti ci rendiamo conto che dobbiamo tornare a unmetodo di gestione della cosa pubblica fondato principal-mente su una relazione limpida tra decisori ed esecutori, conle dovute garanzie e i dovuti controlli. Che ristabilisca, cioè,un quadro permanente di certezze normative e comporta-mentali il più possibile trasparente.Ho detto «tornare». Ma sappiamo bene che la gestione del-la cosa pubblica è stata nel passato proprio quel quadro dicertezze normative e comportamentali trasparente che an-che le ultime vicende ci fanno desiderare. Sia dal punto divista dei fenomeni dilaganti di corruzione, e del rapportocriminoso tra Pubblica amministrazione e attività economi-ca, che così profondamente ha coinvolto la politica in granparte del Paese, sia dal punto di vista dei risultati concreti (laweberiana etica della responsabilità). E sappiamo bene cheanche i progressisti e la sinistra italiana sono stati esposti ai

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veleni della corruzione.Ora, dal punto di vista della legalità l’opera di risanamentopuò svolgersi solo in un quadro di controllo democratico esociale garantito solo dalla partecipazione e dal funziona-mento sempre più trasparente e rigoroso delle istituzioni atutti i livelli. Francamente, è molto difficile non riconoscerein questa esigenza un ruolo specifico e determinante dei pro-grammi di riforma e di modernizzazione delle autonomie lo-cali e delle regioni che erano parte integrante dei programmidei riformisti.Nella pratica quei programmi sono rimasti lettera morta, e so-no invece cresciute la mala amministrazione e la corruzione.È possibile un programma di riforma istituzionale e ammi-nistrativa non sostenuto da una grande forza nazionale e po-polare, da un vero soggetto politico, da un partito di massa?La realtà ci ha dimostrato che è il vuoto politico, sociale e cul-turale determinato dal crepuscolo dei partiti di massa a ren-dere più difficile un processo di rilancio e di riforma del fun-zionamento della Pubblica amministrazione locale e nazio-nale. Che siano stati i partiti in quanto tali il veleno anti-isti-tuzionale è un errore storico molto diffuso. Ma la diffusionenon elimina l’errore: il partito resta la condizione vitale dellapartecipazione e del controllo democratico.Resta la seconda questione: il risultato e i suoi tempi, comefattori interconnessi di ogni progetto anche fuori dalle emer-genze e dal fronteggiamento delle catastrofi.Diciamo la verità: la cultura della sinistra da tempo non con-sidera tali elementi come centrali. Ora, nella nuova fase sto-rica, di fronte al mutamento climatico che minaccia la terranel lungo periodo, di fronte alla scarsità di risorse naturali edi materie prime provocate dal consumismo dissennato deiPaesi ricchi e dalle esigenze di sviluppo dei Paesi emergenti,di fronte a tutto questo il risultato e i suoi tempi non posso-no essere solo effetti collaterali. In nessun campo.La crisi ha di nuovo riaperto lo scontro culturale sul signifi-cato stesso delle parole «sviluppo» e «progresso». Ha riaper-

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to la ‘critica dei fatti’ dopo l’allucinazione del pensiero unicoliberista e mercatista, riproponendo domande storiche: dove,come, cosa produrre per garantire lavoro e sicurezza a tuttigli uomini. In una condizione nuova, nella quale ogni lavoroattinge a livelli di sapere, di intelligenza, di creatività moltosuperiori al passato per l’uso di nuove conoscenze scientifi-che e di nuove tecnologie. Il lavoro nel suo insieme ha più pe-so oggettivo e dovrebbe avere più peso nel decidere dove, co-me, cosa produrre, a cosa applicare la maggior creatività del-l’uomo in tutti i campi. È una grande questione irrisolta diequilibrio tra capitalismo e democrazia, che chiamano in cau-sa non solo lo Stato e le imprese, ma, come ci ha insegnatoRuffolo, anche il tessuto delle diverse organizzazioni socialiche è sempre più fattore e protagonista autonomo di svilup-po economico.E li chiama in causa prospettando per tutti i Paesi e per tut-ti i popoli un disegno di rinnovamento della produzione edei consumi energetici, degli strumenti della mobilità di per-sone e di cose, di adeguamenti tecnologici delle reti infra-strutturali di rifornimento (acqua, energia, calore) e di co-municazione telematica.È ovvio il ruolo strategico preminente che acquista la do-manda sociale e la sua espressione politica: le forze sociali elo Stato devono riconquistare il loro potere di indirizzo del-lo sviluppo.Questo si chiama, finché non verranno nuovi Keynes e nuo-vi Schumpeter a insegnarci nuovi termini, programmazionedemocratica. Ed è questa la base dell’efficienza degli stru-menti della Pubblica amministrazione, il punto di incontroideale tra il risultato dell’azione politica e i suoi tempi di rea-lizzazione.Contrariamente alle intenzioni dei governanti la vicenda del-la Protezione civile mette a nudo la impotenza del privatismo.Ma mette anche a nudo le esigenze storiche di un rilancio del-l’alternativa culturale e politica della sinistra, sia del sociali-smo sia del pensiero sociale cristiano. !

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S U L L A R E G O L A Z I O N E D E L L A F I N A N Z A S I LVA N O A N D R I A N I La difficile uscita dalla crisi

I F A T T I D I R O S A R N O . U N A L E Z I O N EN I C O L A C A C A C E Una miscela esplosiva.

Bugie, criminalità e vergogna

M O D E L L I D I P A R T I T OL U I G I A G O S T I N I La ricostruzione del soggetto collettivo

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Due considerazioni preliminari. Il tendenziale distacco del-l’attività finanziaria dall’economia reale non nasce semplice-mente dalla protervia della finanza. Per le banche tale ten-denza si materializza nell’aumento della quota dell’attivo in-vestita in titoli rispetto a quella impiegata in attività crediti-zia e nel fatto che una parte crescente degli utili proviene daattività di trading o di gestione di patrimoni piuttosto chedall’attività creditizia, così che spesso la gestione della teso-reria diventa più importante del sistematico seguimento del-la clientela. Sul lato della raccolta si manifesta con l’aumen-to della liquidità assunta attraverso il mercato rispetto a quel-la raccolta dalla clientela e un aumento della leva debitoriada parte delle banche. Tali tendenze hanno alla base un fe-nomeno di lunga durata, tipico della fase di sviluppo che pa-re si stia concludendo: una crescita del valore degli asset pa-trimoniali sistematicamente superiore alla crescita del pro-dotto lordo che rende decisamente conveniente operare intitoli. Tale tendenza è stata ripetutamente interrotta da crisifinanziarie, ma, nel lungo periodo, ha mantenuto finora lasua direzione in quanto essa era la risultante della redistri-buzione del reddito a favore del capitale che ha caratterizza-to il ciclo economico passato. Rovesciare tale tendenza ap-pare allora necessario per imprimere un orientamento diver-so all’uso delle risorse finanziarie.

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SULLA REGOLAZIONE DELLA FINANZASilvano Andriani La difficile uscita dalla crisi

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Una seconda è che il dibattito sulla nuova regolazione della fi-nanza dovrebbe essere orientato non solo ad assicurare mag-giore stabilità ed evitare crisi finanziarie della portata di quel-la in atto, ma dovrebbe delineare quale sia il sistema finanzia-rio desiderabile anche per ristabilire un adeguato rapportofra economia reale e finanza. La soluzione di tale problema haun’importanza decisiva per l’avvio di una diversa fase di svi-luppo, ma il modo con il quale, soprattutto i governi statuni-tense e inglese, hanno realizzato interventi che hanno salvatonon solo le banche, ma anche i banchieri e i manager che han-no provocato il disastro e il permanere di politiche monetarieestremamente espansive, che alimentano rinnovate tendenzespeculative e un ulteriore trasferimento di reddito dai rispar-miatori alle banche, giustificano il timore, recentementeespresso da Trichet, di un ritorno al «business as usual».Anche l’International Bank of Settlement (Ibs), convocandouna riunione di Banche centrali, ha manifestato preoccupa-zione per il ritorno a comportamenti aggressivi simili a quelliche hanno causato la crisi.

La prima questione che si pone è: a quale livello devono es-sere definite le regole ed esercitato il controllo. L’esperienzadelle crisi finanziarie trascorse mostra l’enorme potere dicontagio che esse contengono, tanto più grande se il male haorigine in Paesi leader dell’attività finanziaria quali Usa e Uk.Il livello deve essere allora quello mondiale se si vuole avereuna regolazione efficace. Forse è troppo presto per sostenerela formazione, da qualcuno già proposta, di un’Autorità mon-diale, ma interessante appare la proposta di Barry Eichengreenrelativa alle costituzione, accanto al Wto, del Wfo (WorldFinancial Organization) con uno statuto che fissi le regole dibase che i Paesi aderenti si impegnerebbero a rispettare.A livello europeo, senza che vi sia stata reale discussione, stapassando la proposta conclusiva del Rapporto De Larosière.Tale rapporto è alquanto incoerente, giacché a un’analisi mol-to critica dei sistemi di controllo esistenti e dell’attività delle

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tre Commissioni di coordinamento esistenti a livello europeo,rispettivamente per banche, assicurazioni e gestioni patrimo-niali, la cui evidente inefficacia deriverebbe dall’ampia auto-nomia di cui i singoli Paesi dispongono nell’interpretare le di-rettive europee, fa seguire la proposta di rafforzare i compitidi tali Commissioni. Si potrebbe invece sostenere la loro tra-sformazione in vere e proprie Authority.Sia a livello europeo, sia a quello mondiale viene, giustamen-te, avanzata l’esigenza di una entità deputata alla valutazionedei rischi sistemici. Il Rapporto De Larosière propone che ta-le entità coincida con la Bce allargata alla presenza di altreBanche centrali europee. Per quanto la valutazione dei rischisistemici debba specificamente considerare quelli che riguar-dano i sistemi finanziari, è evidente che essa deve tenere con-to dell’intero quadro macroeconomico mondiale, perciò sa-rebbe opportuno considerare la creazione di un organismoche comprenda la presenza significativa di esponenti politici edi forze sociali. A meno di non volere continuare a delegare al-le Banche centrali quasi l’intera politica macroeconomica. Piùin generale bisognerebbe evitare che a discutere della nuovaregolazione della finanza siano quasi esclusivamente le Banchecentrali che sono tra i principali responsabili della crisi.

«Too big to fail», questo è l’argomento che ha sostenuto tuttigli interventi di salvataggio. Ora questo problema si sta ag-gravando in quanto, in seguito alla crisi e ai salvataggi, il gra-do di concentrazione dei sistemi bancari, soprattutto negliUsa, sta aumentando. Varie misure sono state proposte, so-prattutto l’aumento e il miglioramento della qualità del capi-tale proprio a copertura dei rischi e in particolare di quellodestinato a coprire i rischi delle attività di trading la cui ri-schiosità andrebbe rivalutata. Tutto questo va bene, tuttavia,ancora più della dimensione costituisce problema il grado diintegrazione delle diverse attività finanziarie all’interno di sin-gole istituzioni finanziarie, preoccupazione espressa da Ibsnella convocazione della citata riunione. In effetti occorre

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considerare una più netta separazione delle diverse attività fi-nanziarie e anche delle diverse funzioni delle banche, soprat-tutto fra le funzioni di banca commerciale e quelle di bancadi investimento dalla cui commistione possono nascere dis-torsioni nella valutazione dei rischi o veri e propri conflitti diinteresse. Non si tratta allora di specializzare le diverse formedi attività creditizia, come avvenne negli anni Trenta in Italiae con la Glass-Steagall in Usa. Si tratterebbe di garantire chele banche che hanno accesso ai fondi delle Banche centrali ei cui depositi sono garantiti pubblicamente operino oculata-mente negli interessi delle famiglie e delle imprese, mentre leistituzioni impegnate in attività di trading di tipo speculativosopportino fino in fondo i rischi conseguenti. Tale esigenza è,naturalmente, osteggiata dalle banche d’investimento anglo-sassoni, ma è interessante notare che a suo favore, invece, sisono espressi personaggi che hanno svolto o svolgono ancoraimportanti funzioni di controllo in Usa e Uk: Paul Volker eNicolas Brady che, in qualità rispettivamente di Presidentedella Fed e di ministro del tesoro Usa, affrontarono negli an-ni Ottanta la crisi del debito, Mervin King e Lord Turner ri-spettivamente Governatore della Banca d’Inghilterra e presi-dente dell’Authority per il controllo dalla finanza.

Il modello di business dominante nella finanza negli ultimiventi anni è stato l’«originate and distribuite model». La suacaratteristica era la massiccia cessione di rischi da parte degliemittenti, molto conveniente per essi e motivata dall’oppor-tunità di distribuire i rischi su una scala più vasta. La ridu-zione della concentrazione dei rischi è certo un fatto positi-vo, ma il modo con il quale essa è stata realizzata ha invecefortemente aumentato il livello dei rischi. Le vie attraverso lequali la cessione è stata realizzata sono state le securitizationse i derivati. La cessione spesso totale dei rischi da parte di chiaveva la competenza per emetterli e gestirli ha comportatouna distorta valutazione e una inadeguata gestione di essi eun deterioramento della qualità dei prodotti. Inoltre le emis-

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sioni si sono riprodotte per partenogenesi dando luogo a unacrescita abnorme di prodotti finanziari gravanti sempre suglistessi asset. I prezzi di tali prodotti venivano di regola fissatidagli emittenti al di fuori di ogni reale verifica di mercato.Tra le misure da prendere innanzitutto la necessità per gliemittenti di trattenere una quota robusta dei rischi emessi. Lapredisposizione di meccanismi di mercato per fissare i prez-zi dei prodotti ivi compresa la creazione di «clearing house».Ridurre la possibilità di generare prodotti di secondo e terzolivello sugli stessi asset mentre i prodotti derivati andrebberostandardizzati e il loro uso circoscritto, per quanto possibile,alla sola reale copertura dei rischi.Nel campo della previdenza bisognerebbe incentivare glioperatori ad assumere nei propri portafogli i rischi e a forni-re rendite garantite.

Il ritorno all’erogazione di bonus ai manager delle banche diinvestimento Usa ha avuto un impatto forte sull’opinionepubblica tale da concentrare su questo tema l’attenzione del-l’ultima riunione dei G20. È bene tuttavia tener presente chenon solo i proventi del top management, ma l’intero sistemaretributivo degli operatori finanziari è fortemente influenza-to da un rapporto con le performance che spinge a una ec-cessiva assunzione di rischi: la necessità di riferire tale rap-porto ai risultati di medio-lungo termine vale perciò in gene-rale. Qui tuttavia, il problema è più profondo giacché il si-stema di incentivi riflette la visione che si ha dell’impresa edel suo ruolo. I sistemi di incentivazione esistenti sono co-erenti con un approccio «shareholder value», che considerala valorizzazione del capitale finanziario, cioè la generazionedi profitti, l’unica finalità dell’impresa e che ha portato gene-ralmente e soprattutto nel campo della finanza a operare conottica di breve periodo. Se la visione dell’impresa cambiassee il suo obiettivo fosse considerato quello di valorizzare tuttigli asset in essa presenti e il ruolo del management fosse nonquello di essere l’agente del capitale finanziario, ma quello di

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contemperare i diversi interessi facenti capo all’impresa at-traverso la strategia di sviluppo, il sistema di incentivi do-vrebbe essere conseguente a tale visione.

Per ristabilire un adeguato rapporto fra finanza ed economiareale oltre a spingere banche e assicurazioni a dare maggioreimpegno alla loro attività tipica, spostando attenzione dal-l’attività di trading al seguimento giorno per giorno dellaclientela e a recuperare un’adeguata capacità di valutazionee gestione dei rischi, resta il problema derivante dal fatto chegrandi masse di denaro sono nei portafogli di investitori isti-tuzionali che non hanno dimestichezza di rapporti con le im-prese o con investimenti nell’economia reale. Di qui l’impor-tanza della costituzione di fondi appositi nei quali far con-fluire parte di quelle risorse finanziarie, gestiti da operatorispecializzati per l’adozione di nuovi modelli di finanziamen-to e l’assunzione di capitale di rischio in imprese nascenti oin corso di ristrutturazione o in fase di sviluppo o per opera-zioni di structural financing e project financing pubblicamen-te orientati. Le attuali banche d’investimento non sono ingrado di svolgere tale attività essendo a loro volta diventatetroppo grandi, abituate ormai a operare emettendo prodottifinanziari e a valutare i rischi più con l’uso di modelli mate-matici molto sofisticati che con la conoscenza reale delle im-prese e dei progetti. Sarebbe importante favorire la nascita dientità finanziarie specializzate in settori determinati che pos-sano svolgere un tale ruolo.Sul versante della connessione fra risparmiatori e imprese fi-nanziarie un contributo alla riduzione delle asimmetrie in-formative o ai rischi di conflitti di interesse potrebbe veniredallo sviluppo di una rete di consulenti finanziari indipen-denti che, a differenza di agenti e promotori, operino perconto del risparmiatore per prospettargli, dietro pagamentodi una commissione, le diverse e migliori alternative di ac-quisto di prodotti finanziari e assicurativi.Purtroppo l’impeto verso la riforma delle regole per il con-

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trollo della finanza che aveva seguito il rischio di collasso nonha prodotto risultati apprezzabili finora. Non avendo il gover-no Usa nazionalizzato le banche salvate, la potentissima lobbydella finanza ha mantenuto intatta la sua potenza che ora im-piega alla grande per impedire una riforma adeguata.D’altro canto l’atteggiamento tenuto finora dai governi statu-nitense e britannico lascia il dubbio che la preoccupazione dimantenere la reciproca competitività delle rispettive piazze esistemi finanziari prevalga su quella di un adeguato control-lo. Se tale situazione non fosse rimossa e se continuasse daparte di vari Paesi la tendenza a salvare e rafforzare con cri-teri nazionali i propri sistemi finanziari la finanza, che in pas-sato ha trainato il processo di liberalizzazione, potrebbe di-ventare il terreno per la rinascita del nazionalismo e del pro-tezionismo. !

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«Gli schiavisti americani dell’epoca dello zio Tom e i segua-ci del Ku Klux Klan di Mississipi burning (il film di AlanParker) almeno fornivano ai negri le baracche». È uno deicommenti della stampa americana ai fatti di Rosarno. Il com-binato disposto della legge Bossi-Fini – che da venti giorni le-gali impiega fino a un anno per il rinnovo dei permessi di sog-giorno – e del pacchetto sicurezza, che commina fino a tre an-ni di carcere ai clandestini, formano una miscela esplosiva cheva bene a troppa gente, imprenditori disonesti, mercanti dicarne umana, politici razzisti, mentre penalizza gli imprendi-tori onesti, l’economia e l’immagine dell’Italia.

Un Paese vecchio che ha bisogno degli immigrati come il pa-ne, ma non lo sa L’Italia oggi è il Paese più vecchio del mondo, insieme alGiappone, perché da più di trenta anni fa politiche antigio-vani e antinatalità e questo spiega perché l’Italia è anche lea-der mondiale per il ritmo con cui sono cresciuti gli immigra-ti: 400% in 10 anni, da 1 milione a 4 milioni di regolari e al-meno un altro milione di irregolari. In un Paese che ha di-mezzato le nascite, da 1 milione a 500 mila l’anno, per 10 ses-santenni che escono nel mercato del lavoro ci sono solo 5 gio-vani che entrano nel mercato e di questi nessuno vuol racco-gliere pomodori, pulire strade, assistere i vecchi, mungere,

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I FATTI DI ROSARNO. UNA LEZIONENicola Cacace Una miscela esplosiva.

Bugie, criminalità e vergogna

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salire sui ponteggi, operare in fonderia, montare un’antennasu un tetto, pescare in altura. Se arrivano tanti immigrati non-ostante le leggi e le condizioni orribili che trovano, è per unsolo motivo: la domanda di giovani disponibili ai lavori umi-li ancora necessari, ma senza riscontro nell’offerta italiana, èaltissima. E arrivano da tutte le vie, per ultima quella del ma-re, la più pericolosa seguita solo dai più miserabili tra i mise-rabili. La Lega ha costruito le sue fortune sui respingimentiin mare verso i ‘paradisi’ di Gheddafi (vedere Morire nel de-serto, «L’espresso», 14 gennaio) mentre il 90% dei migrantiarriva da altre vie. E ne arrivano tanti perché la domanda èalta in tutti i settori: dal 2004 al 2008 la popolazione residen-te è aumentata da 58,4 a 60 milioni e poiché il saldo natura-le è stato negativo, questo significa che gli immigrati residen-ti sono aumentati di 400 mila unità ogni anno. E secondol’Istat questo ritmo potrebbe continuare «fisiologicamente»per almeno due decenni. Il problema, che non è stato benspiegato agli italiani, a cui invece si parla di immigrazione so-lo in termini di sicurezza, è che senza importazione di forzalavoro la baracca italiana chiuderebbe, non solo i raccolti el’allevamento, ma anche ospedali, fabbriche, alberghi, servi-zi. Il problema italiano non è tanto nella riduzione della po-polazione autoctona; non ci sarebbe niente di male per unPaese sopra popolato, quanto nella riduzione dei giovani.Nessuna economia può reggersi quando vecchi e anziani su-perano i giovani. Uno dei motivi della bassa crescita del Pilitaliano da venti anni a questa parte dipende anche dalla ‘vec-chiaia’ del Paese. E l’Italia avrà bisogno degli immigrati fin-ché non diventa come la Francia, dove l’immigrazione ha fi-nito di crescere quando la natalità è tornata normale, cioèquasi il doppio della nostra.

I fatti di Rosarno, un progrom preordinato agevolato da leg-gi sbagliate e fatti economiciA Rosarno, dove erano affluiti anche immigrati regolari li-cenziati nel Nord Est, si è provocata una espulsione di massa

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di un migliaio di lavoratori neri perché il calo dei prezzi degliagrumi (la Conad pubblicizza i tarocchi a 50 centesimi al chi-lo) e le provvidenze Ue rendevano ‘quasi’ conveniente la nonraccolta. Questa è una delle ipotesi, la più probabile, per spie-gare gli avvenimenti e la procedura temporale dei fatti: primasi è sparsa la notizia su una donna abortita per colpa dei neriche si è rivelata una menzogna; poi, per tre giorni e tre notti,gruppi sicuramente autorizzati dalla ’ndrangheta hanno spa-rato a pallini contro i neri ferendone alcuni, questo ha inne-scato la protesta violenta dei neri finita con la espulsione assi-stita dalla polizia. Le immagini delle ignobili condizioni di vi-ta degli immigrati, delle fucilate, delle sprangate e dell’espul-sione etnica, hanno fatto il giro del mondo, peggiorando l’im-magine dell’Italia oltre a riempirci di vergogna.

Una miscela esplosiva di leggi sbagliate, controlli di legalitàassenti, favori governativi ai disonesti Il ministro Maroni ha dato la colpa alla permissività verso l’im-migrazione clandestina mentre l’80% degli espulsi è risultatoregolare. Almeno per il permesso di soggiorno, non certo perle regole di ingaggio. Dov’erano Maroni e Sacconi quando mi-gliaia di immigrati erano costretti a lavorare senza alcun ri-spetto delle regole umanitarie, senza parlare dei contratti?Maroni ordina di rastrellare gli immigrati, ma nessuno era an-dato a cercarli nei campi dove lavoravano o nei tuguri dovedormivano tra i topi. Peggio ha fatto Sacconi che nel 2009, nelDocumento di programmazione dell’attività di vigilanza delministero del Lavoro, ha ridotto del 24% i controlli sui postidi lavoro, con punte del 50% in Calabria («L’espresso» 21gennaio). Ispezioni dimezzate nonostante l’assunzione di1400 ispettori in tutta Italia dal 2006, con la seguente giusti-ficazione: «La criticità del momento rafforza la scelta … dilimitare ostacoli al sistema produttivo». In pratica le leggi vi-genti e la loro applicazione in funzione ‘pro lavoro nero’ deinostri governanti, pienamente coerente con le posizioni piùretrive della Lega e del Pdl, hanno determinato la vergogna

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di Rosarno e quel che è peggio, hanno dato uno schiaffo agliimprenditori onesti e premiato i disonesti, gli evasori, i ca-porali, i mafiosi. Rosarno non è isolato, è solo la punta di un iceberg. Quelloche è successo in fondo allo stivale può succedere domani inqualsiasi parte del Paese dove crescono pericolosamente sen-timenti xenofobi e razzisti alimentati da una propaganda po-litica risultata, purtroppo, elettoralmente pagante. Ancheperché la controparte politica che vi si doveva opporre, noi, ilPd, non ha avuto la volontà, la forza e lo spessore culturaleper spiegare il fenomeno mondiale dell’immigrazione e quel-lo specifico italiano nei suoi termini reali. Aver accettato didiscutere di immigrati solo in termini di sicurezza e non intermini demografici ed economici è stato un errore tragicopagato sul breve periodo, con gli insuccessi elettorali; sul me-dio lungo periodo, con un arretramento culturale e un au-mento di xenofobia tra la popolazione.Abbiamo troppo a lungo lasciata sola la Caritas a dire che«gli immigrati non sono Robot, sono essere umani come noi,con doveri e con diritti, di cui abbiamo un bisogno vitale,che non possono scomparire dopo il lavoro e diventare fuo-ri legge, cioè delinquenti quando perdono il lavoro». !TE

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La decisione dopo l’11 settembre 2001dell’Amministrazione Bush di sovvertire lostatus quo che durava dal 1945, segnato dal-lo scambio petrolio-stabilità tra Usa e ArabiaSaudita, ha fatto entrare il Medio Oriente inuna fase costituente. Essa è caratterizzata damolte dinamiche: lo spostamento del bari-centro regionale a est; la crescente preva-lenza di un sistema informale regionale ba-sato su identità etnico-religiose rispetto aquello formale costituito da stati-nazionesempre più deboli; la creazione di nuove al-leanze rispetto a quelle espresse dal prece-dente assetto finito nel 2002. A queste ten-sioni si aggiungono, con ulteriori effetti dis-torsivi, le forti relazioni di interdipendenzadi alcuni attori regionali con alcuni grandiattori globali: ovviamente gli Usa, ma an-che India, Cina e Russia. Fattori che noncontribuiscono a creare una stabilizzazionemultipolare perché fuori da un quadro co-operativo multilaterale.

Se nel Medio Oriente dovesse confermarsiquesto scenario non cooperativo, e dunquea somma zero, il contemporaneo declinodella potenza regolativa degli Usa tenderà ariprodurre un teatro strategico regionale ditipo bipolare: in questo caso sembra poteressere rilevante il ruolo della Cina comenuova potenza oppositiva degli Usa. Taledinamica, già in atto a livello mondiale, sa-rà infatti replicata anche in questa regione,sempre più centrale nello sviluppo dellaproiezione globale cinese: fino al 1992-93autosufficiente per quanto riguardava il pe-trolio, oggi metà di quello importato vieneinfatti dal Medio Oriente.La Cina ha così cominciato da un decennio

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La Cina nuova potenza mediorientale?

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una discreta penetrazione nella regione, ac-compagnata da una presenza in Africa chene costituisce il retroterra, tanto più effica-ce in quanto caratterizzata da un approcciodi «soft power» assai diverso da quello so-vietico durante la Guerra fredda. Un ap-proccio «soft» che genera la stessa simpatiadi cui usufruirono gli Usa per le loro cre-denziali anticoloniali all’inizio della loroascesa come potenza globale di riferimentoal posto della Gran Bretagna, incrementatadal relativo successo del suo modello auto-ritario di governo presso i regimi arabi. Eanche se l’impegno cinese nella missioneUnifil in Libano nel 2006, unito alla parte-cipazione alla missione internazionale al lar-go delle coste della Somalia contro i piratidel 2008, suggeriscono che nel tempo lapresenza cinese sarà tendenzialmente piùbilanciata tra «hard» e «soft power», al mo-mento la presenza cinese trae forza dallagrande complementarietà economica tra laCina e il Medio Oriente, esemplificata peresempio dal ruolo crescente dei fondi so-vrani del Kuwait e del Qatar in Cina. Unacomplementarietà che sta diventando pre-valentemente politica nel caso dell’Iran,sempre più il referente principale della Cinanella regione per la progettata espansionedella sua «capacità di mobilitazione inter-nazionale» Nonostante le vicendevoli diffe-renze in potere e concezioni strategiche,Cina e Iran hanno infatti interessi semprepiù coincidenti, a partire dal petrolio e dalruolo in Iran della compagnia petrolifera ci-nese Sinopec. Tanto che in mancanza diprogressi sul dossier nucleare, per minaccia-re l’Iran e far sapere che gli Usa non avreb-bero potuto per molto altro tempo impedi-

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re un blitz unilaterale di Israele sugli im-pianti al centro della contesa, Obama ne haparlato direttamente con il presidente cineseHu Jintao. Di fronte poi a un’iniziativa con-giunta di Arabia Saudita e Usa volta a far fi-nire la dipendenza cinese dal petrolio irania-no, nonostante la promessa di avere lo stes-so quantitativo a minor prezzo, la Cina ha ri-fiutato, configurando così la propria relazio-ne con l’Iran in termini implicitamente bi-polari e non cooperativi. Se l’Italia del futu-ro vorrà contare qualcosa nel mondo, alloradovrà porsi come priorità una nuova politi-ca estera nel Mediterraneo capace di intera-gire e non solo subire i cambiamenti chestanno avvenendo alle porte di casa, e co-munque tematizzando con decisione la que-stione Mediterranea come di interesse na-zionale. !

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La vicenda particolarmente accidentata delle elezioni regio-nali ripropone con drastica evidenza, il tema del modello dipartito. Le scelte a cui si è approdati, pur difendibili, hannolargamente evidenziato, specie nei casi più emblematici, ungoverno sostanzialmente erratico e accidentale del processo.Tale vicenda ha fatto emergere con solare chiarezza la rapidausura della «via di mezzo» tra partito degli iscritti e partitodei cittadini, di un partito cioè a metà strada tra partito strut-turato e partito liquido, contraddizione non risolta appienodal precedente congresso. È necessario tornare sul modellodi partito, non solo per una ragione di principio – il principiodi organizzazione nella sua essenza non tollera gli ibridi –, maper una ragione politica, cioè per la forza che è necessariomettere in campo rispetto alle sfide che la storia propone.Tematizzare il modello di partito, in realtà significa tematiz-zare la sua capacità di intervento, la sua forza, a partire dalcontesto in cui è chiamato a operare, contesto di cui è im-prescindibile cogliere le linee di tendenza plausibili.Determinante, come sanno bene i vecchi marinai, diventaquindi la definizione del punto-nave. Il punto-nave oggi, se sitiene fermo lo sguardo alla realtà effettuale delle cose, è pos-sibile definirlo a partire da due avvenimenti che possono es-sere assunti come discriminanti:• sul piano generale, l’irrompere della più grande crisi delcapitalismo dall’inizio della sua storia, crisi da nessuna pre-

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MODELLI DI PARTITOLuigi Agostini La ricostruzione

del soggetto collettivo

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vista nella sua catastrofica gravità; l’epoca che stiamo viven-do è quella aperta emblematicamente dal fallimento dellaLehman-Brothers nel settembre del 2008 e dei suoi effetti acatena. Recentemente a Davos, all’incontro tra i massimi re-sponsabili economici, si è cercato di quantificare il costo chela crisi finora ha prodotto: svalutazione, nei bilanci, per quat-tromila miliardi di dollari, perdita di trentaquattro milioni diposti di lavoro;• sul piano specificamente nazionale, l’affermazione della de-stra, e il passaggio alla opposizione, con le elezioni del 2008,di tutte le forze che hanno fondato e governato la Repubblica,il cosiddetto arco costituzionale. Una novità storica. Unoschieramento di destra, anche se variegata, si è insediato nel-la società italiana, governa il Paese e apertamente dichiara divolere scrivere una nuova Costituzione e fondare una nuovaRepubblica. La Seconda Repubblica come transizione a un’al-tra Repubblica e non come un aggiornamento della Prima.Come affrontare la Grande Crisi, come organizzare unacontroffensiva, una Reconquista politica della nazione, misembrano i due grandi compiti che la sinistra ha davanti asé, come imperativo politico dell’oggi. Il modello di Partitonon può che derivare da questi nuovi imperativi che la sto-ria ci propone, sapendo che non siamo di fronte a fenome-ni passeggeri, che si autocorreggono da soli, per inerzia,strada facendo. La Grande Crisi ha come cause strutturali di lungo periodotre grandi eccessi: eccesso di indebitamento, eccesso di capa-cità produttiva, eccesso di disuguaglianza; fino a ora, sotto i ri-flettori sono stati soprattutto l’eccesso di indebitamento e l’ec-cesso di disuguaglianza, ma è soprattutto l’eccesso di capacitàproduttiva che, come ben sapevano Marx e Schumpeter, èquello che ha nel suo grembo gli effetti più esplosivi, in ter-mini sociali, politici, geopolitici. Il riassorbimento dell’eccessodi capacità produttiva (mediamente del 30% come dice Mar-chionne), ma soprattutto la sua eventuale sostituzione, mettesul tavolo il tema strategico del modello di sviluppo, del chi lo

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decide, delle risorse necessarie, del privato e del pubblico, delruolo dello Stato-nazione, del destino dei processi di integra-zioni continentali, della geopolitica del mondo. La crisi rap-presenta il fallimento del mercato che si autoregola e fa sorri-dere il tentativo di affidare il suo superamento alle stesse for-ze che l’hanno provocata. La crisi morderà comunque a lun-go, il nuovismo e il virtuale, la serie dei «post» (postmoderno,il postideologico, il postpost ecc.) perderanno molto del lorofascino, e la politica della sinistra, per riacquistare senso, an-drà di nuovo radicata nelle forme e nelle forze storiche, da ri-costruire con metodo e sapienza. Lo stesso ragionamento va-le sul piano specificamente nazionale: l’insediamento sociale epolitico della destra, non è più riducibile sostanzialmente alpersonaggio di Berlusconi; il Pdl non è più semplicemente ilpartito berlusconiano, ma sembra sempre più configurarsi econsolidarsi come odierno e moderno Partito-Stato.L’insediamento al governo della destra, può quindi trasfor-marsi in egemonia della destra stessa, intrecciandosi con un’al-tra novità epocale: la questione antropologica, come viene te-matizzata dalla Chiesa. L’irrompere della crisi, può però disar-ticolare il processo di stabilizzazione della destra; ma a unacondizione: che la sinistra appunto non si riduca alla pur giu-sta difesa degli ultimi, dei penultimi, e delle piccole imprese,ma ponga come questione centrale, la questione del modellodi sviluppo, asse attorno a cui costruire un nuovo equilibriosociale e territoriale del Paese. La riflessione sul modello dipartito acquista tutto il suo senso, particolarmente in taleprospettiva, e a partire da questi passaggi d’epoca. Modellodi partito e modello di sviluppo, in tale contesto, si tengonoreciprocamente. In questi decenni, ma lo scontro data dallanascita del partito politico moderno, i modelli di partito chesi sono prospettati, possono essere ricondotti essenzialmentea due: il partito come organismo e il partito come contenitore.Nella loro versione estrema, il Partito-organismo può ridursia setta, il Partito-contenitore a formazione sostanzialmenteapolitica se non antipolitica. Il Partito-contenitore essenzial-

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mente è un rassemblement d’occasione, il fine della politica èrappresentare la società, ma la società è concepita come mer-cato – società come mercato politico – e, come ogni mercato,va affrontata con l’arte della seduzione e soprattutto della ma-nipolazione, arte che può raggiungere vette inedite e sofisti-cate con lo sviluppo esponenziale dei media. In termini distruttura, al centro di tale formazione sta il leader, da cui di-scendono la grazia e le opere; attorno al leader, un apparatopotente, uno staff di spin doctors che elabora, confeziona, dif-fonde messaggi e procede per campagne mediatiche; a casca-ta, una rete, in sostanza, di venditori. Un franchising party. Iruoli istituzionali rappresentano il bottino, perfino con liber-tà di saccheggio. Il modello del Partito-contenitore, a ben ve-dere, nella sua versione radicale, richiama un nostro antece-dente storico: le compagnie di ventura rinascimentali; il par-tito si riduce a uno strumento usa e getta, ultima la metaforadel predellino; il lessico, le congiure e complotti, i veleni, lemanovre di palazzo. Un partito del genere, Partito-conteni-tore o Partito personale che dir si voglia, infine vive del carpediem, di occasioni, di tattica, anche se ogni capitano mira, intutti i modi, a farsi Signore della città. Oggi, la trama dei partiti personali e trasversali sta avvelenan-do la vita pubblica, e, come dice il Poeta, un Marcel diventa,ogni villan che parteggiando viene. L’attuale esito in fondo eragià scritto, dopo il grande collasso degli anni Novanta e lamancata riforma del partito politico. Siamo alla timocrazia,per dirla con Aristotile, al dominio dei ricchi, e pensare chela politica sfugga alla logica della ricchezza, se non si mettemano alla riforma del partito politico, confidando semplice-mente nella virtù del singolo, diventa puro fariseismo.L’errore strategico degli anni Novanta è stato di aver curatoil malato con la malattia; invece di riformare il partito politi-co, come proponeva già don Sturzo dai lontani anni Sessanta,attuando la Costituzione, definendo la moderna forma-par-tito, il suo funzionamento, la sua responsabilità pubblica, dac-ché non esiste democrazia politica senza partito politico, si è

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allentata ancor di più la briglia sul collo del cavallo, esaltandola personalizzazione della politica, il connesso spirito di fazio-ne, malattia cronica del Paese, la costruzione del Partito per-sonale, destrutturando in definitiva ancora di più, quello chesopravviveva del partito-organismo. Come se la moralità del-la politica si riducesse alla semplice moralità individuale!La malattia ha contaminato in profondità anche la Sinistra.La fine del Partito socialista rappresenta un monito storico;l’inventore della celebre battuta – «il convento è diventatopoverissimo, ma i frati sono diventati molto ricchi» – avevaintuito il destino del partito, molto prima che il destino sicompisse. Il Partito-organismo è stata la più grande inven-zione del movimento operaio e socialista per superare il fos-sato tra eguaglianza sostanziale ed eguaglianza formale, lagrande frattura dell’età moderna, e per sottrarre la politica al-l’esclusivo dominio della ricchezza. Il Partito-organismo hauna sua «nazione ideologica» – nessun proletario è tanto po-vero da non avere una nazione, diceva Kelsen –; ha una suaorganizzazione radicata nel territorio; ha un suo apparatopermanente; una gerarchia; un gruppo dirigente; una rete diistituzioni specializzate; un meccanismo formativo e selettivodei quadri; assume come soggetto collettivo la responsabilitàdelle sue scelte; la società è concepita come il luogo delle re-lazioni e dei conflitti, dove si riproduce continuamente e sot-to infinite forme la frattura moderna tra eguaglianza formaleed eguaglianza sostanziale; la società quindi non va solo rap-presentata ma continuamente trasformata. La società è il tea-tro del conflitto quotidiano tra le forze della eguaglianza so-stanziale contro le forze della eguaglianza formale; quindi, co-me dice Pierluigi Bersani, un partito di combattimento.Ma l’obiettivo del Partito di combattimento implica che si af-frontino due aspetti imprescindibili per non ridurre il com-battimento a semplice testimonianza: quello della strategia edella tattica, che sono i concetti-guida del combattimento, equello della autonomia di decisione del partito, senza di cheil discorso strategico si riduce a esercitazione letteraria.

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La strategia, come diceva un grande, è simile a una muta di ca-ni siberiani che fiutano il crepaccio a chilometri di distanza. Ilfondamento della strategia, per non ridurre la strategia a un in-sieme di atti tattici, è rappresentato dalla analisi dell’economi-co-sociale e delle linee di tendenza, la sola fra l’altro che puòlegittimare differenze strategiche in un partito di combatti-mento; l’autonomia strategica significa riportare nell’ambitodegli iscritti la decisione sulle scelte, oggi in gran parte ester-nalizzate, sul che fare, invertendo il processo di spoliazione deipoteri che in questi anni ha investito il Partito-organismo finoa ipotizzare un generico, evanescente e facilmente eterodiret-to Partito dei cittadini. Le cosiddette ‘primarie’, per alcuni, so-stituiscono il ruolo del partito politico. Il bilancio fallimentaredel Partito-contenitore, o del Partito personale o del Partitodel leader, l’apertura di una nuova epoca, segnata dalla GrandeCrisi, ripropone, con una forza insospettata solo qualche annofa e che aumenterà alle prime trimestrali di cassa, l’esigenza delPartito-organismo.Tale esigenza, oggi, inoltre, ha a disposizio-ne una potenza inedita, quella delle tecnologie della comuni-cazione, particolarmente di quella che Manuel Castells chiamal’autocomunicazione: il partito nella rete, quella che è stata re-centemente la forza di Obama.L’impegno politico, diceva Oscar Wilde, è una cosa appassio-nante, ma porta via troppe sere; il primo nodo da sciogliere,nella ricostruzione di un partito di combattimento, del suo ra-dicamento, riguarda i diritti e i poteri di quelli che nell’impe-gno, spendono le loro sere, i militanti. Se i loro diritti politicivengono equiparati a quelli di qualsiasi cittadino, il radica-mento diventa una pura invocazione, il partito un sacco vuo-to, senza identità. Il radicamento è quindi un lavoro troppodelicato per poggiare sulle spalle di quelli del dopocena. I ca-pi devono essere l’espressione del partito e non viceversa. Solocosì si può contrastare lo spirito di fazione e le ricorrenti guer-re intestine. I capi passano, il partito resta. !

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Quando Bossi fondò la Legala sua idea non faceva una piegavoleva dentro proprio tuttifossero belli oppure bruttisia di sinistra che di destrapurché menassero con mano lestae con la forza che non perdonaper far sparire Roma ladrona.Così pensò di assegnarea un giovanotto tuttofarela rappresentanza leghistadella sinistra estremista. Lui era di Democrazia proletariae ce l’aveva con la classe proprietariama era bravo, laureato e belloccioera l’ideale per il Carroccio.Iniziò cosi la sua carrierafacendo fuori ogni barrierada rivoluzionario qual era stato salì allo scranno di deputatopoi fece il ministro per un pocoperché Bossi ruppe il giocopensando ad altre stagionisenza più Silvio Berlusconiil quale invece tornò prestoe Bossi s’adeguò assai lestopensando non fosse proprio malemandare Maroni al Viminale.Fu quello un vero colpo di genioche dette alla Lega il grosso premiodi guidare da Roma il carrozzonedella folle idea della secessione.E che lui fosse un vero proletariolo dimostrò il suo itinerario.Fu condannato (oh! meraviglia)per aver tentato di morder la cavigliadi un agente della polizia di Statodopo averlo duramente oltraggiatosi palesò in quell’episodio

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La lunga stradaascendente di BobMaron da capo proletario all’orchestrina jazz,alle ronde, alla gloriaarmata del Viminale

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la sua scelta tra l’amore e l’odioed è così che per i fatti di Rosarnolui ha amato chi ha fatto dannosparando e bastonando i clandestiniche s’eran messi a fare i contadinivessati da fior fiore di schiavisticome in Italia non s’erano mai visti.Ma l’amor suo con nulla si confonderiversandolo per intero sulle rondenaturalmente che siano padaneaccolte con il suon delle campanee siccome per lui son tutti ugualipose anche ai bimbi le impronte digitaliper stabilire qual è la loro etniase appena si fan vedere per la via.Eppure lui ha un animo corteselo dimostrò in un’orchestra di Varesedove suonò il jazz e altro ancorapreparando in tal modo la sua oradi ministro senza ugualedestinato per fato al Viminale. !

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E T I C A E C U R A D I S ÉE L I O M ATA S S I Una possibile conciliazione

I L S A R T O D I U L M D I L U C I O M A G R IERNEST L’ipotesi del «genoma gramsciano»

A T T U A L I T À D E L P E N S I E R O D I B R U N O T R E N T I NI G I N I O A R I E M M A La nascita del sindacato dei diritti

R I F L E S S I O N I S U I M A L A V O G L I AM A R I O C A R O N N A La «coralità» siciliana come coralità nazionale

aL E T T E R AT U R A , A R T E , S C I E N Z E U M A N E

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In prima approssimazione le due espressioni etica e cura di sévanno in due direzioni se non contrapposte, indubbiamente,molto diverse. Il primo termine, «etica», allude esplicitamentea una dimensione interpersonale, intersoggettiva – è, a questoproposito, molto celebre la chiosa dedicatagli da Hegel in unaannotazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, per cui «eti-ca» deriva dal greco ethos e, nella lingua tedesca, Sittlichkeitda Sitte, vale a dire «costume», «consuetudine», qualcosa cheabbiamo in comune, un senso di appartenenza che comunqueci qualifica –, mentre il secondo termine, «cura di sé», sembra,invece, indicare qualcosa di più specifico, di più interno al miomodo di pensare e di essere.Goethe nel secondo Faust, atto V, Mitternacht introduce in-sieme a Der Mangel (Mancanza), die Schuld (Insolvenza), dieNot (Distretta), come una delle quattro donne «grigie» anchedie Sorge (la Cura), mentre le prime tre non osano entrare nelpalazzo di Faust, la quarta, appunto la Cura, vi penetra:

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ETICA E CURA DI SÉElio Matassi Una possibile conciliazione

Sorelle, non potete voi, né dovete, entrare.La Cura, lei, si insinua dal foro della chiave.1

1 J. W. Goethe, Faust, trad. it. a c. di Franco Fortini, Mondadori, Milano,1970, pp. 1001-03.

La Cura sfida dunque Faust direttamente:

Se neanche un orecchio mi udisse

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pure sarebbe nel cuore il mio rombo. Sotto parvenza mutevole la mia potenza è feroce. Sui sentieri, sulle onde eterna compagna angosciosa, mai la cerchi, sempre la trovi, e lusingata e maledetta… La Cura, l’hai mai conosciuta?.2

La sua sfida passa all’interno del soggetto, è una sfida an-cora più subdola e pericolosa perché investe la dimensioneinteriore, privata del singolo:

Quando ho qualcuno in mio potere il mondo gli diventa inutileSu lui cala buio eterno, sole non si alza né tramonta. Ha perfetti i sensi esterni ma tenebre intime lo abitano; e di tutti i tesori non sa come prendere possesso. Fortuna e sfortuna divengono fantasie per lui, lo rode nell’abbondanza l’inedia e, sia delizia sia tormento,qualunque cosa rimanda a domani, sempre è in attesa del futuro e mai gli riesce di concludere.3

Ma Faust è molto fermo nel respingere la sfida della Cura,non ha neppure la minima perplessità:

2 Op. cit., pp. 1005-06.3 Ivi, pp. 1007-08.

Basta! Tu così non mi prendi. Certe sciocchezze non voglio ascoltarle.

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E poco più avanti:

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Fuori! Questa mediocre litaniapotrebbe incantare anche l’uomo più saggio.4

4 Ivi, p. 1009.5 Ivi, pp. 1009-10.6 Ivi, p. III.

Sciagurati spettri, con la specie umana voi agite così mille volte. Anche i giorni qualsiasi li mutate in un laido groviglio di tormenti intricati. Dai demoni è arduo liberarsi, lo so, non si spezza il legame che lo spirito ha stretto; ma il tuo potere, oCura, insinuante e grande, io non lo riconoscerò.5

Faust riesce pertanto a resistere alla Cura senza far uso diformule magiche, riconfermando la propria fiducia nella ra-gione e nell’azione. Ma la Cura lo acceca, convinta che Faustsia simile a tutti gli altri uomini:

Provalo ora che da te rapida maledicendoti mi separo. Tutta la vita sono ciechi gli uomini: e tu diventalo, Faust, alla fine Gli soffia sul viso.6

Ma, Faust, nonostante l’accecamento esteriore, si sente ac-cresciuto di luce interiore, motivo già presente nella tradi-zione greca e che Goethe poté ritrovare nel Paradiso perdu-to di Milton:

La notte sembra scendere sempre più fonda ma brilla entro di me una luce chiara.

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Quello che meditai mi affretto ad adempiere. La voce di colui che comanda è la sola che conti. Servi, su dai giacigli! Voi tutti! Che in letizia si veda quello che ho osato intraprendere. Mano agli arnesi, in pugno vanghe e pale!Il progetto deve essere realizzato subito. Ordini esatti, impegno veloce avranno il compenso più splendido. Basta, perché sia compiuta l’impresa più grande,per mille braccia una mente unica.7

È interessante che l’episodio goethiano della Cura venga ri-preso da Martin Heidegger nel paragrafo 42 di Essere e tem-po, Riconferma dell’interpretazione (Interpretation) esisten-ziale dell’Esserci come cura in base all’autointerpretazione(Selbstauslegung) preontologica dell’Esserci8. Heidegger par-te dalla fiaba di Igino e dal saggio di Konrad Burdach, Faustund die Sorge9 e dalla poesia herderiana, Das Kind der Sorgeche definisce documenti preontologici per l’interpretazioneontologico-esistenziale dell’Esserci in quanto Cura. Se si as-sume come punto di riferimento privilegiato il brillantepamphlet del sociologo francese Pierre Bourdieu, dedicatoall’ontologia politica di Martin Heidegger10, il significato piùprofondo della cura di sé comincia a disvelarsi a partire dalplesso argomentativo che si snoda da Goethe a Heidegger.Entrando nel reticolo delle parole al contempo morfologica-mente somiglianti ed etimologicamente apparentate dove èinserita – e tramite quelle, nella sofisticata trama del lessico

7 Ibidem.8 M. Heidegger, Essere e tempo, nuova versione italiana a cura di FrancoVolpi sulla versione di Pietro Chiodi con le glosse a margine dell’autore,Longanesi, Milano, 2005, pp. 239 e sgg.9 Karl Burdach, Faust und die Sorge, in «Deutsche Vierteljahrsschrift fürLiteraturwissenschaft und Geistesgeschichte», I, 1923, pp.1-60. 10 Pierre Bourdieu, Führer della filosofia? L’ontologia politica di MartinHeidegger, trad. it. di Girolamo De Michele, Il Mulino, Bologna, 1989.

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heideggeriano, il termine «cura di sé» viene a essere strappa-to dal suo significato originario-ordinario, quello che è leggi-bile senza ambiguità alcuna nell’espressione Sozialfürsorge,assistenza sociale. Trasformata e trasfigurata, la cura di séperde la sua identità comune per assumere un senso deviato(che il termine «procura» preso in senso etimologico, riescepiù o meno a restituire). «Procura» in accezione giuridica èquel negozio col quale una persona conferisce a un’altra ilpotere di rappresentarla. Si tratta dunque di un potere dirappresentazione che fuoriesce da sé per essere concesso adaltri. Secondo la penetrante lettura di Bourdieu, Heidegger,che si confronta con Goethe, riesce, sia pur gradualmente, amostrare il ‘passaggio’, implicito nella cura di sé, da una for-ma di assistenza in senso lato pubblica a una, invece, decisa-mente ‘privatistica’ in cui il soggetto tende autolesionistica-mente a estraniarsi. Credo che questo ‘passaggio teoretico’ – la cura di sé comeautotrasferimento ad altri del proprio sé – sia a fondamentodel libro del sociologo ungherese Frank Furedi, Il nuovoconformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana11. Negliultimi decenni quasi ogni aspetto della vita è divenuto og-getto della nuova cultura delle emozioni. La diffusione dellinguaggio e delle pratiche terapeutiche nella nostra quoti-dianità dimostra quanta importanza la cultura contempora-nea attribuisca alla dimensione privata. Bambini di nove odieci anni affermano di essere stressati e viene loro spessodiagnosticato uno stato di depressione o, addirittura, di trau-ma. E mentre ancora si discute se sussista o no una «fobiascolastica», basta che un bambino sia un po’ vivace o turbo-lento perché venga dichiarato affetto da un disturbo di defi-cit d’attenzione. Delusioni quotidiane – un rifiuto, un insuc-cesso, il sentirsi ignorati – vengono considerati come unapersistente minaccia all’autostima. L’affermarsi di questa cul-

10 Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quoti-diana, trad. it. a c. di Lucia Cornalba, Feltrinelli, Milano, 2005.

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tura terapeutica, di un modo di pensare diffuso che influen-za la percezione generale dei fatti della vita, ha poco a che fa-re con la vera sofferenza psichica e con la terapia clinica. PerFuredi coincide piuttosto con una radicale ridefinizione del-la personalità. Si incoraggiano sempre più le persone a con-siderarsi impotenti e insicure, a interpretare una certa vulne-rabilità come una caratteristica che rende più umani, ester-nando la propria fragilità interiore.Gradualmente, la discussione di questioni importanti per lacollettività ha ceduto il posto a un interesse quasi voyeuristi-co per i problemi privati. Come osserva acutamente il socio-logo Zygmunt Baumann:

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Quelle che vengono comunemente e sempre più spesso per-cepite come ‘questioni pubbliche’ sono problemi privati di fi-gure pubbliche, [che] ‘hanno un dovere pubblico’ di confes-sarsi ad uso e consumo dell’opinione pubblica, di metterepubblicamente a nudo le loro vite private.12

Si procede irreversibilmente verso quella che viene definitala «istituzionalizzazione della vita terapeutica», ossia versol’estensione dell’etica terapeutica a tutte le dimensioni, all’i-struzione, al sistema di giustizia, all’erogazione di servizi as-sistenziali, alla vita politica, alla stessa medicina. Questa pervasività del terapeutico, della cura di sé, non pro-muove, comunque, secondo Furedi, il narcisismo dell’auto-realizzazione, bensì un senso diminuito di sé, una tendenzaalla frammentazione e a una nuova forma di alienazione.Questo nuovo conformismo emotivo è alla base di quella cheviene definita «etica terapeutica», ossia la cura di sé di cui ab-biamo delineato l’albero genealogico, di quella ‘cura’ cheGoethe-Faust paventava, a quella cura di sé di cui comincia

12 Z. Baumann, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2001, pp. 92 e 94.

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a parlarci Martin Heidegger. Come chiosa con finezza Bourdieu:

Al termine di questo sviamento, degno del prestigiatore cheattira l’attenzione su ciò che può mostrare al fine di dissi-mulare ciò che vuol nascondere, il fantasma sociale dell’assi-stenza (sociale), simbolo dello ‘Stato provvidenza’ o dello‘Stato assicurazione’ che Carl Schmitt o Ernst Jünger de-nunciano con un linguaggio meno eufemistico può abitareod ossessionare il discorso legittimo (Sorge e Fürsorge sonoal centro della teoria della temporalità), ma in una forma ta-le che sembra non esserci, non c’è.13

13 Pierre Bourdieu, Führer della filosofia?... , cit., p. III.14 Frank Furedi, Il nuovo conformismo, cit., p. 242.15 Martha C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, trad. it. a c. diRosamaria Scognamiglio, Il Mulino, Bologna, 2004.

Mai come nella contemporaneità sembrano essere così con-fliggenti «etica» (etica pubblica) e «cura di sé» (etica tera-peutica), offrendo un governo delle anime più sottile diquanto tutte le religioni e le ideologie siano mai riuscite a fa-re. Vi è dunque una correlazione stretta tra la fine della poli-tica, del politico, e l’ascesa della terapeutica, un processo che,anestetizzando i possibili conflitti, tende a ridefinire le que-stioni pubbliche come problemi privati dell’individuo: «Sipuò individuare nell’istituzionalizzazione dell’ethos terapeu-tico, l’avvio di un regime di controllo sociale»14.Si tratta di un processo esattamente inverso a quello intra-preso da Martha C. Nussbaum in L’intelligenza delle emozio-ni15; l’introduzione di valori ‘scalari’, delle ‘scale dell’amore’come fattori di promozione di una nuova aggregazione so-ciale, delle emozioni per reimpostare il nesso contingenza-comunità è una svolta innovativa e non regressiva. La rivalu-tazione della sfera emozionale diventa fattore di crescita, ba-sti pensare al grande esempio-problema dell’amore, dell’a-scesa romantico-ebraico, prospettata a partire da una sottile

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e convincente decostruzione del quinto movimento della se-conda Sinfonia di Mahler16. Basti rammentare come Mahlersi situi nei riguardi dell’ode di riferimento di Klopstock.Mahler opera sostanzialmente quattro modifiche. In primoluogo, sopprime la terza, quarta e quinta strofa. Strofe chestanno a esprimere una interpretazione convenzionale dellapietas cristiana e della relativa pace celeste. In luogo di tale sta-tica condizione finale il musicista si concentra sulla bellezzadel tendere verso qualcosa; in secondo luogo, vengono elimi-nati tutti gli «Alleluia» che non aggiungono nulla al contenu-to, suggerendo piuttosto una finalità statica che il perduraredella tensione. In terzo luogo, «sono stato seminato» vienemodificato in «sei stato seminato». Ed infine «schuf», creato,viene sostituito con il termine «rief», chiamato. Dio in tal mo-do non figura nel testo come creatore dell’uomo, ma come co-lui che chiama l’individuo creativo all’espressione di sé. Il re-sto del testo mahleriano è ancora più interessante:

16 Ivi, pp. 721-753.

Credi, mio cuore, credi:di tuo nulla è perduto!È tuo, tuo, tuo, vedi, tutto quello che hai bramato! Tuo, quel che hai amato, tuo, quel che hai combattuto! Oh, non invano, credi, tu sei nato,non invano hai sofferto, vissuto! Quel ch’è esistito, deve passare, quel ch’è passato, deve risorgere! Finisci di tremare! A vivere preparati! O dolore, che penetri dovunque, ecco, sono sfuggito alle tue pene! O morte, tu che travolgi chiunque, eccoti qui in catene!Con ali, che ora sono mia conquista,

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Il rifacimento letterario dell’ode di Klopstock con l’aggiuntaconsiderevole di altri versi e, al contempo, l’analisi musicaledello stesso quinto movimento vanno, per la Nussbaum, en-trambi nella stessa direzione, verso la valorizzazione della vi-ta terrena, la risurrezione avviene mediante i nostri atti e lacreatività musicale esercita un grande ruolo in questa pro-spettiva di ricerca: «Il romanticismo di Mahler e il suo ebrai-smo sono ancora una volta alleati, nell’attrarre l’attenzionealla luce della vita terrena, piuttosto che a qualche telos oltrequesto mondo».18

Siamo agli antipodi della cura di sé come gestione sottile deiprocessi interiori e privati, in questo caso le emozioni diven-tano un decisivo fattore propulsivo di ascesa e di sviluppo:

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in uno slancio vivo e caldod’amore, io volerò in altoverso la luce, che nessuna vistaha penetrato mai!Io morirò per vivere. Risorgerai, certo risorgerai,mio cuore in un istante!Tutto ciò che da te vinto sarà,a Dio ti condurrà!17

Il triplice significato di ‘geschlachen’ – le lotte del cuore, ilsuo fisico pulsare, ed il ritmo musicale – viene ora espressodall’orchestra, con le percussioni, gli ottoni, l’organo e gli ar-chi che attaccano tutti, enfaticamente, sulla prima battuta.La temporalità e la felicità del suono... divengono qui il vei-colo della redenzione, e dell’esistenza redenta.19 !

17 Cit. in Martha C. Nussbaum, L’intelligenza... cit., p. 746.18 Ivi, p. 750.19 Ivi, p. 751.

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Non tutto il male viene per nuocere se Lucio Magri, pur con-statando amaramente all’inizio: «Sono così un particolare ar-chivio vivente e in soffitta», è riuscito a scrivere un libro co-me Il sarto di Ulm (sottotitolo: Una possibile storia del PCI).Agli occhi di chi scrive – che non ha condiviso e non condi-vide molte delle sue posizioni e delle sue tesi – la sua opera hail merito fondamentale di reagire in modo efficace a un brut-to clima culturale che costruisce una caricatura ideologicadella Storia del Partito comunista italiano per condizionare lapolitica di oggi. Un clima culturale, peraltro, al quale contri-buisce purtroppo in modo decisivo, sia il cosiddetto ‘silenziodei comunisti’ (per non parlare delle abiure...), cioè, di colo-ro che nel Pci hanno militato e che, quindi, a quasi venti an-ni dalla sua fine formale, sono ancora tantissimi, sia la dam-natio memoriae a cui il ‘revisionismo’ imperante sembra avercondannato la storia del Partito di «Gramsci, Togliatti,Longo, Berlinguer» che tanta parte ha avuto nella storia delnostro Paese. È proprio una «storia negata» come dice il ti-tolo di un bel libro curato da Angelo Del Boca sull’odiernouso politico della storia che contiene un efficace saggio diAldo Agosti intitolato emblematicamente La nemesi del pattocostituente. Il revisionismo e la delegittimazione del PCI. Si di-stingue tra gli altri il «Corriere della Sera», che nelle sue pa-gine culturali, monocorde, continua a proporre un’immaginedeformata e, appunto, caricaturale, del Pci, della sinistra, del-la Resistenza, della Costituzione, dell’antifascismo, al fine dipromuovere la riscrittura dei fondamenti della Repubblica e

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IL SARTO DI ULM DI LUCIO MAGRIErnest L’ipotesi del «genoma gramsciano»

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blindare l’attuale imperfetto bipolarismo sulla linea culturaledi quello che con un brutto, ma azzeccato, neologismo è sta-to chiamato a-antifascismo. Luca Telese ha scritto un causti-co libro di oltre settecento pagine sulla storia del supera-mento/scioglimento del Pci intitolato come un profetico egeniale monologo di Giorgio Gaber dell’inizio anni NovantaQualcuno era comunista, una sintesi geniale e straordinariadegli stati d’animo di un’epoca, di una comunità, di una ge-nerazione:

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... Come? Se ero comunista? Eh. Mi piacciono le domande dirette.Volete sapere se ero comunista? No, no finalmente perché adessonon ne parla più nessuno, tutti fanno finta di niente e invece è giu-sto chiarirle queste cose, una volta per tutte, ohhh. Se ero comuni-sta? Mah? In che senso? No voglio dire…... Qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altro/Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa daquella americana/ Qualcuno era comunista perché pensava di po-ter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri/ Qualcuno eracomunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa dinuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentivala necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza,un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiarele cose, di cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancioognuno era come… più di se stesso, era come… due persone inuna. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il sen-so di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cam-biare veramente la vita.No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le alisenza essere capaci di volare, come dei gabbiani “ipotetici”. E ora? Anche ora ci si sente come in due, da una parte l’uomo in-serito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria so-pravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanchel’intenzione del volo, perché ormai il sogno si era rattrappito... Duemiserie in un corpo solo.

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Dunque, il Pci, pur pieno di contraddizioni, non è stato af-fatto quello che oggi ci raccontano in modo becero, dozzina-le, gli anticomunisti alla Berlusconi o le rimozioni liquidatoriedi quelli che «non sono mai stati comunisti». Anche Magriper intitolare il suo libro usa la metafora del volo citando unapoesia di Brecht usata da Ingrao durante un’assemblea e de-dicata appunto al Sarto della Città di Ulm che era fissato conl’idea di poter volare e, un giorno, andò dal Vescovo con unpaio d’ali realizzate nel suo laboratorio e, sfidato a dimostra-re che funzionavano, si lanciò nel vuoto schiantandosi sul sel-ciato. Nonostante il commento del Vescovo dopo alcuni seco-li, dice Brecht, gli uomini impararono a volare. Invece, il volodel comunismo sembra finito per sempre. E i comunisti italia-ni nonostante la loro «diversità» e il «caso italiano» si sono dis-persi nell’oblio del disimpegno, oppure sono finiti nel Pd, enella diaspora di tante esperienze politiche diverse e per nien-te simili a quella del Pci. Magri non cerca di costruire solo untradizionale libro di storia, tanto meno un memoriale della suastoria personale di dirigente del Pci, fondatore del Manifesto,radiato nel 1970, rientrato con il Pdup grazie alla «svolta» diBerlinguer, fermo oppositore del «nuovismo» e della svolta diOcchetto, deluso dall’esperienza di Rifondazione Comunista.Il libro è una riflessione storica «controfattuale», a tutto cam-po, dalla Svolta di Salerno alla fine del partito, che, a partiredal Pci, scruta con attenzione il campo mondiale e quello ita-liano per rispondere a due questioni fondamentali.La prima si lega alla speranza «di trovare nella concreta esplo-razione di un lontano passato qualche forte appiglio per capi-re meglio e dare significati più vasti alla parola “comunismo”».Obiettivo fallito, ammette Magri, perché la proposta di un’al-ternativa vera alla società capitalistica non è stata neanche ab-bozzata dalla sinistra in Occidente, l’Urss si è dissolta e la Cinaè andata in tutt’altra direzione. La seconda riguarda l’interro-gativo se fosse possibile far leva sullo specifico patrimonio cul-turale del Pci, in particolare su quello che Magri chiama «ge-noma Gramsci», per costruire una rifondazione «comunista»

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nell’epoca della globalizzazione. Magri ritiene di sì, ripropo-nendo le elaborazioni più avanzate della Sinistra del Pci che siopponeva alla svolta di Occhetto. In questo, francamente, èdifficile seguirlo anche perché il lascito storico e politico diquella battaglia congressuale non è stato certo positivo e nonsembra che abbia lasciato segni profondi o semi fecondi.Proprio Magri, del resto, evidenzia in modo molto acuto i mu-tamenti della struttura e della sovrastruttura a livello globale.Ritenere possibile in quella fase storica una rifondazione co-munista, nei fatti, «in un solo Paese» appare un po’ temerario.Più importante e anche stimolante, invece, mi sembra la ri-flessione sul fatto che il grande patrimonio culturale del Pcipotesse essere investito in modo diverso in alcuni momentistorici fondamentali. Riflettere sul Pci, infatti, consente di af-frontare, in modo non scontato, i grandi nodi delle trasfor-mazioni che hanno attraversato il nostro Paese e il mondo edi comprendere meglio anche alcune contraddizioni attuali.Magri rifiuta, dunque, le liquidazioni sommarie, le caricaturee le ricostruzioni autoconsolatorie, o, peggio, «giustificazio-niste» e si cimenta in modo dialettico, anche se attraversatoda una sincera ispirazione positivista e illuminista, con ‘le ar-mi della critica’. Se la linea di Togliatti con la svolta di Salernoe il Partito Nuovo di massa gli sembra giusta, avanzata, con-divisibile quasi geniale, non altrettanto, ai suoi occhi, lo sonoi ritardi nel dare sostanza riformatrice all’azione di governodei comunisti e la permanenza nello stesso partito di una sor-ta di dualismo tra partito dei quadri e partito di popolo. Se èaccorta, lungimirante, avanzata la strategia che porta allaCostituente, al Referendum Monarchia/Repubblica e all’ap-provazione della Costituzione, molto arretrata gli sembra l’a-nalisi economica e sociale e oscillanti le proposte per collega-re alla ricostruzione, il superamento dei limiti storici dello svi-luppo e, nello stesso tempo, la realizzazione di trasformazio-ni in grado di incidere profondamente sui rapporti sociali. AMagri pare che il Piano del Lavoro di Di Vittorio arrivi tar-di quando la sconfitta è già maturata. È un filo rosso che at-

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traversa il libro quello delle occasioni perdute in cui sono,ovviamente, stigmatizzati i ritardi del Partito nell’assumereper intero il grande lascito di Gramsci, il preziosissimo «ge-noma gramsciano», che consente al Pci quella capacità di ra-dicarsi profondamente nella democrazia e nella cultura italia-ne in modo peculiare e assolutamente unico. Ma quello stessolascito viene in qualche modo assunto in modo ossificato e im-poverito senza assumere fino in fondo il valore e la complessi-tà di intuizioni come quelle del blocco storico, del modernoPrincipe, del rapporto tra struttura e sovrastruttura, del rap-porto con i movimenti e la società civile. Ma è in Americanismoe Fordismo e nelle sue acutissime osservazioni sullo sviluppo ela modernità che Magri individua l’apice di un’elaborazionegramsciana in grado di capire le dinamiche dello sviluppo ca-pitalistico e di individuare un’alternativa. La classica linea sto-rica ufficiale – Machiavelli, De Sanctis, Labriola, Gramsci –consente sì al partito di diventare lo strumento formidabile diuna grande operazione di educazione di grandi masse di po-polo alla lotta democratica, ma, a parere di Magri, non con-sente di esprimere compiutamente le forze avanzate che siesprimono nella società e di costruire orizzonti politici e so-ciali più avanzati. Così, secondo Magri, il Partito non riesce arappresentare tutta la ricchezza della vittoria sulla legge truf-fa del 1953, del miracolo economico, della ripresa delle lotteoperaie negli anni Sessanta, del Sessantotto, della vittoria nelreferendum sul divorzio, delle vittorie elettorali del 1975/76,del movimento del ’77, dei nuovi movimenti per la Pace, perl’ambiente e la liberazione delle donne degli anni Ottanta,del movimento di massa contro la scala mobile.Se si può certamente ritenere molto discutibile sul piano del-le valutazioni politiche questa analisi di Magri che risentemolto della sua collocazione politica nel Partito prima, nelManifesto poi, sembra, invece, molto stimolante un ragiona-mento di merito sui limiti effettivi delle politiche riformatri-ci del Pci. Nonostante grandi meriti ed elaborazioni avanza-tissime dovute anche a un grande radicamento del partito tra

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le componenti intellettuali più avanzate del Paese, Magri, se-condo chi scrive, coglie in molti passaggi efficaci del suo libroun limite generale di subalternità e di difficoltà nel compren-dere fino in fondo i processi strutturali legati alle crisi e alle ri-strutturazioni del capitalismo. Nel Pci il concetto della «clas-se operaia che si fa Stato» diventa, anche per la concomitan-te – necessaria e meritevole – azione democratica contro loscelbismo, le repressioni antioperaie, le trame nere, le stragi eil terrorismo, il farsi carico fino in fondo delle compatibilità (edella «salvezza») del sistema al fine di una piena legittimazio-ne politica. E questo diventa un limite, appunto strutturale,per poter costruire un’effettiva azione riformatrice che non siriduca alla modernizzazione e al superamento delle sacche diarretratezza. Le grandi esigenze di rinnovamento espresse daampi movimenti della società si incontrano con un’azione po-litica spesso non in grado di produrre risultati adeguati inmolti campi decisivi, a cominciare da quello della Scuola edell’Università. La sinistra e il Sindacato seppero scrivere pa-gine di storia bellissime che hanno contribuito allo sviluppodelle democrazia italiana in tutto il periodo storico analizzatonel libro di Magri. Vale la pena, in questa chiave, affrontare ilnodo degli anni Settanta e del modo in cui il Pci cercò di da-re una risposta al Sessantotto. La manifestazione di ReggioCalabria nel 1972 (quella della stupenda canzone di GiovannaMarini I Treni), le lotte per un nuovo modello di sviluppo eper il Mezzogiorno, per la casa, per la riforma della Scuola, fu-rono anche un tentativo di delineare un possibile «blocco sto-rico» alternativo, quasi commovente nel suo tentativo di co-struire una grande democrazia «che avanza e si organizza»,addirittura a partire dai Comuni, dalle Regioni, dai Consigli diquartiere, dagli Organi collegiali della scuola, dai Consigli dizona sindacali aperti agli studenti e altri soggetti, un vero eproprio, per usare un’espressione di Putnam, nuovo senso ci-vico. Su tutto questo i limiti strutturali dell’azione riforma-trice del Pci hanno pesato. Tanto è vero che gli unici risulta-ti concreti ottenuti durante i difficilissimi anni della Solida-

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rietà nazionale sono stati legati a intuizioni brillanti, ma spes-so isolate e destinate alla sconfitta. Penso, per esempio, allaLegge 285 che portò centinaia e centinaia di migliaia di gio-vani disoccupati e studenti a organizzarsi in Leghe per effet-tuare lavori socialmente utili e frequentare Corsi di forma-zione professionale. Un’esperienza di movimento entusia-smante, ma risultati strutturali sul piano economico e socia-le assai scarsi se non negativi.Un’altra critica di Magri, relativa alla eccessiva prudenza delPci nell’usare la sua grande influenza per determinare esitidiversi anche nella politica internazionale, sembra a chi scri-ve non infondata anche se, forse, basata su una eccessiva so-pravvalutazione delle effettive possibilità di azione. È veroche il lascito togliattiano del Memoriale di Yalta non fu capitofino in fondo e le sue indicazioni lungimiranti e profetichenon portarono a scelte politiche conseguenti. Ma è altrettan-to vero che il contrasto Urss/Cina non poteva essere sanatosenza superare alla radice la logica di potenza e, comunquenazionale, che ispirava la loro politica. Occorreva un quadrointernazionale multipolare diverso, fondato su una coopera-zione internazionale in grado di superare in positivo la Guerrafredda. Berlinguer si sforzò di definirlo nella prima metà de-gli anni Settanta puntando sui Paesi non allineati, su Brandt,Palme, Kreysky e tante altre personalità. Fece anche il tenta-tivo dell’Eurocomunismo (con gli improbabili Marchais eCarrillo) per cercare di dare sostanza a un’idea alternativa diEuropa, sponda di un rinnovamento a tutti i livelli.Successivamente il Pci rafforzò la sua ispirazione europeistarecuperando un rapporto con i federalisti europei e, in parti-colare, con Altiero Spinelli. Pur con gravi limiti e contraddi-zioni, forte della sua ispirazione democratica e nazionale enonostante i condizionamenti derivati dal «legame di ferro»con l’Urss e il movimento comunista internazionale, il Pci eb-be un ruolo importante nel processo di distensione interna-zionale, nel superamento del colonialismo e nel tentativo didisegnare un nuovo ordine internazionale. Pur sconfitto, quel

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tentativo conteneva alcune intuizioni lungimiranti. Oggi, in-fatti, in un mondo molto diverso, quei nodi si ripropongonoin modo ancora più pressante proprio perché allora tutte le«terze vie» furono sconfitte anche perché troppo fragili e con-traddittorie. E veniamo al protagonista di gran parte del libro di Magri:Enrico Berlinguer. Magri individua «due» Berlinguer. Il «secondo» Berlinguer,secondo Magri, imposta una svolta strategica incompiuta perle resistenze del gruppo dirigente e anche per la sua morteprematura. In realtà questa sorta di schematizzazione indebo-lisce lo stesso ragionamento di Magri. «Siamo conservatori erivoluzionari», disse Berlinguer, per spiegare non solo le con-traddizioni del Pci, ma la sua stessa natura. In realtà, anche il«primo» Berlinguer cerca di forzare i limiti imposti alla politi-ca del Pci e di costruire un processo di rinnovamento. Anchela proposta del «compromesso storico» dopo i fatti cileni, ap-pare accompagnata in modo non strumentale, dal concetto di«seconda tappa della rivoluzione democratica antifascista»nel tentativo di dare un orizzonte concreto e possibile alle spe-ranze di rinnovamento del Paese. Magri non sarà d’accordo,ma nel convegno dell’Eliseo, quello passato alla storia per ilconcetto di «austerità», molti dei temi che lui attribuisce al«secondo» Berlinguer erano già presenti, così come la rispo-sta al Movimento del ’77 e al «partito armato» non si limitasolo alla contrapposizione, ma anche, al tentativo di costruireun «nuovo movimento» giovanile alternativo, guardato consospetto da una parte del gruppo dirigente, ma con grandesimpatia e condivisione da Occhetto, Tortorella, Natta e mol-ti altri. Anche Ugo Pecchioli difese il Segretario della Fgci bo-lognese arrestato dalla polizia alla testa di un corteo studente-sco perché trovato in possesso di una spranga per difenderela manifestazione dagli Autonomi che negavano l’agibilità de-mocratica ai comunisti nelle scuole, dicendo, papale, papale:«Lo scappellotto ha una funzione pedagogica!».Pio La Torre quando un grande movimento di popolo soc-

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corre l’Irpinia e la Basilicata colpite dal terremoto e denunciail disastro del malgoverno trovando una sponda straordinarianel Presidente della Repubblica Sandro Pertini, aiuta con tut-to il peso dell’Organizzazione del Pci la Fgci e quel movimen-to. E quando Enrico Berlinguer in un bellissimo messaggio sirivolge ai pacifisti del Campo di Comiso, caricati dalla polizia,quelli del Pci sono già lì da un bel pezzo (grazie alla Fgci, a TomBenetollo, Renzo Trivelli e a qualche altro) e quel messaggio so-no loro a chiederlo e a ispirarlo telefonando dal telefono a get-toni della sezione del Pci. E se le gigantesche manifestazioni pa-cifiste contro i missili scelgono di non essere solo antiamerica-ne, ma anche contro la politica di potenza dell’Urss, questo sideve anche a quella presenza. Anche questi fatti sono, certo,parziali e condizionati dalle esperienze di chi scrive, ma servo-no per cercare di dialogare al meglio con Magri. È l’intera esperienza, contraddittoria e drammatica, di EnricoBerlinguer che cerca di costruire un orizzonte di rinnova-mento per il Pci, per la Sinistra internazionale e per l’Italia. Lerisposte «da sinistra» cercate da Magri, forse, non erano ve-ramente possibili. E anche il tentativo di Berlinguer, aveva li-miti storici oggettivi e soggettivi, forse, insormontabili. Ma,certo, essersi liberati troppo in fretta di un patrimonio, politi-co, ideale, culturale e umano, sperando così di legittimarsi nel-la nuova epoca – e vale per tutti i soggetti politici derivati daquell’esperienza, compresa la ‘sofferta’ esperienza del Pd – hacontribuito allo sfondamento della Destra e all’esito finale del-la transizione italiana. È condivisibile la constatazione di Magriche i movimenti politici e sociali di oggi sono largamente ina-deguati, ma proprio il «genoma gramsciano» legato a una fi-losofia della prassi mai ossificata, perché capace di storicizza-re anche se stessa, mi porta a sperare come, anche senza l’o-rizzonte del «comunismo», la «vecchia talpa» possa ricomin-ciare a scavare nella giusta direzione. !

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Bruno Trentin viene eletto segretario generale della Cgil il 29novembre 1988. Avrebbe compiuto 62 anni pochi giorni do-po. Il primo atto della sua segreteria è stata la conferenza pro-grammatica che si svolse a Chianciano nell’aprile successivo. Iltitolo di essa contiene già il programma di Bruno: Per una nuo-va solidarietà riscoprire i diritti, ripensare il sindacato. Nella re-lazione introduttiva affronta quasi tutti i nodi irrisolti della po-litica sindacale: l’ambiguità della storia, il rapporto tra svilup-po e natura e ambiente, la politica dei redditi e il debito pub-blico, la necessità di affrontare in termini nuovi la contratta-zione, la democratizzazione dell’economia e delle imprese. Maè su due punti su cui insiste maggiormente: il sindacato nondeve presumere di essere per la classe e deve partire nella suaazione non più dalla classe, ma dalla persona che lavora; e insecondo luogo deve farsi portatore dei diritti universali e dive-nire uno dei protagonisti principali della società civile orga-nizzata e riformata con un proprio progetto di società.In seguito, soprattutto in preparazione del XII congresso del-la Cgil, introdurrà un nuovo concetto, quello di sindacato ge-nerale che sostituisce il sindacato di classe di matrice ideologi-ca, ancora in buona parte presente nella Cgil, nonostante il su-peramento, in corso da tempo, della cosiddetta ‘cinghia di tra-smissione’ con i partiti della sinistra e in particolare con ilPartito comunista. Occorre prendere atto – questo il pensiero

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ATTUALITÀ DEL PENSIERO DI BRUNO TRENTIN*Iginio Ariemma La nascita del sindacato

dei diritti

* Testo tratto dall’Introduzione al volume di Iginio Ariemma (a cura di),Il futuro del sindacato dei diritti. Scritti e testimonianze in onore di BrunoTrentin, Ediesse, 2009.

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di Trentin – che esiste una crisi di rappresentatività del sinda-cato, la quale è accelerata e aggravata dalla caduta – inevitabi-le e pur positiva – della ideologia classista. Il movimento sin-dacale potrebbe essere travolto dalla disgregazione e dalla de-riva corporativa, così da oscurare le caratteristiche migliori epiù originali del sindacalismo italiano: la territorialità e la ge-neralità, le quali si esprimono innanzitutto nella confederalità,cioè nella capacità di dare rappresentanza solidale a tutte le ca-tegorie di lavoratori, agli attivi e a quelli disoccupati o in pen-sione. Il sindacato dei diritti è la risposta a questa deriva. In es-so «il programma diventa vincolo» e dunque «richiede co-erenza di comportamento, verifica dei risultati, responsabilitàdei gruppi dirigenti (e non più giustificazione, legittimazionedi una condotta quotidiana, sempre capace di combinare il fi-nalismo ideologico con il pragmatismo senza principi)», diràad Ariccia, il 18-19 novembre del 1990 quando proporrà disciogliere la componente comunista all’interno della Cgil.Il che non significa negazione del pluralismo interno, ma laCgil deve essere in grado di dare rappresentanza al plurali-smo sociale, politico, culturale che esiste nella classe lavora-trice reale, non a quello esterno, al di fuori di essa.

Il quadro storico entro cui nasce il sindacato dei diritti è no-to: il crollo del comunismo e del socialismo realizzato del-l’Unione sovietica e dei Paesi dell’Est, crollo che raggiungeràil suo culmine simbolico alcuni mesi dopo la conferenza diChianciano, nel novembre 1989, con la caduta del muro diBerlino. Bruno conservava sulla sua scrivania un pezzetto diquel muro donatogli non so da chi. Per lui il collasso di que-ste società totalitarie non era certamente una sorpresa. Già nel1956, dinanzi alla repressione della rivoluzione ungherese daparte dell’Urss, aveva preso, accanto a Di Vittorio e alla se-greteria della Cgil, una netta posizione contro quelli che poidefinirà «i regimi oppressivi degli Stati comunisti». Le rivolu-zioni di velluto del 1989 lo confermano nelle sue profondeconvinzioni maturate da tempo: «la storia non ha uno svilup-

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po ineluttabile» e «non può esistere un modello di società chedà all’individuo la felicità al di sopra della nostra personale esofferta esperienza critica»; la libertà e la democrazia non pos-sono essere subordinate al progresso materiale e al mutamen-to della struttura economica, ma sono condizioni per lo svi-luppo civile, economico e sociale. Quando Achille Occhetto propone lo scioglimento del Pci ela formazione di un nuovo partito della sinistra Trentin nonsta a guardare. Dopo l’annuncio della Bolognina, si impegnain una battaglia politica, come ben ricordo, perché quel mu-tamento sia il meno possibile soltanto di nome e simbolico(comunismo sì o no, falce e martello sì o no), ma riguardi icontenuti e un nuovo progetto di società. Propone infatti cheil congresso per dare avvio alla costituente del nuovo partitosia preceduto da un congresso di programma, un po’ comeegli aveva fatto con la Cgil a Chianciano. Invece si fa l’oppo-sto: prima il congresso sul nome, con un dibattito, anche mol-to appassionato e vivo, che dura tutto l’inverno fino a marzo,poi la dichiarazione di intenti e la proposta di cambiamentodel nome e del simbolo e infine la conferenza programmati-ca, oramai a giochi fatti, che ovviamente fallisce.Con il partito c’è una sorta di cammino parallelo, da partedella Cgil. A novembre del 1990 viene sciolta la corrente co-munista all’interno della Cgil, poi viene avviata la realizzazio-ne del XII congresso che avrà svolgimento a Rimini dal 23 al27 ottobre del 1991, mentre il congresso di scioglimento delPci avviene a febbraio dello stesso anno. La mia impressione,tuttavia, è che in quel periodo Trentin si muova in modo mol-to autonomo, cercando in una certa misura di sopperire alvuoto progettuale politico. Ne sono testimonianza non soltan-to le tesi congressuali che hanno lo spessore proprio del parti-to politico, ma soprattutto il programma fondamentale che staalla base delle tesi programmatiche. Il programma fondamen-tale è una novità assoluta per il sindacato, ma pienamente co-erente con l’impostazione data da Trentin a Chianciano mi-rante a ripensare dalle fondamenta la politica e la strategia sin-

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dacale in direzione di un sindacato non ideologico, ma di pro-getto e dei diritti.

I fili di continuitàIl sindacato generale dei diritti e di programma rappresentacertamente uno sviluppo della concezione sindacale e politi-ca di Trentin. Ma evidenti sono anche i fili di continuità conl’esperienza e l’elaborazione precedenti, maturate prima afianco di Di Vittorio, il suo grande maestro, come sempre ri-conoscerà (l’ultima riflessione, nel suo diario personale, è pro-prio dedicata a Di Vittorio e al suo insegnamento), poi, neiquindici anni, dal 1962 al 1977, in cui è stato segretario deimetalmeccanici, alla Fiom e alla Flm, e artefice, oltre che ilprincipale teorico, del Sindacato dei Consigli.A questo proposito intendo riportare soltanto due episodi,forse poco conosciuti. Il primo è relativo agli anni Cinquanta,dopo la sconfitta della Fiom alla Fiat del 1955 nella elezionedelle Commissioni interne e dopo «l’indimenticabile 1956».Tra le carte di Bruno ho trovato una sua lettera a PalmiroTogliatti del 2 febbraio 1957 in cui Trentin contesta a Togliattiun giudizio che aveva dato in un intervento al comitato cen-trale del Pci. Il segretario comunista aveva detto «che nonspettava ai lavoratori prendere iniziative per promuovere edirigere il progresso tecnico» e che «la funzione propulsivanei confronti del progresso tecnico si esercita unicamente at-traverso la lotta per l’aumento dei salari». Trentin non è d’ac-cordo e scrive: LET

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Francamente noi pensiamo che la lotta per un controllo e ungiusto indirizzo degli investimenti nelle aziende presupponga inmolti casi una capacità di iniziativa da parte della classe operaiasui problemi connessi con il progresso tecnico e la organizza-zione del lavoro che tenta di sottrarre al padrone la possibilità didecidere unilateralmente sulla entità, gli indirizzi, i tempi di rea-lizzazione delle trasformazioni tecnologiche e organizzative.

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Come si vede in questa lettera – e siamo all’inizio del 1957 –c’è già molto del pensiero di Trentin, pensiero che cercheràdi sperimentare negli anni successivi, soprattutto nell’autun-no caldo, ma a cui resterà fedele anche dopo, negli anni delsindacato dei diritti. Compresa la sua sottovalutazione, inuna certa misura, della lotta per il salario, rispetto ai proble-mi dei diritti e delle libertà del lavoro e nel lavoro.Successivamente darà spessore teorico a questa concezionedel sindacato, in particolare con le due relazioni che terrà aiconvegni dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capitali-smo italiano ed europeo del 1962 e 1964. Il secondo episodio riguarda l’unità sindacale. Nessuno, cre-do, può rimproverare a Bruno di essere stato antiunitario etanto meno settario. L’unità, era per Trentin, come per tutti idirigenti formati da Di Vittorio, non soltanto un mezzo, ma unvalore in sé. Ma quale unità? E specialmente come procedereverso di essa? C’è stato un momento, dinanzi alle lentezze, in-congruenze e resistenze, fratture del processo unitario confe-derale, in cui il gruppo dirigente della Flm discusse a lungo diprocedere comunque e di dare vita a quella che allora vennedefinita «l’unità a pezzi». Trentin si pronunciò contro e si op-pose. Perché? La spiegazione a me sembra abbastanza linea-re: Bruno temeva che il ruolo di avanguardia svolto dai metal-meccanici potesse essere stravolto o addirittura essere «corpo-rativizzato» se veniva a prodursi una rottura con le confedera-zioni e se veniva a mancare o per lo meno a offuscarsi quellavisione di sindacato generale in cui già allora credeva e che sa-

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Una simile iniziativa appare, almeno a noi, come la condizione,in molti casi, per poter dare alla contrattazione di tutti gli ele-menti del rapporto di lavoro (e quindi anche dei tempi di pro-duzione, degli organici e delle stesse forme di retribuzione) unsuo contenuto effettivo: poiché la nostra impossibilità di con-trapporre ad un dato indirizzo degli investimenti aziendali unnostro indirizzo porrebbe dei limiti sostanziali agli sviluppi del-la contrattazione aziendale.

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rà a fondamento del sindacato dei diritti.Va ricordato che per lui i Consigli dei delegati, che avranno lamassima espansione in quegli anni, non sono strumenti poli-tici o parapolitici, di contropotere antisistema, come propo-neva «il Manifesto», ma organi a tutti gli effetti del sindacato,un sindacato rinnovato e unitario, che risponde non soltantoagli iscritti ma a tutti i lavoratori, che promuove e organizzala democrazia operaia, senza smarrire il senso generale e soli-dale della lotta e il ruolo delle istituzioni democratiche. PerTrentin è sempre il sindacato, come soggetto politico, rifor-matore della società civile, il protagonista principale.

Una visione innovativa della democrazia e dei dirittiBruno Trentin ha una visione della democrazia, se non pro-prio eretica, sicuramente innovativa. Per due motivi sostan-ziali. Perché considera la democrazia come condizione im-prescindibile e fattore dello sviluppo anche economico e insecondo luogo perché ritiene che la stessa sovranità popolarenei suoi presupposti fondamentali, cioè il suffragio universa-le, il principio di maggioranza, la separazione dei poteri, l’au-tonomia delle diverse istituzioni, sia il risultato delle libertà edei diritti o meglio della possibilità di autodeterminazione edi autotutela individuale e ancora di più collettiva. È dunqueuna concezione della democrazia che scaturisce dal basso, dauna società civile organizzata e riformata, nella quale il movi-mento sindacale può e deve svolgere un ruolo primario. Al centro c’è la libertà. E innanzitutto la libertà del lavoro enel lavoro. In quanto il lavoro è uno strumento, forse quelloprincipale, «di autorealizzazione della persona umana, unfattore di identità e insieme di cambiamento». La libertà vie-ne prima si intitola l’ultima raccolta dei suoi scritti del 2004.La libertà viene prima significa che non può essere rinviata adopo: prima la conquista del potere politico, poi la libertà, enemmeno prima il conflitto distributivo del reddito e poi lalibertà. Anche rispetto alle istanze egualitarie la libertà vieneprima. L’essere liberi significa avere spazi di autonomia e di

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autoregolazione, che non vengono regalati, ma conquistati, equindi la libertà contiene intrinsecamente la conflittualità. Diqui l’originalità della sua visione, che, in qualche modo, ri-flette la sua radice azionista.Molto netta è sempre stata in Bruno l’avversione critica a unaconcezione verticistica del potere di matrice leninista. Mi con-vinco sempre più che il suo orizzonte sia continuato a esserequell’abbozzo di Costituzione che suo padre Silvio, poche set-timane prima di morire, gli aveva dettato nella clinica diMonastier, quando aveva poco più di diciassette anni. Una co-stituzione molto avanzata, che ha come finalità la costruzionedi una repubblica, di chiara marca federalista, che guardaall’Europa e che si fonda e articola sui consigli aziendali e ter-ritoriali, nelle diverse Regioni. Quello che Silvio Trentin prefi-gura è uno Stato che cerca di comporre liberalismo e comuni-smo, a partire dai grandi principi della libertà della persona edella proprietà collettiva, dell’autonomia delle diverse istitu-zioni democratiche e della giustizia sociale. Questo progetto,di cui abbiamo scoperto non molto tempo fa il testo originalecon la scrittura e persino i francesismi di mano di Bruno, è lasua utopia, il modello immaginario a cui è rimasto affezionato.

La nuova frontiera dei diritti culturaliBruno non ha una visione astratta o vaga e tanto meno retori-ca dei diritti. Oggi si assiste purtroppo all’inflazione rivendica-tiva, anche sindacale, dei diritti diffusi, con il rischio evidentedi frustrare e di annebbiare i veri diritti che dovrebbero esse-re collegati alla autotutela collettiva. Si riserva – è vero – il di-ritto all’utopia, dopo la morte storica del comunismo. Ma inmodo semiserio. «Non si condanna all’inferno il diritto all’u-topia», dice nella relazione al XII Congresso della Cgil.Sapeva bene che «i diritti sono storicamente relativi», ma an-che lui come Norberto Bobbio credeva che quella attuale siaL’età dei diritti (è il titolo del libro di Bobbio, uscito per i tipidi Einaudi proprio nello stesso periodo, alla fine del 1990), dicui la sinistra sociale e politica si deve fare sostenitrice. Non

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a caso l’articolo primo della Dichiarazione universale dei di-ritti dell’uomo del 1948 recita così: «Tutti gli esseri umani na-scono liberi e eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragio-ne e coscienza e devono agire verso gli altri in spirito di fra-tellanza». Si badi, «liberi e eguali in dignità e diritti», nonuguali come realtà di fatto, naturale o empirica e oggettiva, ilche non sarebbe vero. «La Dichiarazione» scrive giustamen-te Jeanne Hersch, che ha dedicato buona parte della vita al-lo studio dei diritti umani «chiama a un compito sociale, po-litico, storico, quello di rendere uguali, e quindi di migliora-re, nel corso della storia, le occasioni della libertà responsa-bile» (I diritti umani da un punto di vista filosofico, BrunoMondadori, 2008, p. 76). Nel programma fondamentale del XII congresso della Cgil idiritti che vengono proclamati non sono quelli civili e politi-ci ovviamente, ma quelli sociali. Sia di carattere individuale,(al lavoro, alla formazione, alla salute, a un reddito equo, allamaternità e paternità, alla conoscenza e informazione, a par-tire dai luoghi di lavoro), sia di natura collettiva (all’organiz-zazione sindacale volontaria, alla contrattazione, alla parteci-pazione delle decisioni aziendali). Per Trentin i diritti econo-mico-sociali, a cominciare dal diritto al lavoro e dalla libertàdel e nel lavoro, hanno la medesima portata dei diritti civili epolitici al fine di garantire eguale opportunità a tutti i cittadi-ni. Sono le precondizioni, avrebbe detto Piero Calamandrei,attraverso le quali ognuno di noi afferma ed esercita la pro-pria libertà.

Negli ultimi anni Bruno Trentin cerca di oltrepassare la terzafrontiera dei diritti: quella dei diritti culturali. Il diritto allaconoscenza e alla formazione permanente nell’arco di tutta lavita diventa la sua missione. Bruno era convinto che ci tro-vassimo di fronte alla terza rivoluzione industriale, dopo quel-la dell’Ottocento e quella fordista del Novecento. Non ama-va utilizzare termini che considerava poco limpidi, come so-cietà terziaria, postfordismo, postindustriale. Una rivoluzione

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che ha molteplici aspetti: l’espandersi e il rapido avvicendar-si del progresso tecnico, dell’informatica e del mondo dellatelecomunicazione, il prevalere dell’investimento immediato,spesso speculativo, rispetto a quello di lunga durata, il muta-mento del potere tra azionisti e managerialità, l’affermarsi del«capitalismo totale e personale», che non risparmia purtrop-po neppure la vita del lavoratore, nel lavoro ma anche nelconsumo, per usare l’espressione di Marco Revelli. Come edove cercare una nuova soggettività sociale e politica in gra-do di costruire una alternativa e di scongiurare «la secondarivoluzione passiva» come la definisce sull’onda del pensierogramsciano?Al centro della sua ricerca continua a esserci il nesso tra liber-tà e lavoro, ma tra i due termini un terzo concetto acquistaparticolare pregnanza: il sapere. La prospettiva che il sindaca-to del Duemila offre alle nuove generazioni non può esserequella di un lavoro qualunque – aveva detto a Chianciano –ma deve essere quella di trasformare la qualità del lavoro e dicostruire un nuovo rapporto tra lavoro e conoscenza. La co-noscenza è fondamentale non soltanto per avere più libertà,più autodeterminazione, ma anche per coniugare libertà e re-sponsabilità. E, conseguentemente, per formare nuove classidirigenti a tutti i livelli.Il punto più alto di questa elaborazione lo raggiunge nellalectio doctoralis, in occasione della laurea honoris causa con-segnatagli dall’Università di Venezia nel 2002. Polemizzandocon coloro che predicano la fine del lavoro, Trentin dice chenon siamo alla fine del lavoro, ma al mutamento della quali-tà di esso, del suo ruolo, degli stessi rapporti di lavoro. Scrive:

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I grandi cambiamenti in corso che accompagnano l’esaurirsi del-l’era fordista, segneranno il tramonto dello stesso concetto di la-voro astratto, senza qualità – l’idea di Marx e il parametro delfordismo – per fare del lavoro concreto, del lavoro pensato equindi della persona che lavora il punto di riferimento di una

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L’introduzione delle nuove tecnologie, la rapidità e la fre-quenza dei processi di innovazione e di ristrutturazione «ten-dono a diventare non più una patologia, ma una fisiologiadell’impresa» e cambiano il lavoro rendendolo più flessibile,nei suoi vari aspetti. Ma attenti, dice, a fare diventare la fles-sibilità del lavoro una ideologia, a non capire cioè che va ac-compagnata da una riqualificazione costante del lavoratore,da un nuovo contratto sociale che innanzitutto garantiscauna formazione permanente durante tutto il ciclo di vita, ol-treché la sicurezza del reddito presente e futuro. Di qui l’im-portanza del sapere e in speciale modo del collegamento tralavoro e conoscenza: sia per evitare la riproposizione di nuo-ve disuguaglianze e di nuove gerarchie tra chi possiede il sa-pere e chi lo esegue, sia per estendere le possibilità di libera-zione della persona umana. Sulla base di questi principi, ne-gli ultimi anni lavora anche per un nuovo statuto dei dirittidei lavoratori, che aggiorni e innovi quello approvato benquarant’anni prima nel 1970.

Il respiro europeo Noi siamo convinti, come lo era Bruno del resto, che il futu-ro del sindacato dei diritti si gioca in Europa, per quanto ilpunto di partenza debba essere e non possa non essere na-zionale. Purtroppo le cose non vanno bene. Assistiamo a unproliferare di rivendicazioni nazionalistiche in materia di la-voro, a trattamenti contrattuali diversi a seconda della nazio-nalità di origine anche nello stesso territorio, a lotte fratricidee senza speranza per la difesa del posto di lavoro, a pratichedi dumping sociale, assecondate addirittura da sentenze dal-la Corte di giustizia e così via. Senza alcun tentativo serio dicostruire non diciamo piattaforme, ma almeno contatti, em-brioni di programma a livello europeo. Dopo l’allargamentodell’Europa ai Paesi ex comunisti dell’Est e dopo il fallimen-

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nuova divisione del lavoro e di una nuova organizzazione del-l’impresa stessa.

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to della Costituzione europea. Il segno prevalente è quello del-la decostruzione politica. Resta l’unificazione del mercato, lamoneta unica, ma manca un governo unitario dei processi eco-nomici e sociali. Il trattato di Lisbona, sottoscritto nel 2000,che aveva al centro una robusta strategia di costruzione dellasocietà della conoscenza, su cui tanto aveva lavorato Trentin,proprio su questo punto focale è diventato lettera morta.Aumenta tra la popolazione lo scetticismo, tanto che un illustree attento conoscitore del nostro Continente, Jorge Habermas,proprio per arrestare la deriva, ha proposto un referendumcon cui chiedere ai cittadini se sono favorevoli o no all’Unionepolitica europea. La speranza Obama, che tra l’altro guardacon interesse al modello sociale europeo, va coltivata, perse-guita e aiutata. Ma l’America di Obama non ha grande re-spiro se latita l’Europa, e non si fa sentire la parte di essa piùmoderna e progressista. !

Nota I convegni in onore di Bruno Trentin sono stati tre. Il primo ha cometitolo Il futuro del sindacato dei diritti e si è tenuto a Roma il 24 ottobredel 2008. Il secondo si è svolto a Genova il 23 novembre, sempre nel2008, e aveva al centro il rapporto tra conoscenza, libertà e lavoro. Ilterzo convegno è stato di maggiore attualità avendo come tema: Europae America, quale risposta alla crisi globale?, e ha avuto svolgimento aMilano il 3 marzo 2009.La presentazione del Diario di guerra è avvenuta a palazzo Giustiniani il16 settembre del 2008, presente il presidente della Repubblica GiorgioNapolitano. Si veda l’intervento di Stefano Rodotà.Ai convegni sono intervenuti studiosi e docenti universitari, esponentisindacali di rilievo, di diversa estrazione, che, in generale, hanno cono-sciuto da vicino Bruno Trentin, che con lui più volte hanno discusso eche hanno voluto dare, con la loro partecipazione, un contributo alla co-noscenza del suo pensiero, testimoniandone il valore e l’attualità.

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Esattamente un anno fa si concludeva aGaza la cruenta operazione difensiva israe-liana denominata «piombo fuso». Il suobilancio non è univoco, anche perché di-pende soggettivamente da chi lo fa e conquali motivazioni. Se per esempio a farlo èun cittadino distante migliaia di chilometrie coinvolto dalle notizie internazionali perlo più in modo episodico e quindi per lopiù dal punto di vista emotivo, ciò che ver-rà in primo piano è la sofferenza, il dolore:dunque, quello grande e terribile patitodai civili palestinesi coinvolti, magari ac-canto a quello meno visibile – anche senon meno concreto – e comunque menoquantitativamente consistente dei civiliisraeliani colpiti dai razzi di Hamas. Se pe-rò a farlo è un dirigente politico della sini-stra ciò che dovrebbe balzare in evidenza èun problema politico di prima grandezza,e un crudele paradosso: dopo tale opera-zione militare sono quasi del tutto cessati ilanci di razzi da parte di Hamas verso le vi-cine cittadine israeliane. Rimangono altriproblemi: l’insostenibilità delle condizionidi vita dentro Gaza, la continua e atroceprigionia di Gilad Shalit, il blocco totaledegli accessi da e per Gaza, il contrabban-do di armi. Ma quello dei razzi che ucci-devano civili israeliani è stato pressocchérisolto. Addirittura, è stato proprio Hamasa schiacciare militarmente un gruppuscolosalafita che nell’estate scorsa aveva ripresotale attività. Ecco il problema politico perla sinistra italiana ed europea, che è statacontraria a quella operazione e che vorreb-be rimuovere: quell’operazione militare harisolto uno dei problemi che avvelenanol’area. Un problema politico, perché la sua

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contrarietà seguiva il mantra «non è il mo-do di risolvere quel problema, ma anzi lopeggiorerà» ed era politicamente fatta innome della sua non-efficacia, non tanto delsuo costo umano. La diffidenza e cautelaall’uso delle armi è giusta: del resto, a par-te una certa destra guerrafondaia, nessunone è entusiasta.

Il problema della sinistra italiana ed euro-pea è però che lo è in modo ipocrita, obli-quo e moralistico. Ipocrita, perché nascenel contesto della Guerra fredda – dovel’avversario aveva il monopolio della forza edunque conveniva professarsi pacifisti – enon dalla propria intima cultura politica,basti pensare alle gloriose pagine della resi-stenza armata antinazista e antifascista.Obliquo, perché a Israele è applicata unadiffidenza – che nasce anch’essa dagli schie-ramenti nella Guerra fredda – non dichia-rata in quanto tale ma spostata tutta sullesue politiche. Moralistico, perché mutuatodal pacifismo integrale e di testimonianzadi quei cattolici avuti accanto come alleati,sempre nella e dalla Guerra fredda.

Tali considerazioni ipocrite, oblique e mo-ralistiche inevitabilmente sfociano nell’im-potenza e nello status quo. Che però nonè accettabile. E così, priva di una politicaefficace, la sinistra lascia forzatamente spa-zio a una politica unilaterale: però come inIraq, anche a Gaza è stata solo una ricettainterventista a essere incisiva. Questo per-ché non si è saputo formulare una politicaefficace nel tempo e per tempo, così trovan-dosi di fronte all’hic et nunc di un problemaoramai impellente nel quale la soluzione

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possibile diventava solo militare. Una politi-ca efficace nel tempo e per tempo si può pe-rò fare solo se si ha una cultura politica ca-pace di formulare una Weltanshauung ade-guata a tempi. Così non è oggi. Una cultu-ra politica capace per esempio di capire cheIsraele è «l’occidente dell’occidente», edunque parte di noi e non parte di un indi-stinto «altro mondo».Solo in questo modo lo si potrà poi critica-re nelle sue politiche con la legittimità ne-cessaria a essere efficace: perché proprioquesta «illegittimità» dovuta a una conce-zione sbagliata del mondo spinge la sinistraeuropea fuori del campo dove si può farepolitica. Occorre dunque che la sinistra simetta al lavoro, e di gran lena, perché iltempo passa e il ritardo si accumula. Un ri-tardo da colmare se vuole esser capace diandare oltre l’impotente e colpevole puratestimonianza non solo in conflitti difficilicome quello israelo-palestinese e medio-rientale, ma anche nella più domestica e al-trettanto difficile lotta per il potere in Italiae in Europa. !

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Osserviamo le categorie narrative principali del capolavorodel Verga, cioè lo spazio e il tempo.Lo spazio è preciso e ben delimitato: tutta la narrazione sisvolge solo nel paese di Aci Trezza. Se qualche personaggioesce dal paese, e qualcuno – pochi – lo fa, ad esempio Ntoni,Luca e Lia Malavoglia, ebbene il narratore non li segue. Bendiversamente accade nei Promessi sposi: il protagonista, RenzoTramaglino, va a Milano, poi nel bergamasco, poi torna alpaese e il narratore lo segue passo passo.Su questo punto nei Malavoglia c’è una sola eccezione: quan-do, verso la fine del romanzo, padron Ntoni si reca a Cataniaper una visita medica, scena molto breve, viene seguito dalnarratore. Per il resto no: tutto si svolge ad Aci Trezza e soload Aci Trezza.

I luoghi di TrezzaL’azione del romanzo non si svolge in tutto il paese ma inquattro o cinque luoghi deputati.Il primo di questi è casa Malavoglia, presso cui gravitano imembri della famiglia, il nonno padron Ntoni, il figlio di luiBastianazzo, che presto morirà nel tragico naufragio del pe-schereccio La Provvidenza (molti ne hanno messo in luce ilnome manzoniano), la moglie Maruzza la Longa e i vari ni-poti, figli della coppia, Ntoni il primogenito, Mena, la gentilefiglia che nutre un amore nascosto per il vicino carrettiere,don Alfio Mosca, l’altra figlia Lia, Alessi e altri. Gravitano at-

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RIFLESSIONI SU I MALAVOGLIAMario Caronna La «coralità» siciliana

come coralità nazionale

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torno a casa Malavoglia altri parenti, come la cugina Nunziatae anche alcuni clientes, come lo stesso don Alfio Mosca.Altro luogo privilegiato è l’osteria, località marginalizzata eun po’ malfamata rispetto al paese, frequentata da Santuzza,Rocco Spatu, Cinghialenta, dalla guardia comunale, donMichele, e, da un certo punto in poi, dallo stesso NtoniMalavoglia.Altro luogo deputato del romanzo è la farmacia di donFranco, dove sono presenti, oltre alla misteriosa figura dellamoglie, la Signora, il prete don Gianmaria e il segretario co-munale. È il luogo più colto del paese, chi lo frequenta hastudiato, legge il giornale e segue la politica nazionale.Il quarto luogo del paese spesso presente nella narrazione èla Piazza, dove sbocca la bottega di Vanni Pizzuto. Ivi gravi-tano moltissimi personaggi del romanzo fra cui i due ricchi,padron Cipolla e zio Crocifisso. Non si faccia l’errore di con-siderare I Malavoglia un mondo di poveri, tutte le classi so-ciali vi sono rappresentate.Vi è poi un personaggio che è onnipresente in tutti i luoghi delpaese. Si tratta di Piedipapera, che fa da messaggero, come ildio greco Ermes. Non sembri inopinato questo paragone:Luigi Russo, nella sua raffinata analisi delle opere del Verga,sostenne che nel romanzo ambientato fra i pescatori di AciTrezza sono presenti le forme dell’epos omerico. In Omerouomini e dei sono caratterizzati ciascuno con formule specifi-che (la «ditirosata Aurora», ad esempio). Così lo sono i per-sonaggi dei Malavoglia: la guardia comunale è sempre de-scritta «con la pistola sulla pancia»; e inoltre ogni personaggioha un suo soprannome: anche questa è una caratterizzazionedel personaggio che assimila il romanzo all’epica omerica.

Il tempo della narrazioneSe lo spazio del romanzo è preciso e delimitato, lo stesso nonaccade con il tempo.Rileggiamo l’incipit del romanzo:«Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi

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della vecchia strada di Trezza; adesso a Trezza non rimane-vano che i Malavoglia di padron Ntoni».Esaminiamo i tempi del verbo: per indicare il passato, per unprima che non viene raccontato ma solo sporadicamente ri-evocato, il narratore usa il trapassato prossimo (erano stati),mentre per indicare il presente si usa l’imperfetto (rimaneva-no). Questo è un tempo continuato che indica l’oggi, il pre-sente immediato, ma anche l’ieri e il giorno dopo.L’uso del trapassato prossimo e dell’imperfetto, che sono itempi continuati del passato e del presente, significa che iltempo del romanzo è un tempo indifferenziato.Ben diverso il tempo della narrazione nei Promessi sposi. Siricordi l’inizio del IV capitolo: «Il sole non era ancora tuttoapparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dalsuo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’eraaspettato». Il passato remoto (uscì) rende il tempo dell’azio-ne ben preciso e determinato: si potrebbe perfino stabilirel’ora dall’altezza del sole.Nei Malavoglia lo spazio è preciso e delimitato, il tempo è in-differenziato. Non solo, la categoria tempo ha anche un’altracaratteristica nel romanzo verghiano. Il tempo indifferenzia-to fa sì che il tempo stesso sembri scorrere senza interruzio-ne, senza salti narrativi. Sembra cioè, per esprimersi tecnica-mente, che non ci sia differenza fra fabula e intreccio, sembrache la vita si svolga con continuità. Si tratta di una sempliceimpressione. Salti nella narrazione ce ne sono ma vengono at-tenuati da una tecnica narrativa precisa. Ad esempio, nel pas-saggio dal secondo al terzo capitolo, e poi nel passaggio dalterzo al quarto capitolo, ci sono salti di tempo, ma il Verga liattenua con la tecnica del tornare indietro brevemente allanarrazione precedentemente abbandonata, per poi prosegui-re nella narrazione dopo il salto di tempo. In sostanza, anchese non è vero, si ha l’impressione che I Malavoglia sia una sor-ta di cronaca continua che rispecchi il dipanarsi ininterrottodella vita quotidiana. Sembra di essere di fronte all’autenticoscorrere della vita; e direi che questa è una delle innovazioni

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che più colpiscono della narrativa verghiana. Innovazionecongrua al verismo: la narrazione sembra svolgersi nella suarealtà come avviene per l’esistenza quotidiana.Ritornando al rapporto fra il passato, il passato mitico degli«antichi» – che poi erano stati coloro che avevano elaboratoi proverbi – e il presente, in sostanza sembra che non ci siauna sostanziale differenza: ciò che è accaduto ieri si ripete, evale, anche per l’oggi. Il tempo è ciclico; il tempo della sto-ria, quella dei libri di storia, marcia su altri ritmi, che sonoconosciuti solo da don Franco lo speziale, da don Gianmariail prete e dal segretario comunale, che hanno studiato e cheleggono il giornale. Per gli altri la storia non esiste; in qual-che caso li sfiora soltanto. Sono famose le pagine relative al-la battaglia di Lissa, che è importante per Aci Trezza perchévi è morto Luca Malavoglia e perché vi hanno partecipatomolti giovani arruolati in marina. Due reduci raccontano lavicenda dell’affondamento delle navi militari Re d’Italia ePalestro con i toni del mito: «Si erano annegati dei bastimentigrandi come Aci Trezza … »; coloro che raccontano «pare-vano quelli che raccontavano la storia di Orlando», riferen-dosi ai cantastorie popolari siciliani e ai loro racconti sui pa-ladini di Francia.A don Franco che sostiene si tratti di una battaglia che è sta-ta persa da tutti, perché è stata persa dall’Italia, Campana dilegno rispose: «Io non ho perso nulla».Non solo il senso della storia non è presente nel mondo di AciTrezza ma anche la modernità, il progresso, sono relegati nelmondo del mito: «Non piove più perché hanno messo quel fi-lo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via».Giovanni Verga può essere considerato il primo grande meri-dionalista: nei suoi romanzi, soprattutto nei Malavoglia, ha sco-perto le due Italie, una, decisamente minoritaria, che è colta,ha studiato, sa la storia e la fa. L’altra, la stragrande maggio-ranza del Paese che manca di strumenti culturali moderni e sibasa su una cultura popolare antica, lontana dalla modernità.Saranno Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini di lì a po-

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co a scoprire queste «due Italie» e la questione meridionale.Ma prima di loro quelle scoperte le ha fatte il Verga con lasua opera letteraria.

La figura del «narratore»La categoria narrativa che determina le peculiarità più inno-vative dei Malavoglia è quella del «narratore». Ci è ben pre-sente la figura ideale del narratore nel romanzo manzoniano.Questi è un vero e proprio personaggio che dialoga col letto-re (i «venticinque lettori»), coi personaggi (non dovevi far co-sì «caro il mio Renzo»), che anticipa la narrazione (poi vedre-mo che Renzo farà questo, dirà quest’altro), che critica i per-sonaggi stessi: no, Renzo non ha capito nulla delle cause dellacarestia, adesso ve le spiego io. E il narratore fa una lunghissi-ma digressione sulla guerra del Monferrato. Lo spazio del nar-ratore manzoniano è il luogo dove il narratore esprime tutta lasua ironia e la sua ideologia cattolica provvidenzialista, è il luo-go per esercitare e raggiungere ciò che Manzoni chiama «loscopo della narrazione», l’«utile per iscopo», in sostanza l’e-ducazione del lettore.Ben diverso il narratore dei Malavoglia, chi legge non è sicu-ro che nel romanzo esista un narratore extradiegetico; sem-brerebbe che la vicenda, che pure viene sviluppata e prose-gue, «si racconti da sola». O meglio, sembra che il narratorefaccia parte del coro, anche perché usa lo stesso linguaggio,possiede la stessa cultura popolare di tutti i suoi personaggi.Ho usato il termine «coro», e fu Luigi Russo per primo adadottare il concetto di «coralità» per definire il romanzo.Ma vediamo da quale tecnica narrativa dipenda codesta fa-mosa «coralità» dei Malavoglia.Leggendo il romanzo il lettore ha l’impressione di affolla-mento, di un numero grandissimo di personaggi. Questi, in-vece, non sono poi tanti, sono circa una quarantina, molti dimeno di un medio romanzo ottocentesco: il romanzo manzo-niano ha circa duecento personaggi, eppure il lettore non haalcuna impressione di affollamento perché il narratore segue

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un personaggio per volta, segue Renzo, poi Lucia, poi donAbbondio, poi don Rodrigo, poi l’Innominato e così via.Invece i pochi, quaranta, personaggi dei Malavoglia sonosempre tutti quanti presenti sulla scena: infatti quando ancheci sono solo due personaggi che parlano fra di loro, ebbeneessi parlano e narrano di tutti gli altri. Ecco l’impressione diaffollamento, ecco la «coralità» del romanzo.A questo punto è significativo tornare al concetto di tempoper individuare in quale arco di tempo si svolge tutta la nar-razione. Proprio perché il tempo è indifferenziato, se a me-tà del romanzo si chiede quanto tempo è passato dall’inizio,il lettore resta perplesso. Per lo più risponde: qualche setti-mana, pochi mesi. E invece no. Ci sono due precise indica-zioni di tempo all’inizio e a metà del romanzo che indicanoche sono trascorsi ben tre anni.All’inizio del romanzo si dice che Ntoni torna a casa alla fi-ne della leva di mare nel 1863. Ebbene a metà del romanzosi parla della battaglia navale di Lissa.Come è noto la Terza guerra d’indipendenza si svolge nel1866: con stupore noi lettori scopriamo che son passati qua-si tre anni dall’inizio della narrazione. Ecco uno strano effet-to del tempo indifferenziato tipico del romanzo verghiano.Tornando a noi, come dicevo, abbiamo l’impressione che ilromanzo si racconti da sé: ciascun personaggio parla e nar-ra di sé e di tutti gli altri. E vi è una chiacchiera, un cicalec-cio continuo e infinito: l’opera in fondo non è che la regi-strazione di questa chiacchiera continua.Verga riteneva di aver scritto il più autentico «romanzo veri-sta», secondo i dettami dell’estetica verista della «impersona-lità dell’arte». La realtà si presenta da sé, si racconta da sola,senza che l’autore vi interferisca con la propria personalità.«Impersonale» deve essere l’arte, realtà vera, nuda e cruda.Verga si meravigliò quindi dell’insuccesso, commerciale e dicritica, del romanzo. Di fatto nel suo secondo romanzo, Mastrodon Gesualdo, non seguirà più la stessa tecnica narrativa, maquella più consueta del tipico romanzo ottocentesco. C’è, ad

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esempio, un protagonista che il narratore segue passo passo. Eil successo gli arrise.Il fatto è che I Malavoglia è un romanzo difficile, innovativonella tecnica narrativa, «avanguardistica», si sarebbe dettoqualche decennio più tardi.

Torniamo alla figura del narratore, mascherato come non esi-stente, come se fosse uno dei personaggi del coro. Ebbene, selo spazio del narratore manzoniano è lo spazio ideologicodell’autore, ebbene appare molto difficile individuare – pro-prio perché il narratore si nasconde – l’ideologia verghiana.Eppure c’è chi crede di averla individuata. Ecco in che modo. È evidentissimo che il Verga abbia un suo personaggio pre-diletto. Si tratta di padron Ntoni: gli è molto simpatico e diconseguenza è simpatico anche a noi lettori.Ebbene padron Ntoni possiede un’ideologia conservatrice.È lui a sostenere che «bisogna remare in gruppo», tutto ilgruppo familiare, e che ciascuno deve fare la sua parte senzalamentarsi: «Il dito grosso deve far da dito grosso, il dito pic-colo deve far da dito piccolo». Aggiunge: «Contentati di co-me ti ha fatto tuo padre (accetta, cioè, il tuo ruolo sociale).Almeno non sarai un birbante». E diceva altre «simili sen-tenze giudiziose».L’ideologia di padron Ntoni è intessuta di conservatorismo,che si oppone all’ideologia liberal-borghese della nuova Italiaunificata.Io non sono d’accordo con questo tipo di trasferimento au-tomatico dell’ideologia di padron Ntoni al suo autore. Chi lopensa non tiene conto che l’ideologia di padron Ntoni colli-ma con quella di quasi tutti i personaggi popolari del roman-zo, esclusi i pochi acculturati. Anzi, in questo quadro, i clas-sici proverbi dei Malavoglia, prodotto della saggezza popola-re diffusa, sono intessuti della stessa ideologia conservatricelegata a un moralismo rurale di tipo antiborghese.Verga descrive un mondo e una cultura; ciò non implica chequella cultura sia la sua.

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Eppure coloro che sostengono che l’ideologia conservatricedei personaggi del romanzo collimi con quella dell’autore,hanno anche altre frecce al proprio arco.Essi sostengono che ci sarebbe una tesi ben precisa sottesa atutto il romanzo. Consisterebbe nel fatto che coloro che vo-gliono mutar condizione e che non seguono le regole del gio-co, che abbandonano la lotta diuturna del paese e se ne al-lontanano, ebbene costoro sono destinati alla sconfitta.Ntoni ritorna a Trezza dopo aver cercato fortuna altrove e fi-nisce emarginato all’osteria; poi quando parte definitivamen-te, al termine del romanzo, il narratore ci fa intuire che avràun futuro da piccolo malavitoso.Anche Lia Malavoglia, donna inquieta diversamente dalla so-rella Filomena, lascerà il paese per cercar fortuna a Cataniama finirà nel mondo della prostituzione.Io non ritengo proprio che esista codesta tesi: i «vinti» perVerga non sono soltanto coloro che trasgrediscono alle re-gole; anche padron Ntoni, che dell’osservanza delle regole èaddirittura un simbolo, è «un vinto». Infatti, finché rimanein vita non riesce a raggiungere il suo sogno, quello di ri-scattare «la casa del nespolo». Per Verga non ci sono premio punizioni in questo mondo. Per il suo «Cristianesimo sen-za fede» (Luigi Russo) esiste un destino più vasto e incom-prensibile che domina la vita degli uomini. Un destino sen-za perché, che si confonde con l’ananke, in quella mediter-raneità che coinvolge malinconicamente la Sicilia con la suaantica origine greca.

L’«economicità» cuore del romanzoI Malavoglia mette in scena la lotta diuturna che coinvolgeogni gruppo familiare contro tutti gli altri gruppi familiari al-lo scopo di migliorare la propria condizione economica e so-ciale. I mezzi di questo miglioramento possono essere soprat-tutto i matrimoni, intesi nella loro nudità di semplici contrat-ti economici. Ebbene tutto il cicaleccio, tutto il pettegolezzodel paese riguarda il tema del matrimonio, i matrimoni possi-

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bili, i fidanzamenti che si intrecciano, che si disfano, che van-no a buon fine.Tutti i personaggi parlano tanto di tutti gli altri, ma il puntocentrale di ogni loro discorso è proprio il matrimonio. Il ma-trimonio possibile, quindi il fidanzamento. Un matrimoniocelebrato non interessa più: si è formata una nuova famigliache sarà un nuovo soggetto economico-sociale che entra afar parte della lotta continua per sopravvivere e migliorare leproprie condizioni di esistenza.Alla fine del romanzo si faranno i conti: in questa dura lotta cisarà chi ha vinto e chi ha perso. Chi vince? Vince quel grup-po familiare che accetta le regole del gioco, non abbandona,cioè, la lotta, ma che è anche il più forte economicamente. Chiha più capacità economica sa incrementare la sua ricchezza, la«roba», per usare il titolo di una novella verghiana.Vince il migliore; ecco che si potrebbe parlare di una sorta didarwinismo economico-sociale sotteso all’opera verghiana. Ilpiù dotato vince.In un quadro di così dura freddezza umana, nel contesto dicodesta «economicità», in questo forte senso della roba e delpossesso che esclude ogni altro sentimento umano brillanodi una luce propria: due idilli del romanzo, l’amore silenzio-so e infelice fra Mena Malavoglia e don Alfio Mosca – co-scienti entrambi, e rassegnati, che tutto si oppone ai loro ta-citi desideri – e l’amore più felice, certamente realizzabile,fra Alessi Malavoglia e la cugina Nunziata.Entrambi i due idilli, pudicissimi, introducono sentimentinuovi in una realtà sociale in cui il sentimento dominantesembra essere l’assidua ed esclusiva ricerca del nudo inte-resse economico.

Il linguaggioLa lingua del romanzo è l’italiano manzoniano perfetto –Verga era un lettore appassionato dei Promessi sposi – in cuierano inseriti alcuni meccanismi tecnici per dare l’idea che ivari personaggi parlano il dialetto siciliano.

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Luigi Pirandello, che a Roma insegnava glottologia e storiadella lingua, sostiene che Verga nei Malavoglia «riesce a co-gliere lo spirito del dialetto, scrivendo un italiano perfetto».Il colorito dialettale è dato, soprattutto, da un uso particola-re del «che» consecutivo: «Egli [Ntoni] aveva lasciato quel-la nidiata di piccoli che [invece di «tanto che»] il più gran-dicello non gli arrivava al gomito». Ebbene il Russo sostieneche quel «che» consecutivo anomalo è sostanzialmente latraduzione italiana della parola siciliana «ca».Un’altra caratteristica del linguaggio verghiano serve alla ma-scheratura del narratore come non esistente. Il Verga deiMalavoglia trapassa spesso dal discorso diretto al discorso in-diretto, al discorso indiretto libero, e viceversa: il lettore èsempre in forse se prosegue, col discorso indiretto, a parlareil personaggio che un attimo prima usava il discorso diretto,oppure se si è inserito il narratore a sviluppare la trama. Taletecnica, funzionale al mascheramento del narratore come senon fosse esistente, è largamente disseminata lungo tutta lanarrazione.

Due parole infine sulle figure retoriche del romanzo. La fi-gura amplissimamente presente è la similitudine. Essa è pro-pria del linguaggio semplice dei pescatori; la presenza diffu-sa della similitudine avvicina ancora di più il mondo sicilia-no del Verga al mondo mitico di Omero, dato che proprionell’epica omerica la similitudine è la figura privilegiata.Invece i pescatori di Aci Trezza sono poco usi alla metafora.Con l’eccezione per il mare. Per descrivere il mare, realtà sem-pre presente sullo sfondo della narrazione, vengono usate lemetafore più ricche e più ardite. Esso viene ad esempio de-scritto come «vecchio brontolone», oppure il mare «russa».Solo per fare pochi esempi. Per descrivere il mare le metafo-re sono decine e molto inventive. !

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D AV I D E I M O L A Rendere produttivo e tutelare il knowledge worksarà il grande compito di questo secolo

L’Osservatorio sociale è lo spazio che «Argomenti umani» de-dica all’analisi delle trasformazioni del lavoro, del sistema diwelfare, dell’impatto dell’economia pubblica e delle scelte dipolitica industriale, in Italia e in Europa, con particolare at-tenzione ai riflessi sulla società del futuro.

Il coordinamento è a cura di Agostino Megale, Riccardo Sannae Riccardo Zelinotti.

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Nell’ottobre scorso è ripreso in Parlamento l’esame dei prov-vedimenti di riforma delle professioni con un segno, impres-so dalla maggioranza di centrodestra, di stampo nettamenteneocorporativo particolarmente evidente nella proposta diriforma dell’avvocatura. La Cgil unitariamente a Cisl e Uil da anni sostiene l’esigen-za dell’ammodernamento del sistema delle professioni, in-troducendo più adeguate misure di concorrenza e di garan-zia verso i cittadini sul piano della qualità delle competenzepossedute e agite dai professionisti, nonché forme traspa-renti di inserimento dei giovani nel mondo professionistico,ma anche norme di lavoro, a partire dal periodo di job trai-ning, definite da accordi con le organizzazioni sindacali, co-me già avviene per il personale degli studi professionali.L’esigenza di ammodernamento è sotto gli occhi di tutti e levicende denunciate in questi giorni non fanno che confer-mare quanto sottolineato dall’Antitrust del nostro Paese.La qualità del lavoro, la possibilità che questo rappresentiun’occasione di realizzazione e crescita per la persona nonpuò essere tema marginale all’interno di qualsiasi riflessionesul lavoro, men che mai se parliamo di professionisti. Il con-cetto di qualità del lavoro, infatti, racchiude in sé sia il valoredel riconoscimento e della prospettiva professionale di ognipersona, sia anche la condizione principale e prioritaria pergarantire serie capacità di competizione economica al nostroPaese all’interno della società della conoscenza.

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Davide Imola Rendere produttivo e tutelare il knowledge work sarà il grande compito

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Si tratta della possibilità che il lavoro sia svolto in autonomiae che sia incoraggiata e valorizzata l’iniziativa dei singoli, cosìcome una modalità di svolgimento della prestazione che per-metta la coscienza del progetto complessivo e che valorizzi isaperi dei lavoratori.In dieci anni (1995/2005) sono passati dal 29% al 42% i la-voratori della conoscenza in Italia (Butera, knowledge wor-kers) e, soprattutto per le limitate dimensioni d’impresa, so-no oltre l’80% le competenze tecnico-professionali reperite«all’esterno» delle imprese (Rullani). Probabilmente per l’intero sistema economico rendere pro-duttivo il knowledge work sarà il grande compito di questosecolo, proprio come quello di rendere produttivo il lavoromanuale fu il compito del secolo scorso.Per non fare ipotesi basate su presupposti troppo superfi-ciali è utile ricostruire brevemente il quadro generale in cuisi colloca la nebulosa del mondo professionale in Italia.

Lo scenario • I professionisti riconosciutiGli iscritti a Ordini e Collegi in Italia, nel 2009, sono stati2.006.015 (Censis). Da oltre un decennio l’Ue ci chiede disuperare gli attuali sbarramenti nell’accesso alle professioni.In particolare l’Italia è sotto osservazione da parte europeasu aspetti strutturali che riguardano la regolazione delle pro-fessioni «ordinistiche»: tariffe obbligatorie, prezzi racco-mandati, regolamenti pubblicitari, accesso alla professione ediritti riservati e regolamenti per la creazione di aziende estudi multidisciplinari. È evidente, e nessuno lo nega più, che il sistema degli ordi-ni ha creato nel tempo limiti sostanziali all’accesso alla pro-fessione a danno dei giovani. Inoltre si sta consolidando unruolo «improprio» degli ordini che si sono fatti spesso sin-dacato di rappresentanza, senza esserlo, talvolta in contrap-posizione alle associazioni di rappresentanza dei professio-nisti con l’effetto di limitare la concorrenza a danno dei con-

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sumatori, preservando i vantaggi di posizione di professionichiuse e spesso corporative.Tale situazione ci pone agli ultimi posti su questo tema al-l’interno dell’Unione europea. Anche di recente alcuni esponenti di ordini professionali con-tinuano a sostenere che i problemi delle professioni associati-ve sono risolvibili creando nuovi ordini professionali. In Italia gli ordini sono trentadue. Nell’ottica di un diffuso ri-conoscimento professionale dovrebbero aumentare di un cen-tinaio (basti pensare che, nelle scorse legislature, sono statipresentati disegni di legge per oltre duecento nuovi ordini). Nei pochi Paesi europei che prevedono l’istituto degli ordinial massimo ne sono stati istituiti otto. Il motivo è semplice: un ordine ha senso se svolge un compi-to di controllo sugli atti di professione che vengono delegatiin esclusiva ai loro iscritti e se questi incidono sui diritti co-stituzionalmente garantiti e non possono trovare tutela in al-tro modo. È dunque necessaria una riforma degli ordini professionali alfine di ripristinare i compiti e le funzioni originariamente defi-niti dalla Costituzione che vedono gli ordini come tutori deiconsumatori e non come rappresentanti dei professionisti. Perquesto andrebbero riconsiderate le materie delegate esclusiva-mente ai professionisti iscritti, le regole d’accesso e di gestionedella professione alla luce delle richieste della Ue, la riduzionedegli ostacoli all’esercizio della professione e la semplificazio-ne delle modalità di conseguimento dell’abilitazione.Inoltre, il riconoscimento della rappresentanza dei profes-sionisti deve essere affidato a un soggetto sociale e non isti-tuzionale e obbligatorio, come accade invece per gli ordini.• I professionisti non regolamentatiIn Italia per «professionisti non regolamentati» si intendonoquei lavoratori autonomi che svolgono una professione nonprotetta da Albi od Ordini specifici, o che volontariamentedecidono di non iscriversi all’Ordine di riferimento (svolgen-do una professione per cui l’iscrizione non risulta necessaria).

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Il Censis stima questi professionisti attorno ai tre milioni.La Banca dati sulle associazioni professionali del Cnel, al mo-mento l’archivio più completo, risulta composta da 196 asso-ciazioni. Sono informatici, consulenti, pubblicitari, ricercato-ri, designer, amministratori di condominio, ma anche consu-lenti aziendali, formatori, traduttori, guide turistiche, grafici,interpreti, bibliotecari, enologi, agenti e rappresentanti, tri-butaristi, archeologi, musicisti, redattori editoriali, restaura-tori, fumettisti, geofisici, progettisti architettura d’interni, sta-tistici, biotecnologi, geografi, pubblicitari o fotografi profes-sionisti, fisioterapisti, oftalmologi, pedagogisti, esperti di co-unselling, sociologi, grafologi, mediatori familiari…Il secondo rapporto Colap e i dati della gestione separataInps indicano che l’età media dei professionisti non regola-mentati e di quelli iscritti alla gestione separata Inps è di cir-ca 41 anni. Il 58,50% dei professionisti non regolamentati ha il Diplomadi Scuola superiore mentre il 31,80% possiede la Laurea odiploma di Laurea. Un numero molto consistente di profes-sionisti non regolamentati svolge il proprio lavoro come la-voratore dipendente: il 65,40% esclusivamente come lavo-ratore dipendente e il 18,2% come dipendente ma anchecollaboratore di altre società o enti.Il reddito medio netto mensile dei professionisti non regola-mentati è di 1200 euro.È comprensibile e urgente che, per tali professioni, si vogliacreare un sistema di regole, di controlli e attestazione di qua-lità che tutelino il consumatore. In nessun caso si giustifica l’adozione di una regolamenta-zione che limiti sia la libertà di iniziativa economica privatadei soggetti che attualmente operano in piena autonomia, siala libertà di scelta del consumatore che può preferire servizidi qualità meno elevata ma di prezzo più conveniente.Peraltro, tanto la Corte europea dei diritti dell’Uomo, quan-to la Corte di Giustizia delle Comunità europee si sono pro-nunciate sul tenore discriminatorio delle norme che discipli-

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nano gli Albi professionali italiani.

Un fenomeno europeoNegli ultimi anni in quasi tutti i Paesi europei è aumentatoconsiderevolmente il numero dei lavoratori autonomi e deiprofessionisti e, all’interno di questo ambito, sono cresciutele prestazioni d’opera individuali con fenomeni preoccupan-ti di abuso presenti in tutti i Paesi coinvolti. L’aumento del numero dei lavoratori autonomi e l’estensionedei loro tradizionali ambiti d’esercizio professionale ha diversimotivi, tra i quali se ne possono sottolineare tre: l’evoluzione eil nuovo svolgimento dei processi produttivi dovuti anche al-l’introduzione di nuove tecnologie che ha mutato l’organizza-zione del lavoro; l’intenzione degli imprenditori, presente inmolti Paesi, di eludere l’applicazione delle tutele proprie delDiritto del lavoro e, infine, l’applicazione in alcuni Paesi, dipolitiche pubbliche di promozione dell’auto imprenditorialitàsviluppate per eseguire le linee guida dell’Unione europea nelquadro della Strategia europea per l’occupazione.In Germania come in Italia, Spagna e in gran parte dei Paesieuropei si sono utilizzate forme ambigue per definire questofenomeno: lavoro «parasubordinato» in Italia, di persona «si-mile al lavoratore subordinato» (arbeitnemeränliche Person)in Germania. In tutti i Paesi europei tranne Italia, Grecia ePortogallo si è intervenuti per circoscrivere, regolare e tute-lare chi svolgeva le proprie attività in questo modo.L’ultima a intervenire su questa materia è stata la Spagna chedi recente ha introdotto «lo statuto del lavoro autonomo» se-guendo la stessa linea di condotta tedesca stabilendo un limi-te, il 75% del fatturato con lo stesso committente, per deli-neare la dipendenza economica del lavoratore autonomo e in-dividuando le caratteristiche distintive del prestatore d’operaindividuale rispetto agli altri lavoratori autonomi, con le me-desime regole che in Italia sono state introdotte per i cosid-detti contribuenti minimi (non avere mezzi organizzati d’im-presa, non avere dipendenti o collaboratori, non avere inve-

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stimenti strutturali e immobiliari fuori da un certo limite ecc.). Credo sia necessario anche in Italia armonizzare gli inter-venti in questo campo e delineare rapidamente una regola-mentazione simile sia per limitare gli abusi nell’uso delle pre-stazioni d’opera ma, soprattutto, per tutelare il lavoro auto-nomo individuale in tutte quelle situazioni in cui per le ca-ratteristiche del mercato, o per la fase d’avvio della propriaattività, i prestatori d’opera si trovino nella necessità di vederriconosciute tutele sociali importanti come l’effettivo dirittoalla maternità o alla malattia o in caso d’infortunio o, ancora,per garantire loro un sereno futuro previdenziale, così comeviene fatto negli altri Paesi. Se si riconosce che esistono varie forme di lavoro autonomoda tutelare perché non corrispondenti né con il lavoro auto-nomo classico né con il lavoro subordinato, come è stato fat-to negli ultimi dieci anni sia da governi di centrodestra sia dicentrosinistra per tutte le forme di lavoro comprese nella ge-stione separata Inps, allora anche i professionisti con presta-zioni d’opera che abbiano le caratteristiche di monocommit-tenza o di committenza prevalente, oppure che abbiano lecaratteristiche reddituali e organizzative comprese nell’alveodei «contribuenti minimi», hanno diritto a una specifica re-golamentazione e alle tutele sociali necessarie.

I cambiamenti del mercato e dell’impresaFare impresa oggi, e sempre più domani, vuol dire principal-mente gestire un network di professioni dove si incrociano:saperi differenti; flussi informativi di scambio delle cono-scenze; relazioni negoziali fra persone e ruoli; interrelazionicon gli stakeholder dell’impresa basandosi su una strutturaorganizzativa essenziale che fissa solo i cardini di criticità eche nulla ha a che vedere con la gabbia organizzativa guida-ta da mansioni e procedure prescrittive. • Perché questo cambiamento? L’ambiente socioeconomico attuale è caratterizzato da unostato di fluidità, di «modernità liquida» per citare l’efficace

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espressione del sociologo Zygmunt Bauman. Di qui nasce l’importanza che sta assumendo il governo del-la variabilità e dell’incertezza. La capacità di reazione immediata agli eventi assume un’im-portanza crescente, talvolta vitale per il business. Stiamo vi-vendo una fase dell’economia in cui la fluidità si coniuga conl’organizzazione flessibile ad architettura aperta, pertanto ilmodello di riferimento vincente è la rete di persone, informa-zioni e conoscenze, in una struttura organizzativa resiliente.• I cambiamenti, i limiti, il sindacato Professionisti che operano in gran parte come lavoratori di-pendenti. Imprese che reperiscono esternamente la maggiorparte delle competenze tecnico-professionali. A questo si de-ve aggiungere un’azione contrattuale carente: nell’aggiornarele declaratorie professionali nei Ccnl; nella definizione di per-corsi formativi a cui collegare i percorsi di carriera; nella de-finizione di regole collettive delle modalità di lavoro e di ge-stione del tempo del lavoro professionale in azienda; nel de-finire collettivamente percorsi di merito e di riconoscimentoeconomico del lavoro professionale; nella definizione di mo-dalità di utilizzo delle protezioni sociali più rispondenti allemodalità operative proprie del lavoro professionale.Un ultimo elemento riguarda la ridotta tutela e la rappre-sentanza da parte del sindacato del lavoro professionale, siaagito in forma di lavoro dipendente (oltre due terzi dei pro-fessionisti opera in forma subordinata), sia con prestazioned’opera individuale. Lo scenario descritto impone l’obiettivo di riconoscere le di-verse realtà lavorative per come si sono evidenziate in questianni e per le ulteriori evoluzioni che si prefigurano con l’acce-lerazione tecnologica e i cambiamenti imposti dalla crisi mon-diale e dalla globalizzazione. Per programmare e costruire unosviluppo centrato sulla qualità, sulla conoscenza, sull’innova-zione e sulla sostenibilità sociale, ambientale ed economica, èstrategica la riunificazione del mondo del lavoro. L’alleanza tralavoratori con caratteristiche professionali elevate e fortemen-

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te identitarie, i lavoratori della conoscenza, i lavoratori del ter-ziario tradizionale e del settore pubblico, i lavoratori delle pic-cole imprese e quelli delle filiere e la classe operaia, è un obiet-tivo primario per realizzare il rinnovamento del Sindacato, latrasformazione dei modelli contrattuali e la valorizzazione dellavoro, delle competenze e della formazione.In tale scenario diventa essenziale la presenza della Cgil e ilrapporto sia con i singoli lavoratori ma anche con le associa-zioni di rappresentanza organizzate in sintonia con i principiispiratori del sindacato per condividere proposte o percorsi. • La coesione sociale come prerequisito per lo sviluppo È importante per un sindacato generale, qual è la Cgil, riflet-tere sul livello e la qualità del sapere immesso dai professio-nisti nelle loro attività e sul modo con cui esso viene accu-mulato, aggiornato, organizzato ed erogato a prescindere dal-le modalità con cui viene prestata la loro opera. La coesione sociale, poi, oltre a essere un valore fondante del-lo sviluppo civile, è sempre più un prerequisito della stessacompetitività e della crescita economica dell’intero Paese eper questo è indispensabile che non si formino sacche di la-voro precario senza regole e senza tutele.È, quindi, sempre più forte l’esigenza di un diverso e più di-retto rapporto tra i circuiti di formazione delle conoscenze equelli del loro impiego e della loro diffusione. Da questorapporto, infatti, dipende una parte considerevole del gradodi competitività e modernità del settore dei servizi profes-sionali oltre che dell’intero Paese.È essenziale sia per una lettura della realtà lavorativa del no-stro Paese, sia per misurare efficacemente e in modo equili-brato le proposte economiche che elaboriamo e, ancora, è im-portante per recuperare gli storici limiti di rappresentanza erappresentatività che ancora in parte persistono nei confron-ti del lavoro intellettuale e ad alto contenuto professionale an-che subordinato.Infine è indispensabile annodare stabili rapporti con chi ope-ra con alti contenuti professionali e reale autonomia ma che

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chiede risposte sul piano dei diritti e delle tutele sociali per-ché, paradossalmente, è fra coloro che ne sono i più esclusi.• Cosa può creare un comune denominatore tra professio-nisti impiegati in condizioni così diverse tra loro?Cosa può avere un forte valore identitario per riuscire ad al-lontanare la competizione e l’individualismo tra gli stessisoggetti e tra questi e il lavoro tradizionale?Analizzando questo mondo, osservando i cambiamenti epo-cali prodotti nel lavoro, incontrando e ascoltando i diretti in-teressati, non è difficile dare una risposta a quei quesiti.I filoni già affrontati in ordine sparso dalle diverse associa-zioni e dai soggetti di rappresentanza presenti nella galassiadelle professioni possono tradursi in due linee d’intervento. La prima linea riguarda i riconoscimenti professionali e le re-gole di gestione del mercato delle professioni. La seconda le tutele sociali, dentro e fuori dal lavoro, che ren-dano veramente universale il sistema di welfare italiano cheoggi esclude molti lavoratori e cittadini. In uno slogan: Daredignità e giusto riconoscimento al lavoro intellettuale che, nelnostro Paese, proprio nell’economia della conoscenza sta di-venendo il più maltrattato e, in particolare, il lavoro intellet-tuale dei giovani.

I riconoscimenti professionali e le regole di gestione del mer-cato delle professioniNonostante l’Antitrust abbia ribadito che sugli ordini profes-sionali servono interventi normativi per rafforzare la concor-renza, molti settori ancora resistono a una maggiore concor-renzialità, e ci troviamo di fronte a disegni di legge di stamponeocorporativo. Un sindacato «generale» come la Cgil, cosìcome tutto il sindacalismo confederale e, a mio avviso, anchei partiti del centrosinistra non possono stare a guardare le ri-forme neocorporative della destra che creeranno ancora piùsteccati e riserve penalizzando consumatori e giovani profes-sionisti come se ciò non riguardasse il futuro del Paese e an-che di una parte importante della loro potenziale base eletto-

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rale. Credo che anche su questi temi sia necessario tracciareun percorso riformatore e innovatore capace di imprimeretrasparenza, concorrenza leale, pari opportunità, tutele so-ciali estese a tutto il lavoro.La Cgil in queste settimane sta costituendo, per la prima vol-ta nella sua storia, la Consulta del lavoro professionale e ha ri-tenuto utile ribadire e aggiornare il giudizio comune espres-so su precedenti proposte di riforma individuando le carat-teristiche che dovrebbero essere i pilastri fondanti dell’azio-ne legislativa in materia.In particolare, relativamente agli elementi fondamentali e piùsignificativi dell’impianto normativo, gli obiettivi irrinuncia-bili sono: la centralità dei diritti del Cittadino consumatore; ilriconoscimento e la regolazione coordinata del sistema dualeordini/associazioni, nella logica della concorrenza, della mag-giore qualificazione e trasparenza delle prestazioni professio-nali; la determinazione più stringente delle attività riservateagli iscritti agli ordini e la loro regolazione futura; la confer-ma degli ordini per le attività professionali per le quali per-mane un effettivo interesse pubblico da tutelare, in quantoattengono a interessi costituzionalmente garantiti o comun-que di grande rilievo sociale, procedendo alla loro riorganiz-zazione e democratizzazione e chiarendo per gli stessi il ruo-lo originario di controllo sull’operato dei professionisti a tu-tela dei consumatori e senza sconfinare nel ruolo, improprioe ambiguo, di sindacato di categoria; la modifica dei princi-pi, dei criteri e dei vincoli che regolano l’accesso alle profes-sioni, all’esame di Stato e l’individuazione precisa delle attivi-tà riservate agevolando accesso dei giovani e concorrenza; laprevisione di lauree abilitanti e tirocini più brevi da svolgeredurante i corsi di studio o un praticantato con compensi e re-gole definiti dalla contrattazione collettiva; l’abolizione delletariffe minime; inserire il principio di pubblicità, di traspa-renza e di responsabilità tra le caratteristiche dell’attività pro-fessionale; la possibilità di realizzare società multiprofessiona-li e temporanee; l’avvio di una riforma che armonizzi il siste-

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ma previdenziale per tutta l’area delle professioni e lo pongain relazione equilibrata con le altre gestioni previdenziali, laprosecuzione del percorso di registrazione delle libere Asso-ciazioni professionali, in conformità con le direttive Cee cosìcome definito dal art. 26 del Dlgs 206/07 trasferendo la com-petenza presso il ministero delle Attività Produttive con la de-finizione di ulteriori e più stringenti modalità di accreditamen-to delle Associazioni professionali con criteri che ne garanti-scano l’effettiva rilevanza; la definizione di specifici percorsi diaccreditamento, riconoscimento e di certificazione pubblicadelle competenze per le professioni specialistiche non ricono-sciute in campo sanitario e ad alto interesse pubblico come nelsettore dei Beni Culturali. Su queste linee guida si dovrebbemuovere il legislatore e, perlomeno, si dovrebbe caratterizzarel’opposizione di centrosinistra.

Le tutele sociali: per una carta dei diritti dei professionistiBisogna cogliere l’occasione della crisi per affrontare in mo-do organico sia le necessità di ammodernamento del siste-ma, sia le necessità di tutela dei professionisti. Ecco alcuneproposte:1. Rilevanza assume la possibilità di prevedere, nei contrattinazionali, una parte specifica che regoli il lavoro professiona-le, rivedendo e aggiornando periodicamente le declaratorie ei profili professionali, definendo la tutela delle professionali-tà e i compensi, le forme di certificazione o riconoscimentodelle competenze professionali conseguite sul lavoro, le for-me dell’aggiornamento professionale e il suo aggancio ai per-corsi di carriera; il ruolo della bilateralità e della previdenzacomplementare per tutte le forme di lavoro presenti nell’or-ganizzazione di un’impresa; dare dignità formale e giuridica aisistemi di filiera e di rete andando ad accendere un rapportocostante e diretto tra il sindacato e il sistema delle imprese cheutilizza quelle competenze professionali; l’estensione effettivae sistematica dei sistemi di prevenzione e sicurezza sul lavoroa tutte le modalità di lavoro.

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2. Qualsiasi processo di riforma deve porsi un duplice obiet-tivo. Evitare che si acuisca l’uso improprio dell’autonomia, so-stitutivo di lavoro dipendente, superando l’attuale dumpingattraverso la parificazione dei costi, a partire dall’aggancio aicompensi minimi dei Ccnl di riferimento per i lavoratori di-pendenti con analoga professionalità, come già previsto dal-l’art. 1, comma 772, della legge n. 296/2006 (legge finanzia-ria 2007). Nel contempo occorre considerare il fenomeno del lavoro auto-nomo, vero nelle modalità professionali ma con tratti più o me-no vistosi di «debolezza contrattuale» e con esigenze di tutelaspecifica. In Italia, come è stato già fatto nel resto d’Europa,non è più rimandabile l’approvazione di nuove regole, sull’e-sempio dello statuto del lavoro autonomo in Spagna, ricono-scendo al lavoro autonomo e professionale, che abbia il 70%del suo fatturato con un unico committente o che abbia carat-teristiche rientranti tra i contribuenti minimi (non avere mezziorganizzati, non avere dipendenti o collaboratori ecc.), ade-guati diritti di sicurezza sociale in relazione a malattia, infortu-nio, gravidanza, disoccupazione: eventi che colpiscono le perso-ne e devono essere fronteggiati socialmente indipendentementedal carattere autonomo o subordinato del rapporto di lavoro. 3. Sul fisco non è sufficiente quanto oggi previsto dalla leg-ge per i contribuenti minimi n. 244/07, art. 1, commi da 96a 117. Pertanto, individuata la platea di lavoro professiona-le e intellettuale da tutelare che sia priva di caratteristiched’impresa, va esclusa dal pagamento dell’Irap come già indi-cato dalla Ue e dalla Corte di Cassazione italiana.4. Assieme a una più netta lotta agli abusi occorre avviareuna politica accorta dell’antidumping contrattuale. Va aper-ta una discussione istruttoria rispetto all’eventualità che, sul-l’esempio già sperimentato in numerosi Contratti collettivinazionali di lavoro, si valuti la possibilità di prevedere, ancheattraverso una legislazione di sostegno, capitoli specifici deiCcnl, l’adeguamento contrattuale rispetto al lavoro professio-nale subordinato e che, fermo restando la lotta a un utilizzo

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delle forme di lavoro professionale non genuine anche conpercorsi utili a definire eventuali modalità di transito fra au-tonomia e dipendenza, per chi adotta modalità di vero lavo-ro autonomo indichino: obbligo e contenuti del contrattoscritto per tutti; compensi specifici adeguati alle singole pro-fessioni il cui costo complessivo non sia inferiore a quello deilavoratori dipendenti di pari professionalità; la definizione ditempi certi di pagamento e di penali in caso di abuso; speci-fiche modalità di gestione del lavoro e di utilizzo dei tempi edegli strumenti aziendali; formazione continua e certificazio-ne delle competenze acquisite sul lavoro; riconoscimenti pro-fessionali legati al raggiungimento di precisi obiettivi.5. L’assenza di redditi equi su questa fascia di lavoratori, as-sieme all’assenza di politiche di sostegno, non consente pro-spettive previdenziali dignitose scaricando sui singoli il pesodei costi previdenziali e la debolezza o l’assenza delle prote-zioni sociali. Non è più rinviabile una rivisitazione dei coeffi-cienti previdenziali, così come indicato nel Protocollo welfa-re del 2007, e una completa totalizzazione dei contributi ver-sati nelle diverse gestioni anche eliminando il requisito mi-nimo dei tre anni di contribuzione. In ragione della crisi economica e di tutti gli aspetti di criti-cità presenti nel sistema professionale bisogna prendere inconsiderazione, per le fasce più deboli iscritte alla gestioneseparata Inps, una dilazione dei pagamenti dei contributi do-vuti confermando, tuttavia, l’accredito del montante contri-butivo dovuto tempo per tempo. Non considerare altri aumenti dei contributi previdenziali nellagestione separata Inps, ulteriori a quelli definiti dal Protocollo2007, prima di affrontare i problemi di riforma generale delleprofessioni e gli aspetti di debolezza e asimmetria fra le variecasse previdenziali.6. L’emergenza dell’attuale crisi economica impone una ri-flessione su forme straordinarie di sostegno al reddito ancheper i circa 300 mila professionisti e gli oltre 400 mila parasu-bordinati che stanno perdendo anche parzialmente il lavoro.

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È però indispensabile cogliere l’occasione per progettare unsistema universale e moderno di protezione sociale e di valo-rizzazione di tutto il lavoro pensando a strumenti di tutela, acui contribuiscano anche i professionisti, finalizzati al perse-guimento di politiche attive per il lavoro, il sostegno al red-dito e all’occupazione, la formazione continua. Con una maggiore attenzione della politica e un maggiorespirito di coesione sociale è possibile uno sforzo comune diimprese, sistema delle professioni, sindacato e governo perfronteggiare gli effetti della crisi anche per questi lavoratori eprogettare un nuovo sistema di regole nel lavoro e di prote-zione sociale più inclusivo e più moderno. !

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SILVANO ANDRIANI , economista, presidente della Fondazione CespiNICOLA CACACE, economista, presidente di Onesis

FABIO NICOLUCCI , esperto di questioni mediorientaliLUIGI AGOSTINI , direttore della Fondazione Cespe

ENZO ROGGI , giornalista, direttore del settimanale online «Ponte di Ferro»ELIO MATASSI , direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma

Tre e della rivista on line «InSchibboleth»IG INIO ARIEMMA, saggistaMARIO CARONNA, saggista

DAVIDE IMOLA, responsabile Professioni, Ordini e Associazioni Professionalinell’Area Politiche economiche della Cgil nazionale

«Argomenti umani» ha ottenuto nel 2005 un sostegno dal Ministero dei Beni culturali come rivista di alta cultura

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