Immanuel Kant- Scritti Di Storia, Politica e Diritto

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  Tesina: Kant - Scritti di storia, politica e diritto Questi appunti sono stati scaricati su: www.University.it  Appunti Universitari Online Autore: Maria Gabriella Campolo  Tesina: Kant - Scritti di storia, politica e diritto Materia: Storia delle dottrine politiche Corso di laurea: Scienze politiche Università: Università di Messina Docente: Buttà Grazie per aver scelto University  Ed in bocca al lupo per l’esame NOTE: • Gli autori degli appunti hanno deciso di condividere tra loro la conoscenza acquisita con i propri lavori. Pubblica anche tu un appunto, diventa un Autore collegandoti al s ito www.university.it • Il servizio appunti offerto da University.it da la possibilità a studenti, ricercatori e docenti universitari di scambiare i propri documenti tramite il criterio della ratio e l'utilizzo di crediti. • Per usufruire del servizio occorre essere registrati. • Nel pubblicare gli appunti la redazione di University.it non effettua controlli sull'esattezza, veridicità e coerenza del contenuto, non diamo quindi garanzie di a lcun genere sul materiale che viene prelevato dal sito. • I documenti pubblicati non sostituiscono, ma possono solo integrare il materiale didattico per la preparazione agli esami universitari. Ti ricordiamo che ti è consentito il solo uso personale degli appunti che hai scaricato da University.it e che ogni altro utilizzo è contrario alle norme sul diritto d'autore.  University.it è un si to di proprietà di Uni versity SRL Tutti i diritti sono riservati: ©University SRL Milano 2000-2001  

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Tesina:  Kant - Scritti di storia, politica e diritto

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• Autore: Maria Gabriella Campolo • Tesina:  Kant - Scritti di storia, politica e diritto• Materia: Storia delle dottrine politiche• Corso di laurea: Scienze politiche• Università: Università di Messina• Docente: Buttà

Grazie per aver scelto University ☺ Ed in bocca al lupo per l’esame

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Il libro “Scritti di storia, politica e diritto”, a cura di Filippo Gonnelli, è formato da diversi scritti che co-

stituiscono tutto il pensiero giuridico-politico di Kant, e che ne sono inoltre, la principale fonte per la

comprensione della sua dottrina etico-politica della storia e delle connessioni tra questa e la cosiddetta

storia naturale del genere umano.

Il “percorso” inizia con l’analisi dello scritto del Moscati, “Della essenziale differenza corporea fra la

struttura di animali e uomini”, nel quale si afferma che la posizione eretta dell’uomo sarebbe forzata e

contro natura e dalla quale derivano le più svariate malattie. L’uomo, infatti, al suo interno ha una con-

formazione simile a quella di tutti i quadrupedi, e quindi, quando si alza i suoi organi tendono a pendere

verso il basso e si trovano in una posizione che se mantenuta costante è causa deformazioni e malattie. Si

 può concludere, che la struttura interna dell’uomo è adatta alla posizione quadrupede, ma se si sviluppa

egli è destinato alla società per la qual è più adatta la bipede, ed inoltre alzandosi egli si pone sopra gli al-

tri animali ma paga questo suo gesto con alcuni incomodi che ne derivano. Kant prosegue il suo studio sul

genere umano analizzando le diversità delle razze umane, stabilendo innanzi tutto che tutti gli uomini ap-

 partengono ad uno stesso genere naturale perché, pur essendo diversi fra di loro generano sempre figli fe-

condi e che da quest’unità si può citare solo una causa, e vale ad affermare che gli uomini appartengono

ad un unico ceppo da cui sono nati. Le differenziazioni che ci possono essere se sono ereditarie si dicono

derivazioni, e se si mantengono uguali alla loro origine si chiamano trasmissioni altrimenti si dicono de-

generazione.

Tra le derivazioni che si mantengono costanti per lunghe generazioni e che mescolandosi con altre deri-

vazioni generano prole incrociata si chiamano razza, mentre quelle che non generano prole ibrida si

chiamano varietà. Secondo Kant per dedurre tutte le distinzioni è sufficiente considerare solo quattro raz-

ze: la razza dei bianchi, la razza negra, la razza unna, e quell’indù, dalle quali si possono far derivare tutti

i rimanenti caratteri ereditari dei popoli o come razze miste o come razze in via di formazione. Le cause

che danno origine alle diverse razze sono chiamate germi se lo sviluppo riguarda parti specifiche del cor-

 po organico e, disposizioni naturali, se lo sviluppo riguarda la grandezza o il rapporto delle parti fra loro.

Poiché l’uomo è stato destinato a tutti i climi e a diverse conformazioni del suolo, devono essere necessa-

riamente presenti in lui diversi germi e disposizioni naturali, pronti ad essere sviluppati o trattenuti secon-

do le circostanze, per fare in modo che egli si possa adattare a questi, e col tempo apparire come se ne

fosse originario. Gli elementi che influiscono maggiormente sulla forza generativa e che producono un

durevole sviluppo di germi e disposizioni sono l’aria e il sole.Ad esempio, l’uomo trasferito nella zona

glaciale, dovette a poco a poco alternarsi divenendo di statura più bassa, perché così la circolazione del

sangue avviene in minor tempo, il polso si fa più rapido e di conseguenza aumenta il calore del sangue. In

virtù poi, di una disposizione naturale anche le parti più sporgenti del volto divengono più piatte per pre-servarsi dal freddo. Alle quattro diverse razze si devono far risalire tutte le diversità di questo genere, ma

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 per fare questo è necessario un unico ceppo originario. Le razze, potendo essere raccolte in base alle cau-

se naturali della loro origine, derivano da un ceppo originario costituito dai bianchi di colore bruno e si

dividono in quattro razze: la prima è formata dalla razza bionda dell’Europa settentrionale causata dal

freddo umido; la seconda è quella rosso-rame dell’America, causata dal freddo secco; la terza è quella ne-

ra della Senegambia, causata invece dal caldo umido; e la quarta è la razza giallo-olivastra tipica degli In-

diani, causata infine dal caldo secco.La maggiore difficoltà che s’incontra nello studio delle razze è costi-

tuita dal fatto che climi e terre simili non ospitano la stessa razza. La descrizione della sola natura è in o-

gni caso insufficiente per spiegare il perché delle derivazioni, si deve dunque tentare una storia della natu-

ra.

Il terzo capitolo si sofferma sulla recensione di Schulz, “Saggio di un’introduzione alla dottrina dei co-

stumi, valida per tutti gli uomini senza differenza di religione”, nella quale l’autore afferma quella che

chiama dottrina beata attraverso la quale la dottrina dei costumi ottiene il suo valore proprio, e nota che,

riguardo al crimine, vi sono alcune persone che lo illustrano in maniera molto semplice e che per questo

dovrebbero mettersi d’accordo con Dio. Egli vuole che sia cancellato il pentimento e che al suo posto sia

introdotto il modo per una migliore condotta della vita; inoltre cerca di ricondurre la religione e la fede

oziosa ad azione e di rendere le pene civili più umane.

Principio cardine di quest’opera è il fatalismo universale che distrugge il concetto di obbligazione e non

resta altro che aspettare ed osservare quello che Dio attuerà in noi per mezzo di cause naturali secondo le

sue decisioni. Un’ultima considerazione dell’autore afferma che la massima convinzione posseduta in un

determinato momento non può dare la sicurezza che in un altro momento, se la conoscenza è progredita,

la verità precedente non sia intanto divenuta errore. Schulz ha presupposto quindi il concetto della libertà

senza la quale non sì da una ragione, e della libertà del volere nell’agire senza cui non vi è moralità.

Kant cerca di trovare una storia universale che si occupi della narrazione di tutti i fenomeni della libertà

del volere e delle azioni umane, nella “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”. Le

singole persone pensano poco al fatto che, mentre perseguono i loro scopi procedono verso lo scopo della

natura. Compito del filosofo è di cercare nell’andamento delle cose umane questo scopo, un filo condutto-

re per una tale storia. Quindi pensa nove tesi nelle quali innanzi tutto afferma che nelle creature qualsiasi

disposizione naturale è destinata a dispiegarsi un giorno in modo completo e conforme al fine;

l’attenzione di Kant si sofferma poi sull’unica creatura razionale sulla Terra, l’uomo, nel quale queste di-

sposizioni che sono finalizzate all’uso della sua ragione si sviluppano in modo completo non

nell’individuo ma nel genere. La ragione non opera istintivamente, ma ha bisogno d’esercizio e di tentati-

vi e quindi, ogni uomo, avrebbe bisogno di vivere per un tempo molto lungo per capire come usare com-

 pletamente le sue disposizioni naturali. Il tempo, quindi, deve essere la meta dei suoi sforzi, altrimenti ledisposizioni sarebbero prive di finalità. Nella terza tesi si afferma che la natura avendo dotato l’uomo del-

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la ragione poneva il chiaro intento che tutte le azioni fatte da questo non dovevano essere mosse

dall’istinto, ma dovevano essere ricavate da se stesso. La natura ha voluto con ciò far ottenere all’uomo

razionale stima di se, e, principale interesse di questa era che egli si sforzasse tanto da rendersi degno del-

la vita e del benessere col suo agire. Nella quarta tesi si pone l’antagonismo nella società come il mezzo

attraverso il quale si sviluppano tutte le disposizioni. Per antagonismo s’intende la tendenza degli uomini

ad unirsi in società che è, in ogni modo, congiunta ad una resistenza che minaccia di sciogliere la stessa

società. Nell’uomo sono quindi presenti due tendenze: da un lato tende ad associarsi e dall’altro ad isolar-

si resistendo agli altri. Ed è proprio questa resistenza che spinge l’uomo a cercarsi un rango fra i propri

consoci che non sopporta, ma di cui non può fare a meno. Senza la rivalità, la voglia di potere e di ric-

chezza non si possono sviluppare le disposizioni, e anche se l’uomo vuole concordia, la natura vuole di-

scordia. La quinta tesi tratta invece quello che è il problema più grande per il genere umano, il raggiun-

gimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto. Supremo compito che la natura

affida al genere umano è di formare una società in cui la libertà sotto leggi esterne sia congiunta con una

costituzione perfettamente giusta. A costringere l’uomo da entrare in questa situazione di coazione è la

 pena. La prima difficoltà che s’incontra è quella esposta nella sesta tesi, e cioè, che l’uomo è un animale

che ha bisogno di un padrone che lo costringa ad una volontà universalmente valida secondo cui ognuno

 possa essere libero. Ma anche il padrone è un animale che ha bisogno di un altro padrone, perché se non

ha nessuno sopra di se abuserà della sua libertà, ed inoltre, il capo supremo deve essere giusto per se stes-

so e anche uomo. Questo, quindi, è un problema d’impossibile soluzione. Ancora nella settima tesi si af-

fronta il problema della costituzione civile che dipende anche dal rapporto esterno fra Stati.

Abbiamo già detto come la natura utilizza l’antagonismo come mezzo attraverso il quale gli uomini tro-

vano uno stato di pace e sicurezza. Tutte le guerre sono tentativi d’instaurare nuovi rapporti fra gli Stati e

attraverso la distruzione di costruirne di nuovi, finché si giunge ad uno stato che si può mantenere come

un automa. L’ottava tesi, considera la storia del genere umano, in grande, come il compimento di un pia-

no nascosto della natura il cui scopo è di instaurare una perfetta costituzione sia interna sia esterna, poiché

questo è l’unico modo per la natura di sviluppare nell’umanità tutte le sue disposizioni. La nona tesi, infi-

ne, afferma che deve essere considerato possibile il tentativo filosofico di elaborare la storia universale

del mondo secondo un piano della natura tendente all’unificazione civile del genere umano. Se si tengono

 presente le Costituzioni e le leggi, ed inoltre le relazioni fra gli Stati, si potrà scoprire un filo conduttore

che non solo spiegherà l’intricato gioco delle cose umane, ma aprirà una nuova prospettiva per il futuro,

nella quale sia rappresentato come il genere umano si sollevi a quello stato in cui tutti i germi posti in lui

siano sviluppati.

Successivamente l’interesse di Kant si sposta verso lo studio della condizione morale e civile dell’Europadi fine ‘700 in “Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo”. Secondo l’autore quell’epoca non era

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un’età illuminata ma un’età d’illuminismo, perché ancora ci sarebbe voluto molto perché gli uomini pos-

sano servirsi del proprio intelletto, con sicurezza e bene, in cose di religione. Il principale punto

dell’illuminismo è costituito, quindi, dall’uscita dell’uomo dalla minorità di cui ha colpa egli stesso.

L’illuminismo, quindi, è definito come “la liberazione dell’uomo dallo stato di minorità volontaria”. Mi-

norità intellettuale è l’incapacità di risolvere mediante il proprio intelletto i problemi che la vita propone e

la conseguente necessità di ricorrere alla guida dell’intelletto altrui; questa minorità può essere definita

volontaria quando la rinuncia a decidere non dipende da oggettiva mancanza di capacità, ma da pigrizia o

da viltà. Molto difficile è per il singolo individuo uscire da questa minorità, soprattutto quando la ama.

Più fattibile ed inevitabile è che sia un pubblico ad illuminarsi, giacché qui si troveranno sempre alcuni

che pensano liberamente e diffonderanno lo spirito di una stima razionale del proprio valore d’ogni singo-

lo uomo e della sua predisposizione a pensare in modo autonomo. L’unica cosa che serve a

quest’illuminismo è la libertà di fare in qualsiasi campo, pubblico uso della propria ragione, inteso come

uso che ognuno fa di essa come studioso di fronte ad un pubblico di lettori. L’uso privato, infatti, della

ragione può essere spesso limitato, e con questo termine Kant intende, l’uso che si fa della propria ragione

in un certo impiego o ufficio civile. Si può concludere che perché vi sia un vero e compiuto illuminismo è

necessario che la natura sviluppi un germe a se caro, vale a dire la tendenza e la vocazione al libero pen-

siero, il quale agirà sul modo di sentire del popolo e sui principi del governo.

Il VI capitolo è dedicato alla recensione dello scritto di Herder “Idee per la filosofia della storia

dell’umanità”, nel quale l’autore raccoglie e trasforma, secondo una legge dell’assimilazione, le idee dal

campo delle scienze e delle arti per aggiungerle ad altre. In questo modo quella che lui chiama filosofia

della storia dell’umanità diviene un qualcosa di diverso da quello che generalmente s’intende con questo

termine. Herder inizia subito con indicare all’uomo, nel primo di dieci libri, il suo posto tra gli altri abita-

tori dei pianeti del sistema solare e, dalla vantaggiosa posizione intermedia del corpo celeste che lui abita,

fa derivare che l’unica meta di questo sarà entrare in relazione con tutte le creature di questi diversi mondi

giunte a maturità. Anche dalla stessa forma sferica della terra e dall’inclinazione eclittica riesce a ricavare

le considerazioni sulla destinazione dell’uomo. La struttura della Terra, invece, è usata per spiegare la di-

versità della storia dei popoli; proprio dove vi sono meno interruzioni della terra ferma il genere umano

ha avuto origine, quindi, secondo Herder, la prima sede dell’uomo non era l’America, ma l’Asia. Il se-

condo libro si occupa delle forme organizzate della Terra, iniziando dal granito sul quale agirono luce, a-

ria, acqua, che trasformarono il silicio nel calcare al cui interno si formarono i primi esseri viventi del ma-

re, le conchiglie. La vegetazione, invece, ebbe inizio in seguito. L’autore prosegue poi comparando la

formazione dell’uomo con quella delle piante e l’amore sessuale del primo con la fioritura delle seconde,

considerando, infine, l’uomo come una creatura intermedia fra gli animali con la forma più comprensiva, poiché, si raccolgono in lui i tratti di tutte le specie che lo circondano. Il terzo libro, invece, confronta la

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struttura delle piante e degli animali con l’organizzazione degli uomini, giungendo alla differenza essen-

ziale della natura dell’uomo, ovvero, la sua andatura eretta che è l’organizzazione finalizzata all’intera

missione della sua specie e il suo carattere distintivo. Quest’argomento è ripreso ed ampliato nel succes-

sivo libro, dove l’autore si chiede cosa manca alla scimmia, la creatura più simile all’uomo, per cui essa

non divenne tale. Infatti, la scimmia possiede tutte le parti del cervello che ha l’uomo, però le ha in una

 posizione al contrario, questo perché la sua testa era formata con un’altra angolazione e non era fatta per 

l’andatura eretta, tipica dell’uomo, con la quale egli divenne capace di creare con mani libere e industrio-

se. Dio ha elevato l’uomo così che, egli, seppur involontariamente, ricerchi la causa delle cose. Il primo

 problema che si pone è che la religione porta la speranza e la fede nell’immortalità, argomento trattato nel

V libro, nel quale l’autore afferma che per ogni creatura è stata disposta anche la durata della vita. Tanto

 più organizzata è una creatura, tanto più la sua struttura prende dai regni inferiori, e come ha già detto

 precedentemente, l’uomo è un compendio del mondo, poiché diversi elementi e forze sono in lui unificati

in modo organico. Il genere umano può essere considerato come la gran confluenza di forze inferiori che

in lui dovevano germinare per la formazione dell’umanità. L’autore, poi, conclude che, l’attuale stato

dell’uomo, è sicuramente un anello intermedio che collega due mondi; infatti, se da un lato, l’uomo, chiu-

de la catena delle organizzazioni terrene, dall’altro da inizio a quella di un genere più alto di creature, di-

venendo, così, l’anello intermedio fra due sistemi della creazione fra loro concatenati. L’idea di questa

 prima parte consiste nel dimostrare la natura spirituale dell’anima umana, il suo persistere e i suoi pro-

gressi verso la perfezione, sulla base dell’analogia con le formazioni naturali della materia, al cui scopo

sono presupposte delle forze spirituali. Da quest’analogia si potrebbe concludere che in un altro pianeta,

ci potrebbero essere delle creature che occupano il successivo e più alto stadio dell’organizzazione rispet-

to all’uomo, ma non che questo possa essere raggiunto dall’individuo stesso. Per quanto riguarda il regno

invisibile delle forze efficaci ed autonome, l’autore ritiene queste forze spirituali come qualcosa di diver-

so dall’anima umana, vedendo questa come l’effetto di un’universale invisibile natura che opera sulla ma-

teria e la rende viva. L’opera di Herder procede con la descrizione dei popoli che abitano vicino al Polo

 Nord e alle catene montuose che dalla Cina meridionale, attraverso il Tibet, arrivano sino al Mar Nero;

della zona dei popoli già civilizzati e delle nazioni africane, degli uomini nelle isole della zona tropicale e

degli Americani, concludendo la descrizione con l’augurio di una nuova raccolta di nuovi e più approfon-

diti ritratti delle nazioni. Il VII libro considera innanzi tutto le affermazioni secondo cui, il genere umano

sarebbe dappertutto un unico genere, e solo questo si sarebbe acclimatato in ogni luogo sulla Terra.

L’autore illustra anche quali sono i diversi effetti del clima sulla formazione dell’uomo nel corpo e

nell’anima. VI e VII libro contengono, secondo Kant, solo estratti da descrizioni di popoli. Per quanto

concerne, poi, la suddivisione della specie umana in razze, Herder, non è favorevole, soprattutto a quellache si fonda su colori ereditari. Con l’ottavo libro inizia un nuovo corso di pensieri che riguarda l’origine

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della formazione dell’uomo come creatura morale e razionale, che dovrebbero essere cercati al di fuori di

lui, in un insegnamento da altre nature. In questo libro, Herder, tratta l’uso dei sensi umani,

l’immaginazione dell’uomo, il suo intelletto, i suoi impulsi, ecc. Il IX libro si occupa della dipendenza

dell’uomo dagli altri nello sviluppo delle facoltà; del linguaggio come mezzo per la formazione degli uo-

mini; dei governi, come ordinamenti istituiti tra questi da tradizioni ereditarie; e, infine, parla delle anno-

tazioni sulla religione e sul tradimento più antico. L’ultimo libro contiene, soprattutto, il risultato dei pen-

sieri che Herder aveva già esposto nei precedenti libri, riprendendo, inoltre, l’ipotesi sulla storia mosaica

della creazione, dallo scritto Il più antico documento del genere umano. Si conclude così, ciò che Herder 

voleva presentare al mondo, cioè un modello della vera arte del filosofare.

 Nel VII capitolo troviamo lo scritto “Sull’illegittimità della riproduzione di libri”, che costituisce l’unico

scritto propriamente giuridico di Kant, che considera l’edizione come la conduzione di un negozio in no-

me dell’autore. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio diritto dell’editore che deve dimostrare il torto

della pretesa del riproduttore, cioè di colui che intraprende un negozio senza l’autorizzazione del proprie-

tario e contro la sua volontà. L’editore, invece, possiede il diritto di appropriarsi del guadagno che nasce

dal negozio, in quanto frutto della sua proprietà e il diritto all’edizione è un diritto affermativo personale;

 personale perché è un diritto fra persone, cioè l’obbligazione contrattuale reciproca a certi atti; affermati-

vo perché deriva dal consenso di entrambe le parti. L’editore, inoltre, attraverso il libro non parla per sé,

ma in nome dell’autore, che trova nella stampa il mezzo con cui portare al pubblico il suo discorso.

L’esemplare su cui l’editore appronta la stampa è un’opera dell’autore e appartiene interamente al primo

una volta che questo l’abbia acquistato, attraverso questo speciale contratto con l’autore. Chi pubblica

senza questo contratto con quest’ultimo è il riproduttore che lede il vero editore e, di conseguenza, deve

risarcirgli il danno. La ragione per la quale, a differenza delle opere d’arte, i libri che hanno il loro legit-

timo editore non possono essere riprodotti deriva dal fatto che si tratta d’azioni che derivano la loro esi-

stenza solo in una persona e, poiché spettano solo all’autore, nessuno può tenere un discorso se non in suo

nome.

 Nello VIII capitolo Kant, nel testo “Determinazione del concetto di razza umana”, riprende la tesi che il

genere umano sia distinto in razze, derivanti tutte da un unico ceppo originario. L’autore esordisce con

l’affermazione che solo quello che in un genere animale è ereditario può giustificare una sua differenzia-

zione in classi; ad esempio, il colore della pelle che viene trasmesso dai genitori, con riguardo al quale si

 possono operare quattro distinzioni degli uomini in classi: bianchi, Indiani gialli, negri, e Americani ros-

so-rame. La separazione per mezzo della pigmentazione deve essere considerata come l’elemento più im-

 portante della differenza della previdenza della natura, poiché la creatura, trasferita in ogni clima e terreno

dove è influenzata da aria e sole, si deve mantenere in modo integro, e che la pelle porta in sé la traccia diquesto carattere naturale che giustifica la suddivisione del genere umano in classi visibilmente diverse.

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Kant continua scrivendo che nella classe dei bianchi, così come in tutte le altre classi, a parte tutto quello

che appartiene in genere al genere umano, nessun’altra proprietà caratteristica è necessariamente eredita-

ria. Il carattere delle classi si trasmette immancabilmente nelle mescolanze eterogenee. Possiamo conclu-

dere che le quattro differenze di colore siano, tra quelle ereditarie, le uniche che si ereditino immancabil-

mente. Si dovrebbe quindi ammettere che un tempo siano esistiti diversi ceppi d’uomini che, affinché si

conservasse il genere, erano conformati dalla natura per le diverse zone climatiche, e diversamente orga-

nizzati. Segno esteriore di ciò è il quadruplice colore della pelle, che si erediterà in ogni ceppo e si man-

terrà inalterato anche in altri climi in tutte le generazioni di una stessa classe. La natura ha dato ad ogni

ceppo il suo carattere originariamente in riferimento al suo clima e per l’adattamento ad esso. In ogni ca-

so, solo se si ammette che le disposizioni verso le differenze di classe devono essersi trovate nei germi di

un unico primo ceppo, è possibile capire perché sono nate diverse classi d’uomini che dovevano portare il

loro carattere determinato anche nella generazione con un’altra classe. Le proprietà che appartengono al

genere stesso, quindi comuni a tutti gli uomini in quanto tali, sono immancabilmente ereditarie, ed è per 

questo che non se ne tiene conto nella suddivisione in razze. Si prendono in considerazione solo quei ca-

ratteri fisici che distinguono gli uomini fra loro e che sono ereditari. In questo modo si forma la suddivi-

sione del genere in classi, che sono chiamate razze solo se questi caratteri sono trasmessi immancabil-

mente. Da tutto ciò possiamo dedurre il concetto di razza: la differenza di classe degli animali di uno stes-

so ceppo, in quanto sia immancabilmente ereditaria.

Spesso sottovalutato, lo scritto “Inizio congetturale della storia degli uomini”, occupa il IX capitolo di

questa raccolta, nel quale Kant, fa derivare l’inizio della storia dell’uomo da congiunture e cerca di mette-

re in evidenza come la strada percorsa dalla filosofia secondo concetti, si accorda con quella che fornisce

la storia attraverso il testo sacro della Genesi. Kant suppone direttamente l’esistenza dell’uomo in età a-

dulta, inserito in una coppia singola, in modo che riproduca la sua specie e non nasca immediatamente la

guerra. L’autore pone questa coppia in un luogo sicuro, al riparo da animali predatori e fornito di tutte le

ricchezze della natura, ed inoltre lo immagina già dotato d’abilità nel parlare, nel pensare, nel camminare,

ecc. L’uomo, inizialmente guidato dall’istinto, quella voce cui tutti gli animali obbediscono e che proibi-

sce di fare determinate cose mentre ne permette altre, ben presto scoprirono di poter anche scegliere da

solo cosa fare, tradendo questo impulso naturale. In questo modo l’uomo si rende conto della propria ra-

gione, come di una facoltà che può andare oltre i limiti cui sono costretti tutti gli animali. Il primo tentati-

vo, rappresentato dal frutto se si considera la Genesi, seppur come incidente un po’ insignificante, aprì

all’uomo gli occhi; egli scoprì in sé la possibilità di scegliere il suo modo di vita fra tanti, e non essere le-

gato necessariamente ad uno come accade per gli animali. Un altro istinto che seguì quello alla nutrizione

fu quello sessuale, con cui la natura si preoccupa della conservazione di ogni specie. Anche su questo i-stinto la ragione manifestò il suo influsso, infatti, l’uomo scoprì che lo stimolo del sesso, che per gli ani-

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mali è passeggero, in lui può essere prolungato e aumentato per mezzo dell’immaginazione, sottraendo

l’oggetto ai sensi. Questo dimostra che l’uomo era già capace di dominare gli impulsi attraverso la ragio-

ne e, la rinuncia fu la causa che condusse da stimoli solo percepiti a ideali, dal desiderio puramente ani-

male all’amore. La costumatezza inoltre fu il primo segno della formazione dell’uomo come creatura mo-

rale. Passo successivo della ragione fu la consapevole attesa per il futuro, facoltà di pensare e prepararsi a

fini anche molto lontani nel tempo. Quarto e ultimo passo compiuto dalla ragione consiste nella consape-

volezza dell’uomo come il fine della natura. L’uomo adesso non considera più gli altri animali come dei

compagni, ma innalzandosi di fronte a questi, li pensa come strumenti per i suoi scopi. Quindi, la consa-

 pevolezza riflessiva della differenza dall’animale, il suo uso come mezzo, conduce l’uomo a pensarsi co-

me fine, e dunque a riconoscere reciprocamente gli appartenenti al proprio genere com’eguali.

Il passo che l’uomo ha compiuto all’inizio della sua storia, è il passaggio dallo stato selvatico tipicamente

animale all’umanità, dalla tutela della natura allo stato di libertà. Per l’individuo questo cambiamento fu

una perdita, giacché nell’uso della libertà guarda solo a se stesso; per la natura, che nell’uomo indirizza il

suo fine al genere, fu un guadagno.

Con l’inizio del periodo seguente, l’uomo passò dall’età dell’indolenza e della pace a quella del lavoro e

della discordia come preludio all’unificazione in società. Qui, Kant pensa l’uomo già in possesso di ani-

mali addomesticati e capace di nutrirsi con i frutti della terra che lui stesso seminava. Ed è proprio dal di-

verso modo di concepire e sfruttare la terra che nascono i primi contrasti fra coloro che la coltivano e co-

loro che la usano per nutrire il pascolo. L’agricoltore accusava il pastore di provocare danni ai suoi campi

ma quest’ultimo non considerava vietate le intrusioni del suo gregge sui terreni di questo. Questa separa-

zione da luogo alla terza epoca. Per difendersi contro gli attacchi dei pastori, gli agricoltori decisero di u-

nirsi fra di loro per aiutarsi a vicenda, e formarono i primi villaggi. È proprio in questa fase che nascono il

 baratto come forma di scambio di merce contro merce, la cultura, l’inizio dell’arte, della costituzione civi-

le e giustizia pubblica. Si svilupparono tutte le arti umane fra le quali quella della socialità e della sicurez-

za civile. Con quest’epoca, però, inizia anche la disuguaglianza tra gli uomini. Più tardi, quando i pastori

ammaliati dalla ricchezza della città si unirono agli abitanti, finì anche il pericolo di guerra e il genere

umano si allontanò dal progresso nel perfezionamento delle sue disposizioni al bene indicatogli dalla na-

tura. Kant così giunge a delineare in modo molto sintetico il risultato della storia degli uomini, attraverso

la filosofia: soddisfazione nei confronti della provvidenza e dell’andamento delle cose umane nel loro in-

sieme, andamento che si sviluppa gradualmente dal peggio al meglio; a questo progresso ognuno è chia-

mato dalla stessa natura a contribuire per la sua parte, secondo le sue forze.

Il X capitolo parla della critica di Kant sullo scritto di Hufeland “Saggio sul fondamento del diritto

naturale”, dove l’autore cerca di trovare con riguardo al diritto di natura, non solo i primi concettifondamentali e i principi, ma anche la sua fonte nella stessa facoltà della ragione. Il saggio è formato da

dieci capitoli che racchiudono molti argomenti come l’oggetto del diritto di natura, lo sviluppo del

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toli che racchiudono molti argomenti come l’oggetto del diritto di natura, lo sviluppo del concetto di dirit-

to, le necessarie proprietà dei suoi principi, i diversi sistemi e le loro dimostrazioni. Secondo Kant il per-

no di tutta l’opera è il principio della fondazione di un sistema proprio, del quale si cerca di trovare sia la

fonte sia la destinazione, che occupa l’VIII capitolo del saggio. Hufeland cerca per la fondazione della

legge pratica una materia, un oggetto che, come fine supremo di un essere razionale, possa essere consi-

derato come un postulato, e lo pone nel perfezionamento di questo stesso essere. Inoltre, pone il fonda-

mento di ogni diritto di natura e di qualsiasi facoltà giuridica in una precedente obbligazione naturale, e

l’uomo può costringere perché è a questo obbligato. Anche se l’autore fonda tutta la scienza dei diritti na-

turali sull’obbligazione, egli non v’include l’obbligazione degli altri a dare soddisfazione al nostro diritto,

ed è per questo che considera la dottrina dell’obbligazione superflua. Poiché, comunque, non si può trala-

sciare nulla del proprio diritto, siamo autorizzati ad usare una coazione usando eventualmente la forza,

 per ottenere la perfezione che ci viene negata, in base alla facoltà di costringere. Per quanto riguarda il di-

ritto al risarcimento, questo non ha luogo come diritto coattivo, e non ammette neanche al-

cun’imputazione, giacché non s’incontra nessun giudice.

 Nell’XI e nel XII capitolo troviamo gli unici due saggi in cui vengono svolti, e non solo accennati, argo-

menti teorico-politici, e dedicano alla questione della filosofia della storia sezioni specifiche, strettamente

connesse a quelle in cui la politica è al centro dell’esposizione, venendo affrontata da un’ampia prospetti-

va, nella quale morale, antropologia e storia sono legate fra loro da un nesso inestricabile. Il primo di que-

sti saggi è “Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi”, dove Kant

spiega innanzi tutto spiega cosa s’intende per teoria, un insieme di regole che vengono pensate come

 principi, e cosa per prassi, l’attuazione di un fine che venga pensata come applicazione di certi principi

dell’agire, rappresentati in generale. L’autore suddivide la trattazione secondo i tre diversi punti di vista

dai quali si pone il gentiluomo che discute con tanta presunzione di teorie e sistemi, per giudicare il suo

oggetto. Discute, quindi, come privato e uomo pratico, come uomo di Stato, come uomo cosmopolitico, e

unisce tutte e tre persone nel dare addosso all’uomo di scuola che elabora teorie. Kant presenta, quindi, il

rapporto fra teoria e prassi in tre capitoli: riguardo alla morale, in vista del bene di ogni uomo; riguardo

alla politica, in riferimento al bene degli Stati; e dal punto di vista cosmopolitico, in vista del bene del ge-

nere umano nella sua interezza. Il primo capitolo è intitolato Sul rapporto fra teoria e prassi nella morale

in generale, dove punto della controversia è se l’uso di un unico e medesimo concetto possa valere per la

sola teoria o anche per la prassi. Kant risponde subito ad alcune obiezioni del prof. Garve, affermando che

la morale è una scienza che insegna come diventare degni di felicità, e che il concetto del dovere non ne-

cessita di alcun fine particolare, anzi, esso produce un altro fine per la volontà dell’uomo, e cioè, concorre

con tutte le sue facoltà al sommo bene possibile nel mondo. Quando comunque si tratti del vero puntodella controversia, cioè nella questione del principio della morale, la dottrina del sommo bene può essere

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messa da parte, in quanto si prende in considerazione solo la morale universale. Kant giunge alla conclu-

sione che tutto quello che nella morale è giusto in teoria deve valere anche nella prassi. Chiunque, in qua-

lità di uomo, in quanto sottoposto a certi doveri per mezzo della sua ragione, è un uomo pratico; e poiché

egli come uomo non è mai troppo vecchio per la scuola della saggezza, non può rimandare a scuola il se-

guace della teoria con disprezzo. Infatti, tutta la sua esperienza non lo aiuta per nulla sottrarsi alla prescri-

zione della teoria, ma solo ad imparare come questa può essere messa in pratica meglio quando la si sia

acquisita tra i propri principi.

 Nel secondo capitolo, Sul rapporto della teoria con la prassi nel diritto dello Stato, Kant risponde adesso

alle obiezioni mosse da Hobbes. Secondo il nostro autore il contratto d’instaurazione di una costituzione

civile tra una moltitudine di uomini, è il più particolare che esista, in quanto deriva da un’unione di molti

che sia fine in se stessa, quindi l’unione riguardo a qualsiasi rapporto esterno degli uomini in generale.

Un’unione di questo tipo si può avere solo in una società che si trovi nello stato civile. Il fine di questo

rapporto esterno è il diritto degli uomini sotto leggi coattive pubbliche. Ma, poiché il diritto esterno deriva

dal concetto della libertà nel rapporto reciproco degli uomini, non si deve intromettere in quella legge

come suo fondamento di determinazione. Diritto è quindi la limitazione della libertà di ognuno alla con-

dizione dell’accordo di questa con la libertà di altri; e diritto pubblico è l’insieme delle leggi esterne che

rendono possibile quest’accordo. Da tutto ciò deriva che la costituzione civile è un rapporto di uomini li-

 beri che sta sotto leggi coattive. Lo stato civile è fondato su tre principi: la libertà di ogni membro della

società, come uomo; l’eguaglianza di ogni membro con ogni altro, come suddito; l’indipendenza di ogni

membro di un corpo comune, come cittadino.

Per quanto riguarda il primo principio, Kant lo riassume nella formula: nessuno mi può costringere ad es-

sere felice nel modo in cui egli pensa il benessere degli altri uomini, ma ognuno deve cercare la propria

felicità nel modo in cui ritiene migliore, purché non leda l’altrui libertà di tendere allo stesso fine.

Il secondo, l’eguaglianza come suddito, può essere riassunto così: ogni membro del corpo comune ha ver-

so ogni altro diritti coattivi, dai quali è escluso solo il capo di questo corpo che ha il potere di costringere

senza essere sottoposto a sua volta a leggi coattive. Secondo il diritto in quanto sudditi sono tutti eguali

fra loro. Da quest’idea deriva un’altra formula: ogni suo membro deve poter raggiungere dal punto di vi-

sta del ceto quel livello al quale il suo talento, il suo lavoro, la sua fortuna, la portano; e gli altri sudditi

non possono essere d’intralcio con una prerogativa ereditaria.

Il terzo principio riguarda l’indipendenza del membro del corpo comune come cittadino, ossia come legi-

slatore. Anche con riguardo alla legislazione, coloro che sotto leggi pubbliche già esistenti sono liberi ed

eguali, non sono comunque, per quanto riguarda il diritto, da considerare come eguali nel dare queste leg-

gi. Coloro che non possono darle sono egualmente tenuti all’osservanza di queste leggi come membri delcorpo comune, e non solo come cittadini, ma come soci protetti. Colui che in questa legislazione ha il di-

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ritto di voto si chiama cittadino, e la qualità che si esige a questo fine è che egli sia suo proprio signore,

cioè abbia una qualche proprietà; cioè, egli nel caso in cui dovesse acquistare da altri per vivere, lo do-

vrebbe fare esclusivamente attraverso l’alienazione di ciò che è suo, e non attraverso la concessione delle

sue forze ad altri. Punto fondamentale è che tutti coloro che posseggono questo diritto di voto si devono

accordare sulla legge della giustizia pubblica, altrimenti nascerebbe un conflitto giuridico. Quando, quin-

di, il consenso a questa legge viene solo da una maggioranza, l’instaurazione di una costituzione civile

avviene con il contratto. E’ allora il contratto originario l’unico su cui può essere fondata una costituzione

civile tra gli uomini, secondo il diritto. Questo contratto non si deve assolutamente presupporre come un

fatto. Si tratta di una semplice idea della ragione e obbliga il legislatore ad emanare le leggi così come sa-

rebbero potute nascere dalla volontà riunita di un intero popolo, e considerare ogni suddito come se aves-

se dato il suo assenso a questa volontà. Al suddito, comunque, non resta che obbedire. Prima che si formi

la volontà generale, il popolo non possiede alcun diritto coattivo verso il suo capo, perché solo con essa lo

 può costringere giuridicamente; ma anche quando poi esiste non si dà alcuna coazione perché altrimenti il

 popolo diverrebbe il capo supremo. Al popolo quindi non spetta alcun diritto coattivo verso il capo dello

Stato. Questa teoria è confermata anche nella prassi. Il popolo ha nonostante ciò i suoi inalienabili diritti

verso il capo dello Stato. Hobbes invece è di contraria opinione. Secondo lui, infatti, il capo dello Stato

non è obbligato a nulla verso il popolo, e non può compiere ingiustizia verso il cittadino. Il principio uni-

versale secondo cui un popolo ha i suoi diritti negativamente, cioè solo per giudicare quello che potrebbe

essere considerato come non decretato dalla suprema legislazione con la sua massima volontà, sta nella

 preposizione: ciò che un popolo non può deliberare su se stesso, non può neppure essere deliberato dal le-

gislatore sul popolo.

 Nel terzo capitolo, Del rapporto della teoria con la prassi nel diritto delle genti, Kant risponde, infine, alle

obiezioni mosse da Mendelsshon. L’autore afferma che nel suo complesso il genere umano o si ama o si

disprezza. Si ama quando si avvicina al bene altrimenti si disprezza. Di quest’opinione era Mendelsshon,

che vedeva come un’utopia che l’umanità nel susseguirsi delle ere debba sempre procedere avanti e mi-

gliorarsi; anche se l’uomo va avanti, l’umanità è in costante oscillazione. Per Kant tutto questo costituisce

uno spettacolo, in quanto assistere per qualche tempo a questa tragedia può essere toccante ed istruttivo. Il

 progresso verso il meglio può essere interrotto ma mai fermato. Vi sono anche le prove che il genere u-

mano nel suo insieme, in paragone con tutte le ere precedenti, sia nell’era attuale realmente progredito dal

 punto di vista morale. Questo progresso verso il meglio può essere mantenuto ed accelerato da ciò che la

natura umana farà in noi, costringendoci ad un percorso cui da soli ci adatteremmo difficilmente. Soltanto

dalla provvidenza ci possiamo attendere un risultato completo. In nessun campo la natura umana appare

meno degna di essere amata che nei rapporti tra i popoli. Nessuno Stato è mai sicuro della propria indi- pendenza e proprietà nei confronti di un altro Stato. Contro la volontà di soggiogarsi reciprocamente e

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l’armarsi per la difesa, non c’è alcun altro mezzo se non un diritto delle genti fondato su leggi pubblica-

mente dotate di potere, al quale deve essere sottoposto ogni Stato. Una pace universalmente durevole at-

traverso il così detto equilibrio delle potenze in Europa è una pura illusione. Questo è il progetto di uno

Stato universale di popoli, sotto il cui potere tutti gli Stati si dovrebbero adattare per obbedire alle sue

leggi. Ma gli Stati non lo faranno mai, e così può valere solo per la teoria ma non per la prassi. Kant spera

che nonostante questo, sia introdotto quest’universale Stato di popoli, confidando nella natura delle cose

che sarà poi messa in accordo con la natura umana, che non vuole considerare sprofondata così tanto nel

male. Così anche in prospettiva cosmopolitica rimane salda l’affermazione: ciò che secondo principi della

ragione vale per la teoria, vale anche per la prassi.

Il secondo saggio che tratta argomenti terico-politici è “Per la pace perpetua”, nel quale la tesi più interes-

sante è che sarà l’egoismo degli uomini a condurli in questo stato di pace perpetua; sarà, cioè, la miseria

sempre maggiore derivante dal moltiplicarsi delle guerre a dimostrare il vantaggio comune per tutti i po-

 poli di rinunciare definitivamente ad esse. La prima sezione del saggio, contenente gli articoli preliminari

 per la pace perpetua fra gli Stati, stabilisce innanzi tutto che nessun trattato di pace che sia stato fatto con

la segreta riserva di materie per guerre può valere come tale; ciò a significare che questo trattato sarebbe

una semplice tregua e non pace perpetua. Il secondo articolo vieta, invece, che uno Stato possa essere ac-

quistato da un altro; questo perché uno Stato non è un bene, ma una società di uomini sulla quale ha la fa-

coltà di disporre e comandare lo Stato stesso. Annetterlo significa soffocare la sua esistenza come persona

morale, andando anche contro l’idea del contratto originario. Ancora, perché vi possa essere la pace per-

 petua devono scomparire gli eserciti permanenti, che minacciano incessantemente di guerra gli altri Stati

con l’addestramento incitandoli a superarsi a vicenda; non devono essere contratti debiti pubblici per le

relazioni esterne dello Stato in quanto, un sistema di credito fondato su debiti che aumentano incessante-

mente, costituisce un pericoloso potere finanziario; è vietata l’intromissione forzata di uno Stato nella co-

stituzione e nel governo di un altro, poiché costituirebbe una violazione del diritto di un popolo che lotta

con una sua malattia interna e non dipende da nessun altro; infine, nessuno Stato in guerra con un altro si

 può permettere atti di ostilità che potrebbero rendere impossibile la reciproca affidabilità nella futura pa-

ce, infatti, anche nel mezzo della guerra vi deve sempre essere un minimo di fiducia fra gli Stati, perché

altrimenti non potrebbe essere conclusa alcuna pace, e l’ostilità si trasformerebbe in guerra di sterminio.

Gli articoli definitivi per la pace perpetua fra gli Stati sono contenuti nella seconda sezione del saggio,

che esordisce specificando che la costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana, cioè una co-

stituzione fondata sui principi della libertà dei membri di una società, della dipendenza di questi da

un’unica comune legislazione, e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questa costituzione re-

 pubblicana è l’unica che presenta la prospettiva della conseguenza voluta, cioè la pace perpetua. Il secon-do articolo definitivo stabilisce che il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo di liberi

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Stati. Ci dovrebbe essere una confederazione particolare, chiamata confederazione pacifica, distinta dal

trattato di pace che cerca di dar fine ad una guerra mentre quella a tutte le guerre, rivolta al mantenimento

e all’assicurazione della libertà degli Stati confederati. Secondo l’ultimo articolo definitivo, il diritto co-

smopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale, intesa come il diritto di uno

straniero di non essere trattato ostilmente quando arriva sul suolo di un altro, in forza di un diritto di visi-

ta, spettante a tutti gli uomini, di proporsi come membri della società per via del diritto al possesso comu-

ne della superficie della terra. Si può concludere che, dato che la comunanza tra i popoli della terra si è

estesa a tal punto che la violazione del diritto compiuta in un punto della terra viene percepita in tutti,

l’idea di un diritto cosmopolitico diviene un completamento del codice non scritto sia del diritto dello Sta-

to, sia del diritto delle genti, per il diritto pubblico degli uomini in generale, e per la pace perpetua. Ciò

che assicura una garanzia della pace perpetua è la natura, il cui fine ultimo è di far sorgere dalla discordia

tra gli uomini, anche contro la loro stessa volontà, la concordia. Per quanto riguarda lo stato che la natura

ha creato per i personaggi che recitano sul suo grande palcoscenico, essa si è innanzi tutto preoccupata

che gli uomini potessero vivere dappertutto sulla Terra, spingendoli con la guerra dovunque e li ha co-

stretti ad entrare in rapporti più o meno legali. Quindi, la natura così come si è preoccupata che gli uomini

 potessero vivere dovunque, ha anche disposto che dovessero vivere ovunque, presupponendo così un con-

cetto del dovere che gli obbligasse a questo per mezzo di una legge morale; la natura, invece, per questo

suo fine ha scelto la guerra. Da tutti i giri tortuosi compiuti da un’immorale dottrina della prudenza per far 

nascere lo stato di pace fra gli uomini da quello di guerra, che è proprio dello stato di natura, risulta che

gli uomini, sia nei loro rapporti privati che in quelli pubblici, non possono sottrarsi al concetto del diritto

e non osano fondare pubblicamente la politica solo sulle manovre della prudenza, ma anzi gli rendono tut-

ti gli onori dovuti.

Per quanto riguarda la questione se ci sia o meno un conflitto fra morale e politica nella prospettiva della

 pace perpetua, Kant spiega che oggettivamente, nella teoria, non vi è alcun conflitto. Soggettivamente,

invece, questo conflitto c’è, e questo è un bene, perché serve per rendere affilata la virtù, il cui vero co-

raggio consiste nell’affrontare il cattivo principio in noi stessi e nel vincerne la perfidia. Il principio mora-

le negli uomini non si estingue mai, la ragione, che attua le idee del diritto secondo quel principio, a tal

fine cresce costantemente per mezzo di una cultura sempre in progresso. La vera politica non potrà mai

fare alcun passo avanti senza prima aver reso omaggio alla morale. L’accordo della politica con la morale

è possibile solo in un’unione federativa, e tutta la prudenza politica ha come base giuridica la sua istitu-

zione nei più ampi confini possibili.

Kant conclude il suo saggio affermando che se è dovere e insieme una fondata speranza realizzare lo stato

di un diritto pubblico, allora la pace perpetua sarà un compito che, assolto poco a poco, si avvicina co-stantemente alla sua meta.

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Perno centrale del XIII capitolo, intitolato “Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini” del

1979, è se dire la verità sia un dovere fondamentale di ogni uomo. Rispondendo alle affermazioni di Ben-

 jamin Costant, secondo il quale dire la verità è un dovere, inscindibile dal concetto di diritto, ma solo ver-

so coloro che hanno diritto alla verità, concludendo che nessun uomo ha però diritto ad una verità che

danneggi gli altri. Le obbiezioni mosse da Kant sono innanzi tutto che si dovrebbe parlare non di “aver 

diritto alla verità”, ma di veridicità in quanto verità soggettiva. La veridicità nelle affermazioni che non si

 possono eludere è un dovere formale verso chiunque, per quanto grande sia il discapito che ne possa veni-

re a lui o ad un altro. La menzogna, poi, non ha bisogno dell’aggiunta per cui debba recare danno ad un

altro, poiché danneggia l’umanità in generale e può anche diventare punibile secondo le leggi civili. Chi

mente, seppur benevolmente, deve sempre rispondere delle conseguenze di ciò anche davanti al tribunale

civile e sopportarne la pena. Essere veritieri è quindi un sacro comando di ragione. Ogni uomo ha perciò

non dolo un diritto ma anche un dovere alla veridicità nelle dichiarazioni che non può evitare, anche se

questa possa arrecare un danno a lui o ad altri. Egli, in questo modo non compie un danno, ma

un’accidentalità che causa quest’ultimo.

 Nel XIV capitolo, Sulla fabbricazione di libri, Kant porta avanti la critica contro Friederich Nicolai in due

lettere, l’una intestata al Signor Friederich lo scrittore, l’altra l’editore. La prima lettera parla

dell’appropriazione di una parte di una trattazione frammentaria di Möser dal titolo “Su teoria e prassi”,

che il Signor Nicolai sostiene aver ricevuto da egli per completarla. Si tratta di una storiella formata da

dodici casi che hanno come punto centrale l’ereditarietà. Nei primi sei i figli dei funzionari morti vengono

messi da parte, ciò per cui il popolo si trova male; negli altri sei, invece, vengono eletti, e questo porta al

miglioramento del popolo. Kant a questo punto risponde allo stesso Möser con un’altra storiella che ri-

guarda però soltanto gli ultimi sei governi, durante i quali il popolo aveva eletto, per la felicità generale, il

figlio del predecessore, che appunto avviene nel settimo governo, il quale però progredito in cultura e lus-

so, aveva poca voglia di mantenere i possessi del padre con buona economia, ma aveva più voglia di go-

derseli. Così trova anche più conveniente, con il consenso del popolo, abolire il diritto di primogenitura. Il

 popolo adesso si trova meglio ed è più felice. La ripugnanza verso i matrimoni di diverso ceto viene con-

siderata solo un capriccio della vecchia costituzione feudale, ed infine nel dodicesimo governo si sorride-

rà della bontà della vecchia zia verso il giovane fanciullo, che si presume destinato ad essere il futuro du-

ca. I capricci del popolo, a poco a poco, si trasformeranno in mostruosità che sono contrarie ai suoi scopi,

ovvero alla felicità. Kant conclude la sua prima lettera affermando che si può parodiare quella costituzio-

ne fondata sul principio della felicità, anche quando si potesse con sicurezza concedere a priori che il po-

 polo la preferirà ad ogni altra.

La seconda lettera è indirizzata al signor Nicolai, in qualità di editore, ed inizia con le considerazioni diKant sull’editoria, definendo la fabbricazione di libri un settore dell’industria, che può guadagnare in mo-

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do eccessivo, se quella fabbricazione viene condotta col sistema della fabbrica, ciò avviene attraverso un

editore capace di giudicare e calcolare il gusto del pubblico e l’abilità del fabbricante da impiegarsi a tale

scopo. L’editore, comunque, per ravvivare il suo commercio ha bisogno di prendere in considerazione il

mercato su cui e verso cui di muovono i gusti del momento. Colui che nella fabbricazione e nel commer-

cio esercita una pubblica attività che si accorda con la libertà del popolo, è sempre un buon cittadino.

Ultimo capitolo di questa raccolta riguarda Il conflitto delle facoltà in tre sezioni, e più specificatamente

la seconda sezione: il conflitto della facoltà filosofica con la giuridica.

Quando gli si chiede se il genere umano progredisca sempre verso il meglio, Kant considera la totalità

degli uomini riuniti in società sulla Terra, suddivisi in popoli. In quanto, però, narrazione profetica di ciò

che il tempo futuro riserva, la storia dell’umanità è possibile solo a priori, che è resa fattibile solo perché

chi pronostica attua e prepara egli stesso gli eventi che egli annuncia in anticipo. I casi che possono con-

tenere una predizione sono tre: o il genere umano è in continuo regresso verso il peggio, tesi che si può

chiamare terrorismo morale, dove la caduta nel peggio del genere umano non può proseguire ininterrot-

tamente, in quanto finirebbe per distruggere se stesso; o è in costante progresso verso il meglio riguardo

alla sua destinazione finale, l’eudemonismo che appare insostenibile, e sembra promettere pochi vantaggi

ad una storia profetica dell’uomo rispetto al progredire sempre oltre sulla via del bene; oppure il genere

umano sta in un’eterna immobilità nello stadio attuale del suo valore morale tra i membri della creazione,

tesi che viene chiamata abderitismo, perché, dato che nelle cose morali non è possibile una vera immobi-

lità, un costante alternarsi di alti e bassi, non comporta nulla di diverso che se il soggetto fosse rimasto

nello stesso punto e immobile. Anche se si osserva che il genere umano sia in progresso non si può garan-

tire che poi a causa della disposizione fisica della nostra specie, non abbia inizio l’epoca del suo regresso;

questo perché noi abbiamo a che fare con esseri liberi nell’agire, a cui si può solo in precedenza dettare

cosa debbano fare, ma non predire cosa faranno. Se dovessimo attribuire all’uomo una volontà innata e

inalterabilmente buona, allora questo progresso verso il meglio si potrebbe predire con sicurezza, perché

riguarderebbe un avvenimento che egli stesso può produrre. Ma con la mescolanza, nella disposizione, del

 bene col male, di cui non consce la misura, non sa neppure quale effetto possa aspettarsene. Nel genere

umano si deve produrre una qualche esperienza che, in quanto evento, rinvii ad una costituzione e ad una

sua facoltà d’essere causa del suo progresso verso il meglio e creatore di questo progresso. Ad una certa

causa, comunque, si può predire un certo risultato, se si verificano le circostanze che ad esso concorrono.

L’evento storico che rende possibile risalire alla disposizione al bene, intesa come causa, è la Rivoluzione

francese e il disinteressamento mostrato dai suoi attori e dai suoi spettatori. Il progresso, quindi, è certo

una condizione di possibilità, cioè la condizione di pensabilità in generale della storia umana, ma deve es-

sere prima verificato in uno specifico evento reale. Per quanto riguarda il guadagno derivante dal progres-so Kant lo trova in un aumento, non di moralità nell’intenzione, ma di legalità in azioni conformi al dove-

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re, ossia di buone azioni degli uomini, che si produrranno sempre più numerose e migliori. Ci si può at-

tendere il progresso verso il meglio attraverso il corso delle cose che vada dall’alto verso il basso. Si può

concludere che, benché il genere umano nella sua totalità sia condizionato dall’impossibilità di decidere il

suo destino, il progresso deve e può allora costituire sia l’idea che permette d’interpretare gli eventi uma-

ni, sia il fine razionale della prassi politica. Per Kant progresso è il concetto che definisce come compito e

come responsabilità la realizzazione dell’idea di costituzione politica massimamente perfetta che è l’unico

esempio della nozione Kantiana di idea in generale.

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