IMMANUEL KANT de La critica del giudizio 4 Idea di una storia universale 5 Per la pace perpetua 6...

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IMMANUEL KANT a cura di Giuliano Stabile La ragione umana ha questo peculiare destino in un genere delle sue conoscenze: che essa viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana.(Ragione pura A VII) 1 Commento de La critica della ragion pura 2 Commento de La critica della ragion pratica 3 Commento de La critica del giudizio 4 Idea di una storia universale 5 Per la pace perpetua 6 Kant e la fine del mondo 7 Passi scelti dalle opere di Kant 8 Relazione introduttiva al proprio insegnamento 1 - COMMENTO DE LA CRITICA DELLA RAGION PURA La "Critica della Ragion pura" è senza alcun dubbio il capolavoro filosofico kantiano e giunge al termine di oltre 35 anni di studio. L'opera, contrariamente al metodo di lavoro solitamente usato da Kant, è stesa in pochissimi mesi e ciò appare incredibile vista la mole e la struttura complessa dello scritto; essa giunge in un momento in cui il pensiero kantiano ha già raggiunto dei punti "fermi" imprescindibili. Tali presupposti possono essere così riassunti brevemente: l'intuizione è solo del sensibile perché solo con la sensibilità un oggetto è "dato"; l'intuizione sensibile coglie solo il singolare, il puro dato di fatto: di conseguenza ogni concetto astratto dai dati dell'intuizione sensibile è un concetto empirico, quindi incapace di generare una scienza rigorosa; un concetto "puro" è, per definizione, indipendente dai "dati" della sensibilità: dunque è nel nostro spirito indipendentemente da ogni influsso degli oggetti. Il problema che Kant deve a questo punto risolvere è questo: come può un concetto puro rappresentare un oggetto? A questo proposito scrive la "Critica della Ragion pura" nella quale egli stesso dice di operare una "rivoluzione copernicana"; ma cosa vuol dire? Kant vuol significare che nella sua filosofia, contrariamente a tutta la tradizione precedente, è l'oggetto che si adegua - "ruota" intorno - al soggetto; nella conoscenza è l'oggetto che si "adatta", quando viene conosciuto, alle leggi del soggetto che lo riceve conoscitivamente. "Noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello che noi stessi vi mettiamo". Nel 1783 Kant pubblica i "Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza" che sono un tentativo di esporre le dottrine della "Critica della Ragion pura" in forma più accessibile, cambiando il metodo espositivo. Nei "Prolegomeni" viene usato il metodo analitico: si parte cioè dal condizionato, la scienza, per risalire alle condizioni, cioè la ragione con i suoi elementi e le sue leggi; nella "Critica", invece, si usa il metodo sintetico: si parte dalle condizioni, la ragione, per spiegare il condizionato, cioè il sapere scientifico.

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IMMANUEL KANT a cura di Giuliano Stabile

La ragione umana ha questo peculiare destino in un genere delle sue conoscenze: che essa viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana.(Ragione pura A VII)

1 Commento de La critica della ragion pura 2 Commento de La critica della ragion pratica 3 Commento de La critica del giudizio 4 Idea di una storia universale 5 Per la pace perpetua 6 Kant e la fine del mondo 7 Passi scelti dalle opere di Kant 8 Relazione introduttiva al proprio insegnamento

1 - COMMENTO DE LA CRITICA DELLA RAGION PURA La "Critica della Ragion pura" è senza alcun dubbio il capolavoro filosofico kantiano e giunge al termine di oltre 35 anni di studio. L'opera, contrariamente al metodo di lavoro solitamente usato da Kant, è stesa in pochissimi mesi e ciò appare incredibile vista la mole e la struttura complessa dello scritto; essa giunge in un momento in cui il pensiero kantiano ha già raggiunto dei punti "fermi" imprescindibili. Tali presupposti possono essere così riassunti brevemente: l'intuizione è solo del sensibile perché solo con la sensibilità un oggetto è "dato"; l'intuizione sensibile coglie solo il singolare, il puro dato di fatto: di conseguenza ogni concetto astratto dai dati dell'intuizione sensibile è un concetto empirico, quindi incapace di generare una scienza rigorosa; un concetto "puro" è, per definizione, indipendente dai "dati" della sensibilità: dunque è nel nostro spirito indipendentemente da ogni influsso degli oggetti. Il problema che Kant deve a questo punto risolvere è questo: come può un concetto puro rappresentare un oggetto? A questo proposito scrive la "Critica della Ragion pura" nella quale egli stesso dice di operare una "rivoluzione copernicana"; ma cosa vuol dire? Kant vuol significare che nella sua filosofia, contrariamente a tutta la tradizione precedente, è l'oggetto che si adegua - "ruota" intorno - al soggetto; nella conoscenza è l'oggetto che si "adatta", quando viene conosciuto, alle leggi del soggetto che lo riceve conoscitivamente. "Noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello che noi stessi vi mettiamo". Nel 1783 Kant pubblica i "Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza" che sono un tentativo di esporre le dottrine della "Critica della Ragion pura" in forma più accessibile, cambiando il metodo espositivo. Nei "Prolegomeni" viene usato il metodo analitico: si parte cioè dal condizionato, la scienza, per risalire alle condizioni, cioè la ragione con i suoi elementi e le sue leggi; nella "Critica", invece, si usa il metodo sintetico: si parte dalle condizioni, la ragione, per spiegare il condizionato, cioè il sapere scientifico.

Sostanzialmente sono la stessa opera ed hanno comunque un "postulato" in comune: l'affermazione del "valore" della fisica e della matematica e il conseguente "disvalore" del sapere metafisico. Da ultimo bisogna ricordare anche l'uso terminologico alquanto difficile che viene usato da Kant nella "Critica"; tale linguaggio è diventato un punto di riferimento della filosofia successiva al punto che la lingua tedesca soppianterà del tutto il latino nelle filosofie ottocentesche. Del tutto nuovo è l'uso che Kant fa del termine "trascendentale"; egli per trascendentale intende la conoscenza del nostro modo di conoscere gli oggetti, ossia la condizione della conoscibilità degli oggetti: cioè ciò che il soggetto mette nelle cose nell'atto stesso del conoscere, ossia l'a priori.

Struttura dell'opera

Introduzione problemi della "Critica" teoria dei giudizi giudizi analitici giudizi sintetici a priori a posteriori Dottrina trascendentale degli elementi Estetica trascendentale (dottrina che studia le strutture della sensibilità e le sue "forme" a priori) spazio e tempo ("intuizioni pure" o "forme della sensibilità"; sono le forme a priori del soggetto, modi o funzioni del soggetto) Logica trascendentale (dottrina dell'intelletto: studia l'origine dei concetti ed i concetti a priori) analitica trascendentale (esposizione delle leggi del pensiero nella sua pura forma - uso legittimo) Intelletto = facoltà di giudicare cioè unificare il molteplice sotto una rappresentazione comune analitica dei concetti - "deduzione trascendentale delle categorie" (appercezione trascendentale o "Io penso") analitica dei principi - "schematismo trascendentale" (distinzione fenomeno - noumeno) dialettica trascendentale (esposizione della logica della conoscenza illusoria - uso illegittimo) Ragione = facoltà di sillogizzare cioè l'intelletto si spinge oltre l'esperienza possibile; critica dell'Intelletto nel suo uso "iperfisico" psicologia razionale - ha per oggetto l'anima ed i suoi paralogismi cosmologia razionale - ha per oggetto il mondo con le sue antinomie teologia razionale - ha per oggetto Dio quale ideale della ragion pura (uso regolativo delle Idee della ragione) Dottrina trascendentale del metodo disciplina della ragion pura canone della ragion pura architettonica della ragion pura storia della ragion pura [La dottrina trascendentale del metodo studia quel tipo di sapere che è possibile costruire a partire dalle strutture della nostra conoscenza.]

Teoria dei giudizi Per giudizio Kant intende la connessione di due concetti; ad esempio S è P, dove per S si intende il soggetto e P è il predicato. Vi possono essere tre tipi di giudizio.

1) giudizi analitici - il predicato esprime un carattere già compreso nel

concetto: sono a priori, cioè universali e necessari e,

quindi, non hanno bisogno dell'esperienza. (Esempi di

questi giudizi sono: gli scapoli sono uomini, o, come

afferma Kant, "i corpi sono estesi"(2)) Tali giudizi sono

meretautologie(3) perché non arricchiscono la nostra

conoscenza(4), sono puramente esplicativi; il principio di

identità e di non contraddizione fondano tali giudizi.

2) giudizi sintetici a posteriori - connettono soggetto e predicato in base ad una

constatazione di fatto, conseguentemente non sono

universali e necessari - a priori - ma arricchiscono la

nostra conoscenza. (Esempi di questi giudizi sono: "i

corpi sono pesanti", so questo solo dopo aver di fatto

pesato dei corpi) Tali giudizi sono estensivi del nostro

conoscere, naturalmente in senso empirico; l'evidenza, nel

senso di esperienza, fonda tali giudizi "sperimentali".

3) giudizi sintetici a priori - il predicato aggiunge una nozione nuova a quella del

soggetto (5) e sono universali e necessari (6). (Esempi di

tali giudizi sono le operazioni matematiche come: "7 + 5

= 12") Tali giudizi sono amplificativi del nostro

conoscere proprio in base alla loro apriorità; la

matematica e la fisica contengono proposizioni che non

sono frutto di semplici generalizzazioni di esperienze, ma

sono necessarie ed universali pur non essendo analitiche.

Solo con tali giudizi si dà una scienza rigorosa.

Il problema della "Critica" diventa ora quello di stabilire come sono possibili i giudizi sintetici a priori; il che equivale a chiedersi: come si giustificano le scienze matematiche e la fisica? È possibile fare della metafisica una scienza?

Estetica trascendentale I giudizi sintetici a priori sono possibili perché l'oggetto su cui sono pronunciati è un "fenomeno"; fenomeno è il prodotto risultante dai dati della sensibilità e da certe "forme a priori" che ordinano tali dati in una unità oggettiva. I concetti dell'intelletto non esprimono mai la "cosa in sé", essi non sono altro che forme unificatrici dei dati della sensibilità. Si può quindi affermare che il principio supremo dei giudizi sintetici a priori afferma che: "le condizioni della possibilità dell'esperienza (7) in generale sono ad un tempo condizioni della possibilità degli oggetti dell'esperienza". La "forma" del fenomeno viene dal Soggetto: è l'a priori della sensibilità, l'intuizione pura che prescinde dalle concrete sensazioni. Ma quali sono tali "forme pure a priori"? Esse sono spazio e tempo. Spazio e tempo sono "intuizioni pure" o "forme" della sensibilità in quanto altro non sono che modi e funzioni del Soggetto; spazio e tempo non ineriscono alle cose, ma sono "forme" della nostra intuizione sensibile, sono "forme" del Soggetto, cioè "idealità trascendentali". Spazio e tempo, quindi, non esistono in sé, ma soltanto in noi. Concludendo si può affermare che la "forma" della conoscenza sensibile dipende da noi, il contenuto no, ci è "dato". I giudizi sintetici a priori sono possibili perché si fondano sulle intuizioni pure di spazio e tempo; sono universali e necessari, ma hanno valore nel ristretto ambito fenomenico.

Analitica trascendentale L'analitica trascendentale rappresenta la "parte positiva" della logica trascendentale e studia gli elementi della conoscenza pura dell'intelletto e i principi senza i quali nessun oggetto può essere assolutamente pensato; insomma studia le forme a priori dell'intelletto. Per Kant, quindi anche l'intelletto, come la sensibilità, avrà le sue forme a priori e tali forme le avrà anche la ragione (8); per non confondersi nella complessa struttura kantiana, il tutto può essere così schematizzato:

Disciplina Facoltà Forme a priori

estetica trascendentale sensibilità spazio e tempo

analitica trascendentale intelletto categorie

dialettica trascendentale ragione idee

Nell'analitica dei concetti Kant vuol dimostrare che senza "concetti puri", cioè le categorie, non vi sono oggetti d'esperienza; dimostra ciò tramite quella che lui chiama la deduzione trascendentale delle categorie. Le categorie entrano necessariamente a costituire gli oggetti d'esperienza: l'oggetto d'esperienza è costituito proprio dalle intuizioni, sensibili, e dalle categorie. Ma cosa sono le categorie? Le categorie sono i modi in cui l'intelletto unifica e sintetizza, sono "forme unificatrici, sintetizzatrici" dei dati sensibili (9), sono i fondamenti della possibilità di ogni esperienza in generale. Capiamo così perché per Kant l'intelletto sia la facoltà di giudicare; ossia unificare un molteplice sotto una rappresentazione comune. Nascono a questo punto due domande: quali e quante sono le categorie? come entrano in funzione le categorie nei principi dell'intelletto? Alla prima domanda Kant risponde che i supremi concetti possono essere dedotti facilmente dalle "funzioni dell'unità nei giudizi"; infatti la tavola delle categorie è perfettamente speculare a quella dei giudizi: se dodici sono i tipi di giudizi allora dodici saranno le categorie. Ecco che così Kant può dire che "l'oggetto è ciò nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è unificato": cioè, l'intelletto mediante le categorie pensa quanto nell'intuizione è "dato". Però la sensibilità mi dà una molteplicità di sensazioni riguardanti uno stesso oggetto, questo vuol dire che l'unità dell'oggetto della conoscenza non può venire dai dati della sensibilità; tale unità viene dall'intelletto, dall'unità della coscienza, dall'"Io penso" (10). Questo "Io penso" è la condizione della conoscibilità dell'oggetto unità suprema delle dodici categorie. L'unità dell'oggetto è l'unità che tiene strette le varie proprietà dell'oggetto: è il "legame" (11) che viene espresso nel giudizio. Così è "dedotta", ossia giustificata, dimostrata la presenza unificatrice dell'intelletto per costituire l'oggetto. I giudizi sintetici a priori sono possibili perché le leggi di natura, cioè gli oggetti, sono conosciute "a priori" e non per generalizzazioni di esperienze. Le "leggi di natura" sono imposte dall'intelletto stesso perché l'intelletto, con le sue categorie, costituisce l'oggetto dell'esperienza; l'intelletto è autore e non spettatore di esso. Le leggi non esistono nei fenomeni, ma solo, relativamente al soggetto a cui i fenomeni si riferiscono. Alla seconda domanda Kant risponde nella analitica dei principi in cui viene esposta l'applicazione delle categorie, cioè "come" avviene di fatto la sussunzione (12) delle intuizioni empiriche sotto le categorie. Dato che i principi derivanti dalle categorie costituiscono il complesso delle conoscenze a priori che possiamo avere sulla natura, la loro "sussunzione" avviene tramite lo schematismo trascendentale. Lo schematismo trascendentale è "il modo di comportarsi dell'intelletto con gli schemi"; ma cosa è uno "schema"?

Lo "schema" è un intermediario tra le categorie e il dato sensibile che serve ad eliminare l'eterogeneità dei due elementi della sintesi: è "generale" come la categoria e "temporale" come il contenuto dell'esperienza. Per questo motivo si può affermare che lo "schema" altro non è se non la condizione universale di applicabilità delle categorie alle intuizioni (sensibili). La condizione generale secondo la quale la categoria può essere applicata a un oggetto è il "tempo"; quindi lo schema è una determinazione a priori del tempo. Ma nell'analitica dei principi si trova un altro tema tipicamente kantiano: la distinzione fenomeno-noumeno; tale distinzione rappresenta il punto d'arrivo del "dualismo gnoseologico" e quindi di quella "parabola filosofica" iniziata da Cartesio che ha avuto nella rivoluzione scientifica galileiana, poi newtoniana, la sua costante fonte d'ispirazione. Per Kant il fenomeno non esaurisce tutta la realtà, però la conoscenza fenomenica è l'unica sicura; il noumeno, invece, rappresenta la cosa-in-sé ed è inconoscibile; è, secondo Kant, la sfera della metafisica. L'intuizione sensibile umana è fenomenizzante: si ammette un sostrato meta fenomenico, ossia noumenico; il noumeno può essere pensato, ma non conosciuto. Il noumeno è un concetto limite, serve a circoscrivere le pretese della sensibilità.

Dialettica trascendentale La dialettica trascendentale è la "parte negativa" della logica trascendentale ed ha come scopo la critica dell'intelletto nel suo uso "iperfisico" per smascherarne le sue infondate presunzioni. L'intelletto da solo non basta per rappresentare un oggetto, serve un "materiale" da unificare: la sensibilità. Le categorie, pur essendo dell'intelletto puro, non possono essere applicate a ciò che non è sperimentabile perché, senza il contributo della sensibilità, non sono capaci di rappresentare un oggetto; per questo motivo non possiamo spingerci al di là dell'esperienza possibile. Ecco perché la metafisica è fallita; nel sapere metafisico si ha un uso dialettico, cioè puramente formale, dei concetti dell'intelletto. I concetti dell'intelletto sono forme vuote fatte per unificare il sensibile, quando usati per conoscere realtà in sé, cioè non date dal sensibile, l'uomo cade in una conoscenza di tipo illusorio. La dialettica studia la ragione e le sue strutture; per "ragione" si intende l'intelletto che si spinge al di là dell'orizzonte dell'esperienza possibile. Questo "spingersi al di là" è un bisogno strutturale dell'uomo, una sua legittima esigenza; Kant definisce la ragione come la "facoltà dell'incondizionato", ovvero la pura esigenza dell'Assoluto. Questa facoltà della metafisica, cioè l'incondizionato, sta alla base: dei fenomeni psichici, dei fenomeni fisici e di ogni realtà. Dallo studio di queste tre realtà derivano tre discipline diverse, ognuna con il proprio oggetto di studio; il tutto può essere così schematizzato.

fenomeni psichici psicologia razionale studia l'anima

fenomeni fisici cosmologia razionale studia il mondo (come intero metafisico)

ogni realtà teologia razionale studia Dio

Anima, mondo e Dio non ci rappresentano un oggetto, indicano un punto di convergenza "ipotetico" al quale tendono i nostri ragionamenti. Tali concetti vengono da Kant criticati e con essi viene di conseguenza criticato l'uso "iperfisico" della ragione. La critica della psicologia razionale verte sul fatto che l'Io non è un concetto, ma solo una coscienza che accompagna ogni nostro concetto; tutti gli argomenti per dimostrare l'esistenza dell'anima, l'idea cioè di un Io immutabile, non sono altro che paralogismi (13) della ragion pura.

Fuori dall'esperienza i nostri concetti lavorano "a vuoto", quindi quando la cosmologia razionale afferma l'esistenza di un mondo in sé, pur non commettendo errori argomentativi, produce tutta una serie di affermazioni antitetiche che sembrano essere tuttavia valide. Queste coppie di affermazioni sono le antinomie (14) della ragion pura. La teologia razionale viene criticata mettendo "in scacco" le prove tradizionali dell'esistenza di Dio; al di là della validità o meno di tali critiche, Kant conclude affermando che il concetto di Dio non è un'idea, ma un ideale della ragion pura: è cioè l'idea di un Individuo che abbia tutti gli attributi positivi. Anima, mondo e Dio non sono però pure "finzioni" dell'intelletto: non costituiscono oggetti, non fanno un uso costitutivo della ragione, ma indicano all'intelletto una direzione di ricerca, fanno un uso regolativo della ragione. Tali concetti, anima, mondo e Dio, sono "schemi" per ordinare l'esperienza, per darle maggiore unità; ecco che si può parlare anche di un uso schematico della ragione, di un "come se". Insomma, sono principi euristici: non ampliano la nostra conoscenza, ma la unificano.

Conclusione

La metafisica come scienza è impossibile perché la "sintesi a priori" metafisica presuppone un intelletto intuitivo che noi non possediamo; oltre i limiti dell'esperienza sensibile l'uomo non può andare, dal punto di vista scientifico. Esiste però un altro ambito in cui il "noumeno" è accessibile, almeno come "possibilità": quest'ambito è quello dell'etica; bisogna dunque passare dall'ambito teoretico a quello pratico.

"Ho dovuto sopprimere il sapere per far posto alla fede". _________________________________________________________

2 - COMMENTO DE LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

"La Ragion Pura deve attenersi al sensibile la Ragion Pratica deve astenersene!" La ragion pratica consiste nella capacità di determinare la volontà e l’azione morale senza l’ausilio della sensibilità. Lo scopo della "Critica della Ragion Pratica" è quello di criticare la ragion pratica che pretende di restare sempre legata solo all’esperienza. La ragion pratica empirica non può, da sola, determinare la volontà; vi è quindi il recupero della sfera "noumenica" inaccessibile teoreticamente, ma accessibile "praticamente". Quanto appena detto mostra la capacità della Ragione di farsi "pratica" per l’azione. Tesi fondamentali

Fondamento dell’etica = c’è una legge morale con valore universale

(tale affermazione è immediatamente

evidente: è un "fatto della ragione")

La legge morale è universale, quindi non può essere ricavata dall’esperienza: è "a priori". (La ragione è sufficiente "da sola" - senza impulsi sensibili - a muovere la volontà) La legge morale è "razionale" nel senso che deve valere per l’uomo in quanto essere ragionevole (non solo perché conosciuta dalla ragione)

La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per necessità di natura; quindi deve essere un "imperativo" (cioè è una necessità oggettiva dell’azione; tale principio pratico è valido per tutti). Vi sono due tipi di imperativo:

- Imperativo ipotetico = subordina il comando dell’azione da compiere

al conseguimento di uno scopo (es.: "Se

vuoi essere promosso devi studiare"). Tali

imperativi sono oggettivi solo per tutti coloro

che si propongono quel fine; da tali imperativi

derivano l’edonismo e l’utilitarismo.

- Imperativo categorico = comanda l’azione in se stessa (es.:"Devi

perché devi"). La norma morale deve essere

un imperativo categorico, cioè la tendenza ad

un fine deve essere comandata da una legge

morale.

La legge morale è un "imperativo categorico" (anzi, leggi morali sono "solo" gli imperativi categorici), quindi il suo valore non dipende dal suo contenuto, ma dalla sua "forma" di legge; la sua "forma" di legge è l’"universalità" (devi perché devi). L’imperativo categorico può essere formulato così: "Agisci in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale (oggettiva)" "La nostra moralità dipende non dalle cose che vogliamo, ma dal principio per cui le vogliamo"; principio della moralità non è il contenuto, ma la "forma": è questo il "formalismo" kantiano. Il Bene è ciò che è comandato dalla legge morale. La legge morale non dice: "fa’ il bene", ma "segui la legge morale". Non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa; la legge morale è "morale" perché mi comanda in quanto legge. La legge morale deve avere valore per se stessa; la volontà è autonoma, ossia dà a sé la sua legge. Vi è quindi assoluta autonomia della volontà nel suo auto-determinarsi. Tutte le morali che si fondano sui "contenuti" compromettono l’autonomia della volontà: "l’unico principio della moralità consiste nella indipendenza da ogni materia della legge". Non si deve agire per la felicità, ma unicamente per il puro dovere (è il rovesciamento dell’etica eudaimonistica). Chi deve fare una cosa, deve poterla fare: devi, dunque puoi; puoi perché devi. Se la volontà ragionevole dà a sé la sua legge, vuol dire che non la riceve da altri, ossia che è libera. Il "darsi" un dovere implica la "libertà"; la condizione perché sia possibile un imperativo categorico è che la volontà sia libera. La libertà è postulata dal carattere formale della legge: prima conosciamo la legge morale, poi inferiamo da essa la libertà come suo fondamento. Legge morale = "ratio cognoscendi" della libertà Libertà = "ratio essendi" della legge morale È così avvenuto il recupero del mondo noumenico che sfuggiva alla "ragion pura"; là, il mondo noumenico era presente solo come esigenza ideale, era l’"uso regolativo" della ragione; infatti anima, mondo e Dio indicavano all’Intelletto solo una direzione di ricerca. Ora il mondo noumenico è recuperato nei "postulati della ragion pratica". I "postulati" non sono nient’altro che presupposti "pratici" che non ampliano la conoscenza speculativa, ma danno alle Idee della Ragione speculativa una realtà oggettiva, autorizzano perciò la possibilità di alcuni concetti. Tali postulati si devono ammettere per spiegare la "legge morale"; se non li ammettessimo non si spiegherebbe la legge morale, ma le legge morale è un "fatto" innegabile, quindi i "postulati" hanno realtà oggettiva. I "postulati" sono tre.

I° postulato - Libertà è condizione della "legge morale"

II° postulato - Esistenza di Dio la legge morale mi comanda di essere

virtuoso, quindi sono "degno" di essere felice;

si postula quindi l’esistenza di Dio che ha il

compito di far corrispondere in un "altro"

mondo quella felicità che compete al merito

(non realizzabile in "questo" mondo)

III° postulato - Immortalità dell’uomo è un processo continuo ed è richiesta, ma non

è accessibile in questo mondo, per avvicinarsi

sempre più alla "perfetta adeguatezza della

volontà alla legge morale" (la santità è il

raggiungimento di tale perfetta adeguazione)

«La ragion pratica ha dunque "riempito" quelle esigenze della ragion pura dando loro "realtà morale"». Il "noumeno" è teoreticamente inconoscibile; può quindi avere solo realtà pratica. Kant, a questo punto, ha dunque riconosciuto due facoltà: Intelletto - facoltà conoscitiva teoretica = dominio della ragion pura che non può rappresentarci gli oggetti come sono in sé, ma solo come fenomeni; Ragione - facoltà pratica = può rappresentare gli oggetti come cosa in sé (soprasensibili), ma non li può conoscere teoreticamente, può darli solo realtà pratica. Fra il mondo fenomenico della "Critica della Ragion Pura" (realtà come appare allo spirito umano) e il mondo noumenico della "Critica della Ragion Pratica" (apparteniamo al mondo delle cose in sé solo come soggetti morali) c’è un "abisso immenso". Con «sommo bene» Kant indica la coincidenza di virtù e felicità, quella coincidenza di cui in questo mondo non si fa affatto esperienza. Affinché il comando della ragione abbia senso bisogna dunque supporre una rimunerazione in un'altra vita da parte di chi sia il sommo bene sussistente: Dio. Ciò non significa affatto che la ragione pratica possa «dimostrare» l'esistenza di Dio, mentre ciò è impossibile a quella speculativa (sarebbe un controsenso): ma piuttosto che l'esistenza di Dio non la posso dimostrare (cioè conoscere speculativamente) ma la debbo supporre (cioè ammettere praticamente). Celeberrima la conclusione della Critica della ragione pratica (probabilmente ispirata al Salmo 19): Due cose riempiono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me . Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il

mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza. ... (Ragione pratica, A 287-290). __________________________________________________________

3 - COMMENTO DE LA CRITICA DEL GIUDIZIO La "Critica della Ragion Pura" ha concluso che quella natura che dominiamo con la scienza è soltanto fenomenica, è la realtà come appare allo spirito umano; il mondo noumenico, il mondo delle cose-in-sé è invece quello al quale apparteniamo come soggetti morali ed è quello che ha concluso la "Critica della Ragion Pratica", ma di questo mondo non abbiamo conoscenza; fra i due mondi c’è un "abisso immenso". Ora, la "Critica del Giudizio" si domanda se non vi siano vie per superare questo "abisso", questa "spaccatura". Superare l’abisso vorrebbe dire cogliere un riflesso di intelligibilità nella natura anche là dove non arriva l’intelligibilità portata dalle nostre categorie., cogliere un’intelligibilità anche in ciò che negli oggetti deriva dalla materia della conoscenza. Si tratta di vedere se anche i particolari attestati dalle intuizioni empiriche non portino in sé una traccia di intelligibilità; le vie per arrivare a questa persuasione non sono evidenze scientifiche, ma l’ordine della natura e la bellezza: tali sono appunto gli oggetti di studio della "Critica del Giudizio". Il "noumeno" è teoreticamente inconoscibile, può avere solo realtà pratica; la "Critica del Giudizio" è il tentativo di mediare il mondo fenomenico con il mondo noumenico. Vi è dunque una terza facoltà intermedia fra l’intelletto (facoltà conoscitiva teoretica) e la ragione (facoltà pratica): il giudizio, collegato al "sentimento puro". Vi sono due tipi di giudizio (per giudizio Kant intende la facoltà dell’uomo in cui si scopre l’accordo degli oggetti di natura con le libere finalità etiche della ragione). Giudizio determinante - In tale giudizio sono dati sia il particolare (molteplice sensibile), sia l’universale (le categorie e i principi a-priori). È il giudizio scientifico nel quale l’universale è già posseduto dall’intelletto che lo applica al molteplice delle intuizioni. Giudizio riflettente - È il giudizio in cui è dato solo il particolare, l’universale è da ricercare, va trovato. Tale principio "universale" della "riflessione" equivale alle "Idee della Ragione" nel loro uso "regolativo". Il principio guida a-priori per giungere all’universale nei giudizi riflettenti è l’ipotesi della finalità della natura. Vi sono due modi per scoprire il "finalismo" nella natura: la contemplazione della bellezza, ovvero il giudizio estetico. Il giudizio estetico ha una pretesa di universalità, di oggettività e si può specificare attraverso tre definizioni: Bello è l’oggetto di un piacere disinteressato; Bello è ciò che piace universalmente, perché vale per tutti gli uomini; Bellezza è la forma della finalità di un oggetto percepita senza la rappresentazione di uno scopo. Il piacere estetico è l’apprensione dell’intelligibilità dell’oggetto attraverso la consapevolezza dell’armonia delle nostre facoltà; è "una finalità senza scopo".

Nel piacere estetico una cosa ha senso, cioè intelligibilità, senza sapere precisamente a quale idea essa corrisponda; la finalità è percepita attraverso il sentimento dell’armonia fra le nostre facoltà. La bellezza non è altro che il modo in cui l’uomo sente la finalità del reale. Sublime, invece, è "ciò che è assolutamente grande al di là di ogni comparazione"; riguarda quindi ciò che è "informe", cioè illimitato e, come tale, non può essere dato dall’esperienza. Il sublime è in un certo modo presentito quando, di fronte a certi spettacoli naturali che superano il potere della nostra immaginazione, proiettiamo su quest’ultimi quella grandezza assoluta che è propria del sovrasensibile (che è in noi in quanto persone morali appartenenti al mondo intelligibile). riflessione sull’ordine della natura, ovvero il giudizio teleologico. Contro il "realismo della finalità" (perché la finalità della natura non può essere dimostrata scientificamente) si afferma la finalità come principio regolativo. Cosa sia in sé la natura non lo sappiamo, perché la conosciamo solo fenomenicamente; tuttavia non possiamo fare a meno di considerarla come finalisticamente organizzata: "per la particolare struttura della mia facoltà conoscitiva io non posso giudicare della possibilità di quelle cose [naturali] e della loro produzione se non pensando ad una causa che agisce intenzionalmente". Poi, una Intelligenza ordinatrice può servirsi di leggi meccaniche per realizzare il suo ordine. L’intelligenza umana che forgia la natura con le sue leggi, senza esaurirne tutti i particolari, sarebbe un riflesso della Intelligenza che ha creato la natura. La considerazione teleologica ha un uso regolativo, euristico, ossia valido "per ricercare le leggi particolari della natura". __________________________________________________________

4 - IDEA DI UNA STORIA UNIVERSALE DAL PUNTO DI VISTA COSMOPOLITICO

In questo scritto, che risale al 1784, Kant affronta il problema di elaborare l'idea di una storia universale caratterizzata da un filo conduttore. Come egli stesso scrive: "Che con quest'idea di una storia universale avente in certo qual modo un filo conduttore a priori io abbia voluto toglier di mezzo l'elaborazione della storia propriamente detta, concepita in maniera puramente empirica, sarebbe un fraintendere la mia intenzione. La mia è solo un'idea di ciò che una mente filosofica (che del resto dovrebbe conoscere assai bene la storia) potrebbe ancora tentare da un altro punto di vista". Dal complesso delle vicende e delle azioni umane emergono molte contraddizioni. Soltanto in un esiguo numero di casi la condotta degli uomini è tale da manifestare un po' di saggezza; più in generale, essa è costituita da "un miscuglio di stoltezza, di infantile vanità, spesso anche di infantile malvagità e mania di distruzione per cui non si sa alla fine qual concetto formulare della nostra specie così orgogliosa delle sue prerogative". Considerato ciò, un filosofo non può presupporre di trovare negli uomini e nelle loro azioni un fine razionale, ma può solo tentare di comprendere se è possibile scoprire un disegno della natura, da cui poi si possa trarre una storia che si svolga appunto secondo un piano naturale ben determinato. In altre parole, occorre cercare di vedere se esiste, nella natura, la regolarità e la costanza di un disegno che sembra non appartenere al complesso e contraddittorio gioco delle singole azioni degli uomini. Secondo Kant, tutte le disposizioni naturali delle creature sono destinate a giungere alla piena realizzazione, ossia al loro completo svolgimento. ' l'esperienza, cioè l'osservazione esterna ed interna di quanto avviene negli animali, a renderci consapevoli di ciò.

Sarebbe assurdo, ad esempio, se un organo qualsiasi di una creatura vivente non venisse mai usato, oppure se un ordinamento non raggiungesse il suo scopo, perché sarebbe in aperta contraddizione con la dottrina teleologica della natura; e Kant ritiene che tale dottrina debba essere ammessa: "Poiché, se noi prescindiamo da questo principio fondamentale, non abbiamo più una natura regolata da leggi, ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della guida della ragione". Tuttavia, nell'uomo, che è la sola creatura razionale della Terra, le disposizioni naturali giungono a completa realizzazione soltanto nella specie e non nei singoli individui. Questa tesi è giustificata dal fatto che la ragione umana non procede istintivamente, ma per tentativi, attraverso l'esercizio, ed elevandosi a poco a poco "da un grado di conoscenza ad un altro". Si comprende allora come un singolo individuo, se volesse realizzare compiutamente tutte le sue disposizioni, dovrebbe vivere un tempo lunghissimo ed indefinito. Come scrive Kant, "occorre una serie indefinita di generazioni che si trasmettano l'una all'altra i loro lumi per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al suo scopo". Questa sorta di età finale deve configurarsi come la meta ultima degli sforzi dell'uomo, altrimenti tutte le sue disposizioni naturali non avrebbero alcuno scopo, ma sarebbero prive di senso. L'impossibilità di tale mancanza di senso è provata anche dal fatto che la natura non è generosa nei confronti degli uomini: "la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell'uso dei mezzi ai suoi fini". Essa ha soltanto donato all'uomo la ragione e, fondata su questa, la libertà del volere. Così dotato, l'uomo ha dovuto sfruttare tutte le sue potenzialità per sopravvivere e per crearsi quelle condizioni concrete e quei beni superflui che gli rendono piacevole la vita stessa. Evidentemente, la scarsa generosità della natura è un mezzo grazie al quale l'uomo può sviluppare le sue varie capacità: "Infatti in questo corso di cose umane un gran numero di difficoltà attende l'uomo. Pare che la natura non si sia data la pena di farlo vivere bene, ma solo si preoccupi che egli si elevi con le sue fatiche tanto da rendersi degno, con la sua condotta, della vita e della felicità". D'altra parte, gli sforzi che ciascuna generazione compie costituiscono sempre un vantaggio per le generazioni successive, fatto questo che Kant considera "misterioso" ma anche necessario, una volta ammesso che gli uomini devono compiutamente realizzare le proprie naturali disposizioni, e che possono attuare ciò soltanto in un arco di tempo indefinito. Per far sì che gli esseri umani, in quanto specie, realizzino tutte le loro disposizioni, la natura si serve di un mezzo, cioè del loro antagonismo in società; in altri termini, la natura si serve della "insocievole socievolezza" insita negli uomini. Da un lato, essi sono portati a vivere in società, ad unirsi ai propri simili in quanto ritengono che tale unione sia vantaggiosa per poter sviluppare tutte le proprie capacità; nel contempo, però, gli uomini tendono anche a dissociarsi dagli altri perché egoisti, perché vogliono "tutto rivolgere solo al proprio interesse". Nel comportarsi in questo modo, sono consapevoli di incorrere nella resistenza e nell'ostilità dei propri simili, ma tale opposizione costituisce lo stimolo essenziale che li spinge ad agire e a ricercare ricchezze e onori. Senza questo stimolo, gli uomini resterebbero per sempre in una condizione di serena pigrizia, senza attuare alcun progresso. La loro naturale insocievolezza, la loro tendenza alla discordia e all'egoismo costituiscono l'impulso fondamentale che li guida verso la costruzione razionale della propria esistenza, nella direzione di un distacco progressivo dall'animalità:

"Per tal modo, si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell'uomo". A poco a poco, tutte le attività dell'uomo si sviluppano, il loro gusto si educa, e quelle che, in precedenza, erano soltanto rozze inclinazioni acquistano un valore morale; come scrive Kant, la società, da semplice "unione patologica forzata" si trasforma in un "tutto morale". Non si tratta di un cammino semplice ed esente da dolori: la tendenza dell'uomo alla conflittualità è certamente causa di molti mali; tuttavia, questi stessi mali costituiscono a loro volta degli stimoli che spingono l'uomo ad affinare le proprie capacità nel tentativo di superarli. Le difficoltà che gli uomini incontrano nel loro percorso, e di cui essi stessi sono la causa principale, hanno quindi un risvolto positivo. In questo senso, secondo Kant si rivela "l'ordine di un saggio Creatore e non la mano di uno spirito maligno che abbia guastato o rovinato per gelosia la magnifica opera dell'universo". Il più grande problema che la natura pone all'uomo consiste poi nella realizzazione di una perfetta società civile, in cui valga universalmente il diritto. Si è detto, infatti, che la vita in società consente all'uomo di sviluppare al meglio tutte le sue potenzialità. Scrive Kant: "Poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natura, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell'umanità raggiunto, la natura vuole ancora che l'umanità debba attuare da se stessa così questi come tutti gli altri fini della sua destinazione". Allo stato di natura, l'uomo vive in una condizione di estrema precarietà ed anarchia; decide così di uscire da tale stato soltanto per motivi egoistici, per salvare la propria vita e per realizzare al meglio le proprie disposizioni. Ma l'attuazione di una perfetta costituzione politico-giuridica si rivela un compito estremamente gravoso. L'uscita dallo stato di natura, infatti, non comporta una trasformazione immediata dei più profondi istinti degli uomini. Anche in società l'uomo resta quello che è, "un animale che, se vive tra gli altri esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone". In quanto essere razionale, l'uomo auspica che tutti siano sottoposti alle leggi, ma, trascinato dai suoi insopprimibili istinti, tende a riservare a se stesso ampi margini di libertà. Perciò necessita di un "padrone", ossia di qualcuno che lo obblighi a rispettare le regole. D'altra parte, questo "padrone" è pur sempre un uomo, dotato dei medesimi istinti egoistici dei suoi simili, per cui ha bisogno di un padrone che lo controlli e limiti le sue pretese e la sua naturale tendenza a prevaricare. Il problema, come si può constatare, è di difficile soluzione, perché "il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo...da un legno storto, come è quello di cui l'uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l'approssimazione a quest'idea ci è imposta dalla natura". Non ci si illuda, quindi, di poter affrontare questo problema e risolverlo in maniera perfetta: occorre sempre ricordare i limiti che la natura stessa c'impone. Del resto, per attuare quella che è pur sempre un'approssimazione bisogna avere "giusti concetti" a proposito della natura di una possibile costituzione, occorre aver acquisito una grande esperienza attraverso la pratica del mondo, e infine è necessaria una buona volontà disposta ad accogliere tale costituzione. La realizzazione di una perfetta società politicamente organizzata è quindi lo scopo fondamentale della natura nei riguardi degli uomini; si può addirittura considerare l'intera storia della specie umana come l'espressione di un disegno occulto della natura, finalizzato alla realizzazione di una costituzione politica, "come l'unica condizione di cose in cui essa può pienamente sviluppare tutte le sue disposizioni in seno all'umanità". La realizzazione di questo fine è però strettamente dipendente dalla regolamentazione giuridica dei rapporti esterni fra i vari Stati. L'egoismo che si manifesta nella condotta dei singoli uomini è infatti presente anche nei rapporti fra le nazioni.

Ogni Stato tende a prevaricare, per cui l'astuzia della natura consiste nel servirsi della discordia fra i corpi politici "come di un mezzo per trarre dal loro inevitabile antagonismo una condizione di pace e di sicurezza". Nelle intenzioni della natura, le guerre sono soltanto un modo attraverso cui gli Stati possono tentare di stringere tra loro nuovi rapporti. Le guerre sono occasioni importanti affinché, attraverso la distruzione di vecchi corpi politici, e per mezzo di accordi, di leggi comuni e del riordino delle costituzioni interne, "si costituisca una condizione di cose che, in modo analogo ad una comunità civile, possa conservarsi da sé come un meccanismo autonomo". Il cammino per giungere ad una federazione di Stati, che possa garantire la pace, è lungo e accidentato. Nel considerare la realtà dei suoi tempi, Kant sostiene che l'umanità è soltanto alla metà del suo sviluppo. Gli uomini, scrive il filosofo, sono senz'altro molto colti per quanto riguarda le conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle arti, ma non sono moralmente progrediti. Ciò che si tende a definire "moralità", infatti, è soltanto un insieme di comportamenti che rientrano ancora nella sfera della cultura: si tratta essenzialmente del rispetto dei costumi e delle convenzioni sociali. Grazie alla struttura razionale che ci caratterizza in quanto esseri umani, la consapevolezza del benigno disegno della natura nei nostri confronti può costituire un mezzo per tentare di accelerare questo processo. Secondo Kant, l'esperienza rivela qualche indizio di questo disegno, che quindi troverebbe nella realtà la sua stessa conferma. E prendere atto di tali indizi ci offre la possibilità di agire per accelerare il corso degli eventi. Ad esempio, la libertà civile non può essere violata senza che ne risentano tutte le attività, in modo particolare il commercio. Ciò comporta una "diminuzione delle forze dello Stato nei rapporti esterni". E' anche vero che la libertà civile sta gradualmente estendendosi, a tutto vantaggio del benessere comune; limitare quindi tale libertà, che deve poter coesistere con la libertà altrui, sarebbe un grave danno per la collettività. A mano a mano che "le limitazioni all'attività personale saranno tolte, e che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l'illuminismo". Secondo Kant, si tratta di un ottimo auspicio. L'illuminismo influenzerà anche i governi; certo, occorrerà tempo, e bisognerà affrontare molte difficoltà, ma, a poco a poco, ciò condurrà all'estinzione delle guerre. Alcune condizioni fanno presagire la futura federazione fra gli Stati, o, in altri termini, un ordinamento cosmopolitico, fine supremo della natura, in cui si possano sviluppare pienamente tutte le disposizioni delle creature. Le condizioni che ci fanno sperare ciò sono, ad esempio, il fatto che la guerra sta diventando un'impresa dagli esiti molto incerti, che oltretutto grava sui bilanci pubblici, e che inevitabilmente influenza anche gli Stati che non ne sono coinvolti. A causa di tutte queste ricadute, non pochi Stati si proporranno come arbitri per risolvere pacificamente le contese, preparando così l'avvento di una futura federazione che garantisca una stabile tranquillità. Kant ammette che presentare l'idea di una storia universale caratterizzata da un filo conduttore può essere considerato anomalo, e lo scrive: "...sembra che con un tal proposito si possa solo fare un romanzo". Tuttavia, ritiene che "se è lecito ammettere che la natura, anche nel gioco della libertà umana, procede secondo un disegno e uno scopo finale, allora quest'idea potrebbe anche riuscire utile".

Noi non siamo in grado di cogliere l'intima struttura della natura, ma il filo conduttore di cui si è detto può servirci almeno per rappresentarci come un sistema ordinato ciò che, diversamente, ci sembrerebbe soltanto un confuso aggregato di azioni umane. Ed è vero, ammette Kant, che l'idea di una federazione tra i popoli può apparire chimerica; però, "certo è che questa è l'inevitabile via di uscita dai mali che gli uomini si procurano a vicenda". __________________________________________________________ (Testo di riferimento: I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, Utet, 1956) __________________________________________________________

5 - PER LA PACE PERPETUA Nel settembre del 1795 Kant pubblica un breve trattato: Per la pace perpetua. Un progetto filosofico; nel 1796 segue una nuova edizione, corredata di un secondo supplemento. Questa è l’unica opera di Kant che assume come suo tema centrale il problema della pace e della guerra. L’intento è quello non di una analisi particolareggiata del testo kantiano, ma piuttosto una rapida sintesi delle tesi in esso contenute, evidenziando qua e là i problemi che esse suscitano. Il progetto consta di una serie di articoli, sei “preliminari” e tre “definitivi”, di due supplementi, di cui il primo esamina la garanzia della pace perpetua ed il secondo è costituito da un “articolo segreto”, ed inoltre un’appendice in due parti sulle relazioni intercorrenti tra morale e politica. Kant introduce il tema richiamando ironicamente l’immagine di un cimitero, accompagnata dalla scritta storica “Zum ewigen Frieden” (Per la pace perpetua), che un oste olandese avrebbe adottato come insegna. L’autore premette la rivendicazione che, come “politico teorico” e pertanto inoffensivo, egli rivolge al “politico pratico”, “l’uomo di Stato”, purché gli sia concessa la libertà di esporre le proprie opinioni. Si enunciano poi gli articoli “preliminari” per la pace perpetua, cioè le condizioni preventive della pace, volte a rimuovere le circostanze che favoriscono lo scoppio delle guerre, riprendendo alcune istanze della tradizione pacifista precedente. Il primo articolo è costituito da un principio fondamentale: le parti contraenti si devono impegnare innanzi tutto a non pendere per il futuro l’iniziativa di una nuova guerra. Il secondo vieta ad ogni Stato l’acquisto di un altro Stato tramite successione ordinaria, scambio, compera o donazione, poiché “ uno Stato non è (…) un possesso ma è una società di uomini”. Il terzo articolo vieta gli eserciti permanenti. Il quarto articolo condanna l’uso del debito pubblico per finanziare eserciti ed altre attività di interesse bellico. Il quinto proibisce le intromissioni negli affari interni di altri i paesi, in forza del principio di indipendenza ed autonomia di ogni Stato. Con il sesto articolo, infine, si vieta l’uso di mezzi subdoli, come spie e altre azioni a tradimento. La guerra ha certo, per Kant, una sua validità nello stato di natura, nel quale non esiste una legalità capace di dirimere le controversie. Se però il conflitto diventasse totale e si trasformasse in guerra di sterminio, lascerebbe come risultato “la pace perpetua unicamente nel grande cimitero del genere umano”. Kant introduce, con una digressione in nota, oltre alle leggi prescrittive e quelle proibitive, una terza categoria: la lex permissiva, che non impone una necessità, ma

sospende temporaneamente un divieto. Nella seconda sezione Kant enuncia e discute gli “articoli definitivi” per la pace perpetua, in base ai quali edificarla secondo un modello teorico fondato su presupposti razionali. Kant riprende anche qui la tesi per cui lo stato di natura deve essere superato ovvero, come egli dice, “lo stato di pace (…) deve dunque essere istituito”. A questo scopo chiarisce, in un’importante nota esplicativa, che bisogna adempiere al postulato del diritto pubblico per il quale “ tutti gli uomini che possono reciprocamente agire gli uni sugli altri devono entrare a far parte di una qualche costituzione civile”, in un triplice ordine di rapporti giuridici: il diritto pubblico interno, il diritto internazionale ed il diritto cosmopolitico, “ in quanto uomini e Stati che stanno tra loro in un rapporto di influenza reciproca devono venire considerati cittadini di uno Stato umano universale”. A questi tre ambiti si riferiscono i tre articoli per la realizzazione definitiva della pace perpetua. Il primo articolo afferma che “la costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana”. Tale costituzione che sorge direttamente “dall’idea del contratto originario, su cui ogni legislazione giuridicamente valida di un popolo deve fondarsi” organizzata in base alla libertà esterna dei cittadini, intesa come “facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui io abbia potuto dare il mio assenso”, alla dipendenza di essi dalla legge ed alla loro eguaglianza esterna, costituisce per Kant il presupposto della pace perpetua. Infatti, poiché in essa i cittadini stessi decidono sulla guerra, solo dopo una meditata riflessione assumeranno su di sé gli elevati costi che questo comporta, mentre in un governo dispotico la guerra “è la cosa più facile del mondo, perché il sovrano (…) è il proprietario dello Stato”. Kant poi esamina le differenze tra repubblica e democrazia. Egli distingue le forme dello Stato, secondo la “forma del dominio”, che può essere monarchica, aristocratica o democratica, e secondo la maniera dispotica o repubblicana, in cui la sovranità viene esercitata, intendendo per repubblicana la costituzione rappresentativa che attui la separazione dei poteri dello Stato. Per Kant la democrazia è il peggior tipo di organizzazione statale, perchè non è rappresentativa. Dobbiamo però ricordare che, quando Kant parla di “democrazia”, si riferisce però all’esperienza a lui più vicina che si sia fregiata di questo nome, cioè il giacobinismo. Per il secondo articolo “il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati”. Kant è consapevole che questa proposta di una federazione di popoli non sarebbe accolta favorevolmente dai governi gelosi della propria sovranità. Non esitando nella realtà effettiva una giurisdizione comune per gli Stati, la guerra rimane l’unico metodo di risoluzione delle controversie internazionali. Tuttavia “la ragione, dal suo trono di suprema potenza morale legislatrice, condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico ed eleva a dovere immediato lo stato di pace”. La soluzione ideale per eliminare la guerra sarebbe la costituzione di uno Stato di popoli ma, poiché le nazioni non tollerano l’imitazione della sovranità, bisogna sostituire “all’idea positiva di una Repubblica universale (…) il surrogato negativo di (…) lega permanente”, sempre con il rischio che gli istinti distruttivi prendano il sopravvento. Infine con il terzo articolo definitivo si prescrive che “il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità. Infatti ogni uomo ha il diritto di muoversi liberamente sulla superficie terrestre. Pertanto, l’attuazione del diritto cosmopolitico porta le relazioni internazionali a diventare col tempo pubblicamente giuridiche. Segue poi il primo supplemento, sulla “garanzia della pace perpetua”. Kant in queste pagine passa dal ragionamento politico ad una discussione di filosofia della storia. Infatti, per lui la pace perpetua non può essere realizzata dalle scelte degli uomini, anzi ribadisce il

concetto già espresso altrove per cui è necessaria una cooperazione tra la volontà umana e le tendenze della natura. Nel primo supplemento Kant pone al centro la “Natura (…) dal cui corso meccanico (…) scaturisce la finalità di trarre dalle discordie degli uomini, anche contro la loro volontà, la concordia”. Kant usa a questo proposito anche il termine Provvidenza. Per dimostrare la sua tesi, Kant esamina la storia e, con una certa sorpresa, giunge a scoprire la fondamentale funzione attribuita dalla natura stessa alla guerra. Essa, che è “connaturata all’uomo come qualcosa di nobile cui egli si sente portato dall’impulso dell’onore, così che il coraggio guerresco è ritenuto di grande valore” e “alla guerra in se stessa viene ammessa una dignità intrinseca”, ha infatti stimolato la formazione delle società umane promuovendo tramite gli scontri tra i popoli la diffusione dell’umanità sull’intera superficie terrestre e la formazione dello Stato a difesa dell’aggressione. Segue infine l’appendice, divisa in due parti, in cui si determina a quali principi debba ispirarsi l’uomo di Stato. All’inizio della prima parte, in cui si discute la tesi della separazione tra le due sfere, Kant afferma che “non può esserci alcun conflitto della politica, come dottrina pratica del diritto, con la morale, intesa bensì come dottrina del diritto, ma teoretica (e quindi non vi è nessun conflitto tra pratica e teoria)”. Nella seconda parte dell’appendice Kant giunge ad individuare la forma della pubblicità, definita dal seguente principio: “tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità concordano insieme con la politica e con il diritto”. Infatti “una massima, che io non posso confessare pubblicamente senza provocare la inevitabile resistenza di tutti non può produrre questa (…) reazione (…) altrimenti che a causa dell’ingiustizia di cui essa minaccia ognuno”. Al contrario “se possono raggiungere il loro scopo solo con la pubblicità allora quelle massime devono essere conformi al fine generale del pubblico (la felicità); e l’accordo con il pubblico è (…) il peculiare compito della politica”. Con queste parole Kant conclude il saggio: Se è un dovere e se nel contempo è una fondata speranza realizzare uno Stato di diritto pubblico, anche solo mediante un’approssimazione procedente all’infinito, allora la pace perpetua, che prenderà il posto di quelli che fino ad ora sono stati falsamente denominati trattati di pace, non è una vuota idea, bensì un compito, che, assolto per gradi, si avvicina sempre di più al proprio scopo.

6 - KANT E LA FINE DEL MONDO

“La fede in un Dio e in altro mondo è

talmente intessuta col mio sentimento

morale , che io non ho da preoccuparmi

che la prima possa mai essermi strappata,

nella stessa misura in cui non corro

pericolo di perdere il secondo” (Critic.

R. Pura, 537, 2-6)

Immanuel Kant affronta il problema dalla fine del mondo, dell'Apocalisse e del giudizio universale in un piccolo trattato spedito dal filosofo nel 1794 all'amico editore Johann Erich Biester intitolato “La fine di tutte le cose”. In questo testo Kant affronta un tema che è presente in ogni cultura, in ogni tempo e che in ogni cultura e in ogni tempo crea dubbi e terrore proprio chiedendosi il perché di questo fenomeno.

Perché da sempre e ovunque gli uomini non solo sono convinti che un giorno il tempo finirà ma sono per di più terrorizzati da questa immagine? Si può forse, come scrive Jacob Taubes, parlare di una sorta di escatologia trascendentale? Il primo sforzo kantiano che troviamo nella lettura di questo trattato consiste nel trovare un significato all'idea che dopo la fine del mondo, come si usa dire, si passerebbe “dal tempo all'eternità”: questa frase sembra suggerire, ipotizza il filosofo di Königsberg, un'immagine secondo la quale da un certo momento (l'ultimo momento propriamente inteso) in poi si entrerebbe in una diversa dimensione temporale, una dimensione inconoscibile per il nostro intelletto ma non certo quella di un tempo che procede semplicemente all'infinito ([...]questa espressione non vorrebbe dir nulla, di fatto, se qui per eternità si dovesse intendere un tempo che si protrae all'infinito. In tal modo l'uomo non uscirebbe mai dal tempo, ma si limiterebbe sempre solo a passare da un tempo a un altro tempo.[328]). Questo pensiero indefinito di una “grandezza del tutto incommensurabile rispetto a quella del tempo” trova perfettamente il suo posto all'interno della conosciuta concezione kantiana del sublime e così questo abisso dell'eterno viene visto in questo trattato come un pensiero terribile e immenso, dove la nostra mente sprofonda senza poterne uscire e verso il quale è continuamente attirato. Questa sensazione davanti alla fine del tempo è inoltre, sottolinea Kant, identica in tutte le epoche e in tutte le regioni de mondo e questo porta Kant a porsi un'altra domanda: perché tutti gli uomini aspettano la fine del mondo? E perché la spettano con terrore? Prima di risponde a questa domanda Kant decide però di soffermarsi sul “dopo”: secondo il senso comune cosa succerà al genere umano dopo l'ultimo giorno? Vengono identificate due correnti fondamentali dal filosofo: quella dai monisti e quella dei dualisti. In questa differenziazione il filosofo sembra riassumere e ridurre a all'essenziale in quanto a dottrina e significato la lunga lotta religiosa-morale che ha diviso l'Europa tra il XVI e il XVII secolo. Kant riconosce nei monisti coloro i quali immagino per le anime umane indifferenziatamente un futuro di beatitudine e nei dualisti chi sostiene che l'ultimo giorno sarò un giorno di Giudizio in cui saremo tutti chiamati a rendere conto della nostre azioni in vita e che non spetterà a tutti la beatitudine ma solo a color che avranno condotto una vita moralmente ineccepibile, per gli altri non ci si prepara ad altro che ad un'eterna dannazione. Si legge quindi una veloce considerazione sulla natura delle due dottrine, e quella dualistica, nonostante le sue irrisolvibili difficoltà sul piano teologico-religioso, appare a Kant quella per lo meno più utile ad un fine pratico. Non è ovviamente nelle intenzioni di Kant disquisire riguardo la natura della divinità o le sue regole divine e si limita a riconoscere nella concezione dualistica quella eticamente più utile al fine che ogni uomo sia in grado, in vista di un Giudizio futuro, di fare i conti con la propria coscienza e riconoscere il bene e il male, il morale e l'immorale tra i suoi comportamenti e usufruire nel migliori dei modi della propria libertà. Dopo questa parantesi intorno le diverse concezioni del destino dell'anima Kant ritorna sulle questioni che più gli stanno a cuore e più rimandano a quella escatologia trascendentale di cui parla Taubes: perché gli uomini si aspettano la fine del mondo e se la aspettano terrorizzante? Alla prima domanda Kant risponde così: la ragione umana è spinta alla continua ricerca di una teleologia nel mondo fenomenico (sappiamo che questa è una delle matrici fondamentali del pensiero del filosofo) e questo ha come conseguenza che questa si trovi costretta ad accettare la durata del mondo solo qualora “gli esseri razionali siano all'altezza, in essa, dello scopo finale della loro esistenza (331)”. Altrimenti, continua Kant, la creazione stessa sarebbe come un'opera teatrale senza finale, e come tale senza scopo, senza ragione. Passando poi alla seconda questione il filosofo risponde sostenendo che è propria del senso comune l'idea che il genere umano sia per la sua stessa natura corrotto e che non ci si possa quindi aspettare altro che una fine drastica, anzi, una fine tremenda, per lo meno da parte di una forza creatrice infinitamente saggia a giusta. Si spiegano così le immagini terrificanti che preannuncerebbero secondo l'Apocalisse l'avvento del Giudizio universale; ma in questo trattano di fianco a terremoti, cataclismi, meteore e uragani trovano il loro spazio tra le fila dei segni della fine del mondo anche “l'ingiustizia, l'oppressione dei poveri a causa della smodata tracotanza dei ricchi e la generale perdita di lealtà e fiducia (331-332)”.

Con queste considerazioni Kant si prepara il territorio per le sue ultime considerazioni che non possono non aprirsi ( è proprio il caso di dirlo, kantianamente) con una valutazione sulla crescita morale dell'uomo. E così poche righe dopo aver visto nel degrado della civiltà umana un comprensibile segno dell'avvento dell'Apocalisse Kant valuta la possibilità che in realtà la fine di tutte le cose possa coincidere con IL FINE DI TUTTE LE COSE: ovvero il momento in cui la moralità umana sarà riuscita con fatica a superare la necessità di soddisfare i bisogni combattendo il rischio di una eccessiva opulenza. Saprebbe questo, secondo il filosofo, un degno finale dell'esistenza del mondo, dell'uomo e del tempo, soprattutto se alla guida di tutto questo si trova una guida infinitamente saggia. Non è questo, però il finale di quest'opera kantiana: il filosofo infatti prede in considerazione altre due possibilità di interpretazione della fine del tempo. La prima di queste è una fine mistica dove il tutto esistente finisce, nel vero senso del termine, e diventa un nihil. Il nulla sarebbe la fine di tutte le cose, si entrerebbe in una dimensione temporale dove non ci sarebbe più mutamento (e quindi neanche tempo), dove ogni pensiero rimarrebbe sempre lo stesso e uguale a se stesso perdendo ogni capacità di intendere la proprio esistenza e la propria grandezza. Una prospettiva del genere sfugge totalmente alla ragione, ritrovandosi però in diverse concezioni filosofiche e teologiche: Kant va con ordine e invita il lettore prima a pensare alla concezione di Lao Tze (secondo cui il sommo bene coincide con la sensazione del nulla dovuta alla perdita della propria identità nella grandezza divina) e lo porta poi a valutare il panteismo e lo spinozismo fino ad arrivare ai filosofi neoplatonici dell'emanazione la cui tendenza è ovviamente quella di ricercare il bene in un tutto che è anche nulla. La seconda possibilità, che Kant trova ancora più difficilmente immaginabile e definisce per questo innaturale, è quella che farebbe coincidere la fine di tutte le cose con LA FINE DI OGNI MORALITÀ. Questa possibilità consiste nell'immagine di un cristianesimo che perde la sua qualità fondamentale (ciò quella di essere amabile) imponendo la propria etica: in questa immagine il cristianesimo non è più un maestro che insegna la moralità e l'amore ai suoi discepoli ma impone tanto di fare una cosa quanto di farla volentieri facendo venire meno la liberalità che lo caratterizza e l'amore e il rispetto di chi lo segue. O ancora questa immagine potrebbe essere quella di un cristianesimo in cui punizioni e ricompense per le azioni mondane diventino i fini di tali azioni facendo perire il profondo significato della capacità dalla guida morale che ogni uomo deve essere per se stesso. Qualora dovesse verificarsi una condizione simile si assisterebbe ad una nuova immagine della fine de mondo in cui gli animi degli uomini diventerebbero avversi ad un cristianesimo non più amabile “e l'Anticristo,[...], comincerebbe il suo pur breve regno(presumibilmente fondato sulla paura e sull'egoismo)(339)”. Il cristianesimo (che sembra essere considerato qui unica e vera religione) quindi, nelle battute finali di queste considerazioni kantiane, sembra racchiudere i dentro di sé i semi della realizzazione del regno di Dio quanto del suo annientamento, e sembra intrecciarsi con una forza irresistibile nella vita e storia morale di ogni uomo avendo il compito di nutrire la moralità umana, di guidarla alla sua più completa autorealizzazione per far coincidere in ultima istanza la “fine di tutte le cose” con il FINE proprio dell'uomo.

7 - Passi scelti dalle opere di Kant LA FUNZIONE REGOLATIVA DELLE IDEE

LA TERZA FORMULAZIONE DELL'IMPERATIVO CATEGORICO

IL FINALISMO COME ESIGENZA DELLA NOSTRA MENTE

IL POSTULATO DELLA LIBERTA'

IL GIUDIZIO ESTETICO

IL BELLO

GIUDIZI DETERMINANTI E GIUDIZI RIFLETTENTI

IL DOVERE

IL DIRITTO DI MENTIRE

LA RIVOLUZIONE COPERNICANA

LA CRITICA DELLA DIMOSTRAZIONE DI DIO

L'INSOCIEVOLE SOCIEVOLEZZA

LA LEGGE MORALE

SPAZIO E TEMPO

LE DUE FONTI DELLA CONOSCENZA

L' IO PENSO

IL SUBLIME

IL SUBLIME E IL BELLO

DALLA LEGGE MORALE A DIO

GLI SCHEMI TRASCENDENTALI

LA PACE PERPETUA

LA VOLONTA' BUONA

LA FUNZIONE REGOLATIVA DELLE IDEE

La ragione non si riferisce mai direttamente a un oggetto, ma sempre soltanto all’intelletto, attraverso il quale accede al proprio uso empirico. [...]. Io asserisco, dunque, che le idee trascendentali sono inadatte a qualsiasi uso costitutivo, per cui debbono fornire concetti di oggetti; e che se sono intese in questo modo, si risolvono in semplici concetti raziocinanti (dialettici). Esse hanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente nel dirigere l’intelletto verso un certo scopo, in vista del quale le linee direttive delle sue regole convergono in un punto, che — pur essendo null’altro che un’idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui non possono realmente provenire i concetti dell’intelletto, perché è fuori dell’esperienza possibile — serve tuttavia a conferire a tali concetti la massima unità ed estensione possibile.

(I. Kant, Critica della ragion pura)

LA TERZA FORMULAZIONE DELL'IMPERATIVO CATEGORICO

Il concetto che ogni essere ragionevole deve considerarsi autore, in virtù delle massime della sua volontà, di una legislazione universale affinché possa, da questo punto di vista, giudicare se stesso e le sue azioni, conduce a un concetto assai fecondo che si connette a questo, cioè al concetto di un regno dei fini. [...] La moralità consiste pertanto nel rapporto di ogni azione con quella legislazione che è la condizione del regno dei fini. Ma questa legislazione deve valere per ogni essere ragionevole e deve poter derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice. (I. Kant, Fondazione dell metafisica dei costumi)

IL FINALISMO COME ESIGENZA DELLA NOSTRA MENTE Facendo riferimento ai princìpi trascendentali, si hanno buone ragioni per ammettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, in vista della sua intelligibilità da parte del Giudizio umano, e della possibilità di connettere le esperienze particolari in un unico sistema. Ma che le cose della natura stiano tra di loro in rapporto di mezzo a fine, e che la loro stessa possibilità si possa comprendere a sufficienza solo mediante tale tipo di causalità, l’idea generale di natura, come insieme degli oggetti dei sensi, non ci dà nessun motivo di pensarlo. [...] Si applica tuttavia con ragione il giudizio teleologico alla ricerca naturale, almeno problematicamente; ma solo per sottoporla, seguendo l’analogia con la causalità secondo fini, a princìpi di osservazione ed investigazione, senza pretendere di poterla spiegare. Esso appartiene dunque al Giudizio riflettente, non a quello determinante. [...] (I. Kant, Critica del giudizio)

IL POSTULATO DELLA LIBERTA'

La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. [...] È quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse. (I. Kant, Critica della ragion pratica)

IL GIUDIZIO ESTETICO

Per decidere se una cosa sia bella o no, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo invece, tramite l’immaginazione (forse connessa con l’intelletto), al soggetto e al suo sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non è pertanto un giudizio di conoscenza; non è quindi logico, ma estetico: intendendo con questo termine ciò il cui principio di determinazione non può essere che soggettivo. (I. Kant, Critica del Giudizio)

IL BELLO

Il colore verde dei prati è una sensazione oggettiva, in quanto percezione d’un oggetto del senso; la gradevolezza invece è una sensazione soggettiva, mediante la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire, un sentimento, nel quale l’oggetto viene considerato come oggetto di soddisfazione (e non di conoscenza). [...] Definizione del bello desunta dal primo momento: Il gusto è la facoltà di giudicare d’un oggetto o d’una specie di rappresentazione, mediante una soddisfazione od insoddisfazione scevra d’ogni interesse. L’oggetto d’una tale soddisfazione si dice bello. [...] chi giudica si sente completamente libero nei confronti della soddisfazione con cui si volge all’oggetto, per cui non riesce ad attribuire tale soddisfazione ad alcuna circostanza particolare, esclusiva del proprio oggetto, e deve quindi considerarla fondata su ciò che può presupporre in ogni altro: di conseguenza dovrà credere d’aver motivo di attendersi da ciascun altro una simile soddisfazione. Ne consegue che al giudizio di gusto si deve annettere, con la consapevolezza del suo carattere disinteressato, una pretesa di validità universale, senza che tale universalità poggi sull’oggetto; vale a dire, la pretesa ad una universalità soggettiva deve essere legata al giudizio di gusto. Definizione del bello desunta dal secondo momento: È bello ciò che piace universalmente senza concetto. [...] La soddisfazione che noi, senza concetto, giudichiamo universalmente comunicabile, e quindi causa determinante del giudizio di gusto, non può consistere in altro che nella finalità soggettiva della rappresentazione di un oggetto, senza fini di sorta (né oggettivi né soggettivi), quindi nella semplice forma della finalità nella rappresentazione con la quale un oggetto ci viene dato, nella misura in cui ne siamo coscienti. [...] Non può esservi alcuna regola oggettiva di gusto, capace di determinare tramite concetti che cosa sia il bello. Infatti, ogni giudizio che scaturisca da questa fonte è estetico, trova cioè il proprio principio di determinazione nel sentimento del soggetto e non nel concetto d’un oggetto. Definizione di bello desunta da questo terzo momento: La bellezza è la forma della finalità d’un oggetto, in quanto viene percepita in questo senza la rappresentazione d’uno scopo. [...] Che cosa sia la modalità di un giudizio di gusto. Di ogni rappresentazione posso dire che è almeno possibile che essa (in quanto conoscenza) sia legata ad un piacere. Di ciò che dico piacevole affermo che produce in me realmente piacere. Quanto al bello, si pensa che esso abbia col piacere una relazione necessaria. Questa necessità è però di natura particolare: non una necessità teorica oggettiva, per la quale si possa a priori riconoscere che ognuno proverà la stessa soddisfazione per l’oggetto che io ho chiamato bello; neppure una necessità pratica, per la quale, mediante i concetti di un volere razionale puro, che serve da regola ad un agente libero, questa soddisfazione rappresenti la necessaria conseguenza d’una legge oggettiva, e non significhi altro che il dovere assoluto d’agire in un certo modo (senz’altro intento).[...] Definizione del bello dedotta dal quarto momento: Bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto d’una soddisfazione necessaria. (I. Kant, Critica del Giudizio)

GIUDIZI DETERMINANTI E GIUDIZI RIFLETTENTI

Il Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare in quanto contenuto nell’universale. Se l’universale (la regola, il principio, la legge) è dato, il Giudizio che sussume sotto questo il particolare [...] è determinante. Se invece è dato soltanto il particolare, ed il Giudizio deve trovargli l’universale, allora esso è meramente riflettente. [...]Ora, poiché il concetto di un oggetto, nella misura in cui contiene anche il principio della realtà di questo oggetto, si dice scopo , mentre si dice finalità della forma d’una cosa l’accordo di questa con quella costituzione delle cose che è possibile solo mediante fini, il principio del Giudizio, rispetto alla forma delle cose naturali sottoposte a leggi empiriche in generale, è la finalità della natura nella varietà delle sue forme. In altri termini, la natura viene rappresentata, mediante questo concetto, come se un intelletto contenesse il fondamento unitario della molteplicità delle sue leggi empiriche. La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, la cui origine va cercata nel solo Giudizio riflettente.

(I. Kant, Critica del Giudizio)

IL DOVERE

La dignità del dovere non ha che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, e anche il suo speciale tribunale; e se anche si volessero confondere l’una con l’altro per porgerli mescolati come una medicina all’anima ammalata, essi tuttavia si separerebbero subito da sé; e se non facessero ciò, la prima non agirebbe punto, ma, se anche la vita fisica ne guadagnasse qualche forza, la vita morale scomparirebbe senza rimedio. (I. Kant, Critica della ragion pratica)

IL DIRITTO DI MENTIRE

La veridicità in dichiarazioni cui non si possa sottrarre è un dovere formale dell’uomo nei confronti di tutti, anche qualora ciò sia fonte, per sé o per un altro, di grandi svantaggi. E se anche, affermando il falso, io non facessi un torto a chi mi costringe ingiustamente a rendere una dichiarazione, tuttavia, attraverso tale falsificazione (che perciò può essere chiamata anche menzogna, sia pure in senso non giuridico) farei un torto gravissimo al dovere stesso in generale:(...) Se, quindi, definiamo la menzogna semplicemente come una dichiarazione intenzionalmente falsa resa a un altro uomo, non occorre più che specificare ulteriormente che essa deve recare danno ad altri, come pretendono i giuristi. (I. Kant, Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità)

LA RIVOLUZIONE COPERNICANA

La matematica e la fisica sono le due conoscenze teoretiche della ragione che debbono determinare a priori i loro oggetti; la prima in modo del tutto puro, la seconda almeno parzialmente, dovendo tenere conto anche di fonti di conoscenza diverse dalla ragione. Sin dai tempi più remoti a cui può giungere la storia della ragione umana, la matematica, ad opera del meraviglioso popolo greco, si è posta sulla via sicura della scienza. [...] È pertanto indispensabile che la ragione si presenti alla natura tenendo, in una mano, i princìpi in virtù dei quali soltanto è possibile che i fenomeni concordanti possano valere come leggi e, nell’altra mano, l’esperimento che essa ha escogitato in base a questi princìpi; e ciò al fine sì di essere istruita dalla natura, ma non in veste di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piace al maestro, bensì di giudice che nell’esercizio delle sue funzioni costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge.

(I. Kant, Critica della ragion pura)

LA CRITICA DELLA DIMOSTRAZIONE DI DIO

Per raggiungere un fondamento sicuro, questa dimostrazione [la prova cosmologica] si fa forte dell’esperienza, gabellandosi in tal modo come diversa dalla prova ontologica, che si affida interamente a concetti puri a priori. Ma l’esperienza è utilizzata dalla prova cosmologica esclusivamente per fare un primo passo e giungere all’esistenza d’un essere necessario in generale. [...]La ragione crede, poi, di poter trovare i requisiti richiesti soltanto nel concetto dell’essere realissimo, e perciò conclude che esso è l’essere assolutamente necessario. Ma è chiaro che qui si presuppone che il concetto dell’essere fornito della suprema realtà sia tale da soddisfare completamente al concetto della necessità assoluta nell’esistenza, cioè che sia possibile conchiudere da questa a quella; tale principio era stato asserito dall’argomento ontologico, e viene trasferito alla prova cosmologica quale suo fondamento, mentre si era partiti dal presupposto di evitarlo. (I. Kant, Critica della ragion pura)

LA CRITICA DELLA DIMOSTRAZIONE DI DIO

TESI QUARTA. - Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro antagonismo nella società, in quanto però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della società stessa. [...] L' uomo ha un’inclinazione ad associarsi, poiché egli nello stato di società si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, poiché egli ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa ch'egli deve da parte sua tendere a resistere contro altri. (I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico)

LA LEGGE MORALE

La legge morale è l'unico motivo determinante della volontà pura. Ma, poiché questa legge è semplicemente formale (cioè, richiede soltanto la forma della massima, come universalmente legislativa), così essa, come motivo determinante, astrae da ogni materia, e perciò da ogni oggetto, del volere. (I. Kant, Critica della ragion pratica)

SPAZIO E TEMPO

Le nostre delucidazioni ci insegnano pertanto la realtà (cioè la validità oggettiva) dello spazio, relativamente a quanto ci si può presentare esteriormente come oggetto; ma, nello stesso tempo, anche l’idealità dello spazio, relativamente alle cose, qualora vengano dalla ragione considerate in se stesse, cioè a prescindere dalla natura della nostra sensibilità. Noi sosteniamo dunque la realtà empirica dello spazio (relativamente a ogni possibile esperienza esterna), e tuttavia la sua idealità trascendentale; riteniamo cioè che esso si annulli se si prescinda dalla condizione della possibilità di ogni esperienza per assumerlo come qualcosa che stia a fondamento delle cose in se stesse. (I. Kant, Critica della ragion pura)

LE DUE FONTI DELLA CONOSCENZA

La nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell’animo, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). [...] Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche. (I. Kant, Critica della ragion pura)

L'IO PENSO

L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe esser pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla. [...] Questo riferimento, dunque, non ha ancora luogo fin che mi limito ad accompagnare con la coscienza ogni rappresentazione, ma si dà solo quando pongo ogni rappresentazione assieme alle altre e ho coscienza della loro sintesi. Solo dunque in quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date, mi diviene possibile rappresentarmi l’identità della coscienza in queste rappresentazioni; ossia, l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo sul presupposto di un’unità sintetica. [...] E questo è il principio supremo di tutta la conoscenza

umana. (I. Kant, Critica della ragion pura)

IL SUBLIME

Il sentimento della nostra inadeguatezza a portarci al livello di un'idea che per noi è legge, è il rispetto. Ora, l'idea della comprensione di ogni fenomeno che può esserci dato, nell'intuizione di un tutto, è un'idea che ci è imposta da una legge della ragione che non riconosce altra misura definita, universalmente valida ed immutabile, all'infuori della assoluta totalità. La nostra immaginazione d'altra parte, anche nel suo massimo sforzo di giungere alla comprensione d'un oggetto dato in una totalità intuitiva [...], mostra i propri limiti e la propria insufficienza, ma anche al tempo stesso la propria destinazione ad adeguarsi a quell'idea come legge. Il sentimento del sublime della natura è dunque sentimento di rispetto per la nostra propria destinazione, che con una specie di sostituzione [...] rivolgiamo ad un oggetto naturale, che ci rende per così dire intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive sul massimo potere della sensibilità.

(I. Kant, Critica del Giudizio)

IL SUBLIME E IL BELLO

Il bello ed il sublime concordano in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Entrambi inoltre non presuppongono un giudizio dei sensi od un giudizio logico determinante, ma un giudizio riflettente; di conseguenza, la soddisfazione non dipende da una sensazione, come nel caso del piacevole, né da un concetto determinato, come nel caso della soddisfazione dipendente dal buono, ma tuttavia viene riferita a concetti, sebbene indeterminati. La soddisfazione è pertanto legata alla mera presentazione, o alla facoltà relativa, in modo che la facoltà di presentazione, o immaginazione, in una data intuizione, viene considerata in accordo con la facoltà dei concetti dell'intelletto o della ragione, la cui attività essa promuove. Per questo, inoltre, entrambi i giudizi sono singolari, ma si presentano come universalmente validi per ogni soggetto, sebbene pretendano solo al sentimento del piacere e non alla conoscenza dell'oggetto.

(I. Kant, Critica del Giudizio)

DALLA LEGGE MORALE A DIO

La legge morale...deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, che consiste nella felicità proporzionata a questa moralità, in modo altrettanto disinteressato, per semplice e imparziale ragione; deve cioè condurre alla supposizione dell'esistenza di una causa adeguata a tale effetto; ossia a postulare l'esistenza di Dio come rientrante necessariamente nella possibilità del sommo bene. (I. Kant, Critica della ragion pratica)

IL POSTULATO DELLA LIBERTA'

La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né aver coscienza immediata, perché il primo concetto di essa è negativo, né conoscenza mediata dall’esperienza, [...]. È quindi la legge morale della quale diventiamo consci [...], ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse. (I. Kant, Critica della ragion pratica)

GLI SCHEMI TRASCENDENTALI

Ma i concetti puri dell’intelletto, posti a raffronto con le intuizioni empiriche (anzi, con le intuizioni sensibili in generale), risultano del tutto eterogenei e non possono mai essere trovati in qualche intuizione. Com’è allora possibile la sussunzione delle intuizioni sotto i concetti dell’intelletto, quindi l’applicazione della categoria ai fenomeni, visto che nessuno potrà mai dire: questa categoria, ad esempio quella di causalità, può essere anche intuita per mezzo dei sensi ed è compresa nel fenomeno? [...] Ora è chiaro che ci dev’essere qualcosa di intermedio, che risulti omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro col fenomeno, affinché si renda possibile l’applicazione della prima al secondo. Questa rappresentazione intermedia deve essere pura (senza elementi empirici) e, tuttavia, per un verso intellettuale e per l’altro sensibile: essa è lo schema trascendentale. [...]

(I. Kant, Critica della ragion pura)

LA PACE PERPETUA

Lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura (status naturalis). Questo è piuttosto uno stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono sempre ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo stato di pace dev’essere istituito[...] Primo articolo definitivo per la pace perpetua: "La costituzione civile di ogni stato dev’essere repubblicana". [...]E siccome in fatto di associazione di popoli della terra (più o meno stretta o larga che sia) si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua, [...]. (I. Kant, Per la pace perpetua) LA VOLONTA' BUONA La volontà buona non è tale per ciò che essa fa e ottiene, e neppure per la sua capacità di raggiungere i fini che si propone, ma solo per il volere, cioè in se stessa; considerata in se stessa, dev’essere ritenuta incomparabilmente superiore a tutto ciò che, mediante essa, potrebbe esser fatto in vista di qualsiasi inclinazione o anche, se si vuole, di tutte le inclinazioni insieme. Anche se l’avversità della sorte o i doni avari di una natura matrigna privassero interamente questa volontà del potere di realizzare i propri progetti; anche se il suo maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e semplice buona volontà [...], essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha in sé il suo pieno valore. L’utilità e l’inutilità non possono né accrescere né diminuire questo valore. (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi) _______________________________________________________

8 - Relazione introduttiva al proprio insegnamento Semestre invernale del 1765-1766 Ogni forma di istruzione rivolta alla gioventù reca con sé una difficoltà imprescindibile, che si è costretti a precorrere col discernimento gli anni, e, senza attendere la completa maturazione dell’intelletto, si ha il dovere di impartire cognizioni che, secondo l’ordine naturale, potrebbero essere afferrate solo da una ragione più addestrata ed esperta. Da ciò discendono gli eterni pregiudizi delle scuole, più ostinati e spesso più insulsi dei pregiudizi comuni, e la precoce, spregiudicata loquacità dei giovani pensatori, che di per sé è più cieca di qualsiasi altra presunzione, e più difficile da curare della stessa ignoranza. Eppure si tratta di una difficoltà con la quale occorre misurarsi, giacché in un’epoca in cui predomina una disposizione d’animo adorna e civile, le

idee fini vengono considerate strumenti di progresso, e si trasformano in bisogni cose che per loro natura sarebbe assennato considerare dei semplici ornamenti della vita e il simbolo della sua superflua bellezza. Ma anche sotto questo profilo ci è possibile accordare maggiormente il pubblico insegnamento alla natura, se non persino renderlo totalmente conforme ad essa. Difatti, se il processo naturale dell’umana conoscenza è tale che, in un primo tempo, si formi l’intelletto, il quale attraverso l’esperienza sensibile giunge a formulare giudizi intuitivi e mediante questi costruisce concetti; e in seguito, sia la ragione a porre tali concetti in relazione con le loro premesse e conseguenze e a far sì che, infine, essi vengano compresi all’interno di un tutto ben ordinato per mezzo della scienza: ebbene, sarebbe necessario che l’istruzione segua esattamente la stessa via. Da un insegnante ci si aspetterà quindi che egli formi nel suo scolaro prima l’uomo intelligente, poi l’uomo ragionevole, e solo dopo l’uomo dotto. Un tale modo di procedere presenta l’innegabile vantaggio che, se pure lo studente assai di rado riesca a raggiungere l’ultimo grado, come ci mostra la comune esperienza, ciò nonostante egli ha avuto modo di approfittare dell’istruzione, ed è diventato più esperto ed assennato, se non per la scuola, senz’altro per la vita. Qualora si sovverta questo metodo, lo studente, ancor prima che in lui si sia ben sviluppata la capacità intellettuale s’impadronisce di una sorta di raziocinio e dalla scuola porta via una scienza presa in prestito, posticcia, non interiorizzata: così facendo, il suo talento non risulta solamente sprecato e infruttuoso, come in ogni altro caso, ma per di più è tarlato dall’illusione di esser sapiente. È questo il motivo per cui non è infrequente imbattersi in dotti (propriamente uomini di studio), che mostrano ben poca intelligenza, e per cui le Accademie sfornano più teste d’uovo di qualsiasi altro stato sociale. La regola da seguire è dunque questa: innanzitutto far maturare l’intelligenza e accelerarne lo sviluppo, esercitandola nei giudizi d’esperienza e indirizzandone l’attenzione verso quanto è possibile apprendere dalle sensazioni comparate dei vari organi di senso. Da questi giudizi o concetti essa non deve slanciarsi con balzi ardimentosi verso i più alti e remoti, bensì appropinquarvisi percorrendo il naturale e ben conosciuto sentiero dei concetti inferiori, che la conducono innanzi passo dopo passo: il tutto però rimanendo conforme a quella capacità intellettiva che il precedente esercizio ha dovuto necessariamente portare a maturazione in essa, non a quella che l’insegnante percepisce, o crede di percepire, in sé stesso, e suppone a torto anche nel suo allievo. In poche parole, questi non deve imparare dei pensieri, ma deve imparare a pensare; non deve portarlo, ma guidarlo, se si vuole che in futuro sia in grado di camminare da sé. Un tale metodo d’insegnamento esige la natura propria della filosofia. Ma poiché si tratta, senza dubbio, di un’attitudine che vien maturando solo con l’età virile, non dobbiamo meravigliarci delle difficoltà insorgenti quando si vuole adattarla alle capacità non ancora esercitate della gioventù. Il giovane diplomato era abituato soltanto ad imparare. Ed ora pensa che, nello stesso modo, imparerà la filosofia; ma questo è impossibile, perché prima deve imparare a filosofare. Voglio spiegarmi più chiaramente. Tutte le scienze che si possono, in senso proprio, imparare, sono riconducibili a due specie diverse: scienze storiche e scienze matematiche. Alle prime appartengono, oltre alla storia propriamente detta, anche la descrizione della natura, la filologia, il diritto positivo ecc. Ora, giacché in ogni disciplina storica l'esperienza in prima persona o l'altrui testimonianza, e d'altra parte, nelle scienze matematiche l'evidenza dei concetti e l'infallibilità della dimostrazione rappresentano un qualcosa che si dà nel fatto in sé,

e che quindi è immediatamente disponibile, va solo preso per quello che è: per questo in entrambi i casi si può letteralmente imparare, ovvero imprimere o nella memoria o nell'intelligenza quanto ci viene presentato come una disciplina già pronta. Quindi, affinché si possa imparare anche la filosofia, bisognerebbe, innanzitutto, che ce ne fosse una realmente disponibile. Si dovrebbe poter mostrare un libro e dire: osservate, qui è la sapienza e la conoscenza certa; imparate a comprenderlo e a padroneggiarlo, poi sviluppatene per conto vostro alcuni concetti, ed ecco potrete dirvi filosofi. Finché non mi si mostrerà un libro tale da esporre una filosofia universalmente riconosciuta, a cui io possa far riferimento con la stessa sicurezza con la quale, per esempio, mi richiamo a Polibio per chiarire una circostanza storica, o ad Euclide per un teorema di geometria, mi si consenta di dire che si abusa della fiducia delle persone quando, invece di accrescere la capacità intellettiva dei giovani affidatici, mettendoli in condizione di formarsi in avvenire un più maturo giudizio proprio, li si inganna propinando loro una sapienza che si presenta già bell'e pronta, escogitata a fin di bene da altri, e da cui prende forma un simulacro di scienza, che vale come moneta buona in un determinato luogo e tra determinata gente, ma da tutte le altre parti non gode di alcun credito. Il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (da zetein) , ossia indagativo , e diventa in diversi casi dogmatico, ossia determinato, solo per la ragione che ha già alle spalle una lunga pratica. Anche l’autore filosofico, su cui si è deciso di impostare un ciclo di lezioni, non dev’essere trattato come un criterio assoluto di giudizio, ma solo come un’opportunità di giudicare anche di lui, e persino contro di lui. Il metodo di riflettere con la propria testa su questo o quell’argomento e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile. Di conseguenza, le svariate idee che il giovane è andato maturando grazie all’applicazione costante di questa prassi filosofica e pedagogica, vanno considerate come conseguenze del tutto accidentali, della cui ricchezza egli deve giovarsi piantandone in sé la radice fruttifera. Se si mette a confronto tale metodo didattico con le procedure d’insegnamento più comuni, che tanto se ne discostano, si riescono a comprendere una serie di cose, che altrimenti risulterebbero assai strane. Come, per esempio, non vi sia alcuna forma di scienza connessa alle arti e ai mestieri, in cui si incontrano tanti maestri quanti in filosofia; e per quale motivo - mentre una gran parte di coloro che hanno studiato la storia, il diritto, la matematica e simili, riconoscono con una certa modestia di non essere, tuttavia, ancora così padroni della materia, da poterla a loro volta insegnare - è poi ben raro imbattersi in qualcuno che, con tutta serietà, non ritenga di essere perfettamente in grado di insegnare logica, morale, ecc. oltre alle sue rimanenti occupazioni, se solo decidesse di perder tempo con simili quisquilie. La ragione è che in quelle scienze vi è un criterio comune e invece in queste ciascuno ha il proprio. Nello stesso tempo, risulterà chiaro che per la filosofia sarebbe del tutto innaturale esser un’arte per guadagnarsi il pane, poiché cozza con la sua essenziale natura il doversi adattare all’opinione di chi chiede o alla legge della moda; e ci si renderà conto che soltanto il bisogno, che tiranneggia anche chi si occupa di filosofia, può forzarla a piegarsi nella forma del comune consenso. Le scienze che io penso di insegnare e trattare compiutamente in lezioni private nel corso del semestre appena iniziato, sono le seguenti: 1. Metafisica. - In un breve

saggio, redatto frettolosamente, ho tentato di mostrare come questa scienza, senza alcun riguardo per le grandi e magnanime fatiche sostenute dai dotti in suo nome, nonostante tutto, rimanga a tutt'oggi così incompleta e insicura, giacché si è disconosciuto il suo peculiare procedimento, che è non è sintetico, come quello della matematica, bensì analitico. Ne consegue che, se in geometria il concetto più semplice ed universale è anche il più facile da comprendere, in metafisica è senz'altro il più difficile: in quella per sua essenza deve costituire la premessa del discorso scientifico, in questa la conclusione. Nelle scienze matematiche si dà inizio alla teoria con le definizioni, in metafisica, invece, si finisce con esse, e così pure in altri casi. Da molto tempo il mio lavoro è improntato su questo progetto, e giacché ogni passo in tale direzione mi ha svelato le fonti degli errori e la giusta misura del giudizio, che è la sola a consentirci di evitare gli errori, almeno quelli evitabili, spero tra non molto di poter esporre per intero e con chiarezza le linee essenziali del mio insegnamento in tale materia. Nel frattempo, però, posso benissimo utilizzare, con qualche piccola modifica, il manuale del Baumgarten, che ho scelto di adottare soprattutto per la ricchezza del contenuto e la precisione del metodo, avviandolo nella direzione proposta. Pertanto, dopo una breve introduzione, comincio col prendere in esame la psicologia empirica, che in ambito metafisico rappresenta propriamente la scienza sperimentale dell'uomo. Attenzione: di proposito, ho evitato l'espressione "scienza dell'anima", dal momento che in questa sezione non siamo ancora autorizzati a sostenere che l'uomo ne abbia una. La seconda parte del programma, incentrata per consuetudine sulla natura corporea in generale, la prendo a prestito da quei capitoli della cosmologia, dove si tratta della materia; ma li completerò senz’altro aggiungendovi delle note scritte. Dal momento che la prima scienza (alla quale, per analogia, si aggiunge anche la zoologia empirica, ossia lo studio degli animali) prende in esame ogni forma di vita, che cada sotto i nostri sensi, e la seconda ogni cosa che possa dirsi, in senso lato, priva di vita, allora è possibile comprendere all’interno di queste due classi tutte le cose esistenti al mondo. Pertanto, svolte queste parti di programma, passerò all’esposizione dell’ontologia, cioè la scienza delle proprietà generali di tutte le cose, la cui conclusione racchiude la differenza tra esseri spirituali ed esseri materiali, tanto nel loro essere riuniti quanto nel loro essere separati, e quindi pure la psicologia razionale. A questo punto, avrò dalla mia il grosso vantaggio non solo di poter contare su uno studente già ben esercitato ed esperto da guidare nella più complicata tra tutte le ricerche filosofiche, ma anche di poter fare la maggiore chiarezza possibile, esaminando le questioni più astratte alla luce del concreto offertomi dalle discipline già studiate, senza esser costretto ad anticipare a mo’ di esempio parti di programma destinate ad essere svolte solo in seguito, errore comune ed inevitabile di quanti applicano alla metafisica il procedimento sintetico. Per concludere non rimane che lo studio della suprema causa, ovvero la scienza di Dio e del mondo. Non posso fare a meno di ricordare un altro vantaggio, che, a dir la verità, si basa solamente su cause accidentali, ma non per questo è di poco conto, e che sono intenzionato a trarre da questo metodo. Si sa con quanto entusiasmo i giovani, così vivaci ed incostanti, accolgano l’inizio delle lezioni e come, col passare del tempo, l’aula diventi ogni volta un po’ più spaziosa. Ora, mi sia lecito supporre che, nonostante ammonimenti e buone intenzioni, questa spiacevole abitudine continui a manifestarsi anche in futuro: ebbene, anche in tal caso, il metodo su accennato, serba un’utilità sua propria. Difatti lo studente, il cui zelo si fosse già spento verso la fine della psicologia empirica (il che mi sembra

alquanto improbabile se si segue una simile procedura didattica), avrebbe comunque ascoltato un insegnamento comprensibile per la sua facilità, gradevole per l’interesse che desta e utile per i frequenti casi di applicazione nella vita di tutti i giorni; mentre al contrario, se a scoraggiarlo dal proseguire gli studi fosse stata l’ontologia, scienza di ben difficile comprensione, quanto appreso non gli sarebbe di alcuna utilità. 2. Logica. - Di questa scienza si danno propriamente due specie. Quella della prima specie è una critica e una regola del sano intelletto in senso lato, e così, da una parte, è delimitata dai concetti più elementari e dall’ignoranza, mentre dall’altra, dalla scienza e dall’erudizione. È proprio questo il tipo di logica che, all’inizio dell’insegnamento accademico, si ha l’obbligo di premettere a tutta la filosofia, come la quarantena (se mi si passa quest’espressione) cui deve essere sottoposto il discente che intenda trasmigrare dalla landa del pregiudizio e dell’errore nel territorio della ragione illuminata e delle scienze. La seconda specie di logica rappresenta la critica e la normativa del sapere vero e proprio, e non può essere mai trattata altrimenti che dopo le scienze di cui deve essere organo, affinché il metodo che si è già utilizzato nella pratica del loro apprendimento diventi ancor più regolare e si chiarifichi ulteriormente la natura della disciplina insieme con gli strumenti del suo potenziale miglioramento. Pertanto, a conclusione del ciclo di lezioni dedicato alla metafisica, aggiungo alcune considerazioni sul metodo che le è peculiare, come se si trattasse di un “organo” vero e proprio di questa scienza, organo che non sarebbe corretto porre al suo inizio: difatti, è impossibile definirne con chiarezza le regole quando non si hanno ancora a disposizione esempi in cui mostrarle nella loro applicazione concreta. Il maestro, certamente, deve possedere l’organo prima di insegnare la scienza, ed essere in grado di utilizzarlo in maniera appropriata; ma al suo scolaro non dev’essere insegnato se non da ultimo. La critica e i criteri normativi validi per l’intera disciplina filosofica, se la consideriamo come un tutt’uno, insomma, questa logica nella sua completezza, non può essere collocata, in ambito didattico, che al termine dell’esposizione di tutta quanta la filosofia, giacché solo le conoscenze già acquisite in essa e la storia delle umane opinioni offrono in concreto la possibilità di formulare giudizi sull’origine tanto delle sue idee giuste, quanto dei suoi errori, e di tracciare il progetto preciso, in base al quale un tale edificio della ragione dev’essere innalzato durevolmente e regolarmente. Io tratterò la logica della prima specie, seguendo certamente il manuale del prof. Meier, il quale ha ben sotto gli occhi le distinzioni or ora tracciate, e nello stesso tempo ci dà occasione di saggiare, accanto alla cultura della ragione sottile e dotta, anche l’istruzione dell’intelletto comune sì, ma attivo e sano: quella per la vita contemplativa, questa per la vita produttiva e civile. Ed inoltre, data la strettissima parentela delle materie, si avrà occasione di gettare qualche sguardo sulla critica del gusto, ovvero l’estetica: le regole dell’una servono sempre a chiarire quelle dell’altra, e la loro contrapposizione è un mezzo assai utile per comprenderle entrambe. 3. Etica. - La filosofia morale si presta, ancor prima della metafisica, ad esser considerata sotto l’apparenza di scienza e a godere di qualche credito di fondatezza, sebbene in essa non si trovi alcun riscontro né dell’una né dell’altra cosa. E questo avviene perché il cuore umano è in grado di riconoscere, con facilità e giustezza e senza dover ricorrere ad alcuna dimostrazione razionale, la differenza tra il bene e il male nelle azioni e il conseguente giudizio sulla rettitudine morale di chi le compie, il tutto mediante quel che si chiama “sentimento”. Quindi, poiché la questione, in linea di massima, si decide in una fase che precede qualunque ragionamento, mentre in metafisica vi è tutt’altro modo di procedere, non

bisogna meravigliarsi che, con una certa facilità, si lascino passare per buone ragioni valide soltanto in apparenza. Perciò, nulla è più comune del titolo di “filosofo morale”, ma ben altra cosa è riuscire a guadagnarsi sul serio tale appellativo. Per ora tratterò la filosofia pratica generale e la dottrina delle virtù seguendo per entrambe Baumgarten. I saggi di Shaftesbury, Hutcheson e Hume, spintisi, per quanto incompleti e lacunosi, più in là d’ogni altra opera nella ricerca dei primi fondamenti d’ogni moralità, saranno integrati con quella completezza e precisione di cui difettano. E nella dottrina della virtù, indagando sempre dal punto di vista storico e filosofico quel che accade, prima di mostrare quel che deve accadere, chiarirò il metodo che si deve adottare nello studio dell’uomo, non solo quello sfigurato dalla mutevole forma impressagli dal suo stato contingente e come tale spesso misconosciuto dai filosofi, ma la natura dell’uomo, ovvero ciò che permane sempre costante ed identico, e il posto che gli compete nel quadro generale della creazione, affinché si sappia quale perfezione si addica all’essere umano nel rozzo stato di natura e quale nel civile stato di cultura, e che cosa prescriva, d’altro canto, la regola della sua condotta, allorché egli, spingendosi al di là dei confini dell’una e dell’altra, aneli a raggiungere il più alto grado della perfezione fisica o morale, ma sia da entrambe più o meno lontano. Questo metodo d’indagine morale è una bella scoperta dei nostri tempi, e se lo si valuta nella sua completezza, rimase del tutto sconosciuto agli antichi. 4. Geografia fisica. - Quando, appena iniziato il mio insegnamento accademico, mi resi conto che una grave carenza degli studenti deriva essenzialmente dal fatto che essi vengono educati innanzitutto a ragionare, senza aver ricevuto, in precedenza, sufficienti conoscenze storiche che suppliscano alla mancanza d'esperienza, feci il progetto di esporre la storia del presente stato della terra, o geografia nel senso più ampio del termine, attraverso un compendio piacevole e facile di quegli elementi che questa materia dovrebbe preparare e fornire ad una ragion pratica per risvegliarvi un vivo desiderio di ampliare sempre più le prime conoscenze apprese. Il nome che scelsi per indicare tale disciplina, ossia “geografia fisica”, deriva da quella branca del sapere sulla quale, in quel tempo, si incentrava la mia principale attenzione. Da allora ho sviluppato progressivamente questo progetto iniziale, ed ora mi propongo, restringendo ulteriormente la sezione che si occupa delle principali proprietà fisiche della terra, di guadagnare tempo per esporre con più ampio respiro quelle nozioni geografiche che giudico di maggiore utilità pubblica. Questa disciplina sarà quindi una geografia fisica, morale e politica, nella quale, innanzitutto, si passeranno in rassegna i fenomeni più rilevanti della natura attraverso i suoi tre regni, dando la precedenza, tra gli innumerevoli altri, a quelli che per la loro particolarità, o anche per l'influsso che esercitano sugli stati per mezzo del commercio o del traffico, suscitano in assoluto il maggiore interesse. La prima sezione, che si occupa di mettere in evidenza il rapporto naturale che lega tutte le terre e i mari e nel contempo svela la ragione intrinseca di tale interconnessione, è il vero fondamento di ogni storiografia, che, a voler prescindere da esso, sarebbe poco diversa dai racconti di fiabe. La seconda prende in considerazione l'uomo nella varietà delle sue proprietà naturali e nella diversità dei suoi costumi morali, riscontrabile in ogni parte del mondo. Si tratta di uno studio assai importante e stimolante nello stesso tempo, senza il quale difficilmente possono formularsi giudizi generali sull'uomo; per suo tramite, inoltre, confrontando le diverse condizioni morali, tra loro e con quelle di età più antiche, verrà a comporsi dinanzi ai nostri occhi una specie di grande mappa del genere umano. Infine, si prende in esame ciò che può esser considerato come una conseguenza dell’azione combinata delle due forze sopra menzionate, ovvero la

situazione degli stati e dei popoli sulla terra, non in quanto tale situazione sia stata determinata accidentalmente dalle gesta e dalla fortuna di singoli uomini, tramite successioni al governo, conquiste territoriali o macchinazioni di stato, ma in relazione a ciò che è più stabile e consente di individuare le ragioni più profonde degli eventi storici, vale a dire la posizione geografica dei paesi, i prodotti, i costumi, il traffico, il commercio e la popolazione. La stessa riduzione, per così dire, di una scienza di così ampie prospettive in una misura più piccola, ha la sua grande utilità: solo così, infatti, si può raggiungere l’unità della conoscenza, condizione irrinunciabile se si vuol fondare un sapere a tutto tondo. Senza contare le innumerevoli risorse atte ad alimentare una conversazione brillante, su cui può fare affidamento chi possiede in abbondanza tali conoscenze, di per sé godibili, istruttive e facilmente comprensibili: come posso io, in un secolo socievole come l’attuale, trascurare questo ulteriore, concreto beneficio, tanto più che non costituisce un abbassamento per la scienza? Non è certo piacevole per una persona istruita vedersi spesso nell’imbarazzo in cui si trovò Isocrate, il quale, invitato a tenere un pur breve discorso durante un incontro sociale, dovette rispondere: Quel che io so, non si adatta, e ciò che si adatta, non lo so. Questa è la breve relazione delle attività che intendo dedicare all’Accademia nel corso del presente semestre, relazione che ho ritenuto necessaria esporvi affinché ciascuno possa farsi un’idea del metodo al quale mi è sembrato utile apportare qualche modifica.Mihi sic usus est: Tibi, quod opus est facto, face (Terenzio).