Il tempo è un bastardo, Egan, rassegna stampa ragionata

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Jennifer EganIl tempo è un bastardo

Rassegna stampa ragionata a cura di Claudio Panzavolta

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Il tempo è un bastardo – Rassegna stampa ragionataA cura di Claudio Panzavolta© Oblique Studio 2012

Impaginazione a cura di Fulvia Fronzi

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A visit from the Goon Squad di Jennifer Eganesce negli Stati Uniti nel giugno 2010, edito daKnopf. Nel giro di pochi mesi diventa un vero eproprio caso editoriale, vincendo tra marzo eaprile 2011 il National Book Critics Circle

Award, il Pulitzer e il Los Angeles Times BookPrize, arrivando finalista al Pen/Faulkner. Inbreve tempo il libro vende più di 150.000 copienegli Stati Uniti e viene tradotto in sedici paesi.La stampa nordamericana e britannica comin-cia a parlarne nei giorni precedenti l’uscita, nelmaggio 2010. Quella italiana, invece, gli dedicarecensioni e articoli soltanto a partire dalla pri-mavera 2011, durante tre fasi temporali di-stinte, avviate ognuna da un evento particolare.La prima fase (aprile-luglio 2011) viene inne-

scata dall’assegnazione del Pulitzer; a parte rare,ma significative eccezioni, il romanzo della Eganviene analizzato piuttosto sommariamente in-sieme alle opere vincitrici delle altre sezioni delpremio. La seconda fase (novembre 2011-feb-braio 2012) ha inizio in concomitanza con l’u-scita dell’edizione italiana (Il tempo è un ba-stardo, minimum fax, traduzione di Matteo

Colombo); questa volta, l’attenzione dei giorna-listi si concentra nello specifico sul libro, inparte insistendo – senza però entrare in profon-dità – sugli aspetti già esaminati nel corso dellaprima fase, in parte imbastendo un discorso più

critico e interpretativo, rilevando come sia ilsenso dell’ineluttabilità del tempo a permeare ilromanzo. La terza e ultima fase (marzo-giugno2012), invece, prende il via in corrispondenzadel festival romano Libri come, insieme all’an-nuncio della pubblicazione (prevista per l’au-tunno 2012, per i tipi della minimum fax) delromanzo Look at me (Anchor, 2001), ancorainedito in Italia, come del resto – a parte A visit from the Goon Squad  – tutta la produzionedella Egan; sostanzialmente, il romanzo conti-

nua a essere analizzato attraverso le linee inter-pretative già emerse nella fase precedente, men-tre le letture più stereotipate e sciatte sidiradano.

Introduzione

Immaginò di essere un elemento del palazzo stesso,una cornice o un gradino senzienteil cui destino era quello di assistere

al susseguirsi delle generazioni […].Un anno ancora, altri cinquanta.

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Nell’aprile 2012, la stampa italiana inizia a par-lare del romanzo, prima in un trafilettodell’«Espresso»1 che ricorda la vittoria del Na-tional Book Critics Circle Award e annuncia l’u-scita dell’edizione italiana nell’autunno succes-

sivo, e poi – in maniera più sostanziosa – con unaserie di articoli che focalizzano l’attenzione suivincitori delle diverse categorie del Pulitzer, riser-vando alla Egan un po’ di spazio. Dalla maggiorparte di questi articoli traspare la mancata let-tura del romanzo – vengono, per esempio, spessosbagliati i nomi dei protagonisti – e al tempostesso sono gettati i semi dei cliché che contrad-distingueranno gran parte delle recensioni e arti-coli successivi: il debito dichiarato nei confrontidi Proust, il riferimento fatto dall’autrice alla

serie televisiva I Soprano, la presenza di un in-tero capitolo redatto in PowerPoint. Sul «Cor-riere della Sera», per esempio, Ida Bozzi scrive:

Attenzione alla grande utopia negativa della so-cietà postmoderna (vista con occhi femminili), maanche al sociale; attenzione al web e ai nuovimedia, ma anche ai più titolati giornali di carta

I giorni del Pulitzer

Proust, I Soprano e PowerPoint

La pausa ti fa pensare che la canzone sia finita.Invece scopri che non è finita,

e per te è un sollievo.Poi però la canzone finisce davvero,

perché tutte le canzoni finiscono, ovviamente,e STAVOLTA. LA. FINE. È. VERA.

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della West e dell’East Coast: sono stati annunciati ieri alla Columbia University di New York […] i vin-citori del Pulitzer 2011, il premio nato nel 1917 «per onorare l’eccellenza nel giornalismo e nelle arti». L’e-dizione di quest’anno (che ha tenuto con il fiato sospeso fino all’ultimo per la decisione inattesa di noncomunicare in anticipo almeno i nomi dei tre finalisti), ha premiato infatti per la fiction il romanzo A visit from the Goon Squad di Jennifer Egan (edito da Knopf): il titolo, già finalista del Pen/Faulkner Award forFiction e vincitore di molti premi, tra cui il National Book Critics Circle Award, è stato definito dalla cri-tica romanzo o raccolta di racconti, per la complessità che l’avvicina alle opere di William T. Vollmann.Si tratta di una narrazione distopica che ha per protagonista un produttore musicale […] seguito nelle suevicende passate, presenti e future. Un romanzo-mondo in cui il «New York Times» ha letto elementi chevanno dalla Recherche di Marcel Proust alla saga televisiva dei Soprano, per un’autrice che si aggiunge allalista dei grandi Pulitzer della storia, da Margaret Mitchell a Ernest Hemingway o William Faulkner.2

Ponendo un efficace parallelo con l’assegnazione del Pulitzer per il giornalismo a David Wood,giornalista della testata on line «The Huffington Post», tanto «il Giornale» quanto elle.it sottoli-neano la presenza, nel romanzo della Egan, di un’intera parte redatta in PowerPoint:

[Le] vite avventurose che grandi personaggi avrebbero vissuto in un romanzo tradizionale vengono a uncerto punto riassunte da slide di PowerPoint. Qui l’utilizzo di forme di scrittura non convenzionali, quellache si chiamerebbe ricerca stilistica, si risolve in un’audacia senza precedenti, che lascia un po’ perplessi:

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settantasei pagine redatte con quel software tanto

amato dai manager e dai docenti universitari, chepermette di presentare sotto forma di schermatesuccessive di sintesi per punti praticamente qual-siasi concetto – dal pensiero di Kant al funzio-namento di una pompa idraulica – non sarannotroppe? La vera notizia però è che i primi a es-serne scocciati sono i fanatici del digitale: «I ca-pitoli in PowerPoint non si riescono a leggere sulKindle», posta su Amazon un deluso consuma-tore di ebook. «La stampa è così piccola e glisfondi così scuri, le solite font così inadatte chenemmeno con la lente ci capisco qualcosa». È ildigitale, bellezza.3

La curiosità è data anche dalla struttura stessa del

romanzo, che conta settantasei pagine organizzatein slide, come fossero parte di una presentazione inPowerPoint. Il motivo di tale scelta? Restituire allettore, anche visivamente, gli intrecci e gli scambidella storia.4

Su «la Repubblica» è però la stessa Egan asgombrare il campo dalla superficialità espressafino a quel momento dalla stampa italiana inmerito all’utilizzo della presentazione in Power-Point. L’autrice, infatti, motiva così la propriascelta stilistica:

Sorprendendo perfino me stessa – una personache ancora non possiede uno smartphone – mi

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sono ritrovata a scrivere un in-

tero capitolo del mio ultimoromanzo […] in PowerPoint. Ilnarratore è una ragazzina didodici anni, Alison Blake, equello in PowerPoint è il suodiario per diapositive, che leicompila intorno all’anno 2020per raccontare la vita della suafamiglia nel deserto della Ca-lifornia. Gli eventi ruotanoperlopiù intorno a suo fratellomaggiore […], che ha un’osses-sione autistica per le pause neipezzi rock, e insiste nel farleascoltare ai suoi famigliari[…]. Perché uno scrittore puòdesiderare o avvertire l’esi-genza di creare una storia uti-lizzando un programma comePowerPoint, se non come puroespediente narrativo? L’idea ha

cominciato a incuriosirmi nel-l’estate del 2008, durante la

campagna per le elezioni presi-

denziali americane, quandolessi sul «New York Times»che una presentazione inPowerPoint aveva avuto unruolo cruciale nel ridefinire larotta della campagna diObama. Il cruciale documento,nell’articolo, veniva definito inmodo preciso: non si parlavadi nota interna o relazione odiapositive, ma di una «pre-sentazione in PowerPoint». Inquel momento ho pensato cheil programma in questione eradiventato un concetto gene-rico. Era possibile sfruttarlo inletteratura? Io PowerPoint nonl’avevo mai usato, e nemmenolo possedevo. Di solito scrivo amano, per cui mi ci sono volutimesi di tentativi ed errori e let-

ture di genere – perlopiù storieaziendali di profitti e perdite e

ristrutturazioni – per capire

che non stavo cercando di scri-vere per elenchi puntati, néd’illustrare l’azione, come av-viene nelle graphic novel […].Quello che dovevo fare era in-dividuare la struttura internadi ciascun momento narrativoe rappresentarla visivamente.Nel libro, le diapositive sonoin bianco e nero. Non era ilmomento giusto, nella storiadell’editoria statunitense, perrichiedere all’ultimo minutosettantasei pagine in quattrocolori! Una versione a colori èperò disponibile sul mio sitointernet […], con tanto diaudio, per cui è possibile ascol-tare le pause di cui si parla conun pezzetto della musica che lecirconda. I momenti più entu-

siasmanti, per me, sono statiquelli in cui PowerPoint mi ha

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permesso, o addirittura imposto di superare i li-

miti della narrazione tradizionale. È successoprincipalmente in tre modi. Il primo ha a che farecon il tessuto connettivo che nella narrativa con-venzionale svolge sempre una funzione prepon-derante: da dove vengono i personaggi […], doveandranno poi. Il contesto. Con PowerPoint,creare un contesto è praticamente impossibile, epur trovando difficoltoso farne a meno, al tempostesso il fatto di esserne libera è stato incredibil-mente liberatorio. Il secondo ha a che fare con lacronologia, la camicia di forza dello scrittore:ogni parola è seguita da altre parole, ogni frase daaltre frasi. Uno degli obiettivi che si riproponevail modernismo era quello di rappresentare la si-multaneità della coscienza, in cui la percezioneavviene su più fronti, e ogni momento può esserevissuto in molti modi diversi. Usare il formatodella diapositiva l’ha reso letteralmente possibile.Potevo semplicemente far comparire le informa-zioni sullo schermo, spesso senza un ordine pre-ciso, in modo tale che la molteplicità delle letture

fosse non solo possibile, ma garantita. Alcunedelle mie diapositive si leggono quasi come pa-role crociate. Altre contengono sacche d’informa-zione a loro volta contenute da altre sacche. Altreancora sono strutturate come diagrammi di Venno cartesiani. È il lettore a determinare la cronolo-gia, che cambia ogni volta. Infine, utilizzare dellediapositive mi ha permesso di rappresentare inmaniera vivida l’assenza […]: gli spazi vuoti neipezzi rock’n’roll, e nella vita, che richiamano allamente le pause più grandi, vale a dire, ovvia-

mente, i finali.5

A proporre una lettura profonda è Sara Anto-nelli, che sull’«Unità» individua nell’ineluttabi-lità e caducità del tempo il filo conduttore delromanzo, inaugurando così una lettura interpre-tativa che caratterizzerà tanti articoli successivi:

A visit from the Goon Squad  […] ci pare unabuona finestra da cui osservare lo stato del ro-manzo contemporaneo, non solo statunitense.Perché [vi] ritroviamo il desiderio – di marca otto-centesca – di raccontare epoche e macromondi;ovvero, quella tendenza epicizzante che oggi portamolti autori (Jonathan Franzen escluso) a prefe-rire trame multiple, a scrivere di vicende e perso-naggi che sorpassano epoche e paesi (parla questa

nuova lingua epica anche un altro candidato alPulitzer 2011, The surrendered  di Chang-RaeLee), a tentare, in breve, di comporre un affrescostorico-sociale. Ecco allora che A visit from theGoon Squad se ne va in giro per continenti e percirca quarant’anni, attraversando la musica e l’in-dustria musicale per un tempo altrettanto lungo.Riesce a farlo, e in modi accattivanti, grazie a unatrama suddivisa in tredici diversi capitoli, ognuno

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con un diverso centro d’attenzione – un personag-gio – e caratterizzato da una diversa tecnica nar-rativa. Un modo, quest’ultimo, per dare risalto altalento virtuosistico dell’autrice (uno dei capitoli èuna presentazione [in] PowerPoint), ma anche perinterrogare i lettori sul modo in cui si costruiscono(narrativamente) le vite, sul loro vago intrecciarsiad altre vite, sui ruoli che ognuno dei personaggigioca su diversi teatri d’azione. E anche un modo

per interrogare le forme del racconto contempora-nee e, quindi, per chiedersi cosa spinga molti au-tori a preferire, oggi, il racconto episodico, ovenon apertamente seriale. Ovvero, cosa c’è dietrol’odierna fortuna di un tipo di narrazione che pro-cede per capitoli/nuclei/sezioni a sé stanti. Propriocome Csi o The Wire o Dr. House. Proprio comeil feuilleton ottocentesco, quel genere appassio-nante che faceva correre i lettori da una puntataall’altra, di settimana in settimana, con gli autoriche di volta in volta prendevano un personaggio,gli costruivano un mondo attorno e poi lo abban-donavano. Lettori, autori e personaggi, in breve,crescevano insieme ai libri e alle passioni che que-sti suscitavano.Ebbene, crediamo che la fortuna odierna del rac-conto episodico, di questo tipo di racconto episod-ico, sia legata a un desiderio di partecipazioneemotiva e a un’ansia nei riguardi del tempo;meglio alla nostra ansia nei riguardi dello scorreredel tempo, al terrore di vedercelo scappare via

senza averlo davvero vissuto con pienezza. E cre-diamo anche che l’unico vero protagonista del ro-manzo della Egan non sia Lou o Alex o Bennie eneppure Sasha, bensì il tempo che in queste paginesi dilata, accelera, si ricostruisce a frammenti, si faanticipare […] e infine si rivela per quel che è: unbastardo, come dirà il titolo italiano del romanzo.Perché in A visit from the Goon Squad il tempo èinnanzi tutto una forza che ci costringe a vedere il

cambiamento e ad accoglierlo. E la Egan lo dipanain modo non lineare al punto di farlo somigliare aldestino tragico – ovviamente – che segna ogni per-sonaggio in maniera ineluttabile dall’inizio del suoapparire e in modo tale da farci appassionare alleloro vicende. Ha ragione Martina Testa, l’editor diminimum fax a cui dobbiamo la scelta lungimi-rante di [avere acquistato] i diritti di traduzioneper l’Italia: «A visit from the Goon Squad mi pareuno splendido esempio di testo letterariamenteraffinato e ambizioso, che al tempo stesso riesce aessere di grande impatto emotivo; un pastiche distili e di linguaggi che restituisce a ogni pagina unquadro vivo e realistico delle pulsioni e delle pas-sioni umane. Ha contemporaneamente l’immedi-atezza empatica e la “mediatezza” artistica». Sì,proprio come un feuilleton postmoderno.6

L’ultimo articolo di questa prima fase è un’in-tervista fatta da Alessandra Farkas all’autrice.

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Dopo aver accennato alla rivolta anti-Franzen e

alla posizione della Egan in proposito, la giorna-lista individua nel tempo il fulcro del romanzo,che a suo avviso utilizza la scena musicale punke rock come un semplice contesto e pretesto,metaforicamente efficace nel rendere l’idea del-l’usura e della deperibilità:

«Credo di aver beneficiato della rivolta delledonne americane contro Freedom di JonathanFranzen, che non ho ancora letto, pur ammiran-done l’enorme talento», spiega la Egan, bellacome un’attrice, mentre, sdraiata sul divano, ac-carezza l’adorata gattina grigia Cuddles. L’estate

scorsa, quando Franzen finì sulla copertina del«Time», giornali e blog parlarono di «sciovinismodelle lettere Usa», accusate di premiare i romanziintimisti «solo se scritti da uomini». «Quel terre-moto mi ha spianato la strada», puntualizzaadesso, «creando le condizioni ideali per un’operaambiziosa e inconsueta firmata da una donna».

La sua fortuna è stata anche un’altra: non appar-tenere al genere chick lit. «Secondo me è stato unerrore, da parte delle scrittrici americane, ghettiz-zarsi in quella categoria. Sono contenta chequando il mio primo libro è uscito quel generenon esisteva ancora, altrimenti mi avrebbero su-bito etichettata e non sarei stata presa sul serio[…]». Il vero problema, secondo la Egan, è che

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«mentre le donne leggono autori maschi, i lettori

uomini non leggono noi scrittrici». Mentre scri-veva A visit from the Goon Squad , temeva che ilettori, alla fine, le avrebbero riso dietro: «Il re-taggio dell’insicurezza che lacera molte scrittriciin un mondo ancora al maschile», spiega. Ciònon le ha impedito di mirare alto. Anzi altissimo.Una galleria di personaggi complicati e inquietianima i tredici capitoli di questa collezione di rac-conti interdipendenti eppure slegati tra loro, unpo’ come Olive Kitteridge di Elizabeth Strout,altro premio Pulitzer. Ma mentre la Strout perse-gue un’unità stilistica d’insieme, la Egan usa il suostraordinario virtuosismo linguistico e letterarioper cambiare ben tredici volte tono e registro. «Ilmio libro è organizzato musicalmente, come l’al-bum The rise and fall of Ziggy Stardust and theSpiders from Mars di David Bowie», raccontal’autrice che, partendo da Manhattan e San Fran-cisco, ci trasporta dall’Africa a Napoli, in un arcodi tempo che va dagli anni Settanta al 2020. Colpretesto di raccontare il mondo del rock – col-

lante tra i vari personaggi – l’autrice riesce a farciridere e piangere di fronte all’usura implacabiledel tempo che incombe sopra ogni cosa: il veroleitmotiv dell’opera.7

A parte le poche eccezioni, è facile notare comel’insistenza su aspetti particolari come l’utilizzodella presentazione in PowerPoint e l’accosta-mento tra il classico Proust e i contemporaneiSoprano resti qualcosa di superficiale e inesplo-rato, una noterella glamour che non va in

profondità e il cui fine è semplicemente quello disbalordire. In questa operazione di vuoto intrat-tenimento, il debito con le recensioni uscite mesiprima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è evi-dente; al contrario della stampa italiana (che siè fermata alla superficie), però, queste ultimepartivano dall’aspetto pop e glamour per calarsipiù in profondità:

The novel’s most radical element, that long

PowerPoint presentation near the end, is touchingand effective in the kind of poignant way onewouldn’t expect […] (don’t bother flipping th-rough it in the bookstore; it gains its considerableresonance only after you’ve read the stories thatprecede it). Graphics like this have always struckme as a bit gimmicky, but in Egan’s shape-shif-ting novel, the slides of a precocious girl’s Power-Point journal serve as a weirdly believable expres-sion of the way modern technology mediates evenour deepest yearnings.8

Egan has described her novel as being like TheSopranos crossed with Proust, and this, whilesounding a bit like a marketing gimmick, actuallymakes sense. Like the great French writer, A visit from the Goon Squad is obsessed with time: howit passes, how we pass through it, how it changeseverything and, more pertinently, wearseverything down, including us, to little more than

specks of sand in the great desert of history. Timeis the goon squad of the title: it roughs you upand, as Egan puts it, «pushes you around». Eganplays with a bewildering range of styles, timeshifts, even narrative perspectives: the tenth chap-ter […] takes on the second-person narrative andmakes it work. There is also a rather strange sec-tion near the end, presented as a series of Power-Point slides; initially it seems like nothing morethan showy postmodern trickery, but underEgan’s guidance it’s powerful and undeniably af-

fecting. A visit from the Goon Squad is a tremen-dous novel: thoughtful, subtle, funny, wacky,energetic, profoundly authentic. It’s not quiteProust, but Jennifer Egan’s book is head andshoulders above most of its peers.9

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Nel novembre 2011, il libro della Egan vienepubblicato dalla minimum fax e dopo tre mesidi silenzio la stampa italiana torna a parlarne,perlopiù pescando a piene mani dalle poche estereotipate idee già espresse negli articoli usciti

a ridosso dell’assegnazione del Pulitzer. Qual-cuno, per fortuna, ha ripreso il discorso sultempo innescato dalla Antonelli, sviluppandoanalisi più originali e circostanziate.Per quanto riguarda la prima tendenza, Laila

Bonazzi scrive su «Marie Claire»:

Da ragazzina sarebbe scappata con gli Who («Eropazza per Roger Daltrey, credevo fossimo desti-nati a stare insieme»). Oggi, a 49 anni, potrebbefarlo con Eminem («Solo perché mio figlio loascolta di continuo. Ma per favore, non scriva chescapperei con lui!»). Non è preoccupata che il suoultimo romanzo diventi un serial tv per Hbo:«Non sarei mai capace di scrivere una sceneggia-tura». Eppure con II tempo è un bastardo ha

vinto il premio Pulitzer: l’autrice – un’ex bad girlcaliforniana che vive a Brooklyn con due figli e unmarito con cui sta insieme da una vita – ha alle-stito una storia corale che è anche un esperimentonarrativo dall’andamento cronologico inesistente,ma assolutamente (be’, forse assolutamente è unpo’ eccessivo) comprensibile. Numi tutelari: Mar-cel Proust e I Soprano. La Egan gioca con le

La pubblicazione in Italia

«Il tempo è un bastardo, giusto?»

«È bello. Avervi. Qui» […].Ma noi non voliamo via.

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forme della scrittura e fa slalom tra tempo, spazio

e le voci narranti di un produttore musicale (Ben-nie), la sua assistente cleptomane Sasha con i duefigli Alison e Lincoln, la pr di un dittatore geno-cida (Dolly)… La lista dei personaggi è moltolunga. Dove si svolge? Si parte dalla San Franci-sco anni Settanta per arrivare nella New York diun futuro imprecisato, passando per Napoli. Epoi c’è il dodicesimo capitolo: composto solo dasettanta slide in PowerPoint […]. È il diario ar-rabbiato ed emozionante di Alison (in fragorosocontrasto con la freddezza della grafica), che rac-conta l’ossessione del fratello Lincoln per quellecanzoni che a un certo punto sembrano finire einvece no. Poi, però, finiscono sul serio. Un po’come succede nella vita: a volte ti sembra di averchiuso con una certa storia, e poi magari ti si pre-senta un’altra occasione per riviverla […]. «Iltempo non sta dalla parte di nessuno. Non è nébuono né cattivo. È un dato di fatto. Senza di lui,vivere sarebbe insostenibile, ma lo percepiamocome un nemico. In realtà può alleviare i pro-

blemi: superare il dolore della perdita di qual-cuno, per esempio. Ora il tempo è dalla mia parte,ma avverto comunque una continua sensazionedi precarietà. Da un momento all’altro la mia for-tuna potrebbe scomparire».10

Dello stesso tenore sono le recensioni apparse su«Vanity Fair»11, «il Giornale»12, «Tuttolibri»13,«Domenica» del «Sole 24 Ore»14. Una felice ec-cezione è invece rappresentata dall’articolo diMatteo B. Bianchi pubblicato sull’«Unità», dove

lo scrittore e blogger, pur concentrando la pro-pria attenzione sui due facili aspetti della presen-tazione in PowerPoint e dell’accostamento traProust e I Soprano, non si ferma all’aspetto gla-mour, ma – criticando quanti hanno commessoquesto errore – parte da esso per addentrarsi inun discorso più analitico e originale:

Quando in aprile Jennifer Egan ha vinto il Pulit-

zer con A visit from the Goon Squad sui mediaitaliani si era diffusa la voce che a ottenere il piùprestigioso premio letterario americano fosse unromanzo scritto in PowerPoint, ossia il softwareusato in tutti gli uffici per realizzare tavole e dia-grammi illustrativi. Si trattava, ovviamente, diun’esagerazione. In realtà, il volume contiene unsolo capitolo illustrato sotto forma di tavole, tut-tavia resta un libro molto particolare: benché ilresto sia pura narrativa non si può certo affer-mare che ci troviamo davanti a un romanzo tra-dizionale […]. Il libro è costituito da tredici storiecorrelate fra loro. Difficile, e riduttivo, definirle«capitoli». Non a caso l’autrice ne ha pubblicatenumerose come singoli racconti su riviste lettera-rie. Testi autoconclusivi dunque, che però riunitiacquistano un senso generale, come piastrelle co-lorate che, una volta avvicinate, si rivelano tes-sere di un grande mosaico. Non è certo la primavolta che un autore sceglie di scrivere un romanzoin forma di racconti. Citiamo per esempio il best

seller internazionale di qualche anno fa Manualedi caccia e pesca per ragazze di Melissa Bank, lacui protagonista era ritratta in racconti che parti-vano dalla sua adolescenza fino ad arrivare allacompleta maturità. Quello che Jennifer Egan hafatto però è qualcosa di più azzardato e ambi-zioso: ha lavorato sui testi come entità indivi-duali, non ha seguito alcun ordine cronologico,ha dato spazio a una ventina di personaggi. Inaltre parole, ha mischiato le tessere del puzzle,come se volesse suggerire il disegno conclusivo

senza mai tracciarlo […]. La Egan ha dichiaratodi aver impiegato molto tempo per stabilire laconsequenzialità dei capitoli, come una sapientedosatrice d’indizi ed emozioni. L’insieme che sicompone alla fine è dunque un grande affresco po-stmoderno. L’ispirazione principale dell’autrice èstata la lettura integrale della Recherche. Il mododi rappresentare la vita e le esperienze individuali

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JENNIFER EGAN | IL TEMPO È UN BASTARDO | RASSEGNA STAMPA RAGIONATA

di Proust l’ha spinta a concentrarsi sulla comples-sità e la frammentarietà del vivere contempora-neo. Per questo ha scelto di focalizzare la sua at-tenzione su singoli episodi piuttosto che su unatrama corale. A spingerla verso questa libertà nar-rativa è stata anche un’altra grande influenza, madi ordine cinematografico, quel Pulp Fiction di

Tarantino nel quale lo spettatore è catturato dallediverse vicende prima di arrivare a capire la rela-zione che le lega. La complessità strutturale nondeve però spaventare. La vera forza del romanzosta proprio nella straordinaria qualità delle sue sto-rie: una pr chiamata a rinnovare l’immagine di unospietato dittatore, un giornalista che si prende dellelibertà con l’attricetta che deve intervistare, un sa-

fari in Africa nel quale un figlio s’invaghisce dellagiovane amante del padre, le pagine di diario diun’adolescente del futuro in formato Power-Point.15

Concentrando ancora una volta la propria at-tenzione sul capitolo redatto in PowerPoint,

«L’Unione Sarda» – pur plaudendo alla bontàdel romanzo – lo interpreta come un escamo-tage commerciale (al quale, se così fosse, la cri-tica italiana avrebbe abboccato in pieno):

[Nel] romanzo c’è una scarica di pagine assoluta-mente inutili (settantasei) in cui vengono visualiz-zate le slide di PowerPoint (il noto programma

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[…] per fare le presentazioni aziendali) prodotte

da uno dei personaggi. Ovviamente la critica haapprezzato moltissimo: moderno, contaminante,multimediale, le frontiere della scrittura. E un po’tutto questo per vincere il Pulitzer ha contato.Forse quelle pagine così liquide e postmodernealla fin fine sono quel che sembrano: inutilischede. Ma pazienza, ai critici un tributo lo devepagare persino la Egan. Peccato.16

Un’altra critica in parte negativa, questa voltacentrata sulla forma nel suo complesso, è avan-zata da Francesco Longo su «il Riformista»:

Se si possono esprimere delle riserve, queste ri-guardano la presenza di una tendenza che appar-tiene più in generale a una certa narrativa con-temporanea, quella di utilizzare una tecnicacinematografica: gli effetti speciali […]. Ogni ca-pitolo un punto di vista, ogni punto di vista unregistro, ogni registro un’angolazione da cui lastoria guadagna dettagli. La scrittura di Jennifer

Egan è scintillante, varia, capace di notevoli vir-tuosismi, in grado di passare dal racconto del de-grado a quello della poeticità dell’esistenza senzache il lettore avverta i cambi di marcia. Si pensisolo che un capitolo è scritto sotto forma diPowerPoint. Agli elogi, che riguardano la fre-schezza di questa narrazione corale, si può ag-giungere qualche perplessità, che riguarda laprofondità dei personaggi messi in scena, man-canza di concretezza che deriva proprio dalla ca-pacità camaleontica dello stile, dalle proprietà mi-

rabolanti delle similitudini, dalle deformazionidovute alla fervida immaginazione dell’autrice[…]. Personaggi eccessivamente flessuosi, conocchi scorticati, che masticano mele verdi come«se stessero masticando una pietra», e con pen-sieri che «scoppiano» nel loro cervello rischianodi risultare, alla lunga, imparentati con i car-toon. L’eccessiva estetizzazione dei sentimenti [e]

l’iper-consapevolezza psicologica rendono poco

corporea la loro natura. Alcuni scrittori preferi-scono sbalordire il lettore più che commuoverlo.Colpirlo, invece di afferrarlo. Nasce da qui l’esi-genza di uno scenario che a volte rischia di sem-brare di cartapesta: «L’erba era quasi fluore-scente», «Il cielo sopra gli alberi era bluelettrico». Anche i molti narratori che si alternanonei capitoli rischiano di levare calore alla lettera-tura e di farci girare tra le pagine in attesa di ca-larci definitivamente nell’anima di un personag-gio. L’artificio incanta ma, si sa, non sempreemoziona. Nella letteratura americana corrono ri-schi simili proprio gli scrittori più capaci, comeDonald Antrim (che alterna fasi di estremaprofondità a divertenti leggerezze), George Saun-ders o Rick Moody. Dispiace, perché JenniferEgan ha scritto un romanzo che in molti puntiraggiunge grande intensità e che non ha paura diandare incontro al lirismo. La Egan ha il coraggiodi scrivere frasi come: «Che ci sia qualcosa, nell’a-ria tiepida di primavera, che fa cantare gli uccelli

più forte?»; un coraggio che se portato fino infondo porterebbe frutti meravigliosi.17

Passando ora alla seconda tendenza, si è giàdetto come in questa fase, a poco a poco e incerti casi in maniera molto efficace, la stampasi spinga al di là di luoghi comuni ormai fintroppo abusati e perciò svuotati di senso, percalarsi in un’analisi più attenta, che cerca di rin-tracciare il tema latente del romanzo della Egan,individuandolo giustamente nel tempo e nel suo

trascorrere inesorabile sulla vita delle persone,in quello stesso tempo di cui i riferimenti aProust, al postmodernismo tarantiniano e ai So- prano rappresentano soltanto delle semplici,sebbene efficaci, emanazioni:

Ogni pagina porta dentro la musica lancinante diciò che passa e non possiamo fermare: il tempo.

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Che è un bastardo, appunto. Il

tempo dei protagonisti dellastoria, perché si tratta di un ro-manzo corale, che s’incrocia aquello del mondo, le epoche cheesplodono attraverso l’attritodello scontro-incontro traSasha, cleptomane segretariadel produttore musicale Bennie,e il balletto d’individui estremiche orbita attorno a loro e allamusica. La Egan getta le carte emescola epoche e destini in unriff: così incontriamo, per esem-pio, Sasha a vent’anni che viveda sola di furtarelli in una Na-poli barocca e tentacolare e poila ritroviamo quarantenne, […]sposata e madre di due pargoli.Questo gioco di flashback èpresente nelle storie di ogni per-sonaggio, a incastro, come se la

vita fosse un cd e tu scegliessi latraccia che ti va di ascoltare. Esono tutte da ascoltare le vi-cende di questi americani scon-solati pre e post 11 settembre.Sconsolati, girovaghi, intossi-cati, quasi sempre soli, e inge-nuamente vivi. Giovani e poicinquantenni, sposati e poi di-vorziati, ricchi e poi squattri-nati. Non è quindi proprio un

romanzo, e non è nemmenouna raccolta di racconti. È unibrido che si nutre di letteraturaclassica, e procede per infra-zioni postmoderne. Il flusso dicoscienza che scorre in questastoria di storie fa venire inmente una Virginia Woolf rock,

una mano a scrivere mentre l’al-

tra regge una chitarra slide.18

In questo fluire di storie, traprima, seconda e terza per-sona, quello che sembra non

cambiare mai è il punto divista del tempo, indifferente,sadico e capriccioso come glidei dell’Olimpo nei raccontidella mitologia greca, forte delfatto che sarà sempre sua l’ul-tima parola. Viene in mente

una frase contenuta nel libro

Vite che non sono la mia diEmmanuel Carrère […]: «Sesapessimo quello che ciaspetta, non oseremmo mai es-sere felici». Se lì la forza ciecache portava via tutto era quella

dello tsunami in Thailandia,qui sono le piccole tempesteche agitano le vite dei protago-nisti, cose come l’impossibilitàdi non fare del male a sé stessie agli altri, i desideri che non siavverano, i padri che sono

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troppo egoisti e preoccupati delle proprie erezioni

per prendersi cura dei figli. Il tempo non è maigentile, con nessuno di loro. Chi pronuncia la bat-tuta che dà il titolo italiano al libro è Bosco, cheda scatenato cantante punk degli anni Ottanta èdiventato obeso, malato e dipendente dai farmaci.Vive in un appartamento con le tende pesantisempre tirate. Bosco sa che il tempo è un ba-stardo, e tutto ciò che vuole è diventare protago-nista di un reality show che documenti la propriamorte, come un Elvis Presley senza più pudore.Ma potremo solo immaginarlo, perché JenniferEgan, su questo, è della vecchia scuola: la scuoladi Flaubert che sapeva, meglio di chiunque altroe molto tempo prima che ne avessero inventatauna, qual era il momento giusto per spegnere latelecamera.19

Il tempo è un bastardo, si sa. Jennifer Egan lo rac-conta ma, soprattutto, lo misura, costruendo ilsuo libro sulla distanza, e trasformando il tempo

nel protagonista strutturale del romanzo. E la di-stanza si traduce in differenza: tra un personaggioe sé stesso, proiettato in un futuro lontano, e im-provvisamente offerto al lettore in versioni cosìdiverse che, be’, per l’appunto: solo un bastardopuò aver manomesso a tal punto l’esistenza. Na-turalmente la bastardaggine non è un attributoassoluto, ma relativo; cresce (o decresce) a se-conda dell’incapacità del personaggio di scenderea patti col tempo stesso. Chi l’ha vissuto, capito eal limite governato, evita la tragedia; è il caso di

Sasha, una delle protagoniste di questo bellissimolibro non corale, ma plurale: è una giovane adultaall’inizio, una ragazzina vagabonda a metà, unamadre con figli e marito e casa nel deserto allafine. In fondo, anche se il ritratto resta comunquecubista, è l’unica a trovare un modo di abitare iltempo secondo un principio di coerenza con l’a-nagrafe e, soprattutto, con i desideri e i sogni del

tempo che fu. Altri si perdono quasi completa-mente; altri ancora – è il caso di Bennie, discogra-fico di successo – pur avendo avuto l’occasione dispecchiarsi nel futuro, finiscono comunque persbagliare: tutta colpa della nostalgia, che quandoti prende chiude ogni possibilità di vivere il pre-sente. E allora, in questo caso, il tempo finiscedavvero per sembrare un odioso bastardo.20

Sulla falsariga, sebbene in modo meno originale,si allineano anche le recensioni di «Alias»21,«Grazia»22, panorama.it23 e «la tribuna di Tre-viso»24. Accanto a queste, spicca l’articolo di

Claudia Durastanti pubblicato dal «Mucchio»,dove la giornalista fa tabula rasa di tutti i cliché

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JENNIFER EGAN | IL TEMPO È UN BASTARDO | RASSEGNA STAMPA RAGIONATA

pronunciati in merito al ro-

manzo della Egan, proponendoun’intervista all’autrice ragio-nata ed efficace, da cui emer-gono idee e spunti critici di ri-flessione molto interessanti:

Il tempo è un bastardo di Jen-nifer Egan non è un romanzo,quanto una reazione a catenain tredici parti che studia, inmodo spietato, come il tempoinfierisca sulla vita di una pic-

cola comunità di persone le-gate all’industria musicale invia più o meno diretta […]. Ilmotivo scontato per leggere II tempo è un bastardo è che ha

vinto l’ultimo premio Pulitzerper la narrativa (l’ha vinto, enon derubato a Franzen). Ilvantaggio incluso nel prezzo èche a un certo punto il libro sitrasforma in un PowerPoint,ma neanche questa è granchécome motivazione. Oppure, il

libro della Egan può essere

letto come un divertissementintellettuale, un piccolo ma-nuale di cosa dovrebbe esserela fiction postmoderna oggi[…]. Si può anche affrontareII tempo è un bastardo perquello che è: una faccenda ma-ledettamente seria. Che pro-cura la nausea e scioglie le car-tilagini, e non è letteraturamalgrado questo, ma è lettera-tura proprio per questo. Una

volta accantonato il divertisse-ment intellettuale e qualchesporadico sorriso, di fattoresta solo il necrologio. Muoreil punk – che era solo un pre-

testo per fallire meglio –muore la ragazzina che vaga-bonda nei bassifondi di Na-poli (la stessa ragazzina cheanni dopo sarà una madre piùo meno felice) e muore lamessa in scena. Quello che fa-cevano, Jocelyn, Rhea e le

altre, persino con un laccio

emostatico al braccio, era solorecitare una parte e cercare dicapire quand’è che il proprioruolo diventava un ruoloanche per tutti gli altri. Capirese a quel punto lo sforzo avevaancora un senso. [La] Egan ri-succhia il lettore in una mate-ria vischiosa e non trae bi-lanci: il matrimonio o ilsuicidio, sono sia un riscattosia una perdita. E nello scon-tro impietoso tra la fisiologiadegli eventi e il tentativoeroico e inutile di resisterle,sembra giungere solo a unaconclusione: «I fought time,but time won» («Ho combat-tuto contro il tempo, ma iltempo ha vinto»).

Il libro è talmente soffocatodal tema della perdita che èimpossibile non farsi delle do-mande sulle condizioni esisten-ziali che l’hanno determinato.Qualsiasi libro sul tempo è unlibro sulla perdita, e solo inparte sulla conquista. NelTempo è un bastardo ci sonosicuramente dei passaggi dolo-rosi, ma non ero interessata a

esplorare la sofferenza quantoad approfondire il concetto dicambiamento, lo shock dellatrasformazione come circo-stanza ineludibile delle nostrevite. E spesso il cambiamentoimplica i condizionamenti de-terminati dalla morte.

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Qualsiasi libro sul tempo è un libro sullaperdita, e solo in parte sulla conquista. NelTempo è un bastardo ci sono sicuramentedei passaggi dolorosi, ma non ero interes-sata a esplorare la sofferenza quanto adapprofondire il concetto di cambiamento,

lo shock della trasformazione come circo-stanza ineludibile delle nostre vite. Espesso il cambiamento implica i condizio-namenti determinati dalla morte.

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Nel libro a volte opti per l’on-

niscienza dell’autore. Strategianarrativa o deliberata crudeltà?[Una] delle sfide del libro erariuscire a scrivere ogni capitoloin modo che fosse nettamentediverso dall’altro, nello stile enell’umore. Le storie che rac-conto meritavano approcci dia-metralmente opposti tra loro,ed è per questo che l’ipoteticocapitolo su Rolph è fallito, ilsuo destino era appiattito suquello di altri personaggi, nonaveva un suono indipendente[…]. In che modo la consape-volezza del futuro condiziona ilpresente? In che modo influiscesull’atto della lettura o sui tuoisentimenti rispetto alla storia?Sarebbe intollerante costruireun intero libro su una timeline

già rivelata, ma nel raccontobreve funziona.

Il tempo è un bastardo è statospesso presentato come un ro-manzo che si occupa di musica.In realtà i riferimenti musicalisono ridotti al minimo necessa-rio, non c’è un sovraccarico dicitazioni solo per fare «colore».Non era nelle mie intenzioni le-

gare intimamente il libro allamusica. La casa editrice non l’haneanche spedito alla stampa disettore o alle riviste che pote-vano esaltare quegli aspetti:forse è stata un’occasione spre-cata, ma non pensavamo affattoa quella destinazione per il

libro, che pure è stato accolto

favorevolmente dall’ambiente.Il problema è che qualsiasimodo in cui si parla del Tempoè un bastardo è fuorviante.Non sono ossessionata dalleetichette, ma a un certo puntoero in una vera e propria crisidi definizione: cosa avevoscritto? Non era un romanzo,ma neanche una raccolta diracconti. L’unico formato si-mile che mi veniva in mente eraquello dei concept album deglianni Settanta, canzoni diverseche si svolgono attorno allostesso tema.

Quali sono i modelli più omeno riconoscibili dietro al libro, per te?Il tempo è un bastardo è una ri-

sposta diretta a Proust. Ho ini-ziato a leggere la Recherche daragazza, adoravo le parti suSwann e le cronache di questoamore ossessivo, ma mi davamolta noia la nostalgia: avent’anni non ti frega niente delpassato, hai solo ansia di futuro.

Temo che non sia del tutto vero.Simon Reynolds lo sa bene: la

nostalgia è il pilastro della cul-tura pop contemporanea.A pensarci bene ne ho anche leprove: ero convinta che il lettoreideale del libro sarebbe stato unadulto sui cinquanta. Se avent’anni non potevo sostenerela nostalgia in Proust, perché un

ragazzo avrebbe dovuto tolle-

rare la mia adesso? Cosa vuoiavere a che fare con il tempo senon sei ancora invecchiato? In-vece, vengo invitata in continua-zione nei licei, ricevo lettere datanti ventenni. Credo che siatutto da imputare, seppure inge-nuamente, alla tecnologia: icambiamenti sono troppo ra-pidi, e i ragazzi avvertono acuta-mente la perdita di forme cono-sciute, ricadendo nella nostalgia.Tornando a Proust, mi sonochiesta come si potesse scrivereun libro sul tempo oggi. Volevoun libro che mi facesse avvertirelo scorrere del tempo senza mi-gliaia di pagine, doveva esserciun modo alternativo per scrivereuna storia del genere. L’altromodello chiaramente riconosci-

bile è quello dei Soprano, eropazza per quella serie. L’ho se-guita negli anni in cui stavo ter-minando la Recherche, e ho no-tato tante cose in comune; nonfosse altro perché la serie seguei personaggi per un arco tempo-rale molto lungo, dove Tony So-prano invecchia nettamente. Gliautori erano bravissimi a cata-pultare personaggi secondari nel

centro della scena, e il lorostorytelling decentralizzato hafatto scuola.

Il grande classico, la serie tele-visiva e…Pulp Fiction di Quentin Taran-tino. Mi impressionò molto la

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prima volta che lo vidi, ma ho realizzato il peso di

questa influenza solo dopo averlo rivisto in se-guito alla pubblicazione del Tempo è un bastardo[…]. Quando John Travolta viene [ucciso] nelbagno e nella scena successiva è ancora vivo datoche siamo tornati indietro nel tempo, l’effetto èspiazzante e quasi doloroso, perché sappiamo chesarà destinato a morire nel giro di poche ore.Cosa ce ne facciamo di questa consapevolezza?La rivelazione della timeline trasforma sia i perso-naggi sia i lettori, e io volevo ottenere lo stesso ef-fetto con la narrativa.

È da un po’ di tempo che si presta molta atten-zione alle forme del racconto televisivo. Se gli ul-timi veri concorrenti di Balzac sono gli autori diThe Wire, tu come te la cavi?Non sono contraria a nessun tipo d’influenza, de-testo l’idea della fiction letteraria reclusa in unospazio rarefatto dove possa essere tutelata dall’at-tacco degli agenti esterni, è un modo come unaltro per dire che la letteratura è un corpo morto.

Se la narrativa non interagisce con altri media ocon i processi in atto non fa più parte della cul-tura reale. Il romanzo, oltretutto, nasce come for-mato flessibile sin dagli esordi, pensiamo all’o-pera di Cervantes o al Tristram Shandy di Sterne,così sperimentali e circolari. Il romanzo è statoconcepito per risolvere tutta una serie di possibi-lità complesse. D’altro canto, da insegnante hostudenti che non leggono molto e invece guar-dano molti film, e so che non diventeranno maidegli scrittori. Se un genere non t’interessa al

punto tale da consumarlo, allora non ne farai maiparte in modo serio. Puoi amare l’idea di diven-tare uno scrittore, ma non lo farai. La televisionenon è mai stata il centro gravitazionale della miaespressività. Se scopro qualcosa che mi piace, michiedo solo come posso sfruttarlo in forma narra-tiva. Non uso twitter, per esempio, ma mi affascinail modo in cui preserva e riproduce la fiction.

L’aspetto più commovente del libro è il dissidio

tra la percezione di sé e la sua rappresentazione in pubblico. Insomma, «quand’è che una crestafinta diventa una cresta vera»?I miei romanzi non hanno niente in comune,tranne l’aspetto che hai appena citato. Sono sem-pre stata attratta dal modo in cui i soggetti con-temporanei subiscono la tensione tra l’immaginedi sé, la loro vita nel mondo come oggetti e quellainteriore come esseri umani complessi. Cercosempre di approfondire il modo in cui le due cosesi connettono e disconnettono, e come la tecnolo-gia interviene in questo processo. Ma dopo averlospiegato così bene nel Tempo è un bastardo,credo che sia un argomento chiuso. Gran partedella vita adulta coincide con la realizzazione chesei fuori nel mondo, e la gente reagisce […] inmodi molto strani, conflittuali. È il contrasto bru-tale tra come si viene percepiti e come ci si sente.Come se non bastasse, cerchiamo di gestire e ma-nipolare la nostra immagine e di restare [sotto]controllo in un contesto di saturazione mediatica.

Prendi facebook: è come se tutti stessero ven-dendo qualcosa. È puro management identitario:«Sono una madre con due figli, è un aspetto chedovrei enfatizzare o nascondere?». Il problema dicome si rappresenta la vita di qualcun altro, nellascrittura come altrove, è sempre sul tavolo. Nonè un aspetto positivo o negativo: è solo un fattodella vita contemporanea.25

Un’altra recensione che riconosce ancora unavolta nel tempo il collante del romanzo è quella

di Marco Denti, che sul «Buscadero» stabilisceun parallelo tra il tempo e la musica, interpre-tando quest’ultima come un semplice mezzoutile per dare voce a qualcosa di più universale:

Più che un bastardo, il tempo è un’opinione. Unadelle ossessioni più interessanti raccontate da Jen-nifer Egan attraverso i personaggi del Tempo è un

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bastardo […] sono le pause nelle canzoni. Que-

stione di secondi, o di frammenti ancora più minu-scoli. Piccoli intervalli contenuti in Bernadette deiFour Tops, Foxy lady di Jimi Hendrix, Young Americans di David Bowie, nella coda di Fly likean eagle della Steve Miller Band o in Long trainrunnin’ dei Doobie Brothers nonché in Closing time dei Semisonic, una delle principali fonti d’i-spirazione. Evaporati nel giro di pochi anni, i Se-misonic erano un (trascurabile) trio che aveva in-ciso con Bob Clearmountain, un produttore a cui,secondo Jennifer Egan, piace inserire piccolepause nelle canzoni, che abbiano o non abbianoun senso, «giusto per aumentare gli effetti dram-matici» […]. A lei, che ha vinto un Pulitzer, nonserviranno certo consigli e indicazioni, ma vistoche dobbiamo partire dall’ossessione della pausa,ne scegliamo una, attraverso Bob Clearmountain(uno di cui conosciamo più o meno tutta la car-riera di produttore e ingegnere del suono), chenon c’è nei suoi elenchi ed è quella che c’è all’ini-zio di Wicked gravity, prima canzone di Catholic

Boy della Jim Carroll Band. Funziona così: è il1980 e parte lo sferragliare di una divisione dichitarre armate, stridenti e feroci che tutto l’heavymetal di questo mondo non ha mai sentito. Pausadi un millesimo di secondo, poi sono tutti morti osvaniti o sgocciolati nei bassifondi della città. Èquello che succede perché il tempo è un bastardoe la musica, a differenza della letteratura, è unostrumento molto instabile e pericoloso per affron-tarlo. La scrittura permette di viaggiare avanti eindietro nei secoli, persino rimettendo ordine nei

calendari, nei ricordi o nelle illusioni e poi rimanelì immobile e se il tempo è un bastardo basta gi-rare la copertina per rinchiuderlo dentro, nel suobuio profondo. Con la musica basta poco, persinoun niente come una pausa di qualche battuta, perscatenare vortici di emozioni. Il tempo è un ba-stardo è un libro che persino la sua stessa autrice[…] fa fatica a definire: «Non voglio chiamarlo

romanzo e nemmeno collezione di short stories,

anche se magari una forma piuttosto che un’altrapotrebbe trovargli il posto giusto nel mercato: èun oggetto senza categoria». Ispirata da Tommye da Quadrophenia degli Who, più che altro, ineffetti Jennifer Egan ha costruito un’opera cheprocede per frammenti indipendenti uno dall’al-tro, con una formula molto sperimentale (c’è uncapitolo, quello dove si parla delle pause nellecanzoni, realizzato con le forme grafiche diPowerPoint) e coraggiosa nel descrivere lo sradi-camento dei legami, dei ricordi, dei rapporti inquesti anni in cui tutti i principali social network,le applicazioni e le connessioni pongono e par-tono dalla stessa domanda: dove siete finiti tutti?Il tempo è un bastardo perché erode le tracce, eseguendo i personaggi che più s’incrociano in unatempestosa moltitudine di anime, Bennie e Sasha, Jennifer Egan intreccia le esistenze di un gruppopiù o meno definito di persone in un meccanismonarrativo che è un orologio impazzito […]. Ecco,allora, a cosa serve la musica, e a cosa servono le

pause: oltre a collegare le due coste americane,New York e la California, Il tempo è un bastardoriannoda gli anni della psichedelia e dell’amore li-bero con il vuoto lasciato dalle Twin Towers enon è un mistero che tutto cominci con la formacollettiva della rock’n’roll band che cerca di suo-nare come una persona sola e finisce con un blue-sman del ventunesimo secolo che suona per unpubblico riunito a forza di click in cui tutti hannola sensazione di conoscersi o di essersi già visti,ma nessuno riesce a collegare un volto a un’idea.

Il tentativo di Jennifer Egan di rendere l’overdosedi tempo che consuma le vite riesce proprio per-ché alla scrittura convenzionale, adatta a tenereinsieme la varietà del racconto, alterna provoca-zioni divergenti. Non tutte sono brillanti come ilcapitolo composto con PowerPoint (ce n’è unaltro scritto con il linguaggio monco degli sms eun altro ancora in cui le note al testo sono il vero

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JENNIFER EGAN | IL TEMPO È UN BASTARDO | RASSEGNA STAMPA RAGIONATA

testo) però riescono nell’intento di dare la sensa-

zione di un mondo che si sta sfaldando e in cui ilconcatenarsi di eventi, aneddoti, fughe, tradi-menti, sogni e ritirate non ha, in apparenza, alcunsignificato. Il tempo è un bastardo perché, a dif-ferenza delle canzoni, non concede pause, tra-volge tutto, trasforma le persone e le lascia lì, nonpiù a chiedersi che fine hanno fatto tutti davantia uno schermo gelido, ma ammutolite e incantatead ascoltare l’aspra e malinconica melodia di unaslide guitar, «il suono del tempo» che se ne va.Un’immagine perfetta […], almeno quanto il pa-rallelo, in gran parte involontario come ha am-messo la stessa Jennifer Egan, tra lo sfaldamentodi un senso comune e lo smantellamento dell’in-dustria discografica, come l’abbiamo vissuto (e loviviamo) giorno per giorno. Dagli inizi entusiastie imprevedibili e caotici […] alla crepuscolareconclusione […] c’è tutto lo spettro di visioni eambizioni consumate da una lunga dissolvenza.La rarefazione delle idee e la dissoluzione di ognisperanza avanzano paragrafo per paragrafo, ac-

compagnate dai fantasmi e dai traslochi e II tempoè un bastardo ha il pregio non indifferente di graf-fiare la patina falsa che ricopre […] l’industria di-

scografica, mettendo sotto una luce feroce e irrive-

rente i luoghi comuni, i cliché, lo slang e tutti ipassaggi che stanno portando alla fine di tutto unmodo di vivere la musica […]. Cambieranno,come sono sempre cambiati, i modi di crearla,venderla, conoscerla e ascoltarla ovvero di viverlaperché il tempo è un bastardo e non si ferma mai,esige che le stagioni si rinnovino e molti passaggi,come ben sappiamo, non sono e non saranno in-dolori, ma la musica resterà lì, capace di mante-nerci vicini ai nostri sogni, ai nostri ricordi, in de-finitiva a noi stessi anche quando il mondointorno è un agghiacciante vuoto come un’im-mensa, grave pausa nel bel mezzo della nostracanzone preferita.26

Un ultimo tentativo ben riuscito d’interpretare ilromanzo della Egan attraverso una prospettivainnovativa è quello di Elena Stancanelli, che inun articolo apparso su «la Repubblica» correlatra loro tempo e storytelling:

[La] Egan ha dichiarato che il suo modello strut-turale è stato Pulp Fiction e il suo maestro Mar-cel Proust. Nata a Chicago nel 1962, la Egan è

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autrice di racconti, molti deiquali pubblicati sul «NewYorker», e questo è il suoquarto romanzo. Il tempo è unbastardo è un’esperienza emo-tiva e intellettuale eccezionale.La sapienza con cui le storievengono intrecciate, l’abilità ditratteggiare un personaggio in

due gesti, l’inesauribile inven-tiva, e insieme il miracolosoapparire di senso alle spalle diquello che sembra soltanto unostupefacente gioco enigmistico,ne fanno un piccolo capola-voro. La scrittura della Egan,perfetta nel descrivere la nevro-tica e sterile agitazione dei no-stri anni, nel dettaglio e nelladeriva, sa essere infatti anche

potente ed epica come quella diun grande classico. È una spe-cie di Comédie humaine che,dall’epoca delle droghe e dellegrandi illusioni, ci trasporta inquella dell’iper-connessione,un mondo sospeso in una spe-cie di amniotico niente, un

tempo liquido nel quale nes-suno sembra perdersi mai divista. In questo tempo, le storiesono diventate quelle tracceche ci collegano, fiumi carsiciche appaiono e scompaiono,sedute psicanalitiche fatte di ri-cordi e premonizioni. Seguire,acchiappare, rimontare una

storia sembra un gioco, così in-fatti a qualcuno era sembratoanche il film di Tarantino, e in-vece è la soluzione. Dopo unperiodo in cui i romanzi sierano trasformati in ingorghiintelligentissimi di parole per-fette, elenchi, spiegazioni sulperché i romanzi non esistonopiù, gli scrittori sembrano averritrovato il gusto della narra-

zione. Facendo diventare gli in-trecci parte del processo di co-noscenza, non più catene dieventi che scorrono davantiagli occhi. Così, per arrivare daA a B – [le due sezioni in cui èdiviso il romanzo] – si cam-mina avanti e indietro, su e giù,

in cerchio. Questo cammino,

questo tentativo di ridisegnareil percorso del tempo sperandoche in fondo non ci sia dinuovo la morte, è il nostronuovo modo di raccontare. Mail tempo è bastardo, ed è diffi-cile salvarsi. Non ce la faBosco, neanche offrendo allasua agente la sua morte in di-retta, un tour del suicidio se-guito da un giornalista. NéDolly che, dopo aver distruttola sua carriera di pr con unafesta che doveva battere la cele-bre Black and White di Tru-man Capote e invece si rivelapiù che una catastrofe, prova ainventarsi una seconda vitasmacchiando la reputazione disanguinosi dittatori. Ci provaAlison, raccontando la sua vita

come un succedersi di slide inuna presentazione in Power-Point. Alison che passeggia neldeserto col padre, Alison checerca di comunicare con suofratello, Alison che ha paura dirimanere sola, che si sforza didecifrare quello che le sta in-torno. Settantasei pagine di cuisi è molto parlato, tacciate diblasfemia o peggio di sensazio-

nalismo, ma che non sono altroche l’ennesima dimostrazionedel mostruoso talento di scrit-trice di Jennifer Egan. Capacedi tirar fuori poesia e letteraturapersino da grafici grigetti.27

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Il tempo è un bastardo è un’esperienzaemotiva e intellettuale eccezionale. La sa-pienza con cui le storie vengono intrec-ciate, l’abilità di tratteggiare un personag-gio in due gesti, l’inesauribile inventiva, einsieme il miracoloso apparire di senso allespalle di quello che sembra soltanto unostupefacente gioco enigmistico, ne fannoun piccolo capolavoro.

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Nei giorni precedenti l’avvio del festival romanoLibri come, vista la presenza della Egan in una

delle serate28, i quotidiani ne approfittano perrilanciare l’analisi del romanzo. Limitandosi inun primo tempo a parlarne in relazione alla ker-messe capitolina attraverso i supplementi lo-cali29, in un secondo momento riprendono il di-scorso sul tempo lasciato precedentemente insospeso, ognuno attraverso una prospettiva piùo meno particolare:

Dal punto di vista dello spazio II tempo è un ba-stardo è abbastanza monotematico, mentre fu-nambolico e spettacolare è il modo in cui è trat-tato, manco a dirlo, il tempo (il titolo nellatraduzione italiana si dimostra azzeccatissimo).

«Il tempo è un bastardo» è una frase che dice unodei tanti personaggi sconfitti: dopo vent’anni siguarda indietro e si chiede quando la sua vita èdiventata un fallimento. Il romanzo si presentacome una serie di episodi, in cui ricorrono glistessi personaggi sparsi a macchia di leopardo nelcorso degli anni. Ma sempre negli States, trannedue casi: un safari in Africa e […] una fuga a Na-poli. La Egan non appartiene al filone dei nipotidi emigranti che scavano per ritrovare le radici,come John Fante, o Salvatore Scibona. Lei stessa

confessa: «Sono stata a Napoli in vacanza per unasettimana circa. Napoli era così moribonda, e ilcontrasto tra l’antico splendore e l’attuale de-grado così acuto». Ecco, allora, sembra proprio ilfilone turistico degli stereotipi: i napoletani «tuttigrassi», «l’onnipresente pallone», i giovani vome-resi tutti in Vespa. Alla fine, però, ogni pregiudi-zio è ribaltato. Perché quella che sfila il portafoglio

Da Libri come a oggi

Tempo, fama e ripescaggi

C’è stata una lunga, strana pausa,e in quella pausa io ho avuto

la sensazione di trascinare Bennie– o forse era lui che trascinava me –

di nuovo a San Francisco, dov’eravamodue dei quattro Flaming Dildos […].

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dalla tasca del turista è l’americanissima protago-

nista dell’episodio.30

Per Bennie Salazar, magnate dell’industria disco-grafica, bastardo è il tempo che falsifica e di-sperde la sua cerchia di conoscenze, il suo baga-glio di esperienze, il suo repertorio di ricordi e dibrani. E bastardo è il tempo, perché falsifica e di-sperde anche l’identità di chi tutto ciò ricorda.«Cinque anni sono cinquecento anni», sa il pro-tagonista: nella vita come nella musica. Ma a ri-trovare e ricomporre note e istanti perduti, ilritmo di una narrazione (straordinaria come que-sta) vale più di quello di una canzone.31

[Al] centro di tutto c’è l’inesauribile trascorrere deltempo. Ogni cosa […] alla fine ritorna. [Con] unatessitura perfetta, ogni storia dislocata in momentie luoghi diversi, trova una perfetta collocazione.E alla fine è «il suono del tempo che passa» a dare

unità all’insieme e a regalarle il suo splendore.32

In un’intervista all’autrice, prendendo in esameil rapporto della Egan con la musica e con i suoiriferimenti letterari, Francesca Borrelli scrive:

Una volta tanto, il titolo italiano rende molto me-glio dell’originale […] il leitmotiv del libro, co-struito come un album musicale, idealmente di-viso in due facciate e interrotto da un capitolo cheè una sorta di proiezione in PowerPoint delle con-

siderazioni di una dodicenne. Ma non sta in que-sti espedienti la novità del romanzo, bensì nellasua costruzione, nelle dislocazioni mentali impo-ste al lettore dalle molteplici alternanze dei per-sonaggi nel fuoco della narrazione, nelle paren-tesi che si aprono a latere nel tempo accogliendonuove figure e proiettando quelle già note sullosfondo, nella virtuosistica differenziazione delle

voci. Voci diversissime, appunto, quanto a regi-

stro, tonalità, colore, ma tutte sovrastate da unasorta di saggezza autoriale che avvolge nella suaempatia ognuno dei personaggi, perlopiù sconclu-sionati ragazzi immersi nel mondo della musica,temporaneamente perduti ma non del tutto, per-ché «nulla è mai sul serio», se non il tempo chepassa e a volte redime, altre volte devasta […].

Alcune volte lei apre delle brevi parentesi che,come altrettanti flash, illuminano il lettore sul de-stino di alcuni personaggi, o anche di semplicicomparse. Si direbbe che immaginarli nel futurosia una sorta di compensazione narrativa al fattodi averli così presto abbandonati nel romanzo.Lei come mai ha sentito questa esigenza di dircicos’é che accadrà loro?La prospettiva di scrivere un romanzo il cuitempo presente fosse saturato dalla consapevo-lezza di ciò che il futuro avrebbe portato con sém’intrigava da tempo. Mi sembrava entusia-smante. Trovo molto coinvolgente, per diversi

aspetti, quello strano impatto emotivo che pro-viene dalla conoscenza del futuro di un personag-gio […]. Tutte queste emozioni vengono evocatesemplicemente grazie a un’amministrazione deltempo facile da comprendere. Nel mio romanzoho tentato di realizzare qualcosa di simile. Ma, inrealtà, quasi tutti i salti in avanti nel futuro sonoconfinati in un capitolo, quello intitolato «Sa-fari»; poiché non volevo ripetermi, dovevo limi-tare i mixaggi temporali a quelle pagine. Natural-mente, poi, l’intero romanzo finisce per

comunicare questo stesso effetto, come se ci simuovesse avanti e indietro nel tempo, e il lettoreavesse più cognizioni sul futuro dei personaggi diquanta non ne abbiano loro stessi […].

Sul «Guardian» lei ha scritto un articolo informa di racconto, in cui riepilogava gli annidella sua giovinezza sotto il segno delle canzoni

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di Patti Smith. Ci può raccon-

tare quale ruolo hanno avutonella sua formazione di personae di romanziera le sue frequen-tazioni musicali?In quell’articolo ho cercato dicatturare la sensazione che midava la musica (in particolarequella di Patti Smith, un idolodella mia adolescenza) quandola sentivo come un fattore ca-pace di definirmi. Credo che lamusica funzioni così per moltiragazzi: quella che ascoltiamo

da adolescenti ci consegna una

collocazione e ci definisce per ilresto delle nostre vite, a pre-scindere dal fatto che conti-nuiamo o meno a sentirla […].La musica funziona come unasorta di macchina del tempo,questo è l’effetto che mi facevaanche mentre stavo scrivendo ilmio ultimo romanzo. Di solitonon ascolto musica mentre la-voro, ma ne ho sentita un belpo’ durante la stesura delTempo è un bastardo: mi aiu-

tava a ricalibrarmi nel passag-

gio da un capitolo all’altro, arinfrescarmi l’umore e a trovareun tono nuovo, di volta involta. Inoltre, la musica mi hafornito una lente attraverso laquale guardare ai mutamentitecnologici: come tutti sap-piamo, l’industria musicale èstata devastata dalla digitalizza-zione. È tutto cambiato, e l’ideastessa dell’album, questo pila-stro del consumo musicale (chesia in vinile o in cd) rimanda a

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un artefatto sempre di più nostalgico. Alla luce di

tutto ciò, mi sembrava fosse il tempo giusto per ri-cordare l’industria musicale nell’era in cui sem-brava imbattibile.

Paul Valéry ha scritto che noi definiamo un au-tore originale quando non riusciamo a ricostruirele trasformazioni che i libri degli altri hannosubìto nella sua mente, ovvero quando le in-fluenze sulla sua opera sono particolarmente in-tricate. Il suo romanzo sembra appartenere a que-sta categoria, anche se alcune ascendenzesembrerebbero facilmente rintracciabili. Peresempio, tutto il romanzo è pervaso da una sortadi afflato epico, per quanto postmoderno, che ri-manda a DeLillo, in particolare alla fine di Un-derworld ; il capitolo in cui lei allestisce la coreo- grafia di un safari fa pensare a Hemingway; lenote a piè di pagina, che lei mette nel capitolo incui Jules parla in prima persona rimandano a Fo-ster Wallace. E il fatto di affidare alcuni capitolia personaggi che parlano in prima persona natu-

ralmente rimanda al Faulkner di Mentre morivo.Si riconosce in questi precedenti?Assolutamente sì, questi hanno funzionato, ap-punto, come quattro imponenti influssi della mianarrativa. Underworld è il mio romanzo preferitotra quelli degli ultimi vent’anni, e in generale De-Lillo ha avuto un enorme impatto su di me.Faulkner mi ha potentemente influenzato fin dagliesordi, e Mentre morivo è, tra i suoi libri, uno diquelli che amo di più. L’originalità di David Fo-ster Wallace, il suo animo grande e il suo humour

infettivo hanno infiammato tutti noi che siamostati suoi coetanei. E ho amato molto He-mingway: tra i suoi libri, il primo che ho letto èstato Verdi colline d’Africa; avevo diciassette annie anch’io stavo partecipando a un safari in Africa.Ma una tra le sfide principali di questo romanzoera come abbracciare una qualche dimensioneepica in forma concisa. E quando mi sono ritro-

vata a chiedermi come avrei fatto a scrivere unlibro sul tempo, in cui presentare in un modo onell’altro la radicalità dell’impatto che il passag-gio degli anni infligge alle diverse vite dei perso-naggi senza impiegare migliaia di pagine, ho pen-sato da una parte alla Recherche di Proust edall’altra alla serie televisiva I Soprano. Istintiva-mente, credo, ho trovato la risposta che cercavonel metodo della divisione in puntate che oggi èreso familiare dalle fiction televisive, ma che ori-ginariamente era stato messo a punto dai grandiserializzatori dell’Ottocento, come Dickens. Un

vasto cast di personaggi che vanno e vengono dalfuoco della narrazione; un senso forte dei movi-menti a latere; e una storia principale, che spessoprocede obliquamente nel tempo, ma il cui nar-ratore è dotato di una forza che, nonostante tutto,ci proietta in avanti […].

Il suo romanzo si muove nel tempo con la libertàdi una cinepresa, e si avvantaggia di una costru-zione per episodi, che lo rende ancora più cinema-tografico. Com’è riuscita a ottenere questo effetto?

Ci sono arrivata istintivamente. Il libro mi si è ri-velato in una forma che mi è sembrata fresca, emeritevole di venire assecondata. Mi piaceva pro-vare a fissare il momento in cui ogni persona è alcentro della propria storia, e mi piaceva l’idea difondere tante vicende che si sovrappongono in ununico grande intreccio. È stato solo quando misono ritrovata a nominare le due metà del libro

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Mi piaceva provare a fissareil momento in cui ogni per-sona è al centro della propriastoria, e mi piaceva l’idea difondere tante vicende che sisovrappongono in un unicogrande intreccio.

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«A» e «B» che ho realizzato qual era la forma alla

quale avevo lavorato durante tutto quel tempo:la forma del concept album, l’album discograficoche ruota intorno a un unico tema. Una grandestoria raccontata per frammenti che suonano com-pletamente diversi gli uni dagli altri: era questo chestavo tentando di realizzare, in forma letteraria.33

Sempre a proposito del rapporto tra tempo emusica, in un’intervista all’autrice, Fabio Dona-lisio scrive:

[Dopo] anni di melensi e posticci libri ambientatia vario titolo nella musica, ero piuttosto scetticonei confronti di un romanzo calato di peso nelmusic business, per di più in pericolosa zona no-stalgia. Ebbene, niente di tutto questo. La scrit-tura asciutta di Jennifer Egan dona al tempo lo

status di persona, si confronta, per sua stessa am-

missione […] con l’intoccabile Proust, e crea unlibro corale, raffinato, pregno di vita nel suo con-frontarsi (anche quando non vuole) con l’incri-narsi del sogno e la morte. Un libro denso di tri-stezza rara, ma anche vitale e ironico. Un gran bellibro, appunto. Attuale e antico. Che sa usaretutti gli strumenti della scrittura, con spregiudi-catezza anche, senza per questo essere post, e tan-tomeno postmoderno, come si sono affrettati intanti a sottolineare come a piantare una bandie-rina, un paletto, avvinghiare con la più ovvia dellecategorie. Al limite un libro avant , non perché diuna qualche avanguardia, ma perché, semplice-mente, oltre che indietro come tutti, guarda ancheavanti. E qui sono in pochi a farlo. Prova addirit-tura un’ipotesi, credibile, di futuro. Pare dunqueche le giurie del Pulitzer siano più attente a ciòche leggono (e meno alle autorità che ci sono die-tro i libri) di quelle di alcuni premi nostrani […].Fatto sta che nel 2011 lo vince la Egan, due anniprima Marilynne Robinson. Mica pizza e fichi,

come si dice. È con molta curiosità, dunque, cheabbiamo incontrato la bionda Jennifer in un asso-lato mattino romano […].

La musica è un personaggio molto importante del libro, mi sembra. Ho letto spesso libri che hannoun’ambientazione o un taglio musicale. Però sem- pre un po’ posticce, come se fosse solo un acces-sorio. Invece qui sembra che la musica sia vera-mente interiorizzata. Qual è stata la tuaeducazione (o diseducazione) musicale?

Sono cresciuta a San Francisco negli anni Set-tanta, quindi non ho calato nel libro la musicacon cui sono cresciuta davvero, che era prevalen-temente quella degli anni Sessanta. I Settanta aSan Francisco sono stati quelli della controcul-tura, anche se il momento clou in realtà era giàpassato, io e i miei amici eravamo disperati per-ché […] ci sembrava davvero di essere nel peggior

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momento possibile. Quindi cer-

cavamo di riafferrare in qualchemodo quel periodo: prende-vamo Lsd, andavamo in giroscalzi, non ci pettinavamo, cer-cavamo di sentirci hippie, verihippie […]. Poi arrivò il punkrock, e fu una botta entusia-smante. Ho sentito subito mio ilsound del punk, anche se forsenon come quello degli anni Ses-santa, ma ciò che mi esaltavaera l’idea che a questa musica, aqueste band, non importassenulla dei Sessanta, ci fu un ripu-dio, non solo musicalmente maanche da un punto di vista esi-stenziale. Per noi fu elettrizzanteperché non solo ci rendemmoimprovvisamente conto che nonc’eravamo persi nulla, ma ancheperché forse le cose che ave-

vamo sempre mitizzato avevanoperso di colpo ogni importanza.Questo fu fondamentale per me,musicalmente e culturalmente:io non ero una punk rocker.Semplicemente andavo in quelclub di cui ho scritto e cono-scevo molte persone della scena.Avevamo la sensazione chequalcosa stesse accadendo in-torno a noi, invece di riciclare

qualcosa che era già accaduto.

Io invece sono nato nel ’77 conla sensazione di essermi perso proprio tutto. Una sensazionediffusa per chi è stato allevatoa pane e postmoderno... Il  punk è stata davvero l’ultima

rivoluzione possibile? 0 pos-

siamo avere delle speranze…Dopo quella del punk c’è statala rivoluzione dell’hip hop,quindi direi che c’è speranza,sì. Non ci sono mai punti diapprodo definitivi, io peròdopo quel periodo non sonopiù stata molto coinvolta dallamusica, e non ci ho più riflet-tuto cosi tanto, da quel mo-mento in poi. Come giornalistaperò volevo sempre avere inca-richi nell’ambito dell’industriamusicale, ed era frustrante chenon ci riuscissi. C’era, in ef-fetti, un ottimo motivo: nellospecifico, il «New YorkTimes», per cui scrivevo, avevagià ottimi giornalisti musicaliche conoscevano un sacco dipersone e avevano delle ottime

idee, io non conoscevo nessunoe non avevo idee. Potevo limi-tarmi solo a chiedere un inca-rico di tanto in tanto al miocapo, che a sua volta mi chie-deva cosa volessi fare, e io nonne avevo idea. Tuttavia, allafine riuscii a spuntarne uno:scrivere un articolo su due rap-per gemelle, le Dyme Def […].Pare che stesse per uscire il loro

primo disco, quindi doveva es-sere un articolo di lancio, do-vevo chiedere loro come ci sisentiva alla vigilia della pubbli-cazione del primo album […].Le ho seguite per un paio disettimane, e in quel lasso ditempo mi è parso sempre più

lampante che il loro disco non

sarebbe mai uscito. Quando lodissi al mio capo, ovviamentemi levò il pezzo. E questo èstato il massimo risultato chesono riuscita a ottenere. Unsuccesso, vero? In qualchemodo il libro è la mia rivincitasu tutto questo: ho dovutocreare una storia su un’indu-stria musicale tutta mia […].

C’è un altro « personaggio»centrale nel libro: il tempo […].Il libro è costruito sui passaggidi tempo. C’è il passato, filtratoattraverso il ricordo, spesso il rimpianto. C’è il presente conle sue ansie e addirittura un fu-turo inquietante e vicino in cui però una moltitudine [iper-tec-nologica] riesce ancora a emo-

zionarsi per una folksong vocee chitarra. Qual è il tuo rap- porto con il tempo?[Il] passare del tempo è impli-cito in ogni narrazione. Si leggecon una cronologia lineare,una parola dietro l’altra, e iltempo passa fisicamente du-rante la lettura. Ma ero così en-tusiasta del fatto che Proust fuun pioniere in questa rifles-

sione, ai tempi, che ho finitoper chiedermi se e come ne po-tevo essere capace anch’io, esenza riempire migliaia di pa-gine. Capace di catturare la pa-rabola del tempo in modo piùcondensato o sintetico, masenza ridurne la portata. In

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modo più angolare, direi. Non

credo sia una definizione esatta,ma rende l’idea, mi sembra.Quando ho iniziato a lavorareal libro, non ho tentato di met-tere in opera tutto ciò in modocosciente. E forse è stato me-glio così, ne sarei rimasta inti-midita, sopraffatta. Poi ho ini-ziato a dimenticare che stavoscrivendo un libro, e mi ci sonobuttata dentro e solo verso lafine ho realizzato improvvisa-mente che era proprio ciò chestavo facendo. A quel punto,ho ripreso possesso della con-sapevolezza e ho semplice-mente continuato. La scritturadi questo romanzo è coincisa,coincidenza forse non casuale,con un momento della mia vitain cui il tempo ha iniziato a di-

ventare una preoccupazione.Superati i quarant’anni, hovisto diventare adulte le per-sone che conoscevo fin dall’a-dolescenza, è inevitabile. Rifiu-tare l’età adulta è solo un altromodo di essere adulti. È statosolo da quel momento in poiche il passare del tempo è diven-tato una cosa interessante anchedal punto di vista personale.

Uno dei problemi del nostromodo di vedere il tempo è la ri-mozione della sua fine, il ri-mosso collettivo della morteche porta a uno stato di vec-chiaia sempre più estesa, quasiindefinita. Sembra che tutti i

 personaggi del libro in un modo

o nell’altro siano ossessionatidalla vecchiaia e falliscano.Non c’è scampo? È possibileevitare il fallimento? Il tempo èconnaturato al fallimento?

In realtà molti dei personaggidel libro hanno in qualchemodo migliorato la propriacondizione, con il passare deltempo. Ma l’idea di fallimentoviene esattamente dalla con-

vinzione che il tempo per noi

non passerà, e la scoperta delcontrario viene percepitacome un fallimento. Il falli-mento in realtà è la nostra illu-sione. Fallimento è una parola

che viene associata di solito alsenso di perdita. Con il pas-sare del tempo, ciò che siperde è probabilmente unaversione precedente di noistessi, ma il fatto stesso del

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tempo che passa è una cosa positiva, lo è sicura-mente per molti dei personaggi nel libro, forsefatta eccezione per Lou, che vive in maniera sre-golata e finisce per perdere qualcosa di moltoprezioso, suo figlio. Ma buona parte dei perso-naggi la sfangano meglio, anche se permane, ine-vitabile, la sensazione che qualcosa sia stato

perso. Ripenso a quando i miei figli erano pic-coli, e provo questa dolorosa sensazione di per-dita, eppure sono ancora tutti lì, sono solo piùgrandi. Ma c’è sempre questa malinconia difondo, connaturata alla percezione. Nello scri-vere un libro incentrato sul tempo, dovevo te-nere conto di questa malinconia, coinvolgerla,anche se di certo non volevo scrivere un libro

malinconico. È un libro sulla nostalgia, in qual-che modo, ma non un libro nostalgico.34

Un’altra intervista, apparsa sul «Corriere del Ti-cino», affronta il tema del tempo attraverso unaprospettiva finora inedita, che – passando perla prima volta da un’analisi circostanziale a una

più generale sull’opera completa della Egan –accosta lo scorrere della dimensione temporalealla transitorietà della fama e del successo:

Nei suoi libri lei parla spesso di persone che sonoarrivate alla fama, o che la cercano a tutti i costi, unelemento importante della società americana, unacartina di tornasole del carattere dei personaggi?

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Con il passare deltempo, ciò che siperde è probabil-mente una ver-sione precedente

di noi stessi, ma ilfatto stesso deltempo che passa èuna cosa positiva...

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JENNIFER EGAN | IL TEMPO È UN BASTARDO | RASSEGNA STAMPA RAGIONATA

Da anni sono interessata al-

l’impatto che hanno i massmedia sulla quotidianità dellepersone, e al tipo di valore ag-giunto che eventualmente por-tano nella loro vita. E così que-sto argomento torna a galla unpo’ in tutti i miei romanzi. InLook at me la protagonista èuna modella famosa nelmondo della moda, che haavuto il viso deturpato in unincidente, ricostruito dalla chi-rurgia plastica. Ha riavuto lasua bellezza, però non sente lafaccia veramente sua, ancheperché in fondo non le assomi-glia tanto. Un equilibrismocontinuo tra il nostro sguardoe quello degli altri. Invece nelTempo è un bastardo ho cer-cato di concentrare la mia at-

tenzione sul modo in cui le per-sone in genere reagiscono allafama, come ne subiscono lostrano fascino, ne sentono l’a-lienazione e ne sono irritate,sino a provare una sorta dirabbia. Per descrivere questosentimento, racconto l’episodiodi un giornalista che si ritrovaa intervistare una giovane star:lui è un po’ instabile, e mentre

da un lato è attratto da lei e ladesidera, dall’altro questa ra-gazza suscita in lui un senti-mento di sorpresa ammirativa,ma anche una rabbia sorda,che monta sempre di più e chealla fine lo porterà in prigione.

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La fama, in questo suo ultimo libro è una moneta a due facce: c’è chi

vince, chi perde tutto, o riesce nei suoi intenti, ma per vie inaspettatee paga pegno. Insomma è una molla narrativa potente, come pure l’i-dea del tempo, una sorta di spazio liquido in cui i suoi personaggi si perdono e si ritrovano. Chi sono stati i suoi ispiratori?Da un lato i paparazzi e la loro fanatica rincorsa ai «belli e famosi»,dall’altra la crescente importanza della tecnologia, con il web che simangia metà delle nostre vite. Quanto agli scrittori: sono stati tanti.35

Un po’ come Longo su «il Riformista», anche Martino Gozzi,pur apprezzando l’analisi del tempo che soggiace alla narrazione,giudica poco convincente l’enfasi della forma a discapito – a suoavviso – della sostanza:

[Lo] stile è quel particolare movimento che consente all’autore dicosteggiare un precipizio, guardando in giù, senza perdere l’equili-brio; nel peggiore dei casi, si trasforma invece in un numero acro-batico fine a sé stesso, nel quale l’autore non si mette realmente ingioco: non ci sono voragini aperte ai suoi piedi, e un passo falsonon compromette l’esito dell’esercizio. Con Il tempo è un bastardo, Jennifer Egan si colloca in un punto intermedio tra i due casi limite.Il suo quarto romanzo […] è un oggetto difficile da catalogare, al

punto da non sembrare neppure un romanzo. A prima vista, infatti,appare come una raccolta di racconti fra loro comunicanti, con luo-ghi e personaggi ricorrenti e un comune denominatore, lo show bu-siness [dell]’industria discografica statunitense. [L’] impressione èche l’autrice abbia voluto usare lo stile come semplice diversivo, te-nendosi alla larga dal precipizio. Forse qualche legame in più conla vita avrebbe dato maggiore spessore al romanzo nel suo insieme.Accanto a racconti perfettamente riusciti (bellissimi sono «Safari»,«Sai che m’importa», «Oggetti trovati» e «Fuori dal corpo», tuttibagnati nel tino dell’esperienza) ce ne sono altri francamente troppovaghi, troppo piatti e didascalici, nella loro critica alla società dei

consumi e all’era digitale, per essere credibili (in particolare «Ven-dere il generale», «Un pranzo di quaranta minuti…» e «Linguaggiopuro»). Semmai, più che dai singoli episodi, una critica implicitadel presente emerge dalla struttura entropica del libro, dalla suaironica fusione di generi e linguaggi, dal suo fluido planare su piùsuperfici, senza mai tentare l’immersione. Quando però il fulcrodella narrazione diventa la parodia – un finto reportage fa il versoa Foster Wallace, con tanto di note a piè di pagina e speculazioni

fuori luogo sulla meccanica

quantistica – la capacità disopportazione del lettore vienemessa a dura prova, con il ri-sultato di offuscare quanto dibello c’è nelle pagine del libro,la sua meditazione sul tempo.Come rivela il titolo, più espli-cito nella traduzione rispettoall’enigmatico A visit from theGoon Squad , il tema che quicorre sottotraccia, dal primoall’ultimo capitolo, è proprio iltempo: la forza distruttrice concui divora ogni cosa, e la per-cezione distorta che ciascunodi noi ne ha. Alcune istantaneerestano impresse. Il portafo-glio rubato all’inizio del ro-manzo, per esempio; il sessoorale che Lou, il discograficocon un debole per le ragazzine,

esige da un’adolescente du-rante un concerto; la scrivanianera, «sede del potere», che se-para due vecchi amici i cui de-stini hanno preso strade di-verse; la «sismica indifferenza»con cui le correnti dell’EastRiver trascinano a largo Ro-bert Freeman jr, uno studentefatto di ecstasy. Di questitempi, tuttavia, di fronte a una

proposta editoriale sempre piùtracimante (e paradossalmentea un tempo da dedicare allalettura sempre più compresso,assediato da new media e so-cial network), da un premioPulitzer è forse legittimo aspet-tarsi qualche affondo di più, e

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qualche lustrino di meno; più coraggio nel se-

guire i personaggi che precipitano nell’abisso, emeno esercizi di stile; maggiore incisività, e unnumero minore d’invenzioni. Come suggeriva laregina Gertrude a Polonio: «More matter, withless art».36

Tornando a parlare del rapporto della Egan conil linguaggio delle serie televisive, infine, RossanaCampo giudica negativamente la contaminazionetra forme di narrazione così diverse fra loro:

[Ci] sono gli avanti e indietro nei diversi momentidella vita di Sasha, che incontriamo nel primo ca-pitolo-racconto come cleptomane incasinata aNew York, in tempi recenti, dove lavora come as-sistente di Bennie Salazar e riscopriamo verso i ca-pitoli finali ragazzina sballata che ha già al suoattivo depressioni, tentativi di suicidio e psichia-tri, e ancora più avanti in una fuga a Napoli, fineanni Settanta, dove fa esperienze non sempre cre-dibili (per come ci vengono raccontate) di tac-

cheggio, droga e prostituzione. La stessa Sasha chediventerà nell’età adulta madre e moglie tranquilla,con figlia a cui è affidato un intero capitolo perraccontare la vita di famiglia come se fosse undiario di adolescente scritto in PowerPoint (a pro-posito del quale si è scritto parecchio, ma che nonmi pare una grossa trovata). Insomma c’è questacostruzione delle storie che pare sperimentale e aproposito della quale l’autrice ha dichiarato in al-cune interviste di avere preso come riferimento daun lato Proust e dall’altro la struttura di Pulp Fic-

tion e di varie serie televisive americane tipo I So- prano. Così la domanda che ci poniamo a letturafinita è: ci guadagnano questi poveri scrittori diromanzi se cercano ispirazione guardando TheWire, Six feet under, Mad men invece che leg-gendo Anna Karenina, Gravity’s rainbow o Tri-stram Shandy? Pur credendo che la letteraturanon sia una pura terra incontaminata che debba

restare chiusa e impermeabile ai linguaggi con cui

quotidianamente tutti noi abbiamo a che fare (valea dire i film, la musica, le serie televisive e in gene-rale tutta la cosiddetta cultura pop), non riesco anascondere un senso di leggera frustrazione percome gli scrittori di narrativa guardino semprepiù e in modo un po’ troppo supino alle forme dinarrazione che ormai sembrano vincenti e impe-ranti. Insomma, io direi che non è vero che larealtà oggi sia raccontata o raccontabile solo daiSoprano, dai Mad men o anche dai vari commis-sari dei romanzi nostrani; ritengo che ci sia unmodo di andare in profondità, per dire quello cheuno scrittore sente quando vive nel nostro tempoche è proprio della letteratura e che sarebbe unfallimento ritenere superato e perdente. Perché c’èqualcosa che può fare la letteratura che nessunaserie televisiva potrà mai fare. Magari ci costeràun po’ di più in termini di attenzione e fatica, ma-gari ci vorrà della buona volontà per entrare den-tro un sistema percettivo un po’ più complicatodi quello di Tony Soprano (che pure io guardo,

sia chiaro, traendone divertimento), ma la lettera-tura continuo a pensarla come qualcosa che nonci deve allettare a tutti i costi, non ci deve pren-dere per mano come se fossimo eterni ragazziniun po’ scemi e annoiati. Anche se forse abbiamoperso per abitudine e sciatteria il piacere di aspet-tarci dalla letteratura il famoso kafkiano pugnosulla testa che ci sveglia di colpo, perlomeno per-sonalmente continuo ad aspettarmi da un ro-manzo qualcosa che mi scuote, mi mette a disa-gio, mi fa venire la voglia di lasciare il libro da

parte un momento, perché quello che ci sto tro-vando dentro ha il sapore della paura o della gioiao del sollievo di essere arrivata al punto di sco-prire qualcosa che forse non mi sarei mai aspet-tata di trovare fra le pagine di un libro, vale a direme stessa, la mia vita e la vita di tutti dunque.37

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1 Red., Vivere alla Montaigne, «l’Espresso», 7 aprile 2011.2 Ida Bozzi, Il Pulitzer a Jennifer Egan, a metà strada tra Proust e i Soprano, «Corriere della Sera», 19 aprile 2011.3 Stefania Vitulli, Il Pulitzer è digitale. Anche nel romanzo, «il Giornale», 20 aprile 2011.4 Désirée Paola Capozzo, Pulitzer 2011: la prima volta del web, elle.it, 20 aprile 2011. Un’impostazione pressoché iden-

tica è ravvisabile nell’articolo: Marco Bernabè, Il Pulitzer punta sull’innovazione, tafter.it, 22 aprile 2011.5

 Jennifer Egan (tradotta da Matteo Colombo),Così ho scritto il mio romanzo usando i grafici di PowerPoint , «la Repubblica»,14 maggio 2011.

6 Sara Antonelli, Il tempo? Un vero bastardo… Parola di Jennifer Egan, «l’Unità», 20 aprile 2011.7 Alessandra Farkas, La rivolta rosa anti-Franzen ha permesso il mio successo, «Corriere della Sera», 2 luglio 2011.8 Ron Charles, Jennifer Egan’s A visit from the Goon Squad, «The Washington Post», 16 giugno 2010.9 Darragh McManus, Review: A visit from the Goon Squad by Jennifer Egan, «The Irish Independent», 26 marzo 2011.10 Laila Bonazzi, Appassionarsi a una giusta pausa, «Marie Claire», novembre 2011.11 Irene Soave, Aggiungi i Soprano a Proust , «Vanity Fair», 23 novembre 2011.12 Stefania Vitulli, Jennifer Egan, come scrivere fra Proust e l’sms, «il Giornale», 27 novembre 2011.13 Masolino D’Amico, Al fratello che ama l’inglese, «Tuttolibri», 10 dicembre 2011. In una recensione che si riduce a una

scopiazzata accozzaglia dei luoghi comuni espressi fino a quel momento sul romanzo, D’Amico sbaglia addirittura in

nome del software, scrivendo «powerbook» anziché «PowerPoint».14 Roberto Carnero, Quando l’email si fa narrativa, «Domenica» del «Sole 24 Ore», 29 gennaio 2012. Il giornalista col-

loca il romanzo della Egan in un’analisi di più ampio respiro, che comprende opere di Daniel Glattauer, Cesarina

Vighy, Ermanno Ferretti e Giuseppe Antonelli.15 Matteo B. Bianchi, Tredici storie tra Proust e Tarantino, «l’Unità», 9 novembre 2011.16 Matteo Sacchi, Pulitzer imperfetto, «L’Unione Sarda», 7 gennaio 2012.17 Francesco Longo, Egan da Pulitzer, ma l’effetto speciale sa di cartapesta, «il Riformista», 23 dicembre 2011.18 Christian Frascella, Sconsolati americani pre e post 11 settembre, «Tuttolibri», 10 dicembre 2011.

Note

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19 Valentina Della Seta, Egan – La musica del Pulitzer, «Il Messaggero», 16 novembre 2011.

20 Luca Malavasi, Recensione a Il tempo è un bastardo, «Pulp», febbraio 2012.21 Francesca Borrelli, Quelli che sopravvivono perché nulla è mai sul serio, «Alias», 11 dicembre 2011.22 Valentina Pigmei, I miei libri sono come cd , «Grazia», 26 dicembre 2011.23 Michele Lauro, Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo: prototipo della nuova narrativa americana, panorama.it, 16 feb-

braio 2012.24 Enrico Pucci, Proust nel frullatore – Egan vince il Pulitzer smontando la trama, «la tribuna di Treviso», 18 febbraio

2012.25 Claudia Durastanti, Tarantino, Proust e io – «Nascita di un romanzo atipico» , svolgimento, «Mucchio», dicembre 2011.26 Marco Denti, There’s no time – Il tempo, la musica (pausa) e la vita secondo Jennifer Egan, «Buscadero», febbraio 2012.27 Elena Stancanelli, Il Pulitzer della Egan tra Proust e Tarantino, «la Repubblica», 22 novembre 2011.28 L’intervista di Paola Zanuttini del «Venerdì» di «Repubblica» è poco incisiva, portata avanti da domande interessate

da una parte ad analizzare i soliti luoghi comuni (PowerPoint in testa) e la trattazione della fama all’interno del ro-

manzo, dall’altra a prendere in esame aspetti domestici e privati riguardanti la vita e la quotidianità dell’autrice.29 Cfr. Laura Martellini, Come i libri – Mostri sacri e nuovi talenti all’Auditorium, «Corriere della Sera (Roma)», 23 feb-

braio 2012;

Claudia Rocco, Libri come festa metropolitana, «Il Messaggero» (Cronaca di Roma), 23 febbraio 2012;

Francesca Borrelli, Intervista a Jennifer Egan, doppiozero.com, 9 marzo 2012;

Lara Facondi, La festa del libro all’Auditorium, paesesera.it, 8 marzo 2012;

Valentina Della Seta, Egan – La lunga marcia verso la perfezione, «Il Messaggero», 10 marzo 2012.30 Dario De Marco, Con le rovine di Pompei la Egan vince il Pulitzer , «Il Mattino», 2 marzo 2012.31 Alessandra Iadicicco, Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, «panorama», 7 marzo 2012.32

Anna Folli, Amore e amicizia a tempo di rock, «Gazzetta di Parma», 31 marzo 2012.33 Francesca Borrelli, Il rock novel di Jennifer Egan, «il manifesto», 8 marzo 2012.34 Fabio Donalisio, Coinvolgere la malinconia – Parlando di musica, e di Proust con Jennifer Egan, «Blow up.», maggio

2012. Su una lunghezza d’onda simile si pone anche: Claudia Bonadonna, Intervista a Jennifer Egan, «Pulp», giugno

2012.35 Lisa Galeotti, Vite sbriciolate a contatto con la notorietà, «Corriere del Ticino», 30 marzo 2012.36 Martino Gozzi, Costeggiare un precipizio, «L’Indice dei libri del mese», maggio 2012.37 Rossana Campo, Tony Soprano o Anna Karenina?, «alfabeta2», marzo 2012.

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· Red., Vivere alla Montaigne, «l’Espresso», 7 aprile 2011;· Sara Antonelli, Il tempo? Un vero bastardo… Parola di Jennifer Egan, «l’Unità», 20 aprile 2011;· Marco Bernabè, Il Pulitzer punta sull’innovazione, tafter.it, 22 aprile 2011;· Matteo B. Bianchi, Tredici storie tra Proust e Tarantino, «l’Unità», 9 novembre 2011;· Claudia Bonadonna, Intervista a Jennifer Egan, «Pulp», giugno 2012;

· Laila Bonazzi, Appassionarsi a una giusta pausa, «Marie Claire», novembre 2011;· Francesca Borrelli, Quelli che sopravvivono perché nulla è mai sul serio, «Alias», 11 dicembre 2011;· Francesca Borrelli, Il rock novel di Jennifer Egan, «il manifesto», 8 marzo 2012;· Francesca Borrelli, Intervista a Jennifer Egan, doppiozero.com, 9 marzo 2012;· Ida Bozzi, Il Pulitzer a Jennifer Egan, a metà strada tra Proust e i Soprano, «Corriere della Sera»,

19 aprile 2011;· Rossana Campo, Tony Soprano o Anna Karenina?, «alfabeta2», marzo 2012;· Désirée Paola Capozzo, Pulitzer 2011: la prima volta del web, elle.it, 20 aprile 2011;· Roberto Carnero, Quando l’email si fa narrativa, «Domenica» del «Sole 24 Ore», 29 gennaio 2012· Ron Charles, Jennifer Egan’s A visit from the Goon Squad, «The Washington Post», 16 giugno

2010;

· Masolino D’Amico, Al fratello che ama l’inglese, «Tuttolibri», 10 dicembre 2011;· Valentina Della Seta, Egan – La musica del Pulitzer, «Il Messaggero», 16 novembre 2011;· Valentina Della Seta, Egan – La lunga marcia verso la perfezione, «Il Messaggero», 10 marzo 2012;· Dario De Marco, Con le rovine di Pompei la Egan vince il Pulitzer, «Il Mattino», 2 marzo 2012;· Marco Denti, There’s no time – Il tempo, la musica (pausa) e la vita secondo Jennifer Egan, «Bu-

scadero», febbraio 2012;· Fabio Donalisio, Coinvolgere la malinconia – Parlando di musica, e di Proust con Jennifer

Egan, «Blow up.», maggio 2012;

Fonti

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· Claudia Durastanti, Tarantino, Proust e io – «Nascita di un romanzo atipico» , svolgimento,

«Mucchio», dicembre 2011;· Jennifer Egan (tradotta da Matteo Colombo), Così ho scritto il mio romanzo usando i grafici di

PowerPoint , «la Repubblica», 14 maggio 2011;· Lara Facondi, La festa del libro all’Auditorium, paesesera.it, 8 marzo 2012;· Alessandra Farkas, La rivolta rosa anti-Franzen ha permesso il mio successo, «Corriere della

Sera», 2 luglio 2011;· Anna Folli, Amore e amicizia a tempo di rock, «Gazzetta di Parma», 31 marzo 2012;· Christian Frascella, Sconsolati americani pre e post 11 settembre, «Tuttolibri», 10 dicembre 2011;· Lisa Galeotti, Vite sbriciolate a contatto con la notorietà, «Corriere del Ticino», 30 marzo 2012;· Martino Gozzi, Costeggiare un precipizio, «L’Indice dei libri del mese», maggio 2012;· Alessandra Iadicicco, Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, «panorama», 7 marzo 2012;· Michele Lauro, Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo: prototipo della nuova narrativa americana,

panorama.it, 16 febbraio 2012;· Francesco Longo, Egan da Pulitzer, ma l’effetto speciale sa di cartapesta, «il Riformista», 23

dicembre 2011;· Luca Malavasi, Recensione a Il tempo è un bastardo, «Pulp», febbraio 2012;· Laura Martellini, Come i libri – Mostri sacri e nuovi talenti all’Auditorium, «Corriere della Sera

(Roma)», 23 febbraio 2012;· Darragh McManus, Review: A visit from the Goon Squad by Jennifer Egan, «The Irish Indepen-

dent», 26 marzo 2011;· Valentina Pigmei, I miei libri sono come cd , «Grazia», 26 dicembre 2011;

· Enrico Pucci, Proust nel frullatore – Egan vince il Pulitzer smontando la trama, «la tribuna di Tre-viso», 18 febbraio 2012;· Claudia Rocco, Libri come festa metropolitana, «Il Messaggero» (Cronaca di Roma), 23 feb-

braio 2012;· Matteo Sacchi, Pulitzer imperfetto, «L’Unione Sarda», 7 gennaio 2012;· Irene Soave, Aggiungi i Soprano a Proust , «Vanity Fair», 23 novembre 2011;· Elena Stancanelli, Il Pulitzer della Egan tra Proust e Tarantino, «la Repubblica», 22 novembre 2011;· Stefania Vitulli, Il Pulitzer è digitale. Anche nel romanzo, «il Giornale», 20 aprile 2011;· Stefania Vitulli, Jennifer Egan, come scrivere fra Proust e l’sms, «il Giornale», 27 novembre 2011;· Paola Zanuttini, Intervista a Jennifer Egan, auditorium.com/eventi/5258134.

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Introduzione 3

I giorni del Pulitzer – Proust, I Soprano e PowerPoint 5

La pubblicazione in Italia – «Il tempo è un bastardo, giusto?» 13

Da Libri come a oggi – Tempo, fama e ripescaggi 25

Fonti 39

Indice

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