Il tempo del serpente - Anteprima - Edizioni Della Vigna

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Davide Ghezzo Il tempo del serpente Edizioni Della Vigna Cocktail n. 9 www.edizionidellavigna.it

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Davide Ghezzo

Il tempo del serpente

Edizioni Della Vigna

Cocktail n. 9

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Per la presente edizione,© 2011 Edizioni Della Vigna di Petruzzelli Luigi - Arese (MI).

È vietata la riproduzione, anche parziale, senza il consensoscritto dell’editore.

www.edizionidellavigna.itISBN 978-88-6276-093-5

Pubblicato per accordi intercorsi direttamente con l’autore.Copyright © 2011 Davide Ghezzo

L’immagine di copertina è copyright © SSilver - Fotolia.com

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Quando in fronte è case, dèi e asfaltola notte incurva sotto al capocenturie di alchimia.Scuote ansia la bottega (cera bruna, pergamene,globi di cristallo) e l’icona al diavolosul portale antico,ed il fiume lungo ai ponti accompagnatoalla sponda medievale e ai colli.Nei cunicoli interrati,nell’incenso e i segni a terraun vincolo, un richiamo sulle mute labbra,forse (chi sa?) è attesa.Porge luci a sera,quando affresca viali e scalmi di lampioni,quando assorta sotto ai montiaccorda spettri nei suoi sogni,arcani penetrali di città.

Giorgio Favaro, Passaggio urbano

Guaj allo scrittore che, a un certo punto, non si schifadel suo mestiere.

Luigi Pirandello, Non parlo di me

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PARTE PRIMA

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1.Spinto da uno dei miei periodici impulsi religiosi,

entro in chiesa.Mi avvolge una fresca penombra. Mi incammino lun-

go la navata centrale, e intravedo allora una, due per-sone sedute nelle prime file di banchi.

Dovrei pregare anch’io, ma a malapena so dire qual-che avemaria assieme ai miei figli, quando li trascino inchiesa a Natale e a Pasqua. Anche al di là delle litanie,non riesco a concentrarmi su un minimo esame di co-scienza. La mia vita mi sfugge, come fosse al di là delbene e del male; non riesco più ad avvertirne il livello dimoralità (a dire il vero succede che ci si equilibra inqualche modo tra egoismo e altruismo, tra l’esigenza dinon essere schiacciati dal mondo esterno e quella dinon farsi completamente schifo). Resta una sorta di flus-so interiore, uno slalom tra mondi possibili e frasi cheavrei potuto dire; ma sempre più tutto mi sembra ap-partenere a un altro.

In una chiesa, almeno, trovo il silenzio. Non quellodi casa mia, che sa di mobili e di libri e di biancheriaumida. Ma il silenzio degli affreschi dai toni scuri, del-l’altare, dell’ostensorio, del crocifisso. Punti di riferimen-to, immagini come pietre angolari dell’edificio storicodell’uomo. Simboli immutabili, non soggetti al diveniretelevisivo. Qualcosa su cui posso fermare l’occhio, e lamente. Lontano dalla frenesia dei gadget tecnologici,dall’operosità lavorativa e familiare, dalla pazza folla dellastrada che passeggia parlando di soldi e cellulari e au-tomobili.

Allora, dovrei perlomeno fermarmi, sedermi su unapanca, lasciarmi invadere dal silenzio, respirare cinqueminuti di pace interiore. Invece cammino al centro, ver-so l’altare. Voglio arrivare al cuore della chiesa.

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Dalla penombra dell’abside, sullo sfondo di un coronerastro, emerge al mio sguardo il crocifisso. Per unattimo, tutto mi si offusca; poi è di nuovo, definitiva-mente, chiaro.

Al posto del Cristo, diffuso, a modo suo, lungo i quat-tro bracci della croce, sta inchiodato un serpente.

Mi avvicino ancora, oltrepassando la prima fila dibanchi, con i due oranti inginocchiati, un uomo e unadonna. Arrivo alle transenne precedenti l’altare. Guar-do meglio. Io sono un po’ miope, ma con gli anni sonomigliorato, tant’è che un oculista a sua volta lungimi-rante mi ha tolto l’obbligo delle lenti alla guida.

In quella chiesa (per adesso non importa qual è, ba-sta dire che siamo a Torino) ricordo un Cristo cereo,dolente, quasi contratto sulla croce. In sua vece, soffreun vasto serpente verdastro. Qui il presente non è solostorico: infatti l’animale è vivo. Le sue membra, le suespire si contraggono, si tendono, e il movimento inducevaghi riflessi sulle scaglie.

Incapace di distogliere lo sguardo, definisco i detta-gli. Il serpe si dipana, in un movimento di andata eritorno, fino all’estremità dei bracci laterali, e poi giùsull’asse centrale, fino a terra, dove scorgo la coda. Lasua carne è inchiodata alle due estremità laterali, inbasso, all’altezza dei piedi di Gesù, e anche al centro,all’incrocio dei due assi. Sotto ogni chiodo sgorga san-gue porporino.

La testa emerge oltre la sommità della strutturalignea, nascondendo in parte la scritta INRI; e ondeg-gia lentamente, come in preda a uno spasmo continuo.Intravedo anche il giallo malato degli occhi privi di pal-pebre.

Non basta. L’aria peraltro silenziosa della chiesa ècome percorsa da un sibilo, una specie di lamento chesembra provenire da una qualche dimensione extrau-mana, o d’oltretomba.

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Chiudo gli occhi, e solo grazie al mio senso del ridi-colo arresto a metà il movimento delle mani con cuivorrei tapparmi le orecchie, per non sentire il suonoche segnala la sofferenza del rettile. Certo sono vittimadi una doppia allucinazione. Me lo conferma il fatto chele due persone inginocchiate proseguono tranquillamen-te le loro devozioni. Ma non mi basta: potrebbero esserefedeli del serpente. Vado dal più vicino, un uomo sullacinquantina (come me, penso stupito e anche un peloamareggiato).

«Mi scusi... è tutto a posto?» Mi accorgo dell’incon-gruità della situazione, e delle mie parole. «Voglio dire,qui nella chiesa... non vede qualcosa di strano?»

«No... che cosa intende?» risponde con voce flebilel’uomo, un tipino inappuntabile coi lineamenti squa-drati, vestito come usava quarant’anni fa.

«Il crocifisso... le sembra normale?»«Certo. Col suo Cristo in bella evidenza. Perché, a lei

come sembra?»Non posso dirgli la mia verità. «Niente, mi era par-

so... mi scusi, abbia pazienza. Sarà il caldo che mi hadato un po’ alla testa.»

Con imbarazzo gli volto le spalle, e mi sposto lungola fila opposta di banchi, dove prega inginocchiata unavecchietta pelle e ossa. Scambio una serie di battutesimili alle suddette (la ripetizione non basta a corregge-re i miei anacoluti), ottenendo la controprova del fattoche il serpente lo vedo solo io.

Poi succede una cosa peggiore.Una voce che mi fa pensare a un vecchio 45 giri fatto

andare a 33 risuona potente nel mio cervello. Uccidimi.Mi assale un tremito che la vista del rettile non mi

aveva dato, un tremito di paura e insieme di un’ango-

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sciosa impotenza, inadeguatezza. Accettato l’impiantodi base di questa follia, mi rendo conto che la voce pro-viene dal serpente. Mi riavvicino, provo a fissarlo, a ri-volgergli una muta domanda. “Io?”

Dopo qualche secondo la sua testa si piega in avan-ti, come per annuire. Resto fermo, imbambolato, stor-dito, mentre quel comando cavernoso mi riecheggia nelleorecchie. Uccidimi.

Ma obbedire esula dalle mie forze, dalle mie possibi-lità anche fisiche. Come potrei fare? Anche ammesso diraggiungere la base del crocifisso, che sta a più di tremetri da terra, come potrei danneggiare quella creaturapossente? Se provassi a colpirlo o a stritolarlo gli fareiun baffo, né ho armi improprie peggiori delle chiavi del-la macchina, che farebbero un danno analogo a quellodei chiodi, portando altro dolore, non la morte agognata.

Il sibilo lamentoso, segno dell’agonia infinita del ret-tile, diventa più forte, quasi vorticante nelle navate del-la chiesa. E mi sembra che la sua testa si tenda in avanti,verso di me. È il suo supremo sforzo per comunicare; lasua residua forza psichica bastava per un solo messag-gio telepatico.

Ma io non me ne do per inteso. Mi volto, e accelero ilpasso verso l’uscita, accompagnato dal breve sguardodei due oranti. Esco dalla chiesa senza neanche farmi ilsegno della croce. Praticamente fuggo all’esterno, allarassicurante banalità di una via del centro, non impor-ta quale, basta dire che mi accoglie l’asfalto rovente delgiugno cittadino, disseminato di un gruppetto di neridavanti a un call center, anziani che passeggiano sfac-cendati, e un paio di facce, davanti a un bar, che nonvorrei mai associare a mia figlia. È un’istantanea delcentro storico torinese che mi spinge a chiudermi in mestesso, a camminare assorto verso ovest, riandando aquanto mi è parso di vivere e percepire.

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Devo sospendere il giudizio sulle mie sensazioni, vi-sive e auditive. Farò delle visite specialistiche, una pe-rizia psichiatrica, un giro da uno strizzacervelli. Ciò chemi preme è dire a me stesso che sono scappato, e nonintendo tornare indietro. Non ho avuto il coraggio diascoltare davvero il grido d’aiuto della creatura, di an-darle in soccorso, facendomi venire qualche idea, comea volte mi succede.

Provo a difendermi: il serpente, da che mondo èmondo e anche prima, nei tempi cosmogonici del mitoe/o del big bang, è creatura del male, simbolo di quelprincipio antidivino e antiumano chiamato diàbolos, ilmentitore.

Con rabbia, ribatto a me stesso che non sono cosìignorante, che il simbolismo del serpente è ben più com-plesso, fino ad aspetti etici di segno opposto tra loro.

E in ogni modo, chiunque venga crocifisso subisceuna punizione sproporzionata anche all’eventuale col-pa, che sia figlio di Dio o del demonio. E io ho dimostra-to al di là di ogni dubbio la mia codardia e vigliaccheria.Lo confermo, se fosse necessario, mettendomi le maniin tasca, e tornando alle mie sciocche usanze di tutti igiorni.

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2.Strapperò subito il velo di Maya che finora svolazza-

va davanti agli occhi del lettore. Questo libro non è unromanzo, non nel senso tradizionale. Metaromanzo èuna definizione approssimativa, che non mi soddisfa;un po’ meglio antiromanzo, che rispecchia il mio cre-scente fastidio per il genere. Più tardi, forse, cercheròun altro termine, una circonlocuzione, magari un in-sulto.

Certo sarebbe stato bello portare avanti una vicendaserrata, incalzante, perfettamente sviluppata in basealla premessa del primo capitolo, per due o trecentopagine. Tuttavia non ne sono (più) in grado; bisogneràaccontentarsi, allora, di una serie di flash narrativi, al-ternati a divagazioni, spero sapienti, attorno al fanta-stico, al mistero, all’occulto. Del resto, come ha dettoun affermato regista italiano, la trama coerente andrebbeeliminata dal film, tanto sono ormai più o meno tutteuguali.

Ma la mia scelta ha un’altra ragione intrinseca, chedirò di economia della penna. Ciascun romanzo tradi-zionale segue una idea, una intuizione, e la sviluppaattraverso i suoi orpelli, affastellando conflitti, viaggi,descrizioni, dialoghi, introspezioni che sono troppo spes-so inutili sovrastrutture. Se restassi nel canone, perdire tutto ciò che mi urge da dentro servirebbero cin-quanta o cento libri, che ovviamente, nei quattro o cin-que decenni di vita che mi restano, non ho il tempo néla forza di scrivere (e se mai, non so come né perché,succedesse, sarebbero opere certissimamente noiose estiracchiate). Attraverso il mio sistema misto, possocompattare il lavorio mentale di anni, provando a dargliun senso, una giustificazione. Ed è una scelta che di-venta anche stilistica. Un mio antico maestro d’armi, e

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capitano della fantascienza italiana, Ugo Malaguti, miinvitò un giorno a scrivere graffiando: stavolta lo faccio,fino in fondo. E mi ci diverto pure.

Allora, cominciamo dal posto in cui si collocano lemie scene. Il posto, cioè Torino, è fondamentale. Non èsolo sfondo, ma palcoscenico, terreno da calcare. Vi hoambientato, oltre a svariate opere minori, una trilogiadi romanzi fantastici per un totale di quasi cinquecentopagine, dal titolo, se me lo concedete, alquanto sugge-stivo: Tauromagia (il primo di essi, La pietra di Uriel, èriapparso con tutti gli onori nell’edizione multipla delmio nuovo totem Luigi Petruzzelli). Purtroppo non rie-sco a rileggere questi libri, salvo le necessità di unariedizione. Non sopporto, appunto, il quid di manierato,di costruito che vi aleggia. Ma il succo, il nocciolo dipensiero e di sensazioni che li rese necessari non possorinnegarlo.

Tauromagia, cioè magia del toro. Premetto che l’ani-male in questione non rispecchia, per fortuna, la miafede calcistica; e anche che la radice celtica taur signifi-ca tutt’altro, cioè “montagna”, ovvero la meravigliosacornice che attornia la città, e che solleva il mio sguar-do e il mio stato d’animo anche adesso, tra una frase el’altra.

Ma se è vero che l’etimo celtico è il più antico, è an-che accettabile la sovrapposizione del greco tauros, checi riconduce a uno dei motivi, sebbene non il più impor-tante, del fascino esoterico della città. Perché il toro inquestione è Api, la bovina e antichissima divinità egi-zia, ben anteriore ad Amon, il dio solare. In effetti lamitologia sorta sulle rive del Nilo sembra confermare lasuccessione delle ere secondo l’ordine inverso dei segniastrologici: Api, dominatore del pantheon egizio tra il4000 e il 2000 a. C., è simbolo del Toro, mentre Amon,che regge la scena, grosso modo, nei duemila anni suc-cessivi, rappresenta l’Ariete (seguirebbe l’era dei Pesci,

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sotto l’egida di Cristo e della sua Chiesa, e poi quelladell’Acquario, da poco iniziata, che dovrebbe dipanarsiall’insegna della pace e dello sviluppo di tecnologie pu-lite, anche se per ora si vede ben poco al riguardo).

L’importante è che gli Egizi, in un qualche momentodella loro storia (diciamo, restando larghi, nel corso delsecondo millennio prima di Cristo) raggiunsero, fenden-do il Mediterraneo, quelle che oggi sono le amene e ric-che colline del Torinese; e vi si insediarono, fondendosipoi con le genti celtiche, che scendevano a ondate dalnord-ovest. Ebbene, misceliamo le cultualità, il dina-mismo spirituale, le conoscenze scientifiche e in specieastronomiche di entrambi i popoli: l’esito è la radicatatradizione sapienziale, la vena esoterica che permeaprofondamente la città.

Torino come vertice dei cosiddetti triangoli magici,sia della magia bianca (con Praga e Lione) sia di quellanera (con Londra e San Francisco). Torino come tempioeletto del Santo Graal, come indicherebbe l’indice moz-zato di una statua della Vergine, antistante la chiesadella Gran Madre di Dio, presunto coperchio di riti sa-tanici e messe nere, a fronte di quelle bianche celebratesopra, nella chiesa ottagonale. Torino come sede dellegrotte alchemiche, misteriosi anfratti facenti parte di unrituale progressivo, praticato forse fin dalle prime ap-parizioni della dinastia sabauda, volto alla trasmuta-zione del piombo in oro, vale a dire della materialitàgrezza in sublime atteggiamento ascetico. Torino comefonte perenne di energia spirituale (lucente e tenebrosainsieme), catalizzata dalla Mole Antonelliana, superbodito puntato al cielo, quasi antenna pronta a captare leonde radio provenienti dal cosmo.

L’elenco potrebbe continuare, e la sua analisi por-tarci molto avanti. Voglio invece fermarmi e dire unaparola a chi è già pronto a obiettare: tutte balle.

Allora, facciamo pure la tara del novanta per cento

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di tutte le affermazioni e i racconti, considerandoli sem-plici fole e leggende metropolitane e bugie costruite perabbindolare gli sciocchi e i creduloni come me, e so-prattutto per cavare dei soldi dalle tasche dei più fes-si, ovvero gli acquirenti di libri del filone nonché i clien-ti di maghi, veggenti, sensitivi e gli altri ciarlatani a finidi lucro.

E passiamo a un preciso dato scientifico. Torino staquasi all’incrocio (il punto preciso è il monte Musiné,alle soglie della Val di Susa, a una quindicina di chilo-metri dalla città) di due linee sincroniche, ovvero cor-renti di energia elettromagnetica che percorrono il pia-neta. Ebbene, Torino è l’unica città al mondo interessa-ta da una tale convergenza energetica, perché gli altriincroci di linee sul pianeta avvengono nel bel mezzo deglioceani.

Ecco il nucleo di forza, di tenacia dei torinesi, atten-zione, anche quelli acquisiti, o comunque figli di immi-grati, proprio come me, modesto terrone del nord. Sì, ilsangue conta, posso ammettere l’orgoglio di chi abitanella stessa magione del suo trisavolo; ma è il posto cheti modifica, e affianca la tua crescita. E questo posto tilascia un segno indelebile.

Torino ha un cuore romantico (rispecchiato nel cele-bre parco del Valentino, nel Borgo Medievale, nelle rivelanguide del grande fiume) che induce alla pigrizia, adiventare un bugia nen (1), uno scapa travail ca mi rivu (2);ma nello stesso tempo racchiude nella sua aria sporcala magia demiurgica, la forza della creazione artistica,scientifica, artigianale. Qui sono nati, perlomeno in Ita-lia, i mezzi di comunicazione e di intrattenimento dimassa: radio, cinema, televisione. Qui è nata la moda,l’automobile, persino la bicicletta. Qui sono nati, squi-

(1) NDA: Non muoverti.(2) NDA: Scappa lavoro, che arrivo io.

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sitezza suprema, i cioccolatini, i famosi gianduiotti. Qui,altro piccolo dettaglio, è nata l’Italia, non l’astrazioneoggimai facile da disprezzare, nonostante la festa dei150 anni, ma il cuore della storia artistica e culturaledel pianeta, il sogno di Dante e Petrarca, pagato colsangue di migliaia e migliaia di ragazzi.

Poi, in forza del loro potere economico-politico, Romae Milano ci rubano tutto ( infine gli scudetti e svariatieventi culturali). Ma questo è possibile anche perchéTorino è generosa, pronta a elargire i suoi talenti, e isuoi ritrovati.

Un’altra più personale singolarità: riesco a scriveresolo qui. Io ho vissuto per periodi anche lunghi a Vene-zia e in Sicilia, e più brevemente a Roma, a Firenze, ealtrove. Ebbene, in tutti questi bei posti (teoricamenteideali per un artista) non ho concepito un bel nulla sulpiano letterario, nemmeno un haiku di tre righe. Direteche avrò avuto altro da fare, per esempio visitare quellelocalità. E invece no. Ho aperto regolarmente i mieiquadernetti a Villa Borghese, sul Lungarno, sui vapo-retti in Canal Grande, sulle spiagge di Marina di Ragusa:e li ho richiusi senza vergare un solo segmento signifi-cativo. Ho scritto tutto a Torino, una produzione varie-gata e di qualche successo che veleggia ormai verso lequattromila pagine.

Boh, non avrà importanza. Ma io sto bene qui. Glialtri vadano dove vogliono, mia madre a Venezia, miasorella in America, mia moglie al suo paese nell’assola-to Mezzogiorno, mentre ai miei figli, quando fanno i dif-ficili a tavola, canto parafrasando Mango: “Ho raccon-tato al vento che vi porto in Africa...”. Io resto qui, nellacittà magica.

La storia che inizia col serpente crocifisso potevaessere ambientata solo a Torino. Certo, è anche veroche tra le varie alternative compio la facile scelta di gio-care in casa; ma sarebbe stato ben più assurdo descri-

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vere luoghi che non conosco. Del resto è il serpente,emissario, come vedremo, di una genìa di rettili ance-strali e onnipossenti che ha scelto di atterrare qui. Haavvertito la potenza del radiofaro che emana dal monteMusiné (non a caso, sede effettiva di numerosi avvista-menti UFO), e ha scelto questa sede, la divina e sulfureacittà pedemontana.

È venuto a farsi crocifiggere. Ma non sono stati itorinesi. E il luogo della croce è un luogo santo.

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3.La logica decostruita che mi obbliga alla massima

libertà mi impone anche di dire che Il tempo del serpen-te è il titolo di un romanzo da me scritto nel 2004, di cuiil presente tentativo avrebbe dovuto costituire una revi-sione.

Invece la discontinuità è quasi assoluta, perché quellavoro rispettava la strutturazione tradizionale, con spa-rizione dell’autore, che peraltro rientrava dalla finestra,tramite il diario di un astronauta. Il viaggio spaziale inquestione portava un gruppo di scienziati e tecnici finoa un pianeta, situato in una dimensione parallela allanostra, abitato da una razza di rettili intelligenti.

Nell’incipit di quel romanzo il signore dei serpi,Ophiucus IX, prende congedo dalla comunità dei suoisimili, riunita a salutarlo. Egli è in partenza per un pia-neta abitato della dimensione atomica, popolato di bipedicapaci di costruire una civiltà di stampo tecnologico,ma fondamentalmente sciocchi e dominati da futiliemozioni. Il suo viaggio costituisce una missione di im-portanza decisiva per la sopravvivenza della razza: essasi va estinguendo rapidamente per via della rarefazionedei composti energetici contenuti nell’atmosfera stessadella dimensione eterica in cui si colloca il pianeta, checostituiscono il nutrimento basico della comunità. Il suocompito è di convogliare l’energia psichica dei bipedidel pianeta atomico, attraverso il punto di congiunzio-ne tra le due dimensioni, fino a rifornire i suoi simili deipreziosi elementi elettromagnetici. Il rischio, per OphiucusIX, è terribile; ma solo lui, in virtù dei suoi poteriparapsichici, è in grado di adempiere a quel compito.

L’addio è straziante. I serpi vivono in un profondolegame empatico, formando un’entità psichica unitariadagli intenti uniformi, in cui la devianza e l’individuali-

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smo non sono nemmeno pensabili. Nemmeno OphiucusIX, il rettile più possente della comunità, è immunedall’intimo bisogno di mantenere la simbiosi mentale, edi dedicarsi spesso alle pratiche di fusione e comparte-cipazione esperienziale che costituiscono le formeespressive più simili a quelle sessuali dell’umanità. Etuttavia la dipartita è inevitabile, e non può essere piùrinviata. La razza muore. Il suo capo mette a repenta-glio, per salvarla, la sua personale sopravvivenza. È giu-sto così, e questo è il succo del discorso telepatico cheOphiucus IX rivolge ai suoi cari.

Poi c’è l’abbraccio, ovvero la fusione esperienziale.La mia stesura, forse, sottolineava troppo l’immaginedel groviglio di corpi, una lubrica miscela di spire cheapparentava l’esperienza all’orgia cui si abbandonanotalvolta i bipedi umani. Mi correggo, allora, e sottolineoche l’esito visivo della fusione è in primo luogo quello diun’emanazione luminosa. È una luce violenta ma sop-portabile, un irradiamento che sembra filtrato attraver-so un liquido, e che crea un effetto di staticità, unasospensione del divenire di quei corpi, che scivolano gliuni sugli altri in un unico sospiro di piacere. E l’energiafotonica prodotta costituisce una rigenerazione per lacomunità malata, come un soffio d’aria fresca per chista soffocando. Ma non è un processo che può conti-nuare all’infinito.

Il richiamo che sovviene alla mente è L’uomo checadde sulla Terra, sia il romanzo di Walter Tevis sia larielaborazione cinematografica che si avvale del ducabianco Bowie. Quella malinconia, quella sottile dispe-razione del venusiano che deve lasciare la sua fragilefamiglia... era ciò che intendevo ricreare, nel lamentocorale dei serpi, la cui unità psichica veniva crudelmentespezzata.

Poi la scena si sposta nello spazio, a seguire il viag-gio del serpente, prima nella sua dimensione poi, attra-

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verso il punto x, in quella atomica. Qui volevo visualiz-zare l’idea di una cavalcata possente, simile a quellacompiuta da Lucifero in qualche passo del Paradiso per-duto miltoniano. Penso all’immagine, e anche al suono,del grande rettile che aggredisce lo spazio, provocandoun attrito violento, da scintille, causato dalla profondadiversità della sua natura molecolare, eterica, rispettoalla forma intrinseca della materia e dello spazio atomi-co... Perché bisogna anche dire che quel serpente esor-bita dalle dimensioni conosciute nei rettili terrestri: saràlungo almeno quaranta metri, forse cinquanta, con undiametro proporzionato. Il serpe inchiodato alla croce,invece, pur considerando il percorso doppio lungo al-meno tre dei quattro bracci, non può superare la quin-dicina di metri: la sua forza spirituale, come la sua sof-ferenza, è più concentrata (come la mia scrittura qui).

Il fatto è che il serpente primigenio, cioè della primaelaborazione, intraprendeva una missione salvifica perla sua razza; e non portava, non intendeva portare ilmale e la violenza e la carne bruciata che contrasse-gnano i raid planetari di Lucifero. La sua penetrazionenello spazio umano non è un respirare e un graffiareaggressivo, ma un essere urticati, l’affanno di una sof-ferenza ribadita; è come grattare carta vetrata su unaferita aperta (si imporrebbe qui l’ipertesto di un excursusteologico-letterario. Forse il mio riferimento a Milton nonera del tutto corretto, se è vero che il senso profondo delParadiso perduto è la perdita dell’unità di anima e corpoche contrassegnava i nostri remoti progenitori. Lucife-ro e gli altri angeli poi decaduti erano felicemente inse-riti nel sistema edenico, e solo più tardi sarebbero dive-nuti segno di una degradazione morale, dopo un errorecommesso dall’uomo, o al limite da Dio. E tuttavia chiscrive è libero di farsi ispirare dall’autore o filosofo ch’eglinon perfettamente intende, come aveva capito ItaloSvevo).

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La creatura, così aliena all’umanità specie in virtùdella forza plastica della sua mente, e insieme assimila-bile alla multiforme esperienza del serpente nella storiaanche culturale del genere umano (come vedremo: nonfatemi fretta adesso, ci sarà un capitolo specifico) per-viene alla fine alla sua meta. Dopo una fase di ricaricaenergetica in qualche località disabitata, raggiunge quel-la che è la sua vera destinazione: il cuore storico-esoterico di Torino, Piazza Castello.

È questo il luogo (sede del primo Parlamento italia-no, ma chissenefrega: come ha scritto qualcuno, i Par-lamenti sono schifezze che non valgono un solo filo d’er-ba) dove l’energia metapsichica raggiunge il suo zenit.La piazza sovrasta l’ultima delle grotte alchemiche dicui sopra, e non è lontana dalla Fontana Angelica deiGiardini Reali, altro luogo di trasmutazione interiore,dove si offre al viandante saggiamente distratto la pos-sibilità di entrare in sintonia con dimensioni altre.

Non a caso il serpente atterra lì: è la sede più oppor-tuna per il convogliamento delle energie psichiche deiterrestri verso la loro lontana destinazione.

L’atterraggio ha qualcosa di tragico e di grottesco.Avviene in un pomeriggio estivo, assolato e afoso. Lacreatura, dopo aver veleggiato sulla città in cerca, con isuoi sensi radarici, del punto esatto, scende quasi inpicchiata sulla piazza, decelerando solo all’ultimo mo-mento. L’impatto è sonoro, come uno schiaffo ben asse-stato, e solleva una nube di polvere dall’asfalto rovente.Un trambusto che mi ricorda la caduta di Fetonte, in-capace di guidare il carro di suo padre, il Sole (l’imma-gine della rovina del giovane dio, del crollo del suo inso-lito mezzo di trasporto in una fantasmagoria di fram-menti, di terra smossa, di polvere e fragore ha un talesapore di verità da far pensare a un’astronave che pre-cipita nei pressi dell’Eridano...).

Nasce il culto del serpente alieno. A migliaia, a deci-

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Davide Ghezzo

ne di migliaia, a centinaia di migliaia, a milioni, nel tem-po, gli uomini si recano a vedere il rettile acciambellatosulla piazza torinese, a sfiorare la sua pelle lubrica: ene traggono l’energia sincronica necessaria per riorien-tare la loro vita. Per qualche tempo, il senso del miraco-lo aleggia nella piazza, e su tutti coloro che hanno resoomaggio al serpente. Tumori allo stadio terminaleregrediscono e scompaiono in pochi giorni; i ciechi riac-quistano la vista; i paralitici si alzano dalla carrozzella.Ma anche, più modestamente, singoli o famiglie riasse-stano la loro condizione affettiva, economica, abitativa,gli artisti producono, le persone realizzano i loro sogni.Persino la situazione politica mondiale (immagino diessere verso il 2020) vede una fase di pace, di estensio-ne dei rapporti diplomatici, degli accordi, dei progetti dicooperazione nell’aiuto ai paesi più poveri, nella crea-zione di infrastrutture, nella salvaguardia dell’ambien-te planetario.

Perché avviene tutto ciò? Il fatto è che il serpente,mentre assorbe l’energia psichica degli uomini, in modoinvolontario cede la sua: ed è una forza in grado diriequilibrare le “sfasature” della dimensione atomica(come il cancro).

In questo quadro edificante non manca, non puòmancare la nota stonata. Ecco che arrivano i soldati,venuti a colpire e/o imprigionare ciò che esula daglischemi mentali dei loro superiori. Ma le forze militari,misteriosamente, vengono messe in condizione di nonnuocere; fanti, poliziotti, alpini, carabinieri gettano learmi e vanno a toccare e venerare il serpente. Alcunicecchini vedono fondere i loro fucili; un paio di follikamikaze, pronti a gettarsi sul rettile coi loro aerei, sonocostretti ad atterraggi di emergenza ancora fuori città.

Perché il serpente è una di quelle forze, ricorrentinella storia umana, che vogliono il male, ma operanocostantemente il bene.

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