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DISPENSA DI STORIA – dal Cinquecento all’Ottocento 1 1 COMPRENSIVO SETTIMO IV ANNO SCOLASTICO 2015-2016 CLASSE II H IL SUCCO DELLA STORIA TESTI SULL’ETÀ MODERNA PER UNA SECONDA MEDIA DISPENSA CURA DEL PROF. ALESSANDRO CAFARELLI E DEL PROF. LUCA VINAI

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DISPENSA DI STORIA – dal Cinquecento all’Ottocento 1

1

COMPRENSIVO SETTIMO IV

ANNO SCOLASTICO 2015-2016

CLASSE II H

IL SUCCO DELLA STORIA

TESTI SULL’ETÀ MODERNA

PER UNA SECONDA MEDIA

DISPENSA CURA DEL PROF. ALESSANDRO CAFARELLI E DEL PROF. LUCA VINAI

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1. LA DIVISIONE RELIGIOSA DELL’EUROPA

LEZIONE 1: MARTIN LUTERO E LA RIFORMA PROTESTANTE

1) La crisi morale della Chiesa

Come abbiamo visto lo scorso anno, nel periodo 1378-1449 la Chiesa cattolica aveva attraversato una lunga e drammatica crisi. Alla fine i papi erano riusciti a ristabilire la loro autorità su tutta la Chiesa e a creare un forte stato nell’Italia centrale, ma così facendo avevano privilegiato gli aspetti politici, comportandosi come gli altri sovrani, e avevano trascurato il loro ruolo di guida spirituale. Questo comportamento era diffuso anche fra le cariche più importanti della Chiesa: i cardinali e i vescovi. I cardinali eleggevano il papa e collaboravano con lui al governo della Chiesa; i vescovi avevano il compito di indirizzare verso i valori cristiani la vita dei fedeli e di vigilare sull’onestà e sulla moralità del clero parrocchiale della loro diocesi. In realtà quelle cariche erano ambite soprattutto perché erano fonte di ricchezza e perché davano a chi le ricopriva potere e prestigio politico. Il papato e la Chiesa, inoltre, erano sempre bisognosi di denaro e per procurarselo ricorrevano a mezzi che spesso apparivano ai fedeli inaccettabili. Fra questi vi erano le “indulgenze”, atti con i quali i religiosi, in cambio di denaro, concedevano ai fedeli il perdono dei propri peccati, garantendo loro la riduzione o l’annullamento delle pene da scontare nel purgatorio. La Chiesa solitamente chiedeva in cambio ai fedeli un’elemosina spontanea, ma il sistema produsse spesso abusi gravissimi: le indulgenze in alcuni casi divennero oggetto di un vero commercio, essendo vendute a prezzi molto elevati.

2) L’indulgenza tedesca del 1517 e le tesi di Luter o

Nel 1517 la Chiesa romana offrì ai fedeli tedeschi una grande indulgenza. La sua diffusione fu organizzata con mezzi puramente commerciali, che scandalizzarono le coscienze degli uomini più profondamente religiosi, fra i quali il monaco Martin Lutero. Nato il 10 novembre 1483, Lutero si fece monaco nel 1505 ed entrò nel convento della città di Erfurt, in Sassonia. Nel 1507 fu ordinato sacerdote; studiò poi teologia e divenne professore nell’Università di Wittenberg. In un breve scritto dell’ottobre 1517, composto di 95 enunciati o “tesi”, Lutero condannò il sistema delle indulgenze e sostenne che il papa non aveva il potere di condonare ai peccatori le pene, soprattutto se questo avveniva in cambio di denaro; inoltre affermò che era inaccettabile che tale denaro venisse sperperato nel lusso della corte papale. Le tesi di Lutero furono tradotte dal latino in tedesco e stampate in decine di migliaia di copie. Fu uno dei primi casi in cui l’arte della stampa poté dimostrare la sua straordinaria capacità di diffondere le idee.

Quando, nel 1520, il papa condannò Lutero, il monaco si era già procurato un largo consenso presso tutti i ceti sociali.

Negli anni seguenti i sostenitori di Lutero vennero definiti “protestanti” e l’intero movimento “Riforma protestante”.

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3) Le dottrine religiose di Lutero

In quegli stessi anni Lutero aveva approfondito le sue dottrine ed era giunto a sostenere la necessità di una profonda riforma della Chiesa. Egli sosteneva che l’elemento essenziale del Cristianesimo era la fede in Gesù: solo la fede poteva garantire la salvezza, evitando al cristiano di finire fra i dannati alle pene eterne dell’inferno. L’uomo infatti è profondamente peccatore e, da solo, con la sua volontà e con il suo comportamento, per quanto buoni, non può arrivare a guadagnarsi il paradiso. Secondo la dottrina cattolica, invece, l’uomo è libero di scegliere se salvarsi e lo può fare se aderisce alla fede e pratica le buone opere. Lutero affermava anche che, nella sua lunga storia, la Chiesa aveva aggiunto all’originario messaggio di Gesù pratiche inutili e dannose, come il culto dei santi e delle loro reliquie. La Chiesa, inoltre, aveva abusivamente moltiplicato i sacramenti: ma solo il battesimo e la comunione (o “eucaristia”) erano stati davvero istituiti da Gesù. La Chiesa aveva attribuito ai sacramenti il potere quasi magico di procurare da sé la salvezza, ma senza la fede, diceva Lutero, essi non avevano alcun valore.

4) I fedeli e i sacerdoti secondo Lutero

Lutero affermava che la vita dei cristiani doveva essere basata su una lettura semplice e diretta del Vangelo, che non tenesse conto dei commenti e delle interpretazioni aggiunte dai teologi nei secoli medievali. Con questo richiamo al testo originale del Vangelo, e quindi alla necessità di tornare alle fonti, Lutero era d’accordo con le idee affermate dal movimento culturale dell’Umanesimo. Affinché in Germania ogni fedele in grado di leggere potesse avvicinarsi al Vangelo, egli stesso fece una traduzione della Bibbia dal latino in tedesco. La Bibbia tradotta da Lutero, stampata in molte edizioni, ebbe un’enorme diffusione e dette un grande contributo alla formazione della lingua nazionale tedesca. Secondo Lutero il cristiano non aveva bisogno di sacerdoti che interpretassero il Vangelo e facessero da intermediari tra Dio e l’uomo, e il potere .del papa sulla Chiesa era un abuso che andava cancellato. Lutero sosteneva il principio del sacerdozio universale: ciascuno era sacerdote per se stesso e aveva il diritto del “libero esame”, cioè di leggere direttamente le Sacre Scritture e ricevere attraverso esse la fede e l’illuminazione dello Spirito Santo; il pastore, cioè il sacerdote della Chiesa riformata, era un semplice organizzatore della vita religiosa della comunità. Non vi era alcuna superiorità nella scelta di vita dei monaci e quindi tutti gli ordini religiosi andavano aboliti. Affermava che dovere degli uomini e delle donne era sposarsi, avere figli, lavorare, produrre, adempiere al proprio ufficio nel mondo; di conseguenza il divieto di matrimonio dei sacerdoti doveva essere abolito come contro natura.

PAROLE CHIAVE

INDULGENZA DOTTRINA

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LEZIONE 2: LE CHIESE RIFORMATE: LUTERANI, ANABATTIS TI, CALVINISTI

1) La diffusione della Riforma in Germania

Nel giugno del 1520 Lutero ricevette il documento papale che condannava come eretiche le sue dottrine, ma egli, con un atto di sfida, lo bruciò in pubblico. Nel gennaio 1521 il papa scomunicò Lutero e lo escluse dalla comunità dei fedeli; la scomunica esponeva l’eretico a gravi pene da parte dell’autorità ecclesiastica e di quella imperiale. Quando nell’aprile del 1521 fu convocato a Worms di fronte all’imperatore Carlo V e alla dieta imperiale (l’assemblea politica della Germania, composta dai maggiori principi), Lutero non ritrattò nessuna delle affermazioni che gli avevano procurato la condanna per eresia. A tre anni dalla pubblicazione delle tesi, i principi tedeschi e molti fedeli erano convinti della validità degli argomenti religiosi di Lutero e speravano in una riforma morale e religiosa della Chiesa. I principi, in realtà, avevano anche un interesse personale a sostenere Lutero: volevano impedire al papa di continuare a intromettersi negli affari politici ed economici della Germania. Le indulgenze apparivano come un sistema escogitato dalla corte papale per trarre denaro dai tedeschi, una nuova tassa che si aggiungeva alle varie decime e “oboli di san Pietro” che da sempre gravavano sul paese.

2) La guerra contadina del 1524-25

Le dottrine di Lutero si diffusero rapidamente e produssero radicali trasformazioni nei culto e nelle istituzioni ecclesiastiche. In alcuni casi i segni dell’antico modo di intendere la fede (le immagini dei santi e della Madonna, le reliquie, gli altari e i ricchi addobbi delle chiese) furono distrutti o dispersi. Lutero, però, disapprovava questi eccessi, perché temeva che disordini ed esasperazioni gli facessero perdere l’indispensabile appoggio dei principi, ai quali affidava il compito di organizzare e proteggere le Chiese protestanti. Questi timori si fecero ancora più vivi quando, nel 1524, una grande rivolta contadina sconvolse diverse regioni della Germania. L’obiettivo dei ribelli non era di natura religiosa: i contadini volevano difendere i loro diritti sui boschi e sulle terre comuni dei villaggi (caccia, raccolta della legna, pascolo) e regolamentare e limitare i tributi e le prestazioni di lavoro dovute ai signori feudali. La preoccupazione di Lutero che la Riforma fosse accusata di predicare la sovversione si rafforzò quando a capo dei ribelli della regione della Turingia si pose Thomas Munzer, un ex prete che considerava tutti i ricchi e i potenti come nemici della fede e incitava i contadini a distruggere castelli e conventi e a colpire senza pietà i loro oppressori. Nell’aprile del 1525, quando la rivolta era giunta al momento più duro, Lutero pubblicò un’opera intitolata Contro le bande di contadini empie e scellerate, nella quale incitava i principi tedeschi a combattere contro i ribelli. Il 15 maggio le truppe dei principi si scontrarono a Frankenhausen con l’esercito dei contadini. Almeno cinquemila contadini furono massacrati durante questa prima battaglia, ma molti di più vennero uccisi negli scontri successivi.

3) Il calvinismo Una nuova fase nella storia della Riforma si stava intanto aprendo per opera del francese Giovanni Calvino (1509-64). Calvino era molto più radicale di Lutero. Sostenne l’importanza del battesimo, ma

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considerò la comunione solo come un simbolo che doveva ricordare l’ultima cena di Gesù; Lutero, al contrario, era convinto che nel pane e nel vino consacrati fossero realmente presenti il corpo e il sangue di Cristo. Inoltre Calvino considerò fondamentale la dottrina della predestinazione, la decisione con cui Dio ha determinato il destino di ogni uomo prima ancora della sua nascita, stabilendo che alcuni, gli “eletti” (scelti), saranno salvati e altri saranno dannati. In maniera ancora più netta che nella dottrina luterana, secondo il calvinismo la salvezza di ogni uomo dipende non dalle sue opere ma solo dalla volontà di Dio, che decide in base a un progetto che li uomini non possono capire. La convinzione della predestinazione, però, non induceva i calvinisti ad accettare con rassegnazione il giudizio divino; secondo loro i veri cristiani, certi di far parte della schiera degli eletti, dovevano testimoniare la propria fede impegnandosi nel lavoro e nel bene di tutta la comunità.

4) Le Chiese calviniste

Dal 1534 il re di Francia aveva cominciato a combattere la diffusione delle idee protestanti. Calvino fu allora costretto a fuggire e dal 1541 si stabilì a Ginevra, una delle città svizzere che avevano già aderito alla Riforma: qui poté instaurare la propria chiesa. Le Chiese calviniste si distinguevano nettamente da quelle luterane per la loro organizzazione. Calvino non ammetteva che re e principi fossero i capi della Chiesa, come sosteneva Lutero. Al contrario, i pastori eletti dalle comunità dei fedeli dovevano avere un posto essenziale nel governo della società e vigilare che tutti seguissero rigidamente le regole della morale e della religione. Dalla metà del Cinquecento in poi, il calvinismo ebbe una diffusione più ampia della riforma luterana. Chiese calviniste comparvero in Germania, in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e Scozia e negli stati dell’Europa orientale.

PAROLE CHIAVE LUTERANESIMO SCOMUNICA DECIMA OBOLO CALVINISMO

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LEZIONE 3: STATO ECHIESA NELL’EPOCA DELLA RIFORMA

1) I principi tedeschi e la Riforma Le grandi rivolte contadine del 1524-25 costituirono un momento critico per la Riforma

luterana. I principi tedeschi si erano resi conto che la Riforma poteva trasformarsi in una violenta protesta politica e sociale; decisero allora di porsi alla sua guida, combattendone i movimenti più radicali. Secondo Lutero, d’altronde, era proprio compito dei principi vigilare che la vita delle Chiese si svolgesse nella pace e nell’ordine e che i pastori fossero uomini adatti alla funzione che erano chiamati a svolgere. I vantaggi economici e politici che i principi potevano ricavare da questo compito erano notevoli: difendere la Riforma significava realizzare la volontà di un numero ormai imponente di tedeschi, rafforzare il potere nei propri stati, ma anche abolire il clero e i monasteri cattolici e, di conseguenza, impossessarsi delle loro vaste ricchezze terriere. In Germania e negli altri paesi dell’Europa settentrionale (Danimarca e Svezia) che accolsero il luteranesimo, i principi riuscirono a porre sotto controllo la Chiesa riformata, dandole il tipo di organizzazione che meglio rispondeva ai loro interessi politici. La scelta religiosa del principe finì per essere imposta anche ai sudditi della regione da lui governata.

2) La fine dell’unità religiosa in Europa Se si considera la situazione degli ebrei un caso a sé, l’unità religiosa era rimasta per secoli

un elemento caratterizzante della civiltà europea. Nell’Europa medievale re e imperatori difendevano l’unica Chiesa universale, quella cattolica. Le eresie che erano nate periodicamente erano state fenomeni limitati, che la Chiesa aveva potuto reprimere anche appoggiandosi all’autorità e alla forza dei sovrani. La nascita del protestantesimo rappresentò una svolta storica fondamentale, perché fece scomparire definitivamente quell’unità. Sopprimere le nuove Chiese nate in opposizione alla Chiesa cattolica non era più tanto facile, perché esse avevano dalla loro parte la forza dello stato. Nell’Europa protestante ogni regno ebbe la sua Chiesa di stato, con la sua organizzazione, liturgia e verità di fede; sotto questo aspetto la Riforma protestante accentuò la tendenza, che in Europa esisteva già dal secolo precedente, alla creazione di Chiese nazionali controllate dai sovrani. Ma non tutti i principi tedeschi aderirono alla Riforma, cosicché alla tradizionale frammentazione politica della Germania si aggiunse la divisione fra stati cattolici e stati protestanti.

3) Enrico VIII e la Chiesa nazionale inglese

Un caso particolare si verificò nella Chiesa d’Inghilterra. Il re Enrico VIII Tudor aveva chiesto inutilmente al papa di concedergli il divorzio dalla prima moglie, la principessa spagnola Caterina d’Aragona, perché voleva contrarre un nuovo matrimonio. Di fronte al rifiuto del papa, il re si rivolse al parlamento per ottenere quello che voleva. Il parlamento, nel 1534, emanò una legge, chiamata “Atto di supremazia”, con il quale il re divenne il solo capo della Chiesa nazionale, che da quel momento venne detta “anglicana”. L’Atto di supremazia fu, più che una vera riforma religiosa, un’azione politica, cioè un nuovo passo verso il rafforzamento del potere regio. La creazione della Chiesa nazionale, infatti, comportò, oltre alla rottura con il Papa, pochi cambiamenti nelIa pratica religiosa. Il re si

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attribuì il potere di nominare i vescovi e di definire la retta fede cristiana; abolì gli ordini religiosi e si appropriò dei loro beni terrieri, mettendoli poi in vendita. Una vera riforma religiosa si realizzò solo dopo la morte di Enrico VIII. Con l’emanazione del Common Prayer Book (Libro della preghiera comune) nel 1549 e dell’Atto di uniformità nel 1552, la Chiesa dì stato anglicana riformò la messa e i sacramenti, abolì il celibato ecclesiastico e dichiarò illegale ogni forma di culto diversa da quella ufficiale. Continuarono a esistere tuttavia piccoli gruppi aderenti a confessioni diverse da quella anglicana, costretti a vivere la propria fede di nascosto, in clandestinità: una consistente minoranza degli inglesi continuò a seguire la fede cattolica, mentre altri cominciarono ad aderire al calvinismo.

4) La Riforma in Francia

In Francia penetrarono inizialmente le idee del luteranesimo, ma dopo il 1545 le Chiese calviniste sostituirono quelle luterane nell’attrarre chi abbandonava il cattolicesimo. I calvinisti (che in Francia erano chiamati ugonotti, termine derivato dalla parola tedesca Eidgenossen, “confederati”, usato per denominare i calvinisti svizzeri) avevano creato fino a quel momento duemila comunità. La religione riformata si era fortemente radicata nei porti atlantici (Nantes, La Rochelle, Bordeaux) e nelle città sud-occidentali, mentre la propaganda calvinista non influenzò il Nord della Francia, né Parigi. Verso il 1560 la Francia si trovò divisa in due “partiti” religiosi fortemente contrapposti e guidati da due grandi famiglie nobili: quella dei Borbone, a capo degli ugonotti, e quella dei Guisa, a capo e a Lega santa dei cattolici. Il conflitto religioso aveva anche aspetti politici: entrambe le casate erano, infatti, imparentate con la dinastia dei Valois e aspiravano a impadronirsi della corona.

PAROLE CHIAVE

CLERO LITURGIA ATTO DI SUPREMAZIA UGONOTTI

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LEZIONE 4: IL CONCILIO DI TRENTO E LA RIORGANIZZAZI ONE DELLA CHIESA CATTOLICA

1) Il concilio di Trento Solo nel 1545, dopo lunghi anni di polemiche, cominciò un concilio convocato per

discutere il problema della Riforma protestante. Il concilio fu convocato dal papa Paolo III a Trento. Nonostante i protestanti si fossero dichiarati disposti a discutere le loro dottrine, al concilio parteciparono, però, soltanto vescovi ostili alle idee della Riforma protestante. Il concilio di Trento si svolse, in varie fasi, fra il 1545 e il 1563 e fissò in maniera definitiva le verità della fede cattolica. La dottrina luterana sulla fede, considerata elemento che da solo è sufficiente alla salvezza dell’uomo, fu condannata. I cattolici ribadirono, invece, che l’uomo possiede il libero arbitrio, cioè la capacità di scegliere e operare secondo la propria volontà e che per ottenere la salvezza sono necessarie sia la fede sia le opere buone. Durante il concilio di Trento fu riaffermata l’importanza dei sacramenti, il cui numero fu fissato a sette; oltre al battesimo e alla comunione, la cresima, la confessione, il matrimonio, l’ordinazione sacerdotale, l’unzione degli infermi.

2) La repressione delle eresie e il controllo della cu ltura

Per il rifiuto di ogni compromesso con le Chiese protestanti, l’azione della Chiesa

cattolica viene spesso denominata “Controriforma”: con essa, infatti, la Chiesa romana riaffermò il proprio diritto a reprimere ogni forma di eresia. Per scoprire e condannare gli eretici che aderivano alle dottrine luterane, nel 1542 furono riorganizzati i tribunali dell’Inquisizione. Questi tribunali si erano costituiti nel XIII secolo, ma avevano ridotto le loro attività nel corso del XV, quando le vecchie eresie medievali erano state annientate; vennero rimessi in funzione da Paolo III. Per coordinare l’attività degli inquisitori nominati dal papa e sostenere la lotta contro il protestantesimo, fu istituita una apposita congregazione di cardinali, il Sant’Uffizio. Il concilio ordinò inoltre che venisse steso e periodicamente aggiornato indice dei libri proibiti, cioè di quei libri che diffondevano idee contrarie alla vera fede e il cui solo possesso era considerato reato da punire con gravi condanne. Vi erano, inoltre, anche libri “corretti”, sottoposti cioè a tagli, aggiunte, manipolazioni.

3) La Chiesa si rinnova

Per mantenere la posizione di preminenza del cattolicesimo sulle altre fedi, la Chiesa fece ricorso anche a mezzi diversi da quelli della pura repressione. Il concilio di Trento aveva riconosciuto la necessità di provvedere a una riforma della Chiesa e a moralizzare la vita del clero. I papi del Quattrocento e del primo Cinquecento si erano comportati come tutti gli altri sovrani, preoccupandosi di difendere e rafforzare i propri poteri politici e territoriali. Dopo il concilio di Trento, però, la Chiesa propose un nuovo modello di vita, più santa e devota, che papi, vescovi e preti dovevano seguire. Venne data molta importanza alla formazione dei preti e per questo furono istituiti i seminari. A tutto il clero fu riconfermato l’obbligo del celibato; ai vescovi fu imposto di risiedere nelle loro diocesi e di considerare la vita religiosa delle parrocchie come il loro compito primario.

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4) Nascono nuovi ordini religiosi

La Chiesa favorì poi la nascita di nuovi ordini religiosi, rivolti alla predicazione, all’insegnamento e all’assistenza dei bisognosi. Fra gli ordini nati in questo periodo (tra cui ricordiamo i camilliani e i barnabiti) vi fu la Compagnia di Gesù, fondata nel 1540 dallo spagnolo Ignazio di Loyola (1491-1556). I membri dell’ordine, i gesuiti, non pronunciavano soltanto i tradizionali voti monastici (obbedienza ai superiori, castità e povertà personale), ma aggiungevano un quarto voto speciale, l’obbedienza al papa. La Compagnia di Gesù diventò così uno strumento di lotta organizzato con una vera e propria disciplina militare e dotato di una grande preparazione teologica e culturale. L’insegnamento divenne presto una delle principali attività della Compagnia di Gesù. Nel 1548 a Messina venne aperto il primo dei quasi 500 collegi istituiti nello spazio di un secolo. Questi collegi offrivano una formazione culturale di prim’ordine e in essi venne preparata la classe dirigente, fatta di principi, ministri, nobili, funzionari e intellettuali, che avrebbe guidato l’opera di riconquista cattolica in Germania, Boemia, Polonia e Ungheria.

PAROLE CHIAVE CONCILIO LIBERO ARBITRIO TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE SEMINARIO CELIBATO DIOCESI

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LEZIONE 5: LE GUERRE DI RELIGIONE

1) L’impossibile convivenza fra cattolici e protest anti

A metà del Cinquecento in Italia, in Spagna e in Portogallo le autorità religiose e politiche avevano represso facilmente la diffusione delle idee protestanti. Negli altri paesi europei i cattolici e i protestanti erano costretti a convivere. Solo in alcune città libere tedesche si realizzò la situazione fortunata, ma eccezionale, di una convivenza relativamente pacifica: di norma, il potere statale proclamava come lecita un’unica confessione, quella protestante oppure quella cattolica, e si adoperava per reprimere quella minoritaria. La profonda divisione provocata dalla Riforma aveva perciò creato nuovi motivi di tensione, che potevano facilmente trasformarsi in conflitti armati. Per circa un secolo e mezzo (fino alla metà del Seicento) molte delle guerre combattute in Europa furono guerre di religione, a cominciare da quella che nel 1529 e 1531 oppose in Svizzera i cantoni protestanti a quelli cattolici. 2) Il conflitto fra Carlo V e i principi protestanti

Come abbiamo visto, nel 1521 l’imperatore Carlo V, rimasto cattolico, aveva condannato Lutero, ma per molti anni fece tutto il possibile perché cattolici e protestanti arrivassero a trovare un accordo sulle verità di fede. Nel 1530 i principi tedeschi protestanti costituirono una lega armata la Lega di Smalcalda, che nel 1546-47 scese in guerra contro l’imperatore.

Dopo vari scontri, nel 1555 i principi tedeschi si riunirono ad Augusta e firmarono una pace che, restando ben lontana dall’affermazione della libertà religiosa, trasformava in regola ufficiale quello che già stava avvenendo in tutti gli stati: i sudditi dovevano seguire la scelta religiosa del loro sovrano, secondo il principio espresso con la formula latina cuius regio eius religio (la religione sia quella di chi possiede la regione). Chi non intendeva uniformarsi a questa regola era costretto a emigrare, se non voleva incorrere nei rigori dell’intolleranza. 3) Le guerre di religione in Francia

Dopo la pacificazione della Germania i conflitti reIigiosi esplosero in Francia, dove era venuto crescendo il peso degli ugonotti. Una parte della nobiltà francese aveva aderito al calvinismo, facendone una organizzazione forte anche sul piano militare. Dal 1562 cominciarono gli scontri aperti fra cattolici e ugonotti. Nel 1572 giunsero a Parigi un gran numero di ugonotti in occasione del matrimonio fra Enrico di Borbone, uno dei capi dei calvinisti, e la sorella del re di Francia. L’evento poteva rappresentare un’occasione di riconciliazione tra le parti, invece i cattolici, appoggiati dalla monarchia, organizzarono un complotto e si diedero a una vera e propria caccia, che causò il massacro di tremila ugonotti a Parigi. Era la notte di san Bartolomeo, fra il 23 e i 24 agosto. Enrico di Borbone riuscì a salvarsi convertendosi al cattolicesimo e ottenendo la protezione della corte, mentre nei giorni seguenti nuovi massacri furono organizzati in altre città. La monarchia fu ritenuta responsabile del massacro di san Bartolomeo e perciò molti scrittori politici ugonotti teorizzarono che era giusto ribellarsi e persino assassinare il re.

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4) L’Editto di Nantes

Dopo il massacro di san Bartolomeo la guerra civile divenne ancora più violenta; cattolici e ugonotti si affrontarono per molti anni, senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere. Nel 1588 il re di Francia Enrico III di Valois, accusato di favorire gli ugonotti, fu assassinato da un fanatico cattolico. Poiché il re ucciso non aveva figli, unico erede possibile divenne il suo parente più vicino, Enrico di Borbone, tornato alla fede calvinista e diventato nuovamente capo del partito ugonotto. Mentre le truppe spagnole, sostenitrici dei cattolici, cominciavano a invadere il paese, egli si proclamò re di Francia con il nome di Enrico IV. Benché assediata da Enrico IV, ridotta alla fame e colpita da un’epidemia, Parigi rifiutò di riconoscere il re eretico: Enrico IV comprese allora che senza l’appoggio della capitale non sarebbe mai riuscito a diventare re di un paese che in maggioranza era rimasto cattolico. Cambiando fede per la terza volta, divenne nuovamente cattolico e accettò di fare del cattolicesimo la religione ufficiale del regno. Nel marzo 1594, dopo lunghe trattative, ottenne la resa di Parigi. Nell’aprile del 1598 Enrico emanò a Nantes l’editto che riportò la pace religiosa in Francia: gli ugonotti ebbero la libertà di coscienza e di culto, con la sola eccezione di Parigi e del suo territorio. Il calvinismo francese, che contava allora circa un milione di aderenti, restò molto forte nelle regioni sud-occidentali e qui gli ugonotti ottennero, a garanzia della loro sicurezza, anche un centinaio di fortezze, fra cui il porto atlantico di La Rochelle.

5) La rivolta dei Paesi Bassi Dopo la Svizzera, la Germania e la Francia, anche i Paesi Bassi furono teatro di una guerra

di religione. A partire dal 1545 il calvinismo si era diffuso con straordinaria rapidità fra gli artigiani, gli operai e i marinai di Anversa e delle altre maggiori città. Nel 1566 il re di Spagna Filippo II, che aveva la sovranità su queste regioni, decise di opporsi all’eresia con la forza. Allora i calvinisti passarono alla ribellione aperta. La guerra divenne quindi anche una lotta per l’indipendenza dei Paesi Bassi dal sovrano spagnolo. La repressione della rivolta assunse in principio forme così brutali da convincere i cattolici a schierarsi accanto ai calvinisti nella lotta contro la Spagna. In un secondo tempo i cattolici delle province meridionali (corrispondenti all’attuale Belgio) scesero a patti con la monarchia spagnola. I calvinisti emigrarono verso l’Olanda e le altre province settentrionali, che dal 1579 si proclamarono repubblica indipendente e proseguirono da sole una guerra che sarebbe durata ancora per molti anni.

6) La ripresa delle guerre di religione nel Seicento

Le guerre di religione conobbero una nuova fase nella prima metà del Seicento, venendo però a legarsi strettamente con vicende politiche sulle quali torneremo più avanti. In Inghilterra aveva avuto una grande diffusione il calvinismo, che non accettava il primato garantito dalla legge alla Chiesa anglicana. Il conflitto religioso si intrecciò poi con la rivoluzione promossa nel 1640 dal parlamento inglese contro il re Carlo I Stuart. Il secondo focolaio di scontri fu ancor la Germania. Qui il sistema stabilito dalla pace di Augusta del 1555 aveva funzionato per diversi decenni. Dopo il 1590, però, gli Asburgo avevano cominciato a perseguitare con accanimento le minoranze protestanti dei loro possessi d’Austria, mostrando così di voler modificare in favore dei cattolici l’equilibrio esistente nell’impero tedesco. La guerra detta “dei Trent’anni” che esplose nel 1618-19, coinvolgendo alla fine tutti gli stati europei, ebbe però anche caratteri politici, perché fu la conseguenza del

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tentativo degli Asburgo di imporre la loro supremazia sulla Germania e sull’Europa. La pace di Westfalia raggiunta nel 1648 incluse anche importanti clausole religiose: da quel momento fu infatti ammessa in Germania anche l’esistenza di stati calvinisti accanto a quelli cattolici (come l’Austria e la Baviera) e luterani (come la Sassonia e la Prussia).

PAROLE CHIAVE

LEGA GUERRA DI RELIGIONE ERESIA

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2. STATO E TERRITORIO NELL’EUROPA MODERNA

LEZIONE 1: GLI STATI: RISORSE E STRUMENTI

1) I regni feudali e lo stato moderno

Tra il XV e il XVI secolo si formò una nuova realtà politica che chiamiamo stato moderno. In questo periodo storico i sovrani riuscirono _ a concentrare nelle proprie mani poteri che da secoli erano esercitati sul territorio dalla nobiltà feudale. Ai nobili fu progressivamente impedito di svolgere una politica autonoma; conservarono alcuni privilegi (tra i quali non pagare le tasse, non essere giudicati dai tribunali ordinari), ma i loro titoli divennero, con il passare del tempo, puramente onorifici. l regni feudali erano un insieme di contee, marchesati e ducati, a loro volta frazionati in feudi minori e città, ciascuno con propri confini, leggi e tasse. Lo stato moderno aveva invece un unico sistema Iegislativo e fiscale, che si estendeva su un territorio delimitato da confini precisi.

2) Le risorse dello stato moderno: le finanze pubbl iche Uno degli aspetti caratteristici dello stato moderno era, appunto, il sistema della tassazione,

più efficiente rispetto al passato. In epoca feudale i re avevano fronteggiato le spese ricorrendo al proprio patrimonio familiare e a tasse facili da riscuotere, come quella sulla vendita del sale, di cui il sovrano aveva il monopolio. Altre tasse erano quelle dette “indirette”, perché non colpivano direttamente i patrimoni delle persone. Per esempio, vi erano tasse sul transito delle merci: ogni mercante che intendeva vendere le proprie merci in un mercato cittadino doveva versare una somma di denaro agli esattori pubblici per oltrepassare le porte della città; il mercante, poi, per mantenere il suo guadagno, vendeva le merci a un prezzo maggiore. La riscossione di nuove imposte doveva essere a provata dalle assemblee dei gruppi sociali (chiamati anche “ordini”) più importanti del regno. Queste assemblee, che cominciarono a essere convocate dal XIII secolo, erano denominate “parlamenti” in Inghilterra, “Stati Generali” in Francia,”cortes” nei regni spagnoli, “diete” in Germania. I membri dei primi due ordini, il clero (vescovi e abati) e la grande nobiltà, vi partecipavano personalmente; il terzo ordine (i cittadini e gli abitanti delle comunità rurali) inviava dei rappresentanti. Nel XV secolo la situazione incominciò a cambiare: in Francia, per esem-pio, l’autorizzazione concessa dagli Stati generali al re divenne una pura formalità. Dagli ultimi decenni del secolo la capacità degli stati nazionali di riscuotere le imposte e di amministrare le finanze pubbliche migliorò notevolmente; i re applicarono un maggior numero di imposte dirette, che colpivano i redditi o i patrimoni delle famiglie del regno. Il volume delle tasse pagate dai francesi, che era già raddoppiato fra il 1460 e il 1500, raddoppiò ancora nei quarant’anni successivi. La pressione fiscale restò invece più limitata nell’impero degli Asburgo e nelle altre monarchie elettive, perché in questo caso lo stato, cioè il sovrano, dipendeva dalla nobiltà e non poteva imporre liberamente la sua volontà.

3) Gli strumenti dello stato moderno: eserciti e ar mamenti

Un altro aspetto caratteristico dello stato moderno è che il possesso della forza militare, che prima il sovrano condivideva con i nobili, diventa esclusivamente del re.

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Per lungo tempo i sovrani avevano utilizzato solamente i servizi militari che i vassalli dovevano loro: per questo i bisogni finanziari delle monarchie non erano molto elevati. Ma la cavalleria feudale era spesso indisciplinata: le rivalità fra i nobili erano fonte di continui conflitti e provocavano guerre civili e anarchia, indebolendo le monarchie nei momenti meno opportuni. Per questo, a partire dal XIV secolo, i sovrani cominciarono a servirsi di truppe mercenarie (cioè composte di soldati che combattevano in cambio di uno stipendio o “mercede”), che si mostrarono più disciplinate della cavalleria feudale. Il ricorso sempre più rilevante a tali costose truppe di mercenari fu reso possibile dalle risorse finanziarie più abbondanti e costanti garantite dal nuovo sistema di tassazione; il ruolo dei nobili nelle imprese militari fu quindi limitato al comando degli eserciti regi. Queste trasformazioni nella composizione degli eserciti si accompagnavano a un mutamento nell’arte della guerra: la cavalleria, che era stata a lungo, con le sue cariche devastanti, la protagonista delle battaglie, veniva ora sostituita dai folti quadrati di fanteria formati da quattromila o cinquemila uomini armati di lunghe picche e alabarde, sostenuti da formazioni di balestrieri e arcieri.

4) La formazione degli eserciti nazionali

Le truppe mercenarie presentavano però alcuni aspetti negativi. Poteva succedere che durante lo svolgimento della guerra tradissero, passando dalla parte di chi le pagava meglio; oppure che, dopo essere state congedate alla fine di un conflitto, si sbandassero e si dessero ai saccheggi. A partire dal X secolo si verificò perciò un nuovo importante cambiamento: i sovrani cominciarono a costituire eserciti nazionali che restavano sempre in servizio, anche nei periodi di pace, e che erano comandati da ufficiali regi. Questi eserciti nazionali permanenti rimarranno però ancora per secoli affiancati da truppe mercenarie. Tali trasformazioni furono associate a un’evoluzione delle tecniche militari. La comparsa delle armi da fuoco individuali, gli archibugi (antenati del fucile) e le pistole, e la maggior diffusione dei cannoni resero infatti in breve tempo superati i quadrati di fanteria, tipici delle truppe mercenarie. Solo i re capaci i sottoporre i sudditi a un regolare prelievo fiscale erano ormai in grado di stipendiare eserciti numerosi e di procurarsi i nuovi armamenti costituiti dai cannoni.

5) I principi e l’amministrazione della giustizia

La sovranità statale si manifestava non solo attraverso l’imposizione fiscale e il possesso esclusivo della forza militare, ma anche attraverso il controllo delle leggi e l’esercizio della giustizia. La società feudale era stata caratterizzata da una grande varietà di sistemi giuridici. Ancora nel XV secolo le norme che riguardavano il matrimonio e la famiglia erano di competenza della Chiesa, mentre altre materie di diritto privato, come le successioni ereditarie, erano regolate da consuetudini diverse da regione a regione. I poteri di “alta giustizia”, quelli relativi ai delitti più gravi (omicidi furti violenze) per i quali era contemplata anche la pena di morte, erano stati abitualmente esercitati dalle autorità feudali. I re degli stati moderni pretesero di assumere il controllo sull’alta giustizia. Le corti regie iniziarono a sostituire i poteri feudali locali, che tuttavia conservarono a lungo l’amministrazione della “bassa giustizia”, relativa a reati minori che venivano puniti con multe e pene corporali.

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6) La burocrazia statale

Per amministrare il nuovo stato, i re avevano bisogno di un corpo numeroso e specializzato di funzionari, composto dai giudici delle corti di grado più elevato, dagli esperti di diritto di moneta e finanza, dagli amministratori della fiscalità regia. I funzionari dello stato presiedevano i tribunali, mantenevano l’ordine nelle province, raccoglievano le imposte, curavano le finanze pubbliche. Lo stato moderno aveva una delle sue basi essenziali in questa burocrazia, dotata di precise competenze giuridiche, amministrative, economiche. I luoghi dove si concentravano gli uffici statali nei vari settori dell’amministrazione, della fiscalità e della giustizia erano le capitali, che acquistarono perciò un ruolo di primo piano divenendo il centro dello stato.

PAROLE CHIAVE SISTEMA LEGISLATIVO E FISCALE TASSE MERCENARIO BUROCRAZIA STATALE

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LEZIONE 2: LA MONARCHIA ASSOLUTA

1) Le origini e lo sviluppo dell’assolutismo

Come abbiamo visto, durante il Medioevo il potere dei re era sottoposto a diverse limitazioni: essi dovevano rispettare le autonomie delle città e delle province, i privilegi della nobiltà e l’autorità della Chiesa; per imporre le tasse, necessarie a realizzare la loro politica, dovevano inoltre ottenere il consenso dei rappresentanti del regno riuniti in assemblee. Ma con lo stato moderno cambiava il concetto di sovranità. Uno stato sovrano non derivava da nessun altro il suo potere, non riconosceva alcuna autorità sopra di sé e non ammetteva, al proprio interno, istituzioni autonome: era assoluto (termine che deriva dal latino. ab-solutus, “sciolto, slegato, svincolato”). I sovrani assoluti, che erano l’incarnazione dello stato, erano “sciolti” da ogni vincolo: essi continuarono a convocare i parlamenti, ma non ammisero più che questi discutessero o respingessero le loro decisioni. Come già era accaduto all’epoca della Riforma protestante, la stampa favorì la diffusione delle nuove idee: le teorie dell’assolutismo furono esposte in numerosi libri, tra cui I sei libri della Repubblica (1576), del francese Jean Bodin, e Il leviatano (1651), dell’inglese Thomas Hobbes.

2) La monarchia assoluta e la Chiesa La monarchia assoluta cercò di limitare anche Il potere della Chiesa, Già nel XV secolo si

venne sviluppando una Chiesa nazionale, che dipendeva dal re e non dal papa: i vescovi venivano scelti dai re, e solo successivamente il papa li consacrava, e le decisioni dei papi e dei concili non avevano un’esecuzione automatica nel regno, ma dovevano essere prima accolte dalle leggi dello stato. Una grande svolta si ebbe dal 1520-30, quando in Europa si verificò la rottura dell’unità religiosa. I re divennero gli unici capi delle nuove Chiese protestanti, nate in opposizione al papato romano; ma anche negli stati rimasti cattolici, come in Francia o in Spagna, i sovrani mantennero un ampio potere sull’organizzazione ecclesiastica.

3) L’assolutismo in Francia

Come abbiamo visto nella parte precedente, nella seconda metà del Cinquecento la monarchia francese aveva attraversato un periodo di crisi, dovuto alle lotte fra cattolici calvinisti, che si era concluso con l’estinzione della dinastia dei Valois e il passaggio della corona alla famiglia dei Borbone. Nel secolo successivo, per due volte, la morte precoce del sovrano portò sul trono, per diritto di successione, dei re bambini: alla morte di Enrico IV, che fu assassinato da un fanatico cattolico nel 1610, suo figlio Luigi XIII aveva nove anni; alla morte di Luigi XIII, nel 1643, suo figlio Luigi XIV ne aveva soltanto cinque. I ceti feudali cercarono di approfittare della situazione per ristabilire il loro potere, ma in entrambi i casi lo stato si dimostrò più forte. I ministri dei due sovrani minorenni, prima il cardinale Richelieu (dal 1624 al 1642) e poi il cardinale Mazarino (dal 1642 al 1661), seppero usare la forza delle armi e la fedeltà dei funzionari statali per ricondurre all’obbedienza la nobiltà ribelle. Un ulteriore passo verso il consolidamento dell’assolutismo si verificò nel 1661, quando Luigi XIV cominciò a esercitare personalmente il potere. La sua formula “Lo stato sono io” riassumeva bene il programma di governo assolutista. Il solo responsabile delle scelte politiche

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era il re; il regno veniva sottoposto al controllo da parte di funzionari che dipendevano esclusivamente dalla nomina regia e potevano quindi essere sostituiti in ogni momento. 4) L’assolutismo dalla Francia all’Europa

Nella seconda metà del Seicento la Francia era il regno in cui la centralizzazione del potere era più forte: la guida dello stato era nelle mani e sovrano e della ristretta cerchia dei suoi collaboratori, il più importante dei quali era il primo ministro Colbert (dal 1661 al 1683) . Attraverso il saldo potere che riusciva a esercitare sulla società, la monarchia francese poteva disporre di ampie risorse fiscali ed era in grado di mantenere l’esercito più numeroso d’Europa. Nelle grandi scelte di politica interna ed estera Luigi XIV faceva valere a sua volontà senza aver bisogno di ottenere il consenso di altri. La monarchia assoluta francese divenne un modello per tutta l’Europa: fra la fine del XVII secolo e il principio del XVIII le monarchie di molti altri paesi europei (come la Russia e la Prussia) avviarono riforme per ottenere un rafforzamento dei poteri statali.

PAROLE CHIAVE ASSOLUTISMO

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LEZIONE 3: LA MONARCHIA PARLAMENTARE INGLESE

1) Le tendenze assolutistiche e il contrasto con i pur itani

Dal XIII secolo i sovrani inglesi dovevano governare in accordo con il parlamento. Le due camere di questa assemblea, i lords e i comuni, difendevano gli interessi dei diversi gruppi sociali che vi inviavano i propri rappresentanti: la nobiltà e i vescovi nella camera dei lords, le città e le contee nella camera dei comuni. Con l’avvento della dinastia dei Tudor, che salì al trono nel 1485 alla fine di una lunga guerra civile, l’Inghilterra fu uno dei primi stati europei a svilupparsi secondo forme assolutistiche. Nel 1534, il re Enrico VIII Tudor (1509-47) proclamò l’autonomia della Chiesa nazionale e Inglese (“anglicana”) e se ne dichiarò capo. Sua figlia Elisabetta I (1558-1603) rafforzò il potere della monarchia, ma morì senza lasciare eredi: la successione toccò a una dinastia imparentata con i Tudor, gli Stuart, che già regnavano sulla Scozia. La Chiesa anglicana, che aveva sostenuto l’assolutismo monarchico, non rappresentava però le scelte religiose di tutta la popolazione: oltre alla minoranza cattolica, esisteva in Inghilterra un gruppo di calvinisti, chiamati “puritani”; essi condannavano ogni forma di lusso e sostenevano che la vita privata dei fedeli doveva seguire rigide regole morali. Dopo l’avvento degli Stuart, il puritanesimo accrebbe la sua influenza, rifiutò la Chiesa di stato anglicana e rivendicò maggiore libertà nell’organizzazione delle proprie comunità.

2) La rivoluzione inglese

Con la salita al trono di Carlo I Stuart alle tensioni religiose si aggiunse il conflitto fra il re e il parlamento, che non voleva concedere al sovrano il diritto di imporre nuove tasse. Il sovrano reagì convocandolo più raramente e istituendo nuove tasse senza la sua approvazione. Ma nel 1646 Carlo I fu costretto a riconvocarlo per ottenere i fondi necessari a reprimere una rivolta scoppiata in Scozia. Il conflitto che subito esplose tra sovrano e parlamento si trasformò in una guerra civile fra i seguaci della camera dei comuni del parlamento, sostenuti dai puritani, e quelli del re, sostenuti dalla nobiltà e dalla Chiesa anglicana. Tale conflitto politico divenne anche una guerra di religione. Alle cause politiche e religiose della rivoluzione si devono aggiungere cause di carattere sociale. Gli aristocratici, riuniti intorno al re, erano in conflitto con la piccola nobiltà e i borghesi di Londra e delle città. Il parlamento ebbe l’appoggio delle regioni del sud-est, quelle dove l’agricoltura era più evoluta e prevalevano interessi economici mercantili: dove, quindi, la forza della borghesia era maggiore. Dalla parte del re restarono invece le regioni del nord-ovest e dell’ovest, meno densamente popolate e urbanizzate, dominate da un’economia agricola e pastorale più arretrata, dove era ancora forte il potere dell’aristocrazia. Carlo I fu sconfitto e nel 1649 fu posto sotto processo per aver tradito i suoi doveri, perché aveva cercato di abolire i poteri che la tradizione attribuiva al parlamento, e condannato a morte. Era accaduto più volte che un re venisse ucciso in una congiura; ma Carlo Stuart fu il primo sovrano europeo a essere giustiziato da un parlamento nazionale che affermava la propria superiorità sulla monarchia. Alla condanna del re seguì la proclamazione della repubblica (Commonwealth, che significa “bene comune” o “bene pubblico”).

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3) La restaurazione e la “gloriosa rivoluzione”

L’Inghilterra, diventata una repubblica, non riuscì a raggiungere una forma di governo stabile. Nel 1653 Oliver Cromwell, che durante la guerra civile aveva comandato l’esercito della fazione parlamentare, riunì nelle sue mani tutti i poteri, stabilendo una sorta di dittatura militare. Alla sua morte il paese rischiò di precipitare nel caos. Nel 1660 venne restaurata la monarchia degli Stuart, ma i rapporti fra i sovrani e il parlamento restarono difficili. Nel 1688 il parlamento depose l’ultimo Stuart, Giacomo II, che aveva tentato di restaurare il cattolicesimo, senza ricorrere all’uso delle armi: per questo si parlò di “gloriosa rivoluzione”. Il Parlamento offrì la corona al capo della repubblica olandese Guglielmo III d’Orange, che aveva sposato Maria Stuart, la figlia maggiore di Giacomo. Nel 1689 Guglielmo III d’Orange venne proclamato sovrano d’Inghilterra insieme alla moglie e accettò un documento intitolato “Dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights) che definiva i limiti e le caratteristiche del potere della monarchia .

4) La monarchia costituzionale inglese Con il Bill of Rights la Gran Bretagna (derivata dall’unione dell’Inghilterra con Scozia e Irlanda) sperimentava un’organizzazione statale del tutto nuova: rimaneva una monarchia, ma era stato il parlamento a portare sul trono Guglielmo. Nella nuova monarchia il potere era diviso fra il re e il parlamento: il monarca conservava il diritto di nominare il governo e controllava pienamente la politica estera, ma non poteva modificare le leggi senza il consenso della camera dei Comuni e doveva seguire regole precise per. convocarla e scioglierla. Una legge votata nel 1689 garantì ai cittadini le libertà individuali, da quella di religione a quella di stampa, e la tutela da atti polizieschi (arresti o perquisizioni) non autorizzati da un giudice. La Gran Bretagna diventò, in seguito a questi provvedimenti, il primo esempio in Europa di monarchia costituzionale.

PAROLE CHIAVE PURITANI GUERRA CIVILE MONARCHIA COSTITUZIONALE

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LEZIONE 4: GLI STATI E LA GUERRA 1) Le prime guerre di predominio in Italia e in Eur opa

I re moderni si identificarono profondamente con lo stato e fra i loro compiti primari posero quello di espanderne il territorio con guerre e conquiste. Già dalla fine del Quattrocento le grandi monarchie, in possesso di un’adeguata forza militare ed economica, cominciarono a impegnarsi in guerre che avevano lo scopo di imporre il loro predominio sull’Europa. I primi scontri opposero la Francia e la Spagna ed ebbero come obiettivo la conquista dell’Italia. La guerra divenne particolarmente intensa quando un solo uomo, l’imperatore e re della Spagna Carlo d’Asburgo, riuscì a riunire nelle sue mani una potenza straordinaria e temibile. Nato nel 1500 a Gand, nelle Fiandre, il principe Carlo era figlio della principessa Giovanna di Castiglia e del principe Filippo d’Asburgo. I suoi nonni materni erano Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona; i nonni paterni erano Massimiliano d’Asburgo, duca d’Austria e imperatore tedesco, e la duchessa Maria di Borgogna, che possedeva i Paesi Bassi (un territorio corrispondente all’incirca agli attuali Belgio e Olanda). Carlo ereditò tutti questi territori e nel 1519 venne anche eletto imperatore. La guerra che oppose Carlo V e il re di Francia Francesco I di Valois cominciò nel 1521 e si prolungò anche durante il regno dei loro successori, fino al 1559. Il suo principale risultato fu di far ottenere alla Spagna il possesso diretto della Lombardia e del Regno di Napoli e Sicilia, ma anche quasi tutti gli altri piccoli stati italiani accettarono di rimanere soggetti alla supremazia spagnola. Nello stesso periodo Carlo V aveva cercato di trasformare l’impero tedesco in uno stato unitario e di costringere i protestanti a tornare alla fede cattolica. Il re di Francia, pur combattendo i protestanti interno del suo regno, per indebolire il suo avversario decise di intervenire a fianco dei principi luterani nella guerra di religione che li opponeva all’imperatore. Questa scelta si rivelò vincente: il tentativo di Carlo V di imporre il suo predominio sulla Germania, e quindi sull’Europa, si risolse in un fallimento. 2) La guerra dei Trent’anni Prima della sua morte, avvenuta nel 1558, Carlo V divise i suoi domini in due: suo fratello Ferdinando I ebbe la corona di imperatore e allargò i propri possedimenti ottenendo anche i regni di Boemia e Ungheria; al figlio Filippo II andarono la Spagna con le colonie americane, i possedimenti italiani e i Paesi Bassi. Dopo lo scontro tra Carlo V e Francesco I, le guerre di predominio proseguirono secondo uno schema che si ripeteva sempre uguale: ogni volta che uno stato si sentiva abbastanza forte, cercava di conquistare altri territori; ciò provocava l’opposizione di un altro stato, che si sentiva minacciato. I due contendenti cercavano degli alleati e la guerra proseguiva fino a quando l’esaurimento delle risorse finanziarie non li costringeva ad avviare trattative di pace. La più importante guerra di predominio del XVIl secolo fu la guerra detta “dei Trent’anni” (1618-1648). Alle origini del conflitto vi fu il nuovo tentativo degli Asburgo d’Austria di imporre il loro pieno dominio sugli stati tedeschi e di conquistare la supremazia sull’intera Europa. Essa fu nello stesso tempo anche una guerra di religione, perché gli Asburgo cercarono di riportare il cattolicesimo negli stati tedeschi protestanti. L’odio religioso e la violenza militare provocarono massacri e atrocità e lasciarono la Germania devastata.

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Gli Asburgo d'Austria ebbero l'appoggio della Spagna, ma dovettero fronteggiare le monarchie protestanti di Danimarca e Svezia e infine l'intervento della Francia. Con la pace di Westfalia (1648) l'Austria fu costretta a riconoscere l'autonomia degli stati tedeschi e la libertà religiosa di quelli protestanti. La Spagna, dopo una lotta che era iniziata nel 1579 (vedi la lezione 5 della parte 1) fu costretta a riconoscere l’indipendenza delle Province Unite (l'attuale Olanda), ma mantenne il controllo delle regioni meridionali dei Paesi Bassi.

3) Le guerre di Luigi XIV

Dopo la sconfitta del tentativo degli Asburgo, la Francia diventò la maggiore potenza europea. L’assolutismo, che si era realizzato in Francia nella forma più compiuta, faceva di questo stato una potente macchina amministrativa e militare, che non aveva altri eguali al mondo. Luigi XlV, che regnò dal 1661 al1715, poté allora sfidare per quattro volte l’Europa; i Paesi Bassi spagnoli, l'Olanda, la Germania e infine la Spagna furono l'oggetto delle sue ambizioni. Ogni volta le iniziative di Luigi X1V fecero sorgere vaste alleanze antifrancesi, che inclusero in particolare l'Austria e l'Inghilterra, ma solo a fatica tali coalizioni riuscirono a sconfiggere la potente Francia e a costringerla a rinunciare ai suoi progetti di egemonia sul continente.

PAROLA CHIAVE SUPREMAZIA

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LEZIONE 5: L’EUROPA E LE SUE FRONTIERE ESTERNE

1) Le frontiere rischiose dell’Europa

Nel XV secolo i confini orientali dell’Europa erano minacciati da due imperi: quello mongolo e quello turco. I mongoli erano un popolo nomade proveniente dalle steppe dell’Asia, a sud del lago Bajkal. Sotto la guida di Gengis Khan e dei suoi successori, i mongoli si impadronirono del regno cinese e, sconfiggendo a più riprese le popolazioni musulmane, giunsero nel XIII secolo sino alla Mesopotamia. I turchi, invece, erano una popolazione proveniente dalla regione ad est del lago d’Aral che dall’XI secolo si era stanziata in Asia minore e aveva aderito alla religione islamica. Fra il XIII e il XIV secolo, sotto la dinastia degli Ottomani, i turchi combatterono una guerra santa contro l’indebolito Impero bizantino, e, a partire dal 1354, conquistarono i primi territori sul continente europeo, al di là dello stretto dei Dardanelli.

2) L’Europa e l’Impero turco L’espansione degli Ottomani nella penisola balcanica proseguì per un secolo e nel 1453

trovò il suo coronamento con l’assedio e la conquista di Costantinopoli, che divenne la capitale del loro impero. L’Impero turco continuò poi a espandersi nel Mediterraneo, in Asia e in Africa settentrionale. A partire dal 1521 il sultano Solimano il Magnifico (l520-1560) condusse un profondo attacco contro l’Europa. Con la grande vittoria ottenuta nel 1526 a Mohács aggiunse ai suoi possedimenti metà dell’Ungheria. La frontiera fra l’Impero ottomano e l’Europa correva così a poche decine di chilometri dall’Austria. Nel1529 le truppe di Solimano posero Vienna sotto assedio e nel 1541 riuscirono a conquistare Budapest. Da quel momento l’Europa centro-orientale fu costantemente esposta alla minaccia di un’ulteriore espansione turca. La spinta espansiva dei sultani ottomani proseguì nel 157l con la conquista dell’isola di Cipro: con la presa di questo possedimento veneziano, i turchi ottenevano il pieno controllo sul Mediterraneo orientale. Subito si formò una lega fra stati cattolici che comprendeva Spagna, Venezia, Genova e il papa. Nell’ottobre del 1571, di fronte a Lepanto, sulla costa greca, si svolse una grande battaglia navale, cui parteciparono 230 navi turche e 208 cristiane. La flotta turca fu quasi completamente distrutta e il pericolo per l’Europa cristiana fu per il momento scongiurato.

3) La decadenza dell’Impero ottomano Nella seconda metà del Seicento cominciò una nuova fase di guerre. A partire dal 1661 i sultani cominciarono ad avanzare verso nord, conquistarono la Transilvania, ma nel 1664 furono fermati a ottanta chilometri da Vienna da un esercito cristiano guidato dall’imperatore Leopoldo I. Nel 1669 i turchi tolsero ai veneziani il possesso dell’isola di Creta. Una spedizione ancora più grande fu preparata nel 1683: i turchi assediarono Vienna per due mesi, ma alIa fine vennero sconfitti dalle forze congiunte dell’Austria e della Polonia. La situazione era molto cambiata rispetto a un secolo prima. Mentre l’Europa stava attraversando un notevole sviluppo economico, tecnico, scientifico e militare l’impero ottomano si era fermato, chiuso in un orgoglioso senso di superiorità. Basti pensare che fino alla fine del Settecento in Turchia fu vietato installare tipografie, perché si pensava fossero incompatibili con i precetti dell’islamismo; la diffusione delle conoscenze era affidata solo ai libri manoscritti.

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Nel 1699, dopo sedici anni di guerra, l’impero ottomano si vide imporre dall’Austria un trattato di pace che gli toglieva l’Ungheria e la Transilvania. Fu il primo passo verso la dissoluzione dell’Impero. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento i turchi furono più volte sconfitti dall’Austria e dalla Russia, che occuparono tutti i domini ottomani nei Balcani e sul Mar Nero.

4) I khanati mongoli e la Russia

Nel corso del XIII secolo, l’impero mongolo si era suddiviso in quattro diversi khanati. Il khanato dell’Orda d’Oro (che includeva parte dell’Asia centrale e le steppe dell’Ucraina e della pianura del Volga) era quello che continuava a minacciare l’Europa orientale. A fare le spese delle violenze e delle razzie dell’Orda d’Oro fu la Russia; i principati russi (come quello di Mosca) riuscivano a evitare i saccheggi più devastanti solo pagando un pesante tributo annuale ai dominatori mongoli. Negli ultimi decenni del Trecento, però, l’Impero mongolo dell’Orda d’Oro cominciò a indebolirsi e a dividersi in khanati più piccoli.

5) L’impero degli zar in Russia

Tra i primi ad approfittare della debolezza dei khanati mongoli fu il regno di Polonia, che occupò la regione immensa, ma scarsamente popolata, dell’Ucraina, divenendo il più esteso stato d’Europa. Anche i principi di Mosca approfittarono del disfacimento dell’Orda d’Oro e dal 1476 cessarono di pagarle il tributo annuo. In seguito all’occupazione turca di Costantinopoli, il gran principe Ivan III (1462-1505) si proclamò erede dell’impero bizantino e fece di Mosca il centro del cristianesimo ortodosso. La Moscovia sottomise quindi gli altri principati della Russia settentrionale e Ivan IV(1533-84) adottò il titolo di zar, cioè di imperatore di tutta la Russia. Sotto lo stesso Ivan IV, soprannominato il Terribile per la violenza con cui impose il suo potere sulle famiglie nobili, cominciò l’espansione russa nelle regioni del Don e del Volga, a spese dei khanati mongoli. Ancora per secoli le pianure a nord del mar Nero e del Caspio rimasero scarsamente abitate. Là si rifugiavano i contadini che sfuggivano alla servitù, ottenendo la protezione dei cosacchi, i soldati di cavalleria incaricati di tener lontani i mongoli. Nel 1648 i cosacchi ucraini si ribellarono contro la Polonia e, dopo qualche anno di guerra, portarono gran parte dell’Ucraina sotto il dominio degli zar russi.

PAROLE CHIAVE

SULTANO COSACCO ZAR

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3. LE GRANDI SCOPERTE E GLI IMPERI COLONIALI

LEZIONE 1: LE GRANDI SCOPERTE GEOGRAFICHE

1) La Terra secondo i mappamondi medievali

Al principio del Duecento l’Europa aveva una conoscenza molto limitata e approssimativa della geografia terrestre. I mappamondi realizzati in questo periodo includevano i tre continenti allora noti, disposti intorno al mar Mediterraneo: l’Asia a oriente, l’Europa a nord e l’Africa a sud. La Terra era raffigurata come una superficie circolare piatta, interamente circondata dalle acque di un grande mare, l’oceano. Queste mappe avevano un carattere più simbolico-religioso che geografico; collocavano al centro del mondo la città sacra di Gerusalemme e al limite estremo dell’Oriente il Paradiso Terrestre, da dove nascevano i quattro fiumi principali: il Nilo,il Tigri, l’Eufrate e l’Indo. La rappresentazione dell’Africa includeva solo le sue regioni mediterranee e si fermava al Sahara; quella dell’Asia arrivava alla Mesopotamia, prolungandosi in modo vago fino al fiume Indo. All’epoca dell’impero romano, infatti, i mercanti occidentali avevano navigato abitualmente fra il mar Rosso e l’India; ma dopo la sua caduta nessun europeo si era avventurato nell’oceano Indiano fino al XIII secolo e i commerci con l’Oriente avvenivano solo grazie a intermediari arabi ed egiziani. Ben poco si sapeva del golfo Persico, confuso nei mappamondi con il mar Caspio, che era erroneamente rappresentato come un mare aperto, a diretto contatto con l’oceano.

2) Le navigazioni atlantiche dei portoghesi Negli stessi anni in cui i cinesi avevano esteso le loro conoscenze a tutto l’oceano Indiano e

si erano spinti fino al mar Rosso, i portoghesi avevano appena cominciato a esplorare la parte dell’Atlantico di fronte al Marocco. In una prima fase, tra il 1415 e il 1430, avvistarono e occuparono gli arcipelaghi atlantici: le Canarie (che in seguito divennero un possesso spagnolo), Madera (considerata una colonia adatta per installarvi piantagioni di canna da zucchero) e, nell’oceano ancora più aperto, le Azzorre. Appresero l’utilizzo dei venti e delle correnti per la navigazione e superarono le vecchie paure dei mostri e dei mari infuocati che si diceva attendessero chi si fosse spinto nell’area tropicale. Dopo il 1440 i viaggi portoghesi lungo la costa africana furono organizzati in maniera sempre più sistematica. Si stava profilando una nuova meta: completare la navigazione attorno al continente africano per raggiungere l’oceano Indiano e le sue ricchezze. Fino a quel momento le merci preziose dell’Oriente avevano raggiunto l’Europa sulle navi dei mercanti orientali, che le vendevano nei porti del mar Rosso e del golfo Persico; poi, percorrendo le piste carovaniere, i mercanti arabi le conducevano ai porti dell’Egitto e della Siria. Qui arrivavano i veneziani che, pagando elevati dazi ai sultani egiziani, acquistavano il pepe e le altre spezie che rivendevano in tutta l’Europa. Realizzando i loro progetti, i portoghesi avrebbero potuto sostituirsi ai veneziani e fare a meno degli intermediari arabi ed egiziani.

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3) Lungo le coste dell’Africa

L’esplorazione portoghese lungo le coste dell’Africa occidentale, alla ricerca di un passaggio diretto dall’Atlantico all’oceano Indiano, si protrasse per diversi decenni. La scoperta che la costa africana piegava a un certo punto verso est, nell’ampio golfo di Guinea, fece sembrare vicino l’obiettivo ultimo dell’impresa; ma, dopo aver oltrepassato l’equatore, i portoghesi scoprirono che la costa continuava a procedere verso sud. Il continente si rivelava assai più esteso del previsto e si temeva che il passaggio ricercato fosse irraggiungibile o non esistesse. L’oceano Indiano era forse un mare chiuso, come suggeriva l’opera geografica realizzata nel II secolo da Claudio Tolomeo, da poco tradotta in latino e data alle stampe nel 1477 .

4) Il progetto di Colombo: il percorso atlantico Nel 1484 il navigatore genovese Cristoforo Colombo presentò al re del Portogallo un

progetto di viaggio alternativo. Il progetto era basato sulla dottrina della sfericità della Terra, ormai comunemente accettata dagli astronomi e dai geografi. Se la Terra era una sfera, si poteva raggiungere la Cina e l’India sia navigando nell’oceano Indiano verso oriente, sia procedendo verso occidente. Visto che l’ostacolo dell’Africa continuava a rivelarsi insuperabile, Colombo proponeva di tentare la via dell’oceano Atlantico. Per convincere il sovrano che la sua proposta era praticabile, Colombo la completò con delle stime sulla lunghezza del viaggio che partivano dalla convinzione che la circonferenza della Terra non fosse molto grande: partendo dalle Canarie, la distanza fino al paese più orientale dell’Asia, il Giappone, infatti, era considerata non molto superiore a quella che correva da un capo all’altro del Mediterraneo.

5) La rotta del capo di Buona Speranza e il viaggio di Colombo

Il re del Portogallo e i suoi consiglieri non si fecero convincere dall’ottimismo e dall’entusiasmo del genovese e continuarono a preferire la via africana. La loro fiducia nella rotta consueta venne premiata nel 1488, quando la spedizione guidata da Bartolomeo Diaz scoprì e doppiò il capo di Buona Speranza, la punta più meridionale dell’Africa, passando così dall’oceano Atlantico all’oceano Indiano. Colombo si rivolse allora alla regina Isabella di Castiglia, che, mettendo da parte le obiezioni sollevate dai suoi geografi e astronomi, autorizzò il viaggio verso l’Asia orientale. Partito dal porto di Palos il 3 agosto del 1492, Colombo raggiunse le isole Canarie e, dopo una lunga sosta, il 6 settembre iniziò la traversata dell’Atlantico. Il 12 ottobre 1492, dopo trentasei giorni di navigazione in oceano aperto, la piccola flotta spagnola avvistò un’isola delle Bahamas. Colombo sbarcò poi a Cuba e ad Haiti convinto di essere vicino al Giappone o alla Cina. Qualche anno dopo anche la rotta opposta seguita dai portoghesi raggiunse la meta. Cominciato nel luglio 1497, il viaggio della flotta comandata da Vasco da Gama si concluse nel maggio 1498 con l’arrivo nel porto di Calicut, nell’India sud-occidentale. Il grande periodo delle esplorazioni europee si chiuse con la spedizione di Ferdinando Magellano che, proseguendo la rotta del capo di Buona Speranza, compì, nel 1519- 22,l a circumnavigazione della Terra.

PAROLE CHIAVE PISTA CAROVANIERA - CIRCUMNAVIGAZIONE

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LEZIONE 2: GLI IMPERI COLONIALI: PORTOGALLO E SPAGN A

1) I portoghesi fondano l’impero delle spezie I portoghesi trovarono nell’oceano Indiano un complesso sistema di scambi nel quale

riuscivano a convivere mercanti di diverse nazionalità. Sin dalle prime spedizioni essi cercarono di imporre con la forza la loro presenza; contro i mercanti arabi, per esempio, scatenarono una guerra presentata come guerra di religione contro gli infedeli, ma con lo scopo reale di eliminare dei concorrenti commerciali. Il subcontinente indiano era diviso in molti regni e principati, alcuni retti da sovrani musulmani, altri da sovrani indù. Con i loro modi rozzi e brutali i portoghesi riuscirono a inimicarsi anche questi ultimi, spingendoli ad allearsi con i sultani dell’Egitto. Per un aspetto i portoghesi si trovavano svantaggiati: le basi di partenza dalle quali le loro flotte potevano ottenere rinforzi si trovavano a un’enorme distanza, che richiedeva molti mesi di viaggio per essere coperta; essi avevano però un netto punto di forza, costituito dai loro velieri muniti di potenti cannoni. Nella decisiva battaglia combattuta nel febbraio 1509 di fronte al porto indiano di Diu la flotta egiziana fu annientata e i portoghesi non ebbero più rivali nel controllo militare dell’oceano Indiano. L’anno successivo la flotta portoghese attaccò la città di Goa e ne fece il centro della propria strategia di controllo dei traffici commerciali. Il centro più importante degli arabi nell’oceano Indiano era il porto di Malacca; da qui dovevano passare le navi che viaggiavano fra l’India e le Molucche, dove crescevano le spezie più pregiate. Nel 1511 i portoghesi espugnarono Malacca dopo averla sottoposta a un intenso cannoneggiamento dalle loro navi; da questa nuova base partirono per conquistare le Molucche, impadronendosi del traffico delle spezie. 2) I conquistadores distruggono le civiltà americane

Apparentemente Colombo aveva avuto ragione ad affermare che il suo percorso per le Indie, i paesi dell’Asia orientale, era il più breve. Presto divenne evidente, però, che le isole scoperte da Colombo non si trovavano in Asia e che le favolose ricchezze da lui immaginate non esistevano. Nei primi anni del Cinquecento Haiti e Cuba divennero la meta di molti avventurieri spagnoli che, partendo da queste isole, sbarcarono in America centrale e cominciarono a compiere viaggi di esplorazione. Vennero così raccolte le prime notizie sui grandi imperi degli aztechi e degli inca, situati rispettivamente in Messico e in Perù: in quelle terre si potevano trovare grandi quantità di metalli preziosi. Questi ricchi imperi crollarono in un arco di tempo brevissimo di fronte all’attacco condotto dai conquistadores spagnoli. Nel febbraio 1519 partiva da Cuba alla volta del Messico la flotta comandata da Hernan Cortès; nell’agosto 1521 gli spagnoli conquistavano la capitale azteca Tenochtitlan. Nel novembre 1533 la stessa sorte toccò alla capitale inca Cuzco, che fu presa dalle truppe comandate da Francisco Pizarro, sbarcate in Perù nell’aprile 1532. Per la conquista dei due imperi, molto estesi e con molti milioni di abitanti, erano stati sufficienti eserciti molto piccoli: Cortés era seguito al principio soltanto da cinquecentootto uomini; Pizarro ne comandava appena centottanta.

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3) I primi imperi coloniali

I due primi imperi coloniali europei nacquero e si svilupparono con caratteristiche molto diverse. Nell’oceano Indiano i portoghesi non miravano alla conquista di territori, bensì a impossessarsi del traffico commerciale. Di conseguenza, i viceré al servizio del re del re del Portogallo crearono un impero marittimo, costituito da una serie di colonie navali commerciali e basi militari disposte in punti strategici lungo le rotte dell’oceano Indiano che conducevano dall’Africa orientale a Malacca In America, invece, i conquistadores, avventurieri che si muovevano di propria iniziativa e che solo a fatica furono ricondotti all’obbedienza dal re di Spagna, avevano come unico obiettivo II saccheggio dei metalli preziosi accumulati nel tempo dai sovrani aztechi e inca. Una serie di circostanze fortunate li portò a imporre il loro potere su vaste popolazioni, che furono ridotte in servitù e messe ai lavori forzati. Essi procurarono alla corona di Spagna un impero continentale fornito di grandi miniere d’argento. In Messico e in Perù tutti potevano dedicarsi allo sfruttamento delle miniere d’argento, ma il re di Spagna si riservava un quinto del metallo estratto. Questo era trasportato ogni anno in grandi quantità dalle flotte spagnole, che dovevano sbarcarlo a Siviglia affinché il carico potesse essere controllato dai funzionari statali; questa città divenne così la più grande della penisola iberica. Nel Cinquecento e Seicento l’America divenne per gli spagnoli una colonia di popolamento; molti vi si stabilirono definitivamente, acquisendo immense proprietà terriere e divenendo grandi allevatori di bestiame.

PAROLE CHIAVE CONQUISTADORES IMPERO COLONIALE

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LEZIONE 3: GLI IMPERI COLONIALI: OLANDA E INGHILTER RA 1) Gli olandesi in Indonesia

I portoghesi avevano puntato a costituire un vero monopolio mondiale del pepe e delle altre spezie e, nei primi decenni del Cinquecento, sembrava che questo obiettivo fosse stato realizzato. Una buona metà delle spezie dirette verso occidente cessò di passare dal Mediterraneo e arrivò invece a Lisbona; da qui venivano trasportate ad Anversa e rivendute nei paesi dell’Europa settentrionale. Ma il controllo totale su tutte le rotte commerciali dell’oceano Indiano era un progetto che andava oltre le reali possibilità dei portoghesi: i mercanti arabi e veneziani, infatti, iuscirono a mantenere una parte dei traffici. Una nuova trasformazione nel mercato del pepe e delle spezie si verificò alla fine del XVI secolo, danneggiando gravemente i portoghesi e mettendo definitivamente fuori gioco i veneziani. Il Portogallo continuava a mantenere un saldo controllo della rotta verso l’oceano Indiano che passava attorno all’Africa, ma dal 1598 i marinai e mercanti olandesi riuscirono a trovare un percorso alternativo, che evitava loro di imbattersi nelle flotte di Lisbona che stazionavano di fronte alle basi in Africa orientale, a Goa e a Malacca. Passato il capo di Buona Speranza, le navi olandesi continuavano a procedere, restando molto a sud, e si dirigevano verso nord puntando direttamente sull’isola di Giava. Nei mari dell’Indonesia gli olandesi si dedicarono dapprima alla pirateria, poi, dal 1619, crearono una base stabile, Batavia, sull’isola di Giava. Da qui iniziarono ad attaccare e a conquistare il sistema commerciale che faceva capo a Lisbona: si impossessarono delle Molucche, di Malacca, dell’isola di Ceylon (l’attuale Sri Lanka) e di tutte le basi possedute in India dai portoghesi. 2) La Compagnia Riunita delle Indie orientali

Gli olandesi si erano inseriti nei traffici oceanici con iniziative avviate da cittadini privati, i grandi mercanti. All’inizio del Seicento, raggiunta l’indipendenza dalla Spagna, l’Olanda si era data una forma di governo repubblicana, nella quale erano i mercanti ad avere il peso maggiore. Per la loro attività in Asia questi crearono nel 1602. una compagnia monopolista, detta Compagnia Riunita delle Indie orientali, che ebbe dal governo l’esclusiva del commercio. Si trattava di una società privata fondata sui capitali forniti dai mercanti di Amsterdam, che ridistribuiva fra i soci i profitti dei suoi commerci. In Indonesia la Compagnia si comportò come uno stato, stabilendo alleanze con i principi locali e partecipando con proprie forze militari ai conflitti armati della regione. Fu così che essa cominciò a imporre la sua sovranità su alcune parti di Giava, fino a che l’isola cadde per intero sotto il suo controllo. Le attività commerciali svolte dagli olandesi in Asia orientale divennero più complesse di quelle portoghesi. La Compagnia olandese ampliò la gamma dei prodotti esportati in Europa, aggiungendo alle spezie i tessuti di cotone indiani, il tè e le porcellane cinesi; partecipò inoltre attivamente agli scambi fra i paesi asiatici, l’India, la Cina e il Giappone. 3) Gli inglesi in India A partire dalla fine del Cinquecento Amsterdam aveva cominciato a superare per importanza Lisbona e Siviglia e divenne ben presto il maggiore centro del commercio europeo nel mondo. Nella seconda metà del Seicento Amsterdam fu a sua volta superata da Londra.

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Anche gli inglesi, come gli olandesi, erano comparsi sulle rotte oceaniche nella seconda metà del Cinquecento compiendo atti di pirateria nei confronti delle flotte spagnole. La Compagnia inglese delle Indie orientali (East India Company), costituita nel 1600, ebbe il suo grande sviluppo dopo il 1650. Mentre gli olandesi concentravano la loro attività in Indonesia, gli inglesi accrebbero la loro presenza in India, a Bombay e a Madras, e nel 1696 crearono una nuova base nei pressi di Calcutta, nel Bengala. Verso il 1740 gli unici rivali che la Compagnia inglese dovette fronteggiare in India furono i francesi. Intanto, dal principio del Settecento, l’India era entrata in una fase di gravi disordini interni. Le Compagnie inglese e francese, appoggiate dai loro governi, cercarono di trarre vantaggi da questa situazione ed entrarono in guerra aperta fra loro. Lo scontro si concluse nel 1763. I francesi persero quasi tutta la loro influenza in India, mentre la Compagnia inglese impose il suo protettorato sul principato del Bengala. A questo primo passo seguì nei decenni successivi la creazione di un vero impero inglese In India posto sotto il controllo della Compagnia, cioè di una società commerciale privata.

PAROLE CHIAVE MONOPOLIO COMPAGNIA DELLE INDIE PROTETTORATO

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LEZIONE 4: IL SISTEMA MONDIALE NEL XVII-XVIII SECOL O

1) Gli scambi fra il Nuovo e il Vecchio mondo

L’America apparve ai conquistatori spagnoli come un Nuovo mondo. Questa definizione si giustificava anche per il fatto che il suo patrimonio animale e vegetale era notevolmente diverso da quello dei continenti del Vecchio mondo. Molte delle piante originarie dell’America furono trapiantate in Europa, e anche in Asia e Africa, e nel XVII e XVIII secolo assunsero una grande importanza nei sistemi alimentari. Fra queste vanno ricordate soprattutto i mais, che si diffuse in Spagna, in Italia e nei Balcani, e arrivò anche in Cina, e la patata, che nel Settecento divenne una componente essenziale nell’alimentazione della popolazione di molti paesi dell’Europa centrale e settentrionale. L’Europa a sua volta introdusse in America il frumento e molte specie animali sconosciute: il cavallo, la pecora, il maiale e i bovini; particolarmente importante si rivelò l’introduzione del cavallo che, moltiplicandosi allo stato brado nell’America settentrionale, modificò profondamente il modo di vita dei pellirosse delle grandi pianure. Fra le piante di origine americana occorre ricordare anche il cacao e il tabacco. Entrambe avevano bisogno di un ambiente caldo e umido e nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere coltivate nelle estese piantagioni tropicali, come anche la canna da zucchero, il tè e il caffè. Queste piantagioni sostenevano il commercio internazionale e arricchivano le grandi compagnie; furono perciò trasferite dai loro luoghi originari in qualsiasi ambiente del mondo che poteva rivelarsi adatto. La canna da zucchero, coltivata in origine nel Mediterraneo orientale e poi a Madera, comparve così nelle Antille, in Brasile e in Indonesia; il tè passò dalla Cina a Ceylon e all’India; il caffè, originario dell’Arabia, fu trapiantato a Giava, in Africa e in Brasile; il cacao passò dall’America all’Africa.

2) Le migrazioni europee verso L’America Le colonie europee in Asia furono strettamente commerciali e in esse si trasferirono solo

alcune migliaia di mercanti, funzionari e soldati. La scoperta dell’America fu invece all’origine di vere e proprie colonie di popolamento. Questa differenza dipese dal fatto che in Asia esistevano imperi antichi e potenti e la densità di popolazione era molto elevata; in America, invece, la conquista spagnola aveva avuto per effetto lo spopolamento dei grandi imperi e in vaste aree la presenza umana era molto scarsa già prima dell’arrivo degli europei. Nel 1650 la popolazione ispanoamericana ammontava a circa 650 000 persone. A queste vanno aggiunti i portoghesi che avevano cominciato a trasferirsi in Brasile. Dai primi anni del Seicento era intanto cominciata la fondazione delle colonie inglesi sulla costa atlantica dell’America del Nord. La prima di queste fu Ia Virginia, che accolse i primi coloni nel 1608 e si sviluppò rapidamente grazie alle piantagioni di tabacco. Più a nord sorse, nel 1629, il Massachusetts, primo nucleo del gruppo di colonie che fu denominato Nuova Inghilterra; essa divenne una colonia di agricoltori, che avanzavano verso l’interno contendendo, con la violenza, le terre alle tribù di pellirosse. Verso il 1720 le colonie inglesi avevano una popolazione di circa mezzo milione di abitanti. Ancora più a nord sorsero alcune basi francesi sull’estuario del fiume San Lorenzo, in Canada. I francesi si dedicarono al commercio delle pellicce con i pellirosse e compirono grandi esplorazioni nella regione dei grandi laghi. Le colonie francesi attrassero però una emigrazione molto limitata e nel 1720 contavano soltanto trentamila abitanti.

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3) La deportazione degli schiavi neri e il “commerc io triangolare”

Lo sviluppo delle economie di piantagione nell’area americana fu stimolato dalla domanda europea di prodotti coloniali. Nel Nuovo mondo c’era un’immensa riserva di terra coltivabile che richiedeva, però, un enorme numero di lavoratori; per questo, già dal XVI secolo, iniziò l’importazione di schiavi dall’Africa. Dopo il 1675 le dimensioni della tratta divennero gigantesche: gli arrivi in America salirono a una media di 24 000 l’anno. Mentre in tutto il Seicento i neri giunti in America furono 1,4 milioni, nel Settecento la cifra balzò a 6 milioni, con 80 000 arrivi all’anno dopo il 1760. L’orrenda istituzione della schiavitù permise alle compagnie che agivano in America di arricchirsi e agli europei di disporre con larghezza di alcuni nuovi prodotti di consumo. La schiavitù ebbe anche durature conseguenze demografiche. Le regioni dell’Africa interessate dalla tratta subirono una grave riduzione della loro popolazione maschile adulta: oltre ai milioni d’africani neri che raggiunsero l’America ridotti in schiavitù, dobbiamo considerare, infatti, il numero enorme di quelli che morivano durante il trasporto. Allo stesso tempo si creavano in America intere regioni dove gli schiavi neri costituivano una quota notevole della popolazione: più della metà a Cuba, Haiti e nelle altre isole Antille e in Brasile, un terzo in Virginia. Gli schiavi e i prodotti delle piantagioni rappresentavano due dei vertici del cosiddetto “commercio triangolare” che univa l’America, l’Africa e l’Europa . I negrieri olandesi, inglesi e francesi acquistavano schiavi sulla costa occidentale dell’Africa in cambio di tessuti o armi; gli schiavi venivano quindi condotti nelle regioni americane delle piantagioni,da dove partivano lo zucchero e il tabacco destinati ai consumatori europei: così il triangolo si chiudeva.

PAROLE CHIAVE

EMIGRAZIONE IMMIGRAZIONE DEPORTAZIONE SCHIAVITU’

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4. ECONOMIA, SOCIETÀ E CULTURA NELL’EUROPA MODERNA

LEZIONE 1: LO SVILUPPO AGRICOLO E DEMOGRAFICO

1) Un secolo di crescita demografica

Alla metà del XV secolo la popolazione europea non aveva ancora recuperato la diminuzione numerica causata dalle grandi epidemie di peste del periodo 1347-1400, perché la popolazione non cresceva o cresceva molto lentamente. Ma A partire dal 1450 questa tendenza si invertì e la popolazione iniziò ad aumentare. Nei decenni centrali del Cinquecento la crescita demografica divenne ovunque particolarmente rapida e verso il 1590 l’Europa arrivò a 110 milioni di abitanti, superando nettamente i precedenti massimi livelli medievali (80 milioni di abitanti). Durante questo lungo periodo di crescita la peste non scomparve mai del tutto, ma toccò in prevalenza le città, dove l’affollamento rendeva peggiori le condizioni igieniche e più alte le probabilità di contagio.

2) L’aumento della superficie coltivata La crescita demografica era collegata a una maggiore disponibilità di prodotti alimentari. Il

motivo principale di queste accresciute riserve di cibo fu l’aumento delle superfici coltivate, ottenuto sia ritornando a seminare le terre che erano state abbandonate nella seconda metà del XIV secolo, in seguito alla riduzione della popolazione, sia bonificando, cioè prosciugando e rendendo salubri, terreni paludosi. Rispetto ai secoli dello sviluppo medievale, l’Europa del Cinquecento era tecnicamente meglio attrezzata per bonificare le zone acquitrinose: anche se in alcuni casi (nella Maremma toscana, nelle paludi pontine, sul Po ferrarese) le bonifiche non ebbero successo, in altri casi, invece, in particolare nel Veneto, nei Paesi Bassi e in alcune regioni inglesi, grazie alle bonifiche la superficie coltivata fu estesa in modo significativo. In Lombardia la creazione di una fitta rete di canali d’irrigazione consentì la coltivazione del riso sommerso. Anche nell’Europa orientale e baltica vennero dissodati e seminati numerosi terreni incolti. Nei latifondi, che erano le grandi proprietà terriere dei nobili, le tecniche agricole erano assai arretrate e i rendimenti molto bassi; tuttavia la coltivazione di vaste superfici e le dure condizioni di servitù imposte ai contadini consentivano ugualmente una grande produzione e quindi la possibilità di esportare notevoli quantità di cereali nei paesi più popolati e nelle grandi città dell’Europa occidentale.

3) Le innovazioni agricole

Nei Paesi Bassi, in Inghilterra e nella pianura padana, si diffusero alcune innovazioni nel settore agricolo. Invece dei riposi periodici del terreno, in queste regioni fu sperimentata la semina di leguminose (come il trifoglio) che, oltre ad arricchire direttamente la scorta di azoto del suolo, accrescendone la fertilità, venivano utilizzate come foraggio e favorivano quindi lo sviluppo dell’allevamento, dal quale si ricavavano quantità più abbondanti di concime, utilizzato a sua volta per fertilizzare i campi. Lo sviluppo delle manifatture, dovuto all’aumento della domanda di merci da parte della popolazione in rapida crescita, stimolò inoltre la coltivazione delle piante industriali: il lino e la canapa, impiegati nelle manifatture tessili; il guado, la robbia e lo

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zafferano, usati nella tintoria; il gelso, diffuso soprattutto in Italia, per l’allevamento del baco da seta. in queste regioni si ebbe un vero e proprio aumento della produttività agricola, che fece raggiungere rendimenti di 6 o 7 chicchi di grano raccolti per ogni chicco seminato. Queste pratiche, però, erano piuttosto eccezionali e nel XVI secolo il mondo contadino continuò a restare legato ai metodi tradizionali di coltivazione. Gli attrezzi rimasero quelli del passato, nella maggior parte delle regioni non cambiarono i sistemi di rotazione (che lasciavano inutilizzato un terzo o più del terreno coltivato) e i rendimenti medi dei cereali non andarono oltre i 4 chicchi a 1.

4) Le colture del Nuovo mondo Le scoperte geografiche avevano offerto agli europei la possibilità di arricchire notevolmente

il numero delle piante alimentari, e le nuove colture risultavano spesso più produttive di quelle tradizionali. Tuttavia, se trasportare materialmente in Europa il mais, la patata o il pomodoro fu un’operazione semplice e rapida, molto meno semplice risultò inserire stabilmente queste piante tra le colture del Vecchio mondo. Le specie vegetali americane cominciarono ad avere un’influenza rilevante nella dieta degli europei già nel XVII secolo ma, di fatto, accrebbero realmente la disponibilità di prodotti alimentari solo nel XVIII secolo.

5) Sviluppo urbano e commercio dei prodotti agricol i

Nonostante la mortalità provocata dalle epidemie, i maggiori centri urbani europei erano molto cresciuti, perché lo sviluppo delle manifatture aveva aumentato la domanda di manodopera e aveva quindi attirato una parte dei contadini dalle campagne; per sfamare i numerosi abitanti delle città era dunque necessario incrementare il commercio dei prodotti agricoli. Ma non sempre bastava: i centri che superavano i 100.000 abitanti erano, infatti, così numerosi che per rifornirli non si poteva più contare soltanto sulla produzione e sul commercio regionale, ma si dovevano importare prodotti da regioni più lontane. Vediamo alcuni esempi: intorno alla metà del Cinquecento, la Sicilia e la Puglia erano in grado di esportare verso le grandi città italiane o spagnole oltre 500.000 quintali di cereali all’anno; le province baltiche tedesche e la Polonia esportavano un milione di quintali di cereali verso i centri urbani situati fra la Manica e il mare del Nord. Il tutto era sufficiente a soddisfare i bisogni alimentari di circa 750.000 persone.

PAROLE CHIAVE CRESCITA DEMOGRAFICA LATIFONDI PRODUTTIVITA’ AGRICOLA

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LEZIONE 2: IL TESORO AMERICANO E LO SVILUPPO DELLE MANIFATTURE

1) La “rivoluzione dei prezzi” del XVI secolo Un fenomeno che influì profondamente sull’economia europea del Cinquecento fu il continuo

aumento dei prezzi; fattore tanto rilevante che molti storici hanno parlato di una vera e propria “rivoluzione dei prezzi”. Una prima causa della rivoluzione dei prezzi fu, già dalla fine del XV secolo, l’accresciuta domanda di prodotti alimentari determinata dall’aumento della popolazione. Un ruolo particolare va inoltre attribuito alle importazioni di metalli preziosi dai domini spagnoli in America. L’argento, in particolare, fu disponibile in maggiori quantità, quindi il suo valore diminuì; ma, essendo il metallo utilizzato per fabbricare le monete, accadde che per acquistare la stessa quantità di beni ci voleva più argento, più monete, e di conseguenza i prezzi aumentarono progressivamente. I rincari non furono uniformi in tutti i paesi, non avvennero ovunque negli stessi anni e non colpirono nella stessa misura tutti i beni. L’aumento dei prezzi agricoli fu generalmente più alto di quello delle materie prime e dei prodotti delle manifatture. I prezzi del frumento si moltiplicarono per quattro, ma anche per sei o per sette, mentre i prezzi dei tessuti triplicarono.

2) La crescita dell’economia di mercato

Oltre che dalla crescita demografica e dall’importazione di metalli preziosi dall’America, l’aumento dei prezzi dipese dall’affermazione nelle regioni più sviluppate d’Europa dell’economia di mercato, cioè di un’organizzazione economica in cui chi lavora produce merci per venderle sul mercato e chi consuma acquista al mercato alimenti e beni prodotti da altri. Fu una novità molto importante perché nella maggior parte del mondo contadino, per molti secoli, i bisogni alimentari erano stati soddisfatti attraverso l’autoconsumo, cioè il consumo dei prodotti che le famiglie e i villaggi producevano da sé; per le necessità dell’abbigliamento, della casa e degli attrezzi da lavoro erano sufficienti la filatura e la tessitura domestica e la modesta produzione artigianale del villaggio. Ma nel Cinquecento, anche al di fuori delle città (da sempre luogo dell’economia di mercato), una quantità sempre maggiore di persone cominciò ad acquistare sul mercato ciò di cui aveva bisogno; questo perché aumentava il numero dei contadini salariati, che lavoravano terre di proprietà di altri ricevendo in cambio un salario, e che perciò acquistavano i prodotti in cambio di denaro, e anche perché l’aumento delle imposte stabilito dagli stati obbligò la popolazione contadina a procurarsi denaro contante .

3) I nuovi prodotti dell’industria

Nell’Europa del Cinquecento, le industrie tessili costituivano una parte rilevante delle attività industriali, ma vanno ricordate anche quelle legate all’edilizia, all’arredamento, agli eserciti e agli armamenti. Accanto alle manifatture già esistenti, nel corso del secolo ne comparvero molte nuove, che cominciarono ad assumere una dimensione considerevole: basta pensare alla produzione di oggetti di precisione come le lenti o gli orologi, o alla produzione di libri stampati che divenne sempre più imponente. Il ruolo del ferro era cresciuto nella produzione delle armi da fuoco, delle armature e degli attrezzi agricoli; ma anche nella produzione di oggetti di uso comune, come i chiodi, le serrature, le catene, i coltelli, il ferro era sempre più diffuso.

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Il legno rimaneva però la materia prima più importante e più utilizzata. Veniva impiegato infatti per realizzare gli strumenti usati nella produzione manifatturiera(i telai o gli ingranaggi dei mulini) ed era essenziale nella costruzione delle navi e delle case, la cui produzione era in grande sviluppo nell’Europa del Cinquecento. 4) le nuove fonti di energia: il legno e il carbone

Il legno era anche largamente adoperato come combustibile per produrre calore ed energia. Era però già noto, anche prima del Cinquecento, un sostituto del legno, il carbone, o carbon fossile, che veniva estratto, scavando pozzi poco profondi, in Inghilterra e nel Belgio. Il carbone era molto inquinante e poteva danneggiare alcune produzioni industriali, ma costava assai meno della legna, che da tempo aveva cominciato a scarseggiare. Gli inglesi si adattarono ai suoi inconvenienti e ne fecero un largo uso nella cottura dei mattoni, nella fabbricazione del vetro, del sapone, dello zucchero, della birra, della polvere da sparo. La produzione di carbon fossile, che in Inghilterra era forse di duecentomila tonnellate annue verso il 1550, passò a un milione verso il 1610 e a più di tre milioni di tonnellate alla fine del Seicento.

PAROLE CHIAVE MULINO SOVRAPPOPOLAZIONE

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LEZIONE 3: LA CRISI DEL XVII SECOLO

1) Il ritorno delle grandi epidemie

A partire dal 1570 tornarono le grandi epidemie di peste. Due ondate epidemiche colpirono, nel 1575-77 e nel 1587-91, i grandi centri urbani dell’Italia settentrionale, Barcellona e l’intera Catalogna. La terza epidemia fu una vera catastrofe: fra il 1596 e il 1603 furono colpite la Spagna, la Germania, la Francia e l’Inghilterra. L’intera Europa fu poi attraversata da un’altra serie di epidemie nel periodo 1618-48, quello della guerra dei Trent’anni. Il contagio ebbe due momenti di massima diffusione nel 1625 e nel 1630-31; quest’ultima epidemia colpì soprattutto l’Italia settentrionale, uccidendo più del 40% della popolazione urbana e un quarto di quella totale. La Germania, al centro delle azioni belliche, fu certamente il paese più provato, con perdite che in alcune regioni superarono perfino IL 50% degli abitanti. L’ultimo periodo di offensiva della peste si verificò nel 1647-68. Gli anni 1647-52 risultarono micidiali per la Spagna e annientarono Siviglia; nel 1656-57 furono colpite la Sardegna e Genova, poi Napoli e le regioni meridionali italiane, dove venne falcidiato almeno un quinto della popolazione Nel 1665 Londra conobbe la più grave epidemia della sua storia e vide la sua popolazione ridotta di oltre un quinto. 2) L’interruzione della crescita demografica e le c risi agricole del Seicento

Le pestilenze del Seicento, pur non provocando una catastrofe demografica paragonabile a quella del Trecento, determinarono una riduzione della popolazione europea nella prima metà del secolo e ne frenarono lo sviluppo nella seconda metà. La debole crescita demografica del XVII secolo dipese sia dalla peste e da altre malattie (la malaria, il tifo, il vaiolo, la tubercolosi, le malattie gastro-intestinali), sia dalla maggiore intensità delle crisi agricole. Le annate di cattivo raccolto o di vera e propria carestia erano diventate più frequenti già dal decennio 1570-80, quando era iniziato un lungo periodo caratterizzato da un clima più freddo e umido. Dopo le carestie della fine del Cinquecento, anche gli anni centrali e l’ultimo decennio del Seicento furono molto negativi per l’agricoltura dell’intera Europa; infine nel gennaio-febbraio del 1709 si registrò un periodo di gelo eccezionale. Il clima avverso non è sufficiente da solo a spiegare le gravi, ricorrenti carestie che abbiamo citato. Un’altra causa è identificabile nel fatto che l’Europa, come abbiamo già visto, non aveva compiuto nel corso del XVI secolo progressi decisivi nella tecnologia agricola. Di conseguenza, la soglia della sovrappopolazione, che si era presentata verso il 1300 a quota 80 milioni di abitanti, fu nuovamente toccata nel 1570-90 alla quota un po’ più elevata di 100-110 milioni.

3) Il declino della Spagna La crisi si manifestò con particolare intensità in Spagna e nei domini spagnoli dell’Italia

meridionale. Grazie all’argento proveniente dalle Americhe e alla pressione fiscale, la Spagna aveva raggiunto la supremazia politica e militare sul continente europeo; ma queste vaste risorse economiche, invece di essere utilizzate per promuovere attività produttive all’interno del paese, vennero consumate per acquistare prodotti all’estero, .per mantenere un potente esercito e per condurre guerre continue. Perciò quando, nel corso del Seicento, l’afflusso di

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argento dalle colonie rallentò e i ceti produttivi non riuscirono più a pagare le imposte a causa del lungo periodo di crisi generale, il declino economico della Spagna divenne inarrestabile. Ad aggravare la situazione giunse nel 1619 l’espulsione dei moriscos, la popolazione musulmana della Spagna che nel Cinquecento era stata convertita forzatamente al cristianesimo. I moriscos erano un gruppo etnico poco integrato nella società spagnola e, per questo, guardato con sospetto; ma la loro espulsione provocò la perdita di un consistente gruppo di lavoratori attivi, esperti nell’agricoltura irrigua e nel commercio, ed ebbe pesanti effetti negativi sull’economia del paese. La classe dirigente spagnola, che non era stata in grado di utilizzare le grandi risorse provenienti dalle Americhe per sviluppare l’economia, si ripiegò su se stessa, divenendo sempre più arretrata e improduttiva. 4) L’industria e il grande commercio

A partire dal 1620 anche la produzione manifatturiera, soprattutto quella tessile, entrò in una lunga fase di crisi. Solo l’Olanda riuscì a mantenere per tutto il Seicento una elevata produzione, approfittando del declino degli altri centri europei. L’economia delle Fiandre e del Belgio fu colpita gravemente dalla rivolta dei Paesi Bassi contro la Spagna: l’Olanda, indipendente dal 1579, ne trasse, invece, vantaggio, ospitando gli artigiani e i mercanti fiamminghi convertiti al calvinismo, che in gran numero fuggivano dalla guerra e dalle persecuzioni religiose. La produzione tessile olandese, basata su stoffe di bassa qualità ma vendute a prezzi assai convenienti, cominciò a fare concorrenza alla produzione italiana e in breve tempo determinò il crollo delle manifatture urbane italiane, che producevano tessuti di buona qualità ma troppo costosi. Gli olandesi e, in minor misura, gli inglesi riuscirono a sostituirsi ai loro rivali anche nel grande commercio internazionale: nel corso della prima metà del Seicento gli olandesi subentrarono quasi completamente ai portoghesi nel commercio con l’India e l’Estremo Oriente e, in questo stesso periodo, olandesi e inglesi penetrarono con forza nel Mediterraneo, sottraendo a Venezia una buona parte del commercio con l’Impero ottomano.

PAROLE CHIAVE

EPIDEMIA MORISCOS PRODUZIONE MANIFATTURIERA PRODUZIONE TESSILE

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LEZIONE 4: LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

1) Il sistema aristotelico-tolemaico e il sistema c opernicano Nel periodo compreso fra il 1540 e il 1700 si verificò una delle tante rivoluzioni che

caratterizzano l’età moderna. Si tratta della rivoluzione scientifica che cominciò, come rivoluzione astronomica o “copernicana”, con la pubblicazione, nel 1543, del De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni delle sfere celesti) dell’astronomo polacco Niccolò Copernico. All’epoca di Copernico l’astronomia che veniva insegnata nelle università era il risultato di una lunga tradizione che derivava dagli scienziati del mondo antico, in particolare da Aristotele (IV sec. a.C.) e da Tolomeo (Il sec. d.C.). Il sistema aristotelico-tolemaico, detto “geocentrico”, era universalmente accettato e sosteneva che la Terra (in greco geo) occupava il centro dell’universo e che attorno a essa ruotavano, con orbite perfettamente circolari, sette corpi celesti: la Luna, cinque pianeti (quelli allora conosciuti) e il Sole. I sette corpi celesti erano composti di una sostanza luminosa, purissima e non soggetta a consumarsi, a trasformarsi o a corrompersi. L’opera pubblicata da Copernico presentava una nuova e sconvolgente teoria astronomica: al sistema geocentrico veniva opposto un sistema eliocentrico (da elios, Sole) nel quale era il Sole a occupare il centro dell’universo, mentre la Terra compiva, assieme agli altri pianeti, un moto di rivoluzione attorno a esso.

2) Gli sviluppi delle teorie eliocentriche

Successivamente un altro astronomo, il tedesco Giovanni Keplero, confermò la teoria eliocentrica e assestò un altro colpo al sistema tolemaico dimostrando che le orbite dei pianeti attorno al Sole non erano circolari (come ancora pensava Copernico), ma ellittiche. Nel 1609, nello stesso anno in cui Keplero pubblicava la sua opera principale, la Nuova Astronomia, Galileo Galilei (1564-1642) compiva alcune fondamentali osservazioni astronomiche servendosi del cannocchiale, un sistema di lenti d’ingrandimento inventato dagli occhialai olandesi cui egli stesso aveva apportato alcuni perfezionamenti. Poté così annunciare (nel libro pubblicato nel 1610 e intitolato appunto Sidereus nuncius, Il messaggero celeste) alcune importanti scoperte. La Luna, esattamente come la Terra, aveva una superficie cosparsa di monti e vallate; questo dimostrava che la materia di cui era fatta non era perfetta e incorruttibile. Giove aveva quattro satelliti, quindi era verificato che i corpi celesti erano più di sette e che alcuni di loro certamente non ruotavano intorno alla Terra; infine, il pianeta Venere non brillava di luce propria.

3) Verità scientifica e verità biblica

La scoperta degli errori contenuti nel sistema aristotelico-tolemaico portava a credere sempre di più nella verità di quello copernicano. Tuttavia, il confronto fra i due sistemi cosmologici non era una questione che interessava solo gli astronomi: il sistema copernicano era infatti chiaramente in contrasto con quanto si poteva leggere nei passi biblici, che parlavano del Sole che sorge e tramonta, o che raccontavano come un episodio miracoloso l’arrestarsi del moto del Sole. Nell’opera intitolata Dialogo sui massimi sistemi, Galilei paragonò il sistema tolemaico e quello copernicano, mostrò l’inconsistenza degli argomenti che sostenevano l’immobilità della Terra e aprì la strada a una teoria generale del movimento sia dei corpi terrestri sia dei corpi celesti. Ma la sua fiducia nella possibilità di conciliare la verità biblica con quella scientifica non

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era condivisa dalla maggior parte degli uomini del suo tempo e lo scienziato fu costretto ad affrontare il tribunale dell’Inquisizione e a ritrattare le sue teorie.

4) L’osservazione della natura

Per secoli la tradizione universitaria aveva scarsamente stimolato l’osservazione diretta della natura, limitandosi a riproporre le dottrine della scienza antica come ormai definitive e garantite dal principio d’autorità, cioè dal prestigio dei grandi autori che le avevano affermate e diffuse (Galeno nella medicina, Aristotele nella fisica, Tolomeo nell’astronomia). L’età della “rivoluzione scientifica” coincise con un interesse senza precedenti verso l’osservazione, nella consapevolezza dell’importanza fondamentale di guardare con i propri occhi, descrivere e studiare, senza accettare passivamente ciò che avevano scritto gli autori antichi. Nel1543, oltre al libro di Copernico, fu pubblicato il De humani corporis fabrica (La struttura del corpo umano), trattato d’anatomia del medico fiammingo Andrea Vesalio. In passato i professori di medicina avevano svolto le loro lezioni concentrandosi sui principi teorici e considerando la dissezione del corpo umano un lavoro secondario, che poteva essere svolto da un assistente. Con il suo grande apparato d’illustrazioni derivanti da una nuova esperienza diretta, il testo di Vesalio fece uscire l’anatomia dai suoi limiti libreschi.

5) Il metodo scientifico

Con il lavoro di questi scienziati cominciò ad affermarsi un modello d’indagine che nei secoli successivi dominò tutti i campi del sapere e che si impose come “il metodo” per eccellenza. Esso non si limitava, però, all’osservazione: era piuttosto una combinazione di matematica e di esperienza. Fu ancora Galilei a offrire la formulazione compiuta del metodo scientifico; ritenendo necessario non solo osservare la natura ma anche interrogarla, sosteneva che non bisogna limitarsi a studiare i fenomeni naturali che si producono spontaneamente, ma era necessario sperimentare. L’esperimento scientifico si differenzia dalla comune esperienza perché non attende, ma produce i fenomeni che gli servono e li ripete più volte affinché rispondano a precise domande, comprovando o smentendo le ipotesi del ricercatore. Per realizzare ed esaminare dettagliatamente questi fenomeni sperimentali lo scienziato deve costruire gli strumenti adatti e, inoltre, deve individuare delle dimensioni quantitative misurabili, come il tempo, lo spazio, la velocità. Nel nuovo metodo scientifico ci sono così due aspetti fondamentali: l’esperimento e la sua espressione nel linguaggio matematico.

PAROLE CHIAVE

SISTEMA ARISOTELICO-TOLEMAICO SISTEMA COPERNICANO RIVOLUZIONE (IN SENSO ASTRONOMICO)

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5. VITA MATERIALE, RIFORME E CULTURA NEL SETTECENTO

LEZIONE 1: LA CRESCITA DEMOGRAFICA E LE SUE CAUSE

1) La crescita della popolazione

Fra 1000 e il 1700 la popolazione europea era passata dai 38-40 ai 120-125 milioni di abitanti, moltiplicandosi di circa tre volte. Questo aumento non si era però verificato in maniera continua: si erano infatti alternati periodi di crescita più intensa, come durante il XIII e il XVI secolo, a periodi di crescita debolissima o di regresso, come nel XIV e nel XVII secolo, causati dalle frequenti carestie e dalle epidemie di peste. Il Settecento fu nuovamente un periodo di aumento demografico, ma presentò anche dei caratteri che segnarono un’epoca nuova nella storia d’Europa. Nel passato, ogni progresso ottenuto nella durata della vita umana aveva finito per essere annullato da una successiva epoca di crisi. Dal Settecento, invece, sparì l’alternanza di crescita e regresso e la popolazione aumentò sempre più rapidamente e in maniera continua. Nello stesso periodo diminuì in maniera costante la mortalità.

LA POPOLAZIONE EUROPEA, 1700 -1900 (in milioni) ANNI ABITANTI AUMENTO 1700 125 - 1750 146 + 17% 1800 195 + 33% 1850 288 + 48% 1900 422 + 47%

2) L’aumento della vita media

Al principio del XVIII secolo l’aspettativa di vita media, cioè il numero di anni che ciascun

nuovo nato poteva aspettarsi di vivere, non era superiore a venticinque o trenta anni. La durata della vita media era piuttosto bassa a causa delle malattie infettive, che colpivano la popolazione a tutte le età, anche se le vittime principali erano i bambini: un terzo dei neonati moriva prima di aver raggiunto il primo compleanno, mentre solo la metà, o anche meno, riusciva a sopravvivere fino ai dieci o quindici anni. Verso il 1820 in tutti i paesi europei erano stati guadagnati cinque o sei anni di vita e in quelli dove erano migliori le condizioni sanitarie la speranza di vita alla nascita si situava fra i trentacinque e i quarant’anni. Assai più importante fu l’aumento della vita media raggiunto nel corso del XIX secolo.

3) L’Europa e il mondo La crescita della popolazione europea nel Settecento è particolarmente significativa se

confrontata con l’evoluzione della popolazione mondiale. Solo la Cina conobbe nel XVIII secolo un grande incremento demografico, superiore a quello dell’Europa; in India, in Giappone e nell’intera Africa la popolazione rimase stabile. Ma nel XIX secolo la Cina dovette affrontare gravi difficoltà: la penetrazione commerciale delle potenze europee indebolì il potere imperiale e

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provocò numerose rivolte, che bloccarono la crescita della popolazione. In Europa, invece, la popolazione continuò ad aumentare in modo regolare; nel 1700 essa rappresentava circa il 14% di quella mondiale. Questo rapporto salì al 15% nel 1800 e aumentò ancora nel corso del XIX secolo (17% e 18% rispettivamente nel 1850 e nel 1900).

L’EVOLUZIONE DELLA POPOLAZIONE MONDIALE, 1600 -1800 (in milioni) 1600 1700 1750 1800 Europa 104 125 146 195 Asia 345 440 508 640 Cina 110 150 220 330 India 145 175 165 180 Giappone 11 25 26 25 Africa 113 107 104 102 America 13 12 18 24 Oceania 3 3 3 2 MONDO 578 687 779 963

4) I governi e la crescita della popolazione Nel corso del Settecento i governanti cominciarono a interessarsi ai fenomeni demografici

perché capirono che era possibile accrescere la potenza dello stato anche attraverso l’aumento della popolazione. La crescita demografica, infatti, non solo permetteva di rafforzare gli eserciti, ma era anche un segno naturale del benessere di un paese, la prova del reale miglioramento nelle condizioni di vita degli abitanti. Le autorità statali tentarono, perciò, di stimare l’incremento della popolazione in base a censimenti parziali, essendo quelli generali ancora troppo complessi da realizzare.

5) La scomparsa della peste La crescita demografica europea può essere vista prima di tutto come una conseguenza

della riduzione della mortalità, provocata, in parte, dalla scomparsa della peste. Dopo le grandi epidemie del 1625-30 (Inghilterra, Germania, Francia), del·1630-31 (Italia centro-settentrionale), del 1647-52 (Spagna, Italia) e del 1665-68 (Amsterdam, Londra e Parigi), nell’Europa occidentale non si verificò più alcuna grande pestilenza. Per spiegare questo fatto, sono state formulate varie ipotesi. Dalla metà del Seicento le condizioni ambientali divennero meno favorevoli al propagarsi del contagio, perché si verificò un raffreddamento dell’emisfero settentrionale che si prolungò fino alla metà dell’Ottocento. Nello stesso tempo gli stati dell’Europa occidentale cominciarono a opporre efficaci difese sanitarie alla diffusione dell’epidemia. Percorrendo le vie commerciali, le epidemie di peste continuarono periodicamente a muoversi dall’Asia centrale verso i territori dell’Impero ottomano e fino ai porti del Mediterraneo orientale, ma non appena in Occidente si veniva a conoscenza del dilagare di una nuova epidemia, tutte le navi che giungevano da questi porti venivano respinte. Nel 1708-10 la peste raggiunse la Turchia e da qui si trasferì fino al Baltico, attraverso i Balcani e l’Europa centro-orientale. I paesi colpiti furono appunto quelli dove la capacità di imporre misure di controllo era molto scarsa. Un altro episodio dimostra che l’Europa era al riparo dalla peste, solo se riusciva a impedire l’ingresso del bacillo. Nel maggio del 1720 una nave proveniente dalla Siria raggiunse

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il porto di Marsiglia con alcuni morti a bordo. L’obbligo di quarantena, che era diventato abituale nei porti europei, non fu rispettato e questo provocò una grave epidemia nella città e in Provenza. Il rigidissimo isolamento imposto alla regione colpita impedì però che la peste si diffondesse nel resto della Francia.

6) I progressi della medicina e dell’igiene Se si eccettua l’episodio del 1720-21, dopo il 1670 la peste non costituì più un fattore di mortalità in Europa occidentale; tuttavia fu solo a partire dal 1720-30 che la popolazione prese a crescere in maniera davvero considerevole. Gli elevati gradi di mortalità, infatti, non dipendevano solo dalla peste, ma anche da molte altre malattie infettive, favorite a volte dalla cattiva alimentazione e più spesso dall’uso di acque infette e dalla scarsa diffusione delle più elementari regole di igiene. La medicina si avvierà a progressi davvero significativi solo dalla metà del XIX secolo, ma già nel corso del Settecento essa fu in grado di intervenire con la pratica preventiva della vaccinazione contro il vaiolo. La più diffusa e mortale malattia infettiva, che si presentava per lo più come malattia infantile, cominciò a regredire significativamente. Allo stesso tempo i medici contribuirono ad accrescere l’attenzione all’igiene sociale suggerendo di bollire l’acqua prima di utilizzarla. mentre le autorità pubbliche cercavano di far rispettare i loro decreti sullo smaltimento dei rifiuti. Un altro fattore di cui tener conto fu la diffusione dei tessuti di cotone: quelli importati dall’India e la vasta produzione resa possibile in Inghilterra grazie allo sviluppo dell’industria, dagli ultimi decenni del XVIII secolo. I tessuti di cotone vennero largamente utilizzati per i prodotti di uso comune, come lenzuola, camicie, biancheria intima, fazzoletti: costavano assai meno degli stessi prodotti confezionati in lino ed erano facilmente lavabili. La biancheria poteva essere cambiata più frequentemente e questo fece compiere un vero salto di qualità alle abitudini igieniche degli europei.

7) Gli effetti delle carestie Le popolazioni, soprattutto nelle campagne, dovevano affrontare situazioni particolarmente

drammatiche nei periodi di carestia, ma anche in circostanze normali la loro dieta presentava carenze e squilibri che favorivano l’insorgere di malattie infettive. Nell’Europa del Settecento annate di carestia continuarono a verificarsi frequentemente, ma divenne più facile contenerne gli effetti negativi. Negli stati più evoluti l’organizzazione dell’amministrazione pubblica era diventata più efficiente e il sistema delle vie di comunicazione era nettamente migliorato. Se sopravveniva un cattivo raccolto, il governo ricorreva a importazioni di emergenza da altri paesi e riusciva a far giungere gli aiuti alimentari con maggiore prontezza. L’Europa conobbe infine un’effettiva maggiore disponibilità di alimenti in seguito alla diffusione di due nuove piante, il mais e la patata, entrambe di origine americana, che possedevano rendimenti assai più elevati del frumento e degli altri cereali europei. Il Settecento vide anche la crescita significativa delle importazioni dalle colonie di beni di lusso come lo zucchero,il tè, il caffè, la cioccolata e il tabacco destinati a rendere i consumi, alimentari e non, più variati e piacevoli.

PAROLA CHIAVE SPERANZA DI VITA - QUARANTENA

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LEZIONE 2: LA NASCITA DI UNA NUOVA AGRICOLTURA

1) Popolazione e agricoltura La nuova fase di crescita demografica settecentesca poteva condurre ancora a una

situazione di sovrappopolazione, come era già accaduto al principio ‘del Trecento, quando l’Europa aveva raggiunto gli 80 milioni di abitanti, e alla fine del Cinquecento, quando erano stati toccati i 110 milioni. La storia rischiava di ripetersi, a metà Settecento, quando l’Europa si stava avvicinando a 150 milioni di abitanti. Pur tenendo conto dello sfruttamento del mais e poi della patata, che riuscivano a fornire all’Europa cibi supplementari o di emergenza cui far ricorso in caso di cattivi raccolti, infatti, il problema principale era ancora costituito dai bassi rendimenti dei cereali più diffusi. Dal Cinquecento al principio del Settecento, infatti, i rendimenti avevano conosciuto in quasi tutta l’Europa progressi limitati: i raccolti di frumento e segale erano passati soltanto da 4-5 a 5-6 chicchi raccolti per ciascuno seminato. Come nei secoli passati, si imponeva inoltre la necessità di mantenere un giusto equilibrio fra arativi, boschi e pascoli, per evitare i rischi che l’intero sistema agricolo correva nel caso di un’eccessiva estensione della superficie coltivata: l’aumento dei prezzi del legname, principale fonte di energia e di calore, e la riduzione degli allevamenti.

2) L’aumento della superficie coltivata Nel XVIII secolo questo problema fu superato in seguito alla grande disponibilità di terra che

si venne a creare nell’Europa orientale, nei Balcani e in Russia. L’avvenimento fondamentale per l’intera area dall’Ungheria al mar Nero fu la liberazione di molte regioni dalla dominazione turca, in conseguenza del fallito tentativo del sultano ottomano di conquistare Vienna (1683). Per quasi due secoli questo immenso territorio era rimasto poco abitato, perché era stato utilizzato dai turchi soprattutto per l’allevamento brado dei bovini e dei cavalli. Dopo la sconfitta turca, esso si aprì a forti movimenti di emigrazione dalla Germania, dall’Impero asburgico e dalla Polonia. Simile fu il caso dell’Ucraina, nella Russia meridionale. Per la minaccia turca e la paura delle incursioni delle tribù nomadi di origine mongola, questa regione era abitata al principio del Settecento solo dai cosacchi, i cavalieri posti a guardia della frontiera, e da una scarsa popolazione contadina. L’indebolimento dell’Impero ottomano e dei principati mongoli, che erano sotto la protezione dei turchi, rese possibile una forte spinta al popolamento delle fertili terre dell’Ucraina: dopo un processo di colonizzazione che si protrasse per più generazioni, esse divennero il granaio della Russia. Nel corso del XVIII secolo i paesi dell’area che abbiamo ora considerato furono quelli che conobbero i più elevati livelli di crescita demografica: la loro popolazione arrivò anche a raddoppiare.

3) La rivoluzione agricola nell’Europa occidentale Mentre Ungheria, Polonia e Russia erano, al principio del secolo, territori poco abitati, i paesi

dell’Europa occidentale avevano una popolazione numerosa e non potevano espandersi in regioni fertili e disabitate; si rendeva perciò necessario un aumento significativo dei rendimenti, una vera e propria “rivoluzione agricola”.

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Esperimenti di modernizzazione erano stati compiuti nel Seicento nelle regioni padane dell’Italia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. Nel Settecento fu quest’ultimo paese ad applicare su larga scala una radicale trasformazione nei sistemi di coltivazione, che, nel secolo successivo, si verificò anche nelle regioni più progredite di Francia, Germania e Italia. L’agricoltura si avviò a diventare una scienza e gli agronomi giunsero alla conclusione che non era necessario fare ricorso al riposo periodico della terra; scoprirono, infatti, che alcune piante, in particolare le leguminose, potevano essere utilizzate come foraggio per il bestiame ed erano in grado di accrescere la fertilità dei campi. Sparì perciò la pratica del maggese, cioè di mantenere una parte del campo incolto per un certo periodo di tempo, e su tutti i campi si instaurò la coltivazione continua, basata su un sistema di rotazioni che avvicendavano, anno dopo anno, piante diverse (frumento, mais, piante da foraggio), così da compensare la progressiva perdita di fertilità del terreno.

4) Lo sviluppo dell’allevamento Nel nuovo sistema agricolo i campi non erano più costretti a crescere a spese dei pascoli. I

vasti pascoli naturali, essenziali per l’agricoltura tradizionale, furono infatti sostituiti da prati seminati con piante foraggere (come il trifoglio e l’erba medica), sui quali era possibile allevare un numero di capi di bestiame assai più alto che in passato. Lo sviluppo dell’allevamento mise a disposizione dell’agricoltura un maggior numero di animali da impiegare nei lavori agricoli (per esempio, nel traino degli aratri) oltre che una maggiore quantità di concime. Inoltre aumentò la disponibilità di alimenti di origine animale (carne, latte, formaggi), ma il loro consumo riguardò soprattutto i ceti abbienti e restò invece a lungo insufficiente presso i ceti popolari.

5) I diritti dei contadini sulle terre comuni

La nuova agricoltura sconvolse la vita dei villaggi rurali inglesi. Qui l’attività agricola era tradizionalmente basata su piccole unità di coltivazione e sull’uso del pascolo collettivo sulle terre lasciate a maggese. Nella seconda metà del Settecento i grandi proprietari inglesi recintarono e accorparono le loro terre, creando unità di produzione più grandi, e furono autorizzati dal parlamento ad appropriarsi dei pascoli naturali, che vennero anch’essi recintati. I contadini più poveri, quindi, non poterono più contare sugli usi comuni di pascolo, sui campi aperti e sulle terre incolte.

PAROLE CHIAVE

MAGGESE ALLEVAMENTO BRADO CETO ABBIENTE CETO POPOLARE CAMPI APERTI

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LEZIONE 3: L’ILLUMINISMO

1) La filosofia dei Lumi: il primato della ragione La tradizione, il dogma, la fede e l’autorità erano state per secoli il fondamento della verità.

Le nuove conoscenze geografiche nel XV e XVI secolo e gli sviluppi della scienza moderna già nel XVII avevano fatto cadere molte certezze consolidate; ma fu poi nel Settecento che si diffuse un generale atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti delle più antiche e venerate convinzioni. Unico criterio ammissibile nella ricerca della verità doveva diventare l’esame spassionato, condotto con i “lumi” della ragione che facevano dissolvere le “tenebre” dell’ignoranza, del pregiudizio, della superstizione. “Filosofia dei lumi” o “Illuminismo” fu denominato i movimento culturale che sosteneva queste tesi, e “illuministi” o “filosofi” furono detti i suoi esponenti. Centro originario del movimento fu la Francia e più particolarmente la città di Parigi.

2) Gli illuministi e la religione

Dai princìpi dell’Illuminismo derivava la rivendicazione della libertà, in particolare della libertà di stampa e di quella religiosa. Gli illuministi condannarono il fanatismo religioso, che aveva prodotto le guerre di religione, e si opposero alla pretesa della Chiesa cattolica di dettare in tutti i campi la verità ultima e di imporre l’intolleranza nei confronti di chiunque si allontanasse da queste verità. Alcuni di loro furono atei dichiarati, ma per lo più ammisero una religione razionale che affermava l’esistenza di Dio e lo considerava creatore del mondo e autore delle leggi che lo governavano. Ammettevano però la più ampia libertà nel modo di rappresentare la divinità e di onorarla e sostenevano che non appena una religione organizzava un clero e questo produceva riti e dogmi obbligatori, subito si riaffacciava il pericolo dell’intolleranza.

3) Le teorie politiche degli illuministi

Nel campo della politica i filosofi furono oppositori dell’assolutismo e discussero dei mezzi più adatti a limitarne il potere. Nella sua opera Lo spirito delle leggi (1748) il barone di Montesquieu, tenendo presente il sistema sorto in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1688, sostenne che, per non degenerare in dispotismo, il potere andava diviso. A un parlamento rappresentativo spettava il potere legislativo, cioè il potere di fare le leggi; al re e ai suoi ministri il potere esecutivo, cioè quello di mettere in atto le leggi e governare nel loro rispetto; a una magistratura indipendente dal potere politico toccava il potere rendere la giustizia ai cittadini nel campo civile e penale. Montesquieu era quindi a favore di una monarchia costituzionale, posizione condivisa da molti illuministi. La tesi della sovranità polare fu invece sostenuta da Jean-Jacques Rousseau nel Contratto sociale (1762) e sviluppata fino alle conclusioni più radicali: uno stato libero doveva essere anche democratico e repubblicano.

4) La diffusione europea dell’illuminismo Il pensiero illuminista si diffuse in Francia e poi in Europa attraverso i più svariati mezzi: i

giornali, i libri di politica e filosofia, le opere di divulgazione dei progressi della scienza, i romanzi filosofici, le discussioni nei salotti dell’aristocrazia progressista e nei caffè, i locali pubblici che si andavano moltiplicando nelle grandi città. Fra questi canali di circolazione delle idee

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un’attenzione articolare va riservata a una monumentale opera pubblicata a Parigi dal 1752, l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Nell’Europa del Settecento il francese era diventato una lingua internazionale, che tutte le persone colte erano in grado di leggere e anche di parlare. Questo fatto fu fondamentale nella diffusione dell’Illuminismo, che non fu soltanto un fenomeno francese, ma trovò un pubblico e dei contributi originali in molti paesi europei. Già dal 1758 una seconda stampa dell’Enciclopedia venne realizzata a Lucca; altre quattro edizioni furono avviate a Livorno e in Svizzera. Una gran parte delle complessive 24.000 copie uscite fra il 1751 e il 1779 furono vendute fuori di Francia.

PAROLE CHIAVE

ILLUMINISMO INTOLLERANZA POTERE RAPPRESENTATIVO POTERE LEGISLATIVO MONARCHIA COSTITUZIONALE

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6.LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

LEZIONE 1: I PROGRESSI NEL SISTEMA DEI TRASPORTI

1) Il sistema stradale all’inizio del Settecento

Al principio del Settecento, le strade europee non erano sostanzialmente migliorate rispetto a tre o quattro secoli prima: erano strette, raramente lastricate e perciò difficilmente percorribili d’inverno per il fango e d’estate per la polvere, Anche quelle migliori, in mancanza di una manutenzione continua, finivano per deteriorarsi, a causa del gelo che le spaccava e delle ruote dei carri che producevano sprofondamenti. Un sistema di comunicazioni non efficiente determinava molti problemi. In caso di una carestia locale, non era possibile trasferire velocemente le eccedenze di raccolto dalle regioni vicine. Inoltre, strade strette e poco curate obbligavano a trasportare pochi prodotti per volta e non permettevano spostamenti veloci: questo comportava un alto costo di trasporto delle merci, che i mercanti facevano ricadere sui consumatori aumentando i prezzi. Gli alti prezzi delle merci frenavano poi lo sviluppo delle manifatture. Già dalla fine del Seicento gli stati dell’Europa occidentale avevano cercato di compensare le carenze del sistema stradale sfruttando i fiumi navigabili e collegandoli con canali artificiali; ma diverse regioni continuavano a restare quasi completamente isolate l’una dall’altra.

2) Lo sviluppo del sistema stradale

La Francia, con la sua efficiente amministrazione centralizzata, fu il primo paese a realizzare un grande piano di ristrutturazione e ampliamento della rete stradale. Nel 1780, dopo mezzo secolo d’interventi, questa aveva raggiunto i 25.000 km. Nel XVIII secolo il sistema basato sui cavalli e su carri o carrozze era il più veloce mezzo di trasporto per merci e passeggeri. Nei paesi europei più progrediti si costruivano strade più larghe e dotate di un fondo stradale più solido, i servizi di trasporto divennero regolari e comparvero carrozze munite di sospensioni: tutto ciò permetteva ai passeggeri di effettuare viaggi più rapidi e più comodi. Di conseguenza i tempi di percorrenza sui principali itinerari si ridussero notevolmente, rispetto ai primi decenni del Settecento: per andare da Parigi a Marsiglia, ad esempio, occorrevano otto giorni invece di dodici.

3) Carbone e canali La riduzione della superficie forestale aveva provocato in Inghilterra forti aumenti nel costo

della legna. Questo paese si era così rivolto sempre più all’uso del carbon fossile, sia nel riscaldamento e negli altri usi domestici, sia in molte attività industriali. Il principale ostacolo a una diffusione ancora maggiore del carbone era dato dagli elevati costi di trasporto; trattandosi di un prodotto pesante e voluminoso, anche dopo un percorso terrestre non molto lungo, il suo prezzo finale era destinato a crescere notevolmente. Di conseguenza, benché in Inghilterra i giacimenti di carbone fossero molto numerosi, l’unico a essere sfruttato a fondo era il bacino del fiume Tyne, nel nord-est del paese, perché la sua vicinanza al porto di Newcastle permetteva il trasporto del carbone via mare e sul Tamigi, con costi molto inferiori rispetto al trasporto via terra. In questo modo riforniva la popolazione di Londra e di altri centri urbani minori posti sulla costa.

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A metà Settecento molte miniere di carbone restavano ancora poco utilizzate. I proprietari cercarono di ricavare un maggiore profitto dal loro sfruttamento e studiarono una soluzione al problema dei trasporti. Per sostituire il costoso trasporto su carri con quello più economico su grandi chiatte venne avviata la costruzione di una rete artificiale di navigazione interna. Il primo canale inglese fu scavato fra il 1759 e il 1761 e misurava 11 km; quarant’anni dopo la rete dei canali aveva già superato la lunghezza complessiva di 1.000 km, integrandosi con la navigazione fluviale e marittima.

4) Trasporti e sviluppo industriale

Il miglioramento della rete stradale favorì lo sviluppo delle attività industriali che si servivano di materie prime relativamente leggere e poco ingombranti (come la lana). La mancanza di un buon sistema di fiumi navigabili e canali penalizzava invece fortemente la produzione di metalli: lo sviluppo dell’attività estrattiva era infatti difficoltosa a causa dell’elevato costo dei trasporti. Alla base della produzione dei metalli ferrosi vi era l’estrazione dalle miniere di enormi quantità di materiale grezzo, che venivano sottoposte a varie operazioni di frantumazione e prime fusioni per separare le parti più ricche di minerale dai residui. Le imprese minerarie tradizionali erano sorte vicino alle riserve del combustibile necessario alle loro attività, cioè ai boschi, dove si trovavano abbondanti quantità di legname. Di conseguenza potevano essere sfruttate solo le miniere situate in luoghi collinari o montuosi; in ogni caso le imprese minerarie erano di piccole dimensioni e fortemente disperse sul territorio. In Inghilterra i progressi compiuti nelle comunicazioni interne ebbero un ruolo decisivo anche per gli sviluppi delle attività industriali. I canali misero a disposizione delle imprese minerarie e metallurgiche un combustibile a basso prezzo come il carbone, la cui produzione passò fra il 1750 e il 1800 da 5 milioni a 13 milioni di tonnellate annue. Di conseguenza fu possibile sfruttare anche le miniere che per la loro lontananza da boschi estesi erano rimaste inattive.

5) Miniere, binari e carrelli

Già dal principio del Settecento, per agevolare il trasporto del carbone nell’ultimo tratto dei pozzi, nelle miniere del bacino del Tyne si faceva uso di carrelli montati su binari di legno e trainati da cavalli. Analoghi impianti entrarono poi in funzione nel Galles meridionale per il trasporto del minerale ferroso grezzo. In seguito i binari furono costruiti in ferro e verso il 1820 esistevano 600 km di binari nella regione di Newcastle e altri 400 nel Galles. Da questo sistema di trasporto su binari stava nascendo il più vivace fra i nuovi settori industriali, quello delle ferrovie: dopo il 1830 esse sarebbero divenute il simbolo stesso della rivoluzione industriale.

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LEZIONE 2: L’INDUSTRIA TESSILE

1) Filatura e tessitura

La produzione dei tessuti avviene attraverso due operazioni fondamentali: la filatura, cioè la trasformazione in filo della fibra vegetale o animale, e la tessitura, con la quale i fili vengono intrecciati a formare la stoffa. Nel Settecento queste operazioni erano compiute con metodi simili a quelli usati nel mondo antico. Ma in Inghilterra, a partire dal 1769-79, una serie di piccole innovazioni tecniche avviò una radica e trasformazione delle industrie tessili. Le prime innovazioni avvennero nella tessitura. Già nel 1733 John Kay aveva introdotto una novità decisiva nelle macchine per tessere inventando la spoletta volante; era un congegno che rendeva più spedito il lavoro del tessitore, perché riduceva i gesti necessari per passare il filo della trama attraverso l’ordito. Prima occorrevano 4 o 5 filatori per rifornire un telaio della materia prima necessaria; dopo il 1750, quando venne superata l’iniziale ostilità dei tessitori e l’invenzione di Kay poté diffondersi, la produzione di tessuto di un telaio doveva essere alimentata dal lavoro di 6 o 7 filatori. Si creò così una maggiore domanda di filato che stimolò l’invenzione di nuove tecnologie anche nel campo della filatura.

2) Tessuti di lana e tessuti di cotone

Per secoli i tessuti di lana erano stati il principale prodotto inglese, ma le nuove macchine per la filatura della lana, ideate in questo periodo, si rivelarono poco adatte a produrre un filato di buona qualità. Molto più efficace si dimostrò invece l’applicazione delle stesse procedure alla filatura del cotone, una fibra tessile abbastanza robusta da resistere agli strappi e ai movimenti irregolari di macchine ancora rudimentali. Fin verso il 1770 i consumi inglesi di tessuti di cotone stampato erano dipesi dalle importazioni dall’India compiute dall’East India Company. I produttori di lana si erano sentiti danneggiati dalla diffusione di questo nuovo tessuto a basso costo e avevano cercato di limitarne le importazioni; a maggior ragione avevano ostacolato lo sviluppo di un’industria nazionale del cotone. L’opposizione dei lanieri cominciò tuttavia a essere vinta dopo il 1770 e l’importazione di cotone grezzo crebbe rapidamente.

3) La meccanizzazione nella filatura del cotone

Nell’arco di un decennio il settore della filatura del cotone poté allora essere rivoluzionato, con l’introduzione di filatrici meccaniche e con i miglioramenti a esse successivamente apportati da diversi artigiani dotati di grandi capacità inventive. Le macchine per filare il cotone consentirono di produrre un filato più omogeneo, sottile e resistente e di far muovere simultaneamente dallo stesso operaio un numero di fusi crescente: otto verso il 1770, sedici nel 1784, cento o centoventi alla fine del secolo. I vecchi mulini ad acqua furono adattati per far muovere le macchine filatrici e le nuove fabbriche sorsero in centri rurali, vicino ai corsi d’acqua che potevano fornire energia idraulica. Più tardi le filatrici meccaniche furono mosse dalle macchine a vapore e grazie alla maggior velocità dei fusi meccanici si ridusse enormemente il numero di ore necessarie per produrre filato di cotone: mentre con i metodi manuali per ottenere 100 libbre di filato (pari a 45 kg) erano necessarie 50.000 ore, con le filatrici meccaniche a vapore si passò a 1.000 ore e successivamente a meno di 300.

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4) Il tessuto di cotone come prodotto di massa

La diffusione del tessuto di cotone era favorita dal basso prezzo di vendita, che permetteva di creare un vasto mercato di prodotti di massa, La crescita demografica provocò una grande richiesta di nuovi beni di consumo. L’aumento della domanda stimolò così la meccanizzazione e le nuove tecnologie permisero di produrre di più e a prezzi più bassi; così i consumi crebbero ulteriormente. A questo punto il problema principale era diventato quello dj trovare il cotone grezzo. Negli anni Ottanta dei XVIII secolo l’Inghilterra acquistava il 30% del suo fabbisogno dall’Impero turco, mentre al restante 70% contribuivano le Antille inglesi e francesi e il Brasile. Intorno al 1801 la situazione del mercato era già notevolmente cambiata, in seguito all’installazione delle piantagioni di cotone nel Sud degli Stati uniti, dove la macchina inventata nel 1793 dall’americano Eli Whitney per separare il fiocco del cotone dai semi aveva fatto aumentare di trenta volte la produttività del lavoro.

Nel periodo 1770-1815 le importazioni in Inghilterra del cotone grezzo crebbero di oltre venti volte e raddoppiarono ancora nei successivi quindici anni. Dal 1780 anche la crescita delle esportazioni di tessuti di cotone fu rapidissima. 5) Gli sviluppi dell’industria nel settore tessile

I progressi tecnologici nella filatura del cotone e la forte domanda di tessuti stimolarono le innovazioni nella tessitura. Due brevetti per il telaio meccanico furono proposti nel1786 e nel 1801 rispettivamente dall’inglese E. Cartwright e dal francese J.-M. ]acquard. La diffusione dei telai meccanici fu ostacolata in un primo momento dalle resistenze dei tessitori, che temevano di essere sostituiti nel loro lavoro dalle macchine. I telai meccanici si imposero solo dopo il 1810 e ben presto si diffusero anche nel settore della lana. Di conseguenza l’attenzione degli inventori si concentrò su macchine capaci di produrre meccanicamente anche un buon filato di lana e, in questi stessi anni, apparvero, infatti, attrezzi più perfezionati adatti alle caratteristiche della lana. Intorno al 1815 esistevano tutte le condizioni perché l’intero settore tessile (lana e cotone, filatura e tessitura) fosse totalmente rivoluzionato, con la scomparsa dei metodi tradizionali e l’affermazione delle macchine.

PAROLE CHIAVE FILATURA TESSITURA SPOLETTA VOLANTE PRODOTTI DI MASSA

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LEZIONE 3: ENERGIA E MATERIE PRIME

1) Una nuova fonte di energia per l’industria

Come già sappiamo, nell’Europa pre-industriale il legno era la principale fonte di energia; nella maggior parte dei paesi restava anche la più importante materia prima per le costruzioni, accanto alla pietra e ai mattoni. Il consumo di legname andava però tenuto costantemente sotto controllo, perché un eccessivo impiegò poteva ridurre la superficie dei boschi e compromettere i bisogni futuri. Li rivoluzione industriale eliminò questo rischio, avviando lo sfruttamento di una nuova fonte che poteva considerarsi all’epoca quasi inesauribile: il carbon fossile. Abbiamo già visto nel primo capitolo che il consumo del carbon fossile in Inghilterra era gradualmente aumentato nel corso del Settecento. Quando venne risolto il problema del costo dei trasporti, la sua produzione poté crescere a ritmi spediti, passando dai 5 milioni di tonnellate del 1750 ai 23 milioni del 1825. A quest’ultima data ogni inglese disponeva mediamente di poco meno di quattro chilogrammi di carbone al giorno.

2) La macchina a vapore e il carbone Il trasporto dalle zone di produzione a quelle di consumo era solo uno dei problemi. Prima

ancora di trasportarlo, il carbone andava estratto; via via che i pozzi e le gallerie diventavano più profondi diventava necessario prosciugare l’acqua che si incontrava e bisognava, perciò, disporre di pompe realmente efficienti. Le tecniche di sollevamento dell’acqua avevano attratto l’attenzione degli inventori già dal 1698, ma una vera svolta si ebbe solo dopo il 1765, quando gli esperimenti sulla forza del vapore condussero James Watt a progettare la prima vera macchina a vapore. La combustione del carbone produceva energia termica, cioè calore, con cui la macchina di Watt portava a ebollizione l’acqua contenuta in una caldaia; il vapore prodotto dall’acqua esercitava una pressione che, opportunamente incanalata, permetteva di mettere in movimento diversi tipi di meccanismi. Questo rapporto fra macchina a vapore e carbon fossile era molto significativo, perché l’una sostenne lo sviluppo dell’altro e viceversa. Infatti la macchina di Watt consentì di scavare e prosciugare pozzi più profondi e di aumentare la produzione di carbone; il carbone a sua volta fornì il combustibile necessario a produrre il vapore per un numero di macchine di Watt sempre maggiore. A partire dal 1780, poi, grazie allo sviluppo del sistema di strade, canali e binari, che ridusse il costo dei trasporti, e al ricorso alla macchina a vapore, fu possibile produrre carbon fossile a prezzi sempre più bassi.

3) Il ferro e la sua industria La produzione di ferro, che avveniva separando negli altiforni il metallo dal minerale grezzo,

consumava grandi quantità di carbone vegetale prodotto dal legname delle foreste, ma fino alla metà del secolo la siderurgia inglese non poté sostituirlo con il meno costoso carbone di origine minerale. Mentre, già nel XVI e XVII secolo, il carbon fossile si era imposto come combustibile utilizzato comunemente nella produzione della birra, nella distillazione, nella fabbricazione di mattoni e vetri e anche nella fusione di minerali come il piombo e lo stagno, nella lavorazione

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dei minerali ferrosi il suo uso era invece sconsigliato, perché qui il risparmio sul combustibile era controbilanciato dalla cattiva qualità del prodotto ottenuto, una ghisa troppo fragile. La soluzione di questo problema tecnico si diffuse dopo il 1750, quando il carbon fossile venne liberato delle sue molte impurità e trasformato in coke1: da questo momento il coke sostituì progressivamente il legno nella produzione di ferro con gli altiforni. Nel 1760 erano in attività diciassette altiforni a coke e dopo questa data essi si sostituirono del tutto ai vecchi altiforni a carbone di legna. La domanda di coke per la produzione di ferro aumentò proprio nel momento in cui la costruzione dei canali ne riduceva i costi di trasporto. Fra il 1750 e il 1810 la produzione di ferro crebbe di dieci volte e permise di moltiplicare la produzione delle macchine a vapore, mentre la ghisa (una lega di ferro e carbonio, resistente alla corrosione) si impose nella costruzione di ponti e di strutture edilizie.

4) Come si misurano gli sviluppi della rivoluzione industriale Le trasformazioni prodotte dalla rivoluzione industriale possono essere valutate in vari modi.

Uno di questi consiste nel vedere in che modo variò nel tempo il peso dei grandi settori dell’economia, cioè la percentuale di beni prodotti da ciascun settore in rapporto al prodotto totale di uno stato. Nelle economie tradizionali l’agricoltura e l’allevamento del bestiame fornivano la maggior parte (fino al 70 o 80%) della ricchezza disponibile, mentre il resto derivava, in parti quasi uguali, dalle manifatture e dai servizi resi dal commercio o dai trasporti. La rivoluzione industriale provocò una grande crescita del peso della produzione manifatturiera: verso il 1800 questa rappresentava il 23% del prodotto totale inglese e nel 1850 il 34%. Ugualmente importanti sono i mutamenti avvenuti nelle fonti di energia. Nelle economie tradizionali la maggior parte dell’energia consumata derivava da combustibili vegetali (il legno) , oltre che da alcune fonti di energia animata (il lavoro muscolare di uomini e animali) e inanimata (il vento per le navi e ancora il vento e l’acqua per i mulini). Con la rivoluzione industriale crebbe il peso dei combustibili minerali (le diverse qualità di carbone). Già nell’Inghilterra del 1750, alla vigilia della rivoluzione industriale, il carbone rappresentava circa il 50% dei consumi di energia per il complesso degli usi domestici e produttivi (contro il 10% del 1650). Verso il 1825 questa cifra era arrivata al 70%, esclusivamente per la crescita dei bisogni industriali di combustibile.

PAROLE CHIAVE

COKE MACCHINA A VAPORE DOMANDA

1 Carbone che si ottiene facendo “cuocere” il carbone fossile in speciali forni. Con questo procedimento il carbone viene

liberato dai fosfati e dallo zolfo che alterano la purezza del ferro durante la fusione.

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LEZIONE 4: LA FABBRICA E LA CITTÀ INDUSTRIALE

1) La macchina a vapore e la fabbrica La rivoluzione industriale inaugurò l’epoca del predominio delle macchine, il simbolo è

rappresentato dalla macchina a vapore. Abbiamo già visto che essa fu usata per prosciugare i pozzi delle miniere di carbone e per insufflare ossigeno negli altiforni che producevano ghisa e acciaio. La macchina a vapore fu inoltre impiegata al posto dei mulini per azionare le filatrici meccaniche. Nel passato la produzione tessile, soprattutto nel settore della filatura, era dispersa nei piccoli centri urbani e nelle campagne. Successivamente le nuove fabbriche sorsero vicino alle fonti di energia idraulica, cioè ai corsi d’acqua. Infine, con la comparsa della macchina a vapore, fu possibile concentrarle nelle città (che avevano il vantaggio di essere vicine alle grandi vie di comunicazione e ai centri di smercio) e ampliarne le dimensioni. La filanda a vapore situata in un centro urbano, con migliaia di fusi e alcune centinaia di operai, fu il primo autentico modello di fabbrica industriale moderna. In pochi anni le fabbriche tessili ebbero una crescita straordinaria: basti pensare che nel 1780 esistevano in Inghilterra una ventina di filande, mentre agli inizi del XIX secolo erano attive 600 fabbriche nelle quali erano concentrati cinque milioni di fusi meccanici.

2) L’origine della manodopera industriale Per far funzionare le fabbriche era necessaria molta manodopera. Per questo, tra la fine del

Settecento e l’inizio dell’Ottocento un gran numero di lavoratori si concentrò nelle città e fu impiegato nella nascente industria. Questi nuovi lavoratori provenivano prima di tutto dall’agricoltura. Nelle campagne inglesi la rivoluzione agraria stava provocando la recinzione delle terre comuni e l’eliminazione del maggese. Poiché i contadini più poveri non potevano più occupare e utilizzare per la propria sopravvivenza le terre incolte, o marginalmente coltivate, le campagne non furono più in grado di dare occupazione e mezzi di sopravvivenza a tutta la popolazione agricola, in forte aumento a causa della crescita demografica. I contadini poveri, privati di ogni possibilità di sussistenza, furono allora attratti dalle città, dove trovarono lavoro nelle nascenti industrie. In secondo luogo, i lavoratori provenivano dall’artigianato, perché il numero degli artigiani tessili necessari alle manifatture si era ridotto a causa dell’utilizzo delle macchine. Rispetto alle macchine, gli artigiani producevano con minore rapidità e con costi assai più elevati; dovettero alla fine riconoscere che la loro competenza ed esperienza aveva perso ogni valore e si adattarono a entrare nelle fabbriche come semplici operai. 3) La geografia della popolazione

Nel corso del Settecento l’Inghilterra aveva registrato una crescita demografica di circa il 65%, concentrata in massima parte nella seconda metà del secolo. Questa crescita si distribuì in maniera molto diseguale nelle varie contee inglesi. In quelle del sud-est, prevalentemente agricole, l’incremento fu inferiore alla media, mentre in quelle del centro, sede del maggior sviluppo industriale, esso fu assai più consistente. Il Warwickshire e lo Staffordshire, contee carbonifere e sedi di industrie metallurgiche, raddoppiarono la loro popolazione complessiva, da 224.000 a 447.000; il West Riding, sede delle industrie laniere, crebbe da 240.000 a 582.000 abitanti; il Lancashire, dove nacque l’industria cotoniera, ebbe l’aumento maggiore, da 240.000 a 672.000 abitanti. L’insieme di

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queste quattro contee più industrializzate passò nel corso del secolo dal 12 al 18,5% del totale della popolazione inglese.

4) Lo sviluppo delle città in Inghilterra Ancora più rapida fu la crescita della popolazione urbana. La macchina a vapore e gli

attrezzi tessili meccanici fecero nascere le fabbriche; queste a loro volta diedero origine alle città industriali moderne. Verso il1750 esistevano in Europa (non considerando la Russia) 153 città con oltre 20.000 abitanti, e di queste una sola era inglese, Londra. Londra non era solo la capitale e il maggior porto dell’Inghilterra, ma anche il polo di un impero mercantile di portata mondiale, centro del più complesso ed esteso sistema finanziario e importante mercato per il tè, lo zucchero e il tabacco: essa rappresentava da sola, alla vigilia della rivoluzione industriale, l’11% della popolazione inglese. Ma, escludendo Londra, l’Inghilterra restava un paese scarsamente urbanizzato. Cinquant’anni dopo l’Inghilterra, primo esempio di diffusione del capitalismo industriale, si stava trasformando nel paese più urbanizzato d’Europa: vi si trovavano diciassette delle 194 città europee con oltre 20.000 abitanti. Ancor più significativo è il fatto che queste nuove città industriali nascevano spesso dal nulla, venendo a costituire una rete urbana del tutto diversa da quella delle epoche precedenti. Un caso esemplare è quello di Manchester, che aveva circa 8.000 abitanti nel 1700 e che divenne poi il maggior centro dell’industria cotoniera del Lancashire, con 50.000 abitanti nel 1790, 85.000 nel 1810, e più di 300.000 nel 1850.

PAROLE CHIAVE

CAPITALISMO INDUSTRIALE

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7. L’EUROPA DELLE RIVOLUZIONI LEZIONE 1: LA RIVOLUZIONE AMERICANA

1) Le colonie inglesi in America settentrionale La prima importante sollevazione contro l’assolutismo non si ebbe in Europa, ma fra i coloni

americani soggetti all’autorità della monarchia inglese. In America settentrionale, come in qualsiasi altra parte del mondo, i rapporti fra le colonie e madrepatria erano regolati da un principio: la cosa più importante erano gli interessi della madrepatria, anche a scapito dello sviluppo economico delle colonie. I coloni dovevano vendere le risorse naturali della terra in cui risiedevano solamente al loro paese d’origine e acquistare da esso tutti i prodotti lavorati di cui avevano bisogno. Un esempio è dato dalla legge inglese sui minerali ferrosi americani: erano riservati esclusivamente alla Gran Bretagna; alle colonie era proibito venderli a qualsiasi altro stato e in più esse non potevano avere una propria industria siderurgica, ma erano tenute a importare solo metalli lavorati in Gran Bretagna. Una simile situazione era accettabile solo finché le colonie erano deboli e bisognose della difesa militare garantita dalla madrepatria.

2) Una nuova società oltre l’Atlantico

La grande lontananza delle colonie dalla madrepatria aveva fatto sì che esse potessero godere di un ampio autogoverno e che fossero esentate dal pagamento delle tasse in vigore nello stato inglese. Dal 1764 il re d’Inghilterra e il parlamento decisero però di stabilire una piena sovranità sulle colonie americane, e quindi anche di far pagare loro le tasse: questa decisione provocò il conflitto che condusse alla nascita degli Stati uniti d’America. Le tredici colonie inglesi in America erano, infatti, molto diverse dalle basi commerciali e dalle piantagioni create dagli stati europei negli altri continenti. Esse erano sorte in territori poco abitati e più facili da conquistare, popolare e mettere a coltura, vincendo la debole resistenza delle tribù indiane; verso il 1765 avevano già oltre due milioni di abitanti (un terzo di quelli dell’Inghilterra) e la loro popolazione era in rapida crescita. Lo sviluppo demografico ed economico delle colonie aveva prodotto una società nuova, i cui legami con la madrepatria con il tempo si andavano attenuando. I tentativi del governo inglese di mantenere i coloni in una condizione di inferiorità politica ebbero l’effetto di farli diventare pienamente coscienti della possibilità di dar vita a uno stato autonomo.

3) La rivoluzione americana Le colonie americane rifiutarono dapprima di pagare le tasse richieste dal governo di

Londra, opponendo il principio “niente tasse senza rappresentanza” (No Taxation Without Representation). Si trattava di una rivendicazione non strettamente economica, ma con importanti conseguenze politiche: i coloni intendevano affermare i loro diritti di inglesi e dichiaravano che avrebbero pagato le tasse solo se avessero potuto inviare propri rappresentanti al parlamento di Londra. Di fronte al rifiuto opposto da Londra, cominciarono a prevalere le posizioni più radicali, favorevoli all’indipendenza. Alla fine del 1774 l’Inghilterra cercò di arrestare questa evoluzione inviando truppe in America, ma il ricorso alla forza ebbe solo l’effetto di spingere i coloni a un’aperta ribellione. Nel luglio 1776 i loro rappresentanti, riuniti a Filadelfia, stesero una

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dichiarazione d’indipendenza, mentre i primi tentativi di resistenza armata alla repressione inglese portarono a una guerra che ebbe esito positivo per i coloni. Ciò dipese in gran parte dall’aiuto militare offerto agli americani dalla Francia, desiderosa di ottenere una rivincita sulle numerose sconfitte che l’Inghilterra le aveva inflitto nel corso del XVIII secolo. Nel 1783 l’Inghilterra dovette riconoscere l’indipendenza delle colonie che in seguito, con la Costituzione del1787, diedero vita a una repubblica federale.

4) Dall’America all’Europa Della rivoluzione americana si parlò molto in Europa; infatti i princìpi che l’avevano Ispirata,

per esempio il richiamo a diritti inalienabili dell’uomo quali la libertà, presentavano stretti rapporti con le dottrine politiche dell’illuminismo. Al momento della creazione degli Stati uniti in diversi stati europei esistevano tendenze antiassolutiste che avrebbero potuto manifestarsi con disordini e sollevamenti: in Belgio contro gli Asburgo, in Polonia contro gli stati che stavano spartendosi il paese, in Francia contro la monarchia borbonica. Anche se partendo da circostanze molto diverse da quelle delle colonie americane, fu la Francia il primo paese europeo a imboccare la via della rivoluzione.

PAROLE CHIAVE

COLONIA RIVENDICAZIONE

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LEZIONE 2: LA FRANCIA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE

1) L’ordinamento dello stato

Molte delle riforme che i sovrani europei cercavano di realizzare nei loro stati erano già da tempo operanti in Francia. Intorno al 1770 la Francia possedeva un numeroso e sperimentato corpo di pubblici funzionari e il maggior grado di accentramento amministrativo e di uniformità legislativa fra gli stati europei. Le nuove province entrate a far parte del regno nel corso dei secoli erano state integrate e avevano perso ogni forma di autonomia, anche se c’era ancora da fare molta strada in direzione dell’uniformità totale. I metodi di imposizione fiscale, infatti, presentavano notevoli differenze nelle diverse province e alcune di queste avevano mantenuto veri e propri privilegi. Le leggi generali più recenti erano le stesse per tutto il regno, ma in diversi settori (famiglia, proprietà privata, eredità) si erano conservate tradizioni giuridiche locali. Altre differenze esistevano nei sistemi dei pesi e delle misure: il valore di unità fondamentali come la libbra, il pollice, il piede o la lega variava da una regione all’altra.

2) Gli ordini sociali Come accadeva in tutti i paesi europei, la società francese era composta da tre classi o (per

usare i termini allora più diffusi) da tre “ordini” o “stati”. I primi due erano il clero e la nobiltà; il terzo si chiamava in Francia semplicemente “Terzo stato”. I primi due ordini non pagavano le imposte, ma questa era solo una delle eccezioni fatte a loro favore. I membri del clero e della nobiltà non erano soggetti alle leggi comuni, perché potevano essere giudicati solo da tribunali speciali di loro pari ed erano sottratti alle pene considerate infamanti (come l’impiccagione). Il clero rappresentava lo 0,5% della popolazione francese (130.000 persone, compresi gli ordini religiosi maschili e femminili), era proprietario dì quasi il 10% della terra e in più aveva il potere di riscuotere le decime dai contadini. La nobiltà era più numerosa (circa 350.000 persone) e possedeva oltre un quinto della terra. I nobili erano gli unici a essere ammessi negli alti gradi dell’esercito e a poter esercitare la caccia, con il diritto di attraversare la proprietà altrui per inseguire la selvaggina; il passaggio dei nobili sui terreni spesso danneggiava le colture: questa era una delle molte ragioni di ostilità del Terzo stato nei confronti della nobiltà.

3) Il Terzo stato e la sopravvivenza del regime feu dale

La grande maggioranza della popolazione francese faceva parte del Terzo stato, che comprendeva diversi gruppi sociali: commercianti, finanzieri, professionisti come medici e avvocati, artigiani, lavoratori salariati delle città e, al gradino più basso della considerazione sociale, i contadini; questi ultimi, da soli, erano circa 20 dei 26 milioni di abitanti della Francia. I contadini non erano tutti nella stessa condizione: vi erano i proprietari di terre, i mezzadri, gli affittuari e i contadini poveri che lavoravano come braccianti. Queste categorie sociali avevano ragioni diverse di malcontento: i ceti borghesi benestanti lamentavano il fatto di essere esclusi dalla carriera militare e dalle maggiori cariche amministrative e giudiziarie, ma era il mondo contadino ad avere i più seri motivi di ostilità nei confronti della nobiltà. Pochi contadini erano ancora in condizione di servitù; tutti, però, che fossero braccianti o proprietari delle terre che coltivavano, dovevano consegnare al signore una parte considerevole

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del raccolto; inoltre ogni passaggio di proprietà, vendita o successione ereditaria delle terre contadine prevedeva una tassa a favore del signore.

4) La crisi economica Molti contadini, quindi, erano scontenti della loro situazione. Tale condizione di malessere

aumentò fortemente nel 1788. In quell’anno, infatti, il raccolto fu uno dei peggiori degli ultimi decenni. Dal gennaio 1789 il prezzo del pane cominciò a crescere sempre più rapidamente, toccando a giugno e luglio livelli tre volte superiori a quelli considerati normali. Sulle farine che entravano a Parigi gravava inoltre un’imposta piuttosto elevata, che il governo non pensò di sospendere in un momento così difficile.

5) La crisi finanziaria

In Francia, come nelle altre monarchie più avanzate, erano stati fatti numerosi tentativi di far pagare le tasse anche alla nobiltà e al clero, ma erano tutti falliti. Oltre che ingiusto, il sistema fiscale francese appariva poco efficiente, perché gli esattori delle tasse erano in gran parte finanzieri privati che si preoccupavano più del loro tornaconto che di quello dello stato. Il governo non poteva, però, fare a meno di questi finanzieri: essi offrivano, infatti, al re i prestiti necessari per pareggiare bilanci sempre in deficit, anche se richiedevano per questo servizio alti interessi. Gli elevati costi delle guerre condotte nel corso del secolo avevano fatto crescere il carico fiscale e il debito statale. Per di più queste guerre si erano concluse spesso negativamente. La Francia, infatti, era stata sconfitta nella guerra coloniale contro la Gran Bretagna: aveva conservato Haiti e le altre isole caraibiche esportatrici di zucchero, ma aveva dovuto cedere agli inglesi il Canada e rinunciare a ogni progetto di dominio in India. La partecipazione economica della Francia alla guerra d’indipendenza americana aveva moltiplicato i debiti dello stato e fatto temere un vero fallimento finanziario dello stato.

PAROLE CHIAVE IMPOSIZIONE FISCALE ESATTORE DELLE TASSE

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LEZIONE 3: LA RIVOLUZIONE FRANCESE E I SUOI RISULTA TI

1) Dagli Stati generali all’Assemblea nazionale cos tituente Per far fronte alla crisi, il re Luigi XVI convocò nel maggio 1789 a Versailles gli Stati generali,

l’assemblea rappresentativa dei tre stati del regno, che non si era più riunita dal lontano 1615. Ciò che il re si aspettava dagli Stati generali era una serie di misure capaci di risolvere la crisi della finanza pubblica. Tutti gli stati, però, tendevano ad attribuire la responsabilità della difficile situazione economico-sociale proprio all’assolutismo regio. Ben presto gli Stati generali sfuggirono al controllo del re e il 17 giugno 1789, su iniziativa del Terzo stato, decisero di proclamarsi Assemblea nazionale, con ampi poteri di riforma, e “costituente” perché incaricata di redigere una costituzione. Mentre il re, contrario all’Assemblea costituente, stava per intervenire con l’esercito, a Parigi la situazione precipitò. Il malcontento dei ceti popolari, colpiti dalla crisi economica, si unì a quello dei ceti borghesi, che temevano che l’Assemblea costituente venisse sciolta, e il 14 luglio il popolo di Parigi insorse: dopo aver saccheggiato le caserme per prelevare le armi, diede I’assalto alla fortezza della Bastiglia, un simbolo dell’assolutismo, e la espugnò. Parigi cadde dunque sotto il controllo dei rivoluzionari.

2) La fine dell’Antico regime L’Assemblea nazionale costituente fu così salvata dall’insurrezione di Parigi. I lavori

dell’Assemblea si conclusero nel settembre 1791, dopo l’approvazione di una nuova costituzione. L’attività in questo periodo fu ben più profonda di quella compiuta nei decenni precedenti dall’assolutismo illuminato. I costituenti giudicavano la vecchia società come il prodotto di epoche passate dominate dall’ignoranza; con tutte le sue ingiustizie e la sua inefficienza, era inoltre soggetta a leggi che lungo i secoli si erano sommate in maniera incoerente. Era giunto ora il momento di attuare interventi radicali.

3) La Costituzione del 1791

Con la Costituzione, l’Assemblea nazionale decretò la fine di ciò che venne chiamato “Antico regime” e compì una vera rifondazione della Francia. Tutte le antiche province, derivate dalle regioni storiche annesse nel corso dei secoli al regno di Francia, furono abolite assieme ai loro organismi amministrativi e alle leggi locali. La Francia fu suddivisa, secondo un criterio territoriale del tutto nuovo, in ottantatré dipartimenti definiti in modo che avessero circa la stessa estensione e destinati a essere retti dalle stesse leggi. I sudditi divennero cittadini, con il diritto di partecipare alla vita pubblica. La monarchia assoluta fu trasformata in una monarchia parlamentare, nella quale Luigi XVI (non più re di Francia, ma “re dei francesi”) doveva dividere i poteri con un’assemblea legislativa eletta da un ampio numero di elettori. Furono eliminati i residui della società feudale: sparirono i privilegi fiscali e giuridici della nobiltà e del clero e fu proclamata l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Una legge denominata “Costituzione civile del clero” stabilì che le proprietà terriere della Chiesa fossero trasferite allo stato e che vescovi e parroci fossero eletti dal popolo e stipendiati dallo stato.

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4) L’abolizione della monarchia e il Terrore

Una svolta decisiva nelle vicende della Francia si ebbe quando il governo uscito dalla rivoluzione, eletto secondo i nuovi criteri stabiliti dalla Costituzione del 1791, volle porsi come esempio per tutta l’Europa nella lotta alle tirannidi dichiarando guerra all’Austria. Luigi XVI fu accusato di operare segretamente perché la Francia fosse sconfitta e il 10 agosto 1792 l’Assemblea ordinò il suo arresto. La rivoluzione del 1789 aveva prodotto una monarchia costituzionale. Il 1792 vide una seconda rivoluzione, che condusse il 21 settembre alla proclamazione della repubblica. Meno di tre mesi dopo, la nuova assemblea pose sotto processo Luigi XVI, che fu condannato a morte. La fase più radicale della rivoluzione francese si ebbe dal settembre 1792 al luglio1794. In questo periodo si scatenò la guerra civile: da una parte la sollevazione della regione della Vandea, fedele al re e appoggiata dal clero; dall’altra la lotta per il potere all’interno dello stesso governo rivoluzionario. Per far fronte a questa situazione, aggravata dalla guerra contro le altre potenze europee, il raggruppamento di rivoluzionari che ebbe la meglio, quello dei giacobini, istituì un governo dittatoriale, represse con violenza le opposizioni e condannò a morte migliaia di avversari politici. Questo periodo viene chiamato del “Terrore”.

5) Un nuovo ceto di contadini proprietari

La rivoluzione francese non restò confinata nel campo delle istituzioni politiche, ma assunse anche un contenuto economico e sociale. Già nel 1789 l’attività dell’Assemblea costituente aveva toccato la proprietà terriera. Alcuni dei diritti signorili che gravavano sulle terre lavorate dai contadini erano stati del tutto aboliti; di altri era previsto che i contadini potessero liberarsene pagando ai proprietari un indennizzo. I beni terrieri della Chiesa, come abbiamo visto, erano stati dichiarati proprietà della nazione e posti in vendita, con lo scopo di utilizzare il ricavato per rimborsare i creditori dello stato. Il governo rivoluzionario che resse la Francia nel 1793-94 andò molto più lontano. Gli indennizzi previsti a favore della nobiltà furono annullati; la vendita dei beni ecclesiastici proseguì cercando di favorire i contadini; anche le proprietà delle famiglie aristocratiche furono dichiarate beni nazionali e poste in vendita. La rivoluzione produsse così un’enorme redistribuzione della terra, in gran parte a favore dei contadini. La creazione di una vasta categoria di piccoli proprietari fu un fatto definitivo, che nel seguito della storia francese nessuno rimise più in discussione.

6) La rivoluzione nella vita quotidiana Negli anni 1792-94 la rivoluzione francese non si limitò alle istituzioni politiche, economiche

e sociali, ma toccò anche molti aspetti della vita quotidiana. A volte si trattò solo di mutamenti nel modo di vestirsi o di portare i capelli, spesso destinati a mantenersi nel tempo. I borghesi smisero di imitare i costumi dell’aristocrazia: sparirono le parrucche, vistose incipriate, e così pure le culottes, i calzoni attillati e tagliati poco sotto al ginocchio, sostituiti dai pantaloni ampi e lunghi fino alla caviglia portati fino ad allora solo dai sanculotti. A volte, invece, si trattò d’innovazioni più ambiziose, come il tentativo di abolire il cristianesimo sostituendo le sue feste con cerimonie repubblicane, come la festa della Dea Ragione, celebrata nella cattedrale di Notre-Dame, trasformata in tempio rivoluzionario, o quella dell’Essere Supremo. Da questo desiderio di rimodellare abitudini degli uomini e delle donne

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secondo principi razionali derivarono l’introduzione di un nuovo calendario e un nuovo sistema di pesi e misure, due riforme destinate a ben diversa fortuna.

7) La guerra rivoluzionaria e l’Europa

L’Europa dei secoli moderni aveva conosciuto vari tipi di guerre, quelle di predominio politico o economico e quelle di religione. Con il 1792 si aggiunse un nuovo tipo di guerra, quella rivoluzionaria, il cui scopo dichiarato era quello di “esportare” la rivoluzione in altri stati, abbattere le tirannidi e liberare i popoli. In effetti, come abbiamo visto, fu la Francia rivoluzionaria a muovere guerra nel 1792 contro l’Austria (cui si unì la Prussia) e nel 1793 contro l’Inghilterra. A seguito dei loro primi successi, le armate francesi crearono in Belgio una “repubblica sorella”. Il periodo di più intensa guerra rivoluzionaria e di più attiva creazione di tali repubbliche fu il 1795-97, quando esse si moltiplicarono in Olanda, in Svizzera, in Italia. Queste repubbliche vissero una situazione ambigua. In esse furono introdotte istituzioni simili a quella della Francia rivoluzionaria, con effetti indubbiamente modernizzatori; allo stesso tempo furono però soggette a un duro regime militare, che comportò requisizioni e ruberie e spinse quasi sempre le popolazioni a un rifiuto del dominio francese e a volte alla ribellione aperta.

8) La fine del Terrore e il Direttorio

Nel 1794 si scatenò tra i protagonisti della rivoluzione una nuova lotta per il potere, che si concluse con la sconfitta dei giacobini e la fine del Terrore. I vincitori promulgarono una nuova costituzione e cercarono di creare una maggiore stabilità politica, formando un governo di cinque membri, il Direttorio. Il nuovo governo dapprima cercò di porre fine alla guerra contro le potenze europee; poi, di fronte alla crisi economica e alla minaccia delle forze giacobine e dei sostenitori della monarchia, cercò di indirizzare i francesi verso un nemico esterno riprendendo la guerra contro l’Austria. La rivoluzione aveva prodotto un gran numero di generali con buone capacità militari e ancor più grandi ambizioni politiche; fra questi si distinse nel 1796 Napoleone Bonaparte, che si sarebbe poi rivelato come il più abile e ambizioso. L’occupazione di paesi stranieri era per questi generali l’occasione per crearsi un potere personale, vincolando la fedeltà degli eserciti più ai capi vittoriosi che al governo di Parigi.

PAROLE CHIAVE

ASSOLUTISMO REGIO ASSEMBLEA COSTITUENTE DIPARTIMENTI MONARCHIA COSTITUZIONALE INDENNIZZO PLEBISCITO

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LEZIONE 4: L’IMPERO NAPOLEONICO

1) La dittatura militare di Napoleone Bonaparte Le guerre condotte dalla Francia fra il 1792 e il 1798 per diffondere la rivoluzione in Europa

si trasformarono presto in guerre di conquista. Il governo repubblicano ottenne notevoli successi, ma i paesi occupati furono sottoposti a un pesante sfruttamento economico: chi aveva visto nei francesi i rivoluzionari difensori della libertà e dell’uguaglianza contro l’assolutismo rimase molto deluso. Nella primavera del 1799 gli eserciti di Austria, Russia e Inghilterra riuscirono a liberare tutti i territori occupati dai francesi. La Francia si trovò in una difficile situazione, che fu risolta con l’instaurazione di una dittatura militare: dopo un colpo di stato, il potere fu consegnato al generale Napoleone Bonaparte. Bonaparte sciolse le assemblee legislative, abolì la Costituzione, la libertà di stampa e ogni altra forma di democrazia. Il diritto di voto fu riservato ai soli proprietari, ma nella Costituzione del 1799, e nelle altre che poi la sostituirono, le elezioni furono spesso sostituite da nomine dall’alto. Bonaparte fece spesso ricorso ai plebisciti, cioè a votazioni popolari a suffragio ‘universale maschile, ma solo per ottenere una risposta “sì” o “no” a una decisione già presa, e sicuramente manipolando i risultati. Attraverso due plebisciti, prima, nel 1802, ottenne che la sua dittatura divenisse a vita, e Poi, nel 1804, venne proclamato imperatore.

2) La creazione di un nuovo stato Già dal 1800 Napoleone aveva cominciato a realizzare le riforme che, oltre ad accrescere i

suoi poteri personali, dovevano fare della Francia uno stato forte, ordinato e stabile. Tutti i governi locali basati su assemblee e magistrati elettivi furono aboliti. Nei comuni i sindaci divennero funzionari governativi nominati dall’alto .Nei dipartimenti fu istituita la nuova figura del prefetto che, nominato dal governo, aveva i pieni poteri amministrativi e di polizia. Un rigido ordinamento gerarchico stabiliva che, dai ministeri ai dipartimenti e fino ai più piccoli comuni, il funzionario di grado inferiore doveva eseguire le disposizioni del suo superiore, assicurando così un’amministrazione centralizzata e uniforme.

3) Il Codice civile

Nel marzo 1804 la commissione di giuristi nominata da Napoleone portò a termine la stesura del Codice civile. Tale codice raccoglieva in un testo unico e organico, valido per tutto il paese, le leggi che dovevano regolare i rapporti privati fra i cittadini. In passato, i re francesi non avevano mai tentato un’operazione di questo tipo, mentre i rivoluzionari, pur ipotizzandola, non erano riusciti a realizzarla. Il Codice civile, con la completa regolazione in materia di proprietà privata e contratti, matrimonio, famiglia ed eredità, fu una delle più significative riforme realizzate nell’età napoleonica. Via via esteso a tutti gli stati europei entrati nell’impero francese, il Codice fu un potente strumento di modernizzazione della società; per esempio, sottrasse alla Chiesa il controllo della famiglia, introducendo il matrimonio civile e la possibilità del divorzio.

4) Il Concordato Per rafforzare il suo potere, Napoleone volle superare le divisioni interne che si erano create

durante gli anni della rivoluzione, prima fra tutte quella religiosa. Dopo laboriose trattative, nel

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1801 Napoleone stipulò con il papa un Concordato che venne a sostituirsi alla Costituzione civile del clero. Il vescovo e i parroci conservarono lo stipendio erogato loro dallo stato, ma la Chiesa di stato venne soppressa insieme all’elezione dei parroci e dei vescovi; lo stato si riservava di designare i vescovi, ma questi entravano in carica solo dopo essere stati consacrati dal papa. Il cristianesimo fu dichiarato “religione della maggioranza dei francesi” e la Chiesa francese ottenne che le venisse affidata l’intera istruzione elementare.

5) L’Impero e la rivoluzione Con la creazione dell’Impero Napoleone rinnegò in gran parte l’eredità della rivoluzione. Egli

stabilì un rigido controllo poliziesco sulla stampa; ridusse il numero degli aventi diritto al voto e spesso sostituì le elezioni con nomine dall’alto; creò una nuova nobiltà, anche se la scelse tra chi ricopriva alte cariche militari e statali, senza attribuirle i privilegi della vecchia aristocrazia; rafforzò, seguendo la tradizione assolutista, il controllo centralista e burocratico sulla società. Ciò nonostante, Napoleone pensò sempre di aver salvato l’essenziale della rivoluzione e di averne soltanto eliminato le tendenze all’instabilità e all’anarchia. In questa pretesa vi era almeno una parte di verità. Fra le conquiste della rivoluzione restarono intatte l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e il trasferimento ai ceti contadini e borghesi della proprietà terriera ecclesiastica e aristocratica; inoltre, restava aperta a tutti la possibilità di migliorare le proprie condizioni attraverso la carriera nella burocrazia statale o nell’esercito.

6) L’Impero napoleonico domina in Europa Fra il 1800 e il 1809 Napoleone condusse una serie di guerre vittoriose contro l’Austria, la

Prussia e la Russia, facendo dell’Impero francese la maggiore potenza del continente. Solo l’Inghilterra non firmò mai un trattato di pace con la Francia, rifiutando di riconoscere la supremazia francese. Molti territori vennero annessi direttamente all’Impero napoleonico, mentre in altri casi furono creati degli stati subordinati, prima come repubbliche e poi come regni, affidati ai numerosi fratelli di Napoleone.

7) La disintegrazione dell’Impero napoleonico

La continua espansione dell’Impero napoleonico in Europa fu interrotta dal disastroso fallimento del tentativo di conquista della Russia, nel 1812. Le altre potenze europee formarono una vasta alleanza militare antifrancese e riportarono una grande vittoria nella battaglia di Lipsia del 1813. I successi dell’Impero francese erano dipesi anche dall’appoggio che per vari anni Napoleone aveva trovato nella classe dirigente del Regno d’Italia e in diversi sovrani tedeschi. Ora questo appoggio era venuto meno: negli avvenimenti che travolsero l’Impero di Napoleone ebbero una parte decisiva anche le forze nazionali. Nel 1813 i sovrani tedeschi alleati di Napoleone seguirono il volere dei loro popoli e si schierarono contro la Francia. Nell’aprile 1814 una sollevazione antifrancese si verificò anche a Milano, favorendo l’intervento delle truppe austriache.

PAROLE CHIAVE ASSEMBLEA LEGISLATIVA DITTATURA

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LEZIONE 5: IL CONGRESSO DI VIENNA

1) Il ritorno alla pace La guerra che dal 1792 aveva opposto la Francia (prima la repubblica e poi l’Impero

napoleonico) all’intera Europa giunse a conclusione solo nel giugno 1815, con la definitiva sconfitta di Napoleone nella battaglia di Waterloo. Già dal settembre 1814 si trovavano riuniti a Vienna i sovrani e i ministri delle quattro potenze vincitrici (Inghilterra, Austria, Prussia e Russia). Il lungo conflitto aveva presentato due aspetti. Da una parte, aveva continuato a essere una guerra rivoluzionaria anche nell’epoca di Napoleone: infatti nelle regioni conquistate erano stati eliminati tutti i tratti dell’Antico regime (il potere dell’aristocrazia e della Chiesa, i piccoli stati tedeschi e italiani di origine medievale, i residui di feudalesimo); dall’altra parte, era stata anche una guerra condotta dalla Francia per il predominio sull’Europa, che poteva ricollegarsi all’espansionismo di Luigi XIV. Riunendosi per determinare il nuovo assetto politico dell’Europa, i rappresentanti delle grandi potenze tennero conto di tutti e due gli aspetti del conflitto e l’atto finale del congresso di pace, firmato il 9 giugno 1815 (dopo il breve tentativo fallito di Napoleone di tornare al potere), fu perciò ispirato dai due princìpi fondamentali di legittimità e di equilibrio.

2) Il principio di legittimità

Il primo principio applicato dal congresso fu quello detto “di legittimità”: ciò significava che ai legittimi sovrani spodestati nel corso dei precedenti vent’anni dovevano essere restituiti la corona e il regno a cominciare dai Borbone in Francia. Con il restaurato Luigi XVIII (fratello del re Luigi XVI ghigliottinato nel 1793), la Francia fu ammessa a partecipare, come quinta grande potenza, alle riunioni più importanti del congresso e poté conservare sostanzialmente i confini del 1790, anche se dovette rinunciare a una parte della Savoia (trasferita al Piemonte) e pagare una forte indennità di guerra. Il principio di legittimità venne applicato in maniera più rigida quando fu invocato per annullare tutte le trasformazioni introdotte durante il dominio francese, così da configurare un vero e proprio ritorno all’Antico regime: è in questo senso più radicale che il periodo della storia europea successivo al 1815 è stato definito “età della Restaurazione”. Tale restaurazione restituì alla Chiesa e alla nobiltà potere e prestigio, ma non poté essere davvero completa. In Francia restò in vigore il Codice civile e non fu neanche presa in considerazione la restituzione ai vecchi proprietari dei beni terrieri nazionalizzati e venduti dopo il 1790; anche in altri paesi una parte delle riforme realizzate nell’epoca napoleonica fu conservata. Luigi XVIII, inoltre, introdusse in Francia, attraverso la Carta costituzionale concessa nel 1815, un moderato sistema costituzionale che assicurava una rappresentanza parlamentare ai ceti più abbienti e garantiva i “diritti dei francesi”.

3) Il principio dell’equilibrio e la nuova geografi a politica dell’Europa Il secondo principio alla base del congresso di Vienna fu quello dell’equilibrio. Questo

principio aveva retto i rapporti fra gli stati europei nel corso del XVIII secolo; veniva ora richiamato in vita prima di tutto con lo scopo di impedire che in futuro la Francia potesse nuovamente tentare di imporre la sua egemonia sul continente. Di conseguenza, attorno alla Francia fu creata una cintura di stati in grado di contenerla; in questo caso il principio dell’equilibrio ebbe la meglio sul principio di legittimità.

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Il Regno di Piemonte e Sardegna fu reso più forte con l’annessione della repubblica di Genova, che quindi non fu restaurata. Il Regno d’Olanda venne ingrandito con il Belgio, che in precedenza era un possesso austriaco; gli Asburgo furono compensati con un nuovo regno formato dalla Lombardia e dai territori della repubblica di Venezia, che cessò definitivamente di esistere: il Regno lombardo-veneto. Ugualmente non furono restaurati le decine di piccoli principati tedeschi soppressi da Napoleone nella regione del Reno, assegnati ora alla sovranità del Regno di Prussia. La Prussia divenne una delle grandi potenze europee e ottenne anche l’annessione di altri territori tolti ai principi tedeschi, che solo all’ultimo momento si erano decisi a rompere l’alleanza con Napoleone; anche questi trasferimenti erano stati fatti in nome dell’equilibrio, per compensare il grande accrescimento della Russia, che ottenne quasi tutto il territorio dell’antico Regno di Polonia. Ancora per ragioni di equilibrio, l’Austria e l’Inghilterra evitarono che l’ex nemica Francia fosse troppo indebolita, per bilanciare l’accresciuta potenza di Prussia e Russia.

4) Le questioni nazionali

La sconfitta di Napoleone era avvenuta anche in seguito alla rivolta delle nazioni contro il dominio francese; ma il principio di nazionalità, in particolare per ciò riguardava la Polonia, l’Italia e la Germania, non ebbe parte alcuna nelle decisioni prese al congresso di Vienna. Fra il 1772 e il 1795 la Polonia era stata spartita fra Russia, Prussia e Austria; nel 1807 Napoleone aveva costituito un granducato di Varsavia, sottraendo alla Prussia e all’Austria alcune delle loro annessioni. Con la nuova sistemazione decisa dal congresso di Vienna, la Russia conservò tutte le annessioni di fine Settecento e in più ottenne di trasformare la regione di Varsavia in un regno; lo zar ne assunse la corona e dette al nuovo stato polacco un’autonomia abbastanza ampia. Una parte più piccola dei vecchi territori polacchi restò alla Prussia e all’Austria. In Italia scomparve il regno creato da Napoleone e le aspirazioni di unità italiana dei suoi ceti dirigenti furono considerate irrilevanti. La penisola fu suddivisa in otto stati: accanto alla creazione del Regno lombardo-veneto, si ebbe la restaurazione dello stato del papa, degli stati di Piemonte, Toscana, Modena e Napoli (con le vecchie dinastie) e di quelli di Parma e Lucca. Il terzo caso di aspirazioni nazionali ignorate a Vienna fu quello della Germania. La restaurazione del vecchio impero tedesco sembrò proponibile, ma l’Austria si dimostrò fermamente contraria a ogni idea di unificazione. Al posto dei trecento e più stati esistenti nel 1789 fu creata una ,Confederazione germanica composta di trentanove membri: oltre all’Austria, cinque regni, quattro città libere e ventinove tra granducati, ducati e principati. L’Austria si riservò nella Confederazione la funzione principale, quella di presidente dell’assemblea degli stati membri, che teneva le sue riunioni a Francoforte. La Prussia accettò in principio la preminenza dell’Austria, ma, con il tempo, fra i due stati si accese una forte rivalità su chi avrebbe dovuto assumere il ruolo di stato guida della Confederazione germanica.

PAROLE CHIAVE

PRINCIPIO DI LEGITTIMITÀ CONFEDERAZIONE

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LEZIONE 6: IL RITORNO DELLE RIVOLUZIONI

1) La Santa alleanza e il sistema dei congressi

Dopo più di vent’anni di sconvolgimenti politici e sociali, la grande maggioranza degli europei accolse con favore il ritorno alla pace garantito dai vincitori. La rivoluzione francese e anche l’epoca napoleonica erano state caratterizzate dall’attacco contro la società tradizionale, in particolare contro le credenze e le istituzioni religiose. Al termine del congresso di Vienna, lo zar russo Alessandro I propose all’imperatore austriaco e al re di Prussia di ridare una solida base religiosa all’Europa, stipulando un accordo denominato “Santa alleanza”. In questo trattato, emanato “in nome della santissima e indivisibile Trinità”, i tre sovrani dichiaravano di volersi ispirare ai precetti di giustizia, carità e pace del cristianesimo; considerandosi come delegati dalla Divina Provvidenza, si impegnavano ad agire come fratelli e a prestarsi tutto l’aiuto necessario per difendere la religione e Ia pace ristabilite in Europa. Insieme alla Francia e all’Inghilterra (che però non aderì alla Santa alleanza), i sovrani e i primi ministri di Austria, Russia e Prussia si impegnarono a incontrarsi periodicamente in congressi internazionali. In queste riunioni, a cominciare da quella tenuta ad Aquisgrana nel 1818, sarebbero stati discussi e risolti i problemi che potevano turbare l’ordine europeo.

2) L’indipendenza greca Nell’aprile 1821 era esplosa nel Peloponneso una prima insurrezione dei greci contro il

dominio turco e nel 1822 le varie associazioni segrete nazionaliste dichiararono l’indipendenza della Grecia: cominciò allora una guerra lunga e sanguinosa tra i ribelli e le forze militari turche. Un vasto movimento a favore dei greci si era formato in tutta Europa, inducendo molte persone (inglesi, francesi, russi e italiani) ad andare a combattere come volontari a fianco degli insorti. La Russia appariva sempre più favorevole a un intervento militare diretto contro la Turchia; l’Austria, al contrario, vedeva negli avvenimenti greci un pericoloso incitamento alla rivoluzione. Nel 1827, mentre la Turchia sembrava vicina a soffocare la ribellione greca, Inghilterra, Russia e Francia trovarono un accordo e scesero in campo contro i turchi. La flotta degli alleati si scontrò con quella turca a Navarino, nelle acque del Peloponneso, e la distrusse completamente. Nel 1829 la Turchia dovette accettare la nascita di uno stato indipendente greco. Il dissenso che durante la crisi greca si era manifestato fra Austria e Russia condusse al disfacimento della Santa alleanza.

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8. L’AFFERMAZIONE DELLO STATO-NAZIONE LEZIONE 1: LIBERALISMO, NAZIONALISMO, DEMOCRAZIA

1) Lo stato nazionale si fonda sul principio di naz ionalità Una delle grandi trasformazioni dell’Ottocento fu lo sviluppo dello stato nazionale. Era un

tipo di stato nuovo, che si contrapponeva allo stato dinastico formatosi nell’Antico regime. Esso si fondava su due princìpi fondamentali. Il primo era il “principio di nazionalità” secondo il quale lo stato doveva rappresentare e organizzare i popoli. I popoli non sono semplicemente dei gruppi più o meno numerosi di individui, ma un organismo storico, dotato di una tradizione, di una cultura, di una lingua comuni. L’identità di un popolo è dunque la coscienza di avere qualcosa in comune, costruitosi lentamente nel tempo, che unisce tutte le persone che ne fanno parte. Secondo questo principio uno stato non è semplicemente un territorio delimitato da confini sui quali si estende una autorità politica, ma un insieme di istituzioni che un popolo sceglie liberamente di darsi per organizzare la propria convivenza civile.

2) Lo stato nazionale si fonda sulla libertà Il secondo principio fondamentale del nuovo tipo di stato era quello della libertà; lo stato

nazionale, cioè, doveva reggersi su un sistema politico che prevedesse il riconoscimento di alcuni basilari diritti politici: di parola, di voto, di associazione, di eguaglianza di tutti davanti alla legge. Lo stato nazionale si doveva dunque basare sulla “sovranità popolare”: ciò significa che il potere politico risiedeva nei cittadini, i quali eleggevano delle assemblee parlamentari alle quali era demandata la prerogativa di fare le leggi.

3) La situazione europea a metà Ottocento Alla metà dell’Ottocento, nessuno degli stati Europei poteva dirsi uno stato nazionale

secondo i due princìpi che abbiamo appena descritto. Esistevano ancora tre grandi imperi, quello d’Austria, quello ottomano e quello russo, che raggruppavano popoli diversi, tenuti insieme dal potere assoluto dell’imperatore. Esistevano poi alcune monarchie come la Francia, la Germania, la Spagna e l’Inghilterra, che avevano una più evidente identità nazionale, ma nelle quali non esisteva la sovranità popolare, nel pieno significato del termine. Solo la Svizzera, pur unendo popolazioni che parlavano diverse lingue, poteva dirsi uno stato nazionale.

4) I movimenti nazionali

La rivoluzione francese e il periodo napoleonico avevano rappresentato l’epoca nella quale queste nuove idee si erano affermate e si erano radica e nella coscienza della parte più colta e avanzata dei popoli europei. Giovani intellettuali, artigiani, imprenditori, commercianti avevano dato vita a movimenti e associazioni politiche che in Europa si battevano per la libertà e per l’indipendenza nazionale. In essi militavano gli eredi dei giacobini, che intendevano continuare a combattere per gli ideali più radicali della rivoluzione: l’uguaglianza politica e sociale, il governo del popolo contro il governo dei re. A essi si univano molti di coloro che avevano svolto importanti funzioni sotto i regimi napoleonici e che furono messi da parte dopo la Restaurazione. In altri paesi europei che

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avevano subito il dominio francese, i movimenti politici nazionali erano composti dalle forze che avevano combattuto contro Napoleone, ma che erano state ben presto deluse dalla svolta reazionaria sostenuta dalla Santa alleanza dei governi assolutistici.

5) Le lotte degli anni venti e trenta Negli anni venti e trenta questi movimenti, per abbattere le monarchie assolute e realizzare

l’indipendenza nazionale, avevano dato vita a strenue lotte contrastate con una feroce repressione. In molti casi, come in Italia e in Polonia, i moti patriottici erano stati sconfitti; in Grecia invece l’insurrezione contro il dominio turco aveva avuto successo e nel 1829 era nato lo stato indipendente greco. In Francia nel 1830 una vasta insurrezione popolare aveva abbattuto la monarchia borbonica e aveva imposto una monarchia costituzionale che aveva ripristinato la costituzione elaborata nel periodo repubblicano.

6) I liberali

l movimenti che si opponevano alla Restaurazione non avevano la stessa visione politica e gli stessi ideali: possono essere divisi in due grandi famiglie, quella liberale e quella democratica. l liberali combattevano non solo per dare vita allo stato nazionale in quei paesi, come l’Italia, la Germania o la Polonia, divisi in molti staterelli e sottoposti alla dominazione straniera, ma anche per ottenere le libertà fondamentali degli individui sancite da una costituzione. La costituzione doveva inoltre limitare il potere del re attraverso una divisione dei poteri tra la monarchia, cui era demandato il governo, il parlamento, nel quale si esprimeva la sovranità popolare, e una amministrazione della giustizia, indipendente dal potere politico. Il loro modello politico era rappresentato dalla monarchia costituzionale, che in Europa aveva solo due esempi: quello anglosassone, ormai secolare, e quello francese, instauratosi dopo la rivoluzione del 1830.

7) I democratici

I democratici affiancavano la lotta per l’unificazione nazionale a quella per la democrazia. Essi rivendicavano l’abolizione della monarchia e la creazione di uno stato dove tutto il potere fosse concentrato nelle assemblee parlamentari. In esse doveva dispiegarsi compiutamente la sovranità popolare da ottenersi attraverso il suffragio universale, cioè il diritto di voto esteso a tutto il popolo. Su questo punto i democratici erano in disaccordo con i liberali, che sostenevano una concezione della sovranità popolare più ristretta. Il “popolo” dei liberali era circoscritto alla borghesia manifatturiera e commerciale, alla media proprietà fondiaria e ai ceti intellettuali delle libere professioni. Questa divisione aveva impedito talvolta, ad esempio in Italia, che liberali e democratici combattessero insieme per l’indipendenza nazionale, ed era stata una delle cause della loro sconfitta contro i governi assolutistici.

PAROLE CHIAVE SOVRANITÀ POPOLARE

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LEZIONE 2: LE RIVOLUZIONI DEL 1848

1) Le cause e gli obiettivi delle insurrezioni

Nel 1848 le classi borghesi e i lavoratori delle industrie, scontenti della politica dei governi assolutistici e decisi a rivendicare una maggiore partecipazione politica, diedero vita a un’ondata di rivolte e rivoluzioni che attraversò l’Europa intera. Le tensioni sociali e politiche erano alimentate dalla situazione economica molto critica nella quale versavano molti stati europei già dal 1845. La crisi era determinata da una serie di cattivi raccolti, che fecero aumentare i prezzi dei generi alimentari, e dalle difficoltà delle industrie, che determinarono una riduzione dei salari e un aumento della disoccupazione. Indipendentemente dal loro esito, che fu in genere negativo, queste rivoluzioni determinarono una profonda frattura nella storia europea e segnarono la fine dell’età della Restaurazione. Nei paesi liberi dal dominio straniero e con un assetto politico e territoriale nazionale, come la Francia o la Gran Bretagna, gli insorti rivendicarono l’estensione dei diritti politici e soprattutto l’allargamento del diritto di voto. Nei paesi come l’Italia, che subivano la dominazione straniera e la divisione politica in tanti stati assolutistici, alla richiesta di una costituzìone si unì la lotta per l’indipendenza e per l’unificazione nazionale. L’unificazione della nazione, in particolare, fu l’obiettivo principale delle rivolte che scoppiarono nell’Impero asburgico.

2) I contrasti politici tra i rivoluzionari Durante le rivoluzioni, si ripresentarono le divisioni tra liberali e democratici. I primi

spingevano affinché fosse instaurata una monarchia costituzionale fondata sul suffragio ristretto, che concedesse i diritti politici alla nuova borghesia dei commerci e delle manifatture; i secondi invece lottavano per il suffragio universale e per l’instaurazione di nuovi regimi repubblicani. Queste divisioni si manifestarono anche nella lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale. I liberali erano convinti che le nuove nazioni potessero nascere solo con il sostegno delle monarchie più forti presenti nel paese: i Savoia, dinastia del regno di Sardegna-Piemonte, in Italia e la monarchia prussiana in Germania. I democratici, invece, sostenevano che solo la soluzione repubblicana potesse condurre a una effettiva unificazione della nazione e alla sua indipendenza: la creazione della nazione era inscindibile dalla massima estensione delle libertà interne. Nelle nazioni più avanzate e in Francia in particolare, a questi movimenti politici se ne aggiunse un altro: quello dei gruppi socialisti. Essi esprimevano gli interessi del proletariato di fabbrica nato con la rivoluzione industriale, che oltre ai diritti politici rivendicava anche migliori condizioni di lavoro e una più equa distribuzione della ricchezza.

3) L’epicentro della rivoluzione: Parigi Il primo paese dove esplose la rivolta fu la Francia. La sua capitale Parigi divenne il punto

più avanzato della rivoluzione europea, dove si sperimentarono le soluzioni politiche più radicali. Dopo gli iniziali sforzi riformatori, Luigi Filippo d’Orleans, diventato re dopo la rivoluzione del 1830, si spostò su posizioni sempre più conservatrici aggravando i contrasti con i liberali e i democratici. Sulla scena politica entrarono anche le forze socialiste che a Parigi conobbero negli anni precedenti il 1848 un grande sviluppo, perché la capitale della Francia stava diventando una grande città industriale.

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La situazione precipitò quando, il 22 febbraio 1848, il re impedì l’attività dei gruppi sociali e politici che chiedevano una riforma elettorale; la protesta di questi ultimi condusse a scontri con la polizia. Subito Parigi si riempi di barricate: borghesi, studenti e operai si trovarono a combattere insieme una battaglia di tre giorni che si concluse con la fuga del re. Venne costituito un governo provvisorio, costituito da una coalizione di liberali, democratici e socialisti. Il governo proclamò la repubblica e s’impegnò a organizzare l’elezione a suffragio universale di un’assemblea costituente.

4) La rivoluzione si estende in tutta Europa In pochi giorni la scintilla della rivoluzione si propagò in tutta Europa: dal Belgio alla Sicilia a

molti stati tedeschi. A marzo raggiunse Vienna e Berlino, poi Milano, Venezia, Firenze e Roma. A metà marzo 1848 l’Europa continentale aveva cambiato quasi per intero i suoi regimi politici. Ovunque si erano insediati governi provvisori e assemblee di deputati incaricate di scrivere nuove costituzioni; era caduto persino il potere temporale dei papi nello Stato della Chiesa, trasformato nella repubblica romana.

5) La costituzione francese del 1848 L’assemblea costituente eletta in Francia si dedicò al lavoro di stesura della costituzione. La

più importante novità fu la creazione di un potere di governo concentrato nelle mani di una sola persona, il presidente della repubblica. Il presidente era eletto dal voto popolare e non dipendeva dalla fiducia dell’assemblea legislativa; la durata della sua carica era limitata rigidamente a quattro anni per evitare che un presidente eletto a grandissima maggioranza potesse approfittare del consenso popolare e abusare dei suoi poteri. Inoltre, i costituenti stabilirono che nessuno poteva essere eletto una seconda volta presidente, se non dopo un intervallo di quattro anni.

6) La soluzione bonapartista

Le prime elezioni presidenziali si svolsero il 10 dicembre 1848 e videro la presentazione di un candidato del tutto imprevisto, che non aveva svolto alcuna parte nelle vicende dei mesi precedenti: Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di uno dei fratelli dell’imperatore Napoleone. Luigi Napoleone approfittò della fama che gli derivava dal suo nome e, in più, seppe proporsi agli elettori come l’uomo forte di cui la Francia aveva bisogno per essere salvata dall’anarchia. Più del 70% dei voti andò a Luigi Napoleone, che ebbe il favore dei contadini e di tutto l’elettorato moderato, in particolare dei cattolici, che speravano di rafforzare l’influenza della Chiesa sulla società francese. A partire dal 1850, Luigi Napoleone cominciò progressivamente a revocare molte conquiste democratiche della rivoluzione del 1848, finché con un colpo di stato sciolse il parlamento e nel 1852 restaurò l’Impero francese. Il nuovo imperatore assunse il nome di Napoleone lII, per evidenziare la continuità con la precedente dinastia.

7) Liberali e democratici in Italia

L’Italia fu uno dei maggiori teatri delle rivoluzioni del 1848. Come in Germania, al centro dell’azione rivoluzionaria stava la questione nazionale; a differenza della Germania, però, il problema non era solo quello dell’unificazione dei diversi stati, ma anche quello dell’indipendenza dalla dominazione asburgica. Il movimento patriottico italiano era

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profondamente diviso tra i democratici, diretti da Giuseppe Mazzini e riuniti nel partito della “Giovane Italia”, e liberali. I democratici puntavano all’unificazione della nazione e alla creazione di una repubblica democratica. Tale repubblica sarebbe stata un esempio a livello europeo per creare altre libere nazioni affratellate dai valori della democrazia e della fratellanza tra i popoli. Tra i democratici, poi, vi erano i sostenitori di una soluzione federale dell’unificazione Italiana, che prendevano a modello la Svizzera e gli Stati Uniti. Tra essi spiccava il milanese Carlo Cattaneo. Anche tra i liberali moderati vi erano sostenitori del federalismo: fra questi, il sacerdote Vincenzo Gioberti, presidente del consiglio del Regno di Sardegna-Piemonte proprio nel ‘48, che sosteneva la creazione di una federazione di stati italiani posta sotto la presidenza del papa. Nel suo complesso, però, il movimento liberale italiano era favorevole a una soluzione unitaria. Secondo i liberali, a capo della lotta per la creazione dello stato nazionale doveva porsi la casa Savoia.

8) Carlo Alberto concede la costituzione A partire dal 1846 il nuovo papa Pio IX e i sovrani dei principali stati italiani accolsero alcune

richieste dei liberali. Sotto la spinta delle notizie che arrivavano da Parigi, poi, il 4 marzo 1848 Carlo Alberto, re dello stato sabaudo, promulgò la costituzione, che prese il nome di “Statuto albertino”. Era una costituzione. molto moderata che lasciava quasi intatto il potere del re. a cui era affidato il compito di nominare il primo ministro, e attribuiva al parlamento uno scarso potere politico. Inoltre prevedeva un sistema elettorale a suffragio molto ristretto, dal quale erano escluse non solo le classi lavoratrici, ma anche la borghesia. Con la concessione dello Statuto, Carlo Alberto desiderava ottenere il consenso di quella parte dei moderati che puntavano su un ruolo centrale dei Savoia nella realizzazione dell’unità d’Italia.

9) La rivoluzione si estende in tutta la penisola Il successo dei liberali piemontesi spinse i rivoluzionari a guardare a Torino come il possibile

centro propulsivo della rivoluzione italiana. In breve tempo la rivoluzione si diffuse in tutta la penisola. Il 17 marzo Venezia insorse contro il governo austriaco e i ribelli proclamarono il ritorno della repubblica. A Milano, dopo cinque giorni di battaglie sulle barricate e nelle strade, (18-22 marzo), gli insorti riuscirono a cacciare l’esercito austriaco e a proclamare un governo provvisorio.

10) Comincia la Prima guerra d’indipendenza Carlo Alberto voleva tuttavia riservare al Piemonte un ruolo di primo piano in questi eventi e

temeva inoltre che l’iniziativa restasse solo nelle mani dei repubblicani. Il 23 marzo, perciò, il Piemonte dichiarò guerra all’Austria. Il pericolo costituito dai repubblicani e il timore che solo i Savoia potessero approfittare di un eventuale crollo austriaco in Italia spinsero gli altri sovrani italiani alla stessa scelta. Nei giorni seguenti anche il re di Napoli, il granduca di Toscana e Pio IX dichiararono guerra all’Austria: era l’inizio di quella che fu chiamata Prima. guerra d’indipendenza. Tuttavia, nelle prime settimane di aprile, i calcoli politici dei sovrani dei diversi stati della penisola lasciarono il posto alla paura: si era creato, infatti, un clima di entusiasmo e di guerra patriottica unitaria che minacciava di far scomparire i singoli regni. Così, il papa e i sovrani di Toscana e di Napoli ordinarono alle proprie truppe di ritirarsi; Ferdinando II di Borbone annullò inoltre la costituzione concessa in gennaio.

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11) La sconfitta dei Savoia La guerra piemontese non si prospettava facile, perché il maresciallo Radetzky, comandante

delle truppe austriache, aveva conservato il controllo delle quattro fortezze di Verona, Mantova, Legnago e Peschiera e stava procedendo alla riconquista di diverse città venete. Quando, alla fine di luglio, si arrivò alla battaglia di Custoza, nei pressi di Verona, l’esercito piemontese fu sconfitto e Carlo Alberto, dopo aver stipulato un armistizio con l’Austria, riportò le sue truppe in Piemonte.

12) L’iniziativa democratica Fallita l’ipotesi di unificazione nazionale attraverso l’intervento del Piemonte, l’iniziativa

passò ai democratici e ai mazziniani, che in novembre organizzarono una rivolta a Roma. Pio IX abbandonò la città e i democratici presero il potere. Nel gennaio 1849 si svolse l’elezione a suffragio universale di un’assemblea costituente, che dichiarò la fine del potere temporale dei papi e istituì la Repubblica romana. Ne facevano parte Mazzini e altri esponenti del Partito repubblicano, come Giuseppe Garibaldi. Anche Firenze insorse e proclamò la repubblica nel Granducato di Toscana. Carlo Alberto si rese conto che abbandonare la causa italiana avrebbe danneggiato il prestigio dei Savoia e reso molto difficile in futuro competere con i repubblicani. Il 20 marzo ruppe l’armistizio con l’Austria ma solo tre giorni dopo fu sconfitto a Novara. Nei due mesi successivi l’Austria intervenne rovesciando il governo repubblicano in Toscana, mentre il compito di abbattere la Repubblica romana fu assunto dal presidente francese Luigi Napoleone. L’ultima città ancora in rivolta era Venezia, che si arrese dopo cinque mesi di assedio austriaco.

PAROLE CHIAVE SUFFRAGIO UNIVERSALE ASSEMBLEA COSTITUENTE ANARCHIA REPUBBLICA PRESIDENZIALE COALIZIONE

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LEZIONE 3: LE QUESTIONI NAZIONALI

1) Cavour e la Seconda guerra d’indipendenza Il fallimento delle rivoluzioni del Quarantotto fece comprendere a tutte le forze politiche che

per conquistare l’unità nazionale era necessario percorrere strade diverse. I democratici italiani, che avevano puntato sulle insurrezioni popolari, si convinsero che l’unità poteva essere realizzata solo attraverso una vera e propria guerra contro l’Impero asburgico. Alcuni di loro, tra cui Giuseppe Garibaldi, accettarono allora di farsi guidare dal Regno di Sardegna-Piemonte. Nel 1852 il re Vittorio Emanuele II di Savoia affidò la direzione del governo al conte Camillo Benso di Cavour. Cavour rafforzò il carattere liberale e costituzionale dello stato piemontese e soprattutto comprese l’importanza di trovare appoggi internazionali alla causa italiana. Il Piemonte si alleò con la Francia, interessata ad assumere un ruolo guida in Europa, e nel giugno 1859 vinse la seconda guerra d’indipendenza; l’Austria, sconfitta, cedette la Lombardia, ma non il Veneto.

2) Le annessioni degli stati dell’Italia centrale e i Mille Subito dopo le forze liberali promossero negli stati dell’Italia centrale delle insurrezioni, che

cacciarono i regnanti, tutti legati agli Asburgo, e si conclusero con l’annessione al Piemonte. Si trattava ora di conquistare il Sud d’Italia. Nel 1860 Giuseppe Garibaldi, alla testa di mille volontari, sbarcò in Sicilia, e risalendo l’Italia riuscì a liberare il Regno di Napoli dalla dinastia dei Barbone. Cavour però impose a Garibaldi di fermarsi prima di entrare nello Stato pontificio: se avesse attaccato Roma avrebbe infatti provocato un intervento dei francesi a protezione del papa.

3) L’unificazione italiana

A conclusione di queste azioni, una serie di plebisciti sanzionò con larghissime maggioranze l’unificazione di quasi tutta la penisola sotto la monarchia sabauda. Così il 17 marzo 1861 poté essere proclamato il Regno d’Italia. Esso aveva come capitale Torino e comprendeva l’intera penisola con due esclusioni: il Veneto, rimasto sotto il governo austro-ungarico, e il Lazio, ancora appartenente allo Stato pontificio. Il nuovo stato doveva affrontare difficili problemi politici ed economici per raggiungere due obiettivi fondamentali: - completare l’unificazione territoriale stabilendo la propria sovranità sul Veneto e sul Lazio - costruire uno stato realmente unitario superando gli squilibri fra le diverse regioni d’Italia, uniformando le leggi, l’amministrazione, le monete, il sistema scolastico ecc., anche a fronte di violente forme di opposizione al nuovo stato, come il brigantaggio che si diffuse nelle regioni del Sud.

4) L’unificazione tedesca Durante le insurrezioni del Quarantotto, c’era già stato un tentativo di unificazione tedesca,

che era fallito a causa di due fattori. Il primo era stato il contrasto fra Austria e Prussia su quale dei due grandi stati dovesse assumere la guida della futura Germania unita; il secondo fattore era stato il disaccordo fra i movimenti che avevano promosso le insurrezioni e il re prussiano Federico Guglielmo IV: egli si rifiutava infatti di accettare le idee di sovranità popolare e di democrazia rivendicate dai liberali e dai democratici. A questo punto i nazionalisti interruppero i

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rapporti con le forze liberali e democratiche, e puntarono a realizzare l’unità tedesca appoggiandosi esclusivamente alla Prussia. Nel 1862 il nuovo re prussiano Guglielmo I nominò cancelliere (primo ministro) Otto von Bismarck. Egli affidò il processo d’unificazione alle armi: nel 1866 la Prussia scese in guerra e sconfisse l’Austria, escludendola definitivamente dalla futura Germania. Nel1870 condusse una seconda guerra vittoriosa contro la Francia, che si opponeva al completamente dell’unificazione tedesca. Nel gennaio 1871 poté quindi essere proclamato l’Impero tedesco (Reich).

5) La Terza guerra d’indipendenza italiana Nella guerra austro-prussiana del1866 l’Italia si alleò con la Prussia combattendo contro

l’Impero asburgico la sua Terza guerra d’indipendenza. In seguito alla sconfitta dell’l’Austria a opera della Prussla, il Veneto fu annesso all’Italia. Il completamento territoriale del regno d’Italia avvenne quindi grazie al processo di unificazione tedesca. Quando poi, nel 1870, la Prussia sconfisse la Francia, le truppe italiane poterono occupare lo Stato pontificio, privato della difesa delle truppe francesi richiamate in patria. Con l’annessione del Lazio rimasero esclusi dal Regno d’Italia solo i territori di Trento, del Friuli e di Trieste. Il processo di unificazione nazionale non si realizzò, dunque, grazie alle sollevazioni popolari, ma su iniziativa di singoli stati, il Piemonte in Italia e la Prussia in Germania, che sfruttarono con successo la propria forza militare e diplomatica.

PAROLE CHIAVE

BRIGANTAGGIO CANCELLIERE

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LEZIONE 4: LE NAZIONI EXTRAEUROPEE

1) Negli Stati uniti Nord e Sud entrano in conflitt o Gli stati che formavano la federazione degli Stati uniti avevano economie diverse: gli stati del

Sud erano agricoli e avevano estese piantagioni dove lavoravano gli schiavi neri; negli stati del Nord, invece, l’economia era basata sulla grande industria e la schiavitù era vietata. Fu proprio sulla questione della schiavitù che gli stati si divisero in due gruppi, anche se non mancavano altri motivi di scontro: il Sud commerciava, infatti, i suoi prodotti agricoli con la Gran Bretagna e la Francia, mentre gli stati del Nord avevano bisogno di una politica protezionista per difendere i propri prodotti industriali dalla concorrenza europea.

2) La guerra di Secessione americana Lo scontro divenne inevitabile quando nel 1861 gli stati del Sud dichiararono la “secessione”

(cioè la separazione) dal resto degli Stati uniti. Cominciò così una sanguinosa guerra civile che durò per quattro anni. I nordisti erano militarmente più forti, ma i sudisti contavano sull’aiuto di Gran Bretagna e Francia. Quando nel 1865 questo aiuto cessò, gli stati del Nord vinsero la guerra; la schiavitù fu abolita, ma rimasero profonde differenze nel trattamento riservato ai neri rispetto ai bianchi. La guerra di Secessione aveva mostrato che, all’interno di uno stato, profondi contrasti economici potevano mettere in pericolo l’unità nazionale.

3) Il Giappone si dà una struttura politica moderna

Fino al 1850 il Giappone aveva avuto un’economia chiusa a qualunque commercio con l’estero e ciò gli aveva permesso di mantenere delle strutture politiche e sociali di tipo gerarchico che si tramandavano fin dal Medioevo. Dopo il 1850, la necessaria apertura al commercio internazionale sconvolse l’antico equilibrio del Giappone. Così, nel 1868, il giovane imperatore Mutsuhito si rese conto della necessità di cambiare radicalmente la struttura politica ed economica del paese. Egli si ispirò al modello degli stati nazionali europei, basandosi su due elementi fondamentali. Il primo era un sistema burocratico centralizzato, che permetteva al potere centrale di governare tutta la nazione. Il secondo era un esercito fondato sul servizio militare obbligatorio, grazie al quale lo stato non doveva più dipendere dai guerrieri (i samurai) dei grandi signori feudali. L’imperatore concesse anche una costituzione che istituiva un parlamento. Il Giappone adottò quindi il modello europeo di monarchia costituzionale e parlamentare; il parlamento però non aveva potere legislativo ed era privo di ogni controllo sull’imperatore.

PAROLE CHIAVE

GUERRA DI SECESSIONE GUERRA CIVILE GERARCHIA

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9. INDUSTRIALIZZAZIONE E SVILUPPO NEL XIX SECOLO

LEZIONE 1: LA DIFFUSIONE DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRI ALE

1) La rivoluzione industriale comincia in Inghilter ra L’Inghilterra fu il primo paese del mondo ad avviare la rivoluzione industriale, nel ventennio

1760-80. Nei decenni successivi il suo vantaggio rispetto agli altri paesi europei crebbe sempre più, raggiungendo il suo massimo verso il 1830-40. Il vantaggio era molto forte soprattutto nei nuovi settori industriali: filati e tessuti di cotone, macchine a vapore, carbone, ferro. Nel 1830-40, ad esempio, in Gran Bretagna viveva circa il 7% della popolazione europea, ma si produceva più della metà della ghisa dell’intero continente. Ancora più marcata era la superiorità inglese nel numero di macchine a vapore utilizzate, con il 75% della potenza totale europea.

2) L’importanza delle colonie

Lo sviluppo industriale inglese fu favorito dal controllo sui vasti possedimenti coloniali e in particolare sull’India. Attraverso le compagnie commerciali, come la Compagnia delle Indie, l’Inghilterra gestiva i traffici dell’India e anche della Cina. Nei due grandi paesi asiatici gli inglesi trovavano merci e materie prime a basso costo e un mercato per i loro manufatti industriali. Nel 1876 l’Inghilterra assunse direttamente il dominio sull’India, che divenne un territorio del vasto Impero britannico. La Cina invece riuscì a mantenere la sua autonomia, anche se dovette cedere tutto il controllo del commercio estero alle compagnie occidentali. L’Inghilterra si assicurò così il dominio di vasti mercati che furono un elemento essenziale per il suo sviluppo economico.

3) Il resto dell’Europa Nel periodo 1830-60 l’industrializzazione cominciò a diffondersi anche nei paesi del

continente, a partire da Belgio, Francia e Germania; più tardivo (dopo il 1870-80) fu lo sviluppo industriale di altri paesi europei, come l’Italia, l’Impero austro-ungarico e la Russia. Nel frattempo, i processi di industrializzazione si erano estesi anche fuori d’Europa, negli Stati uniti d’America e, nell’ultimo decennio del XIX secolo, anche in Giappone. Verso il 1880, il quadro dell’economia europea era molto diverso da quello di quarant’anni prima. La Gran Bretagna restava il paese più industrializzato, ma non possedeva più un primato schiacciante; la Germania unificata cresceva a ritmi più rapidi di quelli inglesi e stava per raggiungere la rivale in settori-chiave come quello della siderurgia.

4) La riduzione dei prezzi Nel primo Ottocento, un solo operaio poteva far muovere contemporaneamente centoventi

fusi per la filatura del cotone, mentre solo trent’anni prima per ottenere lo stesso risultato occorrevano quindici operai. Il risparmio che si otteneva pagando solo un salario invece che quindici permetteva di tenere molto bassi i prezzi delle merci. Questo piccolo esempio illustra la principale conseguenza della rivoluzione industriale: la riduzione dei prezzi delle merci che

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venivano prodotte con le nuove tecnologie. Poteva quindi accadere che i commercianti acquistassero le merci provenienti da paesi esteri industrializzati perché costavano meno rispetto a quelle prodotte in patria, lavorate artigianalmente. Ciò permetteva una riduzione del prezzo dei beni, ma poteva causare anche il fallimento delle aziende nazionali che producevano a un prezzo più alto di quelle estere.

5) Il protezionismo e il liberismo Di fronte a questo problema, gli stati potevano adottare due politiche diverse: o proteggere

la propria economia o liberalizzarla. Il protezionismo si proponeva di proteggere l’industria nazionale dalle merci dei paesi stranieri. Per far ciò vi erano due metodi: 1) imporre dei dazi sui prodotti stranieri, in modo tale che costassero di più di quelli nazionali; 2) chiudere la frontiera alle merci straniere. Il sistema protezionista aveva però due svantaggi: prima di tutto comportava che le merci prodotte in patria avessero prezzi più elevati e ciò faceva aumentare il costo della vita; inoltre provocava attriti fra gli stati e poteva diventare motivo di conflitto. Il sistema opposto, cioè il liberismo, prevedeva il libero scambio di merci fra tutti i paesi. Si pensava che in questo modo ogni nazione avrebbe potuto usufruire delle merci al minor costo possibile. Inoltre, l’aumento della concorrenza internazionale poteva stimolare le aziende ad aumentare la propria efficienza per poter stare al passo con le imprese estere.

6) L’epoca del liberismo Nel periodo 1815-45 il sistema economico inglese poteva espandere in tutta Europa le

proprie esportazioni di manufatti industriali. Gli altri paesi, però, praticavano una politica protezionista perché temevano la concorrenza delle merci inglesi, assai meno costose. Nel 1846, la Gran Bretagna per prima abolì i dazi doganali sulle importazioni di prodotti agricoli dai paesi europei. Quest’atto influenzò la politica economica degli altri stati europei e il commercio internazionale: da quel momento in poi, e per quasi trent’anni, le tariffe doganali vennero ridotte ovunque e il libero commercio divenne la regola. Gli stati del continente che scelsero il libero scambio si posero anche l’obiettivo di un proprio sviluppo industriale. La concorrenza delle merci inglesi, quindi, fu in principio assai utile per stimolare i produttori europei ad ammodernare i loro impianti e a introdurre nuove tecnologie.

7) Il ritorno al protezionismo Per soddisfare la grande capacità produttiva delle industrie moderne occorreva, però, creare

anche vasti mercati interni. Per questo motivo, ad esempio, nel 1834 fu creata l’unione doganale fra gli stati tedeschi. Quindi, già prima dell’unificazione politica, la Germania aveva realizzato un’unificazione economica, diventando un mercato unico senza barriere interne. Dopo il 1875, ci fu un ulteriore sviluppo dell’industria in tutta Europa ma all’insegna di un moderato ritorno al protezionismo. Solo la Gran Bretagna rimase fedele al libero scambio, mentre dal 1880-90 in tutti i paesi europei le tariffe doganali divennero sempre più elevate. Verso la fine dell’Ottocento, la diffusione dell’industrializzazione rese pressante il bisogno di nuovi mercati. I paesi più industrializzati, come abbiamo visto nel caso dell’Inghilterra, esercitarono un controllo più diretto sulle loro colonie, altri cercarono nuovi territori da controllare per garantire sbocchi alla propria produzione industriale: si verificò così un profondo mutamento dei rapporti fra l’Europa e il mondo.

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8) Crescita e crisi economica

Lo sviluppo economico non avvenne in maniera continua, ma vide l’alternarsi di periodi di espansione e di crisi. Quando la domanda dei beni e i profitti apparivano in crescita, gli imprenditori erano indotti a fare investimenti aumentando la produzione e creando nuove fabbriche. Ma a un certo punto si verificava una situazione di sovrapproduzione, cioè un aumento eccessivo della produzione, e le merci cominciavano a restare invendute. Seguiva allora una fase di crisi. La produzione scendeva, molte fabbriche venivano chiuse, i salari operai diminuivano e così pure il numero degli operai occupati. Le date mostrano bene come le crisi si ripresentassero in maniera periodica: furono anni di crisi il 1847-48, il 1857 e il 1866-67. Particolarmente grave e lunga fu la crisi internazionale cominciata nel 1873 e durata fino al 1878-79. Fu in seguito a questa crisi che gli imprenditori incominciarono a chiedere alle autorità statali di aiutare le industrie nazionali, limitando le importazioni dall’estero con il ritorno al protezionismo.

PAROLE CHIAVE SIDERURGIA PROTEZIONISMO LIBERISMO IMPRENDITORI IMPORTAZIONI ESPORTAZIONI

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LEZIONE 2: L’ETÀ DELLE FERROVIE E DELLA NAVIGAZIONE A VAPORE

1) La diffusione delle ferrovie Le prime linee ferroviarie furono progettate in Inghilterra pensando al trasporto di merci

voluminose e pesanti come il carbone. Presto ci si accorse che il trasporto delle persone poteva procurare alle imprese che gestivano le linee guadagni anche più alti. All’inizio c’era chi sosteneva che l’alta velocità del treno fosse pericolosa per la salute dei passeggeri, o addirittura anche solo per chi lo guardasse passare. In realtà la velocità era piuttosto bassa, perché solo a metà secolo i treni riuscirono a raggiungere i 70 chilometri orari. Anche nel settore ferroviario l’Inghilterra fu la prima (1825): ciò le permise di possedere nel 1843 più di 3.000 chilometri di strade ferrate. Solo dopo questa data le altre nazioni europee e gli Stati uniti si impegnarono nella costruzione di linee ferroviarie su vasta scala: nel 1860 esistevano in Europa 52.000 chilometri di strada ferrata, saliti a 160.000 nel 1880 e a 290.000 nel 1900. La prima ferrovia d’Italia fu realizzata nel Regno delle due Sicilie: collegava Napoli e Portici e fu inaugurata il 3 ottobre 1839. Tra il 1840 e il 1844 i lavori proseguirono e la ferrovia, passando tra l’altro per Torre del Greco, raggiunse Nocera. Nel 1840, intanto, era stato fondato a Pietrasanta (in Toscana) uno stabilimento destinato principalmente alla costruzione e alla riparazione delle locomotive, i cui capannoni nel 1843 si estendevano per 13.560 metri quadrati.

2) L’età delle ferrovie e della navigazione a vapor e

La ferrovia permetteva di trasportare grandi quantità di merci in modo molto più rapido e agevole che con i carri e in modo molto più capillare che attraverso i fiumi. Quindi i costi di trasporto delle merci diminuivano sensibilmente. Per questo la costruzione delle reti ferroviarie nei vari stati contribuì a creare e a espandere considerevolmente il mercato nazionale.

Le ferrovie ebbero anche un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale: per la loro costruzione furono infatti create appositamente molte industrie, che permisero di dare lavoro a una grande quantità di persone.

Nel 1847, in Inghilterra, 50000 persone erano addette alle linee già in esercizio e altre 200 000 lavoravano alla costruzione delle nuove linee. Ogni chilometro di binario richiedeva 200 tonnellate di ferro e in quello stesso anno circa i due quinti della produzione di ferro erano assorbiti dalle costruzioni ferroviarie. Occorreva poi costruire vagoni, locomotive e produrre una quota considerevole di carbone. Inoltre, i binari in ferro si deterioravano e andavano sostituiti di frequente; dopo il 1870 le linee furono infatti ricostruite con i più resistenti binari in acciaio. Le ferrovie restarono un motore essenziale dell'industria anche quando le reti ferroviarie si avviarono al completamento.

3) La navigazione a vapore e il commercio internazi onale Una seconda fondamentale trasformazione nel campo dei trasporti riguardò la navigazione.

Fino all’inizio dell’Ottocento le navi avevano utilizzato solamente l’energia del vento attraverso le vele, ma già verso il 1810 cominciarono a essere usati, su brevi percorsi marittimi e su vie fluviali, i primi battelli a vapore. Le navi a vapore comparvero dal 1838 nelle traversate atlantiche, ma sui lunghi percorsi oceanici presentavano l’inconveniente di dover occupare con il carbone una gran parte del proprio carico utile; pertanto la navigazione a vapore rappresentava verso il 1870 ancora solo il 13% del commercio navale.

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Tuttavia, a questa data, la rivoluzione del vapore era in pieno svolgimento. Il perfezionamento dei motori a elica consentiva ormai velocità più elevate e grandi risparmi di carbone. L’apertura del canale di Suez, nel 1869, andò a vantaggio solo delle navi a vapore, che potevano attraversare agevolmente il rischioso mar Rosso. Nel 1890 il commercio delle navi a vapore raggiunse e superò quello delle navi a vela. Così come le ferrovie avevano contribuito a sviluppare i mercati nazionali, riducendo i costi e i tempi di trasporto, allo stesso modo la navigazione a vapore sostenne il rafforzamento del mercato mondiale, con l’utilizzo di navi costruite in ferro, più rapide e capienti.

4) La grande città: il luogo di arrivo di treni e n avi Le ferrovie e le navi collegavano direttamente le città; addirittura, cosa che non era stata mai

possibile prima, si saliva in treno in una città e si scendeva in quella di arrivo, senza toccare mai con il piede la campagna. La ferrovia aveva soprattutto il compito di unire la capitale al resto del paese: per questo motivo divenne il più importante strumento di unificazione nazionale. La ferrovia era inoltre il mezzo attraverso il quale grandi masse di contadini emigravano dal mondo agricolo alla città, per lavorare nelle industrie moderne.

5) I quartieri industriali e operai La grande città fu, insieme al treno, il simbolo del progresso nell’Ottocento. A chi arrivava col

treno essa appariva già da lontano, con le centinaia di fumanti ciminiere dei quartieri industriali. Le fabbriche erano imponenti blocchi di edifici alti più di sette piani e costruiti in mattoni rossi. Vicino alle industrie si trovavano le case degli operai: lunghe file di costruzioni basse, tutte uguali, sovraffollate, raggiunte da strade non lastricate e spesso prive di fognature. Questa promiscuità e la mancanza di igiene erano i motivi principali del diffondersi delle numerose epidemie di colera.

6) I quartieri borghesi e il centro città

Nei quartieri borghesi, invece, le case erano diverse l’una dall’altra: il criterio in base al quale venivano costruite era infatti l’originalità. Qui le strade erano lastricate, spesso illuminate e percorse da carrozze. Al centro della città si trovavano, oltre alle sedi dell’amministrazione statale, i grandi magazzini dove si potevano acquistare prodotti provenienti da tutte le parti del mondo. Vi erano anche musei che esponevano, fra l’altro, opere d’arte giunte dalle colonie sparse in diversi continenti. Nel centro della città le strade potevano essere molto larghe e attraversate dai tram a vapore; dove non c’erano i tram, si usavano gli omnibus, cioè grandi carrozze che trasportavano numerosi passeggeri. Le città erano quasi sempre attraversate da un fiume o da canali solcati dai numerosi battelli che trasportavano merci. Complessivamente la città ottocentesca, con i suoi mezzi di trasporto, dava l’impressione di un continuo e frenetico movimento, che era sconosciuto nel secolo precedente.

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LEZIONE 3: DUE NUOVE CLASSI SOCIALI: BORGHESIA E PR OLETARIATO

1) Le classi sociali nell’Antico regime Nell’Europa dell’Antico regime l’aristocrazia e l’alto clero erano al vertice della gerarchia

sociale. Veniva poi la borghesia, composta da funzionari statali, grandi mercanti e professionisti (come i medici e gli avvocati); seguivano i membri delle corporazioni urbane, i lavoranti nelle botteghe artigiane e, per ultima, la gran massa dei contadini. La base economica delle classi sociali dominanti tradizionali era la proprietà terriera; la terra era ugualmente l’elemento più solido della ricchezza e del prestigio di gran parte dei ceti borghesi.

2) L’ascesa della borghesia industriale A partire dal XVIII secolo si costituì in tutti i paesi europei una nuova classe borghese di

imprenditori industriali, che si dedicavano esclusivamente alle fabbriche di cui erano proprietari. La classe borghese restò tuttavia esclusa a lungo dal potere politico; infatti, anche in un paese evoluto come l’Inghilterra, il diritto di sedere nel parlamento elettivo era riservato in pratica all’aristocrazia terriera. Un sistema elettorale molto complicato attribuiva il diritto di voto a due tipi di elettori: da una parte i maggiori proprietari terrieri; dall’altra alcuni abitanti delle città ufficialmente comprese tra i “borghi elettorali”. La lista di questi borghi, però, era rimasta la stessa per molto tempo e quindi non teneva conto dei cambiamenti sopraggiunti. Così, borghi ridotti a poche decine di elettori mandavano i loro deputati in parlamento, mentre città cresciute in conseguenza della rivoluzione industriale, a cominciare da Manchester, non partecipavano alle elezioni: la borghesia industriale non riusciva perciò ad avere dei propri rappresentanti in parlamento. Questo stato di cose fu cancellato dalla riforma elettorale del 1832, che trasferì una sessantina di deputati dai borghi rurali ormai spopolati alle nuove città industriali densamente abitate. Dopo il 1830, anche negli altri paesi europei, in conseguenza dei processi di industrializzazione, la borghesia imprenditoriale ebbe una rapida crescita sociale e politica.

3) Il movimento operaio fra rivoluzione e riforme Anche il proletariato industriale cresceva numericamente con grande velocità. Si trattava di

una classe sociale nuova, che si differenziava nettamente da quella impiegata nelle tradizionali attività artigianali urbane. In particolare, gli operai delle manifatture industriali erano del tutto privi di organismi di difesa economica e sociale: le associazioni costituite allo scopo di salvaguardare gli orari di lavoro o tutelare i salari erano vietate. Per lungo tempo, anzi, il proletariato fu soggetto a una legislazione repressiva e restrittiva: lo sciopero era considerato un reato e veniva pesantemente punito. In queste condizioni l’opposizione operaia nei confronti della società borghese e delle istituzioni statali non poteva che essere totale. Le prime organizzazioni operaie, che si vennero costituendo in Europa fra il 1840 e il 1880, per lo più in maniera illegale e clandestina, ebbero un carattere decisamente rivoluzionario nei mezzi e nei fini: abbattere con la forza il dominio del capitalismo e creare una nuova società retta dai princìpi del socialismo. Solo sul finire del XIX secolo nacquero partiti operai e socialisti che accettavano di servirsi della lotta politica (cioè di conquistare la maggioranza nelle competizioni elettorali) per raggiungere gradualmente i loro obiettivi.

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La completa realizzazione del socialismo era rinviata a tempi più lontani, mentre gli scopi immediati dei partiti socialisti diventavano quelli di ottenere dai governi grandi riforme sociali.

4) La legislazione sul lavoro Ugualmente lento fu il passaggio, da parte dei poteri statali, dalla repressione

all’accettazione di alcune richieste avanzate dal movimento operaio. In Inghilterra il diritto dei lavoratori dell’industria ad associarsi e a far ricorso a forme pacifiche di sciopero fu gradualmente riconosciuto fra il 1825 e il 1870. Una serie di inchieste ordinate dalle autorità pubbliche mostrò le difficili condizioni di vita del proletariato industriale; sulla base dei dati raccolti, fra il 1832 e il 1844, si avviò una prima fase della legislazione sulle miniere e le fabbriche: il lavoro dei minori e delle donne venne limitato nella durata o proibito; nel 184 7 l’orario di lavoro per gli uomini venne fissato in dieci ore. Anche gli altri paesi europei, sebbene con ritardo e in fasi più o meno lunghe, emanarono leggi che ammettevano la libertà di organizzare sindacati che garantivano una minima tutela del lavoro. Successivamente, nel corso degli anni ottanta, nell’Impero tedesco fu istituito il primo sistema di sicurezza sociale, che prevedeva in particolare un fondo di assicurazione destinato a sovvenzionare i lavoratori in caso di malattia e infortunio e di fornire pensioni di invalidità e vecchiaia. Lo scopo di questo sistema era mantenere la pace sociale e ostacolare la crescita politica del Partito socialista tedesco. L’iniziativa tedesca servì comunque da modello per analoghe decisioni prese più tardi in paesi come la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia.

PAROLE CHIAVE CLASSE BORGHESE PROLETARIATO INDUSTRIALE CAPITALISMO SOCIALISMO

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LEZIONE 4: L’AGRICOLTURA NELL’EPOCA INDUSTRIALE

1) Gli effetti dell’industrializzazione sulle campa gne

A partire dal 1820-30, cominciarono a comparire nel mondo rurale europeo le prime macchine agricole. Il primo settore a essere meccanizzato fu quello della trebbia tura, cioè la separazione del chicco di grano dal resto della spiga raccolta, operazione che in precedenza era condotta impiegando una gran quantità di lavoro manuale. Successivamente, dopo il 1850, comparvero le macchine per la mietitura, cioè per il taglio e la raccolta delle spighe. L’introduzione delle macchine agricole rischiava di produrre disoccupazione fra i salariati e incontrò una forte opposizione nelle campagne inglesi. Nel resto dell’Europa fu ostacolata dalle piccole dimensioni delle proprietà agricole. Negli Stati uniti, invece, le proprietà erano molto vaste e vi era carenza di mano d’opera. Fu qui che la meccanizzazione poté affermarsi in maniera più rapida, fra il 1830 e il 1860, culminando con l’invenzione di macchine che compivano simultaneamente le operazioni di mietitura e trebbiatura.

2) L’agricoltura scientifica e la chimica industria le Una nuova fase della rivoluzione agricola si aprì quando la scienza moderna, in particolare

la chimica, cominciò a essere applicata alle tecniche agricole. A partire dal 1845, il chimico tedesco Justus von Liebig (1803-73) scoprì quali erano, oltre all’acqua, le sostanze necessarie alla nutrizione delle piante: soprattutto azoto, fosforo e potassio. Fino ad allora l’arricchimento delle sostanze nutritive del suolo era avvenuto seguendo due metodi: la somministrazione di letame e l’alternanza di cereali con piante che rendevano più fertile il terreno. Con le scoperte di Liebig divenne possibile andare alla ricerca di nuovi fertilizzanti, indipendentemente da quelli tradizionalmente forniti dall’allevamento. In un primo tempo si fece largo uso dei depositi di guano, gli escrementi di uccelli marini di cui erano particolarmente ricche le coste del Perù; in seguito si scoprì che i depositi minerali di salnitro (composto di azoto e potassio), oltre che per la produzione di polvere da sparo, potevano essere utili anche in agricoltura. Dopo il 1870 la nuova industria chimica, che si sviluppò in modo particolare in Germania, produsse, accanto ai prodotti chimici indispensabili per diverse lavorazioni industriali e ai coloranti artificiali, anche i fertilizzanti artificiali, che permisero un consistente aumento dei rendimenti dei terreni.

3) Le agricolture sviluppate e le agricolture tradi zionali L’influenza esercitata dalla rivoluzione industriale sull’agricoltura fece aumentare il divario fra

i sistemi agricoli sviluppati e i sistemi tradizionali. Nei paesi in cui l’agricoltura era più avanzata, la diffusione delle macchine agricole e i progressi della chimica fecero crescere rapidamente il rendimento del frumento, cioè il numero dei chicchi prodotti in media da una pianta. Fra il 1840 e il 1910, il rendimento dei terreni, misurato in quintali di frumento per ettaro, passò in Francia da 9 a 15, superando la quota 20 in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi. In molti paesi, tuttavia, l’agricoltura non si era evoluta e si praticavano ancora sistemi di coltivazione tradizionali. Un esempio è dato dalle regioni meridionali dell’Italia, dove nei primi decenni dell’Ottocento avevano trovato scarsa applicazione anche i princìpi della rivoluzione agricola settecentesca; qui i rendimenti medi del frumento erano solo di 5-6 quintali per ettaro verso il 1840 ed erano passati a 8-9 nel 1910.

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4) Il capitalismo nelle campagne In generale, la coltivazione della terra era sempre più simile a un’attività di tipo capitalista,

attenta ai profitti che si potevano ricavare. In questa direzione i più importanti progressi furono compiuti negli Stati uniti, dove vi era stata la più forte affermazione delle macchine agricole ed erano maggiormente diminuiti i costi di produzione: verso il 1900 l’intero raccolto statunitense veniva effettuato con attrezzi meccanici; nel 1840, un agricoltore produceva una tonnellata di grano in ottantasei ore, nel 1910 il tempo era sceso a trentotto ore. Agricolture evolute, come quelle della Gran Bretagna e della Danimarca, raggiunsero una simile produttività solo dopo il 1950. Accanto ai minori costi di produzione, lo sviluppo dei trasporti e del commercio consentirono agli Stati uniti di esportare in Europa quantità crescenti di cereali.

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LEZIONE 5: L’ INDUSTRIALIZZAZIONE E LA VITA QUOTIDI ANA

1) La società industriale e l’andamento demografico Verso il 1900, la popolazione europea era più che raddoppiata rispetto a un secolo prima,

passando da 195 a 422 milioni di abitanti. Alle origini di questa crescita vi era la riduzione della mortalità: al principio del XIX secolo nei paesi più sviluppati (come l’Inghilterra, la Francia, la Svezia o la Svizzera) morivano ogni anno circa 25 persone ogni mille abitanti; cento anni dopo, negli stessi paesi, la mortalità era scesa al 15-18 per mille. Nella seconda metà del secolo le carestie seguite ai cattivi raccolti del 1845-46 bloccarono un’ulteriore crescita: si trattò però degli ultimi episodi di questo genere verificatisi in Europa. La popolazione dell’Irlanda, impoverita dalla dominazione inglese, fu particolarmente colpita dalla rovina del raccolto della patata, da cui dipendeva quasi esclusivamente la sua alimentazione. Le conseguenze furono un vertiginoso aumento della mortalità e l’emigrazione in America di due milioni di irlandesi nell’arco di vent’anni. In seguito, l’emigrazione nel Nuovo continente della popolazione più povera da tutta l’Europa, l’aumento delle importazioni granarie dagli Stati uniti e lo sviluppo agricolo del continente agirono congiuntamente per trasformare le grandi carestie in un ricordo del passato.

2) Medicina, malattie, mortalità La riduzione della mortalità dipese anche dalla minore incidenza di alcune malattie infettive;

la mortalità infantile per vaiolo, ad esempio, fu ridotta fortemente dalla diffusione della vaccinazione antivaiolosa. Insieme ai benefici, i processi di industrializzazione provocarono però, almeno all’inizio, l’aggravamento di altre malattie: infatti, le cattive condizioni igieniche delle città e il loro denso popolamento favorirono la diffusione della tubercolosi, una grave malattia polmonare. Le reti fognarie vecchie e insufficienti e la scarsa protezione dell’acqua potabile dall’inquinamento, furono anche all’origine della diffusione in Europa di un’altra terribile malattia, il colera, che dal 1830 al 1837 provocò sette milioni di morti. Di fronte al ripresentarsi delle epidemie, le autorità pubbliche furono costrette a migliorare le condizioni igieniche urbane, intervenendo sui sistemi fognari e su quelli della distribuzione idrica. I progressi derivati da tali interventi portarono, negli ultimi decenni del secolo, a una significativa riduzione della mortalità dipendente da malattie infettive. A ciò si aggiunsero i primi veri progressi della medicina: nel 1882 il medico tedesco Heinrich Koch isolò il bacillo della tubercolosi; dal 1885 il medico francese Louis Pasteur aprì la strada alla moltiplicazione delle vaccinazioni preventive.

3) Cambiano i consumi e gli stili di vita Una svolta netta nelle abitudini degli europei si ebbe dopo il 1850 e più ancora dopo il 1870,

quando la società industriale fu in grado di offrire una crescente varietà di merci e servizi a basso prezzo. I cittadini potevano procurarsi facilmente acqua potabile e carbone per il riscaldamento e gli usi domestici. Le grandi città erano tutte collegate fra di loro dalle reti ferroviarie e contemporaneamente si sviluppavano i sistemi di trasporto urbano. I libri e i giornali venivano stampati con alte tirature e permettevano anche ai ceti operai di conoscere i testi letterari e di seguire il dibattito politico.

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Negli stati più evoluti fu resa obbligatoria l’istruzione primaria: verso il 1910 l’analfabetismo era praticamente scomparso in Inghilterra e in Germania (ma restava alto in Italia e in Russia) e nei paesi più sviluppati si moltiplicavano le scuole di grado superiore. Alcune invenzioni tecniche incidevano direttamente sulla qualità della vita; grazie alla refrigerazione, ad esempio, i prodotti alimentari potevano essere raffreddati e conservati a lungo: in questo modo le città potevano essere rifornite di prodotti alimentari altrimenti deperibili. Le fibre tessili artificiali prodotte dalla chimica industriale, poco costose, permettevano di produrre capi di abbigliamento a basso prezzo. Nascevano le catene dei grandi magazzini. Fra i nuovi prodotti dell’industria alcuni restavano riservati ai ceti più abbienti ma altri, come la bicicletta, si avviavano verso una larghissima diffusione.