IL SUCCESSO DELL'ALIGHIERI NEL TRECENTO e I POEMI ... · l'influenza e il successo di quel Dante...

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1 DALLA COMMEDIA AL QUADRIREGIO IL SUCCESSO DELL'ALIGHIERI NEL TRECENTO e I POEMI ALLEGORICO-DIDASCALICI DI ISPIRAZIONE DANTESCA INTRODUZIONE Il percorso didattico che intendo svolgere si sofferma su Dante e sull’influenza esercitata dal “divin poeta” su tutta la letteratura italiana del XIV secolo. Dante è il massimo poeta comunale ed è il testimone di un'epoca: capire Dante, dal punto di vista culturale, significa capire il Medioevo, epoca cruciale per la ricerca delle proprie radici storiche. Ma Dante non è solo un poeta medievale: è un classico, ma allo stesso tempo è un moderno, anzi un contemporaneo: egli affronta temi che appartengono all’umanità di ogni epoca. In un'età caotica come l'attuale ritengo sia una valida didattica quella di un poeta che vada alla ricerca di senso. Nel percorso che ho ideato mi sono soffermato su alcuni documenti letterari che testimoniano l'influenza e il successo di quel Dante che è da ritenersi padre della letteratura italiana, fondatore della nostra lingua, riferimento intrascurabile dell'identità nazionale. Dal punto di vista metrico, inoltre, Dante ha regalato alla letteratura la terza rima, uno strumento che per tutto il secolo sarà d'uso obbligato nella scrittura di ogni forma di poesia narrativa. Davvero Dante pensava in poesia e c'è del miracoloso nella sua abilità “divina”, come direbbe Berchet, di scrivere un “discorso” di 14.223 versi in una struttura chiusa e in una tal mirabile forma forma. Il successo della Commedia fu dirompente e causò il proliferare di poemi allegorico-didascalici che ad essa si ispiravano. Accanto ai Trionfi di Petrarca e all' Amorosa Visione di Boccaccio, che saranno oggetto di trattazione nelle canoniche ore di letteratura, all'interno del percorso didattico che propongo saranno letti e approfonditi in classe passi tratti dall' Acerba di Cecco d'Ascoli, dal Dittamondo di Fazio degli Uberti e dal Quadriregio di Federico Frezzi. L’attenzione sarà concentrata in particolare su quest'ultimo: mai un autore si era avvicinato così tanto al poema dantesco, quanto meno nelle intenzioni. La lettura di passi di opere letterarie poco note a un non specialista, oltre che alla ricerca dell'originalità, risponde alla logica di far comprendere che la storia della letteratura è molto più vasta del tradizionale canone che si studia a scuola. Il sottoscritto osserva la tendenza a scuola e nei libri di testo a svolgere quasi esclusivamente una storia della “modernità”, concentrata su autori portatori di significative novità, trascurando spesso la “tradizione”: anch'essa ha un proprio valore, messaggi significativi da proporci, illuminazioni sul periodo storico e culturale in cui nascono 1 . Si vuole sfatare inoltre il più volte sentito assioma letterario per cui “Petrarca è la norma, replicabile; Dante è l'eccezione, non replicabile”: dell’aretino si hanno molti imitatori, del fiorentino no. Così come il Cinquecento può essere considerato il secolo del Petrarchismo, il Trecento è il secolo di Dante, con i suoi imitatori, a partire dallo stesso Petrarca. Il lavorare su opere non troppo note facilita il lavoro sul testo: ad esempio i ragazzi possono svolgere 1 Tale riflessione prende spunto anche dalle sollecitazioni emerse durante le lezioni del professor Motta, che nel primo anno del mio percorso Ssis ha tenuto un corso su La tradizione letteraria.

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DALLA COMMEDIA AL QUADRIREGIO

IL SUCCESSO DELL'ALIGHIERI NEL TRECENTO

e I POEMI ALLEGORICO-DIDASCALICI DI ISPIRAZIONE DANTESCA

INTRODUZIONE

Il percorso didattico che intendo svolgere si sofferma su Dante e sull’influenza esercitata dal “divin

poeta” su tutta la letteratura italiana del XIV secolo. Dante è il massimo poeta comunale ed è il testimone di

un'epoca: capire Dante, dal punto di vista culturale, significa capire il Medioevo, epoca cruciale per la ricerca

delle proprie radici storiche. Ma Dante non è solo un poeta medievale: è un classico, ma allo stesso tempo è

un moderno, anzi un contemporaneo: egli affronta temi che appartengono all’umanità di ogni epoca. In un'età

caotica come l'attuale ritengo sia una valida didattica quella di un poeta che vada alla ricerca di senso.

Nel percorso che ho ideato mi sono soffermato su alcuni documenti letterari che testimoniano

l'influenza e il successo di quel Dante che è da ritenersi padre della letteratura italiana, fondatore della nostra

lingua, riferimento intrascurabile dell'identità nazionale.

Dal punto di vista metrico, inoltre, Dante ha regalato alla letteratura la terza rima, uno strumento che

per tutto il secolo sarà d'uso obbligato nella scrittura di ogni forma di poesia narrativa. Davvero Dante

pensava in poesia e c'è del miracoloso nella sua abilità “divina”, come direbbe Berchet, di scrivere un

“discorso” di 14.223 versi in una struttura chiusa e in una tal mirabile forma forma. Il successo della

Commedia fu dirompente e causò il proliferare di poemi allegorico-didascalici che ad essa si ispiravano.

Accanto ai Trionfi di Petrarca e all'Amorosa Visione di Boccaccio, che saranno oggetto di trattazione nelle

canoniche ore di letteratura, all'interno del percorso didattico che propongo saranno letti e approfonditi in

classe passi tratti dall'Acerba di Cecco d'Ascoli, dal Dittamondo di Fazio degli Uberti e dal Quadriregio di

Federico Frezzi. L’attenzione sarà concentrata in particolare su quest'ultimo: mai un autore si era avvicinato

così tanto al poema dantesco, quanto meno nelle intenzioni.

La lettura di passi di opere letterarie poco note a un non specialista, oltre che alla ricerca

dell'originalità, risponde alla logica di far comprendere che la storia della letteratura è molto più vasta del

tradizionale canone che si studia a scuola. Il sottoscritto osserva la tendenza a scuola e nei libri di testo a

svolgere quasi esclusivamente una storia della “modernità”, concentrata su autori portatori di significative

novità, trascurando spesso la “tradizione”: anch'essa ha un proprio valore, messaggi significativi da

proporci, illuminazioni sul periodo storico e culturale in cui nascono1.

Si vuole sfatare inoltre il più volte sentito assioma letterario per cui “Petrarca è la norma, replicabile;

Dante è l'eccezione, non replicabile”: dell’aretino si hanno molti imitatori, del fiorentino no. Così come il

Cinquecento può essere considerato il secolo del Petrarchismo, il Trecento è il secolo di Dante, con i suoi

imitatori, a partire dallo stesso Petrarca.

Il lavorare su opere non troppo note facilita il lavoro sul testo: ad esempio i ragazzi possono svolgere

1 Tale riflessione prende spunto anche dalle sollecitazioni emerse durante le lezioni del professor Motta, che nel primo anno del mio

percorso Ssis ha tenuto un corso su La tradizione letteraria.

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parafrasi, abbozzare commenti in maniera autonoma, senza la pigra opportunità di usare internet. Il confronto

tra più testi, inoltre, ritengo sia uno degli strumenti di analisi più formidabili per cogliere le sfumature di

differenza fra gli autori.

Le lezioni verteranno su ragionamenti e approfondimenti focalizzati su Dante e sul secolo XIV,

sempre con il supporto dei testi, che saranno forniti agli allievi in fotocopia (vd. Allegati). Elemento cardine

della didattica che intendo proporre è la centralità del testo letterario, cui sommo una personale apertura agli

aspetti più praticabili della teoria costruttivista: attraverso la lettura di testi significativi, l'insegnante indirizza

i ragazzi, stimola il loro ragionamento, promuove la costruzione di significati, interviene nel caso di derive di

senso.

La classe per cui tale percorso è pensato è una terza liceo scientifico: terza, per il focus su Dante e il

contesto storico-culturale trecentesco; liceo, per il taglio filologico – classicistico e il livello di

approfondimento; scientifico, per l’uso “scientifico” del testo letterario che viene proposto agli allievi, cui si

forniscono anche le coordinate per la ricerca dei libri antichi.

Proprio perché pensato per una terza, i riferimenti alla Commedia si concentreranno soprattutto sulla

prima cantica. Sulla scorta della mia esperienza di tirocinio, inoltre, ho osservato che in classe terza molti

docenti seguono nel corso dell'anno due percorsi paralleli: la storia della letteratura italiana dalle origini alla

fine del Quattrocento e la lettura dell'Inferno di Dante. La mia ipotesi didattica è ideata come tratto del

percorso dantesco, che tende a intersecarsi con la storia della letteratura italiana del Trecento. Oltre a Dante

si introdurranno autori “nuovi”, non trattati nelle lezioni di storia della letteratura, e saranno approfonditi altri

come Boccaccio e Petrarca di cui si faranno emergere i rapporti con il poeta fiorentino.

Il percorso che propongo vuole essere infine una “sfida” didattica, un'occasione per soffermarsi su

Dante in maniera originale, comprenderne la sua importanza, coglierne, anche attraverso il confronto con

altri testi, la sua bellezza alla ricerca di una stimolazione forte che possa far appassionare i ragazzi alla

letteratura già in terza, all'alba del percorso scolastico che si concluderà con la maturità.

DESTINATARI: Terza liceo scientifico

TEMPI: 16 ore, da metà gennaio a metà marzo, 2 ore contigue alla settimana.

LEZIONE I

GENNAIO, settimana III

1 - La Commedia, un classico ancora attuale

2 - La nascita del poema

3 – Lo scandalo

4 – Il successo della Commedia nel Trecento

2 ore

LEZIONE II

GENNAIO, settimana IV

1 - I poemi allegorico-didascalici di imitazione dantesca

2 ore

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2 – Il Quadriregio di Federico Frezzi

LEZIONE III

FEBBRAIO, settimana I

1 - L'apparizione di Cupido

2 – Il nocchiere Caronte

2 ore

VERIFICA FORMATIVA

FEBBRAIO, settimana II

2 ore

LEZIONE IV

FEBBRAIO, settimana III

La Fortuna

2 ore

LEZIONE V

FEBBRAIO, settimana IV

Apostrofi all'Italia

2 ore

LEZIONE VI

MARZO, settimana I

1 – Geografia e storia della letteratura italiana

2 – Ricercare testi antichi con l'ausilio di internet

2 ore

VERIFICA FINALE

MARZO, settimana II

2 ore

PREREQUISITI

• Conoscere almeno sommariamente il contesto storico e culturale al quale appartengono i testi da

esaminare

• Comprendere il significato globale e le principali informazioni contenute in un testo

• Conoscere gli elementi essenziali di analisi di un testo narrativo e poetico

• Conoscere almeno i primi sette canti dell'Inferno

• Ascoltare e prendere appunti da una lezione, selezionando le informazioni più importanti

FINALITA'

• Comprendere l'importanza del genere allegorico didascalico nella letteratura italiana delle origini e

l'influenza decisiva di Dante su tale tipo di letteratura

• Comprendere cosa significa opera classica e coglierne i messaggi ancora attuali

• Educazione all'alterità: ascoltare la voce di un autore

• consolidare il quadro storico culturale del XIV secolo

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OBIETTIVI

• conoscenza meno convenzionale della letteratura italiana del Trecento

• cogliere il contenuto informativo e il messaggio del testo letterario insieme con le specificità della

sua lingua

• approfondire la conoscenza di Dante e della Commedia

• riconoscere le peculiarità dei poemi allegorico-didascalico e individuare gli elementi di continuità e

di alterità rispetto alla Commedia

• essere consapevoli del successo di Dante nel secolo XIV nella lingua, nella metrica e

nell'immaginario collettivo

• consolidare la capacità di analizzare e di interpretare il testo mettendone in relazione forma e

contenuto

• saper fare la parafrasi di testi antichi, riflettendo sulla dimensione storica della lingua italiana e

sull'uso dei diversi registri

• rielaborare in modo personale i contenuti dei testi mediante esposizioni orali, parafrasi, riscritture

secondo prospettive diverse

• operare confronti testuali

• saper ricercare testi antichi nelle biblioteche, anche virtuali

• saper trasporre in italiano corrente il linguaggio della poesia trecentesca, riflettendo sulla dimensione

storica della lingua italiana e sull'uso dei diversi registri

• potenziare negli alunni le competenze necessarie per affrontare le tipologie previste per la prima

prova dell'Esame di Stato

CONTENUTI

• Dante: Convivio, Commedia ed Epistola a Cangrande

• Novellino

• Giovanni del Virgilio, Epistola a Dante

• Cecco d’Ascoli, L’Acerba

• Fazio degli Uberti, Dittamondo

• Petrarca, Familiari

• Boccaccio, Trattatello in laude di Dante

• Frezzi, Quadriregio

• Saggi critici (Schlegel, Foscolo, Contini, Barbi)

MATERIE COIVOLTE

• Italiano

• Latino

• Storia dell'arte

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• Storia

STRUMENTI

• Fotocopie (vd. Allegati)

• Mappe concettuali

• Lavagna

• Libro di testo

• Proiettore parietale (per foto e slide in power point)

• Appunti delle lezioni

• Divina Commedia

• Computer: per ricerche nel web

METODI

• Lezione frontale

• Lezioni interattive di analisi del testo poetico

• Analisi e discussione guidata, con domande stimolo, dei testi forniti in fotocopia

• Lavori di gruppo

• Esercizi domestici

• Brainstorming

• Feedback continuo

LUOGHI

Aula scolastica

VERIFICA e VALUTAZIONE

La verifica diagnostica dei prerequisiti che l'alunno deve possedere per poter affrontare il progetto

non viene effettuata. Si dà per scontato, avendolo accertato nella prima parte dell'anno, che l'alunno conosca

almeno i primi sette canti dell'Inferno di Dante e la Commedia nelle sue linee essenziali, che sia inoltre in

grado di leggere, comprendere e analizzare, con l'aiuto del docente, versi e prose del Trecento.

La valutazione formativa avverrà attraverso una prova scritta, a metà del percorso didattico; il

docente potrà valutare l’apprendimento degli allievi anche attraverso la correzione dei compiti assegnati per

casa, secondo le indicazioni fornite di volta in volta in classe, e attraverso interrogazioni orali, occasione di

ripasso per la classe.

La valutazione sommativa al termine del percorso didattico avverrà attraverso la somministrazione di

una prova scritta sul modello della prima prova dell'esame di stato, con la possibilità di scegliere tra le

quattro tipologie. Saranno valutate la competenza espressiva degli allievi, le conoscenze, la capacità di

analisi e di saper svolgere approfondimenti.

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ALLEGATI

Tutte le riflessioni che si svolgeranno nel percorso didattico verteranno sui testi che verranno

consegnati in fotocopia ai ragazzi. La spiegazione del docente si appoggerà sempre sull'uso dei testi e i

ragazzi saranno sollecitati a intervenire e formulare le loro idee sulla base dei documenti forniti.

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LEZIONE I (2 ore)

1 – LA COMMEDIA: UN CLASSICO ANCORA ATTUALE

Il percorso inizia con alcuni spunti motivazionali sul perché soffermarsi a scuola su un'opera quale la

Commedia. Essi si appoggiano sulle parole di quattro grandi letterati e studiosi, ognuno dei quali introduce

elementi di riflessione significativi.

Il testo 1 (vd. Allegati) è un passo tratto da Un'interpretazione di Dante di Gianfranco Contini, che

mette in rilievo la viva attualità di Dante. Sarà spunto per una riflessione sul concetto di classico come opera

che affronta temi che appartengono a ogni epoca. A tal proposito l'insegnante suggerirà ai ragazzi più

motivati di leggere il prezioso saggio di Italo Calvino, Perché leggere i classici, di cui egli fornirà in classe

un breve sunto2.

Il testo 2 di Friedrich von Schlegel aggiunge nuovi elementi alla riflessione. Leggere Dante per

assumersi la responsabilità di sperimentare una voce diversa dalla propria che, pur venendo dal passato, offre

l'occasione per riflessioni profonde. Si potrà discutere delle finalità del testo letterario, costruzione “titanica”

che l’autore ha messo in atto con uno sforzo protratto della sua volontà per trasmetterci una sua visione del

mondo. Compito dello studente e intenzione del docente è quello di superare gli ostacoli del tempo e dello

spazio per poter finalmente ascoltare una voce vivissima e attualissima.

Il testo 3 di Ugo Foscolo è tratto dal Discorso sul testo della ‘Divina Commedia’. Non esiste un

letterato italiano che non abbia letto la Commedia e i commenti di ammirazione sono stati, caso quasi unico,

pressoché unanimi. Foscolo, nel 1825, sottolineava la “magia” del poema dantesco che unisce mirabilmente

la finzione, tratta dalla “perfezione ideale” delle cose, e la verità, che si coglie nella realtà.

Con il testo 4 ci si immerge nel pieno Trecento, secolo oggetto del nostro percorso. Grande amico,

2 Secondo Calvino, un classico è un libro che è in grado di esercitare una notevole influenza sia quando resta fisso, indelebile nella

memoria, sia quando viene rimosso, pur rimanendo nascosto fra le pieghe della memoria, mimetizzandosi o dettando i comportamenti del

proprio inconscio. Ad ogni rilettura di un classico quindi, capita sovente di riconoscere dei propri atteggiamenti assimilati durante le letture

di gioventù; proprio per questo motivo, è necessario affermare che ogni rilettura d'un classico è una lettura di scoperta, come fosse la prima

lettura, e che la prima lettura d'un classico è in realtà una rilettura. Insomma, si dice classico quel libro che non ha mai finito di dire quel che

ha da dire. Si può perciò affermare che ogni libro definito a ragione classico porti con sé, celato fra le righe, delle reminiscenze di altri

classici. Testi classici come l'Odissea o la Commedia, grazie a personaggi che incarnano bene o male tutti i meccanismi interni celati in una

persona, hanno continuato a vivere fino ai giorni nostri, reincarnandosi di generazione in generazione. La lettura d'un classico, quindi, deve

dare qualche sorpresa, in rapporto alla considerazione iniziale, per questo è importante leggere direttamente i testi originali, evitando critiche,

commenti e interpretazioni. Si dice classico, in definitiva, ogni libro che stimola un atteggiamento personale critico, che provoca discorsi

critici ma che continuamente sappia liberarsene. Non sempre il classico insegna qualcosa, anzi, molte volte è una conferma di ciò che

sapevamo. Anche questa scoperta crea sorpresa: la scoperta di una relazione, di una qual sorta di condivisione delle idee dell'autore. In

definitiva, possiamo definire classici quei libri che si rivelano sempre sorprendenti, e comunque, non lasciano in ciascuno un sentimento di

indifferenza.

La scuola gioca un ruolo importante nell'educazione alla lettura, in quanto, in qualità di luogo principale di formazione critica e

culturale per i ragazzi, fornisce proprio alla gioventù gli strumenti adatti alla formazione di un proprio gusto classico, attraverso il confronto

con altri testi propriamente detti classici e, di conseguenza, con l'acquisizione di una coscienza critica. Inoltre, è la stessa lettura a formare,

talvolta, quel canone, quel metro di misura, con il quale misurarsi con i problemi che ci circondano, giungendo a formare, in ciascun giovane

lettore, un vero e proprio approccio personale alle problematiche della vita. In definitiva, per Calvino il classico è un libro che si configura

come equivalente dell'universo.

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lettore attento, commentatore entusiasta, Giovanni Boccaccio rappresentò la più ricca fonte non

documentaria sulla vita e sull'opera dell'Alighieri, cui dedica il Trattatello in laude di Dante. Nel passo in

questione l'autore del Decameron, con una similitudine che San Gregorio Magno aveva già adoperato per la

Bibbia, spiega il perché del successo immediato del poema dantesco. La Commedia soddisfa infatti le

esigenze di ogni lettore: variando la forza di chi vi si immerge nel fiume della sua lettura, essa darà risposte

diverse, ma in ogni caso adeguate, tanto alle aspettative del lettore meno colto (“il piccioletto agnello”),

quanto di quello più raffinato ed esigente (“il grande elefante”). E' proprio questa commistione di popolarità

e aristocraticità culturale che sancisce il successo di un'opera complessa quale la Commedia.

2– LA NASCITA DELLA POEMA

Il docente inizia il percorso fermando il tempo al 1304, anno in cui, per la maggior parte dei critici,

Dante avrebbe iniziato a scrivere il poema. Verranno poste alcune domande, cui l'insegnate cercherà di

rispondere con l'aiuto dei testi 5 (Dante, Convivio, IV iv 3-4), 6 (Michele Barbi, Dante: vita, opere e fortuna)

e 7 (Dante, Epistola XIII) degli allegati.

Chi era e come era considerato Dante dai contemporanei prima della diffusione del suo non plus

ultra? Perché decide di intraprendere la scrittura del poema, interrompendo la composizione del De vulgari

eloquentia e del Convivio? Perché sceglie di scrivere in volgare, nonostante le prevedibili critiche? Il

docente, con l'ausilio dei testi in allegato, solleciterà e guiderà gli allievi verso la risposta agli interrogativi

sollevati.

L'immagine pubblica di Dante all'inizio del Trecento era quella di uno dei più importanti esponenti

politici del Comune di Firenze. Dante era un “bianco”, un conservatore deluso appartenente alla piccola

nobiltà guelfa che, nella seconda metà del Duecento, si era vista erodere i soldi e il potere a causa

dell’affermazione della borghesia e dello sviluppo dell’industria tessile, del commercio e della finanza. Un

politico con una grande “valvola di sfogo” che era la passione per la poesia. Capofila dei giovani poeti

toscani degli anni Novanta, fu autore di un’opera aristocraticissima quale Vita Nuova, proposta più

provocatoria e avanzata del cenacolo stilnovista. La sua carriera politica era iniziata con l'elezione nel

Consiglio speciale del popolo (1295), nel Consiglio dei Savi per l'elezione dei Priori (1295), nel Consiglio

dei Cento (1296), e culminò, dopo un'ambasceria del maggio 1300 effettuata con successo a San Gimignano,

con l'incarico di priore, massima carica politica della città, per il bimestre dal 15 giugno al 15 agosto 1300.

Quando nell'ottobre del 1301, chiamato dal papa in veste di paciere, il principe francese Carlo VIII di Valois

giunse in Toscana, Dante fu messo a capo di un'ambasceria inviata da Firenze a Bonifacio VIII per sondarne

le reali intenzioni. Ma il primo di novembre Carlo entrava in Firenze e i Neri si impadronivano del potere. Il

nuovo podestà aprì un'inchiesta sull'operato dei priori nei due anni precedenti, e mosse a Dante diverse

accuse tra cui quella di baratteria (illeciti guadagni nell'amministrazione del bene pubblico). Nel gennaio del

1302 non essendosi presentato a discolparsi, Dante fu condannato in contumacia al pagamento di una multa,

a due anni di confino, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nel marzo dello stesso anno, infine, non

avendo pagato la multa, venne condannato alla confisca dei beni e alla morte sul rogo, se mai fosse venuto in

potere della Signoria.

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Dal 1302, quindi, visse in esilio per le corti dell'Italia settentrionale, occupandosi di filosofia e di

politica, trascurando la sua passione per la poesia: scrisse lettere aperte all’imperatore e al papa in cui

sosteneva la restaurazione del Sacro Romano Impero. A un certo punto, ex abrupto, abbandona la

composizione del Convivio e del De vulgari eloquentia per iniziare la stesura Commedia. Come mai tale

scelta? E' possibile ipotizzarne i motivi leggendo le considerazioni con cui si arresta il Convivio (vd. Allegati,

testo 5).

Dante è deluso dal fallimento della società comunale e dall'affermazione politica del Papato ai danni

dell'Impero. L'Alighieri afferma il principio che l'autorità imperiale si fonda sulla naturale disposizione

dell'uomo a cercare la felicità, sulla necessità umana della convivenza, richiesta dall'insufficienza dei singoli,

e sul bisogno che questa convivenza sia pacifica, mentre viene continuamente compromessa dall'avidità degli

individui e dei popoli, la “lupa” che porta a lotte fratricide che trasformano gli uomini in belve. L'esistenza di

una monarchia universale e di un unico sovrano, che possedendo tutto non avrebbe nulla da desiderare,

garantirebbe invece l'ordine, la giustizia e la pace, così che ognuno potrebbe vivere felice.

La constatazione della necessità di un radicale cambiamento storico induce Dante a scrivere la

Commedia. Essa sembra essere il frutto di un sogno: colmare con la poesia il vuoto di valori che aveva

investito la società e porre tale opera come l'artefice del riscatto del mondo contemporaneo. A suffragio di

tale interpretazione, si leggono in classe le parole del filologo Michele Barbi (vd. Allegati, testo 6).

Il poema dantesco è un'opera il cui soggetto e il fine è dichiarato espressamente nella celebre

Epistola XIII, ormai accettata dalla maggior parte degli studiosi come documento originale scritto da Dante e

inviato a Cangrande della Scala tra il 1315 e il 1317, insieme ai primi canti del Paradiso. Il soggetto della

Commedia è l'uomo e il fine “consiste nell'allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e

condurli a uno stato di felicità”. Il capolavoro dantesco, perciò, può essere considerato un poema epico

sull'apprendimento e su cosa vuol dire passare dall’errore alla verità. Proprio per tale finalità didattica

l'Alighieri sceglie di scrivere i propri versi nel volgare della sua città, una lingua che poteva essere capita

anche dalle “donnette” (vd. Epistola XIII, Allegati, testo 7).

3 – LO SCANDALO DELLA COMMEDIA

La scelta di usare il volgare per un'opera così ricca e complessa non poté non sollevare numerose

critiche da parte dei letterati, e soprattutto del mondo accademico. Già prima della stesura del capolavoro

dantesco si può comprendere la considerazione che godeva il volgare leggendo un brevissimo racconto tratto

dal Novellino, una delle raccolte di novelle più celebri prima del Decameron di Boccaccio, in cui si afferma

che usare il volgare per le opere elevate equivale a collocare le dee delle scienza in un bordello (vd. testo 8).

Non mancò chi attaccò apertamente l'Alighieri, come il bolognese Giovanni del Virgilio.

Grammatico, letterato e docente universitario, nel 1320 e nel 1321 polemizzò sull'intenzione del Alighieri di

usare il volgare per trattare argomenti non comprensibili dal popolo. Egli riconosceva al fiorentino il genio

poetico, ma proprio per questo lo accusava di “prodigare le perle ai porci” (vd. Giovanni del Virgilio,

Allegati, testo 9). A suo giudizio, se Dante avesse rinunciato a cimentarsi nella poesia volgare, che poteva

solo suscitare interesse fra il popolo minuto, avrebbe potuto aspirare con successo all’alloro poetico che solo

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l’epica in latino incentrata su temi storici avrebbe potuto dargli. Il poeta fiorentino rispose con un’egloga in

stile virgiliano, nella quale ribadisce di voler cercare la gloria poetica proprio con la lingua volgare, portando

cioè la conoscenza classica al livello della lingua e della parlata comune.

Ma lo scandalo che suscita la Commedia di Dante non riguardò solo la lingua, essendo il poema

un’opera in cui Dante non risparmia critiche a nessuno. In ambito politico, attacca tanto i guelfi quanto i

ghibellini, tanto i laici quanto gli ecclesiastici; in campo religioso il poeta esprime senza riserve le proprie

idee, denunciando la corruzione dei papi e della Chiesa; nel sociale, il fiorentino se la prende con i mercanti,

i nuovi ricchi la cui logica ha corrotto gli onesti costumi del buon tempo antico. Tutte queste denunce in

un'opera in versi in cui chi scrive dice di raccontare un fatto reale e di parlare per volontà di Dio.

4 – IL SUCCESSO DELLA COMMEDIA NEL TRECENTO

Il docente sostiene che il Trecento può essere considerato il secolo di Dante, in primis per la

diffusione del volgare fiorentino come lingua letteraria di tutta la Penisola, in secundis per l'influenza che

egli eserciterà su tutti i letterati del secolo, a partire dall'uso della terza rima per le poesia narrativa.

Il professore si soffermerà sulla contestualizzazione temporale, indicando agli allievi le date di

composizione e diffusione del poema. La composizione della Commedia abbracciò un arco di oltre quindici

anni, fin quasi alla morte del poeta. Secondo le ipotesi più accreditate l'Inferno risalirebbe agli anni 1304-

1308 e sarebbe stato divulgato nel 1313; il Purgatorio sarebbe stato composto tra il 1308 e il 1312 e

divulgato intorno al 1314; il Paradiso tra il 1316 e il 1321 e fu divulgato postumo dai figli, anche se singole

parti vennero diffuse precedentemente.

La fortuna di Dante si identificò sostanzialmente con quella della Commedia, che eclissò con la sua

fama quella delle opere minori ed è assunta fin dal Trecento “quasi a libro santo della nazione, commentato

come si commentavano le pagine sacre, e letto nelle scuole di alto livello”3. La rapida diffusione del poema è

dimostrata da un'eccezionale proliferazione di copie manoscritte e dai numerosi commenti in latino e in

volgare.

La divulgazione del poema interessò tutti gli ambienti sociali, tanto aristocratici, quanto borghesi e

popolari, come si ricava dalle caratteristiche dei codici4 e da testimonianze coeve o di poco successive: tra

queste, certe novelle di Franco Sacchetti, che prendono spunto da storpiature della lezione dantesca in bocca

ad ammiratori di scarsa cultura. Una di esse sarà letta in classe a titolo esemplificativo (vd. Allegati, testo

10)5.

La ricchezza tematica e letteraria della Commedia favorì una promozione del volgare, dimostrando

che la nuova lingua aveva potenzialità illimitate. Mentre lo stilnovismo è fenomeno legato all'esperienza di

Dante nella sua patria, la Commedia è opera compiuta in esilio, che si collega linguisticamente sì alla

3 B. Migliorini, Dante in Storia della lingua italiana, Firenze 1978, p. 179.

4 Sul sito http://www.danteonline.it si può vedere l'elenco dei manoscritti esistenti, alcuni dei quali sono consultabili on-line.

5 Questa novella è interessante per l'immagine di poeta burbero che Dante ha sempre avuto nella considerazione della gente fin da

Giovanni Villani. Ai ragazzi, inoltre, si può far cercare di cogliere l'anacronismo: Dante non poteva essere a Firenze dopo la stesura della

Commedia, vista la nota vicenda dell'esilio.

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Toscana e a Firenze, ma si proietta sull'Italia settentrionale che ospitò il poeta durante la maggior parte del

lavoro di composizione. Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro, che sta alla base della crescita

rapida della fortuna accordata ai modelli letterari del volgare, per cui già nel Trecento ci sono autori che si

sforzano di toscaneggiare imitando Dante, e si staccano così dalla loro lingua naturale. Il successo della

Commedia fu il cavallo di Troia del successo della lingua toscana, che iniziò la sua inarrestabile espansione

destinata a completarsi nel giro di alcuni secoli.

Il docente punterà l'attenzione sull'importanza di Dante come padre della lingua italiana. Certo,

accennerà brevemente anche al ruolo svolto da Petrarca, Boccaccio, Bembo, Manzoni e i mass media del

Novecento, ma evidenzierà che colui che ha dato via a tale processo di unificazione linguistica fu proprio

l'autore della Commedia. Come afferma il critico Carlo Dionisotti, “dopo Dante non ci può essere più

questione di quale sia la lingua comune d'Italia”: il 15% del lessico italiano d'oggi è stato immesso nell'uso

per la prima volta dall’Alighieri, e oltre la metà di esso si trova proprio nella Commedia. E' vero che il

fiorentino si affermò come lingua nazionale anche per altri motivi come la vivacità della società mercantile

della città toscana e gli intensi rapporti mercantili che tesseva con il resto d'Italia; la sua posizione mediana

tra le parlate italiane, che lo rese adatto a penetrare sia a Nord che a Sud; la sua similitudine con il latino, più

delle altre parlate dell'Italia del tempo. Ma tale successo non ci sarebbe stato senza la Commedia. Il

messaggio che il docente cercherà di far passare agli allievi è il fatto che sia stata la letteratura ad aver

“unito” l'Italia prima del 1861, e l’Alighieri fu determinante per le sorti della lingua in un paese come il

nostro, che non aveva unità politica e non poteva contare sull'effetto unificante di una corte e di una

burocrazia centralizzata.

L'influenza del toscano si esercitò sopra i poeti delle altre regioni italiane, anche se la situazione era

tale da favorire processi di ibridismo e di contaminazione di codici linguistici. Il successo di Dante fu

confermato non solo dalla diffusione del volgare fiorentino, ma anche dal successo del metro da lui

inventato, la cosiddetta “terza rima”. Il Trecento assistette perciò a un gran proliferare di poemi scritti in

terzine dantesche. Persino gli altri due maggiori letterati italiani del Trecento, Petrarca e Boccaccio, non

poterono ignorare il magistero dantesco.

Nel testo 116 Petrarca ammette, con un giudizio piuttosto neutro, che la poesia dantesca è “popolare

6 Epistola in latino di Petrarca rivolta a Boccaccio. Testimonianza di particolare interesse sul successo di Dante al tempo, del

giudizio che formula su di lui Petrarca e documento che fa luce sui rapporti tra le “Tre corone”. Boccaccio considerava Dante e Petrarca suoi

maestri e si era prodigato in più occasioni per avvicinare l'aretino al fiorentino tanto da avergli donato una copia della Commedia. L'epistola

di Petrarca che riporto al testo 11 è la risposta a una lettera perduta di Boccaccio scritta nel 1359. Petrarca si difende dalla calunnia che

circolava sul suo conto, di cui sembra coglierne una velata allusione anche nella lettera dell'amico: il suo ostinato silenzio su Dante era stato

interpretato malevolmente come manifestazione di invidia per la fama, di cui il grande fiorentino godeva, molto più ampia della sua. Ciò che

colpisce nel modo con cui Petrarca respinge l'accusa, adducendo principalmente ragioni di ordine morale, è la cura posta nel non formulare

un giudizio esplicito sulle capacità letterarie di colui che, con un atteggiamento di ostentata freddezza, egli continua a non chiamare per

nome, ma indicare come “un nostro concittadino” oppure “questo poeta”. Interessante anche l'affermazione, apparentemente pretestuosa, che

aggiunge dopo: l'assenza della Commedia dalla sua fornitissima biblioteca si doveva al timore che aveva nutrito in gioventù, quando

anch'egli poetava in volgare ed era alla ricerca di uno stile personale, di subirne l'influenza rischiando suo malgrado di imitarla. Oggi che

numerose e accurate indagini hanno dimostrato le numerose presenze dantesche tanto nel Canzoniere, quanto nelle opere latine, per non

tacere dei Trionfi, si può evincere, secondo il critico Cesare Segre, che l'affermazione di Petrarca “sembra tradire il suo disagio di

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per quanto riguarda lo stile, ma indubbiamente nobile per contenuto” e che Dante merita “la palma della

volgare eloquenza”. Col che, però, egli si dissocia dalle scelte dantesche in materia di lingua (il volgare

invece del latino), di stile (il “comico” invece dell'aulico) e quindi di pubblico (il “volgo” invece della

cerchia ristretta dei letterati), per rivendicare a sé il merito del nuovo stile (la nuova prosa e la nuova poesia

latina), di cui vuole affermare il primato sulla poesia volgare. Le parole, però, che Petrarca esprime

nell'Epistola XIII (vd. Familiari, Allegati, testo 11), contrastano decisamente con il suo operato, dato che

appare evidente e cospicua la presenza della Commedia in tutta la produzione volgare dell'aretino, tanto nel

Canzoniere quanto, in maniera eclatante, nei Trionfi, poema in terza rima con massiccia presenza di

riecheggiamenti e ricalchi danteschi.

Boccaccio, invece, va annoverato tra gli ammiratori più entusiasti del poeta fiorentino. Imitò Dante

nelle sue opere e fu di fatto il primo dantista: a lui infatti risalgono una breve e commossa biografia, il

Trattatello in laude di Dante, e una raccolta di opere volgari dell'Alighieri (Vita nova, Commedia, quindici

canzoni) che egli copiò di suo pugno, e di cui corresse anche il testo, fissando una lezione che ebbe duraturo

seguito. Il successo che Benigni ha riscosso recitando la Divina Commedia nelle piazze italiane, non è una

novità assoluta. Le letture pubbliche del poema risalgono a oltre seicento anni fa: proprio a Boccaccio fu

commissionato dal comune di Firenze la lettura pubblica del poema dantesca, tra il 1373 e il 1374, da cui

l'autore del Decameron trasse ispirazione per la pubblicazione delle Esposizioni della Divina Commedia

all'interno delle quali compaiono anche gli Argomenti in terza rima alla “Divina Commedia” di Dante

Alighieri, un riassunto in terza rima delle tre cantiche dantesche (vd. Allegati, testo 127). Come Petrarca,

inoltre, scrisse anch'egli un poema in terza rima di ispirazione dantesca, L'Amorosa Visione.

Se il magistero di Dante toccò persino gli autori più grandi e originali, per tutti gli altri letterati una

poesia narrativa in volgare non era più immaginabile senza un confronto con il modello. Il successo di Dante,

inoltre, non si verificò solo nella lingua, nella metrica e nello stile, ma anche, più in generale,

nell'immaginario collettivo. Un poema icastico come quello dantesco non poteva essere ignorato dagli artisti.

Si chiederà ai ragazzi di ricercare iconografie trecentesche che raffigurino i tre regni ultraterreni, ma in

particolare riguardanti l'inferno, per poi in classe confrontare il materiale raccolto valutando e analizzando le

eventuali somiglianze o differenze rispetto alla descrizione dantesca.

Si farà osservare agli studenti come nel Trecento si moltiplicarono le immagini che raffigurano

l'aldilà, in particolare riguardanti l'inferno il cui realismo ben si sposava con l'arte gotica. Allo stesso tempo,

però, si dimostrerà agli allievi che già prima di Dante non mancavano rappresentazioni dell'aldilà e

dell'inferno, come testimoniano i celebri mosaici di Coppo di Marcovaldo nel Battistero di San Giovanni a

intellettuale impegnato a trovare una propria identità senza poter eludere il confronto diretto con un'esperienza poetica, come quella dantesca,

così attuale e soprattutto così prepotentemente originale da mettere in ombra ogni altra”. Vd. C. Segre, C. Martignoni, Testi nella storia, I,

Pioltello (Mi) 1998, pp. 681-685.

7 Boccaccio, a differenza di Petrarca, aveva un'ammirazione e un entusiasmo senza limiti nei confronti di Dante, tanto da comporre

un'opera di grande abilità quale il riassunto di tutta la Commedia nel metro inventato dall'Alighieri. In ambito didattico tale opera può

risultare utile anche per ripassare la trama del poema e per avere qualche indicazione di raccordo sui canti di cui in classe non ci si è potuti

soffermare. Tali Argomenti possono anche essere dati ai ragazzi come esercizio domestico, chiedendogli di assegnare a ogni verso delle

Esposizioni il canto del Commedia cui si riferisce. Può essere, inoltre, anche uno spunto da cui partire in sede di interrogazione orale.

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Firenze (1260-70) o il Giudizio Universale di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1304).

Tra i numerosi artisti trecenteschi, per la verità non notissimi al grande pubblico, che si occuparono

di descrivere l'aldilà con una certa influenza dantesca si annoveranno il senese Lorenzo Maitani, che scolpì il

Giudizio Universale che orna la facciata del Duomo di Orvieto, di cui diresse i lavori tra il 1310 e il 13308;

l'Orcagna, ma soprattutto il fratello Nardo di Cione che dipinse, nel 1356, il Giudizio Universale, l'Inferno e

il Paradiso nella Cappella Strozzi in Santa Maria Novella; Buonamico Buffalmacco, ricordato da Boccaccio

nella celebre novella III dell'VIII giornata del Decameron (Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo

mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia), con gli affreschi del Camposanto di Pisa in Piazza dei

Miracoli raffiguranti l'Inferno e il Giudizio Universale, datati 1336-41.

LEZIONE II (2 ore)

1 - I POEMI ALLEGORICO-DIDASCALICI DI ISPIRAZIONE DANTESCA

Il Trecento conobbe la proliferazione di ampi poemi in versi, in cui prevaleva l'intento didattico.

Nessun letterato del tempo, nell'accingersi a comporre la propria opera, poteva esimersi dal confrontarsi e

trarre ispirazione dal capolavoro dantesco. L'influenza dell'Alighieri si esercitò persino su coloro che

sembravano volerne prendere le distanze, come lo scienziato Francesco Stabili, noto con il nome di Cecco

d'Ascoli, docente di Medicina presso l'università di Bologna e autore del fortuna poema L'Acerba9 (vd.

Allegati, testo 1310

). In fama di eretico a causa dei suoi studi sull'alchimia, fu dapprima sospeso

dall'insegnamento, poi arso sul rogo a Firenze nel 1327. Nel suo poema di carattere enciclopedico domina

una costante polemica antidantesca: Cecco concepì L'Acerba come alternativa alla Commedia allo scopo di

provare che il ricorso alla finzione narrativa, al travestimento allegorico e alla commistione tra scienza e

teologia sono incompatibili con quel rigore e quella chiarezza espositiva che sono requisiti necessari a

un'opera didascalica. Sul piano formale risulta tuttavia scoperta l'adesione ai moduli tipici di Dante, che

nell'Acerba è costantemente presente come maestro di stile, più ancora che come bersaglio polemico. Di

questo contradditorio rapporto con Dante è rivelatore anche il metro dell'Acerba: la sestina inventata da

Cecco non è altro che un'evoluzione delle terzine dantesche, disposte però a due a due a formare brevi strofe

8 Il Duomo di Orvieto, alla metà del secolo successivo, ospiterà nella cappella di San Brizio gli affreschi di Luca Signorelli, una

delle massime espressioni figurative sull'aldilà, con espliciti riferimenti al poema dantesco e con la raffigurazione dello stesso Alighieri.

9 Il titolo del poema sembra derivare dalla parola latina acervus, “coacervo”, “ammasso di nozioni” oppure, secondo l'ipotesi di

Contini, fondata sull'interpretazione di alcuni versi, riferirsi “all'adolescenza mentale, da dirozzare in modo scientifico”; il titolo rivela anche

un'anticipazione delle difficoltà che si incontrano nella lettura del testo, non solo per l'intrinseca complessità degli argomenti trattati, ma

anche per una certa oscurità del linguaggio, che tra l'altro suona “acerbo” anche nel senso di “aspramente polemico”. Vd. C. Segre, C.

Martignoni, Testi nella storia, I, Pioltello (Mi) 1998, pp. 984-988.

10 Il poeta marchigiano critica pesantemente Dante. Nel primo passo, nonostante gli riconosca il “parlare adorno”, sostiene che egli

non tornò mai dall'inferno; la seconda è la famosa invettiva contro Dante: essa appare retoricamente curata, indizio della volontà di Cecco di

competere con la superiorità formale del modello contestato proprio al momento di avanzare l'accusa più grave, quella cioè di aver operato

una commistione tra fantasia poetica e verità naturali. La parole di Cecco dimostrano ulteriormente il successo di Dante anche in un'età

molto alta, quali gli anni Venti del Trecento.

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chiuse così da scardinare il ritmo continuo dello schema a rime incatenate.

Nonostante le critiche sollevate da Cecco d'Ascoli11

, tutti i poeti trecenteschi che scrivono poemi di

carattere didattico fanno costante uso, oltre che della terza rima, dello strumento retorico dell'allegoria.

Il docente si sofferma sulla definizione di allegoria (la figura retorica per cui un concetto astratto viene

espresso attraverso una serie di immagini concrete alle quali l'autore ha attribuito un significato metaforico)

e la sua distinzione dalla metafora che può essere sintetizzata in tre punti:

1. il legame tra oggetto significato e immagine significante nell'allegoria è arbitrario e intenzionale, non

analogico

2. il processo che permette di decodificare l'allegoria è di tipo razionale e intellettuale e non intuitivo né

immediato

3. la relazione che si viene a stabilire tra particolare e universale nell'allegoria non è di tipo assoluto né

organico, ma relativo e culturale, cioè verificabile intersoggettivamente e suscettibile di

interpretazione critica che si sviluppa nel processo dell'interpretazione.

Si spiegherà quindi che la Commedia può essere considerata l'allegoria per antonomasia della

letteratura italiana. Il fine didascalico e morale della Commedia, espresso mediante l'uso della lingua volgare

e attraverso lo strumento dell’allegoria, parlava anche a coloro che erano incapaci di comprendere la

profondità artistica dell’opera. Molti uomini del tempo amavano la Commedia soprattutto per la sapienza che

vi trovavano sotto l’ornamento dei versi. Il successo del poema dantesco ebbe perciò tra le conseguenze il

proliferare di poemi allegorico-didascalici che, sotto la finzione narrativa del viaggio, intendevano riprodurre

la scienza enciclopedica della Commedia. Oltre all'adozione della terzina dantesca, le altre caratteristiche

distintive di questo genere letterario furono:

1. l’introduzione di un personaggio-poeta, narratore e attore, intermediario esemplare dei contenuti

didascalici e ammonitori;

2. il ricorso all’espediente narrativo della visione in sogno e del viaggio; la ricorrente introduzione di

prosopopee e intere gallerie di personificazioni allegoriche, che si mescolano a personaggi della

storia antica e recente;

3. l’inserimento, secondo modalità formulari, di drammatizzazioni dialogiche;

4. le frequenti digressioni storiche, profetiche, polemiche;

5. l’uso insistito di comparazioni e perifrasi, soprattutto astronomiche; l’erudizione storica, scritturale e

classica;

6. l’adesione all’enciclopedia linguistica e stilistica della Commedia, con prelievi di parole-rima,

sintagmi, emistichi, fino all’inserimento di interi versi.

11 Una leggenda popolare fa riferimento alle numerose battaglie dottrinali tra Cecco d’Ascoli e l’amico Dante Alighieri. In

particolare quest’ultimo sosteneva la capacità dell’educazione di assoggettare l’istinto mentre Cecco era convinto della superiorità della

natura.

La leggenda vuole che Dante, a conferma delle sue teorie, avesse addestrato un gatto a reggere con le zampe una candela accesa per fargli da

lume durante i suoi studi e lo avesse mostrato all’amico. Cecco in risposta si presentò un giorno a casa di Dante portando con se una gabbia

piena di topi; non appena li ebbe liberati davanti al felino questi lasciò la candela ed incurante dei richiami del padrone cominciò a

rincorrerli.

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Già attorno alla metà del Trecento Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, come visto, si erano

cimentati in questo fortunato genere con due opere, come i Trionfi e l’Amorosa Visione, con le quali la terza

rima dantesca divenne metro canonico della poesia didattica.

Nella seconda metà del secolo venne scritti anche: La pietosa fonte di Zenone da Pistoia12

, la

Leandreride di Giovanni Girolamo Nadal13

, il Victoria Virtutum cum Vitiis di Giovanni De Bonis14

, la

Fimerodia di Iacopo del Pecora da Montepulciano15

e l'anonimo poema Virtù e Vizio16

, tutti scritti nell'ultimo

quarto del secolo.

Gli autori di poemi allegorico-didascalici che ebbero maggior successo furono però due autori oggi

poco conosciuti quali Fazio degli Uberti e Federico Frezzi.

Fazio era un discendente di quel Farinata degli Uberti celebrato da Dante nel decimo canto

dell'Inferno. Nato a Pisa nei primi anni del secolo, visse a lungo in esilio17

; fu autore di liriche di argomento

amoroso e di rime politiche, ma ebbe larga fama fino al Cinquecento per il Dittamondo18

, in sei libri, scritto a

partire dal 1346. Il titolo deriva da dicta (“detti”) e mundi (“del mondo”): si tratta di un poema didascalico-

allegorico di argomento geografico e storico che si rifà non solo ai trattati geografici antichi (particolarmente

quello di Solino, scrittore latino del III secolo a.C.) e medievali, ma anche alle cronache, soprattutto quelle di

Giovanni Villani. Il modello è dantesco: si riprende lo schema del viaggio, con una guida autorevole

(Solino), la visitazione di luoghi dell'Europa, dell'Africa e dell'Asia e l'incontro con personaggi famosi. (vd.

Allegati, testo 14 A e B19

)

Il più interessante poema allegorico-didattico è, a mio parere, il Quadriregio di Federico Frezzi20

:

mai nessuno aveva osato avvicinarsi così tanto a Dante nelle intenzioni e nella trama. Si tratta dell’ultimo

grande tributo a Dante del Trecento.

Il docente proporrà una riflessione sulla fortuna delle opere. L'Acerba di Cecco d'Ascoli, il

Dittamondo di Fazio degli Uberti e il Quadriregio di Federico Frezzi furono opera di un vasto successo in

passato, oggi sono pressoché dimenticate. Sollecita una riflessione su come, in ogni epoca, siano in auge

opere che in un'età successiva cadono nell'oblìo21

.

All'inizio del secolo successivo, con l'affermazione dell'Umanesimo, la fortuna dell'Alighieri si

attenuò notevolmente. Estremizzando l'atteggiamento di Petrarca, gli umanisti rimproverarono a Dante

soprattutto l'uso della lingua volgare, ma anche, in un'epoca che venerava il mondo classico, la conoscenza

12 Zenone da Pistoia, La pietosa fonte, a c. di F. Zambrini, Bologna 1874.

13 G. G. Nadal, Leandreride, a c. di E. Lippi, Padova 1996.

14 Il poema, conservato in alcuni codici della Biblioteca Trivulziana di Milano, è inedito.

15 I. Del Pecora, Fimerodia, a c. di M. Cursietti, Roma 1992.

16 M. Cornacchia, Di un ignoto poema d’imitazione dantesca, «Propugnatore», I, 1888, pp. 185 ss; II, 1889, 99. 325 ss.

17 Dapprima nel Veneto, poi a Milano e a Bologna a seguito dei Visconti, infine a Verona, dove morì nel 1367.

18 Fazio degli Uberti, Dittamondo e le rime, a c. di G. Corsi, Bari 1952.

19 Il 14 A è l'incipit del poema. Qui Fazio, in versi dove proliferano sintagmi e situazioni dantesche, espone i perché dell'inizio del

viaggio. Nel passo 14 B si racconta dell'incontro con la guida che accompagnerà il poeta nel corso del viaggio, il geografo Solino, variazione

sul tema dantesco dell'apparizione di Virgilio.

20 Edizione di riferimento: F. Frezzi, Il Quadriregio, a c. di E. Filippini, Bari 1914.

21 Tale riflessione sulla volubilità della fortuna sarà ripresa e approfondita nella quarta lezione.

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imperfetta della letteratura antica, il latino “barbaro”, l'aristotelismo, l'ispirazione medievale della

Commedia. Addirittura l'umanista Niccolò Niccoli, nel Dialogus ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo

Bruni, poteva affermare che Dante avrebbe dovuto essere rimosso dalla schiera dei letterati e lasciato in

compagnia di lanaioli, formai e altra gente di un tal genere22

.

Nella seconda metà del Quattrocento, con la graduale rivalutazione del volgare, si risolleveranno le

sorti della fortuna dantesca e compare, nel 1472, la prima edizione a stampa del poema a Foligno, in Umbria.

Proprio la città dove nacque e visse Federico Frezzi, l'autore del Quadriregio, l'ultimo importante poema in

versi del Trecento prima di un silenzio lungo almeno mezzo secolo.

2- IL QUADRIREGIO DI FEDERICO FREZZI: CENNI SULLA VITA DEL POETA-VESCOVO E SUL

SUO POEMA DANTESCO IN QUATTRO CANTICHE

Il docente introdurrà la vita di Federico Frezzi, soffermandosi sul suo poema allegorico-didascalico

(il Quadriregio) e sulle analogie che esso ha con la Commedia. Come supporto alle parole dell'insegnante,

agli allievi viene consegnata una fotocopia con le notizie essenziali (vd. Allegati 15).

La fotocopia servirà come sostegno alle informazioni che il docente fornirà alla classe oralmente.

Verranno sollecitate riflessioni sul ruolo che riveste l'Umbria nella storia della letteratura italiana, patria della

letteratura religiosa in volgare con le eccellenze di San Francesco e di Jacopone da Todi. (e anche Frezzi è un

religioso umbro)

Focus sull'importanza del Quadriregio come testimonianza dell'affermazione del volgare toscano

come lingua letteraria in Umbria, nonché rilevante spia dell'interesse per Dante nella città di Foligno che, tre

quarti di secolo più tardi, avrà l'onore di pubblicare l'editio princeps della Commedia.

Non si potrà tralasciare di parlare del contesto storico. Si ricorderanno i travagli della Chiesa

trecentesca, con lo Scisma d'Occidente e addirittura i tre papi che seguirono all'esito del Concilio di Pisa del

1409.

Federico Frezzi, in qualità di vescovo di Foligno, partecipò a quel Concilio di Costanza degli anni

1415 e 1416 che pose fine allo scisma della Chiesa. Lo stesso concilio cui partecipò il famoso umanista

Poggio Bracciolini, che da Costanza ebbe l'opportunità di effettuare svariate ricerche nelle biblioteche dei

monasteri delle aree adiacenti (San Gallo, Reichenau, Cluny)23

, nelle quali "riscoprì" molte opere

dell'antichità che, a lungo, erano state ritenute definitivamente perse. Duranti i lavori del Concilio, nel 1416,

Federico Frezzi morì.

LEZIONE III (2 ore)

IL QUADRIREGIO DI FEDERICO FREZZI: ipotesi per un uso didattico

A partire dalla terza lezione il focus si sofferma sul Quadriregio come testimonianza del successo

della Commedia al termine del XIV secolo e come campo d’indagine per operare confronti stilistici col

modello, nonché per comprendere l’evoluzione del poema didascalico allegorico a quasi un secolo dalla

22 L. Bruni, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, a c. di S. U. Baldassarri, Firenze 1994, p. 255.

23 Anche se di fatto esse erano più simili a furti.

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diffusione del poema dantesco. Vengono di seguito proposti alcuni possibili esercizi, approfondimenti e

applicazioni didattiche che può offrire la lettura in classe di un'opera poco conosciuta quale il Quadriregio di

Federico Frezzi.

1- L'APPARIZIONE DI CUPIDO (Regno d'Amore I, 1-84, 91. Confronti con Inferno I e II)

Lettura in classe dell'incipit del poema (vd. Allegati, testo 16).

Principali elementi di interesse, su cui il docente focalizzerà l’attenzione degli allivi:

• la protasi

• richiami classici: Metamorfosi di Ovidio: frecce di Cupido

• il genere: dalle egloghe virgiliane al ninfale boccaccesco

• Confronto con Inferno I e II: terzine e sintagmi danteschi, perifrasi temporali, invocazione, Cupido

guida “salvifica”

Laboratorio da analisi, da far svolgere in classe agli alunni, sotto la supervisione del docente:

1. Dividere il testo in sequenze

2. Fare la parafrasi di un testo ignoto, senza l'ausilio di note o internet

3. Analisi retorica (anafora, endiadi, ...)

4. Cercare analogie e differenze con la Commedia e abbozzare un commento su un testo non

conosciuto, poggiandosi quanto meno sulla conoscenza dei primi due canti dell'Inferno

5. Individuare le tematiche cavalleresco-cortesi; L'evoluzione dall'amore cortese alla sensualità

boccacciana

6. Che differenza c'è tra la guida Cupido e il Virgilio dantesco?

2 – IL NOCCHIERE CARONTE (Regno di Satanasso VII, 4, 28-72. Confronti con Eneide VI, 299 e

Inferno III, 82-129)

Lettura dell'incontro tra Federico Frezzi e la sua nuova guida, la dea Minerva, con il traghettatore

Caronte. Confronti con l'analogo episodio descritto da Virgilio e da Dante (vd. Allegati testi 17).

A - Dante rielabora il modello classico e virgiliano

Nella mitologia greca, etrusca e latina Caronte aveva il compito di traghettare i morti sulle rive

dell'Acheronte. Dante lo rappresenta come un vecchio violento e crudele, seguendo la tradizione letteraria e

iconografica e, soprattutto, il modello virgiliano che lo descrive come traghettatore orrido, irto e pauroso.

Per Dante e per il Medioevo, sulla scia dell'interpretazione data dai Padri della Chiesa, personaggi

come Caronte, Minosse e simili non sono frutto di immaginazione superstiziosa, ma esseri effettivamente

vissuti, forniti di doti eccezionali in quanto incarnazioni diaboliche; dopo la morte, essi si realizzano

compiutamente nell'inferno, come diavoli (interpretazione figurale). Caronte è la prima delle figure

mitologiche che Dante trasforma in demone: la trasformazione è una deformazione, sia nell'aspetto esteriore

che in quello morale, anche se viene mantenuta un'impronta di vigore che è il residuo dell'antica autorità del

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personaggio. Commenta Sapegno: “La poesia di Virgilio è più descrittiva e pittorica, quella di Dante più

drammatica e tutta intesa a rendere il movimento della scena; e perciò i particolari, che il primo allinea in un

ritratto disteso e compiuto, sono ripresi e distribuiti da Dante nel corso della rappresentazione, là dove

tornino a renderla più mossa e intensa. Osserva intanto la violenza, del tutto estranea al testo virgiliano, con

cui la figura di Caronte irrompe, urlante e minacciante, nei versi danteschi. La rappresentazione del

nocchiero di Acheronte, con lo sfondo paesaggistico e la folla delle anime, è, sia pure sulla scia e con

l'appoggio di un'invenzione virgiliana, la prima prova veramente felice della nuova tecnica dantesca, tutta

rivolta a tradurre l'intensità dell'emozione in un vigoroso realismo di invenzioni figurative”24

.

B – La similitudine delle foglie (Omero, Mimnermo, Virgilio e Dante)

Dante riprende la similitudine delle foglie dei vv. 112-117 è ripresa da Virgilio (vv. 305-312), ma in

funzione diversa: se nel poeta latino serviva a sottolineare il gran numero delle anime, in Dante a rilevare il

modo in cui queste scendono nella barca rispondendo all'appello di Caronte.

La similitudine delle foglie è antichissima. Compariva già in Omero e in Mimnermo. In Iliade VI,

145-149 Diomede affronta in duello Glauco, ne ammira l'aspetto, ne deduce il sangue egregio e non vuole

ucciderlo senza saperne la stirpe: “Tidide dal gran cuore, perché mi domandi la stirpe? Come una stirpe di

foglie è quella degli uomini: le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva florida fa nascere al

tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce l'una, l'altra dilegua”.

Celebre è anche la riflessione di Mimnermo: “Come le foglie della primavera fiorita, quando ai raggi

del sole crescono improvvise, noi, per un palmo di tempo, godiamo dei fiori di giovinezza, senza sapere degli

dei né bene, né male”. In Frezzi manca la similitudine delle foglie, ma l'incontro con Caronte si conclude con

una riflessione sulla fugacità della vita che può ricordare quella di Mimnermo.

La finestra aperta sul passato classico sarà occasione per ricordare ai ragazzi che nel Trecento, tanto

Dante quanto Frezzi, conoscevano solo la classicità latina; dei greci antichi conoscevano poco e non nelle

versioni originali, ma in traduzione.

C - Frezzi si ispira a Dante

Frezzi, pur non trascurando il passo dell'Eneide, trae ispirazione dal terzo canto dell'Inferno

dantesco. Il docente invita gli allievi alla costruzione di uno schema sinottico, che sarà oggetto di commento

per analizzare differenze e analogie tra i due poeti trecenteschi.

DANTE FREZZI

APPARIZIONE Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

Vidi Caron non molto da lontano

con una nave, in mezzo alla tempesta,

che conducea con un gran remo in mano.

MONITO AI gridando: «Guai a voi, anime prave! Non era ancor a quell'anime giunto

24 N. Sapegno, Storia letteraria del Trecento, Milano 1963, p. 154-155.

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DANNATI Non isperate mai veder lo cielo:

i' vegno per menarvi a l'altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

quando gridò: - O dal materno vaso

mandati a me nel doloroso punto,

per ogni avversità, per ogni caso

vi menerò tra la palude negra

incerti della vita e dell'occaso.

Pochi verran di voi all'età intègra;

spesso la vita alli mortali io tollo,

quand'ella è più secura e più allegra. -

DIALOGO COL

POETA E LA

SUA GUIDA

E tu che se' costì, anima viva,

pàrtiti da cotesti che son morti».

Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti

verrai a piaggia, non qui, per passare:

più lieve legno convien che ti porti».

E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare».

Poscia rivolto a me, colla gran bocca

gridò: - Or giunto se', o tu, che vivi,

venuto qui come persona sciocca. -

Minerva a lui: - Costui convien ch'arrivi

all'altra ripa sotto i remi tui,

'nanzi che morte della vita il privi.

- Su la mia nave non verrete vui -

rispose a noi con ira e con disdegno, -

ché altre volte già ingannato fui.

Un trasse Cerber fuor del nostro regno,

l'altro la moglie; or simil forza temo:

però voi non verrete sul mio legno.-

Minerva a lui: - Io chiedo ora il tuo remo,

ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,

da questo basso al mio regno supremo.

Lassame andar, consumator ingordo,

ché a te non è subietta quella vita,

per la qual vive uom sempre per ricordo. -

REAZIONE

CARONTE

Quinci fuor quete le lanose gote

al nocchier de la livida palude,

che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,

si vergognò ed abbassò le ciglia,

e senza più parlar ne die' la ita.

CARONTE

BATTE COL

REMO

Caron dimonio, con occhi di bragia

loro accennando, tutte le raccoglie;

batte col remo qualunque s'adagia.

Dava col remo suo tra testa e'l collo

a' mostri, che mettea dentro alla cocca;

e forte percotea chi facea crollo.

SIMILITUDINE

FOGLIE

Come d'autunno si levan le foglie

l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo

vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna.

Vd. Omero, Mimnermo e Virgilio.

Non presente nel Quadriregio.

DESCRIZIONE un vecchio, bianco per antico pelo Quand'egli fu appresso alla riviera

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CARONTE ...

Quinci fuor quete le lanose gote

...

che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

...

Caron dimonio, con occhi di bragia

un mezzo miglio quasi o poco manco,

scòrsi sua faccia grande, guizza e nera

Egli avea il capo di canuti bianco,

il manto addosso rappezzato ed unto;

e volto sì crudel non vidi unquanco.

...

E ciascun occhio, ch'egli aveva in testa,

parea come di notte una lumiera

o un falò, quando si fa per festa.

Quand'egli fu appresso alla riviera

un mezzo miglio quasi o poco manco,

scòrsi sua faccia grande, guizza e nera

Egli avea il capo di canuti bianco,

il manto addosso rappezzato ed unto;

e volto sì crudel non vidi unquanco.

L’iconografia del Caronte frezziano non si discosta dall’immagine della tradizione consacrata dai due

maestri, da cui Frezzi trae il motivo dei capelli bianchi per la veneranda età, così come gli occhi ardenti, che

addirittura «pareano come di notte una lumiera / o un falò, quando si fa per festa». Di derivazione virgiliana

sono l’accenno al manto «rappezzato e unto» e il diniego del passaggio con il ricordo della spedizione

infernale di Ercole e di Teseo. Anche il traghettatore frezziano, dopo aver, come quello di Dante, rivolto un

triste saluto alle anime adunate sulla riva d’Acheronte e averle raccolte nella sua barca, battendole col remo,

rivolge una minacciosa apostrofe al poeta che, vivo, osa portare il piede sulle sponde del fiume infernale.

Mentre il Virgilio della Commedia manifestava al traghettatore l’irrevocabile comando di Dio, la guida

frezziana (Minerva, dea della sapienza), non riuscendo a vincere la diffidenza del traghettatore, ancora urtato

per lo scotto che subì ad opera di Ercole e Teseo, con atteggiamento distante dalla sdegnosa superiorità della

guida dantesca, lo insulta chiamandolo «vecchio lordo» e «consumator ingordo», ricordandogli infine che a

lui «non è subietta quella vita, / per la quale vive uom sempre per ricordo». Solo allora Caronte, pieno di

vergogna, acconsente suo malgrado a trasportare i due viaggiatori sull’altra riva. Originale, umanistica si

potrebbe definire, questa chiusa dell’episodio: Caronte cede non già alla forza magica del ramo d’oro come

nell'Eneide, né all’onnipotente volere del cielo come nella Commedia, bensì all’affermazione solenne di

Minerva in merito alla sovranità della gloria sul tempo. Singolare e grottesca, infine, che, in caso di rifiuto

ostinato, Minerva minacci d’impugnare essa stessa i remi: «Io chiedo ora il tuo remo, / ch’io vo’ menar

costui».

Totalmente originale e frezziana è la conclusione dell'episodio, un'amara riflessione sulla fugacità del

tempo. Minerva fa osservare al poeta che la vita è uno scorrere inesorabile verso la morte “e chi ben mira,

non dirá mai: - Io vivo, - ma - Io moro; -”. Il ritratto di Caronte si completa nell'intromissione gridata al

pacato discorso di Minerva, con un'ulteriore accento alla caducità della vita che può fare venire in mente

l'oraziano carpe diem.

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D - Riflessi della descrizione di Caronte su altri autori

Il ritratto di Caronte immortalato da Dante non ispirò solo Frezzi, ma lasciò tracce in diversi autori

successivi. Ritroviamo echi della raffigurazione diabolica e senile del traghettatore infernale in Manzoni, nel

capitolo 13 dei Promessi Sposi. Durante il racconto dei tumulti di San Martino si trova l'episodio del

“vecchio malvissuto” che voleva impiccare il vicario di provvisione: un tale “con due occhi affossati e

infocati, con un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa”.

L'episodio di Caronte avrà grande fortuna anche in ambito figurativo. Si farà svolgere ai ragazzi una

ricerca, anche con l'aiuto di internet, che individui iconografie che abbiano per soggetto il traghettatore

infernale.

Si opereranno quindi confronti tra le due più famose raffigurazioni del demonio dantesco, entrambe

quattrocentesche: quella della Cappella di San Brizio a Orvieto ad opera di Luca Signorelli e quella di

Michelangelo nel Giudizio universale.

Verrà richiesto agli alunni di individuare le differenze tra i due dipinti e spiegare quali analogie si

possono cogliere con la descrizione dantesca e frezziana.

VERIFICA IN ITINERE (2 ore)

Perché Dante scrive la Commedia? Prova a rispondere servendoti anche del seguente passo del Convivio.

Con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza

vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le

vicinanze de le case, e per le case de l’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e a le loro cagioni torre via, conviene di

necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia cioè un solo principato, e uno principe avere; lo

quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tenga contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino

le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente; che è

quello per che esso è nato.

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Qual è il soggetto e il fine della Commedia secondo l'Epistola a Cangrande?

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Come viene accolta la Commedia tra i letterati? E tra i ceti popolari?

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Attribuisci un autore alle tre seguenti coppie di terzine, prova a contestualizzare l'opera da cui sono tratte, fai una parafrasi e un breve

commento.

Dietro alle piante poi del savio duce

passa con altri quattro in un castello,

dove alcun raggio di chiarezza luce.

Quivi vede seder sovr'un pratello

spiriti d'alta fama, senza pene,

fuor che d'alti sospiri, al parer d'ello.

Negli altri regni dove andò col doca

fondando li suoi piedi in basso centro,

là lo condusse la sua fede poca:

e so che a noi non fece mai ritorno,

ché suo disio sempre lui tenne dentro.

di lui mi duol per suo parlare adorno.

Non per trattar gli affanni, ch’io soffersi

nel mio lungo cammin, né le paure,

di rima in rima tesso questi versi;

ma per voler contar le cose oscure

ch’io vidi e ch’io udio, che son sí nove,

ch’a crederle parranno forti e dure.

[Boccaccio, Argomenti in terza rima alla

“Divina Commedia” di Dante Alighieri]

[Cecco d'Ascoli, L'Acerba] [Fazio degli Uberti, Dittamondo]

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FEDERICO FREZZI

Chi è?...................................................................................................................................................................

Quando visse?......................................................................................................................................................

Dove visse?...........................................................................................................................................................

Cosa scrisse?........................................................................................................................................................

Analogie e differenze della sua opera con la Commedia

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CARONTE

Su una facciata di foglio protocollo prova a scrivere un breve saggio su Caronte, chiarendo di chi si tratti, oltre a Dante in quali altre

opere letterarie compaia e che differenze vi siano rispetto al “demonio” della Commedia. Accenna anche a qualche raffigurazione

artistica che lo riguardi.

[Come supporto alle risposte viene fornita la seguente fotocopia. I nomi degli autori e delle opere da cui sono tratti i seguenti versi

non vengono consapevolmente riportati nella fotocopia].

Di qui la via che porta alle onde del tartareo

Acheronte.

Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine

ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.

Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume

Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie

incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di

fiamma,

sordido pende dagli omeri annodati il mantello.

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:

i' vegno per menarvi a l'altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

E tu che se' costì, anima viva,

pàrtiti da cotesti che son morti».

Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

Vidi Caron non molto da lontano

con una nave, in mezzo alla tempesta,

che conducea con un gran remo in mano.

E ciascun occhio, ch'egli aveva in testa,

parea come di notte una lumiera

o un falò, quando si fa per festa.

Quand'egli fu appresso alla riviera

un mezzo miglio quasi o poco manco,

scòrsi sua faccia grande, guizza e nera

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Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,

e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,

vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.

Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,

donne e uomini, i corpi privati della vita

di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,

e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:

quante nelle selve al primo freddo d'autunno

cadono scosse le foglie, o quanti dall'alto mare

uccelli s'addensano in terra, se la fredda stagione

li metter in fuga oltremare e li spinge nelle regioni

assolate.

Stavano eretti pregando di compiere per primi il

traghetto

e tendevano le mani per il desiderio dell'altra sponda.

Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,

gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.

disse: «Per altra via, per altri porti

verrai a piaggia, non qui, per passare:

più lieve legno convien che ti porti».

E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare».

Quinci fuor quete le lanose gote

al nocchier de la livida palude,

che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,

cangiar colore e dibattero i denti,

ratto che 'nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,

l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme

di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,

forte piangendo, a la riva malvagia

ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia

loro accennando, tutte le raccoglie;

batte col remo qualunque s'adagia.

Come d'autunno si levan le foglie

l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo

vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna.

«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,

«quelli che muoion ne l'ira di Dio

tutti convegnon qui d'ogne paese;

e pronti sono a trapassar lo rio,

ché la divina giustizia li sprona,

sì che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima buona;

e però, se Caron di te si lagna,

ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

Egli avea il capo di canuti bianco,

il manto addosso rappezzato ed unto;

e volto sì crudel non vidi unquanco.

Non era ancor a quell'anime giunto

quando gridò: - O dal materno vaso

mandati a me nel doloroso punto,

per ogni avversità, per ogni caso

vi menerò tra la palude negra

incerti della vita e dell'occaso.

Pochi verran di voi all'età intègra;

spesso la vita alli mortali io tollo,

quand'ella è più secura e più allegra. -

Dava col remo suo tra testa e'l collo

a' mostri, che mettea dentro alla cocca;

e forte percotea chi facea crollo.

Poscia rivolto a me, colla gran bocca

gridò: - Or giunto se', o tu, che vivi,

venuto qui come persona sciocca. -

Minerva a lui: - Costui convien ch'arrivi

all'altra ripa sotto i remi tui,

'nanzi che morte della vita il privi.

- Su la mia nave non verrete vui -

rispose a noi con ira e con disdegno, -

ché altre volte già ingannato fui.

Un trasse Cerber fuor del nostro regno,

l'altro la moglie; or simil forza temo:

però voi non verrete sul mio legno.-

Minerva a lui: - Io chiedo ora il tuo remo,

ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,

da questo basso al mio regno supremo.

Lassame andar, consumator ingordo,

ché a te non è subietta quella vita,

per la qual vive uom sempre per ricordo. -

Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,

si vergognò ed abbassò le ciglia,

e senza più parlar ne die' la ita.

Io scesi in terra con la scorta diva,

ed ella disse a me: - Se ben pon' mente,

la vita umana non si può dir viva;

ché solo solo un punto è nel presente,

e nel futur non è ed anco è 'ncerta,

e del passato in lei non è niente.

E, perché questa cosa ti sia esperta,

pensa che un oro puro a parte a parte

a poco a poco in piombo si converta.

Se un venisse a te a domandarte,

tu non potresti dir che quel fusse oro,

da che dall'esser òr sempre si parte.

Cosí è la vita di tutti coloro,

che 'l tempo mena a morte; e chi ben mira,

non dirá mai: - Io vivo, - ma - Io moro; -

ché, mentre il cielo sopra voi si gira,

logra la vita, ed è cagion quel moto

del caso e qualitá che a morte tira. -

In questo ad ira Caròn fu commoto

e gridò forte: - Questa simil pena

ha l'uom; ma, come a cieco, non gli è noto;

ché 'l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena

l'uom navigando d'una in altra etade

sino alla ripa, ov'è l'ultima cena.

Dal tempo ha 'l corpo ogni infermitade;

e ciò, che è nel mondo all'uom molesto,

sí vien dal cielo o da natura cade. -

Poi si partí Caròn fiero e rubesto.

LEZIONE IV (2 ore)

Consegnata e corretta in classe la verifica, risolte le principali difficoltà emerse nella prova scritta, il

docente invita la classe a leggere un nuovo passo del Quadriregio.

LA FORTUNA (Regno di Satanasso XIII. Confronti con Inferno VII)

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Il docente promuove una riflessione sulla Fortuna dalla Classicità al Rinascimento nei letterati e

nelle arti figurative, prestando attenzione in particolare alla concezione dantesca e frezziana (vd. Allegati,

testi 18).

Per la classicità romana la fortuna era considerata una dea con gli occhi bendati, con in mano la

cornucopia dell'abbondanza o la sfera, simboleggiante la mutabilità degli eventi; essa distribuisce e toglie

agli uomini i beni materiali, con capriccioso arbitrio.

Vengono ricordate alcune massime greche e latine sulla fortuna:

• Eschilo, Le coefore: La fortuna è un dio tra gli uomini, e più che un dio.

• Sofocle, Edipo re: Ogni uomo, nella sua umana fragilità, consideri il suo ultimo giorno; e nessuno

confidi nella sua buona fortuna finché, nel giorno della sua morte, la vita non gli sia apparsa come

un ricordo senza dolore

• Marziale, Epigrammi, XII, 10, 2: Fortuna multis dat nimis, satis nulli (La fortuna dà troppo a molti, a

nessuno abbastanza)

• Publilio Siro, Sentenze: Fortuna vitrea est, tum quum splendet, frangitur (La fortuna è come il vetro:

più brilla, più è fragile); Homo sempre aliud, fortuna aliud cogitat (L'uomo e la sorte non la pensano

mai allo stesso modo).

Dante, nel Convivio IV, 11, condannava l'eccessivo attaccamento degli uomini alle ricchezze e definisce

“iniqua la Fortuna”, perché in essa “nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitate quasi sempre”,

dato che “più volte a li malvagi che a li buoni le ricchezze si rappresentano”. L'istintiva sua avversione per

l'avarizia, che egli vedeva inquinare persino la Chiesa, lo induceva a credere che la Fortuna favorisse soltanto

i furbi e i disonesti.

Il pensiero dantesco si evolve però in Inferno VII. La Fortuna non è una dea, ma nemmeno una forza

iniqua. Essa è un'intelligenza motrice, voluta e guidata da Dio, e come gli angeli che fanno ruotare i cieli e

danno loro la capacità di influire sugli uomini, determinandone attitudini e abilità operative, tendenze e

caratteristiche spirituali, così essa distribuisce, secondo provvidenziali disposizioni divine, i beni terreni,

perché gli uomini ne facciano retto e moderato uso.

L'interpretazione frezziana sembra essere mediata dalla lettura di Boccaccio, che in Amorosa Visione A,

XXXI, 16-33 così scriveva: «colei che muta ogni mondano stato, / tal volta lieta, tal con trista cera, / […] / E

legge non avea né fermo patto / negli atti suoi volubili e incostanti, / ma come posto talor l’avea fratto: /

volgendo sempre ora indietro ora avanti / una gran ruota sanza alcun riposo, / con la qual dava or gioia e

talora pianti. / “Ogni uom che vuol montarci su sia oso / acender lì, ma quando io ‘l gitto al basso / inverso

me non torni poi cruccioso”». Il Frezzi-personaggio del Quadriregio, infatti, nel suo percorso ultraterreno

incontra l’allegoria della Fortuna. Grandiosità e potenza, nel bene e nel male: la Fortuna può sorridere

all'uomo ed essere tutta d'oro; ma quando gli volta le spalle è lutto e dolore, la miseria più disperante. Essa,

donna falsa e capricciosa, «ghignando con un riso pien d’inganno, / volgea con una man sette gran rote»,

provocando gli alti e i bassi dei massimi uomini politici di quegli anni; e candidamente ammette: “ E questo

è ‘l gioco mio e ‘l mio solazzo, / atterrar quel dalla parte suprema, / ed esaltare un vestito di lazzo”.

Il motivo della ruota è tuttavia tradizionale, caro alla fantasia medievale, spesso raffigurato nei fabliaux o nei

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fregi delle cattedrali romaniche, come ad esempio nella chiesa di San Zeno a Verona. Agli allievi si

chiederanno di ricercare espressioni artistiche che rappresenti la Fortuna, che saranno oggetto di commento

in classe.

Il canto frezziano non si conclude con l'incontro con la Fortuna, ma prosegue con la descrizione di

alcuni grandi uomini coevi al poeta che, dopo essere stati innalzati dalla fortuna, sono caduti in disgrazia.

(vd. Allegati testo 19). Tra di loro spiccano Bernabò Visconti25

, Gian Galeazzo Visconti26

, Cola di Rienzo27

e

Giovanna I d'Angiò28

. Ritengo interessante tale descrizione dei grandi uomini della storia recente con occhi

25 Nato a Milano nel 1323. Deceduto nel 1354 lo zio arcivescovo Giovanni Visconti, il suo dominio venne diviso tra i tre fratelli:

Galeazzo II ottenne la parte occidentale della Lombardia; Matteo II la zona subpadana; Bernabò Bergamo, Brescia, Cremona, Crema e la

Valcamonica, e fu co-signore di Milano insieme ai fratelli. Nel 1355, alla morte di Matteo II, Bernabò spartì col fratello i territori lasciati

liberi. Conquistata Reggio, nel 1371, entrò nel 1378 in guerra con gli eredi di Cansignorio Della Scala. Alla morte del fratello Galeazzo,

avvenuta nello stesso anno, Bernabò iniziò una serie di alleanze e accasò le proprie figlie con i rampolli delle famiglie regnanti in Europa,

mentre la figlia Caterina la diede in sposa al cugino Gian Galeazzo Visconti, figlio di Galeazzo, allo scopo di consolidarne l’alleanza e

rallentarne le pretese al titolo. Nonostante ciò fu, nel 1385, fatto prigioniero dallo stesso Gian Galeazzo e rinchiuso nel castello di Trezzo,

dove morì nel 1385.

26 Gian Galeazzo è considerato il massimo personaggio politico dell’epoca e molte sono le vicende dei personaggi che compaiono

nel Quadriregio, più o meno direttamente riconducibili a lui. Il Visconti nacque a Pavia nel 1351, da Galeazzo II e Bianca di Savoia. Nel

1385, con un colpo di mano, imprigionato lo zio Bernabò, Gian Galeazzo riuscì a unificare tutti i vastissimi domini familiari di Lombardia,

Emilia, parte del Piemonte e del Veneto. Nel 1387 la figlia Valentina sposò Luigi d’Orléans. Nel 1395 ottenne dall’imperatore Venceslao il

titolo di duca. Iniziò, a partire dal 1387, una campagna espansionistica che portò all’annientamento delle signorie dei Della Scala e dei Da

Cararra: vide così estendersi il suo dominio su Verona, Vicenza, Padova, Belluno, Feltre. La repubblica di Firenze, che si sentì minacciata da

questa espansione, si alleò con Bologna e prese al soldo Giovanni Acuto (cfr. Quadr., II, 18, 109-114) e Giovanni da Barbiano. Il Visconti

trovò alleati in Siena, negli Estensi, nei Gonzaga, nei Malatesta e nei signori di Urbino. Una furiosa battaglia venne combattuta il 28 agosto

1397 a Governolo, alla confluenza del Mincio e del Po; qui le truppe viscontee subirono una grave disfatta nella quale persero la vita

ottomila tra fanti e cavalieri. Gian Galeazzo riuscì comunque a estendere il suo dominio in Toscana, comprando, nel 1399, Pisa e il suo

territorio da Gherardo d’Appiano (cfr. Quadr., II, 16, 106-108; II, 17, 160-165). Messo così stabilmente piede in Toscana, ottenne anche

Siena, che sfinita dalle guerre e dalle discordie intestine si diede al Visconti nel novembre del 1399, e Perugia, che si sottomise

spontaneamente a Gian Galeazzo nel gennaio del 1400, spossata dalle discordie interne e dai saccheggi degli avventurieri; occupò poi anche

Assisi e Spoleto, e nell’ottobre dello stesso anno un suo devoto, Paolo Guinigi, venne proclamato signore di Lucca. I fiorentini, preoccupati,

si rivolsero al neo imperatore Roberto di Wittelsbach e lo invitarono, promettendogli denaro, a scendere in Italia contro il duca di Milano.

Nel 1401 l’esercito imperiale scese in Italia al comando di Giacomo Dal Verme, ma, sbaragliato a Brescia, tornò mestamente in Germania.

Sbarazzatosi dell’Imperatore, nel 1402 Gian Galeazzo si rivolse contro Bologna, sottraendola a Giovanni Bentivoglio. Non restava al

Visconti che debellare Firenze (“il giglio roscio”), la sua grande nemica; poi sarebbe stato padrone di quasi mezza Italia, vicino a raggiungere

quello che si crede fosse il suo sogno: l’unificazione della penisola sotto il suo scettro. La repubblica di Firenze, rimasta isolata, non volendo

perdere l’indipendenza, spedì ambasciatori a Bonifacio IX, per indurlo a sostenere la lotta contro Gian Galeazzo, ma non fu necessario:

all’apice della sua potenza, Gian Galeazzo morì di peste il 3 settembre 1402 nel castello di Melegnano, dove si era vanamente rifugiato per

sfuggire al contagio.

27 Il popolano Cola di Rienzo era nato a Roma nel 1313. Ispirato da ideali mistici e dal desiderio di riportare Roma all’antica

grandezza repubblicana, sostenuto dal papato avignonese, nel 1347 si oppose al potere della nobiltà cittadina e si proclamò tribuno di Roma,

esautorando i ceti nobiliari e invitando le città d’Italia a unirsi per eleggere un imperatore italiano. Nonostante le simpatie che egli incontrò

fra diversi intellettuali dell'epoca, tra cui Francesco Petrarca, fu scacciato dai fautori di Clemente VI, che allora risiedeva ad Avignone; nel

1350 Cola fu accolto a Praga dall’imperatore Carlo IV, che però nel 1352 lo arrestò come eretico, inviandolo ad Avignone. Liberato, ebbe da

papa Innocenzo VI il titolo di senatore, e nel 1354 fu mandato a Roma per appoggiare l’Albornoz nell’opera di restaurazione del potere

pontificio; ma dopo due mesi di potere dispotico e stravagante fu ucciso sul Campidoglio da una sommossa nel 1365.

28 Nata a Napoli nel 1326, divenne regina della città nel 1345, alla morte del nonno Roberto I. Nel 1347 fu trovato ucciso il marito,

Andrea di Calabria, e la regina venne fortemente sospettata di esserne la responsabile. Risposatasi con Luigi d’Angiò di Taranto, nel 1348

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di un poeta: agli allievi si può far parafrasare i versi loro dedicati e commentarli dopo essersi documentati

sulla biografia dei personaggi descritti . Perché sono così descritti i personaggi?

LEZIONE VI (2 ore)

APOSTROFI ALL'ITALIA (Regno dei Vizi III, 118-148 e XI, 49-69. Confronti con Purgatorio VI e Italia

mia, ben che 'l parlar sia indarno)

Mentre in Europa si stavano formando le monarchie nazionali, l'Italia era frammentata in tanti piccoli

territori continuamente in lotta fra di loro. I letterati non poterono non denunciare tale situazione di crisi

politica e sociale. Verranno perciò in classe presentati i versi che Dante, Petrarca e Frezzi rivolgono alla

tormentata Penisola, ricercando temi e preoccupazioni comuni, nonché differenze e peculiarità di ogni autore

(vd. Allegati, testo 20).

L'apostrofe non rientrava tra le figure retoriche elencate dai teorici medievali, ma la struttura degli

appelli danteschi e frezziani richiama quella dell'apostrofe classica, specie quella della preghiera e

dell'invocazione.

L'invettiva di Dante all'Italia, presente nel sesto canto del Purgatorio, è uno sfogo indignato contro la

decadenza morale dell'Italia, non come nazione in sé, bensì come parte dell'Impero, certamente la più nobile

perché già sede dell'antica potenza romana. Infatti, i rimproveri del poeta sono rivolti agli imperatori

germanici che la trascurano, ai signori feudali che cercano di fare una politica di indipendenza da quelli, e

alla Chiesa, corrotta da interessi mondani, che ostacola la volontà degli imperatori. Così come nel passo letto

in classe del Convivio (vd. Allegati, testo 5), l'Alighieri continua a sostenere la sua tesi che l'unica autorità

politica capace di reggere con giustizia la società è quella imperiale, a patto che essa sappia garantire

l'autorità civile imponendo il rispetto delle leggi, come si era proposto di fare Giustiniano con il suo Corpus

Iuris Civilis, e stroncando le pretese autonomistiche dei feudatari. Tale apostrofe all'Italia riprende e amplia

l'invettiva contro Firenze del sesto canto dell'Inferno29

; ma anche qui la città toscana, che logicamente sta più

a cuore al poeta di ogni altro luogo della penisola, è morsa dal sarcasmo per la leggerezza con cui in essa si

emanano leggi, che vengono subito modificate o abolite dopo breve tempo, e per la presunzione con cui i

politicanti ambiziosi si sobbarcano la reggenza del Comune, senza esserne capaci.

La canzone Italia mia, benché 'l parlar sia indarno risale all'inverno 1344-45 ed è la più nota tra le

poesie politiche di Petrarca. Testimonianza di sincero impegno morale e civile, motivata dallo scoppio della

guerra tra Gonzaga ed Estensi per il controllo di Parma, è intonata su un registro di alta oratoria quale si

conviene alla sua destinazione. E' infatti indirizzata ai signori italiani e contiene un solenne monito a non

fuggì ad Avignone a causa dell’invasione del re di Ungheria Luigi, fratello del primo sposo; ritornata a Napoli nel 1352, mortole il secondo

marito, sposò Giacomo d’Aragona e poi Ottone di Brunswick. Rimasta senza eredi per la morte prematura dell’unico figlio Carlo, avuto dal

primo marito Andrea, Giovanna designò suo erede il cugino e nipote Carlo di Durazzo; ma i due si trovarono contrapposti durante lo Scisma

d’Occidente. Mentre la regina appoggiava il papa avignonese Clemente VII, Carlo, che aspirava al trono, sosteneva il papa napoletano

Urbano VI. Nel 1380 Urbano VI dichiarò Giovanna eretica e istigò contro di lei Carlo di Durazzo. Sconfitta e catturata, morì nel 1382, fatta

strangolare da sicari del cugino, divenuto nel frattempo re Carlo III di Napoli. Giovanna fu una donna di cultura e mecenate, lodata da

Petrarca e Boccaccio

29 Su cui ci si è già soffermati in classe nel primo quadrimestre.

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voler perseverare nella reciproca ostilità, causa di irreparabili danni alla penisola, e una commossa

perorazione all'unità e alla pace in nome dell'amore per la patria comune. Ed è proprio il sentimento della

comune appartenenza alla civiltà e alla cultura che avevano innalzato Roma sulle altre nazioni del mondo

antico a suscitare lo sdegno del poeta contro la decisione dei signori italiani di affidare la propria difesa a

soldati mercenari, germanici. L'appello a insorgere contro la barbarie tedesca, nel quale risuona la fierezza

per l' “antiquo valore” che “ne l'italici cor non è ancor morto” riscosse grande successo fra i posteri, tra cui si

può ricordare la citazione dei versi 93-96 che Machiavelli fece nel Principe o la canzone All'Italia di

Leopardi.

Introdotta da una metafora musicale, invece, l’apostrofe frezziana del terzo canto del Regno dei Vizi

si avvicina a quella dantesca per il paragone dell’Italia a una nave che non riesce a procedere poiché, a causa

della superbia, tutti ne vogliono reggere il timone e nessuno vuole sottostare ad altri: chiara la reminiscenza

della «nave sanza nocchiere in gran tempesta» di Purgatorio VI. Se Dante faceva notare come Firenze, dopo

l’entrata di molti ambiziosi del contado, era degenerata, Frezzi descrive questa situazione come diffusa un

po’ dappertutto in Italia, dove la superbia ha provocato la discordia e ha fatto sì che ognuno voglia

comandare, anche chi dovrebbe semplicemente obbedire, non ricordando che personaggi dell’importanza di

Pompeo e Scipione erano sottostati ai loro consoli in guerra. Chi scapita di queste contese è la giustizia, così

che sulla terra è scomparsa la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male. L’apostrofe all’Italia prosegue

con un’invocazione a Giunone, che nell’antichità mitologica aveva istigato Lico a uccidere il sanguinario re

di Tebe, Creonte, e i suoi figli; si conclude infine con una profezia, che sarebbe piaciuta a Machiavelli,

sull’avvento di un tiranno che riunisca sotto di sé l’Italia intera, soggiogando tutti i particolarismi, come era

avvenuto negli altri stati europei.

Secondo l'ipotesi dello studioso Enrico Filippini, il potente, che con la forza delle armi avrebbe

dovuto salvare l’Italia, sarebbe Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, cui la fortuna concesse per

qualche tempo di passare di conquista in conquista, superando tutti gli ostacoli frapposti dal papa e dalle città

guelfe, fino a scomparire improvvisamente nel 1402.

Anche nell'undicesimo canto del Regno dei Vizi poeta folignate si sofferma sulla situazione italiana. Qui

Frezzi condanna le lotte fratricide tra guelfi e i ghibellini. Siamo nel regno dell’Ira, dove gli iracondi

combattono accanitamente tra loro, mutilandosi e colorando il fiume con il sangue. L’apostrofe vera e

propria è preceduta da alcuni versi in cui viene descritto il comportamento delle Erinni, stimolatrici della

terribile zuffa: «Megera poi de guelfi e ghibellini / trasse le insegne fuor tutte resperse / di sangue vivo e peli

serpentini. / E l’una contra l’altra andaro avverse, / e tanto sangue su quel pian si sparse, / che tutta quella

terra sen coperse».

Inizia poi l’invettiva contro l’Italia che si distingue dalla precedente e assume maggior spessore per il

fatto di non essere pronunciata dalla dea Minerva, ma proprio dal Frezzi poeta; l’autore trae ispirazione dalle

vicende raccontate per deplorare i conflitti intestini che affliggevano la Penisola, causati dalle divisioni tra

guelfi e ghibellini, nomi di origine straniera (Welfen e Waiblingen) che erano serviti come pretesto per

alimentare discordie civili e familiari. Il poeta, chiamando prima l’Italia «cieca» e poi «miseranda», passa

dallo sdegno alla compassione, con il suo cuore di italiano sanguinante nel vedere quanti dolori e quanti

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danni apportino le fazioni alla patria. Frezzi non può che rievocare con raccapriccio le frequenti lotte

fratricide e cittadine che funestano la Penisola, e gli pare quasi impossibile che per quei «due nomi strani e

falsi e bugiardi» si compiano tante stragi, rendendo gli italiani come cani.

Terribile l'ultima terzina per l'inesorabile verdetto che emette: gli italiani si annientano l'un l'altro

senza aver cognizione o consapevolezza alcuna né della causa per cui tutte queste lotte sono iniziate, né

dell'obiettivo finale da raggiungere, né dell'oltraggio subito o del beneficio da conquistare.

ESERCIZI PER CASA

• Tali poesie “patriottiche” sono formalmente molto curate. Aiutando con il glossario di fine manuale,

prova a indagare sui tre testi alla ricerca del maggior numero possibile di figure retoriche.

• Scrittura creativa: prova a scrivere anche tu un apostrofe sulle condizioni dell’Italia attuale.

• Ricerca su internet o in un atlante storico una cartina dell'Italia di inizio Trecento (Dante), di metà

(Petrarca) e di fine secolo (Frezzi). Rileggi le poesie cercando di comprendere, attraverso la

geografia, i motivi del lamento poetico dei tre autori. Scrivi sul tuo quaderno mezza pagina di

riflessione su ognuno dei tre autori

LEZIONE VI (2 ore)

Soffermatosi sulla correzione in classe dei compiti assegnati per casa nella lezione precedente, il

docente trae spunto dall’ultimo esercizio per riflettere sull’importanza della storia e della geografia per la

letteratura della nostro paese.

1 - GEOGRAFIA E STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA

Si invitano gli allievi a leggere un saggio cardine per la storia della letteratura quale Geografia e

storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti, un lavoro risalente al 1967 e che fece epoca anche per le

prospettive di metodo che suggeriva, invitando a tener conto fra l’altro delle ripercussioni, nelle nostre

vicende letterarie, della secolare divisione della penisola in tanti Stati regionali. Dei diversi saggi che

compongono il volume si chiederà ai ragazzi di leggere i primi due, Geografia e storia della letteratura

italiana e Chierici e laici, particolarmente significativi per i collegamenti con il percorso che abbiamo svolto,

nonché basilari dal punto di vista del metodo d'indagine letteraria.

Geografia e storia della letteratura italiana è interessante, per il percorso didattico che propongo, in

primis perché avvicina gli allievi a un testo di critica letteraria; poi e soprattutto perché l'autore tratteggia con

precisione la situazione culturale italiana del Trecento. Partendo dall'analisi della situazione di frazionamento

della letteratura e cultura italiana nel Duecento, si sofferma sull'esigenza di un'ideale unità linguistica e

letteraria espressamente avvertita da Dante nel De vulgari eloquentia e concretamente messa in atto con la

stesura e il successo della Commedia. Dionisotti ammette sì l'improvviso fiorire di una lirica sostanzialmente

toscana nelle diverse regioni italiane, ma evidenzia che si tratta solo di piccole isole, in una situazione

linguistica e culturale tutt'altro che omogenea. Nessun contributo letterario sembra venire alla letteratura

italiana, secondo l'indirizzo proposto da Dante, da una regione come la Lombardia per lo spazio di quasi due

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secoli; in Veneto si sviluppa invece una letteratura franco-veneta che nulla ha che vedere con la tradizione

toscana e dantesca: siamo in una zona di polivalenza linguistica in cui il toscano di Dante non suonava

necessariamente più proprio del francese o del latino; nel Sud, dove pure era giunta prestissimo l’eco della

Commedia dantesca, la colonizzazione toscana fu più economica e civile che letteraria e linguistica: “nessuna

traccia da Roma a Napoli a Bari all'Aquila o a Sulmona, per non parlare della Sicilia, d'un qualche contributo

alla letteratura italiana sulla base proposta dai Toscani e da Dante, fino oltre la metà del Quattrocento.

Nonostante la rivelazione di Dante, subito confermata ed estesa dal Petrarca e dal Boccaccio, ben più che

mezza Italia, così al Nord come al Sud, non risponde all'appello. Da un punto di vista storico storico-

geografico non esiste fino al tardo Quattrocento se non una letteratura toscana con appendici e colonie, le più

tutt'altro che stabili, nel Veneto, in parte dell'Emilia, nelle Marche e nell'Umbria”.

Partendo dalla letteratura delle origini, perciò, l'autore giunge a proporre una revisione del processo

nazionale che porta a un'unità senza centro (contrariamente a quanto avviene per esempio in Francia con

Parigi), caratterizzata da una pluralità regionale e sociale di centri di cultura. Inoltre sostiene che “discutibile

non sembra il principio che, ove a distinzioni e definizione per qualunque motivo si ricorra, esse debbono

farsi avendo riguardo alla geografia e alla storia, alle condizioni che nello spazio e nel tempo stringono ed

esaltano la vita degli uomini”30

.

In questa luce sarà letto anche il saggio Chierici e laici, che entra nel vivo della discussione sui

rapporti tra Stato e Chiesa e documenta perciò una caratteristica della storia della letteratura italiana che per

secoli è inseparabile dalla presenza della Chiesa. L'indagine parte dalle origini della nostra letteratura, quel

Duecento caratterizzato dalla “differenziazione regione di un'Italia che neppure per auspicio o profezia era

allora unita, e con la differenziazione politica in gran parte d'Italia dei due partiti guelfo e ghibellino, una

sottile ma non meno precisa differenziazione sociale tra chierici e laici”. Dionisotti osserva che, dopo la

parentesi di San Francesco, se non manca nella poesia e nella letteratura italiana del Duecento il motivo

religioso, resta però il fatto che lo sviluppo in Italia di una letteratura in lingua moderna fu dovuto

principalmente all'iniziativa dei laici, “impegnati in una lotta senza quartiere contro la Chiesa di Roma”: dai

siciliani ai toscani fino a Dante. Dopo la morte dell'Alighieri la situazione si capovolge. I testi della

letteratura propriamente religiosa si moltiplicano, e si afferma continuo e potente l'intervento dell'ordine

domenicano, strumento principale della Chiesa. Essa, trasferendosi da Roma ad Avignone e attraversando un

periodo indubbiamente critico della sua storia, guadagna terreno, anziché perderlo nel campo della cultura

italiana. E così, se pur “è difficile credere che essi obbedissero a una vocazione religiosa nel senso proprio

della parola”, i due maggiori letterati del Trecento, Petrarca e Boccaccio, furono chierici. E così lo stesso

Federico Frezzi, domenicano31

.

2 – LA RICERCA DEI TESTI NELL'ERA DI INTERNET

Il percorso si concluderà con alcune indicazioni che il docente dà agli studenti su come ricercare i

30 C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp.35-39.

31 C. Dionisotti, Chierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp.56-63.

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testi antichi o poco noti con l'aiuto di internet. La lezione si svolge in aula di informatica. Fornirà gli indirizzi

e mostrerà le migliori biblioteche virtuali dove poter trovare e “scaricare” i testi integrali che si sono trattati a

lezione, e non solo. Farà conoscere il sito Liber Liber (www.liberliber.it), probabilmente il miglior luogo del

web da cui scaricare opere classiche integrali. Si segnaleranno, inoltre, per la letteratura italiana il sito De

Bibliotheca, la torre di Babele (bepi1949.altervista.org/index.html) e la Biblioteca dei Classici Italiani di

Giuseppe Bonghi (www.classicitaliani.it); per la letteratura latina, invece, si consiglierà il sito The latin

library (www.thelatinlibrary.com).

Per ricercare libri fisici e non virtuali si spiegherà il concetto di OPAC (On-line Pubblic Access

Catalogue) e si mostreranno i siti con i due cataloghi bresciani più ricchi, quello della più importante

biblioteca bresciana, la Queriniana (http://catalogoqueriniana.comune.brescia.it/zetesis/zetesis.asp), e quello

della Rete Bibliotecaria Bresciana, che comprende tutte le biblioteche dei comuni

(http://opac.provincia.brescia.it).

VERIFICA FINALE (2 ore)

Se nel corso delle lezioni il feedback degli allievi era stato provato con domande agli allievi,

svolgimento e correzione di esercizi, una prova formativa a metà del percorso, il progetto didattico che ho

inteso proporre si conclude con una verifica scritta, sul modello della prima prova degli esami di stato.

Saranno fornite agli allievi quattro tracce da scegliere, una per ogni tipologia prevista all'esame.

TIPOLOGIA A: domande di comprensione, analisi e approfondimento sul primo canto del Quadriregio, già

affrontato a lezione. Le domande di approfondimento verteranno sulla ricerca delle analogie e delle

differenze rispetto ai primi due canti dell'Inferno e sull'evoluzione dell'amore da Andrea Cappellano a Frezzi,

passando per Dante e Boccaccio.

TIPOLOGIA B: saggio breve o articolo di giornale sull'evoluzione del concetto di Fortuna, tenendo conto di

Inferno VII e Regno di Satanasso XIII.

TIPOLOGIA C: tema di argomento storico: “Chi troppo in alto sal cade sovente,

precipitevolissimevolmente”. Frezzi, nel XIII canto del Regno di Satanasso, descriveva la sorte di

personaggi come Bernabò e Gian Galeazzo Visconti, Cola di Rienzo e Giovanna d'Angiò vittime dei capricci

della Fortuna. Nel percorso di storia affrontato fino a quel momento (i ragazzi dovrebbero essere arrivati al

termine del XV secolo), individuare altri personaggi eminenti precipitati dall'apice al baratro, e provare ad

intervistarli immaginando di incontrarli nell'aldilà.

TIPOLOGIA D: tema di carattere generale. Quali sono, secondo te, i messaggi di Dante ancora validi nel

mondo contemporaneo?

VALUTAZIONE

Le prove saranno valutate secondo la seguente griglia. Il voto si ottiene dalla somma delle diverse

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voci della seguente griglia.

PER LA TIPOLOGIA A

COMPETENZA ESPRESSIVA 0: SCARSA: Usa un linguaggio con passaggi oscuri, errori gravi di punteggiatura, di ortografia e di sintassi

0,5: INCERTA: Usa un linguaggio poco comprensibile, con lessico approssimativo, errori di punteggiatura,

ortografia e sproporzione tra le parti

1: ADEGUATA: Si esprime in modo lineare, utilizza parzialmente il lessico appropriato, non evita incertezze

nell’ortografia o nella punteggiatura

1,5: SICURA: Scrive in modo corretto, con un linguaggio appropriato ed equilibrio nell'organizzazione.

2: RIGOROSA: Si esprime con correttezza e fluidità, usando un lessico vario, preciso e uno stile adeguato alla

tipologia

ANALISI E INTERPRETAZIONE 1: SCARSA: Analizza, interpreta in modo gravemente incompleto o errato.

1,5: INCERTA: Analizza, interpreta e rielabora con approssimazione e/o errori

2: ADEGUATA: Analizza, interpreta e rielabora in modo accettabile, ma con alcune imprecisioni

2,5: SICURA: Analizza, interpreta in modo corretto, argomentando e documentando le affermazioni

3: RIGOROSA: Costruisce un discorso puntuale nell'analisi e significativo nella sintesi, con motivate

valutazioni critiche personali

COMPRENSIONE

COMPLESSIVA

0: SCARSA: Non comprende il testo e non riesce a parafrasare e/o riassumere.

0,5: INCERTA: Comprende parzialmente il testo ed esegue la parafrasi e/o il riassunto con diverse imprecisioni

e lacune

1: ADEGUATA: Comprende essenzialmente il testo ed esegue la parafrasi e/o il riassunto in modo

sostanzialmente corretto, seppure con qualche lacuna

1,5: SICURA: Comprende il testo e parafrasa e/o riassume in modo corretto e completo

2: RIGOROSA: Comprende a fondo il testo e parafrasa con rigore e/o riassume con correttezza e precisione

CONTESTUALIZZAZIONE E

APPROFONDIMENTO

0,5: SCARSA: Non impiega le conoscenze necessarie a contestualizzare il testo

1,5: INCERTA: Utilizzo di parziali conoscenze che non contestualizza e/o fraintende il testo, le informazioni o i

quesiti

2: ADEGUATA: Seleziona le informazioni richieste e riesce a contestualizzare nell'essenziale il testo

2,5: SICURA: Seleziona le informazioni e contestualizza in modo corretto e coerente

3: RIGOROSA: Dispone di informazioni esaurienti e precise che sa contestualizzare in modo rigoroso

PER LE TIPOLOGIE B, C, D

COMPETENZA ESPRESSIVA 0: SCARSA: Usa un linguaggio con passaggi oscuri, errori gravi di punteggiatura, di ortografia e di sintassi

0,5: INCERTA: Usa un linguaggio poco comprensibile, con lessico approssimativo, errori di punteggiatura,

ortografia e sproporzione tra le parti

1: ADEGUATA: Si esprime in modo lineare, utilizza parzialmente il lessico appropriato, non evita incertezze

nell’ortografia o nella punteggiatura

1,5: SICURA: Scrive in modo corretto, con un linguaggio appropriato ed equilibrio nell'organizzazione.

2: RIGOROSA: Si esprime con correttezza e fluidità, usando un lessico vario, preciso e uno stile adeguato alla

tipologia

CONOSCENZA 0,5: SCARSA: Non impiega delle conoscenze necessarie a contestualizzare l’argomento proposto

1,5: INCERTA: Utilizzo solo parziale di conoscenze, che non contestualizza e/o fraintende l’argomento proposto

2: ADEGUATA: Seleziona le informazioni richieste e riesce a contestualizzare nell’essenziale il tema

2,5: SICURA: Seleziona le informazioni che documenta e contestualizza, in modo corretto e coerente

3: RIGOROSA: Dispone di informazioni esaurienti e precise che contestualizza in modo rigoroso

CAPACITA’ COMPLESSE 1: SCARSA: Non riesce argomentare e/o a documentare le affermazioni e non impiega una struttura pertinente

alla tipologia.

2: INCERTA: Esprime considerazioni generiche, approssimative o ridondanti con argomentazioni inconsistenti e

presenta una pertinenza sommaria e/o impiega relativamente le caratteristiche tipologiche

3: ADEGUATA: Esprime considerazioni essenzialmente coerenti che espone con argomentazioni ed

elaborazione limitate, seppur in maniera pertinente alla tipologia testuale

4: SICURA: Argomenta e documenta le affermazioni in modo preciso e pertinente alla tipologia, dimostrando

capacità logiche ed elaborative

5: RIGOROSA: Argomenta e documenta le affermazioni in modo rigoroso e organico, esprimendo

considerazioni puntuali nell’analisi e significative nella sintesi, con motivate valutazioni critiche personali e/o

interdisciplinari.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

• E. Cavallari, La fortuna di Dante nel Trecento, Firenze 1921.

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• N. Sapegno, Storia letteraria del Trecento, Milano 1963.

• C. Dionisotti, Chierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967.

• A. Lanza, La letteratura tardogotica. Arte e poesia a Firenze e Siena nell’autunno del Medioevo,

Anzio 1994.

• A. Ciotti, Imitatori danteschi, in Enciclopedia dantesca, 1996.

• C. Segre, C. Martignoni, Testi nella storia, I, Pioltello 1998.

• C. Marazzini, La lingua italiana, Bologna 2002.

• E. Laureti, Il Quadriregio di Federico Frezzi da Foligno, Foligno 2007.

ALLEGATI

TESTO 1 - Gianfranco Contini, Un'interpretazione di Dante

L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato

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sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui.

TESTO 2 - Friedrich von Schlegel

“Nessuno si conosce fin quando è solamente se stesso e non nel medesimo tempo, anche un altro”.

TESTO 3 - Ugo Foscolo, Discorso sul testo della ‘Divina Commedia’

I lavori d’immaginazione sembrano opera magica quando la finzione e la verità sono immedesimate sì

fattamente, che non si lascino più discernere; e allora il vero è attinto dalla realtà delle cose, e il falso dalla

perfezione ideale. Ma dov’è tutto ideale, non tocca il cuore, perché non si fa riconoscere appartenente all’umana

natura. Dove tutto è reale, non move la fantasia, perché non pasce di novità e d’illusioni la vita nostra nojosa e

incontentabile sulla terra.

TESTO 4 - Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, XXII

[La Commedia] pare essere un fiume [...] piano e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il

grande elefante ampissimamente nuoti.

TESTO 5 – Dante Alighieri, Convivio, IV iv 3-4

Con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria

d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali

sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, e per le case de

l’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e a le loro cagioni torre via, conviene di

necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia cioè un solo

principato, e uno principe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tenga contenti

ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze

s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente; che è quello

per che esso è nato.

TESTO 6 – Michele Barbi, Dante: vita, opere e fortuna

Non poteva bastare a rivolgere l'Italia dal male un trattato come il Convivio, e neppure esortazioni epistolari a re

o imperatori, a principi o città. Che autorità aveva egli, uomo privato, bandito dalla sua patria, perseguitato

dall'avverso destino, da potersi ripromettere di essere ascoltato? L'autorità non poteva venirgli se non dal suo

genio di poeta. Occorreva una grande rivelazione, in cui l'immensità del male fosse ritratta a vivi colori, tanto da

fare impressione in alto e in basso; dove l'insegnamento venisse, non da fatti contingenti o di scarsa importanza,

ma dalla storia dell'intera umanità nel suo fortunoso svolgimento.

TESTO 7 – Dante Alighieri, Epistola XIII a Cangrande della Scala (traduzione dal latino)

VIII, 24-25: «Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem

simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice,

subiectum est homo prout, merendo et demerendo per arbitrii libertatem, iustitiae premiandi et puniendi

obnoxius est» (trad. it.: Dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, è lo stato delle anime dopo la

morte, inteso in generale; su questo soggetto e intorno a esso si svolge tutta l’opera. Ma se si considera l’opera

sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con il libero arbitrio, ha

conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina).

X, 31: «Ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule

comunicant» (trad. it.: Per quel che riguarda il linguaggio questo è dimesso e umile perché si tratta della parlata

volgare che usano anche le donnette).

XV, 39: «Dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et

perducere ad statum felicitatis» (trad. it.: Si può dire in breve che il fine di tutta l’opera e della parte consiste

nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità).

TESTO 8 - Novellino, LXXVIII

QUI CONTA D'UNO FILOSOFO MOLTO CORTESE DI VOLGARIZZARE LA SCIENZIA.

Fue uno filosofo, lo quale era molto cortese di volgarizzare la scienzia, per cortesia, a signori ed altre genti. Una

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notte, li venne in visione, che le dee della scienzia, a guisa di belle donne, stavano al bordello. Ed elli, vedendo

questo, si maravigliò molto e disse: – Che è questo? Non siete voi le dee della scienzia? – Ed elle risposero: –

Certo sì. – Com'è ciò, che voi siete al bordello? – Ed elle risposero: – Bene è vero; perché tu se' quelli, che vi ci fai

stare. – Isvegliossi e pensossi che, volgarizzar la scienzia, si era menomar la deitade. Rimàsesene e pentessi

fortemente. E sappiate, che tutte le cose non sono licite a ogni persona.

TESTO 9 – Giovanni del Virgilio. Epistola a Dante, I, 1, 6-10, 29 (traduzione dal latino)

Delle Muse alma voce [...]

l'Orco ai peccatori, a' spirti

sospirosi del cielo il leteo fiume,

ed a' beati i regni al sol di sopra;

a che sempre vorrai cose sì gravi

gittar al vulgo? [...]

Prodigo a' porci non gittar le perle.

TESTO 10 – Franco Sacchetti, Trecentonovelle, CXIV

Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché con nuovi volgari cantavano il libro

suo.

Lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà meno, Dante Allighieri fiorentino, era in

Firenze [...] Quando ebbe desinato, esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta

San Piero, battendo ferro uno fabbro su la 'ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i

versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se

non che s'accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l'arte; piglia Dante il martello e

gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e cosí gittò molti

ferramenti. Il fabbro, voltosi con uno atto bestiale, dice: - Che diavol fate voi? sete voi impazzato? Dice Dante: - O

tu che fai? - Fo l'arte mia, - dice il fabbro, - e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via. Dice Dante: - Se

tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie. Disse il fabbro: - O che vi guast'io? Disse Dante: - Tu

canti il libro e non lo di' com'io lo feci; io non ho altr'arte, e tu me la guasti. Il fabbro gonfiato, non sapendo

rispondere, raccoglie le cose e torna al suo lavoro; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò

stare il Dante.

TESTO 11 - Francesco Petrarca, Familiari XXI, 15. A Boccaccio sul magistero di Dante

Or dunque, poiché tu me ne hai offerto un’occasione che io da me non avrei cercato, voglio fermarmi un po’ per

difendermi davanti a te (e per tuo mezzo davanti agli altri) da un’opinione che non solo a torto – come dice

Quintiliano di sé e di Seneca – ma insidiosamente e malignamente si è divulgata sul giudizio ch’io fo di quel

poeta. Poiché chi mi vuol male dice ch’io lo odio e disprezzo, cercando così di suscitarmi contro l’odio di quel

volgo al quale egli è graditissimo; nuova specie d’iniquità e arte mirabile di nuocere. A costoro risponderà per me

la verità.

Prima di tutto, io non ho nessuna ragione d’odio verso un uomo che non ho mai veduto, se non una volta sola

nella mia infanzia. Egli visse con mio nonno e con mio padre, più giovane del primo, più vecchio del secondo, col

quale nel medesimo giorno e da una stessa tempesta civile fu cacciato dalla patria. Spesso tra compagni di

sventura nascono grandi amicizie; e questo accadde anche tra loro, che oltre alla fortuna avevano in comune

l’ingegno e gli studi; se non che all’esilio, al quale mio padre, ad altre cure rivolto e pensoso della famiglia, si

rassegnò, egli si oppose, e con maggior ardore si consacrò agli studi, di tutto incurante e sol di gloria desideroso.

E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo: poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la

povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figli lo distolsero dal cammino intrapreso;

mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì, ma così sensibili, che un breve sussurro li distoglie dalla loro intenzione;

ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle

parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio. Tu comprendi perciò che davvero odioso

e ridicolo è quell’odio che alcuni hanno immaginato ch’io porti a questo poeta, poiché, come vedi, non ho alcuna

ragione d’odiarlo, ma molte di amarlo; cioè la patria comune e la paterna amicizia e l’ingegno e lo stile, ottimo

nel suo genere, che lo rendono immune da ogni disprezzo.

L’altra calunniosa accusa che mi si fa è che io, fin da quella prima età in cui avidamente si coltivano gli studi

compiaciutomi tanti di far raccolta di libri, non abbia mai ricercato l’opera di costui, e mentre con tanto ardore mi

diedi a raccogliere libri quasi introvabili,di quello solo, ch’era alla mano di tutti, stranamente non mi sia curato.

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Confesso che così è, ma nego di averlo fatto per la ragione ch’essi dicono. Io allora, dedito a quel suo stesso

genere di poesia, scrivevo in volgare; nulla mi sembrava più elegante, né pensavo di poter aspirare a meta più

alta, ma temevo che, se mi fossi dedicato alla lettura degli scritti suoi o di qualcun altro, non mi accadesse, in

un’età così pieghevole e proclive all’ammirazione, di diventare senza volere e senza avvedermene un imitatore.

Da questo nella baldanza del mio animo giovanile io aborrivo, e tanta era invece la fiducia o meglio l’audacia, da

credere di poter col mio ingegno e senza l’aiuto di alcuno crearmi uno stile proprio e originale; se fu vana

credenza vedano gli altri. Ma questo io affermo, che se qualche parola o espressione si trovi nei miei versi che a

quella di quel poeta o di altri sia simile o uguale, ciò avvenne non per furto o per volontà di imitare – due cose

che come scogli io cercai sempre di evitare, soprattutto scrivendo in volgare – ma per caso fortuito o, come dice

Cicerone, per somiglianza d’ingegno, calcando io senza volerlo le orme altrui. Credi pure che così è, se in qualche

cosa mi credi; nulla è più vero. E se di questo non è cagione, come si deve credere, né la modestia né la

vergogna,si deve accusarne la giovanile baldanza. Ma oggi io son ben lontano da tali scrupoli, e poiché da quegli

studi mi sono del tutto allontanato e ogni timore è scomparso, accolgo presso di me tutti gli altri poeti e questo

prima di tutti.

TESTO 12 - G. Boccaccio, Argomenti in terza rima alla “Divina Commedia” di Dante Alighieri

«Nel mezzo del cammin di nostra vita»,

smarrito in una valle l'autore,

e la sua via da tre bestie impedita,

Virgilio, dei latin poeti onore,

da Beatrice gli apparve mandato

liberator del periglioso errore.

Dal qual poi che aperto fu mostrato

a lui di sua venuta la cagione,

e 'l tramortito spirto suscitato,

senza piú far del suo andar quistione,

dietro gli va, ed entra in una porta

ampia e spedita a tutte le persone.

Adunque, entrati nell'aura morta,

l'anime triste vider di coloro

che senza fama usâr la vita corta;

io dico de' cattivi: eran costoro

da moscon punti, e senza alcuna posa

correndo givan, con pianto sonoro.

Quindi, venuti sopra la limosa

riva d'un fiume, vide anime assai,

ciascuna di passar volenterosa.

A cui Caròn: - Per qui non passerai! -

di lontan grida; appresso, un gran baleno

gli toglie il viso e l'ascoltar de' guai.

Dal qual tornato in sé, di stupor pieno,

di lá da l'acqua in piú cocente affanno,

non per la via che l'anime teniéno,

si ritrovò; e quindi avanti vanno,

e pargoletti veggon senza luce

pianger, per l'altrui colpa, eterno danno.

Dietro alle piante poi del savio duce

passa con altri quattro in un castello,

dove alcun raggio di chiarezza luce.

Quivi vede seder sovr'un pratello

spiriti d'alta fama, senza pene,

fuor che d'alti sospiri, al parer d'ello.

Da questo loco discendendo, viene

dove Minós esamina gli entranti,

fier quanto a tanto officio si conviene.

Quivi le strida sente e gli alti pianti

di quei che furon peccator carnali,

infestati da venti aspri e sonanti,

dove Francesca e Polo li lor mali

contano. E quindi Cerbero latrante

vede sopra a' gulosi, infra li quali

Ciacco conosce; e, procedendo avante,

truova Plutone, e' prodighi e gli avari

vede giostrar con misero sembiante.

Che sia Fortuna e la cagion de' vari

suoi movimenti Virgilio gli schiude:

e, discendendo poi con passi rari,

truovan di Stige la nera palude,

la qual risurger vede di bollori,

da' sospir mossi d'alme in essa nude,

dove gli accidiosi peccatori,

e gl'iracundi, gorgogliando in quella,

fanno sentir li lor grevi dolori [...]

TESTO 13 - Cecco d'Ascoli, L'Acerba, libro I capitolo II, vv. 159-164; libro IV, capitolo XII, vv. 4669-4694.

Negli altri regni dove andò col doca

fondando li suoi piedi in basso centro,

là lo condusse la sua fede poca:

del mastin vecchio e novo da Verucchio

che fece de Montagna qui non dico,

né de Franceschi lo sanguigno mucchio.

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e so che a noi non fece mai ritorno,

ché suo disio sempre lui tenne dentro.

di lui mi duol per suo parlare adorno.

[…]

Qui non si canta al modo delle rane,

qui non se canta al modo del poeta

che finge immaginando cose vane:

ma qui risplende e luce omne natura

che a chi intende fa la mente lieta:

qui non se gira per la selva obscura.

Qui non vegg'io Paulo né Francesca,

de li Manfredi non veggio Alberico,

che die' l'amari frutti in la dolce ésca:

Non veggio el conte che per ira ed asto

tèn forte l'arcevescovo Ruggero,

prendendo del so ceffo el fero pasto;

non veggio qui squadrar a Dio le fiche:

lasso le ciance e torno su nel vero:

le fabule me fur sempre nimiche.

El nostro fine è de vedere Osanna:

per nostra santa fede a Lui se sale,

e senza fede l'opera se danna.

Al santo regno de l'eterna pace

convence de salir per le tre scale,

ove l'umana salute non tace,

a ciò ch'io vegga con l'alme divine

el sommo bene de l'eterna fine.

TESTO 14 A – Fazio degli Uberti, Dittamondo, libro I, capitolo I, vv.1-6, 16-33, 43-54.

Non per trattar gli affanni, ch’io soffersi

nel mio lungo cammin, né le paure,

di rima in rima tesso questi versi;

ma per voler contar le cose oscure

ch’io vidi e ch’io udio, che son sí nove,

ch’a crederle parranno forti e dure.

[...]

Di nostra etá giá sentia la stagione

che a l’anno si pon, poi che ’l sol passa

in fronte a Virgo e che lascia il Leone,

quando m’accorsi ch’ogni vita è cassa

salvo che quella che contempla in Dio

o ch’alcun pregio dopo morte lassa.

E questo fu onde accese il disio

di volermi affannare in alcun bene,

che fosse frutto dopo il tempo mio.

Poi, pensando nel qual, fermai la spene

d’andar cercando e di voler vedere

lo mondo tutto e la gente ch’el tene,

e di volere udire e di sapere

il dove e ’l come e chi funno coloro,

che per virtú cercâr di piú valere.

E imaginato il mio grave lavoro,

drizzai i pie’ come avea il pensiero

e cercai del cammin senza dimoro.

[...]

Poscia m’addormentai cosí pensoso

ed apparvonmi cose, nel dormire,

per che a la mia impresa fui piú oso:

ché una donna vedea vèr me venire

con l’ali aperte, sí degna ed onesta,

che per asempro a pena il saprei dire.

Bianca, qual neve pare, avea la vesta

e vidi scritto, in forma aperta e piana,

sopra una coronetta, ch’avea in testa:

“Io son Virtú, per che la gente umana

vince ogni altro animale; i’ son quel lume,

ch’onora il corpo e che l’anima sana”.

TESTO 14 B - Fazio degli Uberti, Dittamondo, libro I, capitolo VII, vv.19-91

[...] col core e con gli occhi sospesi

chiamai, a giunte mani, in verso il cielo,

Colui, che mai non ebbe dí né mesi:

“O sempre uno e tre, a cui non celo

il gran bisogno e l’acceso disire,

però che tutto il vedi senza velo,

soccorri me, che solo non so ire”.

Appena giá finito avea il prego,

ch’io mi vidi uno dinanzi apparire.

Qui con piú fretta i piedi a terra frego

in verso lui e, poi che mi fu chiaro,

con reverenza tutto a lui mi piego.

Con un vago latino, onesto e caro,

“Dimmi chi se’, mi disse, e dove vai”;

e gli occhi suoi un poco s’abbassaro.

Come si tacque, cosí incominciai:

“Io mi son un novellamente desto”:

e ’l dove e ’l quando tutto li narrai.

Apresso ancor li feci manifesto

di quel romito, a cui la barba lista,

ch’era a veder sí vecchio e tanto onesto;

poi de la scapigliata magra e trista,

la qual, per dare storpio a la mia ’mpresa,

m’era apparita con orribil vista;

e sí com’io, dopo lunga contesa,

l’avea cacciata e trovato colui,

che del mondo gli dubbi mi palesa;

e che, poi che da lui partito fui,

la ’mpresa mia si facea vile e scema

e ’l conforto che presi e sí da cui.

“Ciascun d’entrar ne le battaglie ha tema,

se non è matto; ma quei è piú pregiato

che, poi che v’è, pur vede e che men trema.

Ma non dubbiar, da poi che m’hai trovato,

Senza piú dire, allora si partio

e io apresso, sempre dando il loco,

acceso caldamente d’un disio.

Ond’ello accorto: “Per sfogare il foco,

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ch’io non ti guidi per tutto il cammino,

pur che dal Sommo il tempo ti sia dato”.

Cosí mi disse. E io: “O pellegrino,

dimmi chi se’”. Ed el rispuose adesso:

“Anticamente m’è detto Solino”.

“Solin, diss’io, se’ tu quel propio desso,

che divisi il principio, il fine, il mezzo

del mondo, l’abitato e ciò ch’è in esso?”

“Colui son io”. Onde allora un riprezzo

tal mi prese, qual fa talora il verno

a chi sta fermo e mal vestito al rezzo.

Per maraviglia, al Padre sempiterno

mi trassi e dissi: “Indarno onor procaccia

qual Te non prega e vuol per suo governo”.

Poscia rivolsi al mio Solin la faccia

e dissi: “O caro, o buon soccorso mio,

del tutto qui mi do ne le tue braccia”.

mi disse, fa che svampi fuor la fiamma,

ché l’andar senza il dir farebbe poco”.

Allor, come il figliolo a la sua mamma

con reverenza parla, dissi: “O sole,

in cui non manca di mia voglia dramma,

quel che da te prima l’anima vole

si è d’aver partito per rubrica

il mondo”. Queste fun le mie parole.

Ed ello a me: “Ne l’etá mia antica

tutto il notai, ben ch’ora mal s’incappa

l’uom per quei nomi a ’ntender quel ch’i’ dica.

E però formerò teco una mappa

tal, che la ’ntenderanno non che tue,

color ch’a pena sanno ancor dir pappa,

a ciò ch’ andando insieme poi noi due,

e trovandoci ai porti e a le rive,

sappi quando saremo giú e sue.

E tu com’io tel conto tal lo scrive”.

ALLEGATO 15: Scheda sulla vita e l'opera di Federico Frezzi

FEDERICO FREZZI

Nasce nel 1360 a Foligno.

Nel 1403 diventa vescovo della città umbra.

Nel 1415 e 1416 partecipa al Concilio di Costanza, dove muore.

QUADRIREGIO

Frezzi è autore del Quadriregio, poema didascalico-allegorico (oltre 12mila versi) composto tra la fine del

Trecento e i primi anni del Quattrocento, dedicato al signore di Foligno e suo mecenate, Ugolino Trinci. Il titolo

indica i quattro regni visitati dal protagonista, identificabile col poeta stesso.

La vicenda raccontata viene suddivisa in quattro libri, ognuno dei quali illustra un regno. Nel primo libro viene

presentato il regno d’Amore: il poeta è accompagnato da Cupido in un luogo meraviglioso popolato di fanciulle in

fiore; uscirà da questo mondo ingannevole con l’aiuto e la guida di Minerva, dea della Sapienza, attraverso un

lungo e penoso processo di maturazione che ha inizio nel regno di Satanasso (secondo libro), prosegue nel regno

dei Vizi (terzo libro), si conclude nel regno delle Virtù (quarto libro). Qui c’è la testimonianza del raggiunto

equilibrio umano, sapienziale e religioso dell’eroe che, attraverso cadute, sofferenze, illusioni, ha finalmente

raggiunto la meta che si era prefissata. Il poema si conclude con Federico Frezzi-personaggio che contempla la

gloria di Dio.

Il poema godette di una certa fortuna fino alla prima metà del Cinquecento: ne sono testimonianza la trentina di

manoscritti pervenutici, le sette edizioni a stampa uscite fra il 1481 e il 1511. Possedettero copie dell'opera e le

annotarono personalità insigni quali Leonardo da Vinci e Ludovico Ariosto.

Nell'ambito della storia letteraria italiana il poema frezziano si rivela un'importante testimonianza

dell'affermazione culturale e linguistica del toscano alla fine del Trecento, oltre che un coraggioso atto d'amore

nei confronti di Dante (mai nessuno aveva mai ardito di avvicinarglisi tanto... quanto meno nelle intenzioni) che,

con l'affermazione dell'Umanesimo, non godeva più di tanto entusiasmo tanto che Niccolò Niccoli, nel Dialogus

ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni, poteva affermare che Dante avrebbe dovuto essere rimosso dalla

schiera dei letterati e lasciato in compagnia di lanaioli, formai e altra gente di un tal genere.

E' un documento interessante, inoltre, perché è l'ultimo eccellente testimone di una prima e ampia stagione di

poemi in volgare che non vide altri importanti rappresentanti fino all'epoca medicea, nella seconda metà del XV

secolo.

RICHIAMI DANTESCHI

Poema allegorico-didattico in terzine dantesche

Volgare fiorentino

Viaggio nella geografia dantesca: Inferno, Purgatorio e Paradiso + Selva di Diana e Mondo

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Conclusione con la visione di Dio

Frezzi, come Dante, appare in duplice veste: viandante e autore

Necessità di una guida: nel primo regno è accompagnato da Cupido, poi dalla dea Minerva.

Incontri e dialoghi con dannati, beati, esseri mitologici, santi.

Opera enciclopedica: filosofia, teologia, denuncia dei mali della società, crisi della Chiesa

IL QUADRIREGIO DI FEDERICO FREZZI: ipotesi per un uso didattico

TESTO 16: L'INCIPIT DEL POEMA - Federico Frezzi, Regno d'Amore I, 1-84, 91

La dea, che ‘l terzo ciel volvendo move,

avea concorde seco ogni pianeto

congiunta al Sole ed al suo padre Iove.

La sua influenza tutto ‘l mondo lieto

esser faceva e d’aspetto benegno,

da caldo e freddo e da venti quieto.

E Febo il viso chiaro avea nel segno,

che fu sortito in cielo ai duo fratelli,

ond’ebbe Leda d’uovo il ventre pregno.

E tutti i prati e tutti gli arboscelli

eran fronduti, ed amorosi canti

con dolci melodie facean gli uccelli.

E già il cor de’ giovinetti amanti

destava Amore e ‘l raggio della stella,

che ‘l sol vagheggia or drieto ed or davanti,

quando il mio petto di fiamma novella

acceso fu, onde angoscioso grido

ad Amor mossi con questa favella:

Se tu se’ cosa viva, o gran Cupido,

come si dice, e figlio di colei,

ch’amore accese tra Enea e Dido;

se tu se’un del numer delli dèi,

e se tu porti le saette accese,

esaudisci alquanto i desir miei.

I’ priego te che mi facci palese

la forma tua e ‘l tuo benigno aspetto,

il qual si dice ch’è tanto cortese. –

Appena questo priego avea io detto,

quand’egli apparve a me fresco e giocondo

in un giardino, ov’io stava soletto,

di mirto coronato el capo biondo,

in forma pueril con sì bel viso,

che mai più bel fu visto in questo mondo.

I’ creso arei che su del paradiso

fosse il suo aspetto: tanto era sovrano;

se non che, quando a lui mirai fiso,

vidi ch’avea un arco ornato in mano,

col quale Achille ed Ercole percosse,

e mai, quando saetta, getta invano.

Sopra le vestimenta ornate e rosse

di penne tanto adorne avea duo ali,

che così belle mai uccel non mosse.

Nella faretra al fianco avea gli strali

d’oro e di piombo e di doppia potenza,

colli qua’ fere a dèi ed a mortali.

Quando ch’i’l vidi avanti a mia presenza,

m’inginocchiai e, come a mio signore,

li feci onore e fe’li riverenza,

dicendo a lui: - O gentilesco Amore,

se a venire al priego mio se’ mosso,

colla tua forza e col tuo gran valore

aiuta me, il quale hai sì percosso

e sì infiammato col tuo sacro foco,

ch’io, lasso me! Più sofferir non posso. –

Allor rispose, sorridendo un poco:

dall’alto seggio mio i’ son venuto

mosso a piatà del tuo piatoso invoco.

Degno è ch’io ti soccorra e diati aiuto,

da che ferventemente tu mi chiame,

e ch’io sovvenga al cor, ch’i ho feruto.

Sappi che in oriente è un reame

tra lochi inculti e tra ombrosi boschi,

ch’è pien di ninfe d’amorose dame.

E quelle selve e quelli lochi foschi

son governati dalla dea Diana,

la qual voglio che veggi e la conoschi.

E benché sia la via molto lontana

e sia scogliosa e sia di molta asprezza,

io la farò parer soave e piana.

Io son l’Amor, che dono ogni fortezza

ne’ gravi affanni e, mentre altrui affatico,

gli fo la pena portar con dolcezza.

In questo regno, del quale io ti dico,

è una ninfa chiamata Filena

con bell’aspetto e con volto pudico.

La selva è ben di mille ninfe piena;

ma dea Diana, quando va alla caccia,

più presso questa che null’altra mena.

Costei sì bella e con pudica faccia

io ferirò per te d’un dardo d’oro,

quantunque io creda che a Diana spiaccia.

Tu vedra’ delle ninfe il sacro coro

insieme con Diana lor maestra,

e belle sì, ch’i’, Amor, me n’innamoro.

[...] Allor si mosse, ed io andai con esso.

TESTI 17 – TRE AUTORI A CONFRONTO. L’incontro con Caronte.

TESTO 17 A: IL CARONTE DI VIRGILIO - Eneide VI 295-316

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Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.

Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine

ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.

Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume

Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie

incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,

sordido pende dagli omeri annodati il mantello.

Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,

e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,

vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.

Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,

donne e uomini, i corpi privati della vita

di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,

e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:

quante nelle selve al primo freddo d'autunno

cadono scosse le foglie, o quanti dall'alto mare

uccelli s'addensano in terra, se la fredda stagione

li metter in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.

Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto

e tendevano le mani per il desiderio dell'altra sponda.

Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,

gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.

TESTO 17 B: IL CARONTE DI DANTE – Inferno III, 82- 129

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:

i' vegno per menarvi a l'altra riva

ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

E tu che se' costì, anima viva,

pàrtiti da cotesti che son morti».

Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti

verrai a piaggia, non qui, per passare:

più lieve legno convien che ti porti».

E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare».

Quinci fuor quete le lanose gote

al nocchier de la livida palude,

che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,

cangiar colore e dibattero i denti,

ratto che 'nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti,

l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme

di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,

forte piangendo, a la riva malvagia

ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia

loro accennando, tutte le raccoglie;

batte col remo qualunque s'adagia.

Come d'autunno si levan le foglie

l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo

vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d'Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna.

«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,

«quelli che muoion ne l'ira di Dio

tutti convegnon qui d'ogne paese;

e pronti sono a trapassar lo rio,

ché la divina giustizia li sprona,

sì che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima buona;

e però, se Caron di te si lagna,

ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

TESTO 17 C: IL CARONTE DI FREZZI – Regno di Satanasso VII, 28-72, 133-160

Vidi Caron non molto da lontano

con una nave, in mezzo alla tempesta,

che conducea con un gran remo in mano.

E ciascun occhio, ch'egli aveva in testa,

parea come di notte una lumiera

o un falò, quando si fa per festa.

Quand'egli fu appresso alla riviera

un mezzo miglio quasi o poco manco,

scòrsi sua faccia grande, guizza e nera

Egli avea il capo di canuti bianco,

il manto addosso rappezzato ed unto;

e volto sì crudel non vidi unquanco.

Poscia rivolto a me, colla gran bocca

gridò: - Or giunto se', o tu, che vivi,

venuto qui come persona sciocca. -

Minerva a lui: - Costui convien ch'arrivi

Non era ancor a quell'anime giunto

quando gridò: - O dal materno vaso

mandati a me nel doloroso punto,

per ogni avversità, per ogni caso

vi menerò tra la palude negra

incerti della vita e dell'occaso.

Pochi verran di voi all'età intègra;

spesso la vita alli mortali io tollo,

quand'ella è più secura e più allegra. -

Dava col remo suo tra testa e'l collo

a' mostri, che mettea dentro alla cocca;

e forte percotea chi facea crollo.

Io scesi in terra con la scorta diva,

ed ella disse a me: - Se ben pon' mente,

la vita umana non si può dir viva;

ché solo solo un punto è nel presente,

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all'altra ripa sotto i remi tui,

'nanzi che morte della vita il privi.

- Su la mia nave non verrete vui -

rispose a noi con ira e con disdegno, -

ché altre volte già ingannato fui.

Un trasse Cerber fuor del nostro regno,

l'altro la moglie; or simil forza temo:

però voi non verrete sul mio legno.-

Minerva a lui: - Io chiedo ora il tuo remo,

ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,

da questo basso al mio regno supremo.

Lassame andar, consumator ingordo,

ché a te non è subietta quella vita,

per la qual vive uom sempre per ricordo. -

Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,

si vergognò ed abbassò le ciglia,

e senza più parlar ne die' la ita.

[…]

e nel futur non è ed anco è 'ncerta,

e del passato in lei non è niente.

E, perché questa cosa ti sia esperta,

pensa che un oro puro a parte a parte

a poco a poco in piombo si converta.

Se un venisse a te a domandarte,

tu non potresti dir che quel fusse oro,

da che dall'esser òr sempre si parte.

Cosí è la vita di tutti coloro,

che 'l tempo mena a morte; e chi ben mira,

non dirá mai: - Io vivo, - ma - Io moro; -

ché, mentre il cielo sopra voi si gira,

logra la vita, ed è cagion quel moto

del caso e qualitá che a morte tira. -

In questo ad ira Caròn fu commoto

e gridò forte: - Questa simil pena

ha l'uom; ma, come a cieco, non gli è noto;

ché 'l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena

l'uom navigando d'una in altra etade

sino alla ripa, ov'è l'ultima cena.

Dal tempo ha 'l corpo ogni infermitade;

e ciò, che è nel mondo all'uom molesto,

sí vien dal cielo o da natura cade. -

Poi si partí Caròn fiero e rubesto.

TESTI 18 – LA FORTUNA

TESTO 18 A: LA FORTUNA PER DANTE – Inferno VII, 61-96.

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

d'i ben che son commessi a la fortuna,

per che l'umana gente si rabuffa;

ché tutto l'oro ch'è sotto la luna

e che già fu, di quest' anime stanche

non poterebbe farne posare una».

«Maestro mio», diss' io, «or mi dì anche:

questa fortuna di che tu mi tocche,

che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

E quelli a me: «Oh creature sciocche,

quanta ignoranza è quella che v'offende!

Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

Colui lo cui saver tutto trascende,

fece li cieli e diè lor chi conduce

sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende,

distribuendo igualmente la luce.

Similemente a li splendor mondani

ordinò general ministra e duce

che permutasse a tempo li ben vani

di gente in gente e d'uno in altro sangue,

oltre la difension d'i senni umani;

per ch'una gente impera e l'altra langue,

seguendo lo giudicio di costei,

che è occulto come in erba l'angue.

Vostro saver non ha contasto a lei:

questa provede, giudica, e persegue

suo regno come il loro li altri dèi.

Le sue permutazion non hanno triegue:

necessità la fa esser veloce;

sì spesso vien chi vicenda consegue.

Quest' è colei ch'è tanto posta in croce

pur da color che le dovrien dar lode,

dandole biasmo a torto e mala voce;

ma ella s'è beata e ciò non ode:

con l'altre prime creature lieta

volve sua spera e beata si gode.

TESTO 18 B: LA FORTUNA PER FREZZI – Regno di Satanasso XIII, 1-27, 37-48, 55-78

Per l’aspero cammin di quella valle

eravamo iti, al mio parer, un miglio,

lasciando il van timor dietro alle spalle,

quando per veder meglio alzai lo ciglio

e dalla lunga la Fortuna io vide

mirabil sì, ch’ancor me’n maraviglio

Minerva a me: - Se ti losinga o ride,

e s’ella mostra a te il viso giocondo,

fa’ ch’allor ben ti guardi e non ti fide.

Quella è che molti inganna in questo mondo

col rider suo e spesso alcun inalza

per abbassarlo e farlo ire al fondo.

Guarda la faccia sua quant’ella è falza

e che di chiara in torba la trasmuta,

quando da alto alcuno in terra sbalza. -

Quando da presso poi l’ebbi veduta,

[…]

La dea Minerva già m’avea condotto

sino alla donna, che voltava il giro:

allor parlò, ché pria non facea motto.

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conobbi quant’è grande quella donna,

quant’è sinistra e quanto alcuno adiuta.

Era maggior che non fu mai colonna,

e sol dinanti avea capelli in testa,

e d’oro fin dinanti avea la gonna.

Ma dietro calva, e dietro avea la vesta

tutta stracciata, ed era di quel panno,

che vedoa porta in dosso, quando è mesta.

Ghignando con un riso pien d’inganno,

volgea con una man sette gran rote,

che come spere in questo mondo stanno.

[…]

Ma l’altra parte, quando su è gionta,

giù vien calando a quella donna dietro;

quanto più cala, più del mal s”impronta

e fassi oscura; e da quel lato tetro

descender vidi molti a capo basso

con gran lamento e doloroso metro.

Poiché caduti son con gran fracasso,

ogni amico li fugge e li dispregia:

chi li sospinge e chi lor dà del sasso.

Ma alli salenti dalla parte egregia

ognun si mostra amico ne’ sembianti:

chi li losinga e chi di loda ‘i fregia.

E disse: - Io, che a basso e ad alto tiro

le sette rote, son la dea Fortuna

e solo a quei dinanti lieta miro.

Nullo su ad alto aggia fermezza alcuna

in me di securtà ovver fidanza,

ch’io mostro faccia chiara, e quando bruna.

E nullo a basso perda la speranza

tutta di me, ché spesso io son la scala

di poner in ricchezza e gran possanza.

Ma vegga ben ognun, anzi ch’e’ sala,

che non si lagni poi, né faccia grido,

se ‘l mando a quella parte che ‘ngiù cala;

ché, quando si lamenta, ed io mi rido;

e se me chiama cruda, ed io lui pazzo,

che ‘n tanta sicurtà faceva il nido.

E questo è ‘l gioco mio e ‘l mio solazzo,

atterrar quel dalla parte suprema,

ed esaltare un vestito di lazzo.

Se falsa alcun mi chiama e mi blasfema,

io non me ‘n curo, e lamentevol voce

dell’allegrezze mie niente scema.-

TESTO 19: I GRANDI UOMINI CADUTI IN DISGRAZIA - Regno di Satanasso XIII

• BERNABO' VISCONTI (vv. 97-102):

Or mira quel che su nel colmo siede

del terzo cerchio e più salir non po',

che così ride e securo esser crede.

Quegli è il milanese Barnabò;

ma tosto mostrerà Fortuna il gioco,

com’ella sole e s’apparecchia mò.

• GIAN GALEAZZO VISCONTI (vv. 103-111)

L'altro, che sale dietro a lui un poco,

è suo nipote, il qual del reggimento

il caccerà e sederà in suo loco.

E quanto ad una cifra cresce il cento,

cotanto accrescerà il biscion lombardo

e di Toscana fie in parte contento;

se non che ‘l giglio roscio, c’ha lo sguardo

sempre a sua libertà, contro lui opposto

farà che ‘l suo pensier verrà bugiardo.

• COLA DI RIENZO (vv. 112-120)

Nella seconda rota in cima è posto

Cola Renzo tribuno, ed è salito

nel colmo, ond'altra volta fu deposto.

Ma è stato troppo folle e troppo ardito,

c’ha presa la milizia su nel sangue

de’ principi roman tanto gradito,

per che Colonna ed altri ancor ne langue;

ma tosto Roma a lui trarrà il veleno,

c’ha nella lingua il malizioso angue»

• GIOVANNA I D'ANGIO' (vv. 130-135)

Nel quinto cerchio là dall'altro lato

regina sta magnifica Ioanna

col capo di Sicilia incoronato.

Ma la Fortuna, che ridendo inganna,

mostrerà a lei ed a quel che sal poi [Carlo di Durazzo],

che in chi lei fida, sta in baston di canna.

TESTI 20 – LE APOSTROFI ALL'ITALIA

TESTO 20 A: Dante, Purgatorio VI, 76-151

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

Vieni a veder la gente quanto s'ama!

e se nulla di noi pietà ti move,

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non donna di province, ma bordello!

Quell' anima gentil fu così presta,

sol per lo dolce suon de la sua terra,

di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra

li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

di quei ch'un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode

le tue marine, e poi ti guarda in seno,

s'alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno

Iustinïano, se la sella è vòta?

Sanz' esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,

e lasciar seder Cesare in la sella,

se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella

per non esser corretta da li sproni,

poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch'abbandoni

costei ch'è fatta indomita e selvaggia,

e dovresti inforcar li suoi arcioni,

giusto giudicio da le stelle caggia

sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,

tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!

Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto,

per cupidigia di costà distretti,

che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,

Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:

color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura

d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;

e vedrai Santafior com' è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne

vedova e sola, e dì e notte chiama:

«Cesare mio, perché non m'accompagne?».

a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m'è, o sommo Giove

che fosti in terra per noi crucifisso,

son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l'abisso

del tuo consiglio fai per alcun bene

in tutto de l'accorger nostro scisso?

Ché le città d'Italia tutte piene

son di tiranni, e un Marcel diventa

ogne villan che parteggiando viene.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta

di questa digression che non ti tocca,

mercé del popol tuo che si argomenta.

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca

per non venir sanza consiglio a l'arco;

ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.

Molti rifiutan lo comune incarco;

ma il popol tuo solicito risponde

sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:

tu ricca, tu con pace e tu con senno!

S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno

l'antiche leggi e furon sì civili,

fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili

provedimenti, ch'a mezzo novembre

non giugne quel che tu d'ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato, e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,

vedrai te somigliante a quella inferma

che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

TESTO 20 B – Petrarca, Canzoniere CXXVIII

Italia mia, benché 'l parlar sia indarno

a le piaghe mortali

che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,

piacemi almen che' miei sospir' sian quali

spera 'l Tevero et l'Arno,

e 'l Po, dove doglioso et grave or seggio.

Rettor del cielo, io cheggio

che la pietà che Ti condusse in terra

Ti volga al Tuo dilecto almo paese.

Vedi, Segnor cortese,

di che lievi cagion' che crudel guerra

e i cor', che 'ndura et serra

Marte superbo et fero

apri Tu, Padre, e 'ntenerisci et snoda

ivi fa' che 'l Tuo vero,

qual io mi sia, per la mia lingua s'oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno

de le belle contrade,

di che nulla pietà par che vi stringa,

che fan qui tante pellegrine spade?

perché 'l verde terreno

del barbarico sangue si depinga?

Vano error vi lusinga:

poco vedete, et parvi veder molto,

ché 'n cor venale amor cercate o fede.

Qual piú gente possede,

colui è piú da' suoi nemici avolto.

O diluvio raccolto

di che deserti strani,

Non è questo 'l terren ch'i' tocchai pria?

Non è questo il mio nido

Ove nudrito fui sì dolcemente?

Non è questa la patria in ch’io mi fido,

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per inondar i nostri dolci campi!

Se da le proprie mani

questo n'avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,

quando de l'Alpi schermo

pose fra noi et la tedesca rabbia;

ma 'l desir cieco, e 'ncontra 'l suo ben fermo,

s'è poi tanto ingegnato,

ch'al corpo sano à procurato scabbia.

Or dentro ad una gabbia

fiere selvagge et mansuete gregge

s'annidan sí, che sempre il miglior geme;

et è questo del seme,

per piú dolor, del popol senza legge,

al qual, come si legge,

Mario aperse sí 'l fianco,

che memoria de l'opra ancho non langue,

quando assetato et stanco

non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia

fece l'erbe sanguigne

di lor vene, ove 'l nostro ferro mise.

Or par, non so per che stelle maligne,

che 'l cielo in odio n'aggia:

vostra mercé, cui tanto si commise.

Vostre voglie divise

guastan del mondo la piú bella parte.

Qual colpa, qual giudicio o qual destino

fastidire il vicino

povero, et le fortune afflicte et sparte

perseguire, e 'n disparte

cercar gente et gradire,

che sparga 'l sangue et venda l'alma a prezzo?

Io parlo per ver dire,

non per odio d'altrui, né per disprezzo.

Né v'accorgete anchor per tante prove

del bavarico inganno

ch'alzando il dito colla morte scherza?

Peggio è lo strazio, al mio parer, che 'l danno;

ma 'l vostro sangue piove

piú largamente, ch'altr'ira vi sferza.

Da la matina a terza

di voi pensate, et vederete come

tien caro altrui che tien sé così vile.

Latin sangue gentile,

sgombra da te queste dannose some;

non far idolo un nome

vano senza soggetto:

ché 'l furor de lassú, gente ritrosa,

vincerne d'intellecto,

peccato è nostro, et non natural cosa.

madre benigna et pia,

che copre l’un et l’altro mio parente?

Perdio, questo la mente

talor vi mova, et con pietà guardate

le lagrime del popol doloroso,

che sol da voi riposo

dopo Dio spera; et pur che voi mostriate

segno alcun di pietate,

vertú contra furore

prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto:

ché l'antiquo valore

ne l'italici cor' non è anchor morto.

Signor', mirate come 'l tempo vola,

et sí come la vita

fugge, et la morte n'è sovra le spalle.

Voi siete or qui; pensate a la partita:

ché l'alma ignuda et sola

conven ch'arrive a quel dubbioso calle.

Al passar questa valle

piacciavi porre giù l'odio et lo sdegno,

vènti contrari a la vita serena;

et quel che 'n altrui pena

tempo si spende, in qualche acto piú degno

o di mano o d'ingegno,

in qualche bella lode

in qualche honesto studio si converta:

così qua giù si gode,

et la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t'ammonisco

che tua ragion cortesemente dica,

perché fra gente altera ir ti convene,

et le voglie son piene

già de l'usanza pessima et antica,

del ver sempre nemica.

Proverai tua ventura

fra' magnanimi pochi a chi 'l ben piace.

Di' lor: - Chi m'assicura?

I' vo gridando: Pace, pace, pace. -

TESTO 20 C – Frezzi, Regno dei Vizi III, 118-148 TESTO 20 D – Frezzi, Regno dei Vizi XI, 49-69

Se ben la citra, Italia, non s’accorda

della tua gente, or pensa la cagione,

la qual fa te discordante in ogni corda.

Ahi, cieca Italia, qual furor t’infoca

tanto che ’n te medesma ti dividi,

onde convien che manchi e che sie poca?

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Sostenne già Pompeo e Scipione

star nella barca e non guidare il temo

e star nel campo sotto altrui bastone.

Ma nelle barche tue esser supremo

vuol ciascheduno ed esser soprastante

chi servir deggia nel vogar del remo.

Per questo le tue membra tutte quante

han odio insieme, e per questo è mestiero

che’l capo signoreggino le piante.

Per questo il grande teme e regge altero

e quello che sta a basso, nel cor porta

quel che superbia figlia nel pensiero.

Indi diventa la iustizia morta

nel mal punire e nel premiare il bene:

però la nave tua va così torta.

O dea Iunon, perché tarda e non viene

tra cotal gente un Lico crudo e diro,

da che politico ordin non sostiene?

Perché non regge tra li serpi un tiro?

perché non regge nelle selve un ranno,

che gli arbori consumi a giro a giro?

L'altre province sotto un capo stanno;

ma per le parti tue e per le sette,

più che nell’idra in te capi si fanno,

ch’un ne rammorti, e rinasconne sette.

Ma un verrà, che convien che ti dome,

e che le genti tue tenga subbiette:

e tiro e ranno sia in fatti e nome.

Non guardi, o miseranda, che ti guidi

dietro a due nomi strani e falsi e vani,

che per questo ti sfai e i tuoi uccidi?

Per questo i tuoi figliol sì come cani

rissano insieme e fan le gran ruine,

e i cittadini fai diventar strani.

Non sapendo il principio ovvero ‘l fine,

l’offesa o il beneficio, prendi parte

contra li tuoi e città pellegrine.