Il Sole News 37 - dicembre 2013

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IL SOLE NEWS n. 37 - dicembre 2013

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Notiziario semestrale dell'Associazione Il Sole Onlus Numero 37 - Dicembre 2013

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IL SOLE NEWSn. 37 - dicembre 2013

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IL SOLE NEWSPeriodico che racconta e rendiconta le attività in corso in Italia e nel Sud del mondo de Il Sole Onlus

Direttore responsabileElena Scarrone

Sede e contatti della direzioneviale Rimembranze 4521047 SaronnoTel. [email protected]

Fotografie Archivio Il Sole Onlus

RedazioneOrnella Lavezzoli, Elisabetta Maccioni, Diego Roncoroni, Maria Spinelli, Francesco Capuzzi.

RegistrazioneTribunale di Comon. 21/2000 del 8/09/2000

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EDITORIALE

Siamo ormai prossimi al Natale e alla fine di questo 2013: è quindi tempo di bilanci.Purtroppo anche quest’anno il bilancio non è certamente positivo, non lo è dal punto di vista economico e neppure dal punto di vista umano.

La crisi economica che attanaglia l’Italia non ha certo risparmiato Il Sole Onlus, i nostri soci e donatori sono stati anche loro vittime di questa crisi e anche le donazioni sono di conseguenza diminuite. Non ci siamo però persi d’animo e abbiamo ancora una volta fatto quello che ci sembravo più giusto per i”nostri” bambini, quello che a nostro parere li avrebbe penalizzati di meno: abbiamo cercato di diminuire i costi di gestione Italia.In questo senso un passo era già stato fatto con il cambio della Sede, il trasferimento da Como a Saronno ci aveva permesso un considerevole risparmio, che in questo momento si è rivelato però insufficiente. Ci siamo resi conto che la voce più pesante nel nostro bilancio era quella relativa al costo del personale, con un’ incidenza del 25% sul bilancio totale. Per questa ragione, a settembre, abbiamo pensato di proporre al nostro personale assunto, Vittorio, Francesca, Enzo, Fabio ( non ad Alessia perché fino a gennaio è in maternità) la cassa integrazione in deroga a 20/30 ore per il periodo ottobre/dicembre. Una scelta difficile perché siamo in pochi, Il Sole è come una famiglia, quindi ci conosciamo bene non solo da un punto di vista lavorativo ma anche umanamente. Una scelta a parere del Consiglio Direttivo meno dolorosa del dover procedere al licenziamento di qualcuno dello staff; una scelta, magari temporanea, comunque assolutamente necessaria.Vittorio e Francesca, sulla base di valutazioni personali, hanno però preferito essere licenziati per poter usufruire subito del TFR e dell’indennità di licenziamento. Abbiamo cercato di persuaderli che in un momento come quello attuale forse sarebbe stato difficile trovare subito un altro posto di lavoro. Evidentemente avevano già fatto tutte le loro considerazioni a questo proposito e hanno preferito continuare con la loro idea.A questo punto la cassa integrazione non è stata più presa in considerazione, né era più così necessaria perché Il Sole si sarebbe immobilizzato nelle sue attività per mancanza di personale.A loro va il nostro ringraziamento per tutti gli anni che sono stati al nostro fianco e auguriamo loro una vita piena di successi e di soddisfazioni personali. Non nego che per Il Sole Onlus trovarsi con due persone in meno sia stato problematico ma, come sem-pre, quando si attraversano periodi difficili o ci si arena, o si trova un nuovo entusiasmo e un nuovo spirito di collaborazione.A noi è successo proprio questo, volontari, Consiglio Direttivo, dipendenti, tutti si sono attivati con determinazione per far in modo che i rapporti con i sostenitori e con i Paesi non debbano risentire di questi cambiamenti interni.Questo spirito di collaborazione ci fa star bene e ci riempie di energie. Il lavoro viene portato avanti con entusiasmo e fino ad ora né i sostegni a distanza, né i nostri Progetti hanno risentito di questo cambiamento nello staff . Certo il punto dolente resta sempre la crisi in atto, noi come vedrete anche in questo giornalino, stiamo facendo nuove proposte affinché i nostri bambini non restino senza l’aiuto che fino ad ora abbiamo dato loro e per fare in modo che alcuni dei nostri donatori, che stanno at-traversando un momento di difficoltà economica, possano ancora avere la soddisfazione di aiutare i bambini più sfortunati ad avere un’infanzia che possa definirsi a pieno titolo tale.L’ho detto e scritto altre volte, l’unione fa la forza, tante gocce formano un mare, sembrano delle banalità ma corrispondono al vero, quindi formiamo una bella catena a cui si possano attaccare con fiducia i nostri bambini. Continuiamo a dare loro la speranza.

ORNELLA LAVEZZOLIPresidente Il Sole Onlus

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INDICE

Editoriale 3

Fiori che Rinascono - Etiopia 5 Analisi di un progetto

Fiori da Riaccendere - Benin 8

Sostegno a distanza - Un piccolo grande regalo 10

Sostegno a distanza - Un aiuto è sempre grande 11

Scheda Sostegno a Distanza Ravvicinata 12

Campagna di Natale 14

Il Nuovo Sito 15

Notizie dal Mondo 16 Costa stiamo facendo 50 Letture consigliate 51

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FIORI CHE RINASCONOanalisi di un progetto

Il progetto “Fiori che rinascono” è la punta di diamante de Il Sole. È il progetto che portiamo avanti da più tem-po e che ha visto coinvolti ognuno di noi e i moltissimi

sostenitori che con noi sono venuti negli anni in Etiopia a conoscere i nostri bambini.

Il progetto è nato grazie alla collaborazione con IFSO (In-tegrated Family Service Organization) una associazione locale che opera da diversi anni ad Addis Abeba gesten-do numerosi progetti. Lo scorso settembre abbiamo avu-to l’onore di ospitare qui a Saronno la presidente di IFSO Wesero Mekdes Zelelew per la festa dei quindici anni della nostra associazione. Chi ha partecipato alle iniziati-ve ha potuto vedere di persona la passione e l’impegno che questa donna mette nel lavoro per i bambini.

Ma cos’è il progetto “Fiori che rinascono”? È un proget-to di sostegno e cura per i bambini vittime di violenza sessuale. Questo fenomeno è purtroppo estremamente diffuso nella città di Addis Abeba, capitale dell’Etiopia e maggiore centro economico e commerciale del pae-se. Addis Abeba significa in amarico “nuovo fiore”, da

qui il nome del nostro progetto. Addis Abeba è una città grandissima che si estende per diversi kilometri quadrati sull’altopiano etiope. Il centro è un insieme di vecchi edi-fici, alcuni completamente abbandonati a sé stessi, e di palazzi moderni tra cui spiccano gli uffici delle principali organizzazioni internazionali. La periferia invece, mostra un paesaggio completamente diverso. La stazione dei treni e degli autobus occupa un intero quartiere, ed attor-no a questo enorme centro di smistamento commerciale abitano migliaia di persone in baracche di pochi metri quadrati. La densità della popolazione è altissima, cam-minare tra queste piccole vie, vedere le case di lamiera ammassate una sopra l’altra, farsi spazio tra la gente, è una esperienza davvero particolare. In questi luoghi si vede davvero la povertà della popolazione etiope e lo sta-to di degrado in cui la maggior parte di loro sono costretti a vivere. Per lavorare gli adulti devono spesso stare fuori tutto il giorno e soprattutto la notte, occupati come fac-chini e scaricatori di merci. E i bambini rimangono soli. In case senza porte e senza finestre, dove spesso il tetto, o un giaciglio, è stato affittato a un viaggiatore sconosciuto per arrotondare le entrate familiari. Possiamo immagina-

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re come sia alto il rischio di subire violenza che vivono quotidianamente questi bambini.

Il Counselling Center de Il Sole, con il suo team di psi-cologi e assistenti sociali, risponde al bisogno di aiuto di questi bambini, spesso vittime della violenza di sco-nosciuti, ma anche di familiari, conoscenti. Il bambino è preso in carico in tutto ciò di cui ha bisogno, a par-tire dalla soddisfazione dei primi bisogni di sicurezza e sopravvivenza, fino ad un intervento di riabilitazione del trauma, più rivolto alla rielaborazione dell’esperienza a livello psicologico.

Coloro che vivono in una situazione di pericolo, vengo-no accolti temporaneamente presso le Foster Home, in modo da garantire prima di tutto la sicurezza abitativa. I bambini che hanno una sicura famiglia di riferimento ri-mangono nel nucleo familiare e usufruiscono allo stesso modo di tutta la rete dei servizi.

Ma il servizio lavora a 360° per il recupero del bambino. Consulenza e sostegno medico vengono forniti subito dopo la violenza e nei momenti successivi nel caso in cui la violenza abbia generato delle conseguenze fisiche rile-vanti. Pensate ad esempio ai tanti bambini che in questo

modo contraggono il virus dell’HIV e quindi necessitano di cure molto speciali.

Alle famiglie viene fornito un aiuto economico, sia per permettere il trasporto del bambino fino al servizio, sia per aiutare nelle piccole spese. La maggior parte dei pa-zienti vive sotto la soglia di povertà e altrimenti non po-trebbe partecipare alle sedute. I genitori vengono aiutati organizzando skill-trainings per permettere loro di trova-re una occupazione lavorativa partendo dalle loro risorse personali. Inoltre partecipano a incontri per potenziare la capacità di prendersi cura del bambino in modo adegua-to, di fornire al bambino un contesto familiare caratte-rizzato da protezione e sicurezza. Tutto con l’obiettivo di creare un ambiente favorevole per il reinserimento del bambino nel contesto d’origine.

Gli psicologi lavorano con il bambino e con i genitori per la riabilitazione psicologica. Le conseguenze sul benes-sere del bambino di un evento talmente traumatico sono estremamente gravi. I sintomi di tale malessere lo sono altrettanto, e tutti gli adulti che hanno a che fare con il bambino hanno bisogno di comprendere cosa sta succe-dendo al piccolo e come sia meglio aiutarlo. Per questo vengono organizzati anche incontri con le scuole e le al-tre figure di riferimento del bambino.

In questi incontri si lavora sul fronte dell’accettazione dell’abuso come esperienza traumatica, delle respon-sabilità dell’abusante e dei genitori stessi così come sulla loro abilità nel comprendere ed accettare i segnali di disagio del bambino. Spesso i bambini traumatizzati presentano difficoltà di attenzione e comportamenti ag-gressivi che i genitori, se non adeguatamente supportati, possono avere difficoltà a comprendere ed accettare. Ad esempio non ci si può aspettare da un bambino abusa-to che ottenga dei buoni risultati scolastici, questo deve essere piuttosto un obiettivo a lungo termine, che potrà essere raggiunto solo quando lo status psichico sarà ria-bilitato, dopo un adeguato percorso terapeutico.

Gli psicologi e gli assistenti sociali si occupano anche di effettuare le visite di controllo nelle case con la finalità di raccogliere informazioni riguardo le condizioni di vita ed economiche della famiglia, le interazioni tra i membri della famiglia e il vicinato, e altre indicazioni utili. Queste informazioni sono essenziali al fine di progettare un inter-vento che sia il più possibile adeguato per la situazione di

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quel determinato bambino.

I laboratori artistici, effettuati nel weekend, sono uno degli aspetti più affascinanti del progetto. Essi hanno l’obiettivo di favorire la socializzazione e l’espressione emotiva. I bambini possono mettersi in gioco dal punto di vista della socializzazione tra loro e utilizzare meto-dologie artistiche per trovare nuovi modi di espressione, utile per favorire la loro rielaborazione emotiva ed il senso di autoefficacia. Per alcuni di questi bambini anche solo giocare con i pari in un luogo sicuro è una esperienza completamente nuova!

Il Counselling Center si occupa, infine, in collaborazione con altri enti a partire dalla polizia e la corte federale, di gestire programmi di prevenzione nel territorio distri-buendo materiale informativo, organizzando incontri con le agenzie del territorio (scuole, gruppi di genitori, perso-nale medico).

Le diverse figure professionali, anche quelle che non hanno un rapporto diretto con il bambino, lavorano tutte insieme per il benessere del bambino e conoscono la sua storia e la sua situazione. Diverse figure professio-nali possono così fornire il proprio contributo da differenti punti di vista. La passione e la dedizione al lavoro degli operatori del Counselling Center è stupefacente. Pas-sione che va di pari passo con la competenza. Il Sole

si occupa direttamente di garantire questa competenza organizzando numerosi training di aggiornamento. Questi training, e un costante monitoraggio dell’efficacia dell’in-tervento proposto, sono garantiti grazie alla collaborazio-ne con l’Università di Milano-Bicocca.

Nel corso di questi anni più di 500 bambini hanno potuto beneficiare di questo aiuto grazie ai sostegni a distanza. Il sostegno a distanza del progetto “Fiori che rinascono” è diverso da quello fornito da altri progetti. Mentre negli altri progetti il sostegno è legato a un singolo bambi-no che viene accompagnato nel tempo in questo caso il sostenitore è parte attiva di un progetto di riabilitazione e cura che, come abbiamo visto, va molto al di là del puro sostegno economico. Come ogni progetto di cura ha come obiettivo la riabilitazione del paziente e il suo reinserimento nella società. Tale percorso ha durata va-ria per ogni bambino a seconda della gravità del trauma subito, dell’età del bambino e delle condizioni familiari. Il sostenitore partecipa a questo processo di cura e, quan-do il bambino è considerato riabilitato e le sue condizioni psichiche sono migliorate, avrà la possibilità di fornire il proprio aiuto ad un altro bambino bisognoso. Il turn over dei bambini è quindi in questo caso un indice di successo del progetto e lo stesso sostenitore avrà l’opportunità nel tempo di permettere a molti bambini di entrare nel pro-getto, di aiutarli a riscrivere con noi le loro storie.

MARIA SPINELLI

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La “Maison du Soleil” in Benin, nasce nel 2010.gra-zie alla collaborazione dell’Istituto delle Suore di Maria Ausiliatrice e la nostra Associazione, suppor-

tata dalla donazione della Fondazione Prima Spes.

Il Progetto che stiamo realizzando “ Sogni da riaccen-dere” è rivolto, come il “Progetto Fiori che Rinascono” in Etiopia, ai minori vittime di abuso e violenza.Stiamo seguendo a Cotonou (seconda città più importante del Benin) 100 bambini che hanno subito violenze sia in am-bito famigliare che all’esterno.

Questi minori sono in gran parte bambini di strada che vengono abbandonati a sé stessi nell’immenso mercato aperto di Danthokpa (il più grande di tutta l’Africa) a Co-

tonou e che quindi sono facili vittime di individui senza scrupoli.

Le violazioni dei diritti dei minori in Benin sono frequenti sia per la diffusa condizioni di povertà, sia per una scarsa considerazione della tutela dell’infanzia, non solo abusa-ta ma spesso maltrattata e trattata in modo disumano. Infatti oltre all’abuso fisico assistiamo anche allo sfrutta-mento del lavoro minorile presso famiglie che li conside-rano schiavi. Questo fenomeno si chiama enfants placés.In questi contesti di famiglie benestanti e quindi “al di sopra di ogni sospetto”, le bambine vengono spesso trat-tate come “giocattolo sessuale” dai padroni e dai loro figli e una volta che sono state abusate vengono vendute e avviate alla prostituzione.

SOGNI DA RIACCENDEREanche in Benin è necessario aiutare i minori abusati

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Il Progetto Sogni da Riaccendere intende promuovere una rete di servizi completa per il sostegno e la riabili-tazione dei minori vittime di stupro e per la prevenzione dell’abuso sessuale attraverso quattro binari di interven-to:

• Riabilitazione: provvedere ai bisogni e alle necessità delle vittime di violenze sessuali. Fornire alle vittime un servizio medico, psicologico, legale e sociale in modo da permettere loro di ristabilirsi e di reinte-grarsi nella società.

• Prevenzione: mobilitazione della comunità e delle famiglie, non solo verso la condanna della violenza sessuale, ma anche nell’azione individuale e collet-tiva, per proteggere i diritti dei bambini e minimizza-re le occasioni di esposizione al rischio di violenza.

• Protezione: applicare in modo rigoroso le legge e condannare questi atti.

• Accoglienza: garantire alle vittime di violenza un luogo sicuro in cui vivere. Per questo motivo “sogni da riaccendere” prevede la gestione di una Casa Famiglia, la “Maison du Soleil”, per l’accoglienza di ragazze madri vittime di abuso.

E’ possibile sostenere il progetto sia tramite offerta libera che attraverso lo strumento del Sostegno a Distanza.

Per avere maggiori dettagli visitate il nostro sito www.ilsole.org oppure chiamateci, come sempre, in orario di ufficio.

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UN PICCOLO GRANDE REGALOper un Natale più ricco

Anche quest’anno il Natale si sta avvicinando velocemente. In quest’occasione perché non pensare di fare o farti un regalo diverso? Regalati o regala un sostegno a distanza diverso! Con un contributo minimo di 50 euro all’anno potrai cambiare la vita a tanti bambini.

Il volto di un bambino come questo, è il volto a cui ti affezionerai, ma in realtà dietro a questi occhi aperti sulla vita si nascondono gli occhi di tanti altri bambini come lui, perché con il tuo aiuto sosterrai un progetto, del quale saranno beneficiari diversi bambini, così li aiuterai a raggiungere una vita più degna di essere chiamata con questo nome, la vita a cui tutti i bambini avrebbero diritto.

Proviamo insieme ad aprire i nostri orizzonti, proviamo insieme ad aiutare intere comunità a preparare il loro futuro!

Oltre alla foto del bambino che sarà il testimone di questo progetto e la sua storia, riceverai aggiornamenti una volta l’anno sul procedere del progetto stesso.

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UN AIUTO E’ SEMPRE GRANDEe in gruppo è ancora più bello

Cari sostenitori,

sappiamo che alcuni di voi si vedono costretti ad interrompere, con dispiacere, il loro sostegno a distanza per via della odierna situazione economica di molte famiglie italiane.

Noi abbiamo molto a cuore sia la sorte dei nostri bambini che il rapporto che si è creato con il sostenitore, pertanto vogliamo farvi una proposta. Perché non pensare di condividere il proprio SaD con altre persone? Potete creare un gruppo di amici, parenti conoscenti oppure un gruppo sportivo, una classe e dividervi l’impegno di continuare a sostenere il bambino che avete fino ad ora aiutato. Titolare del Sad sarà la persona da voi designata ma, se ci invie-rete l’indirizzo e-mail anche degli altri componenti del gruppo, le notizie sul bambino le invieremo anche a loro. Per favorirvi ulteriormente l’importo potrà essere versato anche mensilmente.

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IL SOSTEGNO A DISTANZA RAVVICINATAIl sostegno a distanza ravvicinata è una filosofia di intervento innovativa che permette di ravvicinare la distanza tra i sostenitori, l’Associazione e i beneficiari. L’Associazione vuole essere un tramite, un mezzo, uno strumento per garantire ai bambini il pieno supporto dei propri sostenitori. Più è diretto il rapporto tra sostenitori e beneficiari più è ravvicinata la distanza tra i due attori coinvolti. L’Associazione contribuisce con la propria esperienza, profes-sionalità, trasparenza e conoscenza nell’indicare la strada giusta per far sì che gli esponenti di due mondi lontani possano comunicare, interagire, confrontarsi al fine di intraprendere un percorso di vita comune e condiviso.

Cognome ……….……………………… Nome …………………..……………………………………

Denominazione (nel caso di un’azienda, ente o gruppo) ………………………………………………………

Codice fiscale o Partita Iva ……………………………………………………

Data di nascita ……….…….………… Professione …………………………………………………….

Indirizzo …………………………………………………………………………………………….……

Cap ……………… Città ………………………………………………………….. Prov. ………………

Tel. ………………………………………… Cell. ………………………………………………..……

E-mail……………………………………………………………………………………………………

Intendo attivare N° ……. sostegno/ i a distanza nel seguente Paese:

- Etiopia - India

- Etiopia – progetto Fiori che rinascono, bambini vittime di violenza sessuale

Quota:- Annuale (Euro 300) - Due rate semestrali di 150 euro - Quattro rate trimestrali di 75 euro

Per sostenere un bambino vittima di violenza sessuale inserito nel progetto Fiori che rinascono:- Annuale (Euro 516) - Due rate semestrali di 258 euro

È possibile versare la quota a copertura del sostegno a distanza tramite:- Bonifico bancario: Cassa Rurale ed Artigiana di Cantù – IBAN IT71Q0843010900 000000260452- Conto corrente postale N. 11751229 intestato a: Il Sole Ong Onlus- Rid bancario compilando l’apposito modulo, scaricabile dal sito www.ilsole.org/come-sostenerci/ridiamo-fiducia-ai-nostri-bambiniTutti i versamenti sono da intestare a Il Sole Ong Onlus, specificando nella causale il Paese del sostegno, esempio: “Sad Etiopia”.

DATA ………………….. FIRMA ………………………………...............

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Le persone fisiche e giuridiche possono dedurre o detrarre gli importi delle donazioni a favore de Il Sole Ong Onlus ai sensi del D. lgs 460/97, Art. 13.

La presente scheda compilata e firmata, può essere inviata, con allegata copia della ricevuta del versamento o del bonifico:

- via e-mail all’indirizzo: [email protected] - via posta all’indirizzo:Il Sole OnlusViale Rimembranze 4521047 Saronno (VA)

INFORMATIVA AGLI UTENTI(Ai sensi dell’Art.13 del D.Lgs. 196/2003 - Codice in materia di protezione dei dati personali)

Titolare del trattamento è l’Associazione Il Sole Onlus, con Sede legale c/o Studio Dott.ssa Trombetta, via Giovane Italia 13, 22100 Como, che li utilizzerà per le operazioni connesse ai sostegni a distanza per l’invio della newsletter, del giornalino e del materiale informativo relativo ai progetti e alle campagne di raccolta fondi.I dati saranno trattati esclusivamente dal personale dell’Associazione, non saranno comunicati, né diffusi, né trasferiti ad altri.L’utente potrà esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D. Lgs. 196/2003 nei limiti e alle condizioni previste dagli artt. 8, 9 e 10 del citato decreto legislativo rivolgendosi al Titolare del trattamento.

Acconsento al trattamento dei dati personali:

- Si - No

Firma ………………………………………………………….

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5) confezione buon appe-tito Penne integrali Bio 500g - Riso Indica dall’Ecuador - 500g - Lenticchie essicate dall’Ecuador 500g - Zucchine ghiotte Bio 180g Madre Terra - Sugo di melanzane Bio 190g Madre Terra - Pepe nero in grani Sri Lanka 30g - Curcuma macinata Sri Lanka 20g. In scatola natalizia - contributo minimo 18,00 EURO4) tris di vini libera ter-ra Centopassi bianco - Centopassi rosso - Centopassi bianco catarratto. Lt.0,75 x 3 - contributo minimo 24,00 EURO

KIt REGALo equo e solidali

1) assaggi di riso dal mondo Riso Indica - Riso Basmati - Riso Thai nero - Riso Thai rosso - Riso integrale. Provenienza India, Equador, Thailandia. gr. 200 x 5 - contributo minimo 12,00 EURO2) bIO CAFFE’ IN LATTA caffe 100% arabica. P.rovenienza Etiopia e America Latina gr. 250 - con-tributo minimo 10,00 EURO3) tris di cAFFE’ Miscela Classica - Miscela Intensa - Miscela Pregiata. Provenienza America Latina, America Centrale, Africa, Asia. gr. 250 x 3 - contributo minimo 15,00 EURO4) Selezione di tè Tè nero al mango e vaniglia - Tè nero all’arancio e spezie - Tè nero ai frutti di bo-sco - Tè verde alla menta. Provenienza India. 10 filtri per 4 - contributo minimo 10,00 EURO sold out

Natale 2013

Informazioni e prenotazioni: Il Sole Onlus - Tel. 02.96193238 - [email protected]

I contributi saranno destinati a “Fiori che rinascono” in Etiopia, per la tutela di bambini vittime di violenza sessuale

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IL NUOVO SITOuno strumento al passo con i tempi

Da qualche settimana è online il nuovo sito, uno strumento indispensabile che permette di rag-giungere gli amici dell’Associazione velocemente

e con costi molto ridotti.

Abbiamo voluto creare uno strumento con il massimo della flessibilità possibile e molto facile da aggiornare.

In questo modo potremo fornire sempre un quadro ag-giornato della situazione per fare in modo che sia effica-cemente perseguito l’obiettivo della massima trasparen-za nei confronti di tutti coloro che ci danno fiducia.

Allo stesso tempo vorremmo che il nostro sito diventas-se un punto di riferimento per tutti coloro che sono alla ricerca di notizie ed informazioni su tutta la vastissima parte di mondo sistematicamente ignorata dai mezzi di informazione. A questo scopo ci impegneremo nella ricerca sistematica e puntuale di tutte quelle notizie che, a nostro parere, forniscono gli spunti necessari

per comprendere la realtà nella quale vivono la maggior parte degli abitanti del nostro pianeta.

Ma naturalmente il flusso di notizie non deve essere in una sola direzione, ci auguriamo che anche i nostri so-stenitori ci mandino commenti, pareri, segnalazioni, tut-to quanto può essere utile per approfondire i problemi dell’infanzia e delle famiglie nel mondo meno fortunato.

Sul sito trovate anche tutti i riferimenti per poter contri-buire con le vostre donazioni, piccole o grandi, ai nostri progetti ed a sostenere i nostri bambini.

Dal sito è possibile anche accedere ai nostri profili sui principali Social Networks: Facebook, Twitter, Flickr (foto) e YouTube (filmati), scriverci una mail sull’argomento che vi interessa o accedere ai siti dei nostri amici e sostenitori.

Ci vediamo online

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ITALIA

Lavoro nei campi: crescono gli stranieriA fronte dei dati che registrano un più 3% di lavoratori stranieri in agricoltura, secondo Coldiretti molti distretti di eccellenza del made in Italy possono sopravvivere proprio grazie al lavoro degli immigrati14 Novembre 2013

L’agricoltura italiana parla sempre più straniero. E non perché grandi marchi dell’agroalimentare sono controllati da società non italiane, ma perché il numero dei lavoratori stranieri, nonostante la crisi, aumenta. Il dato emerge da un’analisi della Coldiretti che ha collaborato alla realizzazione del Dossier statistico immigrazione, presentato ufficial-mente ieri. Coldiretti sottolinea che: «Sono 320mila gli immigrati, provenienti da ben 168 diverse nazioni, che hanno trovato regolarmente lavoro in agricoltura nel 2012, con un aumento del 3% rispetto all’anno precedente». Dato che fa dire che l’apporto del lavoro straniero diventa sempre più determinante in agricoltura, rappresentando il il 25% del totale delle giornate di lavoro dichiarate dalle aziende, che risultano di poco sotto quota 25,6 milioni, con una leggera riduzione rispetto all’anno precedente.

I lavoratori immigrati impegnati in agricoltura – precisa la Coldiretti - hanno un’età media di 35 anni e mezzo e per ben il 72% sono uomini. I primi 12 Paesi di provenienza rappresentano l’87,2 per cento del totale dei lavoratori stra-nieri (Romania 117.240, India 27.789, Marocco 26.220, Albania 24.624, Polonia 20.423, Bulgaria 15.100, Tunisia 12.445, Slovacchia 9.893, Macedonia 9.235, Senegal 5.738, Moldavia 5.478, Ucraina 4.722).A livello provinciale le prime 15 province per numero di lavoratori stranieri assorbono il 50,6 per cento della totalità degli stranieri operanti in agricoltura (Foggia 6,4%, Bolzano 5,7%, Verona 5,3%, Trento 4,2%, Latina 4,0%, Ragusa 4,0%, Cuneo 3,3%, Cosenza 2,8%, Salerno 2,7%, Ravenna 2,6%, Reggio Calabria 2,2%, Forlì-Cesena 2,0%, Matera 1,9%, Brescia 1,8%, Ferrara 1,8%).A ben guardare in queste cifre sono presenti veri e propri distretti produttivi di eccellenza del Made in Italy che – sot-tolinea Coldiretti in una nota - possono sopravvivere solo grazie al lavoro degli immigrati, dalle stalle del nord dove si munge il latte per il Parmigiano Reggiano alla raccolta delle mele della Val di Non, dal pomodoro del meridione alle grandi uve del Piemonte.

Secondo la Coldiretti i lavoratori stranieri contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy alimentare nel mondo su un territorio dove, viene sottolineato «va assicurata la legalità per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che umiliano gli uomini e il proprio lavoro e gettano un’ombra su un settore che ha scelto con decisione la strada dell’at-tenzione alla sicurezza alimentare e ambientale».

Fonte: coldiretti.it

NOTIZIE DAL MONDO

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Il paese che sono io! Fotoritratti che raccontanoÈ promossa da Fondazione Paideia e Museo Nazionale del Cinema di Torino la mostra “Il paese che sono io!”, esposta fino al 6 gennaio alla Mole Antonelliana. Protagonisti 10 bambini incontrati da Paideia in questi anni13 Novembre 2013

Un incontro e un desiderio. Sono questi il punto di origine di un evento sfaccettato che dal 14 novembre, e fino al 6 gennaio 2014 promuovono Fondazione Paideia onlus e Museo Nazionale del Cinema di Torino nel capoluogo piemontese. Stiamo parlando di “Il Paese che sono io!”, una mostra di fotografie, ritratti e parole nata appunto dall’in-contro tra il fotografo Andrea Guermani, l’artista Coco Cano e la scrittrice Anna Peiretti in occasione del ventennale della Fondazione Paideia, che dal 1993 offre sostegno a famiglie e bambini in difficoltà.Il desiderio da cui è nato il progetto è quello di raccontare le storie di dieci bambini che Paideia ha incontrato in questi anni. Bambini che, al di là delle loro difficoltà e dei loro bisogni specifici, hanno sogni, desideri e passioni e che desiderano raccontarsi senza paura e senza pregiudizi.Così, con l’aiuto di Coco Cano, i piccoli protagonisti hanno realizzato il loro ritratto davanti allo specchio; con Anna Peiretti si sono raccontati, ispirando i paesi della storia; Andrea Guermani li ha colti in uno scatto mentre erano intenti a fare quel che più amano.Il risultato sono dieci pannelli di grande formato che raccontano le storie di altrettanti bambini con l’augurio, dicono a Paideia «che tutti, attraversando il percorso fatto di fotografie, ritratti e parole, possano scoprire che ogni bambino deve essere accolto, perché la sua storia è unica, speciale e irripetibile».La mostra, che è posta sulla cancellata esterna della Mole Antonelliana, simbolo della città di Torino e sede del Mu-seo Nazionale del Cinema, sottolinea inoltre l’impegno di questa istituzione che da anni sta lavorando per diventare una realtà aperta a tutti, punto di riferimento per famiglie e bambini in difficoltà.

Fonte: vita.it

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«I BAMBINI TENUTI IN CONDIZIONI INACCETTABILI»Gli operatori di Terre des Hommes descrivono la situazione in cui vivono i piccoli e le loro famiglie nel Centro di Primo Soccorso di Lampedusa. Sono soprattutto siriani, eritrei, somali. I loro disegni raccontano le realtà terribili da cui provengono. Ma noi li facciamo dormire per terra, in condizioni da animali.

27 Ottobre 2013

«Per i bambini condizioni assolutamente inaccettabili». Un giudizio senza mezzi termini, quello di Federica Giannotta, di Terre des Hommes, appena rientrata da Lampedusa. Federica è responsabile del progetto “Faro”, di assistenza psicologica e psicosociale ai minori stranieri non accompagnati e alle famiglie con bambini.

Terre des Hommes è presente nell’isola dal 2011. «Il Centro di Primo Soccorso», dice, «con una capienza massima di 250 persone, accoglie oggi 800 profughi di cui circa 200 sono bambini piccoli; ci sono state punte di 1000 persone. Si tratta per lo più di nuclei familiari molto numerosi, con quattro o cinque bambini, anche neonati».

- Quali sono le condizioni di accoglienza a Lampedusa?

«Vedere i bambini costretti a dormire per terra, su materassi sporchi e senza lenzuola e coperte, nel freddo della notte isolana, non è più ammissibile. Le mamme ci raccontano che nel cuore della notte si svegliano per il freddo, perché i bambini non riescono a dormire e loro non sanno come fare. Se piove, entra acqua nel tetto e intere stanze si allagano, riducendo ulteriormente lo spazio a disposizione. Molte famiglie sono addirittura costrette ad accamparsi fuori, sulla terra nuda, in mezzo agli alberi, con ripari di fortuna fatti con le coperte termiche usate nel salvataggio. Lì sotto ci sono anche neonati che vengono allattati e fatti dormire all’aperto, in condizioni climatiche ormai non più sopportabili. In sintesi, dopo che le maggiori istituzioni del Paese hanno speso tante parole sulla necessità di

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un’accoglienza diversa per i migranti, l’attuale situazione risulta assolutamente inaccettabile rispetto ai parametri del diritto internazionale umanitario».

- Ci sono persone di quali nazionalità?

«Eritrei, somali, siriani, ghanesi e anche nepalesi. La convivenza tra persone di diverse provenienze non è sempre facile, non mancano le difficoltà di condivisione degli spazi. Va tenuto presente che si tratta di persone, a volte minori soli, psicologicamente fragili, spesso scampate dalla guerra dove magari hanno perso dei familiari. L’altro giorno, un ragazzo eritreo di 12 anni mi ha mostrato un dito completamente nero: era stato torturato da un trafficante in Libia con un ferro rovente perché i genitori tardavano a mandare i soldi. Particolare poi è il caso dei siriani».

- Per i profughi siriani cosa si potrebbe fare?

«Andrebbero ascoltati: non vogliono farsi identificare perché vogliono lasciare l’Italia e andare in Germania, Svezia e Norvegia. In base al Regolamento di Dublino, la polizia prende le loro impronte digitali ma, per questa ragione, non potranno fare domanda di asilo politico in altri Paesi fuorché l’Italia. A livello europeo, va rapidamente proposta una revisione di questa normativa. A livello italiano, chiediamo che siano riconosciuti per quello che sono, profughi di guerra, e ci sia per i siriani la possibilità di chiedere subito la protezione umanitaria, senza aspettare i tempi delle commissioni, e favorendo i ricongiungimenti con i parenti in altri Paesi europei.Nell’immediato, si potrebbe inoltre istituire un canale umanitario per evitare che i ripetano tragedie come quelle recenti nel Mediterraneo».

- Per le condizioni del Centro di Primo Soccorso di Lampedusa cosa si potrebbe fare?

«Con le attuali norme sull’immigrazione, gli sbarchi non sono un’emergenza, ma un flusso continuo prevedibile, era intuitivo che sarebbero continuati. L’accoglienza va strutturata per tempo. È evidente che 250 posti, quando le perso-ne sono lasciate a Lampedusa per una media di 15 giorni, sono insufficienti. Nell’immediato si potrebbe fare molto. Chiediamo che venga riattivato il meccanismo dei trasferimenti dal Centro a strutture d’accoglienze adeguate con priorità assoluta per bambini e famiglie e minori non accompagnati, che la loro permanenza nel Centro sia comunque il più breve possibile, come previsto dalle norme italiane in materia di accoglienza, e che le persone non debbano essere private della libertà personale. Data l’inadeguatezza dell’accoglienza istituzionale, previo accordo con la po-polazione locale, si potrebbero temporaneamente trasferire le famiglie con i bambini nelle strutture turistiche libere di Lampedusa (30.000 posti disponibili praticamente vuoti nella stagione fredda), in attesa del loro tempestivo tra-sferimento in strutture d’accoglienza definitive. Per i minori non accompagnati, si potrebbe invece pensare a famiglie affidatarie anche nelle altre regioni italiane».

- Perché a suo avviso una situazione prevedibile è diventata emergenza?

«Perché fino ad adesso si è affrontata la situazione privilegiando il tema della “sicurezza” (non quella dei migranti però…), rispetto all’accoglienza. Parlo dell’approccio istituzionale, non di quello, molto più umano, degli isolani. I fondi ci sono, ma l’accoglienza è stata progettata con una gestione volutamente al limite. Basti pensare che già due anni fa i tecnici del Ministero fecero il sopralluogo per restaurare i padiglioni del Centro bruciati nel 2011: nonostante fossero stanziati anche i fondi, nulla è stato fatto, continuano a essere inagibili. Tutto è sempre in emergenza: possi-bile che non si riesca ad avere neanche un numero adeguato di coperte?».

Fonte: famigliacristiana.it

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Lampedusa, l’archivio di sommersi e salvati: “Ecco le nostre storie, non dimenticateci”Nasce la piattaforma digitale che raccoglie le voci di una tragedia infinita

28 Ottobre 2013

C’è Zerit, biologo marino eritreo di 28 anni, che in mare ha perso suo fratello e c’è Costantino, che con la sua bar-chetta “Nika” ha salvato 11 disperati e c’è pure Vito, che ne ha tirati su finché la sua barca ha iniziato a ondeggiare e ora i profughi lo chiamano papà. Ci sono i sopravvissuti e i soccorritori, gli africani e gli isolani, uniti dal ricordo di quel nero 3 ottobre, quando quasi quattrocento persone, tra uomini, donne e bambini, sono rimaste inghiottite dalle acque di Lampedusa. E ci sono le loro lettere, il loro pizzini digitali affidati ora alla rete, per dire: «Non provate mai a dimenticarci».

Zerit G. scrive al popolo italiano: «Ho 28 anni e non sono un eroe, voglio che conosciate la mia storia e voglio sapere perché non sono stato invitato al funerale di mio fratello». A raccogliere la sua voce è “Sciabica”, parola di origine araba che significa rete da pesca: una rete gettata tra le storie di chi è rimasto sull’isola, ora che i riflettori si stanno spegnendo.

“Sciabica” è una piattaforma digitale, popolata di racconti e foto: un sorta di archivio della memoria, ideato da Fa-brica (centro di ricerca sulla comunicazione, fondato nel 1994 e aperto a giovani creativi di tutto il mondo) e affidato a Internet.

«Sono stati gli italiani ad aver costruito la mia città, Elabaned, in Eritrea — scrive Zerit sul suo pizzino — sono il primo migrante della mia famiglia e sono un biologo marino. Volevo passare la vita a parlare coi pesci». Dopo essersi laureato in scienze marine, Zerit decide di raggiungere suo fratello Samuel in Sudan. Con lui prosegue per la Libia e poi da Tripoli fa il grande salto: sfida il mare per raggiungere le coste italiane. Samuel muore tra le acque il 3 ottobre a un’ora di nuoto dalla costa, Zerit tocca la terraferma a Lampedusa.

Il suo ultimo dolore? Non aver potuto piangere i funerali del fratello: «Quando ho capito che non potevamo andare ad Agrigento e che ci sarebbero stati degli sconosciuti a gettare un fiore su bare di legno pregiato, mentre i corpi erano rimasti incastrati nel legno marcio del barcone — scrive Zerit sul suo pizzino raccolto da Michela Iaccarino di Fa-brica — ho capito che lui stava morendo un’altra volta. Quando l’ora di ricordare la tragedia è arrivata, sono andato verso il mare. E al mare ho chiesto di Samuel, aspettando che almeno la sua anima quel giorno tornasse indietro».

Vito Fiorino ha 64 anni. È nato a Bari ed è cresciuto a Milano. A Lampedusa è venuto la prima volta in vacanza nel 1990. Il 3 ottobre 2013 ha salvato 47 persone: «Se le Nazioni sono davvero Unite come dicono – scrive – devono fare qualcosa adesso. Io ho fatto quello che andava fatto. Lo rifarei in ogni momento, in modo ancora più forte. Ogni giorno i 47 ragazzi mi vengono a trovare. Arrivano dove c’è il bar di mia figlia e mi dicono “ciao, papà”».

Costantino Baratta è nato a Trani nel 1957. Appena si è innamorato di sua moglie, si è innamorato anche della sua isola ed è rimasto a Lampedusa. Il 3 ottobre ha salvato 11 migranti: «Anche quando non ce la faremo più, quando su quest’isola non rimarrà più niente, noi continueremo ad aiutare questa gente. Ma se ci date un’altra medaglia, sarò io il primo a rifiutarla».

Poi c’è don Mussie Zerai, un prete cristiano nato in Eritrea. In Italia ha fondato l’associazione Habeshia e aiuta i profughi che riescono a raggiungere l’Europa. Mussie indirizza il suo pizzino alle autorità italiane: «Smettetela di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi». Il suo messaggio su “Sciabica” non morirà: Fabrica è alla ricerca di un’associazione culturale lampedusana a cui affidare il suo incubatore digitale, affinché nessuno possa un giorno dire «non ricordo».

Fonte: repubblica.it

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Il SAD si rinunci ai bambini-escaMolto spesso le campagne promozionali del sostegno a distanza puntano su immagini di bam-bini. È un modo efficace per far capire il bisogno che c’è, ma a volte quelle immagini non sono rispettose della privacy e della dignità dei bambini ritratti. Un trattamento diverso dal Nord al Sud del mondo, che genera un paradosso11 Novembre 2013

Un bambino funziona sempre alla grande. Soprattutto a Natale. Intenerisce e impietosisce. Fa mettere con più facilità una mano sul cuore (e pure al portafoglio). Con l’avvicinarsi delle feste, si intensificano gli appelli alla generosità degli italiani, utilizzando le più diverse tecniche di comunicazione. Non sempre però queste comunicazioni sono coerenti con i valori umani e sociali che esse vogliono trasmettere. Per questo ForumSad manda oggi una lettera aperta a tutte le organizzazioni che si occupano di sostegno a distanza, invitandole a vigilare perché nelle campagne promozionali che si stanno realizzando le esigenze economiche non prevalgano sulla correttezza e la completezza delle informazioni e sui diritti etici, di privacy e di salvaguardia della dignità delle persone.«Se in prima pagina ci fossero i nostri figli come reagiremmo?», si chiede Vincenzo Curatola, presidente di Fo-rumSaD. «Quando usiamo le foto dei bambini sostenuti dobbiamo ricordarci delle stesse premure che usiamo quan-do in Italia vogliamo fotografare bambini di altri a scuola, in giro e ovunque. Deve valere lo stesso principio, altrimenti noi organizzazioni peroreremmo una vera e propria ingiustizia, che risulterebbe un boomerang contro ciò che con i progetti di solidarietà professiamo: rispetto per tutti i bambini. Tutti».Già lo scorso ottobre, in occasione di un seminario ForumSaD, il Direttore del Dipartimento per il Terzo Settore del Ministero delle Politiche sociali, Danilo Festa aveva affermato che «la privacy è un diritto mondiale, ricordiamocelo. Basta foto di bambini usate per tutto e ovunque per le campagne di comunicazione e raccolta fondi. Le nostre Linee Guida su questo sono chiare». Le Linee Guida per il Sostegno a Distanza di minori e giovani risalgono al 2010 e già prevedono prcisi comportamenti in materia di privacy dei bambini sostenuti a distanza, ma anche di quelli fotografati come “testimonial”, la cui immagine è usata per promuovere il concetto stesso di sostegno a distanza.«Non diciamo no all’uso delle immagini», precisa Curatola, «ma ricordiamo che se un bambino italiano è protagoni-sta di una pubblicità i suoi genitori lo sanno, sapranno sicuramente come viene utilizzata, da chi e per cosa. Basta poco per rispettare queste regole anche per il sostegno a distanza. Basta aderire alle “Linee Guida per il Sostegno a Distanza di minori e giovani”, che non sono per nulla restrittive e complicate. Sono il giusto equilibrio tra il bisogno di comunicare di un’organizzazione e il rispetto e la sicurezza dei minori mostrati».

Fonte: vita.it

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Baby-prostitute a Roma, indagati i clientiLe ragazze quattordicenni. Arrestati cinque italiani30 Ottobre 2013

Un giro di clienti facoltosi, alcuni professionisti o commercianti, comunque ricchi e senza scrupoli che potevano pa-gare un incontro con una ragazzina di 14 anni fino a 500 euro e offrire 5000 euro per un week end. Anche su questo indagano i carabinieri che hanno arrestato cinque persone per lo sfruttamento di due ragazzine di 14 e 15 anni fatte prostituire in un appartamento a Roma. Decine i clienti, ricchi, che incontravano le due ragazzine nell’appartamento ai Parioli ma anche in altre case: è stato accertato che gli incontri nell’appartamento dei Parioli avvenivano da due settimane mentre prima erano stati usati altri appartamenti in altre zone. Finora sono stati denunciati cinque clienti, colti in flagranza: tra i 30 e i 35 anni, tutti hanno detto di non sapere che le ragazzine fossero minorenni.Tutti e cinque - già identificati - sono indagati per prostituzione minorile. L’iscrizione è scaturita proprio dal fatto che le due ragaz-zine hanno 14 e 15 anni. La legge punisce con la reclusione da 1 a 6 anni coloro che hanno rapporti sessuali con minori in cambio di soldi o di utilità. I 5 clienti indagati, e già denunciati, hanno un’età compresa tra i 30 e i 35 anni.Le indagini sono cominciate ad ottobre ma le ragazze venivano fatte prostituire dal maggio scorso. Sono due liceali compagne di classe le due ragazze fatte prostituire a Roma da un gruppo di cinque persone che sono state arrestate dai carabinieri, secondo quanto si apprende. Le giovani venivano pagate fino a 300 euro per le loro prestazioni ses-suali. Le minori di mattina andavano a scuola e il pomeriggio si prostituivano, utilizzando i loro guadagni anche per acquistare droga per uso personale.La 15/enne è figlia di professionisti e da qualche tempo era andata via da casa e viveva da sola. Sua madre ha contattato i carabinieri e ha raccontato il comportamento strano della figlia.La madre della 14/enne, invece, arrestata perché intascava una parte dei compensi per le prestazioni sessuali della figlia, lavorava come barista. Le due ragazze, che frequentano un liceo romano, erano state adescate nel maggio scorso sul social network ‘Bakeca Incontri’, e non su Facebook, come era stato reso noto in un primo momento.Fonte: ansa.it

Cittadinanza ai figli di immigrati, italiani ‘’molto d’accordo’’Indagine Ipsos: il 64% degli intervistati valuta positivamente la proposta di concedere la cittadi-nanza ai nati in Italia; il 61% ritiene che siano una risorsa contro il 28% che vede gli immigrati come una minaccia. Kyenge: ‘’Sorpresa e felice di questi risultati’’12 Novembre 2013

Gli immigrati? Sono una risorsa, è giusto concedere ai loro figli nati in Italia la cittadinanza, hanno arricchito la nostra cultura facendoci conoscere i loro cibi e tradizioni. È l’opinione degli italiani intervistati da Ipsos. I dati sono stati pre-sentati oggi durante il lancio milanese della campagna “Il lavoro è cittadinanza”. Il 61% ritiene che sono una risorsa contro il 28% che vede gli immigrati come una minaccia. Il 64% è “molto d’accordo” con la proposta di concedere la cittadinanza ai figli nati in Italia, il 15% “abbastanza” e il 20% “poco” o “per niente”. Infine, il 46% pensa che sia positivo che gli immigrati “ci abbiano fatto conoscere nuovi cibi, culture e comportamenti”, per il 26% è “abbastanza positivo” e per il 27% lo è poco o per niente. “Sono rimasta sorpresa e felice di questi risultati -ha detto la ministra per l’integrazione Cecile Kyenge-. È un’Italia diversa da quella che spesso descrivono i mass media. È aperta all’ac-coglienza e non ha paura dell’immigrazione”. Secondo la ministra non mancano però i rischi. “Per produrre cittadinanza il lavoro deve essere vero. Quello nero espone al pericolo, crea sfruttamento. Ognuno di noi deve essere agente di legalità. In tempi di crisi è messa a ri-schio la cittadinanza di tutti, ogni volta che viene danneggiata una delle comunità presenti in Italia”. “Si è creata una pericolosa competizione al ribasso -ha aggiunto-, ora certi lavori sono tornati appetibili per tutti, anche per gli italiani. Ma un lavoro deve creare dignità. Dobbiamo impegnarci a dare più diritti ai lavoratori di ogni etnia”.La campagna “Il lavoro è cittadinanza”, promossa dal Ministero dell’Intregrazione e dall’Inps si propone di comuni-care il positivo apporto dei lavoratori migranti all’Italia. Per questo è stato realizzato un apposito spot che sottolinea come un lavoratore migrante non sia un ospite ma un lavoratore con diritti pari agli altri, “un lavoratore che produce reddito per sé e una risorsa per tutto il paese”.Fonte: redattoresociale.it

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Meno ingressi per lavoro, ma stranieri in lieve aumento: sono 5,18 milioniDossier statistico 2013. La crescita lo scorso anno è stata particolarmente contenuta per gli effetti della crisi economica: +8,2 per cento tra i residenti +3,5 per cento tra i soggiornanti non comunitari. Incremento anche per i flussi di ritorno, per necessità più che per scelta

13 Novembre 2013

Nonostante la crisi aumentano gli stranieri nel nostro paese, ma si tratta di una crescita contenuta che risente della crisi economica. Diminuiscono infatti gli ingressi per lavoro e aumentano i flussi di ritorno, per necessità più che per scelta. In totale nel 2012 gli immigrati regolari in Italia sono 5,186 milioni (175mila in più rispetto all’anno preceden-te). I dati sono contenuti nel “Dossier statistico immigrazione 2013” realizzato da Idos per Unar e presentato oggi a Roma. Il rapporto per la prima volta dopo 22 anni esce dall’area di Caritas italiana, che con Fondazione Migrantes presenterà il suo rapporto sull’immigrazione il 30 gennaio gennaio 2014. Nello specifico, il dossier sottolinea che “l’Italia si è affermata come rilevante area di flussi soprattutto negli anni Duemila, ma anche nell’attuale periodo di crisi si continua a registrare un aumento dell’area straniera”; da poco più di tre milioni di residenti stranieri nel 2007 si è passati a 4.387.721 nel 2012 (dato Istat sui cittadini stranieri iscritti all’anagrafe e già censiti), pari al 7,4 per cento della popolazione complessiva. Nello stesso periodo i soggiornanti non comunitari sono passati da 2,06 milioni a 3.764.236 e, secondo la stima del Dossier la presenza regolare com-plessiva è passata da 3.987.000 a 5.186.000 (stima che rispetto al dato Istat prende in considerazione anche gli stranieri non ancora iscritti all’anagrafe), non solo per l’ingresso di nuovi lavoratori ma anche per via dei nuovi nati direttamente in Italia e dei ricongiungimenti familiari. Il dossier parla di un aumento “particolarmente contenuto” nel 2012: +8,2 per cento tra i residenti e di 3,5 per cento tra i soggiornanti non comunitari.Per quanto riguarda la provenienza, prevale l’Europa al 50,3 per cento (nel 27,4 per cento dei casi si tratta di cittadini comunitari) seguita dall’Africa (22,2 per cento), dall’Asia (19,4 per cento),dall’America (8 per cento) e dall’Oceania (0,1 per cento). Tra i non comunitari al primo posto ci sono gli immigrati provenienti dal Marocco (513mila soggiornanti), seguiti da Albania (498mila), Cina (305mila), Ucraina (225mila), Filippine (158mila), India (150mila) e Moldova (149mila). Tra i comunitari, invece, la prima collettività è quella romena (circa 1 milione).Tra le aree di residenza continuano a prevalere le regioni del Nord (61,8 per cento) e del Centro (24,2 per cento), mentre le province di Milano e Roma, da sole, detengono un sesto dei residenti (16,9 per cento).Secondo il dossier all’origine del calo dei flussi in entrata c’è la crisi economica. Le quote d’ingresso per lavoratori non comunitari nel 2012, al netto degli stagionali, sono state molto ridotte: propriamente dall’estero sono state 2.000 per lavoratori autonomi, 100 per lavoratori di discendenza italiana, mentre 11.750 sono state le autorizzazioni alla conversione di titoli di soggiorno rilasciati per motivi diversi dal lavoro. Di conseguenza, sono diminuiti gli ingressi per lavoro e i visti rilasciati per motivi di lavoro subordinato sono scesi da 90.483 nel 2011 a 52.328 nel 2012 (in entrambi i casi meno che nel periodo precrisi). Naturalmente è rimasto libero l’ingresso per gli altamente qualificati o le categorie fuori quota, come gli infermieri (Carta Blu Ue e art. 27 T.U. Immigrazione). Il dossier ricorda, inoltre che alla fine del 2012, a due anni di distanza dall’ultimo provvedimento del genere, si è svolta una regolarizzazione in favore dei lavoratori non comunitari, in occasione della quale i datori di lavoro hanno presentato 135mila domande, meno della metà rispetto al 2009 (295mila).Risultano in crescita anche i flussi di ritorno, per necessità più che per scelta, come effetto della crisi e delle ridotte capacità occupazionali del paese. Complessivamente, nel 2012 i permessi di soggiorno scaduti senza essere rin-novati sono stati 180mila, di cui ben oltre la metà per lavoro e per famiglia: un numero consistente, ma diminuito rispetto al 2011.

Fonte: redattoresociale.it

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Il mio nome è SWEETIE: nuovo report di Terre Des Hommes sulla pedopor-nografia onlineTerre des Hommes Olanda lancia l’allarme su una nuova forma di sfruttamento minorile ancora poco nota, ma che si sta diffondendo molto rapidamente: il “turismo sessuale” minorile tramite webcam. Nelle sole Filippine sono già decine di migliaia i bambini vittime di questo fenomeno. In meno di due mesi e mezzo i ricercatori di Terre des Hommes sono riusciti a identificare oltre mille adulti pronti a pagare bambini nei paesi in via di sviluppo per prestazioni sessuali davanti alla webcam grazie alla simulazione di una bambina virtuale di 10 anni filippina, di nome Sweetie. Le registrazioni video delle conversazioni sono state consegnate oggi all’Interpol dall’organizzazione che fa parte della Federazione internazionale Terre des Hommes.

“Quella di oggi è la dimostrazione di come pedofili e sfruttatori di bambini possano agire indisturbati nella rete, ma anche di come sia facile rintracciarli”, dichiara Raffaele K. Salinari, Presidente di Terre des Hommes. “I ricercatori hanno utilizzato una tecnologia innovativa per creare Sweetie, personaggio virtuale che rappre-senta una bambina filippina di 10 anni. Presente in varie chat pubbliche, in poco tempo Sweetie è stata abbordata da oltre 20.000 utenti da tutto il mondo che le chiedevano prestazioni sessuali online. Interagendo con gli adulti che abbordavano la

bambina, i ricercatori hanno raccolto varie informazioni dai social network per scoprire le loro vere identità. A segui-to di questo studio Terre des Hommes lancia oggi una petizione internazionale per fare pressione sui governi perchè mettano in atto delle politiche investigative proattive.

Nonostante il fatto che il “turismo sessuale” minorile tramite webcam sia proibito dalle leggi della maggior parte dei paesi, solo 6 pedofili online sono stati messi in prigione per questo crimine. “Non è un problema di mancanza di leg-gi”, afferma Hans Guyt, responsabile della campagna di Terre des Hommes Olanda. “Le Nazioni Unite hanno stilato delle norme che rendono illegale questo tipo di violenza sui bambini quasi in ogni parte del mondo. Ma il problema maggiore è che la polizia non intraprende delle azioni finchè le vittime non sporgono denuncia. Ma, com’è ovvio, i bambini non riescono quasi mai a denunciare questo tipo di crimini, perchè di solito provengono da famiglie molto povere e vengono costretti dagli adulti a prostituirsi online. A volte dovrebbero testimoniare contro la loro stessa famiglia, cosa che è quasi impossibile per un bambino”. Terre des Hommes richiede che i governi di tutto il mondo adottino delle politiche proattive d’investigazione che diano mandato alla polizia di vigilare sugli hotspot internet pubblici dove avvengono ogni giorno questo tipo di abusi. Internet è una rete libera, ma deve rispettare la legge”.Per descrivere il processo d’identificazione dei pedofili online è stato realizzato un breve documentario visibile a questa pagina: http://www.youtube.com/sweetie

Altri studi di Terre des Hommes mostrano come il “turismo sessuale” minorile tramite webcam è in grado di deva-stare la psiche delle vittime in modo analogo di un abuso fisico. I bambini coinvolti soffrono di mancanza d’autostima e depressione, mostrano sintomi di stress post-traumatico. Spesso sentono vergogna e hanno sensi di colpa per ciò che fanno; hanno comportamenti autodistruttivi, usano droghe e/o alcool per rilassarsi e trovare una via di fuga dai loro problemi.Il numero di bambini sfruttati attraverso le webcam è purtroppo destinato a salire, dato che questo fenomeno sod-disfa la domanda globale di prestazioni sessuali online con bambini. Inoltre il crescente accesso a internet a basso prezzo nei paesi in via di sviluppo renderà sempre più facile questo tipo di sfruttamento. Secondo le Nazioni Unite e l’FBI ad ogni ora del giorno ci sono almeno 750.000 pedofili connessi on line.

Assieme ad Avaaz.org, Terre des Hommes Olanda lancia oggi una petizione online per fare pressione sui governi di tutto il mondo e migliorare la lotta contro il “turismo sessuale” minorile tramite webcam. Per firmare vai alla pagina http://www.youtube.com/sweetie

Fonte: terredeshommes.it

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Trenta milioni di schiavi nel mondoIl rapporto di Walk Free Foundation stima il numero di persone sottoposte a regimi coercitivi: non solo lavoro, ma anche matrimoni precoci e sfruttamento commerciale e sessuale. Il Paese dove il fenomeno è maggiore in assoluto è l’India, quello dove il tasso è più alto la Mauritania. Non mancano i Paesi più “ricchi”

5 Novembre 2013

La schiavitù è un problema globale tutt’altro che superato. Lavoro forzato, matrimoni precoci e sfruttamento com-merciale e sessuale di minori sono solo alcune fra le forme moderne che la schiavitù assume. WFF - Walk Free Foundation, movimento globale contro la schiavitù, ha tentato di offrire una mappatura della situazione globale pubblicando il primo Indice globale della schiavitù. Secondo il rapporto, sono quasi 30 milioni le persone schiavizzate nel mondo. Combinando tre fattori -il numero di persone schiavizzate, il matrimonio precoce e il traffico di esseri umani– il rapporto stila una classifica mondiale dei 162 Paesi analizzati per poi suggerire ai governi degli Stati interessati quali possono essere le azioni efficaci per combattere la schiavitù moderna. Se il primo dei tre fattori è un dato inedito, e cioè la percentuale di persone schiavizzate stimata direttamente da WFF, gli altri due risultano dai dati sui matrimoni precoci forniti dall’Unicef -Fondo delle nazioni unite per l’infanzia- e dal rapporto statunitense Trafficking in Person sulla tratta degli esseri umani.Secondo le stime della Walk Free Foundation, il Paese più schiavizzato è laMauritania, regione dell’Africa occidentale in cui la schiavitù ereditaria è profondamente radicata. In questa regione, circa 150mila persone subiscono lo sfrut-tamento, su una popolazione totale di appena 3,8 milioni. Segue Haiti, nazione caraibica con più di 200mila schiavi. A incidere sul numero complessivo è, in questo Stato, l’alta diffusione di schiavitù infantile e del traffico di esseri umani.In Pakistan, Paese che occupa il secondo posto nella classifica globale, più di 2 milioni di persone vivono in condi-zioni di sfruttamento. Come si legge nel rapporto, “un’economia debole, il deterioramento dello Stato di diritto, e una popolazione in continua crescita hanno contribuito ad aumentare il numero di persone schiavizzate, in particolare di bambini e persone costretta al lavoro coatto”.

Se però si considera il numero di “schiavi” in termini assoluti, la classifica globale cambia. Al primo posto c’è infatti l’India, Paese in cui circa 14 milioni di persone –quasi la metà del numero totale di esseri umani schiavizzati- vivono in condizione di schiavitù. Cause principali di questo sfruttamento sono il lavoro coatto e la schiavitù per debiti.

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Insieme all’India, gli Stati che occupano i primi dieci posti per il numero di persone schiavizzate in termini assoluti sono, in ordine, Cina, Pakistan, Nigeria, Etiopia, Russia, Thailandia, Repubblica Democratica del Congo, Birmania e Bangladesh: in questi Paesi si concentra il 76% della stima totale.WFF raccomanda ali governi degli Stati afflitti dall’emergenza schiavitù di elaborare un piano d’azione nazionale, lanciare campagne di sensibilizzazione, realizzare stime nazionali e pubblicare relazioni annuali sulle misure adottate per combattere la schiavitù moderna.Dal rapporto emerge inoltre tutti i Paesi analizzati, anche quelli più sviluppati, sono interessati al fenomeno di sfrut-tamento di essere umani.

In Italia, ad esempio, WFF stima che ci siano circa 8mila persone schiavizzate. In fondo all’Indice si trovano Regno Unito (con più di 4mila persone), Irlanda (circa 300) e Islanda (meno di 100). “Come succede anche nel vicino Regno Unito –scrivono i relatori della WFF- i bambini vengono costretti a lavorare in Irlanda nelle fattorie di cannabis. Ci sono stati anche casi di bambini sfruttati sessualmente e costretti in una condizione di servitù domestica”, ma anche casi di “rimozione illegale di organi, adozioni illegali, accattonaggio e borseggi forzati”. Il fenomeno principale di schiavitù islandese riguarda “l’industria del sesso”.L’Indice è stato approvato dall’ex segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, dall’ex primo ministro inglese Tony Blair e da quello australiano Julia Gillard, oltre che da imprenditori tra cui Bill Gates, Richard Branson e Mo Ibrahim

Fonte: altreconomia.it

La schiavitù nel mondo13 Novembre 2013

Circa 30 milioni di persone nel mondo vivono in una condizione di schiavitù, secondo un nuovo rapporto del Global slavery index 2013 che prende in considerazione 162 paesi.La Mauritania ha la più alta percentuale di schiavi in relazione alla popolazione. In condizioni di schiavitù vive il 4 per cento dei mauritani. Nel paese africano la schiavitù ha profonde radici culturali, infatti è una condizione che si eredita dai propri antenati.

Primi dieci paesi per numero assoluto di persone in schiavitù, stime.

Fonte: internazionale.it

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La geografia della povertà nel 2030: il cambiamento climatico nuovo attore protagonista325 milioni di persone vivranno in aree a rischio disastriAi progetti per la riduzione dei rischi 40 centesimi per ogni 100 dollari di aiuti internazionali

17 Ottobre 2013

Presentando il rapporto sulla geografia di una povertà sempre più vicina, i ricercatori britannici dell’Overseas De-velopment Institute (Odi), dell’UK Met Office e del Risk Management Solutions (Rms) hanno messo in evidenza una realtà molto dura: «Il cambiamento climatico e l’esposizione ai disastri “naturali” minacciano di far deragliare gli sforzi internazionali per sradicare la povertà entro il 2030. Mentre con le temperature più calde, molti dei cittadini più poveri e più vulnerabili del mondo dovranno affrontare un aumento dei rischi connessi a siccità più intense o prolungate, precipitazioni estreme e ondate di calore».Il rapporto, intitolato The geography of poverty, disasters and climate extremes in 2030, è stato presentato in un’iniziativa alla quale ha partecipato anche Margareta Wahlström, rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Disaster Risk Reduction (Unisdr).Secondo lo studio, «Entro il 2030, fino a 325 milioni di persone estremamente povere potrebbero vivere in aree più esposte a maggiori rischi, se non si interviene con azioni dedicate». Il lavoro dei ricercatori britannici mappa dove i poveri avranno più probabilità di vivere e sviluppa una serie di scenari volti ad identificare i potenziali modelli di vulnerabilità alle condizioni meteorologiche estreme ed ai terremoti, avvertendo che «Questi scenari sono dinamiche. Considerano come le minacce possono cambiare, quali Paesi devono affrontare il rischio maggiore e quale ruolo svolge la gestione del rischio dei disastri».Odi, Met Office e Rms, avvertono: «Se la comunità internazionale fa sul serio riguardo all’eliminazione della povertà entro il 2030 deve affrontare le questioni oggetto del presente rapporto fare molto più sul serio per mettere la gestione del rischio di catastrofi al centro degli sforzi di eradicazione della povertà».Quindi gli eventi meteorologici estremi, spinti dai cambiamenti climatici, aggraveranno la povertà nelle regioni in cui le persone sono già tra le più povere del mondo. «Dove calamità quali la siccità sono comuni, questi eventi sono la principale causa di povertà – dicono gli autori – piuttosto che i problemi di salute o di fattori sociali». Tanto per capire quanto sia assurda la discussione italiana sulla Bossi/Fini e dintorni: nella sola Africa sub-sahariana, 118 milioni di persone poverissime si troveranno ad affrontare gli eventi estremi. Il rapporto evidenzia che per cercare di prevenire le conseguenze delle catastrofi, «Gli aiuti in denaro dovrebbe essere spesi per ridurre tali rischi, piuttosto che solo in aiuti umanitari dopo un evento estremo. Attualmente, il denaro tende ad essere inviato in una regione dopo un disastro anziché prima, mentre potrebbe essere utilizzato per la prevenzione».I punti principali del rapporto sono:Gli eventi meteorologici estremi legati ai cambiamenti climatici sono in aumento e probabilmente causeranno altri disastri. Tali disastri, in particolare quelli legati alla siccità, possono essere la più importante causa di impoverimento, annullando i progressi sulla riduzione della povertà.Nel 2030 fino a 325 milioni di persone estremamente povere vivranno per la maggior parte nei 49 Paesi più a rischio di pericolo, la maggior parte nell’Asia meridionale e nell’Africa sub-sahariana.Gli 11 paesi più a rischio di povertà indotta dai disastri sono: Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo, Etio-pia, Kenya, Madagascar, Nepal, Nigeria, Pakistan, Sud Sudan, Sudan e Uganda. Altri 10 paesi avranno alte percen-tuali di persone in povertà, accanto a un’esposizione ad un’alta pericolosità e ad un’insufficiente capacità di gestire i rischi di calamità: Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Gambia, Guinea Bissau, Haiti, Liberia, Mali, Corea del Nord e Zimbabwe.La gestione del rischio di catastrofi deve essere una componente essenziale degli sforzi di riduzione della povertà , concentrandosi sulla protezione, il sostentamento e la salvezza di vite umane. E’ necessario identificare e poi agire nelle aree dove rischi per poveri ed i disastri sono più concentrati.Gli obiettivi per lo sviluppo dell’Onu post-2015 devono includere gli obiettivi sulle catastrofi ed i cambiamenti climati-ci, riconoscendo la minaccia che rappresentano per l’obiettivo primario di eradicare la povertà estrema entro il 2030.Tom Mitchell, responsabile cambiamento climatico per l’Odi ed uno degli autori del rapporto ha spiegato alla Thomson Reuters Foundation: «I disastri rappresentano una minaccia davvero fondamentale per questo obiettivo di porre fine

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alla povertà estrema e basterebbe prendere solo una manciata di disastri in alcuni di questi Paesi interessati per capire che questo obiettivo può andare a fondo ancor prima di cominciare».L’India non figura nella lista dei Paesi più a rischio di povertà indotta dalle catastrofi solo , perché si ritiene che abbia a livello nazionale meccanismi relativamente buoni meccanismi per proteggere le persone, come dimostrerebbe anche l’operazione di messa in sicurezza di un milione di persone per prevenire l’arrivo di un recente ciclone, che ha permesso di limitare il numero delle vittime a 35,molto meno dei più di 10.000 morti che fece nel 1999 un ciclone simile che colpì l’Odissa, uccidendo 10.000 persone. Tuttavia, il rapporto dice che l’India dovrebbe essere trattata come un “caso speciale” per la sua vastità, in particolare «Destano grande preoccupazione» alcuni Stati dell’Unione Indiana, tra i quali l’Assam, l’Uttar Pradesh ed il Bengala occidentale, ma anche lo Stato himalayano dell’Uttaranchal dove a giugno le piogge torrenziali, le inondazioni e le frane hanno fatto più di 6.000 vittime e distrutto 200.000 case rurali, spazzato va 14.000 villaggi, lasciando 600.000 persone senza tetto e cancellando i mezzi di sussistenza di 2 milioni di indiani.Mitchell evidenzia che «Se le persone perdono i loro redditi in caso di catastrofi, dovrebbero ricevere aiuto per ripri-stinare le loro condizioni di vita o per trovare un nuovo lavoro, i governi dovrebbero anche rendere le infrastrutture essenziali più resistenti alle catastrofi ed inserire il rischio di disastri nella loro pianificazione territoriale». Invece lo studio rivela che i governi si stanno disinteressando di prevenire le catastrofi che colpiscono i loro cittadini più poveri. «Questo deve cambiare», dice Mitchell ed il suo team sottolinea: «Un’altra scoperta chiave è stata che gli stress climatici, che stanno peggiorando insieme al riscaldamento del pianeta, sono una delle principali cause di povertà. L’analisi dei dati provenienti dalle zone rurali dell’Etiopia e dell’Andhra Pradesh, in India, suggeriscono che dove la siccità è un grosso rischio è anche il principale fattore di impoverimento. Questo va controcorrente rispetto all’opinio-ne comune che gli shock legati alla salute sono il driver più importante della povertà. A causa di questi stretti legami, gli obiettivi di sviluppo post-2015 devono riconoscere la minaccia rappresentata da disastri e dai cambiamenti climatici per porre fine alla povertà e comprendere obiettivi che affrontino i principali motivi dell’impoverimento, con disastri naturali come un elemento significativo».Ma un altro rapporto (Financing Disaster Risk Reduction: A 20 year story of international aid) che l’Odi ha pubbli-cato a settembre rivela che le cose stanno in tutt’altra maniera: tra il 1991 e il 2010 i progetti per la riduzione dei rischi hanno ricevuto 40 centesimi per ogni 100 dollari di aiuti internazionali e Mitchell conclude «C’è bisogno di un cambiamento e di incentivi politici, in modo che i politici vengano premiati allo stesso tempo per la riduzione della povertà e del rischio di catastrofi, piuttosto che ottenere consensi per la loro risposta dopo, quando si verifica una situazione di emergenza. Bisogna arrivare a vedere la scena di un ciclone che colpisce la fascia costiera dell’India e che non mostra questo livello di devastazione quando la vedremo sapremo che le cose stanno davvero iniziando ad andare meglio».- Per approfondire: http://www.greenreport.it/news/clima/geografia-povert-clima/#sthash.g21nuQKh.dpuf

Fonte: Greenreport.it

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Deforestazione ai massimi livelli in Bolivia, Ecuador e Madagascar

5 novembre 2013

Secondo gli scienziati della Nasa, nel terzo trimestre del 2013 la deforestazione è notevolmente aumentata in Bolivia, Madagascar ed Ecuador. Tra il 1 luglio e il 30 settembre scorsi, il Quarterly Indicator of Cover Change (Quicc) della Nasa, che rifornisce i dati del Global Forest Disturbance Alert System (Glof-Das), ha rilevato forti segni di perdita di copertura forestale in questi tre paesi tropicali: in Bolivia il 167% di aumento della deforestazione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il 12% in più in Madagascar ed il 38% di aumento in Ecuador.Al di fuori dei tropici sembrano essere Pakistan, Cina, Usa, Argentina a subire lo stesso trend.Secondo Christopher Potter, senior research scientist all’Ames Research Center della Nasa, uno degli sviluppatori del Glof-Das, gli hotspot della deforestazione in ogni Paese riguardano: Argentina: grandi aree di disturbo boschi nel nord-est delle province di Salta e Santiago del Estero; Bolivia: grandi aree di disturbo boschi nella regione me-ridionale di Santa Cruz e Tarija; Ecuador: nuove aree di disturbo foresta nell’Area di Tena nella provincia di Napo; Madagascar: nuove aree di disturbo nel nord-est (Ampijoroana); Cina: nuove aree di disturbo bosco lungo tutta la provincia occidentale dell’Henan; Pakistan: ssteso bosco disturbo nel sud-est dello stato del Sindh.Colpisce il fatto che fra i tre Paesi più colpiti dall’incremento della deforestazione ci siano anche Bolivia ed Ecuador, i di due Paesi sudamericani con la Costituzione più dichiaratamente ambientalista, ma in America Latina il Glof-Das ha anche mostrato alti livelli di variazione della copertura forestale nella regione del Chocó in Colombia.In Africa la deforestazione avanza in Camerun, Gabon e Repubblica del Congo (Brazzaville).In Asia, invece, si tagliano ancora molti alberi in Cambogia e in Indonesia a Sumatra , nel Kalimantan e nella Nuova Guinea Occidentale.Il Glof-Das fa affidamento sul Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer (Modis) della Nasa, un sensore che rileva i cambiamenti nella copertura forestale verde rispetto al corrispondente periodo dell’esercizio precedente. Se-condo Mongbay, «Registra il cambiamento in tutte le foreste ed aree boschive che hanno perso almeno l 40% della loro copertura forestale nel corso dell’anno passato. La variazione stagionale è generalmente mitigata attraverso una baseline trimestrale del prodotto, anche se i cambiamenti in alcune parti del mondo, come le regioni boreali, possono essere influenzati dalla distribuzione della neve e del ghiaccio. Lo strumento può aiutare a evidenziare su base trimestrale le aree in cui la deforestazione e il degrado forestale sta avvenendo, fornendo potenziali indicazioni alle autorità, ai policymakers, alla società civile, alle comunità locali ed agli accademici». Glof-Das è stato sviluppato in partnership dall’Ames Research Center della Nasa, Cal State Monterey Bay e Mongabay.- Per approfondire: http://www.greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/deforestazione-ai-massimi-livelli-in-bolivia-ecuador-e-madagascar/#sthash.krb9dQAB.dpuf

Fonte: Greenreport.it

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ETIOPIA

Hailemariam Desalegn: chi è il nuovo leader etiopeNel segno della continuità con Zenawi, da lui scelto personalmente anche se non appartiene al gruppo etnico dominante egemone nel partito o forse proprio per questo

12 Giugno 2013

La morte del dittatore Meles Zenawi è stata seguita da una transizione soft nel segno della continuità di un sistema garantito dalla compattezza del partito che s’identifica con il regime al potere da quasi vent’anni.

IL SUCCESSORE DESIGNATO - Era il delfino di Meles Zenawi, da lui scelto personalmente anche se non appartiene al gruppo etnico dominante egemone nel partito o forse proprio per questo. Hailemariam Desalegn è un ingegnere che è stato ministro degli esteri e vice primo ministro all’ombra di Zenawi, persona dai modi misurati che ha saputo conquistarsi anche il consenso del congresso dell’EPRDF, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, gettando così le basi per una vittoriosa candidatura alle prossime elezioni nel 2005.

UN REGIME SALDO - Le elezioni in Etiopia sono ancora una formalità, l’opposizione è divisa e il regime si cura d’incarcerare o perseguitare ogni elemento che spicca, insieme ai ai giornalisti impertinenti che sono accusati in gran numero di “terrorismo”, alcuni dei quali nell’ultimo ventennio hanno dovuto subire vere e proprie agonie. Haile-mariam sembra perfettamente a suo agio nel ruolo e ha già cominciato a segnalarsi per alcune iniziative al di fuori del solco tracciato da Zenawi, come la recente campagna contro la corruzione che è stata coronata da una retata d’ufficiali corrotti, fatto davvero inusuale in un paese dalla pessima fama in questo senso, alimentata ovviamente dal regime.

TRA MARXISMO E SCUOLA DI CHICAGO - Sul piano economico il nuovo leader si è segnalato per l’aver messo un freno alla privatizzazione della telecom statale, sul presupposto fondato che offre una rendita sicura, ma anche prestando orecchio a chi nel regime teme di perdere il controllo su un’infrastruttura quantomai strategica per un regime autoritario. Il miracolo economico etiope è ricco di zone d’ombra, non solo perché si sviluppa a favore di un’elite ristretta a a spese delle minoranze e della aree più povere. Il sacco dell’Ogaden e la spietata repressione che il regime vi mantiene da sempre è solo l’esempio più evidente della cifra del regime. Che è quella di una spietata oligarchia che munge il paese reprimendo nel sangue qualsiasi opposizione e che si mantiene al potere alimentando con le scarse risorse una robusta macchina militare, tale da renderla la potenza regionale nel Corno d’Africa e da essere utilmente affittata dagli Stati Uniti per martellare gli islamisti in Somalia.

A SUO AGIO - Hailemariam gioca senza imbarazzi anche oltre frontiera, al recente vertice dell’unione Africana è stato uno deil leader più vocali nell’accusare il Tribunale Penale Internazionale di razzismo, visto che dalla sua nascita a oggi ha messo sotto accusa solo i leader dell’Africa sub-sahariana, rigorosamente neri, spesso rischiando di desta-bilizzare paesi che non ne avrebbero bisogno, com’è accaduto al Kenya che ora si trova il nuovo presidente imputato al pari dei peggiori criminali del continente.

UN GIGANTE IN MISERIA - L’Etiopia è il secondo paese più popoloso d’Africa, viaggia verso i cento milioni d’abi-tanti, molti dei quali periodicamente esposti alla fame, eppure investe pesantemente in infrastrutture pubbliche e ha inaugurato una borsa, figlia delle riforme economiche introdotte con entusiasmo nonostante il regime abbia in teoria origine nel marxismo. Un passato che non ha impedito alla fine dell’era Menghitsu una rapida conversione al filo-americanismo  e all’appplicazione delle ricette della Banca Mondiale, anche se il controllo sull’economia resta notevole e gli economisti che hanno plaudito allo sviluppo etiope continuano a ignorare sia l’evidente eccesso di dirigismo che, soprattutto, il massacro dei diritti umani e degli oppositori che si consuma senza sosta e si traduce in un regime totalitario e liberticida, che pure nel resto del mondo ha piena legittimità e spesso viene anzi portato ad

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esempio. I costi pagati dalle popolazioni che subiscono i grandi progetti del governo non entrano mai nei bilanci di economisti troppo ansiosi di congratularsi con i paese che seguono le loro ricette e raggiungendo qualche risultato tangibile, non importa con quale costo umano.

IL PROBLEMA DELLA DIGA - Figlia di questa postura è la grande diga sul Nilo che sta inquietando l’Egitto, al punto che Morsi ha cominciato a fare fuoco e fiamme e che alla televisione egiziana è capitato di mandare in onda una riunione presidenziale nella quale alcuni tra i convenuti hanno proposto di bombardare la diga, farla saltare con un’azione di commando o in alternativa finanziare estremisti islamici per destabilizzare il regime etiope. Uno show al quale finora Hailemariam ha fatto rispondere spandendo rassicurazioni, anche perché il progetto ormai è partito e il paese si è svenato per costruire una diga che produrrà energia elettrica da vendere ai paesi vicini, ma che per riempire l’enorme bacino sottrarrà molta acqua al Nilo provocando gravi danni in Egitto, almeno a sentire gli esperti diversi da quelli etiopi che assicurano che all’Egitto non mancherà una goccia d’acqua.

GUERRA PER L’ACQUA? - Per l’Egitto il Nilo non è solo un feticcio, ma la vena attorno alla quale vive il paese e secondo i conti degli egiziani una modesta riduzione potrebbe significare una drastica riduzione dei terreni coltivabili e un calo dell’occupazione in agricoltura, con scenari esponenzialmente peggiori all’aumentare della previsione del prelievo da parte etiope, che difficilmente convincerà gli egiziani a compensare con il risparmio idrico, come hanno provato a suggerire, anche perché l’Egitto è già all’avanguardia nella cura nell’impiego efficiente dell’acqua e non è proprio che sprechi la preziosa acqua del fiume.

TUTTO COME PRIMA - Sfide di un certo livello attendono quindi Hailemariam, che per ora si è dotato di tre vice ministri, lui era l’unico di Zenawi, e che sembra capace di tenere le redini del potere senza dover affrontare sfide letali dall’interno del paese o del regime che guida e che per di più è in parte mondato del sangue che ha irrime-diabilmente macchiato la figura di Zenawi, che non ha mai rinnegato e che sembra disposto a seguire sulla strada senza incertezze  dell’autoritarismo.

Fonte: giornalettismo.com

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Egitto-Etiopia, nuovo accordo idrico?

30 ottobre 2013

A sorpresa, dopo lunghe e forti tensioni, Egitto ed Etiopia sembrano essere giunte ad un ac-cordo condiviso in merito alla costruzione della tanto discussa diga sul Nilo. La diga del gran-de Rinascimento dell’Etiopia, questo il nome - di certo non casuale - scelto da Addis Abeba per indica-re quest’opera faraonica da oltre 4,8 milioni di dollari destinata alla produzione di energia idroelettrica.  Un progetto, che, fin da quando è stato annunciato, nel marzo 2011, ha provocato dure critiche da par-te di ambientalisti ed autorità egiziane. Un danno irrimediabile per il delicato ecosistema africa-no, secondo i primi; una vera e propria minaccia per la sopravvivenza idrica del Paese per i secondi.  Di certo erano in molti a pensare che la costruzione della diga del Rinascimento avrebbe potuto costituire un ca-sus belli per il controllo delle risorse idriche da parte delle potenze regionali. Invece, a sorpresa, nelle ultime set-timane,  l’Egitto - che all’inizio aveva aspramente criticato il progetto ed aveva persino minacciato di sabotarlo - ha dimostrato apertura e disponibilità al dialogo.  “L’Egitto contribuirà assieme al governo dell’Etiopia alla co-struzione della diga per favorire lo sviluppo del popolo etiope”, ha dichiarato Mohamed Abdul Muttalib, il mini-stro egiziano per le Risorse Idriche e l’Irrigazione, aggiungendo però che nell’accordo che verrà firmato tra i due Paesi dovranno essere specificate le modalità e l’impatto dei lavori. All’inizio di novembre i ministri delle Risorse Idriche di Egitto, Etiopia e Sudan si incontreranno a Khartoum per trovare delle linee guida condivise sul tema. La negoziazione tra i due Paesi sarà tuttavia molto lunga e delicata.  Le questioni da risolvere sono molte-plici e stratificate nel tempo, dato che la spartizione idrica è il risultato di una divisione arbitraria fatta in epo-ca coloniale (1929) che ha dato il monopolio idrico all’Egitto e al Sudan.  Una spartizione che negli ultimi anni è stata sfidata da sei Paesi che si trovano nell’alto corso del Nilo e che fanno parte dell’Iniziativa del Baci-no del Nilo. Il Kenya, il Burundi, l’Etiopia, il Ruanda, la Tanzania e l’Uganda, a maggio 2010, hanno firmato un nuovo accordo per la spartizione delle acque, accordo che l’Egitto non ha riconosciuto. Poco dopo,  a mar-zo 2011, l’Etiopia ha annunciato unilateralmente la costruzione della Diga del Rinascimento che prevede la deviazione di parte del Nilo Azzurro per la creazione di un bacino idrico di 63 miliardi di metri cubi di acqua.  Ancora poco chiare sono le conseguenze che ci saranno per l’Egitto, già fortemente piegato dall’instabilità politica, dalla crisi economica e dalle sanguinose vicende degli ultimi mesi. Un’ulteriore diminuzione della portata del fiume sarebbe catastrofica per la già debole agricoltura nazionale. Eppure per il momento lo spettro di una guerra per il controllo delle risorse idriche sembra scongiurato e l’Egitto sembra aver compreso che solo una maggior apertura al dialogo può condurre ad una risoluzione pacifica della delicata questione idrica.

Fonte: nena-news.globalist.it

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Etiopia, un buco nero per i giornalistiIl regime etiope resta indifferente alle proteste internazionali e non concede tregua agli oppositori, la sparizione di Zenawi non sembra aver incrinato metodi e determinazione del partito unico al potere.

9 Novembre 2013

Il regime etiope resta indifferente alle proteste internazionali e non concede tregua agli oppositori, la sparizione di Zenawi non sembra aver incrinato metodi e determinazione del partito unico al potere.Il Fronte Democratico Rivoluzionario d’Etiopia (EPRDF) è al potere dal 1996 e non sembra aver risentito della dipartita di Meles Zenawi, che da allora fino alla sua morte avvenuta nel 2012 aveva ricoperto la carica di primo ministro. Le speranze di democratizzazione si sono già spente nel lontano 2005, quando il regime sparò sulla folla inerme degli oppositori che lamentavano elezioni-farsa. Da allora l’opposizione è stata invariabilmente bollata come terrorista, termine dal significato dilatato fino a comprendere anche giornalisti e attivisti politici, del tutto inermi di fronte all’ag-gressività del regime.UN REGIME MODELLO - L’ultima novità politica in Etiopia è il Partito Blu, formazione neonata che ha manifestato per la prima volta questa estate la sua opposizione al governo portando in piazza migliaia d’etiopi nella capitale, per la prima volta in otto anni. La cosa ovviamente non è piaciuta al regime e così quando hanno provato a ridarsi appuntamento per il fine settimana scorso 100 dei suoi esponenti sono stati arrestati, gli uffici del partito devastati, materiali confiscati e parecchi sono anche stati bastonati, la manifestazione vietata. Il regime è meticoloso nella sua opera di repressione, finora con il bastone della respressione e la carota della cooptazione è riuscito a silenziare egregiamente le opposizioni, che da tempo hanno smesso di rappresentare una minaccia di qualsiasi tipo. Resta la questione della presentabilità all’estero di un regime che peraltro finora è più facilmente descritto come un modello che come un problema. Merito dell’impegno nell’ascoltare le ricette del FMI, pur applicandole in maniera abbastanza originale, e anche della grande collaborazione che il regime di Zenawi ha fornito alle amministrazioni americane, arrivando ad accollarsi un’invasione della Somalia in solitaria, rivelatasi poi costosa e inconcludente.

LA CONTRO-MANIFESTAZIONE - Così il governo ha organizzato una manifestazione contro l’estremismo al posto di quella dell’opposizione, radunando 40.000 persone, dicono le cronache, anche se là come qua certi numeri sono da prendere con il beneficio d’inventario e visto che non sarebbero nemmeno tanti. Il portavoce del governo ha spiegato che il Partito Blu non ha potuto manifestare per ragioni di sicurezza. Ha aggiunto poi che bisogna distinguere tra chi vuole manifestare e chi vuole sabotare (?), concludendo che non ci sono stati arresti e che il Partito Blu non ce li ha nemmeno 100 membri.

LE DENUNCE - Proprio ieri, dopo un appello per i colleghi etiopi ai capi di stato africani riuniti nella capitale etiope per l’African Media Leaders Forum (AMLF) per la difesa dei giornalisti, la polizia etiope ha arrestato due giornalisti del settimanale indipendente Ethio-Mihdar. Getachew Worku e un collega sono finiti nei guai per un articolo che de-nunciava un episodio di corruzione, per ora sono detenuti senza imputazioni, possono passare mesi così, la giustizia in Etiopia si sintonizza sulle necessità politiche del regime. Anche il manager del giornale Million Degnew è stato arrestato sabato scorso, e da allora è in galera senza che sia stata formalizzata alcuna accusa nei suoi confron-ti. Ethio-Mihdar era già finito nel mirino del regime in passato e sul suo capo pesa una causa nella quale l’università pubblica di Hawassa chiede risarcimenti mostruosi e la chiusura del giornale per un’inchiesta sulla presunta cor-ruzione dell’amministrazione universitaria, che se non fosse corrotta sarebbe una felice eccezione in un paese che svetta allo stesso tempo nelle classifiche degli affamati e in quelle dei corrotti.

UN BUCO NERO - Secondo il Committee to Protect Journalists l’Etiopia è il peggior paese in Africa per i giornalisti, anche se c’è da dire che altri paesi appaiono più virtuosi solo perché sono riusciti a mettere a tacere ogni accenno di critica. Il governo ha chiuso più di 75 pubblicazioni negli ultimi 20 anni e ci sono giornalisti che sono stati condan-nati a più di 10 anni di prigione con accuse di terrorismo platealmente infondate, com’è acccaduto a due giornalisti svedesi che hanno osato entratre in Ogaden, la regione a maggioranza somala che Addis Abeba ha reso off limits agli stranieri e nella quale il suo esercito e le milizie locali hanno perpetrato, e continuano, le peggiori atrocità ai danni dei locali.

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GIUSTIZIA A POLITICA -  Processi farsa nei quali si sostiene che i giornalisti abusino della libertà d’espressione for-malmente garantita dalla costituzione per coprire un’attività terroristica, quando al massimo il terrorismo è da temere  da parte degli shabaab somali ed è vero che l’opposizione al regime non si è mai dimostrata incline alla violenza, niente armi e niente bombe, nessun omicidio, aggressione, niente, e niente terrorismo. E i giornalisti sono poi per-seguitati anche nelle scomode prigioni etiopi durante la detenzione, con il risultato che un appello può accorciare la pena e mostrare la “benevolenza” di un regime che sconta una condanna da 14 a 5 anni, ma poi il comportamento in carcere, testimoniato solo dai carcerieri, può di nuovo allungarla o appesantirla.

SE NE FREGANO - Il regime ora guidato da Hailemariam Desalegn non sembra per nula impressionato dai rapporti del CPJ, di Amnesty o di altre organizzazioni umanitarie o libertarie, che ricordano che Reeyot Alemu, Woubshet Taye, Eskinder Nega, Yusuf Getachew, e Solomon Kebede sono tutti stati condannati per terrorismo e che l’Etiopia nel caso di Eskinder a rifiutato di adempiere a una pronuncia del Gruppo di Lavoro sulle Detenzioni Arbitrarie dell’ONU e a una decisione dello special rapporteur dell’ONU sulla tortura nel caso di Reeyot. C’è poi il caso di Saleh Idris e Tesfalidet Kidane, due giornalisti eritrei detenuti dal 2006 per accuse ugualmente discutibili.GLI AMICI DEGLI AMICI - Nonostante i ripetuti appelli alla democratizzazione e alla rimozione delle terribili leggi antiterrorismo, il regime di Addis Abeba continua a fare orecchie da mercante a ogni protesta, spalleggiato in questo dall’atteggiamento di Washington, che con la diregenza etiope negli ultimi anni ha trovato una grande sintonia e disponibilità a organizzare più di un intervento militare contro i “terroristi”, davvero difficile immaginare il Diparti-mento di Stato premere e disturbare alleati tanto cortesi da permettere l’uso del loro territorio alle truppe americane e da spendere le vite dei loro soldati per inseguire e cacciare i terroristi dalla Somalia, l’Etiopia in Occidente piace così, anche al governo italiano, Addis Abeba è in rotta solo con Oslo, tanto che ha sloggiato i diplomatici norvegesi accusandoli, pure loro, di complicità con i terroristi, continuavano a lamentare il mancato rispetto dei diritti umani nel paese, quegli sfrontati sabotatori.

Fonte: giornalettismo.com

L’Etiopia ha il suo primo osservatorio astronomico

18 Ottobre 2013

L’Etiopia si lancia in un programma di esplorazione dello spazio inaugurando il suo primo osservatorio astronomico di standard internazionale in Africa orientale volto a promuovere la ricerca. L’installazione, presentata oggi ma che sarà ufficialmente aperta domani, vanta due telescopi di un metro di diametro ciascuno per osservare nuovi “pianeti, diversi tipi di stelle, la Via lattea e lontane galassie”, ha spiegato all’Afp il suo direttore, Solomon Belay.L’osservatorio, costato 3,4 milioni di dollari (2,5 milioni di euro) e gestito dalla Società etiope delle scienze e dello spazio, è stato finanziato dall’uomo d’affari etiope-saudita Mohammed Alamudi. E’ situato a 3.200 metri sopra il livello del mare, nelle lussureggianti montagne Entoto, nei pressi della capitale Addis Abeba.All’epoca dell’adozione del progetto nel 2004, la Società etiope delle scienze e dello spazio era stata sopranno-minata “Il Club dei folli”. Secondo Solomon, gli scettici, in Etiopia e non solo, allora si chiedevano se l’astronomia fosse realmente una priorità per una delle economie più povere dell’Africa. Ma oggi, sempre secondo Solomon, che l’economia del Paese è diventata una delle più dinamiche del continente nero, la promozione della scienza è ormai un elemento chiave per lo sviluppo della nazione.

Fonte: internazionale.it

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Gruppo Pedon e Cooperazione italiana in Etiopia per progetto sui legumi“I primi raccolti saranno disponibili all’inizio del 2014”

13 Novembre 2013

E’ stato siglato un contratto di coltivazione tra Acos Ethiopia Plc, socie-tà del Gruppo Pedon, e due organizzazioni (Unions) che rappresentano cinque cooperati-ve di agricoltori, che risiedono nella zona di Bale, Regione Oromia nella Repubblica Federale di Etiopia.  L’accordo, precisa il gruppo di Molvena,  scaturisce dal progetto della Cooperazione Italiana allo Svi-luppo (Ministero degli affari Esteri) “Filiere agricole in Oromia” (Agricultural Value Chains in Oromia) che ha già prodotto importanti risultati sul grano duro e sul caffè di foresta ed ora si espande ai legumi. Le Unioni delle Cooperative si sono impegnate nella coltivazione di fagioli rossi e di ceci seguendo standard in-ternazionali di produzione secondo un rigoroso approccio di filiera. La filiale etiopica del Gruppo Pedon fornirà le sementi (un totale di 130 quintali) e ritirerà il prodotto finale sulla base del prezzo di mercato locale preva-lente (ECX Borsa etiope), aumentato o diminuito in funzione, soprattutto, delle sue caratteristiche di purezza.  L’accordo è nato grazie all’intermediazione e all’assistenza tecnica dell’Istituto Agronomi-co per l’Oltremare (IAO) di Firenze, organo di consulenza ed assistenza del Ministero degli affari Este-ri Italiano nel campo tecnico e scientifico agrario, impegnato nella lotta contro la povertà e la fame nel mondo. “Le potenzialità di coltivare e produrre legumi in Etiopia sono enormi – afferma Remo Pedon, amministratore de-legato del Gruppo – Grazie all’azione pubblico-privata italiana contiamo di far decollare una nuova filiera agri-cola orientata all’economia di mercato, ma che garantisca la sostenibilità economica ed ambientale nonché la permanenza sul territorio delle popolazioni rurali. Infatti queste cooperative potranno interfacciarsi direttamen-te con uno specifico acquirente finale, senza alcuna intermediazione e quindi aprirsi ai mercati internazionali”.  Destinati a coltivazione sono 121,5 ettari a fagioli e 14 ettari a ceci in due aree geografiche diverse (Ginir e Go-lolcha).  “I primi raccolti saranno disponibili all’inizio del 2014 - continua Remo Pedon – e questo porterà nuova occupazione non solo in Etiopia, ma anche per la nostra sede italiana.” Il progetto ha trovato nel Gruppo Pe-don, presente con proprio stabilimento dal 2005, un partner strategico e un player internazionale per la com-mercializzazione dei legumi verso le principali industrie conserviere mondiali. Il Gruppo Pedon annuncia infi-ne di avere in programma di raddoppiare lo stabilimento produttivo etiope con un investimento di 5 milioni di Euro che permetterà all’azienda vicentina di consolidare la propria leadership di mercato in Italia e all’estero.

Fonte: ansa.it

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INDIA

Creazione di un nuovo stato, chiamato Telangana

Martedì 30 luglio la coalizione di governo indiana ha annunciato che sosterrà la creazione di un nuovo stato, chia-mato Telangana, nella zona settentrionale dell’Andhra Pradesh, nell’India centrale. La decisione riguarda un’area og-getto da decenni di un forte movimento autonomista e dovrebbe portare alla creazione del 29esimo stato dell’India.Formalmente la decisione di dividere l’Andhra Pradesh è stata presa dal Comitato esecutivo del Congresso nazionale indiano, l’organo decisionale più importante del partito del premier Singh, in forma di raccomandazione al governo centrale: si avvia ora un lungo iter legislativo nel parlamento locale e nazionale che, secondo il Times of India, richie-derà almeno quattro mesi per essere completato.

Le dieci province del Telangana (fonte: WikiMedia)Lo stato dell’Andhra Pradesh è il quarto più vasto dell’India, con un’area di circa 275 mila km quadrati (più del Regno Unito) e una popolazione di oltre 84 milioni di abitanti(più della Germania). Fin dalla creazione dello stato negli anni Cinquanta, sostanzialmente sulla base di confini linguistici – nell’Andhra Pradesh si parla in maggioranza la lingua telugu – i dieci distretti settentrionali (su 23 dello stato) denunciano di essere emarginati nella distribuzione dei fondi, nella gestione delle risorse idriche e nelle iniziative economiche. Il nord dell’Andhra Pradesh è una zona largamente rurale e impoverita, intorno alla città di Hyderabad, che viene colpita spesso dalla siccità.Negli ultimi dieci anni il movimento autonomista è stato molto attivo e ha organizzato scioperi della fame eproteste violente in cui sono morte, secondo la stima di un parlamentare indiano coinvolto nel movimento autonomista, circa mille persone. Molte persone si sono date fuoco in pubblico per la causa autonomista. Il governo centrale indiano si è mosso con estrema lentezza e una certa ambiguità, annunciando passi in avanti nel processo per la creazione dello stato ma poi lasciando invariata la situazione.Nel 2009 le manifestazioni ripresero forza, dopo l’inizio dello sciopero della fame di un famoso politico locale, K. Chandrasekhara Rao. Undici giorni più tardi il governo indiano disse che l’Andhra Pradesh sarebbe stato diviso, ma violente proteste contro questa decisione portarono a un nuovo arresto del processo due settimane più tardi. Secondo l’Hindustan Times e diversi analisti, la mossa di concedere ora l’autonomia serve soprattutto a contenere l’avanzata dei partiti regionali nella zona e a favorire il partito del Congresso nelle elezioni politiche del prossimo anno. Il Telangana conta per 17 seggi nel Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano.Ma l’autonomismo delle regioni del nord ha una forte opposizione anche all’interno dello stesso Andhra Pradesh, con molte proteste organizzate dai sostenitori dell’unità dello stato. Uno dei problemi principali è che l’area proposta per il Telangana comprende l’attuale capitale dello stato e centro industriale dell’area, Hyderabad.La soluzione proposta, per ora, è che per dieci anni Hyderabad sia la capitale congiunta di entrambi gli stati, nell’at-tesa che venga individuata una nuova capitale per i distretti meridionali. La città, che oggi ha oltre nove milioni di abi-tanti, ha avuto uno sviluppo rapidissimo a partire dal 1995 grazie a leggi che hanno favorito gli investimenti di grandi società dell’informatica e della tecnologia (Microsoft ci ha aperto la sua prima sede importante fuori dagli Stati Uniti).Nei distretti della costa e nel Rayalaseema, le due altre regioni che compongono l’Andhra Pradesh, gli uffici e i negozi sono rimasti chiusi oggi in segno di protesta contro la decisione dei partiti di governo.Alcuni critici della decisione hanno detto che la mossa del governo centrale rischia di creare un precedente per molti altri movimenti autonomisti in altri stati indiani, che negli anni scorsi hanno avanzato proposte di divisione finora senza fortuna: tra questi la regione di Bundelkhand nello stato centrale del Madhya Pradesh e il Gorkhaland nel Bengala Occidentale. Ci sono da tempo proposte per dividere l’enorme Uttar Pradesh, uno stato di oltre 200 milioni di abitanti, in almeno quattro distinte unità statali.

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Questione Telangana: la regione di Seemandhra in subbuglio

4 Ottobre 2013

HYDERABAD. L’approvazione del Consiglio dei Mini-stri per la creazione del nuovo stato del Telangana, il ventinovesimo dell’Unione, ha creato non poche pro-teste nella regione di Seemandhra, in Andhra Pradesh. I 13 distretti costieri dell’Andhra e le regioni Rayalase-ema dello stato, dopo le continue proteste degli ultimi due mesi, sono precipitati nel caos per sostenere l’unità dello Stato contro la decisione di dividere questo terri-torio, da cinquanta anni oggetto di richieste pressanti e di rivendicazioni da entrambe le parti. La decisione di dividere l’Andhra Pradesh, una proposta divenuta rea-le lo scorso 30 luglio avanzata dal partito del Congres-so e dalla United Progressive Alliance (UPA), prevede che Hyderabad sia la capitale comune dei due stati per dieci anni, un periodo che sembra necessario perché il processo attuativo possa prendere corpo e garantire la sicurezza degli abitanti, tra cui i diritti fondamentali del popolo costiero Andhra, Rayalaseema e Telangana. Il nuovo stato avrà un’area geografica di 10 distretti dei 23 dell’Andhra Pradesh, ottenendo 17 posti alla Lok sabha dei 42 totali e 119 seggi all’Assemblea dei 294 totali. La decisione di oggi porta a compimento l’annuncio fatto dal ministro Chidambaram il 9 dicem-bre 2009, a seguito anche della protesta del leader locale K. Chandrashekar Rao, che chiese la creazio-ne dello Stato con uno sciopero della fame di 11 giorni, innescando scontri tra i suoi sostenitori e la polizia Tuttavia, le proteste nella regione di Seemandhra sembrano non cessare e migliaia sono i manifestanti che, anche in queste ore, stanno bloccando tratti di strade più o meno lunghi, creando numerosi disagi in tutto il territorio.Gli analisti politici sostengono che, con questa mossa, il partito del Congresso sta cercando di ottenere consensi da-gli elettori del Telangana in vista delle prossime elezioni nazionali, previste per la fine di maggio 2014. Ciò che la co-alizione della famiglia Gandhi si propone di fare è dare risposte ai sostenitori del nuovo stato che da tempo accusano l’alto livello di povertà e di disoccupazione, poiché da sempre trascurati dal governo dell’Andhra Pradesh. Gli op-

positori temono che la creazione di un nuovo stato potrebbe alimentare richieste simili in altre regioni dell’India, un patchwork complicato di etnie, caste e più di 100 gruppi linguistici. I confini dell’India sono stati modificati nel 2000, quando tre nuovi Stati sono emersi nel nord del paese. Ad oggi, le aree in cui si assiste a movimenti “indipendentisti” sono quelle di Gorkhaland nel Bengala occidentale, Harit Pradesh in Uttar Pradesh, Vidarbha in Maha-rashtra, e Maru Pradesh nel Rajasthan.

Fonte: post.it

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Governo non firma risoluzione Onu contro ‘spose bambine’

14 Ottobre 2013

Il coordinatore internazionale della Ong “Ragazze non spose” si e’ detto “deluso” per il rifiuto dell’India di firmare la risoluzione Onu contro il fenomeno delle spose bambine.“Il rifiuto del governo indiano e’ una battuta di arresto a livello globale” ha commebntato il coordinatore internazionale della Ong, Laksimi Sundaram.La risoluzione dell’Onu prevede la lotta alle “nozze forzate, premature e tra bambini”.L’India, il Paese con il piu’ alto numero di ‘spose bambine’ del mondo, si e’ rifiutata di firmare la prima risoluzione globale contro le “nozze forzate tra minori”, promossa dalle Nazioni Unite.La risoluzione e’ sostenuta da 107 Paesi nel mondo, compresi quelli in cui le nozze forzate tra minori sono legali come l’Etiopia, il Sudan, la Sierra Leone, il Ciad, il Guatemala, l’Honduras e lo Yemen.L’India detiene un record mondiale con 24 milioni di matrimoni in cui almeno uno dei due sposi ha meno di 18 anni, circa il 40 per cento del totale mondiale.

Fonte: Asca.it

Immagini dall’India

Un mercato a Mumbai, in India, durante il Diwali, la festa delle luci. (Danish Siddiqui, Reuters/Contrasto)

Fonte: internazionale.it

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India in piena “crisi delle cipolle”: prezzi quadruplicati

30 Ottobre 2013

Con prezzi più che quadruplicati nell’ultimo anno l’India è in piena crisi delle cipolle. Un problema che minaccia le abitudini alimentari di milioni di persone e promette di essere in cima all’agenda del dibattito politico, in vista delle elezioni che si terranno a varie tappe per rinnovare il parlamento entro la prossima primavera. Tanto che il governo sta cercando di correre ai riparti, e ha drasticamente alzato, del 40 per cento, le soglie di prezzo minime imposte alle cipolle che vengono esportate.Ma secondo alcuni osservatori non basta, e la questione rischia di essere dirompente perché da un lato la cipolla è un ingrediente chiave di molte pietanze tradizionali del sub continente, e dall’altro nel paese più popoloso della terra circa un terzo del miliardo e 200 milioni di abitanti deve vivere con meno di 1,25 dollari al giorno. Per questo, riporta Cnbc i rincari della cipolla saranno sicuramente un argomento chiave nelle elezioni.Intanto gli indiani cercano alternative ai bulbi lacrimogeni, come l’aglio, il pomodoro o lo zenzero. Il tutto mentre da alcune settimane la Banca centrale indiana ha iniziato a mostrare una linea più energica, con rialzi dei tassi di interesse a contrasto della crescente inflazione, che riguarda varie categorie di beni tra cui gli alimentari. Intanto la valuta del Sub continente sembra essersi stabilizzata nelle ultime sedute, con il dollaro poco sopra quota 60 rupie, dopo i forti cali registrati da metà settembre.

Fonte: tmnews.it

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India, la missione su Marte è low cost. Ma è polemica

4 Novembre 2013

Il conto alla rovescia è già cominciato. Mangalyaan, la “navicella per Marte”, sarà lanciata in orbita martedì (Mangalwaar - il giorno di Marte - in hindi) 5 novembre alle 10.00 ora italiana dalle base spaziale di Shriharikota, commemorando così il primo lancio in orbita di una navicella indiana e l’avvio del programma spaziale della più grande democrazia del mondo, avvenuto esattamente cinquanta anni prima. E, se avrà successo, passerà alla sto-ria come la missione spaziale più economica di tutti i tempi: ottanta milioni di dollari, circa cinquantacinque milioni di euro. Un’inezia, praticamente. Una medaglia appuntata al petto del governo indiano che, nel travagliato clima pre-elettorale degli ultimi tempi, cerca di mostrare al mondo e alla nazione la superiorità indiana in campo tecno-logico, le capacità di ricerca, sviluppo e realizzazione di progetti altamente specializzati con costi assolutamente competitivi. Mangalyaan, difatti, come già la navicella lunare Chandrayaan I, è stata interamente progettata da scienziati e ingegneri indiani, costruita in India da manodopera indiana con materiali di fabbricazione locale e avrà a bordo strumenti di rilevamento rigorosamente made in India. 1.350 chili, inclusa la strumentazione, di tecnologia avanzatissima con un indice costi-benefici da fare invidia.  AUTARCHIA Un trionfo dell’autarchia, praticamente. Che unisce frugalità delle spese ed economia dei materiali, low-cost e semplificati al massimo come l’alluminio e la fibra di carbonio. Ma mentre i media stranieri si affannano a scrivere articoli sulla capacità degli indiani di far seguire a tablet, pc e automobili low-cost anche una sonda spaziale supereconomica, al pensiero gli ingegneri indiani, per usare un eufemismo, incrociano le dita. La navicella resterà in orbita attorno alla Terra per circa venticinque giorni prima di cominciare il suo viaggio verso il Pianeta Rosso. Un viaggio di circa trecento giorni, che dovrebbe terminare nel Settembre 2014. Non è previsto l’atterraggio di Mangalyaan: la navicella dovrà soltanto rimanere nell’orbita marziana per studiare l’atmosfera, la morfologia e la mineralogia del pianeta. Dovrà in particolare studiare la presenza di tracce di metano, elemento di cui sono a caccia da anni tutte le missioni spaziali sul pianeta. Ma, soprattutto, dovrà fare ammettere l’India nel club elitario e ristretto delle nazioni che hanno fino a questo momento lanciato una sonda su Marte: dando per giunta uno schiaf-fo morale alla Cina, la cui missione sul Pianeta Rosso tentata due anni fa con la sonda Yinghou - 1 è miseramente fallita.  IL DIBATTITO Ma mentre scienziati, politici e media battono la grancassa dell’orgoglio nazionale, molti si interrogano sull’oppor-tunità e sulla convenienza vera, per una nazione come l’India, di perseguire un programma spaziale più o meno ambizioso. In una nazione in cui lo sviluppo riguarda ancora soltanto una misera percentuale della popolazione e in cui la maggioranza dei cittadini soffre a causa di carenze basilari come l’acqua potabile, l’elettricità, i servizi igienici, ospedali o scuole decenti nessuno, ma proprio nessuno, sente l’esigenza di mandare una sonda su Marte o un razzo sulla Luna. O anche, volendo essere pignoli, dell’ennesimo missile a testata nucleare.  Alle critiche, però, il direttore dell’Indian Space Research Organization K. Radhakrishnan risponde: «La domanda è stata posta milioni di volte negli ultimi cinquanta anni, e la risposta è e sarà sempre: sì. È necessario per trovare soluzioni ai problemi dell’uomo e della società». E aggiunge poi che la spesa per la ricerca spaziale è soltanto lo 0.34% del budget del governo indiano, e che i costi della missione Mangalyaan ammontano all’8% della spesa totale per la ricerca spaziale. Costi ampiamente coperti dai benefici generati dalle missioni spaziali degli anni precedenti. Sarà senz’altro vero ma, facendo due conti terra terra senza alcun bisogno di ricorrere ai marziani, ci piacerebbe chiedere al dottor Radhakrishnana se ha un’idea, seppur vaga, di quanti ospedali, scuole, gabinetti e pozzi per l’acqua potabile si possono costruire in India con ottanta milioni di dollari. Tenuto conto che il prezzo dei servizi igienici essenziali si aggira su un totale di ben 8-10 euro, dipende dal cambio del momento.

Fonte: ilmessaggero.it

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BENIN

Nasce Scuola degli AngeliL’impegno del console Gambardella

30 Ottobre 2013

Un ponte tra Napoli e la repubblica africana del Benin. Prende forma il progetto della “Ecole des Anges” (la scuola degli angeli), realizzato dal Consolato del Benin a Napoli  e dall’Ambasciata beninese a Roma. Grazie a questa iniziativa a Karimama, città del Nord della Repubblica del Benin, sarà costruito un istituto scolasti-co. La “Ecole des Anges” si concretizzerà in un edificio composto da tre classi, due  bagni, un ufficio per  il direttore e un magazzino. E saranno ben 400 i bambini che usufruiranno della scuola che potrebbe essere già pronta alla fine di novembre. Il progetto è stato il frutto di un lavoro coordinato dal Console del Benin a Napoli, Giuseppe Gambardella. “Lo studio e l’educazione – ricorda – sono alla base della crescita di un Paese. E le scuole devono essere un presidio cultura-le fondamentale. Per il futuro l’auspicio è continuare a promuovere opere per la regione settentrionale del Benin”.Obiettivo: crescita integrale La costruzione della “Scuola degli Angeli” a Karimama rientra a pieno titolo negli obiettivi fissati agli inizi del man-dato di Gambardella. Ovvero provvedere non solo al supporto umanitario, ma contribuire alla crescita integrale “di un popolo – dice Gambardella – fiero e cortese”. “La scuola a Karimama – dice l’ambasciatore del Benin a Roma, Rosemonde Deffon Yakoubou – rappresenta il coronamento di una più ampia opera di sviluppo che ha investito il Nord della Regione, con la costruzione di due pozzi”. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al upporto di più istituzioni competenti. Hanno partecipato al progetto il ministro degli Affari Esteri del Benin, Nassirou Bako Arifari; il direttore della Dicodah – Benin (Direzione della Cooperazione e delle Azioni umanitarie), Fondo Amadou; il sindaco di Karimama, Maman Bello Moussa. Strategico anche il supporto di organismi umanitari, a cominciare dall’associazione “Mosi Cicala Onlus” di Napoli. Si tratta di una squadra di medici e volontari, diretta da Roberto Pennisi, attiva da oltre dieci anni in Benin, in particolare presso l’Hopital la Croix di Zinvié. L’obiettivo della “Mosi Cicala Onlus” è aiutare, in maniera del tutto gratuita, la popolazione del luogo anzitutto dal punto di vista medico – sanitario, ma non solo. In campo anche l’associazione “Un sogno per il Benin” di Napoli, di Giuseppe Paladino.  “Sin dal primo momento – dice Gambardella – il dottor Paladino si è mostrato disponibile a sostenere l’iniziativa. Ed il suo sostegno è stato sempre forte per tutto il corso dell’opera”, ha precisato il Console Gambardella. Molti privati cittadini ed imprenditori hanno contribuito alla costruzione della scuola, fra questi Rosario Penna, direttore del Banco di Napoli “che ha aderito alla nostra iniziativa con grande entusiasmo – aggiunge il console – , consapevole del concetto che l’istruzione è importante per migliorare le condizioni di vita e potrà senz’altro contri-buire allo sviluppo del Benin”. Affiancano il progetto anche Rosalba Mottola e Rossella Casavola, rispettivamente autrice e illustratrice del libro “Il Piccolo Andri e il mistero del Signor Olafur”. L’opera, già presentata al Comitato Unicef di Caserta, è stata messa in vendita durante la conferenza stampa per la presentazione del progetto. E il ricavato verrà donato in beneficenza a favore dei bambini del Benin per un altro pozzo d’acqua o un’altra scuola. “Aiutare i bambini bisognosi è anche la mia missione. Donare acqua e istruzione è gettare le basi per costruire un mondo migliore”, dice Rosalba Mottola.I partner del progetto Ma il progetto della “Ecole des Anges”, conclude il console Gambardella, “prende forma anche grazie all’impegno di tanti nostri partner.  Vorrei, dunque, ringraziare ‘Gli amici del calendario’; Vincenzo Doriano, direttore dell’im-presa di costruzioni Cem di Vico Equense; Isaia Della Ragione, direttore dell’agenzia “Publi Progress 98” di Bacoli – Napoli; Antonio Totaro, della “Totaro Srl-Napoli”; Giulio Raimo; Arturo Scotto della “Edil Triade -Napoli”; Antonio Carannante, presidente onorarario dell’associazione “Un sogno per il Benin”; Biagio Urciolo, amministratore della Gioielleria “Gioie”.

Fonte: denaro.it

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Gmm realizza 10 pozzi nel BeninRealizzato con il contributo della Provincia di Bolzano

14 Novembre 2013

È entrato in funzione nei giorni scorsi, nel villaggio di Morikéténou Ferme, l’ultimo dei dieci pozzi costruiti nel corso del 2013 dal Gruppo Missionario “Un pozzo per la vita” Merano con contributi della Provincia di Bolzano nel Nord del Benin (Africa Occidentale). Il pozzo è l’unico a disposizione dei circa 800 abitanti del villaggio. In totale, i dieci pozzi costruiti nel 2013 nella regione del Borgou forniscono acqua potabile ad una popolazione di circa 30.000 abitanti.

Fonte: ansa.it

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ECUADOR

LE MANI SPORCHE DI CHEVRON.Il presidente dell’Ecuador lancia l’offensiva per un boicottaggio mondiale dellasocietà petrolifera

17 Settembre 2013

Rafael Correa ha dichiarato guerra alla Chevron, proprietaria della Texaco, per i danni ambientali gravi e durevoli provocati nell’area amazzonica ecuadoriana dove negli anni 80 si produsse una fuoriuscita di idrocarburi che non è mai stata bonificata. “Quello che ha fatto (Chevron) in Ecuador non ha qualificativi, mai lo avrebbe fatto negli Stati Uniti” ha accusato il presidente ecuadoriano che ha detto di non riferirsi solamente al fatto di non aver ripulito i danni arrecati all’ambiente, ma per aver usato “tecnologie anacronistiche” per massimizzare i profitti.La dichiarazione l’ha lanciata dal luogo incriminato, un area amazzonica appartenente all’Ecuador dove la statuni-tense Texaco, poi acquisita dalla Chevron nel 2001, aveva operato tra gli anni 1964-1990. Per dare forza alle sue affermazioni Correa ha affondato la mano in una vasca di scarico, mostrandola poi ai media nazionali e stranieri appositamente convocati ben sporca di liquami di petrolio.L’offensiva del presidente proseguirà su due fronti, quello giudiziario e quello mediatico. Sul primo va ricordato che un tribunale ecuadoriano impose alla Chevron una multa di 19.000 milioni di dollari, la più cara mai inflitta in un paese latinoamericano. La sentenza è stata impugnata dalla società petrolifera e portata all’arbitrato del tribunale internazionale dell’Aia, che ancora non si è pronunciato.Il secondo fronte dell’offensiva sarà mediatico. Il governo ecuadoriano inviterà personalità di risonanza mondiale perché comprovino i danni ambientali e li denuncino al mondo.

Fonte: terredamerica.com

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Riserva di Yasuni, gli indigeni chiedono un referendum anti-petrolioGli abitanti di Yasuni, nell’Est del Paese, lottano contro la decisione del governo di trivellare nel bel mezzo del parco naturale.

17 Ottobre 2013

Gli indiani dell’Ecuador non ci stanno: la loro terra non sarà inquinata a causa delle  trivellazioni  alla ricerca di  petrolio. Questa mattina un nutrito gruppo di abitanti della regione di Yasuni - riserva naturalenella provincia di Orellana, nell’Est del Paese - ha manifestato nella capitale Quito. «Difendo la mia identità e la mia terra. Non permetterò lo sfruttamento degli idrocarburi a Yasuni», ha dichiarato all’a-genzia AFP Rosa Gualinga, una delle centinaia di donne presenti alla  manifestazione. In molti prevedono infatti che gli interessi petroliferi provocheranno una contaminazione dell’ecosistema, ed in particolare dei fiumi. Il  Congresso  dell’Ecuador ha recentemente votato a favo-re dell’esplorazione alla ricerca di greggio nel bel mezzo

del parco naturale. Qui, infatti, secondo le stime si concentra il 20% delle riserve nazionali, ovvero circa 920 milioni di barili. Anche il presidente Rafael Correa si è dichiarato favorevole, sebbene nello scorso mese di febbraio avesse lanciato una sfida al mondo: non avrebbe autorizzato le trivellazioni nella regione, in cambio di un indennizzo interna-zionale da 3,6 miliardi di dollari, corrisposti su dodici anni. Pari cioè alla metà di quanto il Paese avrebbe incassato se avesse venduto il petrolio. All’epoca, però, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che si occupava di raccogliere i capitali in un fondo, aveva ricevuto solo 200 milioni di dollari.Troppo poco, evidentemente, per Correa, che ha deciso di non rinunciare all’oro nero. Scelta che ha suscitato l’ira di numerose ONG ambientaliste e delle associazioni indigene, che hanno avviato una procedura per chiedere un refe-rendum popolare. Servirà però che almeno il 5% dell’elettorato appoggi l’iniziativa. Nel frattempo, il governo andrà probabilmente dritto per la sua strada.

Fonte: valori.it

Ecuador: dimezzata multa Chevron9,5 miliardi invece dei 19 previsti all’inizio.

13 Novembre 2013

Il massimo tribunale dell’Ecuador ha ridotto a meno di dieci miliardi di dollari la multa inflitta per inquinamento alla compagnia petrolifera americana Chevron. La decisione definitiva è stata comunicata oggi. La Corte Nazionale di Giustizia ha confermato la condanna di Chevron per un caso di inquinamento in Amazzonia, ma ha fissato la multa a 9,511 miliardi di dollari, dimezzandone quasi l’ammontare fissato all’inizio, 19 miliardi di dollari.

Fonte: ansa.it

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SOCIALISTA, RIVOLUZIONARIO, CONTRO L’ABORTO.Il Presidente dell’Ecuador Rafael Correa pronto a lasciare se il suo partito approverà la depena-lizzazione dell’aborto

12 Ottobre 2013

Il caso di Rafael Correa ri-corda quello del suo omo-logo dell’Uruguay Tabaré Vazquez che nel 2008 vetò la legge che depenalizzava l’aborto in Uruguay dopo essere stata approvata di stretta misura dal parla-mento e fu costretto alle dimissioni. Adesso il presi-dente ecuadoriano, socia-lista come il collega dell’A-merica del Sud, minaccia di fare la stessa cosa se l’Assemblea Nazionale del suo paese approverà la proposta di legge che vor-

rebbe introdurre norme per la depenalizzazione dell’aborto, pratica che attualmente il codice penale del paese andi-no vieta severamente.Un gesto consapevole quello di Correa, che si è dichiarato pronto “da subito” a lasciare la presidenza della repub-blica se il Congresso, e in particolare i parlamentari del suo partito “Alianza País”, daranno questo passo, un “vero tradimento e una grave slealtà” l’ha qualificato, ricordando di aver sempre detto con chiarezza di essere contrario a qualsiasi forma di legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. “Non appartengo a quel tipo di persone che dicono una cosa e poi ne fanno un’altra”, ha aggiunto il governante ecuadoriano che si definisce “uomo di sini-stra, umanista e cattolico”, e ammiratore di Papa Francesco.Rafael Correa, cui gli elettori hanno rinnovato il mandato per la terza volta nel mese di febbraio di quest’anno, e che pertanto dovrebbe governare fino al 2017, appartiene a quell’America Latina oggi maggioritaria di orientamento socialista. Avversario dell’ accordo di libero commercio promosso dagli Stati Uniti nel continente, critico delle poli-tiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per la gestione delle crisi economico-finanziarie dei paesi in via di sviluppo, Correa ha imposto una riforma del settore petrolifero che aumenta la percentuale dei ricavi destinati a programmi sociali per i poveri, accusando le compagnie straniere di non ottemperare alle norme ambientali e sugli investimenti e di trattenere l’80% del loro fatturato. In ambito finanziario Correa ha smantellato le politiche neoliberiste dei predecessori. In politica estera si è mosso con prudenza tanto nel conflitto colombiano governo- FARC che con il Venezuela di Chavez, verso cui ha mantenuto una certa distanza.Non è la prima volta che Correa, che si definisce cattolico osservante ed in gioventù ha trascorso alcuni anni in semi-nario, ha tentato di bloccare la legge sull’aborto. Nel 2008, nel corso del dibattito dell’Assemblea costituente, alcuni rappresentanti avevano già provato ad introdurre una riforma in senso liberalizzatore ma senza successo. Adesso ci riprovano e una volta ancora Correa scende in campo per opporsi.Forte della maggioranza assoluta nelle ultime elezioni ( 56,9% contro il 23,8% dello sfidante), Correa ha ricordato ai liberalizzatori che la Costituzione ecuadoriana difende la vita sin dal concepimento e il Piano nazionale di sviluppo “che ha votato il popolo ecuadoriano” non contempla la depenalizzazione dell’aborto. “Per difendere la vita sono pronto a dimettermi, e la storia saprà giudicarmi” ha dichiarato con solennità.Tra qualche giorno se ne saprà di più, tanto del destino della legge come quello di Correa.

Fonte: terredamerica.com

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SOMALIA

Diritti delle donne: Rwanda prima, Somalia ultimaNella classifica dell’Ibrahim Index of African Governance Kigali svetta al primo posto con 90.2 punti, seguito da Seychelles, Mozambico, Sudafrica e Botswana. Maglia nera per Mogadiscio, fermo a 20.5

16 Ottobre 2013

Il Rwanda è al primo posto tra i Paesi africani sostenitori dell’uguaglianza di gene-re. Seguono a ruota Seychelles,Mozambico, Sudafrica e Botswana. Questo è il dato che proviene dall’  Ibrahim Index of African Governance, diffuso lunedì a Londra. Il punteggio del Rwanda nell’Indice, in un range da 1 a 100, è 90.2, ben al di sopra del punteggio medio: complessivamente, i 52 Paesi africanihanno un punteggio di 53.8. Seychelles 83.8, Mozambico 78.2, Sudafrica 77.5 e Botswana 72.7. 

La peggiore performance –confermata anche da altri indicatori presenti nel sondaggio- la offre la Somalia (con un punteggio di 20.5), seguita dalla Costa D’Avorio (31.7) e il Niger (36.9). La Nigeria si piazza molto male: è al dodi-cesimo posto partendo dal fondo della lista (41.8)I Paesi dell’Africa australe sono i migliori a promuovere la parità di genere e quelli dell’Africa centrale il peggio.Le prestazioni di una nazione sulle questioni di genere vengono giudicate sulla base di sette indicatori: parità dei sessi; equilibrio di genere nell’istruzione primaria e secondaria; partecipazione delle donne alla  forza lavoro, pari rappresentanza nelle zone rurali, numero di donne in parlamento,  diritti economici e politici delle donne,leggi sulla violenza contro le donne.Stando ai risultati dell’Indice –che è la ricerca di più ampio respiro in circolazione sul Continente, costantemente perfezionata di anno in anno da quando nel 2007 è stata lanciata- gli standard di governo sono ingraduale migliora-mento in tutta l’Africa. Sebbene le prestazioni dialcune nazioni siano peggiorate tenendo conto di fattori fondamentali come lo Stato di diritto, le opportunità economiche e la partecipazione dei cittadini al governo, ogni Paese presenta un miglioramento negli indicatori dello sviluppo umano rispetto alla fine del secolo scorso.Mo Ibrahim, Presidente della Fondazione che ha promosso la Ricerca, commenta i dati sottolineando che «questi miglioramenti progressivi coinvolgono il 94% della popolazione africana», aggiungendo che «18 Paesi hanno offerto la miglior prestazione di sempre». Tuttavia, continua il Presidente, va tenuta sotto controllo il peggioramento dei pa-rametri relativi a sicurezza e Stato di diritto, perché «potrebbe significare  un futuro in cui, a fronte del minor numero di conflitti regionali, cresce proporzionalmente la tensione sociale interna in tutta l’africa». Tenendo conto di tutti i parametri dell’Indice, questo è il bilancio che viene fuori: I PIÙ VIRTUOSI: Mauritius al primo posto, a seguire Botswana, Capo Verde, Seychelles, Sud Africa, Namibia, Ghana, Tunisia, Lesotho e SenegalI MENO VIRTUOSI: Somalia in fondo alla lista, a seguire Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Repubblica Centrafricana, Ciad, Zimbabwe, Guinea-Bissau, Guinea Equatoriale, Costa d’Avorio Per quanto riguarda lo specifico della politica di governo, il quadro è il seguente:PRIMI CINQUE: Liberia, Angola, Sierra Leone, Rwanda e BurundiULTIMI CINQUE: Madagascar, Eritrea, Guinea-Bissau, Somalia e LibiaC’è una correlazione tra l’ampliamento della democrazia in questi ultimi anni e una migliore “governance” in Liberia e Sierra Leone, mentre l’Angola e il Ruanda si distinguono per gli indicatori economici

Fonte: vita.it

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Shabaab tornano a colpire in Somalia, strage in un caffèIl locale a Baladweyne è frequentato da soldati Amisom e civili19 Ottobre 2013

La furia jihadista degli al Shabaab torna ad abbattersi in Somalia. A un mese dalla strage al centro commerciale di Nairobi con 67 morti, il gruppo fondamentalista legato ad al Qaida, è tornato a colpire, ma questa volta sul loro territorio. Almeno 20 le vittime e 33 feriti, secondo alcune fonti della sicurezza citate dalla Cnn, mentre la polizia parla di 15 vittime, dopo che un kamikaze si è fatto saltare in aria in un affollato caffè della città di Baladweyne al confine con l’Etiopia, a 300 km a nord di Mogadiscio, nel centro del Paese. Il ristorante è frequentato in particolare dai soldati etiopi e di Gibuti e di diversi Paesi africani che partecipano alla missione Amisom delle Nazioni Unite per combattere gli jihadisti. Tra le vittime si contano diversi soldati somali, ma secondo testimoni, citati dalla Bbc, la maggior parte delle persone che hanno perso la vita sono civili. In un comunicato gli Shabaab - attraverso il loro portavoce Sheikh Abdiasis Abu Musab - hanno rivendicato l’attentato, precisando che il loro “bersaglio principale erano le truppe dell’Etiopia e di Gibuti, che hanno invaso” la Somalia. Dura la condanna del presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, che ha parlato di “un atto vile commesso da persone violente che non conoscono nulla dell’islam”. “Tutto ciò prova - ha aggiunto - che gli Shabaab si sono ridotti ad azioni estremiste dopo avere perso la guerra”. La città di Baladweyne non è nuova ad attacchi di questo tipo: nel giugno del 2009 venti persone, tra cui il ministro somalo della Sicurezza, trovarono la morte nell’esplosione di una bomba in un hotel. Anche in quel caso l’operazione venne rivendicata dagli al Shabaab.

Fonte: ansa.it

Difendiamo la libertà di informare: la petizione a sostegno dei giornalisti di Radio ShabelleUna strage di uomini (19 cronisti uccisi negli ultimi mesi) e di libertà, sotto gli occhi di un Occidente che riceve i governanti somali nelle sue sedi migliori, promettendo loro aiuti e sostegno, senza preoccuparsi della direzione in cui stanno andando la ricostruzione e la riconciliazione nel Paese.

30 Ottobre 2013

Il 28 ottobre scorso è morto a Mogadiscio Mohamed Mohamud “Tima Cade” (Testa Bionda), giornalista di Universal TV, ferito tre giorni prima in un agguato nella ca-pitale somala. È il diciannovesimo giornalista ucciso negli ultimi mesi. Una strage di uomini e di libertà sotto gli occhi di un Occidente, che riceve i suoi governanti nelle sue sedi migliori, promettendo loro aiuti e sostegno, senza preoccuparsi del-la direzione in cui stanno andando la ricostruzione e la riconciliazione nel Paese. Il raid nella radio.  Lo stesso giorno alle 11,30, per ordine del Ministro dell’in-terno Abdikarim Hussein Guled, cento uomini della polizia politica della Somalia

hanno compiuto un raid brutale nella sede di  Radio Shabelle malmenando tutti i presenti, fra cui diverse don-ne, e arrestando trentasei giornalisti su sessantotto costringendo così, di fatto, l’interruzione delle trasmissioni. Con una sola irruzione, peraltro, la polizia politica di Mogadiscio ha determinato anche la chiusura di Sky FM Radio, emittente gemella di Radio Shabelle, che aveva sede nello stesso stabile. Anche l’editore di entrambe le stazioni radio, Abdi Malik Yusuf Mohamud, è stato arrestato. Tutti gli strumenti, incluso l’archivio radiofonico ed il server delle trasmissioni, sono stati prelevati. Perfino la cassaforte, con trecentosettanta dollari, è stata svuotata. La petizione. La chiusura degli organi di stampa rischia di vedere ripiombare la Somalia nel medio evo dal quale prova faticosamente ad uscire. Per questo Articolo21  lancia questo appello rivolto al presidente somalo affinché cessi immediatamente la violenza esercitata nei confronti della libera informazione e si garantisca agli operatori di media, radio e giornali di poter svolgere liberamente il proprio lavoro per dare ai cittadini somali e al resto del mondo la possibilità di conoscere i fatti.Per firmare la petizione:  https://www.change.org/it/petizioni/somalia-giornalisti-uccisi-e-radio-chiuse-difendiamo-la-libert%C3%A0-di-informare

Fonte: repubblica.it

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Somalia sull’orlo di una crisi istituzionale

12 Novembre 2013

Da quattro mesi in Somalia si parla di un rimpasto ministeriale e da quattro mesi viene rinviato, seb-bene la comunità internazionale prema affinché la modesta compagine dei ministri venga allargata. Per vero, già non era stato facile comporre il Consiglio con dieci ministri: per indicare il Primo mini-stro, al Presidente Mohamud c’è voluto un mese e, poi, un altro mese per individuare i dieci ministri. In que-sta prima fase emerse subito una divergenza tra il Presidente Mohamud ed il Primo Ministro Shirdon che avrebbe voluto non meno di 18 ministri, sia per le effettive necessità dei vari settori di intervento pubbli-co, sia per assecondare il pluralismo clanico nell’istituzione ministeriale a beneficio della riconciliazione. Quel braccio di ferro venne vinto dal Presidente Mohamud con la nomina di soli dieci ministri a lui fedeli. A distanza di un anno quell’errore pesa: ne risentono sia i servizi, come istruzione e sanità, che non vengono erogati se non ai ricchi che possono pagare le rette delle scuole private e le cure nel-le cliniche, sia la pacificazione perché ci sono clan importanti che non partecipano all’esecutivo. Davanti all’insoddisfazione popolare ed alla pressione internazionale per avere interlocuto-ri effettivamente disponibili in tutte le varie problematiche dell’intervento pubblico, tutte le istituzio-ni somale hanno dovuto convergere sulla necessità di un allargamento della compagine governativa. Il Primo Ministro Shirdon, volendosi togliere il masso dalle scarpe, ha proposto la nomina di 22 nuovi ministri che il Presidente Mohamud ha rifiutato non trovando nell’elenco tutti i nomi ai qua-li pensava, tra cui Farah Abdulqadir, l’attuale Sottosegretario alla Presidenza, considerato l’eminen-za grigia di Mohamud ed organizzatore della campagna elettorale che, inaspettatamente, l’ha porta-to alla carica di Presidente Federale della Somalia. Peraltro, sia Mohamud che Farah Abdulqadir sono esponenti di spicco dell’organizzazione Damul Jadid, filiale somala del ramo dei Fratelli Musulmani radicatosi in Qatar. In risposta alla lista di nuovi ministri presentata da Shirdon, Mohamud ha indicato una diversa rosa di no-minativi che Shirdon, a sua volta, ha rifiutato. Invitato a dimettersi Shirdon ha risposto che può solo essere sfiduciato dal Parlamento ed insiste per esercitare le sue prerogative costituzionali nella scelta dei ministri. Dietro questo secondo braccio di ferro c’è la volontà di Shirdon di sottolineare la sua assen-za di responsabilità nell’insoddisfazione generale per i risultati dell’azione governativa sin qui sviluppa-ta da Mohamud sia sul piano internazionale che su quello nazionale. In particolare il settore della sicurez-za è quello che più ha lasciato a desiderare, ma è anche quello più presidiato da esponenti di Damul Jadid. Tutta la Somalia assiste con trepidazione a questo scontro istituzionale sapendo che è in gioco anche il rischiodi una svolta autoritaria in Somalia di cui la recente chiusura di media liberi Radio Shabelle e di Sky Radio FMcostituisce il segnale più evidente così come la fuga all’estero della prestigiosa Governatrice della Banca Centrale somala motivata dalla richiesta presidenziale di fondi senza imputazione a capitoli di spesa nel bilancio e dal timoreper la sua vita. Non meno preoccupata è la comunità internazionale che questa sera, in persona di Nicholas Kay, rappresentante speciale di Ban Ki-moon per la Somalia, ha convocato entrambi i contendenti.

Fonte: primavera-africana.blogautore.repubblica.it

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Immigrazione: a fumetti le storie dei Somali in EuropaLa vita dei migranti nelle strips ospitate da fondazione Soros

13 Novembre 2013

C’è Faiid che nel 2008 è fuggito dalla guerra e dal recluta-mento forzato degli shabaab nel suo vil-laggio e ad Oslo non è riuscito ad integrarsi. C’è Amid che invece di passi avanti ne ha fatti. Ci sono Musta e Sagal, Anwar e Zein. Sono tutti profughi somali, per lo più fug-giti dalle zone preda dei signori della guer-ra, spesso dalla fame dei villaggi, e le loro storie compongono un unico raccon-to a fumetti, spes-

so comico, ospitato dal sito della Fondazione Open Society del miliardario George Soros. Con il titolo ‘Meet the Somalis’ le 14 storie scritte dal giornalista Benjamin Dix e illustrate da Lindsay Pollack sulla base delle inter-viste con i protagonisti, raccontano la vita delle comunità somale nelle città europee di Copenaghen, Am-sterdam, Helsinki, Oslo, Leicester, Malmoe e Londra, ove sono presenti molti profughi e rifugiati. E’ come entrare nelle loro vite quotidiane, spiegano nel sito della Fondazione gli autori, come sedersi alle loro ta-vole o fare la fila davanti agli uffici di collocamento con loro. Nei racconti, talvolta comici, spesso amara-mente satirici, ci sono tutte le luci e le ombre che caratterizzano una situazione che resta precaria e difficile. Quasi tutte le storie, spesso frutto di interviste durate almeno tre ore, cominciano con i disegni di uomini in armi, minacciosi e violenti, e proseguono con il racconto delle vite lontano dalla Somalia, con i problemi di integrazione, di ricerca del lavoro, spesso di sopravvivenza. Ci sono argomenti come la sharia, il velo, l’alcool, la vicinanza tra i sessi, l’istruzione, i sogni di volare via e tornare in una patria dove la guerra sia finalmente scomparsa. E ancora le difficoltà con la lingua, il terrorismo, la paura, la lontananza di chi ha lasciato una parte della famiglia in Somalia, la nostalgia e la solitudine. ‘’Talvolta penso che dovrei prendere un bomba’’, esclama Faiid, nel racconto che lo segue dal villaggio fino ad Oslo dove non riesce a trovare lavoro, collocazione, integrazione e nemmeno una ragazza. Un limbo, nel quale l’autore gli fa dire: ‘’Come vorrei poter tornare indietro; questa non è una vita: niente lavoro, moglie denaro, casa, rispetto. Dove non sei voluto non può essere casa’’. Ma c’è anche chi come Amiir, è riuscito a compiere passi avanti nell’integrazione e a suo modo si è occidentalizzato al punto da poter tornare in Somalia con la sua famiglia, per far conoscere ai figli la nonna, i parenti, i sapori e quei cieli stellati da cui era fuggito. Gli autori del progetto ricordano che non vi sono statistiche accurate sulla presenza dei somali in Europa, ma che la comunità proveniente dal Corno d’Africa rappresenta un ‘’gruppo vivace e attivo’’ che sta affrontando in tante città europee una sfida durissima per una vita degna senza perdere l’identità.

Fonte: ansa.it

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COSA STIAMO FACENDO

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PROGETTI IN CORSO

ETIOPIA Fiori che rinascono (Counseling center, Foster home, laboratori artistici, progetto sostegni a distanza) Progetto sostegni a distanza

BENIN Sogni da riaccendere a Cotonou

ITALIA Progetto La parola ai giovani a Scampia finanziato da Peretti Foundation

PROGETTI IN FASE DI VALUTAZIONE

ITALIA Rete rosa

ETIOPIA Fiori che rinascono

BENIN Sogni da riaccendere a Cotonou

SOSTEGNI A DISTANZA

Etiopia 615 India 368 Somalia 16 Costa d’Avorio 25 Ecuador 8 Totale 1035

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LETTURE CONSIGLIATESuad Amiry, Golda ha dormito qui, Ed. Feltrinelli, 2013

Come ci si sente, dal punto di vista psicologico, quando ti portano via il bene materiale più grande, quale la casa? Che cosa vuol dire non poter accedere alla propria casa quando essa è occupata da altre persone autorizzate da

una legge ambigua? Questi sono alcuni degli interrogativi cui l’autrice tenta di dare risposta nel descrivere le situazioni cui lei stessa e la propria famiglia, ma anche altri conoscenti hanno vissuto ed elaborato in modo diverso, dal momento in cui Israele nel 1948 costituì lo stato Ebraico invadendo e occupando, con l’av-vallo dell’Inghilterra, alcuni territori della Palestina espropriando alloggi, chiudendo attività imprenditoriali e requisendone il contenuto. Nakba, la catastrofe: è il nome dato dagli arabi a tutti gli avvenimenti del ‘48 mentre Guerra d’Indipendenza, è quello dato dagli israeliani. La prima rievocazione è quella dell’autrice Suad Amiry, architetto, che è nata a Damasco nel 1951. Non ha vissuto a Gerusalemme, ma questa città continua a rappresentare per lei un luogo dell’anima in quanto ricor-rente nelle descrizioni dei genitori e nei ricordi personali per le escursioni giovanili, spesso senza permessi né salvacondotti. Il padre di Suad prima del ‘48 lavorava alla PBC la Radio Palestinese allestita dal Mandato Britannico per promuovere l’arrivo degli ebrei e la loro integrazione nella popolazione, dopo quell’anno fatidi-

co, la radio fu requisita dai sionisti, la casa sita nella oramai Gerusalemme Ovest, fu occupata e la famiglia, espulsa, dovette trasferirsi in un’altra città. La vicenda dell’architetto Andoni Baramki può considerarsi emblematica. Avendo costruito la maggior parte delle splendide e solide ville dei quartieri alti di Gerusalemme, l’architetto Baramki costruì per la famiglia una casa denominata “Luce dei miei occhi”, che, come tutte le altre dimore di quella zona, fu espro-priata con la forza. Nel momento in cui dopo il ‘67, furono unificati tutti i territori di Israele, egli poté finalmente fare causa all’occupante israeliano abusivo e vincerla, ma non recuperare la casa come legittimo proprietario: era, infatti, per la legge “assente” o meglio “assente presente”. La casa quindi poté essere rivenduta dall’agenzia governativa Amidar, che assegnava, a caro prezzo, a coloni israeliani le proprietà espropriate. Persino Golda Meir ha abitato in una casa araba: è il personaggio di Huda Al Imam a rivelarlo. Huda, come Suad, è “proprietaria” di una casa di famiglia situata nel quartiere della Colonia Greca di Gerusalemme. Direttrice del Center for Jerusalem studies dell’Università di al-Quds che promuove studi accademici sulla Gerusalemme araba ed eventi culturali, organizza frequenti escursioni nei quartieri una volta arabi, per dare la possibilità ai vecchi proprietari di non dimenticare le proprie case, ma di esse-re finalmente presenti, anche se per poco, davanti alla propria storia personale e alla propria comunità. Indubbiamente l’autrice è riuscita con umorismo e stile vivace a rendere la molteplicità delle esperienze e delle emozioni suscitate da eventi tragici ancora non risolti, culminando in una dichiarazione di amore per la propria terra.

ELISABETTA MACCIONI

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Pacem Kawonga, Un domani per i miei bambini, Edizioni Piemme, 2013

Pacem è una giovane mamma di due bambini che vive a Mponela, un villaggio dello stato del Malawi. Rendendosi conto che la bimba più piccola non cresce, la donna decide di recarsi in una città vicina per fare il test, il cui risultato le cambierà la vita. Questo test è quello dell’AIDS, malattia la cui incidenza nell’Africa sub-sahariana costituisce allarme sociale sin dall’inizio della diffusione del virus HIV. Il test è positivo, tuttavia per Pacem inizia un percorso molto importante di rinascita e presa di coscienza. Proveniente da una famiglia benestante, dopo un’infanzia relativamente agiata e serena, la giovane Pacem studia e acquisisce il diploma di scuola superiore nella capitale Lilongwe. Diventa insegnante ma, quando conosce James, crede di avere raggiunto l’obiettivo della vita e lo sposa. Ben presto scopre che quell’uomo è superficiale, violento e totalmente poco affidabile, e la presenza dei due bambini non riesce a mitigare la sensazione di inutilità e smarrimento della giovane. Il marito ha inoltre appena scoperto, di avere l’AIDS e solo dopo lunghe insistenze si sottopone alle cure. In seguito alla preoccupazione per la figlia appe-na nata spinge la protagonista a rivolgersi a un piccolo centro specializzato che fornisce cure gratuite alla popolazione utilizzando tecniche diagnostiche, farmaci e materiali all’avanguardia. Questo centro fa parte della rete del progetto DREAM della comunità di Sant’Egidio, che attualmente opera in 10 paesi africani. L’atteg-

giamento positivo, l’accoglienza ma soprattutto l’ascolto, sono le prime doti che Pacem riconosce negli operatori e nei medici del centro. Sono queste doti, che la spronano a iniziare il trattamento anti retrovirale, a nutrirsi in modo razionale e accudire la piccola, con speranza nel futuro. Una nuova consapevolezza darà a Pacem la forza necessaria per ribellarsi ai nuovi attacchi del marito, per rendersi indipendente sia psicologicamente sia economicamente, ma anche per camminare a testa alta davanti alla comunità che la discrimina, poiché sieropositiva. La storia di Pacem coincide con quella dell’autrice del libro che rievoca in questo interessante testo, la propria esperienza di vita e coin-volgimento nell’ambito del progetto DREAM, dapprima come utente, poi come attivista ed infine come testimone nel mondo. Il libro dà una chiara idea di come un progetto di cooperazione internazionale possa aiutare le donne e gli uomini africani oltre che dal punto di vista medico anche dal punto di vista umano, divulgativo e informativo. Vengono, infatti, descritti specifici programmi di educazione sanitaria e di aggiornamento sull’AIDS che, con particolare riferi-mento alla prevenzione del contagio e alla prevenzione della trasmissione del virus dalla madre al figlio, costituiscono parte integrante del progetto DREAM. Come ultima considerazione, la gioia e serenità dell’autrice nel parlare di sé e del progetto, ci autorizzano sicuramente a sperare in un sempre maggiore “empowerment” delle donne africane.

ELISABETTA MACCIONI

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