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PAUL HARRIS IL SILENZIO DEGLI ANGELI

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PAUL HARRIS

IL SILENZIODEGLI ANGELI

Titolo originale: The Secret Keeper© 2009 by Paul Harris

Traduzione di Sebastiano Pezzani

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl, Cormano (MI)

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzionidell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindiutilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vi-ve o scomparse, è puramente casuale.

I Edizione 2010

© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Prologo

Freetown, Sierra Leone, 2004

Si passò la lingua sulle gengive gonfie e sentì il sapo-re del sangue. Il Torturatore se n’era andato, lascian-dolo con quel ricordo. Un sapore amaro, ferroso, nelpunto in cui c’erano stati due denti. E un dolore para-lizzante gli stringeva la mascella con una forza tale dafargli temere che si sbriciolasse al più piccolo movi-mento.

Le ultime parole del Torturatore gli turbinavano intesta.

«Lei che cosa avrebbe voluto che facessi, Danny?»gli aveva chiesto, così vicino che Danny ne aveva senti-to l’alito: odore di menta fresca, forse portato fin lì daun bagno pulitissimo del piano di sotto. Due minutiprima gli aveva infilato le pinze in bocca e gli avevastrappato i denti.

Solo in quel momento Danny si rese conto che la tor-tura implica un’inquietante intimità. Non ci aveva maipensato. Si sentì vicino al Torturatore quanto si potreb-be esserlo a una donna che si vede nuda per la prima

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volta. Era un’intimità scaturita dal potere di infliggeresofferenza, un’intimità che li univa in una danza lenta efunesta. Danny immaginò il Torturatore davanti allospecchio che si faceva i gargarismi con il collutorio esputava nel lavandino, per poi salire al piano di sopracon le pinze nella tasca posteriore. Pronto a mettersi allavoro. L’odio gli strinse lo stomaco, mescolandosi allapaura. Gli venne la nausea e represse l’impulso di vo-mitare mentre il mondo gli ballava davanti.

«Bastardo... Bastardo del cazzo.» Sputò un sottile ve-lo di goccioline rosse per ogni parola articolata con fa-tica, fissando le piastrelle marroni del terrazzo su cuigiaceva rannicchiato, le mani strette dietro la schiena.

Non lo sentì nessuno. La porta del terrazzo erachiusa. Il Torturatore se n’era andato, lasciandosi allespalle solo le sue domande.

«Lei che cosa avrebbe voluto che facessi? Pensaci,Danny» gli aveva ripetuto il Torturatore, avvicinandosiancora di più. Aveva pronunciato quel lei con un’enfa-si particolare, come se menzionarla potesse evocarne lapresenza. Poi aveva stretto con forza la faccia di Dannyrivolgendogli un sorriso solidale, persino compassione-vole, prima di colpirlo brutalmente con la mano. Nonaveva avuto nemmeno bisogno di stringere il pugno.Era bastato un tocco lieve per spaccargli le gengivemalconce e inondargli la testa di un dolore intenso. Al-la fine se ne era andato, asciugandosi le mani sporche disangue con una salvietta pulita, che poi aveva lanciatoin un angolo come se avesse semplicemente appena fi-nito di pisciare.

«Pensaci su. Ti concedo mezz’ora» gli aveva detto,chiudendosi la porta alle spalle. Clic.

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Danny tossì e gli si riempì la bocca di catarro e san-gue. Un fiotto di materia rossa appiccicosa gli colò sulmento, poi sulla camicia e sulle piastrelle polverose del-la terrazza. Sapeva che il Torturatore era al piano di sot-to, eppure quella casa sembrava vuota. Era immobile esilenziosa nell’aria densa e umida che ogni sera avvolge-va Freetown come una spessa coltre di nebbia invisibi-le, in grado di soffocare chiunque vi rimanesse intrap-polato.

Danny si contorse e si trascinò a sedere; piegò le gi-nocchia e fece passare le mani legate sotto le gambe.Aveva le braccia indolenzite, così le allungò in avanti,cercando di allentare il più possibile i lacci di plasticache gli laceravano i polsi. Poi si fermò, respirando af-fannosamente e cercando di calmarsi.

Da quella nuova posizione riuscì a spingere lo sguar-do oltre il parapetto della terrazza. Non sapeva che orefossero. Forse mezzanotte. Non che avesse molta im-portanza. L’unica cosa che contava erano i trenta minu-ti che gli aveva concesso il Torturatore. Inutile pensarea un futuro che andasse oltre quei trenta minuti.

Le luci di Freetown brillavano a intermittenza sulfianco della collina, sempre più fitte in corrispondenzadelle baracche del centro e del porto. Dal punto in cuisi trovava, sulla sommità della collina, non si sentiva al-cun rumore, ma immaginò il caos, il via vai della città,il traffico sulla vecchia autostrada. Una fila discontinuadi puntini rossi si dirigeva verso il cuore del paese, euna fila più spessa di puntini bianchi marciava nella di-rezione opposta. Ancora più lontano intravide il corsoserpeggiante del fiume che sfociava nella baia di Free-town. Poi solo l’oscurità dell’oceano, una sorta di mac-

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chia d’inchiostro all’orizzonte, illuminata unicamentedalle luci delle navi di passaggio, al largo.

Riuscì a calmarsi. Il panico e il terrore si stavano atte-nuando. Un odore acre gli fece capire di essersi piscia-to addosso. Aveva l’inguine e le gambe bagnate di uri-na e i calzoni fradici gli si erano appiccicati alla pelle.Sentì un breve, doloroso impeto di vergogna, come unbrusco ritorno a una sensazione infantile da tempo di-menticata. Avrebbe voluto togliersi i pantaloni, allon-tanarli da sé. Scalciò e si dimenò. Niente. Uno sforzodisperato. Tutta quella situazione era disperata. Nonavrebbe potuto far altro che starsene seduto lì in attesadel Torturatore. Scoppiò a piangere, ma senza singhioz-zare; semplicemente, le lacrime gli riempivano gli oc-chi, offuscandogli la vista. “Lei che cosa avrebbe volu-to che facessi adesso?” si chiese. Aveva parlato a vocealta o lo aveva semplicemente pensato? Chissà.

Maria era morta da tre mesi.Con lo sguardo fisso sul pavimento cercò di richia-

mare alla memoria qualcosa di lei. Pensò alla sua pelle,al suo odore, al suono della sua voce, a quando gli sfio-rava una guancia con la mano o gli scompigliava i ca-pelli. Qualsiasi cosa. Voleva rievocarla viva nella suamente per riuscire a immaginare la risposta a quella do-manda. Ma la memoria non gli venne in aiuto. Fece al-cuni respiri profondi e sputò altro sangue. Guardò dinuovo verso Freetown con le sue luci in lontananza.

Adesso riusciva a concentrarsi, ad avere la luciditàper pensare a quello che avrebbe detto al Torturatore.A Danny non importava quello che lei avrebbe voluto.A lui importava vivere. “Voglio vivere” pensò. Vogliovivere.

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Scandì le parole una per una. «Io-voglio-vivere.»Voleva unirsi di nuovo a quel mondo di luci e navi di

passaggio che stava sotto di lui. Iniziarono a caderegrosse gocce di pioggia; erano calde al contatto con lasua pelle, calde e piacevoli. Vive. Presto sarebbero scro-sciate copiose, fondendosi con il suo sangue e le sue la-crime. Scorrendo sulle sue guance e lavando via tutto.

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Londra, tre mesi prima

La lettera giaceva sullo zerbino di Danny, così anoni-ma in mezzo ai colori vivaci di bollette indesiderate evolantini pubblicitari. L’indirizzo, un po’ sbavato, erastato scritto a mano. Ne rimase sorpreso. Un insolitotocco di umanità fra tutta quella carta stampata.

Danny batté le palpebre, ancora piene di sonno. Piùche perplesso era incuriosito: non ricordava nemmenol’ultima volta in cui qualcuno gli aveva scritto una lette-ra vera. Poi vide il francobollo e capì.

Veniva dalla Sierra Leone.La fissò come se si trattasse di un silenzioso ospite

inatteso che bussava alla sua porta. Girò la busta: l’in-dirizzo del mittente mancava; c’era solo il suo, scrittocon una grafia forse femminile, tutta inclinata verso si-nistra. Non la riconobbe. Comunque non aspettavanessuna lettera.

I suoi pensieri, però, si erano già raccolti intorno a unnome. Maria? All’improvviso quel nome tornò a esser-gli familiare. Lasciò che la sua mente lo ripetesse, acca-

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rezzando le vocali e le consonanti come le curve di uncorpo. Maria, Maria, Maria. Girò di nuovo la busta,quasi temendo di veder comparire un altro nome, unaltro indirizzo sulla carta logora. Invece no. Il suo no-me e il suo indirizzo erano ancora lì. Sentì un lieve scal-piccio di passi alle sue spalle in corridoio. Un bracciogli cinse la vita da dietro.

«Tesoro,» disse la sua ragazza «c’è qualcosa perme?»

Voltandosi, Danny si infilò con un movimento rapi-do la lettera nella tasca posteriore, e gettò il resto dellaposta su una credenza. Quasi arrossì per quel sotterfu-gio.

«Solo bollette e roba del genere.» Rachel gli sorrise; era stanca, ma sembrava allegra. I

capelli biondi le incorniciavano il viso e le finivano su-gli occhi ancora mezzi addormentati, di un azzurro in-tenso nella grigia luce del mattino. Indossava la sua ve-staglia rossa tutta consunta che possedeva fin dai tempidell’università. Era il suo portafortuna, diceva; e poi eraanche comoda.

«Vuoi che ci pensi io?» gli chiese. Prese in mano unagrande tazza di caffè fumante e si alzò in punta di pie-di per baciarlo sulla guancia. «Ho un’ora libera stamat-tina.»

Danny scosse la testa e le restituì il bacio. Gli piace-va il contatto con la sua pelle. Senza neanche guardarlasapeva che aveva chiuso gli occhi. Lo faceva sempre.

«No, ci penso io.» «D’accordo. Passa una buona giornata in ufficio,

amore.» Gli sorrise. Era il suo modo di scherzare: fin-gere una routine quotidiana tipica di una coppia conso-

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lidata. Anche se ogni giorno la finzione si faceva sem-pre più reale.

«Mi fai trovare la cena pronta?» continuò lui, rispon-dendo a tono.

«Te ne sei dimenticato! Cattivo fidanzato» finse diredarguirlo. «Devo prendere un aereo a mezzogiornoper quella conferenza a Edimburgo. Tornerò tardi.»

Danny le prese il volto tra le mani e la baciò sullabocca, indugiando un istante per godere del suo calore.

«Devo andare. Buon viaggio» le disse. Uscì e si chiu-se con forza la porta alle spalle. Fu allora che sentì il pe-so della lettera nella tasca posteriore. Non sembrava dicarta, ma di piombo. Controllò l’orologio: le 8.30. Dio,quanto detestava la mattina. Era già in ritardo.

Quando il treno della metropolitana si fermò con unsussulto, gli occhi di Danny si aprirono di scatto. Negliultimi quattro anni, da quando era tornato dalla guerrain Sierra Leone, il rumore del treno era diventato unritmo familiare quanto il battito del suo cuore, così ave-va preso l’abitudine di addormentarsi. Prima sfruttavasempre quei momenti per rileggere gli appunti, studia-re i quotidiani, prepararsi ai lavori della giornata. Ades-so invece, in quei trenta minuti, preferiva sonnecchiarepigramente.

Il treno si era fermato in mezzo a una galleria. Un ri-tardo. Danny si guardò intorno, scrutando i compagnidi viaggio accalcati nel loro anonimato. Pochi di loroesprimevano qualcosa di diverso da un lieve disap-punto. Alla sua destra c’era un uomo non più giovane,perfetto nel suo completo gessato, con lo sguardo fis-so davanti a sé come se fosse in trance. Aveva superato

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la mezza età e il suo doppio mento era decisamentepronunciato: stava perdendo la lunga battaglia con laforza di gravità. Per un istante quell’uomo gli ricordòuna candela che si consuma. Aveva anche un naso ros-so e punteggiato da un’esplosione di capillari, segnoevidente dell’abitudine ad alzare il gomito. Se ne ve-devano tante di facce così nella redazione di Danny:era il marchio dei veterani di Fleet Street, la strada incui una volta si concentravano i principali quotidianilondinesi. A quei tempi l’alcol era necessario quantol’inchiostro per far uscire un giornale. Era la stessafaccia che suo padre aveva sempre sfoggiato con orgo-glio.

Danny lo aveva visto proprio il giorno prima, in unpranzo domenicale teso e pesante, rovinato dai due vi-zi capitali della famiglia Kellerman: vino rosso e onestà.Come sempre suo padre aveva espresso tutta la propriadisapprovazione per l’orientamento liberale della testa-ta per la quale Danny scriveva. E, come sempre, Dannyaveva contrattaccato tirando in ballo il divorzio dei ge-nitori.

«Alla faccia dei tuoi “valori familiari”, Harold» gliaveva detto Danny ridacchiando: in un colpo solo ave-va colpito le idee politiche e la vita privata del padre. El’uso del nome di battesimo era stata la ciliegina sullatorta. Puzzava di quell’educazione liberale tanto di mo-da, contro la quale il padre, decisamente conservatore,amava polemizzare. Funzionava ogni volta. Il vecchioKellerman si era lanciato con veemenza in un monolo-go contro la Gran Bretagna moderna, snocciolando leargomentazioni che Danny aveva già letto migliaia divolte.

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Detestava quegli articoli, anche se avevano fatto diHarold Kellerman una leggenda di Fleet Street. Eranoinfarciti di pregiudizi e luoghi comuni, eppure gli ave-vano fruttato diversi premi giornalistici. Una bella dif-ferenza rispetto all’arrancante carriera di Danny, scan-dita da modesti scoop di cronaca nera e politica.Harold si era poi lanciato in una lunga digressione suiveri eroi del giornalismo: i corrispondenti dall’estero,impegnati nelle zone calde del mondo. Se avesse potu-to tornare indietro, aveva farfugliato, avrebbe intrapre-so lui stesso quella strada, come avevano fatto molti deisuoi compagni di Oxford. Danny lesse quell’osservazio-ne come l’ennesima frecciata, l’ennesima allusione all’a-bisso che separava padre e figlio, di sicuro non colma-to da nulla che somigliasse all’amore. Era stata unascena orribile a giudicare dalle espressioni accigliate de-gli altri clienti del migliore ristorante di Londra. A peg-giorarla aveva pensato la salute ormai compromessa diHarold. Nemmeno l’alcol e la rabbia avevano restituitocolore al suo viso.

Il treno avanzò sussultando di un paio di metri e ilmovimento spostò i pensieri di Danny. La sua attenzio-ne si concentrò su un uomo al centro della carrozza.Era giovane e aveva una pelle di un nero così intenso dasembrare quasi blu. Era alto e sottile; indossava un paiodi jeans che gli cadevano male e una camicia stirata al-la perfezione. Era africano. Danny non aveva dubbi.All’improvviso gli venne in mente la lettera ancora sigil-lata che aveva in tasca: ne sentì quasi il contatto direttocontro la carne, attraverso i vestiti. Un profumo tropi-cale si diffuse nell’aria viziata e soffocante della metro-politana, un’aria che ti si appiccicava alla pelle, proprio

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come a Freetown, dove era impossibile sottrarsi a quel-l’abbraccio umidiccio. Danny iniziò a sudare.

Non voleva ancora pensare a Maria. Non riusciva aspiegarsi perché aveva nascosto quella lettera a Rachel.Dopo tutto, era solo il messaggio di una ex. Nient’altro.Si sentì in colpa, ma in fondo, si disse, non aveva fattonulla di male. E poi Rachel non avrebbe mai voluto sa-pere nulla, qualsiasi cosa Maria avesse da dire. Quellalettera l’avrebbe solo confusa. Lui stesso non voleva sa-pere nulla degli ex di Rachel, per quanto lei avesse l’in-quietante capacità di restare amica di tutti. La sua natu-ra sembrava in grado di curare le ferite di qualunque exfidanzato. No, aveva fatto bene a nascondere la lettera.In fondo, tutti hanno diritto a un passato.

Guardò di nuovo l’uomo che gli stava di fronte. Chiera? Un rifugiato ugandese? Un ghanese che spediva acasa soldi preziosi? La speranza di un clan tribale sco-nosciuto? Oppure era un emigrato solitario che avevatroncato ogni legame con le proprie origini pur di rea-lizzare sogni concepiti in una capanna polverosa? Di si-curo quei sogni non avevano mai compreso un trenodella metropolitana bloccato sui binari, in attesa di rag-giungere la stazione di King’s Cross.

Lo si capiva dalle scarpe che non era inglese: un belpaio di scarpe eleganti nere, fuori moda, del tipo cheDanny forse aveva indossato per andare a scuola. Stro-finate al punto da assumere una lucentezza irreale. Era-no scarpe “da villaggio”, esibite come segno d’orgogliodai loro possessori una volta a casa, ma vistosamentefuori luogo a Londra.

Danny represse l’istinto di agitare una mano; quandoil treno finalmente si rimise in movimento, l’uomo aprì

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gli occhi e lo fissò. Danny distolse lo sguardo, perden-dosi un sorriso sorpreso ma amichevole. Erano a Lon-dra, non certo un posto in cui familiarizzare con unosconosciuto. Qualche secondo dopo, mentre la folla siriversava nella stazione di King’s Cross, il ragazzo afri-cano sparì alla vista. Danny ne intravide la schiena, in-ghiottita dalla ressa dell’ora di punta, con le sue scarpeche lo portavano nella città in superficie.

Danny fece il suo ingresso in ritardo nella redazionedi «The Statesman» e salutò i colleghi con un cenno.Lo accolse la confusione che aveva lasciato sulla scri-vania la settimana precedente. Una serie di bicchieri dipolistirolo pieni di mozziconi di sigaretta immersi inun liquido marrone che una volta era stato caffè. Dannyli fece cadere tutti nel cestino, avvertendo un odore ditabacco fradicio, rancido. Non sapeva neanche luiperché fumasse ancora: non gli piaceva più e ogni vol-ta che tossiva, la mattina, sentiva male al petto. Primao poi avrebbe smesso. Eppure, nel momento stesso incui formulò quel pensiero, avvertì il morso del deside-rio di nicotina. Infilò una mano in tasca alla ricerca diun pacchetto accartocciato di Camel Light ed estras-se una sigaretta piegata a boomerang. La raddrizzò ese la appoggiò alle labbra, da un lato. Si sentì subitoaddosso un’occhiata fulminante della responsabiledella pagina della salute, Janet Ellis, che gli sedeva difronte.

«Giorno, Jan» disse Danny accendendosi la sigarettae aspirando una profonda boccata. Le fece l’occhiolino.La donna strinse gli occhi e tornò a rivolgere lo sguar-do al suo computer. Da quando e perché era diventato

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così acido? Non poteva farci niente, come se gli fossecapitato in un momento di disattenzione.

Fece un altro tiro, si sedette e recuperò il telefonosotto una pila di blocchi di appunti, zeppi dei suoi sca-rabocchi illeggibili. Il tono acuto della suoneria annun-ciò un messaggio. Danny digitò alcuni numeri e iniziò apassare in rassegna i titoli di testa dei giornali.

«Lei ha un nuovo messaggio» intonò la voce metalli-ca al telefono. L’accento affettato del padre proruppenel suo orecchio. Il vecchio doveva schiarirsi la voceprima di parlare, anche solo per lasciare un messaggio.

«Daniel, sono tuo padre. Senti, sono davvero dispia-ciuto per ieri.» Aveva lo stesso tono arrogante di sem-pre, anche se più debole del solito, come se dovesse fer-marsi tra una parola e l’altra per riprendere fiato.

«Credo che tutti e due abbiamo detto cose un po’...ecco... fuori luogo. So che la situazione fra me e tua ma-dre non è mai stata facile per te, ma non lo è stata nean-che per noi...»

Danny si sentì attraversare da un impeto d’ira. Per luinon era stato facile? Bastardo. Lui era scappato con unache aveva la metà dei suoi anni. Aveva abbandonato lamoglie dopo trent’anni di matrimonio per una segreta-ria del suo giornale. Danny schiacciò il tasto CANC esbatté con forza la cornetta. Ancora una volta si sentì ad-dosso lo sguardo di Janet Ellis. Aspirò un’altra boccata,poi spense la sigaretta in un portacenere traboccante.

A quel punto si ricordò della lettera. Infilò una ma-no in tasca e la estrasse. La fissò, studiando il francobol-lo dai colori vivaci e il timbro postale. Era stata speditapiù di quattro settimane prima. Un bel po’ di tempo an-che per le inefficienti poste africane.

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Aprì la busta: dentro c’era un solo foglio. Per un at-timo, senza capire se fosse vero o frutto della sua imma-ginazione, sentì una fragranza familiare, un messaggioda un continente lontano, da un altro tempo. Poi videla parola che aveva al tempo stesso sperato e temuto divedere. Anzi, non una parola. Un nome.

Maria.Iniziò a leggere. La lettera era scritta con parole sem-

plici e dirette, poche righe in tutto. Ma per lui erano ilmondo intero.

Danny,ho bisogno di te. Sono nei guai. Lo so che è passato unsacco di tempo e mi dispiace. È colpa mia e spero che miperdonerai. Non posso usare il telefono o la posta elettro-nica per chiederti questo favore. Non sono abbastanza si-curi. Devi venire a Freetown ad aiutarmi. Ti spiegheròtutto.

Con l’amore di sempre,Maria

Danny rimase in silenzio, quasi inebetito, e poi scop-piò a ridere. Si accorse che Ellis aveva alzato la testa discatto, ma la ignorò. Non riusciva a credere a quelloche aveva appena letto. Cosa cazzo le era passato per latesta? Quattro anni senza ricevere notizie, quattro annidi nulla assoluto e poi questo? Rilesse la lettera. Cherazza di persona poteva mandare un messaggio del ge-nere, così melodrammatico e misterioso? E perché nonpoteva usare il telefono o mandare una fottuta e-mailcome chiunque altro? Pensava che bastasse una letteraa farlo tornare indietro nel tempo, a fargli mettere da

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parte la sua vita per precipitarsi in Africa? Rise di nuo-vo; era un ghigno privo di qualsiasi traccia di umori-smo, più simile al verso di uno sciacallo. Scosse la testaper sbarazzarsi dei ricordi vividi di quella donna che glistavano montando in testa.

Lesse quelle righe un’altra volta. E a poco a pocodentro di lui iniziò a farsi strada un’emozione diversa:era paura. Maria era stata la donna più forte, più deter-minata che avesse mai conosciuto.

Eppure, le parole erano chiare: Ho bisogno di te. So-no nei guai.

Cazzo, Maria non aveva mai avuto bisogno di lui.Doveva chiamarla. Immediatamente. Accese il compu-ter e andò alla home page di War Child International,l’organizzazione non profit per cui lei lavorava. Loschermo si riempì di immagini della Sierra Leone,bambini sorridenti o in lacrime. Navigò sul sito alla ri-cerca di un contatto telefonico. Nulla, solo una casellapostale di Freetown. Sospirò per la frustrazione. Era ri-dicolo.

Digitò il nome di Maria su Google e cliccò su “cerca”.I risultati apparvero sullo schermo come un’improvvisacascata di lettere.

In seguito si sarebbe meravigliato di come un sempli-ce clic potesse cambiare tante vite. Avrebbe potuto but-tare la lettera in quel preciso istante: dopo tutto, era so-lo un messaggio da un passato rimosso. Ma non lo fece.Mettendosi alla ricerca di quella donna lì, dalla sua scri-vania, aveva già iniziato a rispondere alla sua chiamata.Fissò il monitor. Il nome di Maria compariva dapper-tutto; il titolo della prima voce gli disse tutto ciò cheaveva bisogno di sapere.

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OPERATRICE UMANITARIA STATUNITENSE UCCISA IN

SIERRA LEONE. SALMA PRESTO A CASA.Aveva la data di tre giorni prima.Maria era morta.La notizia lo stordì e un’oscurità nera come l’inchio-

stro gli strinse il campo visivo. Cliccò sul titolo e lesse.

FREETOWN – Il corpo dell’operatrice umanitaria americanaMaria Consuelo Tirado è stato ricondotto ieri a Freetown, ca-pitale della Sierra Leone, nazione un tempo sconvolta dallaguerra, in vista del suo ritorno negli Stati Uniti.Tirado, uccisa giovedì scorso in quello che si sospetta siastato un tentativo di rapina o di sequestro, lavorava per un’or-ganizzazione non profit impegnata nella rieducazione dellemigliaia di ex bambini-soldato del paese. Aveva 36 anni.

Era solo un flash d’agenzia di un paio di paragrafi.Asciutto e freddo; fatti e poco altro. Lo rilesse freneti-camente. “Salma”? Maria era una “salma”? Inconcepi-bile. Danny guardò la lettera sulla scrivania; si accorsedi respirare in maniera sempre più affannosa, veloce,secca. Non sentiva più nessun profumo ora. Nulla dinulla, a parte l’aria immobile che gli trasmetteva unasensazione di freddo intenso. Scrutò di nuovo quelleparole, ricalcando la grafia armoniosa, le volute e i ric-cioli.

Ho bisogno di te. Sono nei guai.Selezionò un altro titolo: erano diversi giorni che

Maria faceva notizia. Non solo a Londra, anche inAmerica. Il primo articolo vero e proprio risaliva a tregiorni prima. Buona parte dei principali giornali statu-nitensi lo aveva pubblicato.

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OPERATRICE UMANITARIA AMERICANA

UCCISA IN SIERRA LEONE

FREETOWN – Un’operatrice umanitaria americana è statauccisa oggi in Sierra Leone, nell’Africa occidentale. Secon-do la polizia locale si è trattato di un tentativo di rapina o disequestro.Maria Tirado, 36 anni, si trovava in viaggio con alcuni col-leghi del posto su una strada che collega la capitale, Free-town, alla città di Bo, nell’interno. Secondo la polizia, alcu-ni banditi hanno fermato l’auto a un posto di blocco. Sonospariti telefoni cellulari e soldi.Un medico dell’ospedale di Bo ha dichiarato che Tirado èstata colpita da almeno tre colpi d’arma da fuoco a brucia-pelo. Nella sparatoria sono rimasti uccisi anche tre opera-tori umanitari della Sierra Leone che viaggiavano con lei.Maria Tirado lavorava per War Child International, un’orga-nizzazione non profit impegnata nella rieducazione deibambini-soldato, traumatizzati dai dieci anni di conflitto, ter-minati nell’estate del 2000 dopo l’intervento dell’esercitobritannico e delle Nazioni Unite.Secondo la polizia, un reparto di soldati governativi ha poi uc-ciso i sei banditi ritenuti responsabili della rapina nella bosca-glia intorno a Bo. Si sospetta che tutti e sei fossero ex militan-ti del Fronte Rivoluzionario Unito, uno spietato gruppo ribelle.Un portavoce dell’ambasciata americana a Freetown ha re-so omaggio al lavoro svolto da Maria Tirado, ripercorrendogli otto anni da lei trascorsi in Sierra Leone durante uno deimomenti più difficili della lunga guerra civile.Tirado era originaria di Portorico, ma era cresciuta a Tole-do, Ohio.(AP)

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C’era dell’altro. Diversi giornali dell’Ohio si eranointeressati alla vicenda e avevano pubblicato un pezzosulla famiglia Tirado.

Danny lo lesse, mentre i nomi dei parenti di Maria glirimbalzavano in testa.

«La mia bambina non c’è più» dichiarava la madre.«Continuo a pensare che possa entrare dalla porta d’in-gresso da un momento all’altro e dirci che è stato soloun terribile errore» diceva il padre.

Danny lesse quelle parole e si sentì tramortito. Unavolta, poco prima di salutarsi, erano a letto e Maria gliaveva parlato dei suoi genitori. La classica storia ame-ricana di immigrazione, indorata dalla patina di orgo-glio con cui Maria l’aveva raccontata. I genitori, giova-ni e innamorati, avevano abbandonato “l’isola” perapprodare in Ohio. Lì erano riusciti a conquistarsi unanicchia nella middle class americana, ignorando i con-tinui insulti alle loro spalle per le loro origini portori-cane. Maria era stata la punta di diamante delle lorosperanze.

Danny fissò ancora quelle parole, poi, senza pensare,si alzò in piedi. Stampò gli articoli, li raccolse e attraver-sò la redazione per raggiungere l’ufficio del caporedat-tore. Era come se avesse inserito il pilota automatico,come se guardasse se stesso dall’alto, da un osservato-rio distaccato. Sarebbe tornato in Sierra Leone. Dove-va farlo.

Bussò una volta alla porta a vetri ed entrò. Tom Hen-nessey sollevò lo sguardo e Danny posò i fogli sulla scri-vania.

«La conoscevo» esordì, con un tono più brusco diquanto intendesse.

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Le parole gli sgorgarono fuori dalla bocca. Non eraquello che avrebbe voluto dire, ma nella sua testa nonc’era altro. Una semplice verità. La conoscevo. Io cono-scevo la persona citata nell’articolo. La conoscevo incarne e ossa, non come un titolo di giornale. E adessonon c’è più.

Maria è morta.Hennessey passò rapidamente in rassegna i fogli.

«Merda. Mi dispiace, Danny. L’hai conosciuta nel2000?»

Danny annuì. Hennessey sembrava non avere altroda aggiungere, così Danny ruppe il silenzio mettendo lalettera di Maria sopra gli altri fogli, a faccia in su, comeun atto di accusa.

«L’ho ricevuta stamattina con la posta.» Hennessey la lesse ed emise un fischio a denti stretti.

Pareva interessato.«Porca puttana» sussurrò. Strinse gli occhi. «È tutto

vero?»Danny ignorò la domanda. «Devo tornare a Free-

town.» Era un bisogno impellente, una sete da placare.Hennessey guardò di nuovo gli articoli, poi la lette-

ra, quindi li posò sulla scrivania spingendoli versoDanny.

«Stammi a sentire,» disse Tom «so bene che è statadura per te in Sierra Leone. Cazzo, sarebbe stata duraper chiunque. E so che ti senti legato a quel posto... Poiora che la tua amica è stata uccisa proprio lì...»

Hennessey sottolineò con una leggera enfasi la paro-la amica. Non troppo, ma a sufficienza perché Dannycapisse che il suo capo non era uno stupido.

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«Però non credo che questa storia interessi al gior-nale. Mi dispiace dovertelo dire, ma... quella donnanon è nemmeno inglese.»

Danny si sentì sul punto di esplodere. Non è inglese?Cercò di controllarsi e attese che Hennessey cuocessenel suo brodo, lasciandogli il tempo di riflettere su ciòche aveva appena detto. Funzionò. L’espressione diHennessey si ammorbidì. Fece una smorfia.

«Scusami, Danny. Era una tua amica. Scusa.»Poi si appoggiò allo schienale della poltrona e incro-

ciò le mani dietro la testa. «Convincimi.»Danny ci pensò su un momento.«Quattro anni fa l’esercito inglese è stato inviato in

Sierra Leone per fermare una guerra. E ci è riusciuto.Io c’ero. Poi però abbiamo abbandonato il paese, con-vinti che tutto si fosse sistemato, e che quel popoloavesse un brillante futuro davanti. Ma com’è quel po-sto adesso? Pensaci. Se succedono ancora cose comequesta, se ci sono ancora ex membri del Fronte Rivolu-zionario Unito che se ne vanno in giro ad ammazzaregli operatori umanitari, allora a che cosa è servito?Quattro anni fa era la storia più seguita in Gran Breta-gna ma, da allora, non ce ne siamo più occupati. Eccoil seguito di quella storia, un seguito atteso da troppotempo.»

Hennessey ci pensò un po’. Si capiva che stava pren-dendo in considerazione la cosa. Bastava solo un’altraspintarella. Danny indicò la lettera sulla scrivania.

«Posso utilizzarla come spunto personale per rac-contare quella realtà» aggiunse. Guardò la lettera inmezzo a loro, quella richiesta di aiuto spezzata per sem-pre da una morte orribile.

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«Maria era nei guai» continuò, rivolgendosi sia a sestesso sia a Hennessey. «Non so in che genere di guai,ma non può essere una coincidenza. Non la sentivo daquattro anni e, all’improvviso, mi scrive per chiedermiaiuto. Però prima ancora che la lettera giunga a desti-nazione, viene assassinata. Dice di essere nei guai. Dicedi aver bisogno di me. Che non può nemmeno usare iltelefono. Non so cosa significhi tutto questo, Tom, maqualche bastardo l’ha ammazzata.»

Danny trasalì sentendo le parole uscite dalla sua stes-sa bocca: gli tornarono in mente quegli articoli, con illoro linguaggio scarno a confermare ciò che la sua im-maginazione poteva facilmente ricostruire. Una stradatortuosa nella calura opprimente di mezzogiorno, inmezzo a una fitta boscaglia. Un’automobile solitaria di-retta a nord, i passeggeri che chiacchierano o magari sene stanno in silenzio, assopiti di fronte alla prospettivadi un lungo viaggio. Non sono spaventati, non sononemmeno consapevoli dei pochi secondi che li separa-no dalla morte. Tra loro c’è anche Maria. Gli assassiniaspettano, sono in agguato, pronti a colpire. L’improv-viso crepitio delle armi... Si fermò. E si costrinse a par-lare.

«Maria non aveva mai paura di nulla. Non aveva maibisogno di nessuno. Non si tratta di una semplice rapi-na, Tom. Era in pericolo: qualcuno l’ha fatta uccidere.Devo scoprire chi. Voglio scoprire perché.»

Hennessey scrollò le spalle.«Non lo so, Danny. A volte le cose sono quello che

sembrano. La Sierra Leone è ancora un posto difficile.È possibile che si sia semplicemente trovata nel postosbagliato al momento sbagliato.»

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«In un caso o nell’altro, è comunque l’abbozzo diuna storia» sbottò Danny. «È uno spunto per un pezzoin stile rotocalco.»

Le parole gli erano già uscite di bocca quando se nerese conto: stava vendendo la morte di Maria come ideainteressante per un servizio. Ma il senso di colpa fu ra-pidamente rimpiazzato dalla determinazione: avrebbefatto di tutto pur di tornare a Freetown. Alla fine Ma-ria aveva avuto bisogno di lui e in un modo che nonavrebbe mai creduto possibile quando erano insieme aFreetown.

All’improvviso gli ultimi quattro anni a Londra, ilsuo lavoro, la sua casa, persino Rachel, divennero unsogno grigio da cui si stava risvegliando. Solo una rac-colta di ricordi. Freetown e Maria, invece, erano la suarealtà.

«Devo preoccuparmi per te?» chiese Hennessey al-lungandosi in avanti. «Da quando sei tornato non seipiù quello di prima. E non sono l’unico a esserne con-vinto. Vuoi davvero scriverci una storia o vuoi andare lìper te stesso?»

«Ti darò una storia, Tom. Dammi lo spazio e io te loriempirò con una storia.»

Hennessey ci pensò su ancora, ma Danny sapeva diaverlo già in pugno. Aspettò; Hennessey si accese unasigaretta.

«Al diavolo, cazzo» esclamò alla fine. Pausa. «Senti,Danny. Non fraintendermi, ma stavolta devi essere pro-duttivo. Non posso permettermi di pagarti una speciedi psicoterapia nella giungla.»

Danny si sentì sollevato. Sarebbe tornato in SierraLeone.

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Si girò e se ne andò. Hennessey lo seguì con lo sguar-do, immobile. Non si era nemmeno reso conto che lasigaretta che teneva in mano si era ormai ridotta in ce-nere.

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