Il senso degli opposti - a cura di Ferruccio Andolfi anteprima

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IL SENSO DEGLI OPPOSTI A cura di Ferruccio Andolfi Anima e corpo Libertà e grazia Ragione e passioni Giustizia e compassione Libertà e uguaglianza Amore e odio Individuo e Stato

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IL SENSO DEGLI OPPOSTI

A cura di Ferruccio Andolfi

Anima e corpoLibertà e grazia

Ragione e passioniGiustizia e compassioneLibertà e uguaglianza

Amore e odioIndividuo e Stato

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– P e n s a r e l a v i t a –

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Coordinamento editorialeFabio Di Benedetto

RedazioneLeandro del Giudice

Progetto grafico e copertinaAnna Bartoli

ISBN 978-88-8103-771-1

© 2014 Edizioni DiabasisDiaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia

telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected]

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Il senso degli oppostiA cura di Ferruccio Andolfi

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Introduzione di Ferruccio Andolfi

IL SENSO DEGLI OPPOSTI

Anima e corpo in PlatoneAlberto Meschiari

Libertà e grazia in LuteroAlberto Siclari

Ragione e passioni in SpinozaPaolo Cristofolini

Giustizia e compassione in SchopenhauerFerruccio Andolfi

Libertà e uguaglianza in TocquevilleElena Pulcini

Amore e odio: Empedocle e FreudFederica Montevecchi

Individuo e Stato nel pensiero di AdornoItalo Testa

Vita contemplativa e vita attiva in Hannah ArendtPaolo Costa

I Relatori

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Introduzione

Una certa saggezza popolare ci ha reso familiare l’ideache la verità non si trova mai da una sola parte ma si di-vide equamente tra gli opposti partiti. Manzoni se ne fainterprete quando nei Promessi sposi scrive: «La ragionee il torto non si divide mai con un taglio così netto cheogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altra». Ungrande filosofo di quella medesima epoca, Hegel, ne hadato una formulazione “nobile” nella sua dialettica degliopposti, in base alla quale nessuna posizione (tesi) rac-chiude in sé la totalità del vero, ma rimanda a un terminecontrario che la nega (antitesi) e la loro simultanea veritàsi esprime in un terzo termine (sintesi).

Il terzo corso di formazione filosofica Pensare la vita,che si è tenuto a Parma nel 2013 per iniziativa dell’asso-ciazione La Ginestra, con il patrocinio del DipartimentoALEF – Area di Filosofia e il decisivo contributo dell’As-sessorato alla Cultura del Comune di Parma, è stato de-dicato appunto al tema Il senso degli opposti. Ciascunrelatore ha trattato una polarità fondamentale dell’esi-stenza e della vita associata (anima e corpo, amore e odio,ragione e passioni, vita contemplativa e vita attiva, libertàe grazia, giustizia e compassione, individuo e Stato, li-bertà e uguaglianza) a partire da un autore in cui si è ma-nifestata in modo particolarmente significativo.

Questa rete di riflessioni ha permesso di comprenderemeglio, e in maniera meno superficiale, in che senso en-

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trambi i poli di ogni opposizione possono essere veri.Non si tratta di attribuire un uguale valore a entrambi,per un malinteso senso di equanimità, e neppure di sup-porre che ci sia un terzo elemento che li supera. Le piùinteressanti visioni del mondo sono state create grazie auna certa parzialità, scegliendo cioè uno dei due terminicome fondamentale e cercando di pensare quello oppo-sto a partire da esso.

Naturalmente non è affatto la stessa cosa se la sceltacade su un termine (o un valore) o su quello opposto. Illettore non avrà difficoltà a capire quali sono in meritogli orientamenti degli autori trattati come dei loro inter-preti. E questi modelli lo aiuteranno, si spera, a schierarsia sua volta.

Questo discorso rischia di restare oscuro senzaun’esemplificazione, per la quale mi rifarò alla coppia ditermini che ho trattato nella mia lezione: giustizia e com-passione. Non si tratta di termini propriamente opposti,si dirà, possono essere concepiti come complementari.Tuttavia nella storia del pensiero e delle religioni non èraro che la logica della giustizia sia stata opposta polar-mente a quella della compassione. Si pensi a come è statopensato il rapporto tra il Dio della giustizia (e della ven-detta) veterotestamentario e quello di amore e miseri-cordia dei Vangeli. Oppure alla morale kantiana, che farisiedere ogni valore nell’osservanza della legge e ha per-sino in sospetto i sentimenti “impuri” della compassione.Del resto egli appartiene a una tradizione che viene dalontano: dagli stoici a Spinoza e si prolunga fino a Nietz-sche e Hannah Arendt. A volte, è il caso di Habermas, siassiste al tentativo di mostrare come per accedere ai va-lori di una bontà positiva non sia necessario uscire dal-

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l’ambito della giustizia. Nondimeno una tradizione nonmeno nobile, da Buddha a Schopenhauer fino a Lévinas,scommette tutto sulla compassione, e concepisce al più lagiustizia come un grado preparatorio della compassione(Karuna, Mitleid). Si intuisce facilmente che da questediverse opzioni scaturiscano disposizioni verso la vitaprofondamente diverse.

Un ringraziamento va ai miei collaboratori che da annicontribuiscono alla progettazione e gestione del corso (Si-mona Del Bono, Annamaria Ricucci, Marco Anzalone),ai moderatori degli incontri (Fabrizio Amerini, SimonaBertolini, Simona Del Bono, Emanuela Giuffredi, Dona-tella Gorreta, Marina Savi, Chiara Tortora), a SabrinaGovi che ha costruito e implementato il blog di Pensarela vita (pensarelavita.wordpress.com), ai tirocinanti chehanno curato l’accoglienza dei corsisti all’ingresso del ci-nema Astra e provveduto alla trascrizione di alcune le-zioni. Lo staff dell’Assessorato alla Cultura del Comune ciha dato una consulenza tecnica preziosa nelle persone diIrene Fossa e Luca Amadasi. Mariagrazia Andriani mi havalidamente aiutato nella revisione dei testi.

Ferruccio Andolfi

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Il senso degli opposti

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Alberto MeschiariAnima e corpo in Platone1

Introduzione

Noi tutti siamo abituati a considerare l’unità psi-cofisica come un dato di fatto. Ma non è statosempre così. Ora, parlare di anima e corpo in

Platone significa riandare alle fonti del pensiero del-l’anima – che precedono di parecchi secoli l’era cristiana– alle origini di una descrizione sistematica del corpo, e aquelle di una comprensione della loro interazione. Ma si-gnifica anche vedere come in Platone i pensieri del-l’anima e del corpo a un certo punto s’intersechinostrettamente con quello della città (polis) e della sua or-ganizzazione. Significa far ritorno alle radici degli inter-rogativi politici in cui ci dibattiamo ancora oggi. Questovi dice quanto sia falsa la vecchia immagine caricaturaledel filosofo con la testa perduta fra le nuvole. Già in Pla-tone filosofia e politica (da polis, appunto) sono inscin-dibilmente intrecciate.

Perché continuiamo ad amare tanto Platone? Proba-bilmente perché è il filosofo che ci ha regalato due grandisperanze, dice María Zambrano: quella di vincere lamorte grazie all’immortalità dell’anima; e quella di rea-lizzare sulla terra il “regno della giustizia”.

Il genere utopia compare per la prima volta nella storiacon La Repubblica (Politeia, in greco) di Platone.

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Alcune brevi coordinate biografiche per inquadrare lasua opera. Platone nasce nel 428 a.C. nel cuore dell’ari-stocrazia ateniese, in una famiglia ricca tanto di beniquanto di genealogia. Vanta addirittura una discendenzada Solone, il primo legislatore di Atene, e una da Codro,ultimo re della città. Lo zio materno, Crizia, era stato unodei Trenta tiranni che nel 404, quando Platone aveva 24anni, aveva rovesciato la democrazia in Atene e fondatoun regime sanguinario. Il potere di Crizia durò pochimesi e fu a sua volta abbattuto da una restaurazione de-mocratica in cui egli stesso trovò la morte. Per tutte que-ste ragioni Platone pareva destinato a seguire la carrierapolitica, come ricorda egli stesso nella famosa Lettera VII,scritta in tarda età. Ma nel 399 avvenne un fatto trauma-tico, destinato ad allontanarlo per sempre dalla scenadella democrazia ateniese. Il regime democratico, cheaveva dato inizialmente prova di una certa tolleranza,processa e condanna a morte il suo maestro Socrate, ac-cusato di traviare i giovani con i suoi discorsi e di aver in-trodotto in città nuovi dei. Fu questo evento a metterePlatone sulla via della filosofia. Da allora in poi egli nonavrebbe cessato di riflettere sul rapporto tra la filosofia ela città, tra la filosofia e la politica.

È dopo quell’evento che Platone comincia a scrivere isuoi dialoghi, quasi tutti ambientati nel trentennio prece-dente. Vi è messa in scena la grande società ateniese nel-l’arco di tempo che va dalla morte di Pericle (429) allaguerra del Peloponneso contro Sparta fino alla sconfittanel 404 e al colpo di stato oligarchico, il cui modello ve-niva proprio da Sparta. I personaggi dei dialoghi, quasitutti morti all’epoca della loro composizione, rappresen-tano quella società, quasi che Platone avesse voluto inter-

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rogare ancora una volta quella generazione per compren-dere gli errori che avevano portato alla crisi della città. In-torno al 387 fonda l’Accademia, dove vent’anni doposarebbe approdato il più grande dei suoi discepoli, Ari-stotele. Convinto che solo un potere filosofico possa porrefine ai mali della polis, nel 388 Platone e alcuni amici del-l’Accademia intraprendono un primo viaggio a Siracusa,una delle maggiori città del mondo greco. Forse si aspet-tava di realizzare là ciò che non era possibile ad Atene,vale a dire un governo di filosofi. Ma tre viaggi nell’arco divent’anni non fanno altro che confermare il fallimentodelle sue aspettative. Platone muore nel 347/6, a settan-tacinque anni, ed è sepolto nel giardino dell’Accademia.

Perché Platone scrive dei dialoghi e non dei trattati?Platone non concepisce la filosofia come un sistema didottrine compiute da imporre ai suoi lettori. Egli mette inscena la filosofia in azione, come dialégesthai (dialogare,confrontarsi, disputare), la filosofia come ricerca apertadella verità (philo-sophia – da philêin = amare indica ap-punto l’amore per il sapere, non il suo possesso, che èsolo degli dei). La filosofia come un interrogarsi collet-tivo sulle questioni di comune interesse: ad esempio sucosa sia virtù. Questo è lo spirito socratico ereditato daPlatone, che rivela di per sé una vocazione democratica.Ed è anche per questo che continuiamo ad amarlo. DiceSocrate nell’Apologia: «una vita senza ricerche non èdegna per l’uomo di essere vissuta». I dialoghi sono ric-chi di tesi filosofiche diverse e talora perfino contrappo-ste, nessuna delle quali è direttamente ascrivibile aPlatone. Platone è l’autore di tutti i suoi personaggi equindi di tutte le loro tesi, anche se s’individuano co-munque alcuni temi forti che costituiscono il nucleo del

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suo pensiero. I dialoghi sono un’opera corale, in cui si hal’impressione di una mancanza di linearità, di coerenza,di un permanere di contraddizioni non risolte. Fra l’al-tro, non è nemmeno sempre possibile ordinarli cronolo-gicamente.

Iliade, storia di una passione

Cantami, o Dea, del Pelìde Achillel’ira funesta, che infiniti addusselutti agli Achei, gettò in preda all’Ademolte vite gagliarde di eroi,lasciate in pasto ai cani e agli uccelli– così si compiva il consiglio di Zeus –da quando aspra contesa avea divisol’Atride signore di eroi Agamennone e il divino Achille.

L’Iliade è la gigantesca storia di una passione: l’ira diAchille. L’azione si svolge in cinquantun giorni, e argo-mento ne è un episodio dell’ultimo anno, il decimo, dellaguerra di Troia: l’ira di Achille contro Agamennone, co-mandante in capo dell’esercito degli Achei, che gli hapreso la schiava e concubina Briseide. Ora, la finzionepoetica dell’Iliade – risalente all’VIII secolo – parla a unpubblico già lontano centinaia di anni dal tempo in cui lafinzione è collocata.

Ma questa finzione racconta quale fosse la moraledegli inizi, la morale della società omerica. Poniamo at-tenzione a questo che è il punto di partenza di tutto il ra-gionamento.

Il conflitto fra Achille e Agamennone è il conflitto fradue eroi. Nella società omerica l’eroe è generalmente si-gnore di una piccola comunità o casata (oikos), circo-

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scritta in un piccolo territorio, come l’Itaca di Ulisse,dove è assente qualsiasi legittimazione istituzionale, e lasola legittimazione è la difesa armata della comunità.Certo, nell’esercito radunato a Troia si può leggere innuce una lontana rappresentazione di una comunità piùgrande, in cui si discutono fini comuni, strategie comuni.

Ma l’eroe omerico rimane una figura autonoma e indi-pendente. Per di più non è responsabile delle proprieazioni, è destinato dagli dei, di cui spesso è figlio, domi-nato dalla passione (thymos), il suo potere (krátos) sifonda unicamente sulla forza, la sua virtù (areté) siesprime in un contesto agonale e guerriero e sta tutta nellasua capacità di esercitare violenza. Prendendosi Briseide,Agamennone disonora Achille. L’unica risposta possibile,immediata, è l’ira, la vendetta: Achille, il più valoroso deiguerrieri, recede dal combattere per gli Achei e ritira isuoi Mirmidoni dalla battaglia, facendo così volgere lesorti della guerra a favore dei Troiani. Subire il disonorecomporta vergogna: inammissibile per un eroe omerico.

Nella contesa fra Agamennone e Achille, mancaun’istanza superiore, istituzionale, a cui entrambi pos-sano fare appello per dirimere la contesa. Il conflitto nonpuò esser risolto facendo ricorso a un arbitro esterno esuperiore.

Risposte

Ora, ciò che poteva valere per quel mondo estrema-mente circoscritto e primitivo, non può bastare a fondarela convivenza in una comunità più articolata, come quellache si viene sviluppando nei secoli successivi.

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A questo problema della legittimazione istituzionaledell’azione, del superamento della violenza come stru-mento per decidere le controversie, vengono date in Gre-cia, fra il VII e il V secolo, due soluzioni diverse. Duesoluzioni che s’intersecano nella figura di Socrate. È inquesto contesto, che si sviluppa la riflessione platonicasulla interazione anima-corpo.

1. La prima soluzione consiste nella politicizzazionedel problema morale, con la fondazione della città e l’ela-borazione del pensiero della legge (nomos). La forza,come strumento per dirimere privatamente le contese,viene abbandonata nel momento in cui esiste una sogget-tività collettiva che esprime imparzialmente la sua volontàattraverso la legge.

Una legge che garantisca la distribuzione regolata deipoteri, che controlli i conflitti, assegnando ragioni e torti;una legge che sostituisca la figura di un “noi” collabora-tivo a quello di un “io” agonale e competitivo. Questa è laprima risposta – di straordinaria potenza – che la storiaculturale greca darà alla crisi dell’Iliade. E uno dei regalipiù importanti che essa fa all’Occidente. Virtù signifi-cherà con Socrate rispetto della legge, e non più capacitàdi esercitare violenza. Ma per affermare la priorità dellalegge sull’arbitrio individuale fu necessario, a partire daSolone (VII-VI secolo), un lungo cammino. Al termine delgrande secolo della polis, il V, il secolo di Pericle, Socrateè il personaggio del cittadino militante, l’uomo in cuil’impresa educativa della città e della sua legge raggiungeil compimento. A questo riguardo è emblematica la scenadel Critone platonico. Critone va a trovare Socrate in car-cere, già condannato e in attesa della morte, e cerca diconvincerlo a fuggire e a mettersi in salvo.

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Questa è la risposta di Socrate:

O Critone, se quando siamo sul punto di prendere questa fuga ocome altro ti piaccia chiamarla, ci si parassero dinanzi le Leggi ela Città e ci chiedessero: «Dimmi, Socrate, che cosa hai in animodi fare? Non pensi tu forse con codesto tuo tentativo d’uccidere,per quanto è in te, e noi, Leggi, e tutto intero lo Stato? O ti sem-bra possibile che resti in piedi e non vada in rovina quella città incui i giudicati non hanno alcun valore, ma son resi vani e nulli daiprivati?» [...] «Ma Socrate, era forse questo il patto intercorso tranoi e te, o non piuttosto che tu dovessi obbedire ai giudizi residalla città? [...] E se tu ti sottrai al nostro giudizio e te ne vai al-trove, ti metterà poi conto di vivere? Quali discorsi terrai nellanuova città, continuerai a parlare di virtù e di giustizia e di lega-lità? Continuerai a insegnare che le leggi sono ciò che c’è di piùprezioso per gli uomini?

«A chi potrebbe esser cara una polis senza nomoi?».Non c’è virtù senza giustizia, e la giustizia consiste pri-mariamente nel rispetto della legge; e non c’è felicità (eu-daimonia), lo scopo morale comune a tutti, senza questagiustizia, che sola rende possibile la convivenza umana.

2. La seconda soluzione va in una direzione apparen-temente opposta, ma che, come vedremo, convergeràcon la prima proprio nella figura di Socrate: nella dire-zione di una interiorizzazione radicale del problema mo-rale. L’eroe omerico è impulsivo, immediato, esprime lesue passioni sotto forma di hybris (eccesso, tracotanza).Non ha un centro di controllo interiore. E non ha nem-meno il senso della colpa delle proprie azioni. Manca nelmondo omerico il soggetto morale, manca un Io a cui at-tribuire la responsabilità delle azioni.

Ora, dopo l’Iliade e con Esiodo, Zeus inizia una meta-morfosi: viene introdotto il concetto di dike (giustizia), eZeus diventa signore della giustizia. Lo sguardo di Dike e

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dei suoi demoni trasforma l’innocente e perfino virtuosahybris in una colpa. Il senso della colpa e della punizioneinevitabile (némesis) viene radicando un’ansietà religiosaignota all’eroe omerico. Ma su chi ricade questa colpa, senon c’è un responsabile? È qui che entra in gioco il pen-siero dell’anima, inesistente nel mondo dell’Iliade. Unpensiero che, come vedremo fra poco, arriva in Grecia daldi fuori, da sette religiose di origine straniera. A questopunto possiamo finalmente occuparci di anima e corpo.

Anima e corpo in Omero

Facciamo un passo indietro e chiediamoci: che consi-stenza hanno anima e corpo in Omero? Nei poemi omericiè soltanto la morte a produrre le forme di esperienza de-scrivibili come anima (psyché) e corpo (soma). Soma inOmero è il cadavere, la salma che giace esanime, una voltache l’abbia abbandonato l’anima. Per il corpo viventeOmero non possiede un termine preciso. A volte indicail corpo come involucro, più spesso impiega il nome col-lettivo di membra, un aggregato mobile che designa più ilgesto momentaneo che non la struttura permanente.Come se ogni parte del corpo fosse indipendente e nonsapesse nulla del resto.

Psyché, dal canto suo, non ha alcuna funzione speci-fica nel corpo vivente: è una semplice forza vitale che sirivela soltanto quando lo abbandona, nell’attimo dellamorte, fuggendone attraverso la bocca con l’ultimo re-spiro, o dalla ferita insieme al sangue. L’anima, diceOmero nell’Odissea, abbandona il cadavere, fuggendonecome un sogno. Abbandonato il cadavere, l’anima rag-

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giunge l’Ade, il mondo dei morti, dove sopravvive comeun’immagine fantasmatica, un doppio incorporeo del vi-vente. Ma essa non ha, dopo la morte, alcuna funzionepsichica particolare, così come non l’aveva in vita.

Ora, una simile concezione dell’anima ha conseguenzeanche per il pensiero etico, dato che essa non può costi-tuire il fondamento di alcun sistema di premi o punizioniper le azioni compiute in vita. In Omero le esperienzenon sono accentrabili attorno a un Io consolidato. Mancaquesto Io in Omero.

Per il pensiero naturalistico e medico del V secolo, chenon si discosta dall’eredità omerica, il corpo è il reci-piente che si riempie e si svuota, dove cibi, arie, umori siscontrano e si compongono per dar luogo agli equilibridella salute o agli scompensi della malattia. Né esiste unaconcezione dell’anima capace di produrre una qualsiasiunificazione di questa dispersione fluida dei processi cor-porei. Manca anche qui un centro unificatore dell’unitàpsicosomatica.

Orfismo, pitagorismo

Un’alternativa radicale alla tradizione omerica prendeforma in Grecia a partire dal VI secolo. Dice Socrateverso la fine dell’Apologia:

C’è molta speranza che il morire sia un bene. In effetti, una di que-ste due cose è il morire: o è come un non essere nulla, e chi è mortonon ha più alcuna sensazione di nulla; oppure, stando ad alcunecose che si tramandano, è un mutamento e una migrazione del-l’anima da questo luogo che è quaggiù a un altro luogo.

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Quali sono queste «cose che si tramandano»? Si trattadi dottrine e di pratiche introdotte da gruppi minoritarilegati a esperienze mistiche, come l’orfismo, o a un mes-saggio sapienziale a connotazione religiosa come il pita-gorismo. Queste esperienze danno luogo a unaconcezione dell’anima come essere incorporeo, immor-tale, legato da una stretta affinità col divino. Propriamenteun demone, che per una colpa di natura morale può es-sere costretto all’esilio dalla sfera divina e all’immissionenell’esistenza corporea. Qui esso attraversa una serie direincarnazioni, in corpi di diversa dignità, nel ciclo notocome metempsicosi. L’anima-demone può spezzare ilciclo delle reincarnazioni e tornare presso la divinità dacui proviene, attraverso una pratica assidua di purifica-zione, che consiste soprattutto nel rescindere progressi-vamente i vincoli con la corporeità, nel reprimere le sueesigenze – dei piaceri in primo luogo – attraverso l’eser-cizio dell’astensione ascetica, che presso i pitagorici è mi-nuziosamente regolamentata.

Il corpo costituisce dunque al tempo stesso la pena chel’anima deve espiare per la sua colpa, e il maggiore im-pedimento al suo ritorno a una condizione divina. At-tenzione, però: questo demone, che vaga di corpo incorpo, non è legato a nessun individuo in modo pecu-liare, non è personale.

Come si vede, in queste esperienze religiose minorita-rie ci troviamo di fronte a un radicale capovolgimento divalori rispetto alla concezione omerica: l’anima diventaun principio divino e immortale, rispetto al quale il corpocostituisce una polarità degenerata e tombale. Il corpo(soma, ma anche sema, cioè “tomba dell’anima”, inquanto essa vi è sepolta durante la vita terrena, secondo

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il Cratilo) è solo un simulacro di vita che segnala (semasignifica anche segno) la vicenda di un’anima colpevole.

Le coordinate culturali entro cui fa la sua comparsal’anima nel ruolo di protagonista della moralità religiosasono definite da un sistema formato dalla religiosità dio-nisiaca, dall’orfismo e dal pitagorismo. Prima e al di fuoridi questo sistema, psyché non appare investita, nella cul-tura greca, di alcuna particolare valenza religiosa, né tantomeno di una funzione privilegiata nella soggettivazionemorale. L’assunzione dell’anima come figura centrale delpensiero religioso e morale va dunque considerata, dopoOmero, come una novità inaudita, e per lungo tempomarginale, introdotta in Grecia intorno al VI secolo daimovimenti di cui si è detto. Erodoto riconosce una ma-trice egiziana per le principali credenze orfico-pitagori-che. Studi recenti chiamano in causa la tradizionesciamanica di provenienza sciita, i culti anatolici, le cre-denze indo-iraniche sull’anima e le sue rinascite.

Se il rito dionisiaco culmina nella sfrenatezza dellostato selvaggio, nell’uccisione dell’animale selvatico le cuicarni sono dilaniate a mani nude e sbranate crude, per gliorfici e i pitagorici, che si pongono sotto l’insegna diApollo purificatore, vige il rifiuto di ogni uccisione, unapratica di vita ascetica e il vegetarianismo: una opposi-zione polare rispetto all’estasi di Dioniso. E tuttavia ac-comuna questi movimenti un rifiuto della polis e dellareligione che essa ha integrato, un rifiuto della politicacon i suoi valori violenti, della temporalità storica, deltempo e della corporeità, generati da una colpa origina-ria. Come risposta alla disperazione dell’esistenza, essipromettono salvezza e felicità: che non possono trovarsise non fuori dalla città, dal tempo, dalla corporeità. Il de-

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stinatario della promessa sarà impolitico, immortale, in-corporeo: su questa via nasce il pensiero forte dell’anima.

La risposta di Socrate: interiorizzare l’etica

L’Apologia si chiude con queste parole rivolte da So-crate, che si avvia a bere il veleno, agli amici che gli hannotenuto compagnia negli ultimi istanti:

Ma è ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vi-vere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti,tranne che al dio.

La priorità di valore dell’anima, la sua identificazionecon il “vero io”, contrapposto all’esteriorità del corpo,dei suoi piaceri e delle sue vicende, costituisce il nucleocentrale che caratterizza l’esperienza socratica. È proba-bile che si possa attribuire proprio a Socrate il trasferi-mento nell’ambiente della polis ateniese del pensierodell’anima. Ma rispetto a orfismo e pitagorismo, Socrateopera una svolta decisiva, attraverso la quale il tema del-l’anima esce dal contesto religioso, per diventare il ful-cro del discorso morale. Socrate è l’uomo donato dal dioalla città per persuadere i cittadini alla virtù.

Dice ancora nell’Apologia:

Se voi mi diceste: Socrate, ti lasciamo uscire dal carcere a patto chetu non dedichi più il tuo tempo alle tue indagini e non pratichi piùla filosofia; io risponderei: ubbidirò più al dio che non a voi, e fin-ché ne sia in grado, non smetterò di filosofare, e chiunque di voi in-contri, gli dirò: «Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese,cittadino della Città più grande e famosa per sapienza e potenza,non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il piùpossibile fama e onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero

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della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventiil più possibile buona?». E se qualcuno dissentirà e sosterrà diprendersene cura, non lo lascerò andare immediatamente, ma lointerrogherò, lo sottoporrò a esame e lo confuterò. [...] E io ritengoche non ci sia per voi, nella Città, un bene maggiore di questo mioservizio al dio.

Questa laicizzazione dell’anima è necessaria per can-cellarne il carattere demonico, sovraindividuale, e tra-sformarla nel fondamento della soggettività morale. Ilmotto delfico: conosci te stesso, non può significare altroche conosci la tua psyché, perché l’uomo, nella sua essenzaindividuale, non è altro che la propria anima. Ma cosa si-gnifica anima in questo contesto? Nel Simposio platonicoAlcibiade paragona Socrate ai Sileni. E ai Sileni di Alci-biade Erasmo da Rotterdam dedicò uno dei suoi Adagiapubblicati a Venezia nel 1508 da Aldo Manuzio. «I Sileni,scrive Erasmo, sono passati in proverbio per indicare unapersona che dalla veste e dalla faccia ben poco lascia ve-dere della ricchezza che racchiude nell’animo».

In effetti, stando a quel che si tramanda, i Sileni erano una sorta di fi-gurine a intaglio, eseguite in modo da poter essere aperte e spiegate:quando erano chiuse riproducevano l’immagine, comicamente de-forme, di un sonatore di flauto, aprendosi rivelavano d’un trattoun’immagine divina. [...] La maggior parte degli uomini rappresen-tano, invece, Sileni a rovescio. [...] i valori più alti sono al tempostesso [...] i più riposti e i meno accessibili agli occhi profani.

Socrate afferma che dentro ciascuno di noi c’è un giu-dice che valuta la nostra condotta morale con severità egiustizia, un giudice al quale non si può sfuggire. Essocondanna all’inquietudine e all’infelicità anche chi è pre-miato dai benefici del corpo e della posizione sociale, oviceversa premia con una incrollabile, serena felicità,

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anche chi appare duramente punito al di fuori. L’ingiu-stizia è il male più doloroso e tormentoso dell’anima, esoltanto la giustizia può risanarlo. Non c’è altra felicitàse non nella salute dell’anima, cioè nella giustizia. Il malesupremo è che la nostra anima giunga nell’Ade gravatadi ingiustizia. Le ipotesi di una immortalità dell’anima edi un giudizio d’oltretomba, per quanto non necessarie(riconosce Socrate verso la conclusione del Fedone che«sostenere a spada tratta che le cose stiano proprio comeio le ho raccontate, non si addice a un uomo dotato disenno; [credo tuttavia che] valga la pena di correre il ri-schio di pensare che stiano così – perché il rischio è bello– ed è necessario, per così dire, incantare se stessi con rac-conti del genere»), quelle ipotesi rafforzano, proiettan-dolo nell’eternità, quel giudizio che l’anima di ognunopronuncia già durante la sua vita corporea, e ingiganti-scono la promessa di felicità che consegue alla giustizia.

Ma è proprio questo fare affidamento al giudice inte-riore che appare a Platone assai debole come fonda-mento morale.

La tragedia: le passioni non oppongono l’anima al corpo,ma lacerano l’anima

Socrate infatti sembra ignorare la parte irrazionale del-l’anima, come gli rimproverano Aristofane e Aristotele.Socrate rifiuta l’esperienza tragica, quella messa in scenadalla tragedia greca, perché non comprende il conflittointerno dell’anima, la sua scissione costitutiva. Egli con-trappone un’anima “pura”, indivisa, non articolata, alcorpo come punizione dell’anima. Suppone un’affinitàoriginaria fra quest’anima e il divino (per Platone solo la

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parte razionale dell’anima sarebbe in relazione con glidei). Vede nell’anima, liberata dai suoi vincoli, il nucleodi una soggettività autonoma e unitaria, responsabiledelle sue libere decisioni. Bastava allora, secondo Socrate,che questa soggettività si rendesse consapevole del bene,del sistema legge-giustizia-felicità, perché il comporta-mento morale ne risultasse univocamente determinato eorientato alla virtù. Nessuno commetterebbe colpa vo-lontariamente. La conoscenza sarebbe perfettamente ingrado di governare i piaceri. In altri termini: nessuno checonosca il bene, opererà il male. Ma è proprio questa ladebolezza dell’etica socratica. Il thymos, la pulsione vio-lenta che preme per il soddisfacimento immediato del de-siderio, rappresenta un’istanza interna alla dinamicapsichica a cui l’anima non può far fronte. La tragediagreca non separa l’anima dal complesso delle emozioni,della sensibilità e della corporeità. Pensiamo all’Agamen-none di Eschilo, all’Antigone di Sofocle, alla Medea di Eu-ripide. Dice il corifeo a chiusura dell’Edipo re:

O cittadini di Tebe [...] guardate questo Edipo, che conosceva glienigmi famosi ed era il più valente tra gli uomini, né alcuno tra icittadini poteva considerarne senza invidia la sorte, a quale fluttodi tremenda sciagura è giunto. Onde non si stimi felice nessunmortale guardando al giorno estremo, prima che abbia trascorso iltermine di vita senza aver sofferto nulla di doloroso.

Il rapporto di Edipo con la divinità non ha nulla a chefare con il cammino salvifico dell’anima. Edipo è op-presso da un daimon ostile, da un destino che egli nonpuò controllare, opposto alle sue intenzioni, alla sua vo-lontà. Medea, la sposa ripudiata di Giasone, sa che il thy-mos è responsabile dei mali maggiori per i mortali. Nonbasta dunque conoscere il bene per evitare il male, né

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l’errore dell’anima è da attribuire soltanto a costrizioniesterne: passioni come l’odio e l’amore che agiscono den-tro di essa sono sufficienti a travolgere ogni ragionevo-lezza. La crudeltà di Dioniso appare così installata nelcuore stesso del soggetto tragico. Ma allora, se l’animacede al fato e alle sue stesse passioni, se in essa regna lastasis (conflittualità, sedizione, sommossa), proprio comenella città, se dunque l’anima non è una, come sarà pos-sibile assumerla a fondamento della soggettività morale edei suoi valori, come sarà possibile affidarle la responsa-bilità delle nostre azioni?

Platone: elaborare la scissione

È questo il compito che si trova di fronte Platone: ela-borare il problema della scissione dell’anima al suo in-terno, rinunciando all’idea di un’anima pura contrappostaal corpo. E lo fa in parallelo alla elaborazione dell’altroproblema drammatico del suo tempo: il conflitto internoalla polis.

L’ingenua convinzione socratica che la privata serenitàdell’anima possa bastare al giusto viene così abbando-nata come troppo debole e non universalizzabile. Ari-stotele definirà seccamente «una nullità» la tesi secondocui l’uomo buono è felice anche sotto tortura (Etica Ni-comachea). L’opposizione di anima e corpo è portata alsuo estremo nel Fedone, dove Platone sembra chiudere iconti con orfismo e pitagorismo.

Lo scioglimento dalle catene corporee, la prepara-zione alla morte come liberazione dell’anima, sono pre-sentati come il compito della vita in generale, e il

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progetto della vita filosofica in particolare. Ma Platoneha in serbo un programma ben diverso, che non vuolecreare un’alternativa al mondo, bensì fondare un nuovosapere del mondo, cercare un fondamento etico delle no-stre azioni e una soluzione ai conflitti interni della città.Una città per i vivi, non per i morti. Un esito di questasvolta consiste nello stabilire un rapporto non alterna-tivo ma di integrazione fra anima e corpo, fra ciò che di-rige e ciò che deve essere diretto, fino a spezzare deltutto, nella Repubblica (Libro IV), il dualismo anima-corpo, fino a superare la loro opposizione. Gli oppostinon sono più opposti. Qui, infatti, Platone ha raggiuntouna chiarezza nuova: il conflitto non contrappone piùl’anima al corpo, ma si svolge interamente fra le diverseistanze in cui si articola l’anima stessa: razionale, quellacon cui ragioniamo; desiderante, quella che ci fa provareamore, fame, sete, e che eccita gli altri desideri, compa-gna di soddisfazioni e piaceri materiali; passionale, legataal thymos. Sulla base di questa articolazione interna, eglipuò sviluppare una politica dell’anima che viene a costi-tuire il compito educativo centrale, l’impresa maggioredella parola filosofica. Con due conseguenze di straor-dinaria importanza. In primo luogo l’energia pulsionaleradicata nella corporeità non deve più venire repressamediante il rifiuto ascetico; una volta che essa sia rico-nosciuta come rappresentata da un’istanza dello psi-chico e resa quindi omogenea alla sfera della razionalità,se ne può tentare un’educazione, cioè una conversionedai suoi oggetti naturali (i piaceri) agli scopi della ragionestessa. Nella famosa allegoria del Fedro l’anima è raffi-gurata come la potenza d’insieme di una coppia di ca-valli alata e di un auriga.

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L’auriga, la parte razionale dell’anima, conduce la pa-riglia; i due corsieri, diversi per carattere, rappresentanol’energia che deve essere guidata. Cosa significa questo?Che desideri e passioni possono venire aggiogati al carrodella ragione. La seconda conseguenza sta in un atteg-giamento verso la vita radicalmente diverso da quellodella tradizione orfico-pitagorica ancora riecheggiatanel Fedone: se il conflitto è nell’anima, non ha senso con-siderare la vita come preparazione alla morte, e la sal-vezza come liberazione dell’anima dal corpo. Si tratteràpiuttosto, attraverso una politica educativa dell’anima,di trasformare la vita e l’uomo stesso: un progetto, inluogo di una fuga, che spiega come la svolta decisivadella teoria platonica dell’anima cada all’interno di undialogo politico come la Repubblica. Il cosiddetto artifi-cialismo di Platone consiste in questo: che egli consideral’uomo plasmabile, modificabile, perfettibile tramite unprogramma educativo.

Ciò a cui Platone è più interessato è una ristruttura-zione profonda della tradizione dell’anima-demone, chene liberi tutta la valenza morale. La visione che egli riescea costruire e che avrà un grande avvenire, è quella se-condo cui l’anima commette la colpa o si salva duranteuna singola vita corporea, e in questa si prepara il destinooltreterreno. Qui si gioca la responsabilità morale del-l’anima individualizzata, nel rapporto univoco con unsolo corpo e una sola vita, e si decidono i premi e le puni-zioni che la attendono dopo la morte.

Al tempo stesso egli procede a una ricostruzione com-plessiva dell’immagine del corpo. Nell’affresco di Raffa-ello La Scuola di Atene, dipinto all’inizio del Cinquecentoin una delle Stanze vaticane, Platone, per il quale sembra

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aver posato Leonardo da Vinci, tiene sotto braccio ilTimeo, Aristotele l’Etica Nicomachea. Platone indica conun dito il cielo, Aristotele la terra. La direzione oppostadelle loro mani indica proprio il luogo in cui l’uno e l’al-tro hanno cercato il fondamento dell’etica: nella trascen-denza, Platone; nell’immanenza, Aristotele. Per parecchisecoli il Timeo di Platone è stato il dialogo più letto e stu-diato, e per molti aspetti anche il più influente nella sto-ria del pensiero filosofico e teologico dell’Occidente.Ebbene, in quest’opera, per la prima volta nel pensierogreco, veniva delineata una complessa teoria dell’intera-zione fra anima e corpo. E nella terza parte, dove trattadella natura dell’uomo, Platone perviene, per la primavolta, alla comprensione del corpo come organismo arti-colato in una pluralità di parti anatomicamente distintema fisiologicamente connesse e interagenti fra loro. Unasvolta filosofico-scientifica di rilievo epocale, senza laquale non sarebbe pensabile il grande sapere anatomico-fisiologico sviluppato da Aristotele.

Platone: l’anima e la polis

Veniamo così alla conclusione di questa lunga storia, alparallelo fra l’anima e la città. La Repubblica è tutta dedi-cata a fondare il nesso fra giustizia, politica e felicità. Equesto nesso chiama in causa il rapporto fra l’individuo ela polis. Perché? La costruzione dell’etica non poteva cheprender atto di un fatto incontrovertibile: che c’è pólemos,conflitto, in ciascuno di noi contro se stesso. Nemmenola città è una. Anche la città è scissa e conflittuale comel’anima: la città non è un corpo indifferenziato e unitario

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di cittadini, come riteneva Socrate. Le città sono due, traloro nemiche: la città dei poveri e quella dei ricchi. Le pas-sioni dell’anima sono ciò che il conflitto sociale (stasis) ènella città. La politica tradizionale aveva dato luogo a dueopposte degenerazioni: l’oligarchia e la democrazia. Op-poste come la città dei ricchi e la città dei poveri. Opposte,ma equivalentisi nei delitti. Nessuna delle due risolve ilproblema della giustizia. Il problema della giustizia restadunque quello della politica e del governo della città. Pla-tone si propone una ricomposizione unitaria ma artico-lata della città, una sua pacificazione che sia soprattuttoordine gerarchico di parti differenziate. Come perl’anima. Platone sa bene che gli uomini non sono ugualiper natura, sa bene che la loro dotazione intellettuale emorale è immensamente variegata, sicché non tutti pos-sono svolgere le stesse funzioni sociali. La città giusta saràquella in cui ognuno svolge il ruolo per il quale è meglioattrezzato: una distribuzione gerarchica delle funzioni èla sola, a suo giudizio, che possa garantire il vantaggio co-mune. L’ingiustizia, al contrario, consiste nel tentativo disovvertimento dei ruoli. Ad esempio la pretesa al co-mando da parte dei detentori della ricchezza o della forzamilitare. È necessario educare gli uomini, perché da essipossa nascere la città giusta. La natura non produce uo-mini predisposti alla giustizia. Il motivo del raddrizza-mento, dell’ortopedia educativa è centrale e ricorrente inPlatone. L’educazione (paideia) costituisce il punto dicontatto e di transito fra individuo e città, e fra progetto erealizzazione. Ma perché, ci si potrebbe chiedere, questainsistenza sulla giustizia? Che cosa rende la giustizia desi-derabile? La prima risposta di Platone è che la giustizia,salute e armonia dell’anima, è tanto desiderabile quanto

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salute e bellezza lo sono per il corpo. Il sacrificio della pul-sione primaria alla sopraffazione reciproca viene com-pensato dalla promessa di un benessere più solido eduraturo, non minacciato dai mali altrimenti inevitabilidella paura universale e della insaziabilità individuale.Tema quanto mai hobbesiano, ma ancora al centro dellapsicoanalisi freudiana. Ora, se la città è malata, dove re-perire i buoni medici che la curino? È nota la risposta chePlatone fornisce nel V libro della Repubblica:

A meno che i filosofi regnino nella città, o quelli che oggi han nomedi re e di sovrani non prendano a nobilmente e acconciamente fi-losofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la filosofia,[...] a meno che ciò non succeda, non avran tregua i mali della città.

La città risanata dal conflitto, la città in cui i valoricompetitivi sono definitivamente posti al servizio diquelli collaborativi (questo significa in ultima istanza lagiustizia), sarà infine una città felice, per l’armoniosa di-stribuzione dei ruoli e delle gerarchie che vi si è realiz-zata. È questa l’utopia di Platone, che si prolungherà finoalla Rivoluzione francese e alle società comunisticheideate nell’Ottocento.

La sua Repubblica ha costituito l’origine e il modellodi una lunga tradizione utopistica che ha attraversatol’antichità e il Rinascimento fino a giungere alle sogliedel mondo moderno. Lo ritroviamo nell’Utopia di Tho-mas More e nella Città del Sole di Campanella, nellaCittà felice del Patrizi, nella Nuova Atlantide di Bacone,nel socialismo utopistico di Saint-Simon, Owen, Fou-rier, Proudhon.

All’opposto, Karl Popper (La società aperta e i suoi ne-mici, terminato nel 1942, una data assai significativa) la

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interpretò come il primo modello dello Stato etico, cioètotalitario, precursore del comunismo e del nazifasci-smo. E in effetti Platone propone certe norme di euge-netica che col senno di poi fanno rabbrividire, o unaortopedia sociale che fa pensare alla cosiddetta “rivolu-zione culturale” cinese!

Per persuadere che il suo progetto non è impossibile,che la città ideale da lui descritta nella sua struttura con-cettuale nella Repubblica era già esistita nell’Atene dellontano passato, Platone ricorre nel Timeo, ideale prose-cuzione di quella, a un espediente retorico, al mito diAtlantide. Nelle antiche scritture dei sacerdoti egiziani sitroverebbe memoria dell’eccellenza dell’antica Ateneprima dell’ultimo diluvio, e in particolare della grandeimpresa da essa condotta contro l’invadenza di Atlan-tide, che conquistava tutti i territori limitrofi, sottomet-tendo a sé gli altri popoli.

L’antica Atene avrebbe impedito questa espansione eliberato tutti coloro che si trovavano al di qua delle co-lonne d’Ercole. L’isola di Atlantide venne poi sommersadal mare e scomparve.

Con il progetto della città ideale, con la rielaborazionedei concetti di anima e corpo, con il superamento dellaloro opposizione e la definizione dei termini di una loropossibile interazione, Platone rispondeva al problemamorale apertosi in Grecia con il mondo degli eroi ome-rici. La sua riflessione non ha cessato di avere ancora oggiun’enorme risonanza in tutto il pensiero morale e poli-tico dell’Occidente.

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L’anima e il corpo in relazione all’eros

Restava tuttavia un elemento che premeva per trovarposto in questo quadro d’insieme: il desiderio erotico.Platone non può farne a meno, perché l’eros è la fonteprincipale di energia del complesso psichico, indispen-sabile alleato della filosofia.

Nella favola di Amore e Psiche, la più nota delle Meta-morfosi, o L’asino d’oro, di Apuleio, raffigurata da grandiartisti come Canova e Bouguereau, l’amore, unendosi al-l’anima, le dona l’immortalità. E siccome psyché in grecosignifica anche farfalla, alcuni hanno raffigurato Eroscome un giovane con le ali di un angelo e Psyche comeuna fanciulla con le ali di farfalla.

Anche per Platone (Fedro)

un tempo l’anima era tutta alata. Ora essa palpita e fermenta in ogniparte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano,quel prurito e tormento, ecco, questo l’anima patisce quando co-minciano a spuntarle le ali... quando rimira la bellezza di un gio-vane... Ma quando sia separata da quella bellezza, l’anima inaridisce.

La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che èpesante e di innalzarlo là dove dimora la comunità deglidei. La vista della bellezza terrena suscita nell’anima il ri-cordo della bellezza vera – perché la conoscenza per Pla-tone è anamnesi, ricordo di ciò che l’anima ha conosciutoquando abitava presso gli dei – ed è per questo che essamette le ali e mira a sollevarsi da terra.

Rispetto agli altri dialoghi, il Simposio offre una ver-sione radicalmente diversa della problematica dell’im-mortalità. Platone distingue qui due vie verso laimmortalizzazione personale, una propria del corpo, euna dell’anima. Nel resoconto riferito da Socrate, Dio-

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tima afferma che «il congiungimento dell’uomo e delladonna è un dare alla luce. E questo atto è divino: nell’es-sere vivente, che è mortale, vi è questo di immortale, ilconcepimento e la procreazione». L’amore tende dun-que all’immortalità. La natura mortale cerca, per quantoè possibile, di essere eterna e immortale. Ma può farlosolo a questo modo, con la generazione. Orbene, coloroche sono gravidi rispetto al corpo, dice Platone, si rivol-gono di preferenza verso le donne. Coloro invece chesono gravidi rispetto all’anima – cosa spetta all’animapartorire? Saggezza, eccellenza, la capacità legislativadelle città, che è l’aspetto più alto della saggezza – vannoin cerca dell’oggetto bello in cui generare. Giacché nelbrutto non genererà mai.

Tra costoro Platone annovera i poeti, gli uomini discienza, ma soprattutto i legislatori, grazie alla fama im-peritura delle loro opere: l’unica forma di immortalitàpersonale riconosciuta anche da Aristotele. Ma c’è unbello che è sempre, non nasce, non perisce, né mai vienmeno. E tutte le cose belle partecipano di quello: è il belloin sé. È questa la regione della vita, dice Diotima, che èdegna di essere vissuta da un uomo che contempli ilbello. Cominciando dalle cose belle del mondo s’innal-zerà verso il bello come fine. Lì avrà toccato il suo ter-mine, salendo come per scalini. Allora non partoriràfantasmi di eccellenza, ma eccellenza vera, avrà messo lemani sul vero.

E giacché siamo nell’anno verdiano e wagneriano, per-mettetemi di concludere con quest’altra immagine. Lacicala è animale filosofico, dice Platone, perché si originadalla consunzione di uomini dediti esclusivamente allearti musive, canta e produce musica mostrandosi supe-

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riore alle necessità primarie del corpo. Racconta Socratenel Fedro, il più poetico dei dialoghi platonici, che

una volta le cicale erano uomini – viventi prima della nascita delleMuse – e che quando esse nacquero e comparve il canto, alcuni diquesti a tal segno furono storditi dal piacere che, per cantare, scor-davano cibo e bevanda e neppure si accorgevano di morire. Da co-storo e in seguito a ciò saltò fuori la famiglia delle cicale, alle qualile Muse concessero il favore di non aver affatto bisogno, da cheson nate, di alimenti, ma di poter cantare subito, senza mangiare ebere, fino alla morte; e dopo, di andare presso le Muse a riferirechi le onori sulla terra [...].

Note

1. Mi sono attenuto per questa mia chiacchierata alla linea inter-pretativa di Mario Vegetti, ai cui seguenti testi ho attinto a pienemani: Mario Vegetti, Anima e corpo, in AA. VV., Il sapere degli anti-chi, a cura di M. Vegetti, Boringhieri, Torino 1985; L’etica degli anti-chi, Laterza, Roma-Bari 1989; Quindici lezioni su Platone, Einaudi,Torino 2003.

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I Relatori

FERRUCCIO ANDOLFI, già docente di Filosofia della storianel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma, di-rige il quadrimestrale «La società degli individui» e, in-sieme a Italo Testa, la collana «La ginestra» di classicidell’individualismo solidale (Diabasis). Tra le sue pubbli-cazioni: Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (Diabasis,2004), Il non uomo non è un mostro. Saggi su Stirner(Guida, 2009), Il cuore e l’animo. Saggi su Feuerbach(Guida, 2011). Ha curato l’edizione di testi di Schleier-macher, Feuerbach, Marx, Guyau, Simmel, Landauer.

PAOLO COSTA, filosofo, è ricercatore presso la Fonda-zione Bruno Kessler di Trento. Si è laureato a Milano conLaura Boella e ha svolto i suoi studi dottorali e post-dot-torali tra Parma, Trento e Toronto. Oltre che di numerosisaggi, è autore di Verso un'ontologia dell'umano: antro-pologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor (Uni-copli, 2001) e Un’ idea di umanità: etica e natura dopoDarwin (EDB, 2007). Ha curato l’edizione italiana delleopere di Charles Taylor, Hannah Arendt, Charles Dar-win. Attualmente sta lavorando a un libro sull'idea di ra-gione, la cui uscita è prevista per il 2014 presso la casaeditrice Feltrinelli.

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PAOLO CRISTOFOLINI, direttore della rivista internazio-nale «Historia philosophica», ha insegnato all’Univer-sità di Pisa e poi alla Scuola Normale Superiore, e hatenuto dal 1989 al 1997 una serie di corsi semestrali allaSorbona. Fra i suoi studi storico-filosofici si segnalanoin particolare La scienza intuitiva di Spinoza (Morano,1987; II ed. riveduta e aggiornata, ETS, 2009); Spinozaper tutti (Feltrinelli, 1993; trad. fr. Chemins dans l'Ethi-que, P.U.F., 1996); Vico et l'histoire (P.U.F., 1995). AVico ha dedicato l’edizione critica de La Scienza nuova1730 (Guida, 2004). Ha pubblicato presso ETS l’edi-zione critica con traduzione a fronte di Spinoza, Trattatopolitico (20112) e dell’Etica (2010).

ALBERTO MESCHIARI è ricercatore di Filosofia moralepresso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubbli-cato testi di Storia della filosofia: da Psicologia delle formesimboliche (Le Lettere, 1999), alla cura di scritti di Hey-mann Steinthal La scienza della lingua di Wilhelm vonHumboldt e la filosofia hegeliana. Filologia, storia e psi-cologia (Guida, 1998) e di Moritz Lazarus Psicologia deipopoli come scienza e filosofia della cultura (Bibliopolis,2008); di Storia della scienza: con la cura, in particolare,dell’Edizione Nazionale delle Opere e della Corrispon-denza di Giovanni Battista Amici (Bibliopolis, 2006), dicui è direttore; e di narrativa: Le lanterne di stagno. Dieciracconti di commento a Stevenson (ETS, 2004); Una gior-nata fiorentina di Friedrich Nietzsche (Bibliopolis, 2006);Un posto dove abitare (Il Campano, 2009), e Raccontid’amore (Tassinari, 2011). Nell’ambito della Filosofiamorale ha elaborato una propria “etica del reincanto”,tuttora in evoluzione (cfr. Sul dialogo e i suoi caratteri di-stintivi rispetto a ogni altra forma d’interazione verbale (Il

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Campano, 2008); Riprendersi la vita. Per un’etica del rein-canto (Tassinari, 2010); Il libriccino del silenzio. Strategiedel reincanto (Tassinari, 2012).

FEDERICA MONTEVECCHI ha compiuto i suoi studi dot-torali e postdottorali presso l’Università di Parma, ora in-segna filosofia al Liceo Scientifico “Rambaldi-Valeriani”di Imola. È autrice di saggi e volumi, i più recenti deiquali sono Giorgio Colli. Biografia intellettuale (BollatiBoringhieri, 2004); Empedocle d’Agrigento (Liguori,2010); Le parole della politica (Einaudi, 2008) firmatocon Vittorio Foa.

ELENA PULCINI è professore ordinario di Filosofia so-ciale presso il Dipartimento di filosofia dell’Universitàdi Firenze. Fa parte del comitato scientifico di varie ri-viste tra cui «Iride», «La società degli individui», «Iris»,«Politica e società». È vicepresidente del Bureau delMAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste en Sciences So-ciales) ed è stata partner del network europeo di GenderStudies “Athena”. Tra i suoi lavori recenti L’individuosenza passioni. Individualismo moderno e perdita del le-game sociale (Bollati Boringhieri, 2011); Il potere diunire. Femminile, desiderio, cura (Bollati Boringhieri,2003); Invidia. La passione triste (il Mulino, 2011). È co-curatrice dei volumi Filosofie della globalizzazione (ETS,2001) e Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’etàglobale (Editori Riuniti, 2004). Il suo libro La cura delmondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Bo-ringhieri, 2009) ha ottenuto il primo Premio di Filosofia“Viaggio a Siracusa” 2009.

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ALBERTO SICLARI è stato professore ordinario di Storiadella teologia nella Facoltà di Lettere e Filosofia del-l’Università di Parma. Si è occupato a lungo della patri-stica greca e del pensiero tardo antico, del Medioevolatino (in particolare di Guglielmo di Occam e di Gu-glielmo di Saint Thierry) e più di recente della teologialiberale (Ernst Troeltsch) e del pensiero danese (anzituttodi Søren Kierkegaard e di Harald Høffding). Fra i suoilavori si segnalano L’itinerario di un cristiano nella cri-stianità. La testimonianza di Kierkegaard (Franco Angeli,2004) e L’umorismo e la filosofia (Diabasis, 2009).

ITALO TESTA è ricercatore presso l’Università di Parma,dove insegna Storia della filosofia politica. È autore di Lanatura del riconoscimento (Mimesis, 2010); Teorie dell’ar-gomentazione con P. Cantù (Bruno Mondadori, 2006);Ragione impura con R. Genovese (Bruno Mondadori,2006); Hegel critico e scettico (il Poligrafo, 2002). Ha cu-rato i saggi di Th.W. Adorno La crisi dell’individuo (Dia-basis, 2010) e diverse raccolte, tra cui Lo spazio socialedella ragione con L. Ruggiu (Mimesis, 2010). Ha pubbli-cato saggi su riviste italiane e straniere, tra cui «Philoso-phy and Social Criticism», «Constellations», «CriticalHorizons», «aut-aut», «Iride» e «Sistemi intelligenti».

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Nella stessa collana «Pensare la vita»

I messaggi dei grandi filosofi, a cura di F. Andolfi, lezioni del corso di formazione filosofica 2012.

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Otto lezionisu alcuni fondamentali contrasti

di idee e valoripensate dall’associazione La Ginestra

per la Cittàraccolte in questo libro

stampato nel carattere Simoncini Garamonda cura di PDE Spa

presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN)per conto di Diabasisnel febbraio dell’anno

duemilaquattordici

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Una certa saggezza popolare ci ha abituati a credere che la verità non si trova mai da una sola parte ma si divide equamente tra gli opposti partiti. Ma è davvero così? Nel terzo corso di formazione filosofica “Pensare la vita”, i relatori hanno illustrato, a partire da pensatori classici (Empedocle, Platone, Lutero, Spinoza, Schopenhauer, Tocqueville, Adorno, Arendt), il senso di alcune polarità cruciali dell’esistenza.Le loro riflessioni suggeriscono che tutti e due i poli del-le opposizioni considerate possono effettivamente es-sere “veri”, senza che per questo si debba attribuire un uguale valore ad entrambi. Le più interessanti visioni del mondo sono state create grazie a una certa parzialità, facendo leva cioè su uno dei due termini e cercando di pensare quello opposto a partire da esso.

Contributi di: Ferruccio Andolfi, Paolo Costa, Paolo Cri-stofolini, Alberto Meschiari, Federica Montevecchi, Elena Pulcini, Alberto Siclari, Italo Testa.

€ 11,00