Il semipresidenzialismo

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 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI E POLITICHE INTERNAZIONALI IL SEMIPRESIDEN ZIALISMO La v° repubblica francese, le altre esperienze europee e un tentativo di analisi critica  Docente Studente prof.CLAUDIO RIOLO NICOLA PALILLA  ANNO ACCADEMICO 2003-200 4

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMOFACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI E POLITICHE INTERNAZIONALI

IL SEMIPRESIDENZIALISMO

La v° repubblica francese, le altre esperienze europee e un tentativo di analisicritica

 

Docente Studenteprof.CLAUDIO RIOLO NICOLA PALILLA

 ANNO ACCADEMICO 2003-2004

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I RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Ogni qualvolta abbiamo menzionato Ceccanti, Massari e Pasquino ci siamo riferiti a“Semipresidenzialismo”, il Mulino, 1996.Quando abbiamo menzionato Fabbrini e Vassallo ci siamo riferiti a “ Il governo, gli esecutivi

nelle democrazie contemporanee”, Editori Laterza, 1999.Quando ci siamo richiamati al solo Fabbrini abbiamo tratto da “  Le regole dellademocrazia.Guida alle riforme”, Editori Laterza, 1997.A proposito di Sartori abbiamo consultato “ Ingegneria costituzionale comparata”, il Mulino,1998.Per quanto riguarda la citazione di Pitruzzella “  Forme di governo e trasformazione della

 politica”, il Mulino, 1996.

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Introduzione

Da anni in Italia si fa un gran parlare di riforme istituzionali per risolvere il cronico problema

dell’instabilità ministeriale: nella complessa società odierna, infatti, il frequente ricambio di

governo è visto negativamente, da cui il termine spregiativo instabilità, perché tale fenomeno non

consente un’adeguata programmazione e attuazione di politiche di lungo respiro, generando così

ritardi ed inefficienze.  Instabilità è, ancora, sinonimo di deriva assembleare, vale a dire di

 prevalenza non tanto dell’organo legislativo su quello esecutivo, su cui c’è poco da dire, quanto di

 partitocrazia, di istituzioni, cioè, in balia dei capricci, della logica spartitoria e delle strategiche

incoerenze delle fazioni politiche organizzate, cosicché il governo si configura più come un osso

da spolpare – consentiteci l’espressione – piuttosto che un mezzo di organizzazione democratica e

funzionale delle risorse. È proprio per far fronte a tale problema, che ha prodotto cinquantasei

governi e ventiquattro presidenti del consiglio in cinquantotto anni di repubblica, che il dibattito

sulle forme di governo nel nostro paese si richiama alle felici esperienze straniere. Anche se la

gran parte degli attori politici nostrani appare oggi maggiormente incline a sostenere una forma di

governo parlamentare ben razionalizzata, quando non addirittura neo-parlamentare, il modello

della V° repubblica francese miete ancora molti consensi non solo presso alcuni gruppi politici, ma

 pure tra parecchi autorevoli studiosi della politica. Nel primo caso si tratta del suggestivo richiamo

esercitato dall’elezione diretta di un capo dello stato ben munito in quanto a prerogative e capace

di incarnare il popolo che lo ha eletto a proprio leader incontrastato; nel secondo, invece, della

notevole stabilità e continuità governativa conseguita a partire da condizioni di frammentazione

estrema. Bene, il semipresidenzialismo è davvero un modello da seguire? Con il nostro lavoro

cercheremo di spiegare perché la risposta alla domanda potrebbe essere positiva con l’illustrazione

delle virtù e dei meriti di questa forma di governo e perché, invece, è anche passibile di un’analisi

critica.

 

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Il semi-presidenzialismo

Il semi-presidenzialismo è quella forma di governo che solitamente viene definita la via di mezzo

fra il parlamentarismo ed il presidenzialismo, giacché è imperniata su di un presidente della

repubblica, eletto direttamente o come se direttamente (usando un’espressione di Giovanni Sartori)

dai cittadini, a cui sono devoluti consistenti prerogative, attutite, tuttavia, dalla presenza di una

figura tipica dei regimi parlamentari e assente in quelli presidenziali: il primo ministro.

A voler essere schematici per motivi di semplificazione, potremmo elencare i maggiori poteri del

 presidente della repubblica nel modo seguente, anche se l’elenco non è comprensivo di tutte le

esperienze:

• nomina il primo ministro e, su proposta di questi, i ministri;

•  presiede il consiglio dei ministri;

•  può licenziare il primo ministro e tutto il governo;

•  può sciogliere il parlamento;

• ha una notevole influenza in politica estera e militare;

• è capo delle forze armate;

•  può assumere poteri eccezionali.

Dall’elenco proposto si ricava che il presidente di una repubblica semipresidenziale gode di tutti i  poteri di un suo omologo parlamentare, ma ha in più la capacità di influire fortemente sulla

composizione e sull’azione del governo, nonché, ma questo non si evince dall’elenco, di sciogliere

con una maggiore discrezionalità il parlamento. A tutto ciò si aggiunga che l’elezione a suffragio

universale attribuisce al presidente un surplus di legittimità davvero considerevole.

In una repubblica semipresidenziale, quindi, il presidente è il capo dello stato ma non

simultaneamente capo del governo, in quanto vige l’obbligo di condividere il governo con un

 primo ministro posto alla guida del governo stesso.

La figura del primo ministro condiziona inevitabilmente lo stesso capo dello stato, poiché se è

 praticamente certo, lo dimostra l’esperienza francese, che il presidente prevale sul premier quando

dispone di una maggioranza in parlamento a suo favore, la stessa cosa non può dirsi se l’assemblea

elettiva esprime un orientamento avverso a quello presidenziale: in questi contesti, infatti, il

  presidente è costretto alla coabitazione, cioè a rinunciare all’esercizio di molti dei suoi poteri

costituzionalmente sanciti. Tutto ciò ha indotto gli studiosi a parlare di una struttura dell’esecutivo

flessibile costituito da due teste (Duverger lo definì simbolicamente un’aquila a due teste) in cui la

 primazia è determinata dalle combinazioni maggioritarie (Sartori), vale a dire da chi consegue la

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maggioranza dei seggi all’assemblea legislativa. L’esecutivo semipresidenziale è, dunque, una

sorta di diarchia.

In cosa consiste precisamente la coabitazione? Consiste nel fatto che il presidente della repubblica,

avendo perduto la sua maggioranza in parlamento, si vede costretto a nominare come suo primo

ministro il suo (suo altrettanto) più diretto avversario: in Francia questa eventualità si è verificata

tre volte negli ultimi vent’anni. La prima volta avvenne nel 1986, quando la maldestra riforma

elettorale in senso proporzionalista voluta dal presidente François Mitterrand non impedì ai neo-

gollisti di Jacques Chirac di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea Nazionale, e

si concluse nel 1988; la seconda avvenne tra il 1993 e il 1995 e vide protagonisti nuovamente

Mitterrand con il gollista Balladur; la terza, la più lunga, dal 1997 al 2002, ha trovato Chirac

stavolta nei panni del presidente e il socialista Jospin quale primo ministro .

La coabitazione risolve il problema del  governo diviso tipico dei regimi presidenziali, visto che

esiste sempre un governo stabile in grado prima di prendere decisioni e poi di applicarle a dovere

grazie al sostegno della sua maggioranza parlamentare.

Se è sicuramente vero che i rapporti tra presidente e primo ministro non sono idilliaci quando c’è

coabitazione, è comunque possibile osservare l’innesco di un meccanismo spontaneo di

autolimitazione delle parti che consente ai due di convivere, visto che nessuno dei due vuole

apparire distruttivo all’opinione pubblica, fondamentalmente, per lo stesso scopo: il presidente

aspira alla rielezione, il premier alla successione .

In questo calcolo tutt’altro che disinteressato, infine, a guadagnarci è il sistema, che continua a

funzionare in modo efficiente e a garantire una solida leadership e la stabilità al paese .

In ogni modo, le competenze tra i due protagonisti appaiono ben marcate, sì da ridurre al minimo il

rischio di paralisi del sistema: il premier dirige l’azione di governo specie in materia di politica

interna ed economica, mentre il presidente gode di un domaine reservé sulle questioni inerenti la

difesa e gli affari esteri.

La flessibilità del semipresidenzialismo alimenta un grande dibattito a cui partecipano, tra gli altri,

oltre che Sartori, anche Duverger da un lato e Shugart e Carey dall’altro.

Per il primo, il semipresidenzialismo non sarebbe una sintesi tra sistema parlamentare e sistema

 presidenziale, ma un avvicendamento tra fasi presidenziali e fasi parlamentari: il potere di governo

  passerebbe, quindi, dal presidente al primo ministro sulla base di chi vince le elezioni

 parlamentari.

Questa posizione è contrastata da Sartori perché le due fasi suddette non si verificano mai se è vero

che il presidente non governa mai senza primo ministro e che, in ogni caso, conserva sempre dei

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 poteri maggiori rispetto ad un suo collega europeo. Inoltre, l’idea del trasloco dei poteri fa venire

meno la stessa nozione di sistema.

Per i secondi esistono due tipologie di semipresidenzialismo, quello a regime premier-

  presidenziale e quello a regime presidenziale-parlamentare, nei quali, rispettivamente, il primo

ministro prevale sul presidente e, inversamente, il presidente supera il primo ministro. Sartori

giustamente osserva che i paesi in cui il premier prevale sul presidente sono da considerarsi

 parlamentari a prescindere dall’elezione diretta del secondo.

Prima di procedere ad un’analisi specifica del più importante caso di semipresidenzialismo, quello

francese, buona cosa ci sembra fornire una sintetica definizione di cosa s’intende per 

semipresidenzialismo ricorrendo, in qualche modo, a Giovanni Sartori (per l’ennesima volta): si

tratta di una forma di governo in cui il presidente della repubblica viene eletto direttamente, o

come se direttamente, dal popolo per un periodo prestabilito e senza che vi sia la possibilità di

  procedere ad una sua sostituzione in corsa e in cui, seppur disponendo di rilevanti poteri, il

 presidente non può governare senza un primo ministro, da lui autonomo nella misura in cui questi

è legato al parlamento.

Tutto ciò ci fornisce, lo ribadiamo, l’idea di una diarchia.

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Il modello francese

Facendo un rapido paragone con le passate costituzioni francesi di tipo parlamentare, è facile

accorgersi che nel testo della V° repubblica l’ordine in cui le istituzioni vengono presentate risulta

capovolto, poiché si affrontano subito le prerogative del capo dello stato con il titolo II, formato da

quindici articoli (5-19); si passa poi a trattare del governo in soli quattro articoli (20-21-22-23)

raggruppati nel titolo III; mentre solo in seguito, è il titolo IV, si tratta del parlamento a cui la

Costituzione dedica dieci articoli (24-33). Importantissimo appare, inoltre, il titolo V sui rapporti

tra parlamento e governo in cui su tutti affiora l’articolo 49 sulla responsabilità del governo.

Per portare a termine la nostra analisi ci sembra opportuno soffermare la nostra attenzione su

alcuni articoli costituzionali.

Secondo l’articolo 8 il presidente nomina senza consultazioni il primo ministro e, su proposta di

questi, gli altri ministri, per cui se egli è il leader della maggioranza all’Assemblea Nazionale,

unica camera elettiva, nominerà una persona fidata che, politicamente parlando, sia di “secondo

 piano” in modo da potervi esercitare un certo ascendente. In questi casi, l’esperienza lo dimostra,

si ritiene che il capo dello stato abbia anche il potere di licenziare il primo ministro, nonostante

non sembri che questo potere gli sia stato riconosciuto dal testo costituzionale. Nel caso in cui,

invece, il presidente sia costretto a coabitare, nulla egli può contro un premier di colore politico

opposto nominato perché non c’era altra scelta: stavolta il primo ministro è il leader espresso

(implicitamente) dall’Assemblea Nazionale e il presidente non può chiedere di lui le dimissioni (e

nessun potere ha il presidente per rimuoverlo, tranne l’articolo 16), così come non può attivare il

  potere di scioglimento e quello di indire referendum legiferando parallelamente al governo.

Tuttavia, è il successivo articolo, il nono, ad assegnare allo stesso presidente della repubblica il

compito di presiedere il consiglio dei ministri: inutile dire che questo potere lo colloca al di sopra

di un qualunque presidente parlamentare, perché presiedere un’assemblea implica il potere di

stabilire l’ordine del giorno, l’ordine degli interventi, le priorità. In poche parole, al presidente è

attribuito il potere d’agenda.

L’articolo 11 è relativo al referendum che il presidente può convocare per le riforme inerenti

l’organizzazione dei poteri pubblici. De Gaulle fece frequentemente uso di tale articolo, per 

esempio per l’autonomia dell’Algeria, e a volte anche ai limiti della legalità costituzionale, come

 per introdurre l’elezione diretta del capo dello stato (una riforma costituzionale), ma egli stesso finì

 poi vittima del suo più amato strumento costituzionale. Il referendum francese non è abrogativo,

anzi, se usato diligentemente, è la più genuina manifestazione della sovranità popolare. Si tratta di

un potere talmente importante e su cui non si osa discutere molto, che la riforma costituzionaleapprovata in congresso da deputati e senatori nel 1995 a Versailles, con cui si estendono i poteri

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referendari del presidente anche a materie attinenti temi economici e sociali, è stata approvata con

674 voti favorevoli e 178 contrari (la grande maggioranza gollista conquistata alle elezioni del

1993 all’Assemblea Nazionale non giustifica da sola il successo della proposta). Il moderato

ricorso a tale strumento dopo la presidenza De Gaulle è forse più dovuta alla paura dei partiti del

dissenso popolare (ricordando le conseguenze che tale dissenso provocò in De Gaulle) che alla

tendenziale parlamentarizzazione del sistema (di questo si parlerà meglio in seguito).

L’articolo 12 tratta del potere di scioglimento dell’Assemblea Nazionale, potere riconosciuto

esclusivamente al capo dello stato senza controfirma alcuna e con l’unico, labile, limite di una

consultazione del primo ministro e dei presidenti delle camere; vige anche il divieto di dissolvere

un’assemblea prima che sia trascorso un anno dalla sua elezione. Quando il presidente è il leader 

della maggioranza parlamentare, la decisione di attivare detto potere è puramente discrezionale,

rispondendo alla necessità strategica di anticipare le elezioni in un momento favorevole al

governo. In circostanze diverse, invece, lo scioglimento ha lo scopo di stabilizzare un parlamento

frammentato, per il quale a volte è sufficiente la sola minaccia della dissoluzione; infine, in caso di

coabitazione l’articolo 12 è attivabile solo nel caso (assai improbabile e mai accaduto) in cui si

verificasse una crisi di governo oppure ancora (e questa è l’eventualità che ricorre) all’indomani

della rielezione del presidente.

L’articolo 16 consente al presidente di assumere poteri speciali di consistenza indefinita e di durata

 praticamente illimitata. Questa prerogativa, dettata all’epoca in cui la Costituzione fu scritta dalla

crisi algerina, consegna al capo dello stato un potere senza uguali nel mondo intero, anche perché

frutto di una decisione, ponderata sì, ma pur sempre relativa esclusivamente alla sua sfera

discrezionale. Infatti, il presidente deve solo consultare il primo ministro e i presidenti delle

camere, oltre che informare la nazione della sua decisione, non essendo richiesta, nemmeno questa

volta, la controfirma ministeriale.

Un altro importante articolo è il 52 che, insieme al 53, assegna al capo dello stato notevoli poteri in

materia di politica estera, avendo egli il potere non solo di ratificare i trattati internazionali, ma

addirittura di negoziarli. Infine, l’articolo 89 consente al presidente di partecipare al processo di

revisione costituzionale in modo attivo.

Fin qui ci siamo occupati degli articoli attinenti alle competenze del capo dello stato; cosa buona

appare concentrarsi su quelli relativi al  gouvernement. Come ci insegna Stefano Ceccanti, se il

titolo II è il risultato delle idee di De Gaulle, il fondatore della V° repubblica, i titoli successivi,

soprattutto il III ed il V, sono opera di Michel Debré, il capo della commissione che redasse la

Costituzione. Fu proprio Debré, infatti, guardando al parlamentarismo maggioritario, a voler specificare all’articolo 20 che è il governo a determinare e guidare la politica della nazione,

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 potendo disporre dell’amministrazione e delle forze armate, e con il 21 che è il primo ministro a

dirigere il governo. L’esecutivo, ancora, alla lettera dell’articolo 34, nei limiti cioè dei principi

generali stabiliti della legge, e secondo il disposto dell’articolo 37, vale a dire nel dominio non

riservato dalla Costituzione alla legge, può emanare regolamenti, il cui contenuto è quindi sottratto

dal controllo parlamentare dei partiti; l’articolo 38 consente al governo di emanare ordinanze (una

sorta di decreto-legge italiano).

Gli articoli 42 e 48 attribuiscono al governo il potere di incidere profondamente sull’agenda delle

camere ed il 44 limita la capacità di emendamento dei disegni di legge governativi al solo

dibattimento in aula.

In conclusione, gli articoli 44 e 49. Il primo istituisce il cosiddetto “voto bloccato” che consente al

governo di chiedere l’approvazione di una legge senza le parti controverse o munita solo degli

emendamenti accolti o proposti dal governo stesso; il secondo disciplina il modo in cui far valere

la responsabilità governativa di fronte all’Assemblea Nazionale: una mozione di sfiducia deve

dapprima essere sostenuta da almeno un decimo dei suoi membri; è necessario che essa venga

approvata non prima delle quarant’otto ore successive alla presentazione; infine, deve essere

approvata dalla maggioranza assoluta dei seggi dell’assemblea. Su deliberazione del consiglio dei

ministri, il primo ministro può engager  la responsabilità del governo su di un particolare testo,

cioè chiedere una sorta di “fiducia negativa” per cui, se nelle successive quarant’otto l’Assemblea

 Nazionale non vota a favore di una mozione di sfiducia, il provvedimento in questione si considera

approvato (questa è la famosa ghigliottina).

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Origine della V° repubblica francese e sua evoluzione

La Costituzione della V° repubblica francese nasce in un contesto storico del tutto eccezionale.

Dopo aver perduto la guerra d’Indocina, la Francia, seppur dolorosamente, decise di smembrare il

suo impero coloniale; nondimeno, l’Algeria, ormai divenuta una specie di grande regione francese

in terra d’Africa, costituiva un serio problema.

L’Algeria, infatti, era stata la prima pietra dell’impero coloniale francese, il secondo al mondo

dopo quello inglese, essendo stata occupata a partire dal 1830; ospitando, ormai, circa un milione

di francesi che da generazioni lì vivevano e producevano ricchezza, quella terra non era più

considerata come una semplice colonia: anche l’Algeria era Francia, per i francesi. Ad aggravare

lo stato delle cose ci pensava, tra le altre cose, la recente scoperta di ingenti risorse di gas naturali.

Per l’opinione collettiva l’Algeria era divenuta Francia e abbandonarla avrebbe significato

disgregare la Patria stessa: la Storia, tuttavia, aveva preso la sua decisione.

Le istituzioni della IV° repubblica erano ancora più deboli di quelle della III°; i governi erano

ancora più instabili ed impotenti, i partiti più divisi ed incompatibili.

Inoltre, la IV° repubblica era nata senza gloria (al referendum che ne approvò la costituzione

 parteciparono solo x milioni di elettori), ma era destinata a finire peggio, perché aveva perduto

l’Indocina e si apprestava a perdere anche l’Algeria.

La crisi d’identità e di programmi che colpì le potenze europee vincitrici della seconda guerra

mondiale pose la Francia in bilico tra chi sosteneva la necessità di conservare l’impero secondo

un’idea che, ormai, appariva antistorica e chi ne auspicava l’ordinata dissoluzione in nome della

nuova aspirazione alla libertà di tutti i popoli. Questa crisi rese ancora più fragili i governi che

cambiavano, praticamente, ogni tre mesi sotto la violenza terroristica del FLN (Fronte di

liberazione nazionale).

La situazione precipitò ad un punto di non ritorno quando, in seguito all’uccisione di tre soldati

francesi in servizio in quella terra, i militari reagirono organizzando un Comitato di Salute

Pubblica alla testa del quale si pose il generale Massu al grido di: Vive De Gaulle! (De Gaulle era

il carismatico generale che aveva condotto la resistenza contro i nazisti).

I militari pensavano, infatti, che il Generale, fuori da anni dalla vita pubblica, avrebbe potuto

instaurare un governo-regime in grado di affrontare con energica decisione la questione d’Algeria,

assecondando, così, le aspettative dei militari.

Il grido di Massu fu così forte che a Parigi il Presidente René Còty (temendo il colpo di stato) fu di

fatto costretto a chiamare al governo proprio Charles De Gaulle in occasione dell’ennesima crisi di

governo (si trattava del governo Pflimlin).

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De Gaulle accettò, ma presidente e parlamento dovettero accettare le sue condizioni: che fosse

costituita una commissione per la scrittura di una nuova costituzione e modificato il processo di

revisione costituzionale; che fossero sciolte le camere; che gli fossero concessi pieni poteri per sei

mesi.

Comunque, anche il Generale dovette accogliere le condizioni di presidente e parlamento, tra le

quali il rispetto del principio della separazione dei poteri e la responsabilità del governo davanti

alle Camere .

Il governo di De Gaulle fu, per così dire, un governo costituente: solo Napoleone aveva osato

tanto!

La costituzione che da lì a poco verrà approvata per referendum è quella di cui abbiamo già scritto:

allora, perché questo richiamo alla storia? La costituzione della V° repubblica, soprattutto negli

anni settanta e ottanta, è stata al centro di numerosi studi, giacché essa appariva di non facile

comprensione ed interpretazione: chi la considerava una sorta di dittatura elettiva e chi la

considerava una repubblica parlamentare usurpata. Come risolvere tale dubbio? Non possiamo non

ricorrere alla storia perché: “le forme di governo sono dei modelli (…) i quali evidenziano alcuni

elementi ritenuti caratterizzanti il tipo e ne definiscono la logica intima e le implicazioni che per coerenza

devono ricavarsi da esso. I modelli sono delle astrazioni che in nessun caso possono aderire alle specifiche

  fattispecie storiche in cui essi si trovano realizzati. La forma di governo storicamente presente in un

determinato Stato è infinitamente più ricca del modello ed il suo concreto assetto dipende” da uncomplesso di variabili tra le quali la cultura politica, il sistema politico, le teorie costituzionali

dominanti, la rappresentanza politica, i caratteri del popolo (Pitruzzella).

Questa citazione di Pitruzzella ci permette di capire che vi è sempre una tendenza alla

differenziazione tra quanto scritto su di una costituzione (e la teoria a cui i costituenti si ispirarono)

e ciò che realmente si verifica per effetto della sua applicazione e dei condizionamenti provenienti

dal mondo esterno: le variabili suddette possono nei fatti rendere una forma di governo idealtipica

in qualcos’altro. L’imprevedibilità di alcune realtà, il malfunzionamento di altre e le difficoltà neldefinirne altre ancora è spiegabile, allora, solo dall’osservazione delle dinamiche reali di un

sistema di governo, piuttosto che dalla sola analisi dei testi e delle forme di governo: è proprio da

questa considerazione che dobbiamo partire per comprendere la V° repubblica.

La flessibilità della costituzione francese del ’58, infine, non va considerata solo in termini di

relazione presidente-premier, ma anche sulla base di come essa è stata interpretata ed usata dai vari

attori politici che fino ad ora ne hanno perpetuato l’esistenza.

A tal fine Stefano Ceccanti ha distinto cinque periodi nella vita della quinta repubblica. Il primo ècompreso tra il 1962 e il 1974: il ’62 è l’anno dell’introduzione dell’elezione diretta del presidente

della repubblica, il ’74 quello della morte del successore di De Gaulle, George Pompidou. Se

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l’elezione diretta del presidente della repubblica ha modificato non poco la portata dei poteri

costituzionali del capo dello stato, la scomparsa di Pompidou non è meno significativa, visto che

da quel momento in poi i gollisti, ed i loro toni pressoché apocalittici e sicuramente compassati,

saranno esclusi dalla presidenza fino alla vittoria nel ’95 di Jacques Chirac. In questo primo

 periodo la Costituzione viene interpretata in modo “imperiale” nel senso che si assume come

elezione principale non già quella parlamentare, quanto la presidenziale, ed è proprio il presidente

la figura che spicca su tutte, essendo il primo ministro una sorta di suo segretario; soprattutto, è

l’assenza di un formato partitico organizzato a favorire il frequente ricorso ai licenziamenti dei

governi, alle dissoluzioni dell’Assemblea Nazionale e al referendum.

Il secondo periodo va dal 1974 al 1981: è la presidenza del liberale Valery Giscard D’Estaing.

Giscard, avendo deciso di non sciogliere il parlamento subito dopo la sua elezione, si ritrovò in

un’Assemblea Nazionale in cui non poté disporre della maggioranza, nel senso che non poteva

domarla agevolmente. Quello fu, infatti, il periodo in cui i partiti presero a riorganizzarsi (primo

fra tutti quello socialista di Mitterrand) avendo imparato la logica del doppio turno, e ciò comportò

dei gravi problemi a Giscard, costretto a nominare primo ministro un noto gollista, Chirac, con cui

di fatti si instaurò una sorta di coabitazione. Il presidente Giscard in seguitò sostituì il primo

ministro con una personalità meno politicizzata, Raymond Barre, ma questo non poté impedirgli di

 prendere atto che il testo costituzionale nulla gli attribuiva per arginare l’avanzata dei partiti:

insomma, gli fu chiaro che le presidenze precedenti non fecero altro che giovarsi della transizione.

Il terzo periodo coincide con il primo mandato del socialista François Mitterrand (1981-1988).

Mitterrand, avendo portato alla vittoria anche il suo partito, si trovò nelle condizioni ideali per 

reinterpretare la costituzione gollista in senso gollista, nonostante egli stesso ne avesse contestato

la cosa proprio al Generale fin quando questi visse. Il paradosso era di semplice spiegazione se si

 pensa che Mitterrand, contrariamente a Giscard D’Estaing, aveva beneficiato della cosiddetta

“quadriglia bipolare”, il nuovo sistema dei partiti francesi che si articolava su quattro gruppi

raccolti in due coalizioni. Mitterrand si trovò nella situazione di considerare il primo ministro un

suo semplice collaboratore, ma, trovatosi a circa metà mandato in minoranza nell’Assemblea

 Nazionale, fu costretto a rivedere drasticamente il proprio uso della costituzione. Nominato, infatti,

Chirac alla carica di primo ministro, Mitterrand si trovò a dare battaglia al governo gollista,

 potendo continuare a presiederlo, dall’interno, rendendone più lenta la capacità decisionale e

rivendicando un dominio riservato in materia di politica estera e militare. La soluzione della

coabitazione non si trova nella Costituzione e ciò spiega perché questo ritaglio delle competenze è

 più frutto di una convenzione che altro. La cosa che sorprende è che a questo punto, onde

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difendere la propria posizione di primo ministro, è un esponente gollista a rivendicare la

 parlamentarizzazione del sistema.

Il quarto periodo è il secondo mandato di Mitterrand, anch’esso connotato da una prima fase di

governo presidenziale e da una seconda di coabitazione. Quello che va fatto notare di questo

 periodo è proprio la coabitazione tra il presidente socialista ed il gollista Balladur. Questa

coabitazione fu piuttosto pacifica e per la maggiore disponibilità del primo ministro nei confronti

del vecchio presidente e per il sostanziale atteggiamento arreso del presidente, senza ambizione di

rielezione e conscio della grave crisi in cui la sinistra cadde dopo la caduta del muro di Berlino.

Il quinto periodo è la prima presidenza Chirac, anch’essa caratterizzata da un governo “amico”

(premier Alain Juppé) e da una lunga coabitazione con Jospin. Potremmo aggiungere un sesto

 periodo: il governo Chirac-Raffarin.

Alla fine di questa (forse noiosa) rassegna storica, possiamo pervenire ad una importante

conclusione: l’assestamento del sistema dei partiti ha realizzato una stabilizzazione parlamentare

del governo francese. Esso è sempre duale, visto il doppio rapporto di fiducia che lega il primo

ministro tanto al presidente quanto all’Assemblea Nazionale, ma, nonostante la forte figura del

 presidente, è chiaro che solo se la presidenza è ricoperta da un vero leader di partito maggioritario

il sistema può funzionare secondo dinamiche marcatamente presidenzialiste.

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Le altre esperienze europee

La descrizione sin qui fatta del semipresidenzialismo ci consente di maturare un’opinione positiva

del modello e di definire, attraverso le peculiarità che dal sistema di governo francese si evincono,

una categoria politologica distinta tanto dal presidenzialismo quanto dal parlamentarismo.

Tuttavia, al momento di riempire tale categoria gli studiosi si trovano di fronte al problema, non

 piccolo, di individuare i paesi che dovrebbero farne parte. In realtà, tra i politologi non solo non vi

è alcuna definizione condivisa di semipresidenzialismo, come abbiamo avuto modo di vedere, ma

non vi è neppure accordo su quali siano i paesi a regime semipresidenziale. Questa cosa

inquietante è stata fatta presente non solo da Sartori, ma anche da Oreste Massari.

Abbiamo già rilevato come l’elemento fondamentale del semipresidenzialismo sia la cosiddetta

“diarchia”, costituita dai due reggitori della repubblica, il presidente ed il primo ministro, e non già

l’elezione a suffragio universale del capo dello stato, elemento, questo, non essenziale (tanto che

originariamente in Francia il presidente veniva eletto da un ampio collegio).

L’Austria, l’Irlanda e l’Islanda non possono essere, dunque, definiti regimi semipresidenziali

nonostante l’elezione popolare del presidente, perché il “sistema” di questi paesi segue

completamente la logica di funzionamento di un qualsiasi governo parlamentare.

Per quanto riguarda nel dettaglio l’Irlanda e l’Islanda sembra che non vi siano dubbi sul fatto che

la tesi del semipresidenzialismo non sussista e ciò per affermazione non solo di Sartori, ma anche,

tra gli altri di Fabbrini e Vassallo, i quali, tenendo conto sia dell’elezione diretta del presidente

della repubblica che della mancanza della fiducia iniziale al governo unitamente al funzionamento

 praticamente parlamentare dei loro sistemi di governo, preferiscono collocare in una specie di

  zona dubbia, tra il semipresidenzialismo ed il parlamentarismo, questi due paesi. Infatti,

rispolverando anche le idee di Shugart e Carey, sia l’Irlanda che l’Islanda concentrano il potere di

direzione dell’esecutivo nelle mani del primo ministro e non in quelle del presidente, che è eletto

 popolarmente, ma non dispone di alcuna delle maggiori prerogative del collega francese; mentre

se questi poteri gli sono stati devoluti, la tradizione che vuole la personalità di spicco di ciascun

 partito candidarsi alla carica di primo ministro, piuttosto che a quella di capo dello stato, fa in

modo che tali poteri siano ormai cristallizzati.

In particolare, il caso irlandese è significativo nel senso che le funzioni del presidente ricalcano

quelle del sovrano inglese cosicché, dalla semplice osservazione di come quest’ultimo si

“comporta”, è possibile ricavare informazioni sul primo: se il re d’Inghilterra non governa, allora

non lo fa nemmeno il presidente irlandese. Infine, nella terra degli  Irishmen non c’è dualismo

 perché il governo si regge unicamente sulla non-sfiducia parlamentare e non anche su quella presidenziale.

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Anche quello austriaco è un caso interessante e anche questa volta il dubbio regna sovrano: è

tuttavia riconosciuto che pure questo è un caso solo apparente di semipresidendezialismo.

Che il semipresidenzialismo non esista? Gli esempi su cui riflettere per trovare un’adeguata

risposta alla domanda postaci da noi stessi sono la I° repubblica tedesca, la repubblica finlandese,

la costituzione portoghese del 1976 e quella della Polonia post-comunista: tanto Massari quanto

Fabbrini ritengono che questi siano i casi non contestabili di semipresidenzialismo; Sartori riduce

l’aria della certezza assoluta, invece, alla sola V° repubblica francese.

Per quanto riguarda la repubblica di Weimar, c’è da dire che non la si potrà mai capire senza aver 

guardato un po’ nella situazione storica tedesca del primo dopoguerra, situazione da cui essa fu

fatalmente condizionata. Quando i tedeschi, cacciato l’imperatore, fondarono la loro I° repubblica,

la desolatamente nota Repubblica di Weimar, ebbero davanti agli occhi un esempio da non copiare:

la III° repubblica francese. Francesi e tedeschi, in verità, hanno sempre avuto il piacere a prendersi

reciprocamente le distanze, ma questa volta la scelta germanica non fu dettata da una sorta di

odium theologicum per i francesi, quanto dalla necessità di evitare la deriva assembleare. E’ chiaro

che la paura per l’instabilità ministeriale, dovuta alle “virtuose” logiche del gioco dei partiti,

indussero i costituenti tedeschi a razionalizzare fino all’ossessione il loro parlamentarismo, finendo

così per riconoscere al presidente della repubblica alcuni davvero forti poteri, tra i quali:

• nominare e licenziare il cancelliere senza richiedere per il nuovo governo la fiducia

 parlamentare;

• sciogliere motu proprio il parlamento;

• sottoporre a referendum le leggi su cui tra le camere fosse sorto conflitto;

• governare per decreto in accordo con il cancelliere;

•  proclamare lo stato d’assedio in situazione di pericolo per l’ordine pubblico.

Questi poteri erano, per lo più, di natura straordinaria e indirizzati a rimettere sulla giusta via un

governo deviato dalla voracità e litigiosità dei partiti. Possiamo, allora, affermare che tali poteri

non furono previsti per creare il governo arbitrario di un solo uomo, ma come deterrenti contro la

razionale irrazionalità dei partiti: la costituzione tedesca fu, dunque, profondamente innovativa

sotto plurimi aspetti, anzi, come ebbe a dire Sartori, particolarmente ingegnosa sia da un punto di

vista squisitamente tecnico che da quello della democrazia che essa aspirava a creare. Infatti, fino

al 1930 (la repubblica fu fondata nel 1919) il presidente si comportò in modo tale da non mettere

in discussione l’aspetto parlamentare del governo e in tale contesto i poteri razionalizzanti che la

costituzione gli aveva attribuito non furono mai usati in modo significativo con il risultato che,

dopo la frantumazione della coalizione tra socialdemocratici, liberali e cristiani, l’instabilità

ministeriale tanto deprecata colpì anche Weimar, i cui governi sopravvissero in media sette mesi.

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Il problema vero di Weimar, però, fu la devastante crisi economica del 1929. Quella crisi, avendo

ingenerato forti tensioni e spaccature sociali, mise a dura prova l’impianto istituzionale della I°

repubblica tedesca e, infine, furono proprio quei fattori costituzionali “iperdemocratici”, come a

scritto Massari, ad affossarla definitivamente, perché quando dei poteri concepiti per gestire

l’eccezione si trasformano nella quotidiana normalità, non possono che essere all’ordine del giorno

gli scioglimenti anticipati e violenti del parlamento e la formazione di governi ad hoc  per 

sostenere dei provvedimenti presidenziali, essendo a quel punto solo il presidente la figura

legittimata dal voto popolare. In pratica, solo a partire del 1930 si può parlare di un governo

 presidenziale.

Cosa fu, quindi, Weimar? Un sistema con inequivocabili somiglianze con la Francia della quinta

repubblica, ma soprattutto, un regime che troppo poco è vissuto e in circostanze assai eccezionali

 per poter consentire un vero giudizio agli studiosi posteri.

Anche la Finlandia, almeno fino alle riforme del 1992, è stata considerata una repubblica

semipresidenziale, anche se questo caso, da più parti, è ritenuto una versione debole del modello.

Secondo quanto ci è parso evidente dalla lettura sia di Massari che di Sartori, il momento di

collegamento tra Francia e Finlandia è stato costituito dal dominio riservato in materia di politica

estera: almeno fino alle modifiche costituzionale suddette, infatti, il presidente finlandese

 presiedeva il consiglio dei ministri solo quando all’ordine del giorno vi erano le relazioni del paese

con l’estero, mentre in tutti gli altri casi la sua presenza non era nemmeno ammessa. Il governo

finlandese era, dunque, parlamentare ? In realtà il discorso è un po’ più complesso, perché il

 presidente aveva una non indifferente discrezionalità nella scelta del primo ministro (il che senza

 pregiudicare il parlamento) e nella determinazione della coalizione di governo, dimostrando di

 poter disporre di un numero maggiore di prerogative rispetto ad un suo omologo continentale.

Anche gli studiosi si pongono la domanda se la Finlandia sia da considerarsi un esempio di

semipresidenzialismo ovvero una repubblica parlamentare che riconnette forti poteri al presidente?

Una cosa è senz’altro certa: l’elemento fondamentale del semipresidenzialismo francese, la

diarchia, è qui praticamente inesistente non essendo il presidente un uomo di governo – per cui

non c’è nemmeno la più remota possibilità di coabitazione nel caso che il premier sia

  politicamente avverso – bensì il garante dell’unità nazionale, anzi, il “tutore” tanto

dell’indipendenza faticosamente raggiunta dalla Russia nel 1919 quanto della pace scaturita in

quegli stessi anni tra le fazioni che fin lì avevano dato vita ad una cruenta guerra civile.

Per circa settant’anni, infatti, la Finlandia si è trovata in bilico tra due mondi, quello occidentale e

quello comunista, con la voglia di andare verso il primo, ma la paura di subire il ritorno dei russi,che zaristi o comunisti, non hanno mai sopito le loro tendenze imperialiste; inoltre, durante lo

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stesso arco di tempo (ma all’oggi la situazione non è di molto cambiata) una notevole

frammentazione del sistema partitico ha impedito la creazione di governi stabili e coesi: ecco,

allora, la necessità di avere sempre “il presidente giusto” al momento giusto. Il motivo per il quale

il primo cittadino finlandese presiede il consiglio dei ministri solo se sul tavolo vi sono le relazioni

con l’estero risiede nel fatto che nessuno ha la sua stessa autorità morale, prima che politica, per 

occuparsene. Per comprendere ciò, sufficiente appare considerare il sistema d’elezione del

 presidente. Per lungo tempo questo fu indiretto nel senso che i cittadini eleggevano un collegio su

 base partitica e solo all’interno di esso aveva luogo la vera scelta e selezione dei candidati; il

 popolo aveva, comunque, la possibilità di influire sulla decisione attraverso il voto per eleggere

tale assemblea. Quando fu introdotta, invece, l’elezione diretta, essa fu limitata ad un turno unico

 per cui, in mancanza di un candidato vincente con la maggioranza assoluta dei suffragi, la scelta

sarebbe ricaduta sul collegio: per consuetudine, però, questo investe sempre il candidato più votato

dagli elettori.

Insomma, il presidente finlandese è forse più un forte presidente parlamentare che una figura

simile a quella del capo di stato francese; in fondo, è lo stesso Sartori ad ammettere di aver 

catalogato la Finlandia tra i regimi semipresidenziali per scopi propri, per “dotare il

 presidenzialismo di una valvola di sicurezza”, la cui traduzione: “se escludessi la Finlandia dal

novero dei paesi semipresidenziali, non potrei più consigliare ai presidenzialismi di scegliersi in

secondo grado il presidente per sfuggire alla video-politica”. Non potendosi, comunque, trascurare

la grande importanza del capo di stato nella determinazione della coalizione di governo, nemmeno

tanto azzardato appare collocare il sistema di governo finlandese nella famiglia dei

semipresidenzialismi.

Accenneremo adesso agli esempi portoghese e polacco per mostrare come, a dispetto delle

norme costituzionali, le vicende politiche e gli equilibri di sistema definiscono la forma di governo

in modo determinante.

La costituzione portoghese a cui ci si riferisce è quella scritta all’indomani della  Rivoluzione dei

 garofani, nel 1976. Quella rivoluzione, che restaurò la democrazia in Portogallo e che fu guidata

dalle frange socialiste e comuniste delle forze armate, generò delle istituzioni decisamente

 presidenziali, poiché era obiettivo dei militari creare una forte presidenza (e non poteva essere

diversamente) che fosse appannaggio della “classe militare” stessa. Non a caso il primo presidente

della rinata democrazia portoghese fu Ramalho Eanes, un militare. La Costituzione attribuiva al

 presidenti i poteri di nominare discrezionalmente il primo ministro e di licenziarlo, di non emanare

atti legislativi a lui non graditi senza possibilità di reazione per il parlamento, sciogliere il parlamento, assumere poteri speciali. Tuttavia, già nel ’82 la Costituzione venne profondamente

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rivista, cosicché oggi il presidente nomina il primo ministro tenendo conto dei risultati elettorali e

 previa consultazione; nomina i ministri su proposta del primo ministro stesso; non ha potere di

veto assoluto (anche se ne conserva uno molto forte in materia di politica estera e militare) sulla

legislazione approvata dal parlamento (monocamerale); non può dimissionare il primo ministro se

non in caso di rara urgenza; la dissoluzione del parlamento è tipica; infine, proclama lo stato

d’emergenza ma non assume poteri speciali, conferiti, invece, al governo e al parlamento. Come

già prima del ’76, il presidente non presiede il consiglio dei ministri.

Come si arrivò alle riforme del 1982 ? Vi si arrivò per la necessità di ufficializzare le dinamiche

sistematiche che fin dall’inizio avevano contraddistinto il regime democratico del paese. Infatti, il

 presidente Eanes non ebbe mai la possibilità di esercitare i suoi poteri così come l’impianto teorico

del sistema faceva pensare e questo per via della mancanza di una maggioranza parlamentare a lui

favorevole. Insomma, il baricentro del sistema si spostò presto dalla parte del primo ministro e a

quel punto giunti non restava che innalzare quella spontanea evoluzione a norma costituzionale,

onde evitare sgraditi ritorni di autoritarismo.

La convergenza politica tra il presidente Jorge Sampaio e la maggioranza socialista nel periodo

1996-2000 non ha provocato il ritorno a forme presidenziali di gestione del potere così come alcun

conflitto per la prevalenza tra lo stesso Sampaio ed il primo ministro Antonio Guterress. Altresì, la

recente vittoria del centro-destra, che ha portato al governo Barroso, in costanza della presidenza

socialista, non ha originato il fenomeno della coabitazione.

Il caso polacco, infine, è degno di nota tanto per l’evoluzione fin qui avuta dello stesso che per 

alcuni passaggi del dettato costituzionale. In particolare sono da sottolineare l’articolo che assegna

il potere esecutivo al presidente e al consiglio dei ministri e quei meccanismi che di fatto

realizzano una meccanica alternativamente presidenziale o parlamentare nella scelta del primo

ministro. Il presidente nomina il primo ministro, ma questi deve ricevere la fiducia della camera;

qualora la fiducia non fosse votata, toccherà al parlamento eleggere il primo ministro. La cosa

singolare di questa costituzione è che se anche il parlamento dovesse fallire, la palla tornerebbe

nuovamente al presidente e poi di nuovo al parlamento. Solo a questo punto il capo dello stato

 potrà indire nuove elezioni o nominare un governo provvisorio in carica per pochi mesi. In breve,

la “ piccola costituzione” polacca congiunge la nomina presidenziale del premier con la possibilità

del parlamento di esperire una sorta di sfiducia costruttiva.

Ora, le vicende della Polonia post-comunista ci inducono a pensare che, seppur concepita con

decisi tratti presidenziali durante la fase militare del generale Jaruzelski, la sua forma di governo si

sia stabilizzata in senso parlamentare grazie alla formazione di un ordinato sistema di partiti (di cui

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il merito è tutto di una buona legge elettorale) che ha tagliato le “mani” ad un personaggio politico

come Lech Walesa, fermo sostenitore delle prerogative presidenziali (in quanto presidente).

In fine, anche in Polonia, come in Portogallo, la medesima origine politica del presidente e del

 premier non ha causato conflitti di attribuzioni, tanto meno la leadership liberale del governo

Buzek – insediatosi a sorpresa nel ’97 – ha generato problemi di coabitazione con il presidente

socialista Kwasniewski.

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Un tentativo di analisi critica

Fino ad ora ci siamo attenuti all’esposizione della teoria del semipresidenzialismo come definita

dai suoi sostenitori per illustrare del modello semipresidenziale le innegabili qualità e la

sorprendente capacità d’adattamento ai contesti “difficili”. Adesso, invece, ci proponiamo di

sviluppare alcune considerazioni critiche di natura personale, onde spiegare perché il sistema

semipresidenziale potrebbe essere considerato esclusivamente come una categoria del pensiero

 politologico, piuttosto che una descrizione oggettiva e precisa delle dinamiche politico-istituzionali

di taluni paesi. Queste considerazioni finali nascono, soprattutto, per capire il motivo per il quale

arduo appare alla Scienza individuare e classificare i regimi semipresidenziali: la nostra proposta,

se possiamo permetterci, consiste nell’inserire la Francia tra le repubbliche presidenziali e tutte le

altre esperienze di semipresidenzialismo (su cui sono più forti i dubbi che le certezze) tra i regimi

 parlamentari.

Argomenteremo la nostra proposta a partire dalla distinzione tra costituzione formale e

costituzione materiale (la cui origine è già stata da noi trattata con la citazione di Pitruzzella a pag.

9). Parlando del semipresidenzialismo francese la dicotomia formalità-materialità riguarda

soprattutto le prerogative del presidente della repubblica: per farla breve, alcuni autori come

Deverger e Sartori sembrano sostenere l’ipotesi che buona parte dei poteri di cui il capo dello stato

dispone siano il risultato di un’usurpazione consumata a danno del governo e, ancor di più, del

 primo ministro. Quello che apprendiamo dall’esperienza polacca può aiutarci a comprendere bene

questa tesi e l’affermazione che vuole la figura del presidente della repubblica francese

maggiormente definita dalle interpretazioni individualistiche dei presidenti maggioritari piuttosto

che dal dettato costituzionale. Noi ci permettiamo di mettere in dubbio tutto ciò.

È proprio vero che il presidente abbia usurpato la costituzione assumendo il potere di licenziare

il primo ministro? Secondo noi non è vi è conflitto alcuno tra formalità e materialità giacché, se

 presidente e premier hanno difficoltà a convivere, vista la maggior legittimazione della carica

 presidenziale, l’unico a potere e dovere tirare i remi in barca è il secondo dei due: ciò spiega

 bene il motivo per cui il presidente nulla può contro un premier di colore politico opposto dato

che, molto semplicemente, è logico che vi sia conflitto tra i due, ma in questo caso il primo

ministro non si dimette perché, anche se il presidente glielo chiedesse, nessun sentimento di

lealtà politica potrebbe indurre il premier a sentirsi obbligato a rassegnare le dimissioni (e

nessun potere ha il presidente per rimuoverlo). Insomma, il presidente può “invitare” il primo

ministro a dimettersi, ma non può usurpare niente e nessuno visto che non si è arrogato alcun

atto potestativo, essendo Parigi ben diversa da Weimar. Pasquino fa notare come la decisione disostituire il premier sia dettata dalla necessità di ridar fiato e slancio alla maggioranza

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 parlamentare, cambiare linea politica, rispondere ad esigenze meramente politiche, scaricare

responsabilità personali del presidente; e ancora, a sostegno di quanto da noi scritto in

 precedenza, come il licenziamento del governo passi attraverso un mero sollecito.

È il presidente della repubblica il vero capo del governo? Certo, osservando le dinamiche della

coabitazione la risposta che vien da dare è sicuramente negativa; pensare che la V° repubblica

disegni un sistema di trasferimento dei poteri dal presidente al primo ministro a seconda dei

casi, è già stato scritto, non appare altresì soddisfacente. Le possibili risposte sono, allora, due:

o il presidente ha assunto un ruolo che non gli spetta oppure la coabitazione non è nella

fisiologia della repubblica gollista. Nel primo caso dovremmo parlare della Francia come di una

repubblica parlamentare a cui il generale De Gaulle ha voluto, quasi arbitrariamente, imprimere

una logica presidenziale, ma la cosa non ci appare chiara dato che è la stessa costituzione ad

attribuire al capo dello stato la presidenza del consiglio dei ministri; nel secondo, invece,

dovremmo parlare di una repubblica a decisi tratti presidenziali che talvolta – la causa risiede

nella diversa lunghezza dei mandati presidenziale e parlamentare – si inceppa. In fondo, è stato

Mitterrand a dire che “ Il primo ministro ed i ministri debbono eseguire la politica definita dal 

 presidente della repubblica, dal momento che il presidente della repubblica ha come dovere

quello di applicare il programma sul quale ha stabilito un contratto con il paese”.(Citazione da

Ceccanti)

Dalla lettura degli articoli 12 e 16, sullo scioglimento e sullo stato d’emergenza, si apprende

che il presidente può attivare questi poteri senza che se ne debbano controfirmare gli atti

relativi: esiste qualcosa di simile nelle repubbliche parlamentari? Come ci insegna Ceccanti, il

titolo II della Costituzione, quello che comprende i due articoli, appartiene allo strato delle idee

di De Gaulle ed è proprio a quest’ultimo che dobbiamo riferirci se vogliamo intendere il

significato di un termine che ricorre nei due articoli: consultation. C’è differenza tra una

consultazione (art.12) ed una consultazione officielle (art.16) e, se si, qual è? La differenza

esiste e consiste, probabilmente, nel sottolineare che la decisione di sciogliere l’Assemblea

 Nazionale non può non essere esclusiva del presidente, perché lo scioglimento serve a mettere

ordine nel caos dei partiti, tanto odiati dal generale, e non potrebbe non essere affermato che da

colui che si dispone al di sopra dei partiti (il presidente, appunto). La consultazione di cui

all’articolo 16 è, invece, più severa e formale così da avere una certa ricaduta sulla decisione

del presidente, poiché l’applicazione di detto articolo ha delle conseguenze di maggiore gravità,

  potendo il presidente assumere poteri speciali senza che la Costituzione ne definisca la

consistenza e la durata. In ogni modo, la decisione finale è rimessa unicamente al capo dellostato, visto che il relativo atto non necessita di controfirma.

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Esiste davvero il dominio riservato in materia di politica estera a favore del presidente? La

migliore domanda che ci viene da porre è: perché poteri quali il referendum e lo scioglimento

sono considerati usurpati nonostante che non vogliano la controfirma, mentre, allo stesso modo,

non si ritiene il cosiddetto “dominio riservato in politica estera” un’usurpazione della

Costituzione, dato che, a differenza che nei primi due casi, nel terzo è richiesta la controfirma

(questa sì che potrebbe essere una chiara usurpazione del testo costituzionale) ?

Infine, qualche considerazione sul primo ministro. L’articolo 20 sancisce che il governo è

responsabile della politica della Nazione e che a dirigerlo è il primo ministro. Questo punto è

fondamentale, visto che è proprio su questo articolo che si fonda l’idea dell’esecutivo diarchico.

La diarchia implica che due persone abbiano tali poteri da “comandare” insieme: il presidente

ed il primo ministro francesi “comandano” davvero insieme? La domanda è d’obbligo nel

momento in cui, leggendo l’articolo 20, ci accorgiamo che il premier francese non è tanto

dissimile dal presidente del consiglio italiano, rinomatamene debole, è nemmeno lontanamente

somigliante ai suoi colleghi britannico e tedesco. Il potere di direzione del governo si potrebbe

riferire, allora, alla semplice implementazione di decisioni già prese dal governo, in cui la voce

 predominante è, in condizioni di normalità, il presidente. Contro il governo è possibile votare

una mozione di sfiducia, ma tale atto fa cadere la testa che non comanda veramente. Il semi-

 presidenzialismo potrebbe, allora, essere un’ingegnosa trovata del Generale per non derogare al

 principio della responsabilità dell’esecutivo di fronte l’Assemblea, principio impostogli nel ’58,

senza far venire meno la leadership.

Infine, in nessun regime parlamentare il presidente propone riforme istituzionali ed interviene

attivamente nel processo di revisione costituzionale come in Francia (art.89).

Queste argomentazioni ci portano a concludere che esiste davvero una frattura tra “costituzione

formale” e “costituzione materiale”, ma questa potrebbe non consistere in ciò che si legge nei

tradizionali manuali di scienza politica: lì, infatti, si legge che la prima delinea i tratti di un regime

non presidenziale, tratti che al contrario caratterizzano la seconda; la nostra opinione è che il

regime fu fatto fondamentalmente presidenziale e che abbia in seguito assunto dinamiche vieppiù

 parlamentari come conseguenza dello sviluppo del sistema dei partiti.

Come Massari, Ceccanti e Pasquino pongono in evidenza, i fattori che hanno profondamente

condizionato l’evoluzione della V° repubblica sono stati due: l’introduzione dell’elezione diretta

del capo dello stato e l’adozione della formula uninominale a doppio turno per la selezione dei

membri dell’Assemblea Nazionale. Il sistema elettorale suddetto ha permesso la comparsa del

“fait majoritaire” dopo anni di sperimentazione: poiché al secondo turno accedono soltanto icandidati che hanno superato una certa soglia (attualmente il 12,5% degli iscritti al voto in ciascun

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collegio) i partiti hanno imparato ad adottare comportamenti strategici – l’accordo pre-elettorale o

la desistenza – così che ogni elezione favorisce la formazione di una chiara distinzione tra

maggioranza ed opposizione. Il majority, che la Francia aveva già usato durante la III° repubblica

con pessimi risultati e che De Gaulle aveva voluto proprio per mantenere frammentato il

 parlamento e fare così il rassemblement , col tempo ha invece ridotto il numero dei partiti e ne ha

reso il sistema stabile e convergente al centro. Il doppio turno ha, dunque, sempre permesso la

formazione di stabili maggioranze parlamentari a sostegno o del presidente o del primo ministro.

Si ritiene, tuttavia, che quest’effetto non sarebbe stato raggiunto senza la bipolarizzazione politica

indotta dal doppio turno presidenziale e in effetti ciò non può essere negato. Paradossalmente,

 piuttosto che rinforzare la presidenza, queste due leggi hanno rivitalizzato il sistema dei partiti: 1)

 perché la forza di un presidente è ormai determinata dai meccanismi di lealtà e solidarietà politica

tipici della leadership di partito; 2) perché tali leggi hanno prodotto la “de-presidenzializzazione”

del governo. Potrebbe essere proprio questo, allora, ad aver usurpato la V° repubblica, originando

in questo modo la divisione ed il contrasto tra “costituzione formale” e “costituzione materiale” e

la nozione stessa (di dubbia verifica empirica) di semipresidenzialismo. Stando così le cose, la

nostra proposta è che il normale governo francese deve essere di emanazione presidenziale, mentre

la coabitazione deve essere considerata solo un fenomeno temporaneo e, comunque, patologico

dovuto dalla ricostruzione in senso bipolare del sistema dei partiti. Dunque, potrebbero non

esistere delle convenzioni “usurpatrici” che hanno permesso al capo dello stato di

“presidenzializzare” il sistema, bensì delle condizioni oggettive non presenti in partenza e delle

 prassi elaborate dagli attori politici che hanno “parlamentarizzato” il governo per dirimere la

questione spinosa della coabitazione. La verità è che De Gaulle cercò, al di là delle retoriche

rassicurazioni dei suoi tattici discorsi, di dar vita ad una repubblica presidenziale avendo insistito

sull’elezione diretta del presidente, sulla divisione dei poteri (incompatibilità tra incarichi

 parlamentari e ministeriali; impossibilità per il legislativo, alias i partiti, di rovesciare la prima

testa nell’esecutivo) e sulla frantumazione della rappresentanza politica, ma tale repubblica ideale

fu cambiata nel corso degli anni dall’inattesa comparsa del fatto maggioritario. In conclusione,

trattare l’argomento alla luce dell’ipotesi dell’usurpazione, nonostante i suoi autorevoli portavoce,

ci appare una perdita di tempo, perché i poteri che il presidente ha esercitato ed esercita sono tutti

nella Costituzione e nella sua logica di funzionamento; l’equivoco, tuttavia, nasce perché in un

sistema in cui il baricentro si è decisamente spostato a favore del parlamento – perché è qui che si

decide chi governa – è la figura di un presidente forte ad apparire una nota stonata, un’incoerenza,

un’intrusione non opportuna nei processi decisionali. È come se la scelta adottata nel ’58 di un

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 potente capo di stato, motivata dalla cronica instabilità del formato partitico, fosse ormai  scaduta

dato che l’Assemblea da sola è in grado di istituire e sostenere proprie compagini ministeriali.

L’infondatezza della tesi dell’usurpazione ci spinge a verificare la possibilità di inserire la Francia

tra i regimi presidenziali, nondimeno un elemento critico in tal senso rema contro questa idea: il

 primo ministro, essendo in un regime presidenziale la persone del capo dello stato fusa con quella

del capo del governo.

Abbiamo già visto come gli stessi presidenti francesi abbiano definito i loro rapporti col primo

ministro con diverso entusiasmo a seconda che fossero o meno maggioritari in parlamento.

Giscard ha dovuto tristemente dichiarare, temendo una vittoria socialista alle politiche del 1978,

che la Costituzione non gli attribuiva alcun potere per ostacolare un eventuale governo delle

sinistre; Mitterrand ha prima detto che il governo deve realizzare il programma del presidente e poi

che la Costituzione conferisce al presidente il potere di impedire le decisioni ma non di prenderle

(citazione da Sartori). Perché è così problematico capire come presidente e primo ministro

debbono relazionarsi? Il problema è la legittimità a governare. Quando in Francia si elegge un

nuovo presidente della repubblica, la campagna elettorale è centrata su questioni politiche e non

 personali, giacché in quei giorni gli elettori francesi non sono chiamati ad eleggere una personalità

rassicurante e/o autorevole e basta, ma ad approvare un vero e proprio programma di governo per 

gli anni successivi, esattamente come accade nei paesi a regime presidenziale e a differenza di

quelli in cui l’elezione del presidente è solo simbolica, se tale espressione può passare. È ovvio che

la simpatia che un candidato può esercitare sulle persone conta notevolmente, ma ciò non è più

determinante della leadership che si può esercitare su di un partito o di una colazione sulla base di

un programma condiviso. Quando un candidato vince le presidenziali è tutto il partito a vincerle,

non il solo candidato e ciò spiga il motivo per cui, all’indomani dell’avvenuta vittoria, il presidente

francese scioglie l’Assemblea Nazionale, mentre quello portoghese e quello polacco non lo fanno

e non ci pensano nemmeno. La decisione di andare ad elezioni anticipate, nominare un premier 

amico a dispetto della maggioranza attuale (basta pensare alla nomina di Raffarin ad opera di

Chirac nel 2002 nonostante l’Assemblea sarebbe stata rinnovata solo tre mesi dopo), sospendere

l’applicazione di leggi proposte dal governo precedente (la legge sulle 35 ore) sono solo alcuni

degli atti che un presidente appena eletto può adottare in piena legittimità. In quanto  premiere

 femme del momento il presidente è colui che realmente comanda, mentre il primo ministro fa solo

funzionare la macchina governativa, come a dire che il primo è l’ispiratore ed il secondo il

realizzatore. Diversa è la situazione in cui il presidente ha perso la maggioranza in parlamento,

 perché in questo caso è chiaro che gli elettori hanno scelto un nuovo programma di governo,scontenti di quello precedente: cioè, se in luogo delle politiche si fossero fatte le presidenziali, il

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capo del governo (quello vero) le avrebbe perdute a favore dello sfidante. Il presidente è

assolutamente delegittimato e questo spiega perché egli non faccia ripetere le elezioni, come

facevano i sovrani del 19° secolo quando non le vincevano, e perché non sciolga il parlamento

all’improvviso nella speranza di sorprendere il primo ministro ed il suo partito. Dell’impossibilità

di chiedere le dimissioni del governo abbiamo già riferito. Ora, quando perde le politiche e con

esse una buona sostanza (di fatto) delle sue prerogative, il presidente della repubblica viene

mortificato nella sua figura istituzionale, apparendo al popolo che lo ha eletto non solo inutile, ma

addirittura fastidioso: un ostacolo per il primo ministro, una zavorra per il governo, un noioso e

superfluo oratore. Non sarebbe il caso di rassegnare le dimissioni? La dimissione eviterebbe la

distorsione della meccanica del sistema e le secche della coabitazione: insomma, eviterebbe

equivoci circa il ruolo del presidente. L’alternativa sarebbe accordarsi per la definitiva e formale

 parlamenterizzazione del regime, cioè, decidere di tagliare i rami alla presidenza, ma la recente

riforma costituzionale, votata per referendum, che ha ridotto il mandato presidenziale da sette a

cinque anni va nella direzione opposta. Equiparare la durata del mandati del presidente e

dell’Assemblea Nazionale, infatti, produce l’effetto di ripresidenzializzare il sistema, giacché il

diminuito rischio di coabitazione produrrà dei notevoli effetti sui poteri del presidente nei

confronti del parlamento. In primo luogo, lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, seppur 

ancora possibile, non sarà più realizzato perché il presidente non avrà alcun interesse ad anticipare

le elezioni rischiando di perdere la maggioranza; essendo sicuramente il capo dello schieramento

maggioritario in aula, egli potrà sostituire il primo ministro con una notevole facilità (come fecero

De Gaulle, Pompidou e Mitterrand); la sua presidenza del Consiglio non sarà solo di forma, ma di

sostanza; la sua autonomia in politica estera sarà incrementata. Questo presidenzialismo non

corrisponderà evidentemente alla teoria pura, tuttavia, se un sistema di governo va valutato anche

 per come funziona e non solo per quello che si è scritto sulla costituzione, basterà osservare che il

 presidente non scioglie (anche se solo di fatto) il parlamento, è il leader incontrastato del governo

estesamente inteso potendone licenziare i membri non più fidati, e che dirige la politica estera e

militare. In fondo, se i paesi del centro e del sud America sono considerati senza dubbio paesi a

regime presidenziale nonostante la loro diversità molto pronunciata rispetto al modello teorico,

 perché la Francia non può rientrare nella stessa categoria? Se in Francia non si fosse verificato il

fenomeno della coabitazione, avremmo sollevato dubbi sul carattere presidenziale delle sue

istituzioni? Allora, il problema è stabilire se dualismo coincide con dualità della struttura di

 governo. Ci sembra che la risposta sia negativa. Dicendo “struttura duale dell’esecutivo”, infatti, ci

riferiamo a ciò che Sartori definì “diarchia” o “esecutivo bicefalo” per sottolineare che esistonodue teste che comandano insieme, una in quanto fonte d’autorità autonoma dal parlamento, l’altra

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in quanto legittimata da due fonti d’autorità distinte, il presidente ed il parlamento. Ma come

sostenere a lungo questa idea se – lo hanno dichiarato gli stessi presidenti francesi, non noi – 

quando governa il presidente il primo ministro è il suo più stretto uomo di fiducia, mentre quando

governa il primo ministro il presidente “abdica” in suo favore? Se comanda l’uno, insomma, l’altro

non lo fa: esiste davvero la guida duale del governo? Probabilmente, la V° repubblica francese, in

condizioni di normalità, è più simile alla monarchia costituzionale che non a quella parlamentare:

la presenza del primo ministro non impedisce, cioè, che la corona abbia posto per una sola testa. Il

concetto di “dualismo”, invece, è relativo alla duplice “fiducia” di cui il governo deve disporre, la

fiducia del capo dello stato e quella del parlamento, per cui entrambe possono distintamente

licenziare l’esecutivo, come realmente accadeva nella prima metà dell’ottocento. Dunque, la

V°repubblica riscopre in Europa il dualismo, ma non sembra creare un governo a struttura duale. È

ovvio che, se la nostra comprensione dei termini non è corretta, la conclusione può essere opposta.

Comunque, la nostra analisi, per nostro difetto di scienza, non è adeguata e ancor più perché priva

di riferimenti a ciò che significa “esecutivo monocratico”: infatti, è proprio in questa espressione

che risiede la grande differenza tra USA e Francia. E questa è una differenza di non poco conto.

La costituzione americana è costituita da soli sette articoli e in nessuno d essi si parla di ministri o

di consiglio dei ministri: il governo, in pratica, è formato solamente dal presidente. Ideata nel

momento più alto della speculazione politica illuminista, la costituzione americana si ispirava

 profondamente alla teoria della separazione dei poteri, in base alla quale il potere decisionale

spettava esclusivamente al legislativo, che rappresentava la Nazione, mentre all’esecutivo sarebbe

toccata la semplice applicazione delle leggi: non è un caso che negli Stati Uniti il termine

anglosassone  governement  venga sostituito da administration. A lungo, dunque, si parlò di

“ governo del Congresso” e solo l’evoluzione storica comune a tutti gli esecutivi moderni ha reso

quello americano sempre meno una administration e sempre più un governement . Tuttavia, proprio

 perché pensato come un’amministrazione, il governo americano non è formato da un gruppo di

 politici, ma è un’organizzazione gerarchia che fa capo al presidente e che a lui soltanto risponde

direttamente. Il presidente dispone (non per costituzione, ma per legge) di due uffici: il White

 House Office ed il Executive Office of the  President , che costituiscono la cosiddetta  presidenza

 personale. In particolare, il secondo potrebbe essere in qualche modo paragonata ad una

 presidenza del consiglio (comunque la si voglia chiamare) di tipo europeo, mentre il primo, pur 

essendo in realtà parte del primo, è una sorta di ufficio personale con cui il presidente tiene i

rapporti col Congresso, colla stampa, con l’opinione pubblica. Il secondo strato della presidenza è

quella detta dipartimentale, costituita da quattordici dipartimenti guidati da segretari e non daministri. Cosa comporta ciò? L’inesistenza di un cabinet  , di un luogo in cui, cioè, più persone si

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riuniscono per assumere collegialmente le decisioni necessarie. Essi sono propriamente dei

delegati del presidente. Infine, abbiamo la presidenza amministrativa, costituita da una serie di

agenzie indipendenti (Fabbrini, Vassalo). MA quello che ci interessa è sottolineare l’inesistenza di

un gabinetto, cosicché non tutti i dipartimenti sono ugualmente importanti, valorizzati e

considerati; inoltre, la riunione plenaria della presidenza dipartimentale è occasionale e rimessa

alla volontà del presidente, essendo essa non necessaria, poiché ciascun segretario prende ordini

dal capo o risponde personalmente dei suoi comportamenti successivamente ma sempre presso il

 presidente (che in questo modo ne legittima l’operato ex post ). Infine, il presidente è l’unico a

rispondere personalmente di fronte al corpo elettorale. In Francia tutto questo non c’è e per la

 presenza di un cabinet e per l’esistenza di una struttura specifica che fa testa al presidente della

repubblica (circa 700 persone) e di una, invece, si riferisce al primo ministro. Come scrivono

Fabbrini e Vassallo, il capo dello stato si è appoggiato fortemente sulla prima per appropriarsi

della direzione del governo, facendo sì che al primo ministro fosse rimessa la guida

dell’esecuzione delle politiche. Nondimeno, sono sempre gli stessi autori a far notare come

l’ufficio del primo ministro sia stato organizzato principalmente con lo scopo di “ coordinare e

  supervisionare l’azione del governo”, e che successivamente, con la coabitazione, esso si sia

attrezzato per anche dirigere il governo stesso. Oggi il governo francese ha a sua disposizione

un’organizzazione che può competere fondamentalmente alla pari con la presidenza della

repubblica.

Un ultima considerazione: anche le istituzioni nordamericane sono dualiste, ma nel senso che esse

sono “istituzioni separate che condividono il potere”, vale a dire istituzioni poste orizzontalmente,

su di un piano di parità cosicché esse sono dotate di autorità equivalente sotto la Costituzione, al

contrario dell’Europa dove vige una relazione verticale tra legislativo ed esecutivo (tanto che il

governo francese risponde anche davanti alla camera elettiva) ed il parlamento, in quanto sede

unica della sovranità, è al di sopra della stessa costituzione. Questo fa in modo che in Europa “ la

decisione di governo è rimessa dal parlamento al suo esecutivo” contrariamente a quanto accade

oltre oceano perché lì il legislativo partecipa direttamente alla decisione governativa

“indipendentemente dall’esecutivo, anche se insieme ad esso”.

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Conclusioni

La conclusione di questo lavoro in realtà è poco concludente, nel senso che al punto in cui siamo

giunti abbiamo maturato la convinzione che il problema relativo all’individuazione dei regimi,

cosiddetti, semipresidenziali sia stato tutt’altro che risolto. Nelle nostre carte avevamo avanzato

una proposta che abbiamo cercato di motivare e di rendere accettabile e che consisteva nel

catalogare la Francia della V° repubblica tra i paesi a regime presidenziale e tutti gli altri esempi di

semipresidenzialismo citati dagli esperti tra i regimi parlamentari, ma alla fine ci siamo dovuti

arrendere all’evidenza che, se è praticamente incontestabile il fatto che la repubblica gollista non

 possa rientrare tra le forme di governo parlamentari, è altrettanto incontestabile l’utilità di creare

un modello teorico nuovo e diverso da quelli tradizionali, essendo le differenze tra il governo della

V°repubblica ed un governo monocratico assai evidenti. Tuttavia, è nostra profonda convinzione, e

ci sembra di aver trovato tracce della stessa anche negli autori da noi consultati fatta eccezione per 

i chiari intendi partigiani, che uno degli elementi caratterizzanti del semipresidenzialismo, la

 possibilità che la direzione del governo oscilli come un pendolo tra il presidente ed il primo

ministro, sia un eventualità poco desiderabile. Lo stesso Fabbrini in altro suo scritto avverte delle

difficoltà che dalla seconda metà degli anni ottanta flagellano la V° repubblica proprio a causa

della logorante logica della coabitazione che, lungi dall’essere un virtuoso meccanismo che

concilia due opposti, è quasi una pratica consociativa che impedisce agli elettori di attribuire chiare

responsabilità. L’esito delle ultime elezioni presidenziali dell’aprile 2002, che videro al primo

turno i seguenti risultati: Chirac a circa il 20%, Le Pen al 17%, Jospin al 16% e almeno altri

quattro candidati minori sopra il 5% dei suffragi, dimostrano la nostra affermazione (anzi, sono

questi dati ad aver formato la nostra convinzione).

Ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera il giorno dopo il primo turno delle ultime

 presidenziali:

(…) all’origine della crisi vi sono almeno due ragioni strettamente collegate . La prima è la

coabitazione . La sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1997 ha costretto Chirac a convivere

 per cinque anni con un governo di sinistr . Questo nuovo “regime” (le precedenti coabitazioni erano

 state più brevi) ha privato il Paese di una reale dialettica politica. Egualmente interessati ad evitare

una crisi costituzionale, i leader della destra e della sinistra hanno dovuto rinunziare al diritto di

confrontarsi da posizioni contrapposte ( …) Non è sorprendente che i francesi abbiano

 progressivamente perduto il senso della differenza tra i due schieramenti. (la seconda ragione di cui

 parla Romano è di carattere economico e non ci riguarda).

La riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni farà in modo da allineare le elezioni

 per l’Assemblea Nazionale con quelle per il Presidente della Repubblica onde evitare per il futuro

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il fenomeno della coabitazione, la cui eliminazione farà che il presidente eletto dal popolo non sarà

 più messo nelle condizioni di essere un’impotenza sostenuta (da un voto passato). Ciò nonostante,

l’aver compreso l’eccezionalità delle situazioni in cui De Gaulle e Pompidou agirono ci permette

di valutare l’impatto della transizione sull’interpretazione dei poteri presidenziali e, più in

generale, della Costituzione stessa: non si può negare, infatti, che in quella fase le prerogative del

 presidente crebbero, in qualche modo, più di quanto fosse lecito attendersi. È possibile, quindi,

attendersi una decisa “svolta” parlamentare senza dar vita ad una VI°repubblica, come qualcuno ha

sostenuto durante i giorni di gloria di Le Pen, anche in considerazione della sempre più artificiale,

 perché costruita con la sfida a due del turno di ballottaggio, legittimazione presidenziale, non

essendo quest’esito estraneo alle possibilità offerte dalla dimostrata flessibilità del sistema.

La nostra opinione, però, è già stata espressa e volge verso equilibri favorevoli al presidente anche

 perché, alla luce delle conseguenze ipotizzate in seguito alla riduzione del mandato presidenziale,

questo ci sembra lo scenario futuro obbiettivamente più realistico