Il secolo di Costanzo e di Arnaldo - appunti

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IL SECOLO DI COSTANZO (E DI ARNALDO). Redazione 25 marzo 2005 Se scarsa di elementi concreti e chiari appare la biografie e la personalità di Costanzo, l’eremita fondatore di Conche di Nave, acquisterà un diverso valore il ricostruire il “secolo” che a sua esperienza ascetica attraversò, cercando il più possibile di contestualizzarla nelle realtà e nelle tensione che percorsero questo periodo, vero e proprio “cuore” del Medioevo. Bisogna sottolineare fin d’ora che pur non avendo elementi storicamente certi della sua adesione ad alcuna parte religiosa o sociale, l’elemento che appare plausibile è la sua adesione al proprio tempo, la non astoricità dell’esperienza di Costanzo, concetto che verrà declinato nel presente capitolo, ma anche nelle successive parti dedicate alle prime esperienze del cenobio navense. Le tensioni, che meglio descriveremo in seguito, testimoniano di una realtà locale in piena lotta di potere, minata da tensioni pauperistiche e antigerarchiche, che sfoceranno a volte nel miglioramento di alcune storture del sistema politico-sociale, in altre nell’eresia vera e propria. E’ difficile’ infatti, non leggere in controluce all’esperienza di Costanzo, il pressochè coevo percorso di Arnaldo da Brescia, colto predicatore a Brescia, all’estero e infine a Roma, dove, intrecciandosi le sue istanze con quelle delle locali lotte comunali, ebbe la peggio e venne impiccato come eretico, il suo corpo bruciato e disperso nel Tevere. Limiti cronologici ed elementi essenziali. Come accennavamo sopra, gli elementi certi della vita di Costanzo sono scarsi. Presumibilmente un nobile bresciano (ma francese di Etampes secondo un’altra “leggenda”) che, “si diceva” fosse imparentato con la celebre contessa Matilde di Canossa che fu per anni anche Signora di Mantova. Conte o tantomeno vassallo dotato di beni e circondato di onori, prestante e ardimentoso, ancora adolescente aveva seguito la carriera militare. (FAPPANI pag. 22). Secondo un’altra fonte antica aveva combattuto come soldato ai tempi dello “scisma” di Conone e si sarebbe poi convertito e ritirato alla vita eremitica, presumibilmente non totalmente solitaria, ma forse, come anche si usava all’epoca, con alcuni compagni o familiari. Le leggende su S.Costanzo sono abbastanza fumose e contraddittorie e tendono a confondere elementi presi dalle storie di altri “santi guerrieri” dell’epoca, essenzialmente quella di “S.Glisente, S.Obizio, S.Fermo e altri, tutti passati alla regola eremitica”

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IL SECOLO DI COSTANZO (E DI ARNALDO).

Redazione 25 marzo 2005

Se scarsa di elementi concreti e chiari appare la biografie e la personalità di

Costanzo, l’eremita fondatore di Conche di Nave, acquisterà un diverso valore il

ricostruire il “secolo” che a sua esperienza ascetica attraversò, cercando il più

possibile di contestualizzarla nelle realtà e nelle tensione che percorsero questo

periodo, vero e proprio “cuore” del Medioevo. Bisogna sottolineare fin d’ora che pur

non avendo elementi storicamente certi della sua adesione ad alcuna parte religiosa

o sociale, l’elemento che appare plausibile è la sua adesione al proprio tempo, la

non astoricità dell’esperienza di Costanzo, concetto che verrà declinato nel presente

capitolo, ma anche nelle successive parti dedicate alle prime esperienze del

cenobio navense. Le tensioni, che meglio descriveremo in seguito, testimoniano di

una realtà locale in piena lotta di potere, minata da tensioni pauperistiche e

antigerarchiche, che sfoceranno a volte nel miglioramento di alcune storture del

sistema politico-sociale, in altre nell’eresia vera e propria. E’ difficile’ infatti, non

leggere in controluce all’esperienza di Costanzo, il pressochè coevo percorso di

Arnaldo da Brescia, colto predicatore a Brescia, all’estero e infine a Roma, dove,

intrecciandosi le sue istanze con quelle delle locali lotte comunali, ebbe la peggio e

venne impiccato come eretico, il suo corpo bruciato e disperso nel Tevere.

Limiti cronologici ed elementi essenziali.

Come accennavamo sopra, gli elementi certi della vita di Costanzo sono scarsi.

Presumibilmente un nobile bresciano (ma francese di Etampes secondo un’altra

“leggenda”) che, “si diceva” fosse imparentato con la celebre contessa Matilde di

Canossa che fu per anni anche Signora di Mantova. Conte o tantomeno vassallo

dotato di beni e circondato di onori, prestante e ardimentoso, ancora adolescente

aveva seguito la carriera militare. (FAPPANI pag. 22). Secondo un’altra fonte antica

aveva combattuto come soldato ai tempi dello “scisma” di Conone e si sarebbe poi

convertito e ritirato alla vita eremitica, presumibilmente non totalmente solitaria, ma

forse, come anche si usava all’epoca, con alcuni compagni o familiari. Le leggende

su S.Costanzo sono abbastanza fumose e contraddittorie e tendono a confondere

elementi presi dalle storie di altri “santi guerrieri” dell’epoca, essenzialmente quella

di “S.Glisente, S.Obizio, S.Fermo e altri, tutti passati alla regola eremitica”

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(FAPPANI pag. 34). In questo senso la scelta di fondare un piccolo cenobio e una

chiesa proprio in Conche, non appare come una scelta anacoretica vera e propria,

infatti “quello di Conche era un sentiero frequentatissimo che collegavano la Valle

del Garza con Lumezzane e la media Valletrompia. Si sa come dovendo andare a

piedi o con cavalcature modeste, la gente preferisse allora sentieri più diritti anche

se impervi, evitando fondovalle acquitrinosi ed insicuri. Il lavoro manuale dava i

mezzi per il sostentamento mentre l’eremita diventa un personaggio circonfuso di

meraviglioso e di leggenda, a volte mago. L’eremita vive infatti in perfetta sintonia

con gli uomini del suo tempo e i loro bisogni. La vicinanza degli eremi ai luoghi di

transito e ai centri urbani sarebbe una conferma del parallelismo fra lo sviluppo della

vita eremitica e quello della vita sociale, economica, culturale” (FAPPANI pag. 37).

L’esperienza certamente povera di Costanzo era in consonanza con le idee che si

stavano progressivamente diffondendo nelle città di tutta l’Europa cristiana: “al

modello della «vita apostolica primitiva» in comunità di beni, condizione assoluta

della socialità di vita, si viene sostituendo l’ideale evangelico della povertà assoluta:

«seguire poveri il Cristo povero» che sarà il modello degli ordini mendicanti”

(FAPPANI pag. 39). Bisogna però sottolineare “la vicinanza degli eremi a centri ben

abitati, a luoghi di grande traffico e a larghe vallate. Dunque l'eremita sarebbe il

prodotto di una vita urbana e di una popolazione agiata e nello stesso tempo

l'incarnazione di un bisogno di fuga da una civiltà che gli stava stretta, e di un

bisogno di tranquillità tanto più desiderata quanto più veniva meno. Questo distacco

dal mondo non implicava però forme di misantropia da parte di colui che si ritirava, il

quale spesso si rapportava con la gente circostante, principalmente per le esigenze

primarie di sussistenza che lo inducevano allo scambio di prodotti da lui stesso

coltivati. L'eremita diventava così una figura molto familiare attorno alla quale furono

costruite nel tempo numerose leggende. Paradossalmente sarebbe l'autosufficienza

dei cenobi che farebbe pensare ad una separazione dal mondo, non certo l'eremita,

che scegliendo questo tipo di distacco come regola di vita, non rifiuta, ma cerca la

lotta con il diavolo, impersonato dalle varie tentazioni della vita.

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L'eremitismo dunque costituì una novità religiosa sotto numerosi aspetti: in primo

luogo si presentava in contrasto con una situazione religiosa legata strettamente

alle forme ecclesiastiche tradizionali, favorite nei secoli IX e X dalla politica

carolingia e ottoniana, connessa a sua volta alla «stabilitas» della Chiesa e in

contrasto con quelle forme di vita indipendenti che da essa si svincolavano; in

secondo luogo non implicava il rigore gerarchico e l'«oboedientia» all'abate, tipici

delle strutture religiose cenobitiche saldamente organizzate. La maggior parte degli

studiosi che tentarono di approfondire il discorso su questo fenomeno ritennero

opportuno però parlarne senza fare generalizzazioni, ma prendendo in

considerazione i casi particolari nei quali si manifestò; ecco perché Jean Leclerc

ritenne preferibile parlare, anziche di eremitismo di eremiti come rappresentanti di

storie e di mondi individuali che non ci vietano peraltro d'individuare grandi

tendenze o direttive comuni”. (STEFANONI pagg. 1 e2)

Una data che appare abbastanza certa in questa esperienza è la consacrazione

della chiesa da parte del Vescovo di Brescia Arimanno, deposto nel 1116: la data

precisa della costruzione della chiesa dovrebbe situarsi (secondo il Fappani) tra il

1110 e il 1116.

Gli estremi biografici più probabili per definire storicamente l’esperienza terrena di

Arnaldo appaiono essere il ventennio 1060-1080 per la data di nascita, il 1150 circa

per la sua morte (si veda il testo di Fappani, in varie parti, per una discussione più

complessiva su queste date).

Il secolo di Costanzo, tra Roma e Brescia.

“L'anno Mille costituì forse il punto di partenza di una serie di rinnovamenti e di una

società che cominciava man mano a cambiare. Dopo le numerose scorrerie di

pagani, che caratterizzarono l'età precedente, alla fine del X secolo si registrò in

Europa un lento, ma progressivo, incremento demografico, dovuto ai miglioramenti

delle coltivazioni, all'abbondanza dei prodotti e ad un'alimentazione più ricca. I

commerci dei prodotti sovrabbondanti si fecero sempre più frequenti, nonostante le

abbondanti esazioni di imposte e dei dazi, dovuti al proliferare delle signorie

territoriali, così la pianura Padana divenne il punto centrale di raccordo tra l'Europa

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e l'Oriente, mentre Venezia si avviava ad essere il porto più importante del

Mediterraneo. Si affermò inoltre una nuova classe sociale, costituita da mercanti e

artigiani, che arricchendosi, cercavano di affiancarsi ai vecchi ceti nobiliari ormai

incapaci di operare qualsiasi tipo di promozione sociale.

L'altra faccia della medaglia fu però l'inserimento della vita mondana nella Chiesa e

nella sua gerarchia; questo causò una decadenza morale non indifferente e il

diffondersi di un malcostume generale che colpì principalmente il clero, favorendo il

concubinato e la simonìa (compra-vendita di cariche ecclesiastiche) o altre scelte di

vita ormai discordanti dall'etica evangelica. Di conseguenza si verificò una forte

reazione, dettata da un bisogno di riforma, che riconducesse la Chiesa alla povertà

e alla vita delle prime comunità cristiane; i maggiori esponenti di tale rinnovamento

appartennero ai movimenti religiosi studiati nella loro dinamica e nel loro sviluppo

dal Grundmann, che nella sua opera non ha dimenticato l’importanza del mondo

femminile, come forza attiva, in questo vasto rinnovamento religioso”. (STEFANONI

pag. 15)

In un’ottica più europea potremmo dire, con le parole di G. Tabacco, che “il

problema di fondo delle strutture ecclesiastiche stava nella moltiplicazione stessa

delle chiese, le quali ricoprivano in rete sempre più densa tutta l’area latino-

germanica e riuscivano di controllo difficile di fronte agli appetiti che i beni e i redditi

connessi a ciascuna di esse suscitavano nei vari gradi della società, coinvolgendo

anche coloro – re e vescovi – che avrebbero dovuto controllare l’intero ordinamento.

(TABACCO – MERLO pag. 283). Tale situazione si esacerbò ulteriormente nella

cosiddetta «lotta per le investiture»: “la simbiosi politico ecclesiastica che il

movimento riformatore romano di Pier Damiani combatteva come offesa alla

libertas ecclesiae, veniva dunque respinta nella forma tradizionale della

supremazia regia e imperiale ma riaffermata di fatto nella graduale costruzione di

una supremazia papale non meno fluida e ambivalente. (…) Gregorio VII (1073-

1085) sviluppò definitivamente questa ambivalenza politico sacerdotale del papato

e (…) tanto più grave fu la decisione papale di proibire espressamente ogni

investitura regia, anche gratuita, dei vescovati: lo scopo era di impedire per sempre

scelte dettate da ragioni non religiose, ma gli effetti del divieto si prospettavano

come dirompenti per tutti i regni della cristianità, fondati sullo stretto connubio tra il

potere regio e l’episcopato e su interferenze codificate e reciproche dell’un potere

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nella sfera dell’altro. Ne conseguì la rottura tra Gregorio VII e Enrico IV. (…) La

coerenza e l’audacia con cui Gregorio VII combattè l’intervento imperiale nel

funzionamento dell’episcopato (…) ebbe un’importanza decisiva nell’orientare il

cattolicesimo verso una soluzione monarchico-papale e nel costringere, per

reazione polemica, le aristocrazie politiche di tradizione militare o cittadina a

interpretare la propria funzione civile in modo più autonomo rispetto all’organismo

ecclesiastico, continuando nei secoli a convivere con esso, ma in modo più

articolato. (…) Ad una soluzione si giunse nel concordato stipulato nel 1122 a

Worms (Franconia renana) (…) in cui fu stabilito che i vescovi e gli abati delle

abbazie imperiali fossero eletti nel rispetto dei canoni – dunque secondo i principi di

libertà delle comunità monastiche, o per l’elezione vescovile del clero locale con

accessione puramente formale del popolo -, con la precisazione che nel regno

teutonico (…) l’elezione dovesse avvenire in presenza del re o dei suoi

rappresentanti i quali, nel caso di discordia tra gli elettori, potessero confortare

l’opera del metropolita e dei vescovi della provincia ecclesiastica a cui la diocesi

apparteneva, nell’orientare gli elettori verso un’elezione concorde. Il re doveva poi

concedere all’eletto (…) le “regalie” pertinenti alla sua chiesa (…) e il vescovo si

impegnava simbolicamente ad adempiere verso il re i doveri connessi con le

funzioni temporali. (…). Dopo alcune incertezze, nei decenni successivi al

concordato di Worms la concessione regia delle regalie a vescovi e abati finì per

essere interpretata nell’impero, soprattutto nei regni di Germania e di Borgogna,

come un’investitura feudale: un’investitura avente come corrispettivo l’omaggio e il

giuramento di fedeltà, e avente come oggetto la potenza temporale del prelato. (…)

Parallelamente il beneficio vassallatico per i miles manifestò assai presto la

tendenza a divenire ereditario e finì con l’essere considerato come una parte del

patrimonio del vassallo (…) Il processo di patrimonializzazione del beneficio – o

feudo – fu lento, e ancora al principio del secolo XI c’erano gravi contrasti,

particolarmente in Lombardia tra seniores e milites. (…) (TABACCO – MERLO

pagg. 294-299 passim)

Ricostruire brevemente il clima storico del periodo di S.Costanzo, anche solo per il

territorio bresciano, si presenta, purtroppo, come un’impresa titanica: la scarsità di

fonti documentarie, spesso irrimediabilmente perdute, permette solo qualche

ricostruzione spesso affidata a documenti posteriori e non sempre storicamente

certi. L’aspetto che sembra però emergere chiaramente anche a livello locale è la

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forte conflittualità sociale e politica dell’epoca: le grandi e potenti istituzioni

ecclesiali: il papato stesso, l’impero e gerarchicamente tutti poteri da esso derivati

vengono a scontrarsi per questioni di supremazia e, un terzo elemento, fa sentire la

sua presenza, la protoborghesia comunale, che comincia a chiedere, sempre più a

gran voce, concessioni e riconoscimenti da entrambi i suddetti storici “poteri forti”.

Era la cosiddetta “rivolta dei valvassori” (1035), antefatto delle lotte che porteranno

alla creazione dei liberi Comuni, circa un secolo dopo. “Questa rivolta, o forse

meglio rivoluzione, (…) apparve ai contemporanei come una sorprendente novità,

anzi una sorprendente confusione (“inaudita confusio”), sotto la forma di un rifiuto di

obbedienza generale e organizzato, di tutti i sottoposti, nobili minori e popolo, verso

i loro superiori. Che non è dir poco”. (SDB pag. 569). Tale atto era percepito

all’epoca come un sovvertimento dell’ordine costituito, che secondo alcune letture,

era di origine pressochè divina e pertanto, chi ad esso attentava, era vicino a

posizioni ereticali.

Queste posizioni così contrapposte erano frutto dello scontro tra vari poteri a cui era

soggetto il territorio del nord-Italia: dominio dell’imperatore tedesco sul Regno

d’Italia, che era diretto in quanto sovranità, il suo potere indiretto tramite il signore

(detto “dominio utile” e a Brescia esercitato dal Conte di nomina regia fin dai tempi

longobardi), il potere spirituale ed economico del vescovo e infine, come già

accennato, le crescenti spinte municipalistiche. Da tali sovrapposizioni nasceranno

nei secoli varie situazioni di crisi determinati dalla diversa e variabile nel tempo

importanza delle diverse componenti, soprattutto in chiave economica. Fin dal

medioevo più antico, infatti, “il binomio vescovo-città è uno degli aspetti più originali

del mondo politico italiano; tuttavia il vescovo, anche quando riceve dal sovrano

grandi concessioni di poteri, non è il capo della città, anche se la sua preminenza in

qualità di protettore della stessa gli viene riconosciuta dal sovrano e dal popolo. Il

potere centrale, anzi, si avvarrà del vescovo per contenere la potenza dei signori

laici, ma al potere vescovile opporrà spesso quello dei grandi monasteri di diritto

imperiale e l’interferenza nelle elezioni dei vescovi. In un certo senso dunque è il

vescovo a rappresentare la città e non il conte, anche se il potere di quest’ultimo

teoricamente si estende a tutto il territorio comprendendo anche la città.

E l’organismo cittadino continuava a godere di particolari diritti e privilegi; la

caratteristica della città infatti era di essere pubblica, demaniale, direttamente

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soggetta alla corte regia, cioè sottratta all’autorità comitale; di avere all’interno del

contado un territorio autonomo, proprio, individuato dalla cerchia delle mura e in una

precisa zona all’intorno, il “pomario”, cioè il suburbio (…). Le funzioni della

giurisdizione pubblica cadono a poco a poco nelle mani del vescovo, a danno dei

conti, i legittimi titolari di esse. (ARNALDO pag. 88)

Ad ogni modo, secondo il Valentini, “Brescia fin dall’undecimo secolo si reggeva a

repubblica”. (VALENTINI pag. 17) Forse fu proprio una ripercussione di queste

rivendicazioni autonomistiche e della loro crescente valenza, che spinse il vescovo

di Brescia Olderico nel 1038 a concedere a 160 vicini (della zona suburbana di

Brescia), liberi homines Brixiam habitantes ma nell’interesse di tutti i bresciani e dei

loro eredi, l’uso indisturbato dei monti Degno e Castenedolo per il pascolo, il taglio

della legna ed altri bisogni dei cittadini (vd. SDB pag. 569 e 1032). La natura

giuridica dello status di vicini è di origine teutonica: secondo la tradizione

germanica, infatti, la comunità dei vicini appare come una associazione necessaria

per l’uso dei “vicinalia” cioè delle terre pubbliche comuni” (ARNALDO pag. 100 e

101)

Questa scelta spinse il vescovo a stringere i rapporti con l’imperatore per risolvere

la contesa con i liberi homines, per evitare di perdere il suo potere contrattuale. Per

inciso questa giurisdizione vescovile sarà sancita anche dal potere imperiale:

nell’Archivio Storico Comunale di Brescia si conserva in copia “un diploma di

Corrado II datato 15 luglio 1037, con il quale viene concesso al vescovo Olderico il

districtus, cioè la giurisdizione distrettuale sulla città di Brescia ed il suo territorio

circostante per la profondità di cinque miglia: “monasteria, abbatias, curtes, plebes

vel scriptiones et precepta, nominatim montem de Castenedulo et montem Dignum

cum suo circuito in integrum, portas civitatis, tam intus quam foris in circuitu per

quinque millialorum spatia, ambas insuper ripas fluminem Olei videlicet et Melle, ab

eis sciliet locis ex quibus ipsa surgunt usque dum eadem fluvium intrant”. Con tale

atto, anche se gravato da alcuni dubbi di autenticità (vd. ARNALDO pagg. 93 e 94

per la discussione puntuale di questo aspetto), si diede inizio ad una vicenda storica

in cui le esigenze del Vescovo si mescolano e sovrappongono a quelle della

municipalità, in contrapposizione, ovviamente, al potere imperiale.

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Organizzazione della città e del territorio.

Sicuramente, come si evince dagli Statuti di Brescia, fin dal 1233 la città era divisa

in quattro quartieri: S.Giovanni, S.Faustino, S.Stefano, Castello sul Cidneo e

S.Alessandro. A questi quattro quartieri interni (che saranno in seguito detti

“Quadre”) corrispondevano le quadre esterne descritte già nello Statuto del XIII

secolo.

E’ possibile che questa organizzazione fosse ancora precedente, anche se non con

una divisione identica a quella sopra descritta; infatti nello statuto del 1293, nel

capitolo titolato De Usanciis, cioè sulle norme legali consuetudinarie, si dice che

sono a longo tempore promulgate, cioè di antica data. Una cerchia di terreno

circondava all’epoca la città di Brescia e da essa direttamente dipendeva: questi

terreni erano definiti “Chiusure” e erano controllati da custodi ad hoc, cosa che

accedeva, peraltro, anche per il Monte Maddalena. Ovviamente questa particolare

condizione era funzionale alla sicurezza e all’economia della città: i nobili che

governavano la città avevano grossi possedimenti anche nelle Chiusure e in questo

modo la città si garantiva la tranquillità, anche ricorrendo ad esenzioni fiscali e

donazioni straordinarie. Il Comune controllava inoltre direttamente acque, ponti,

strade e acquedotti delle Chiusure e le fosse intorno alla cerchia muraria del centro.

(VALENTINI pagg. 51 e 76) In questa suddivisione, due “quadre” si avvicinavano al

territorio di Nave, la quarta quadra delle Chiusure di S.Faustino che “da est andava

dalla strada di S.Donino fino al Garza e fino in Campagnola” (toponimo molto

diffuso, ma che potrebbe qui coincidere con Campagnola di Concesio), e la “quarta

quadra delle Chiusure di S.Stefano” che andava “a S.Maria Maddalena verso il

monte fino al Garza e fino a Lambarago e fino al Monte Denno”, che quindi arriva a

Nave dal territorio dell’attuale Mompiano. La quadra a cui apparteneva invece il

Monastero e il territorio di Conche era autonoma dalla città e aveva come comune

“capofila” proprio Nave; si estendeva da Caino a Concesio e di fatto era

sovrapponibile all’antica giurisdizione territoriale della Pieve della Mitria, da cui si

sarebbe staccata in tempi più recenti la Pieve di Concesio; in questo territorio era

compreso però anche il Comune di Lumezzane. Forse non è una casualità il fatto

che molti eremi siano sorti nella cerchia di cime che fanno da spartiacque tra i

comuni più importanti della Quadra: Concesio, Nave e Lumezzane (sugli eremi della

zona limitrofa a Conche si veda oltre, in questo volume il cap. ……).

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“La città (di Brescia), è risaputo, ebbe ab antiquo il suo territorio, il territorium

civitatis, che fu indicato con il nome di suburbio per la sua posizione sub urbe. Il

suburbio costituì un organismo in se stesso finito, separato dal contado e

comprendente le sue terre e i suoi beni comuni. Beni comuni che spettavano alla

città per un diritto di natura pubblica, perché la concessione è una limitazione che

l’autorità regia stabilisce ed impone all’esercizio normale e giuridico del proprio

potere, che non può esplicarsi che nel campo del diritto pubblico. (…) La messa a

coltura di una quantità di terre sempre maggiori dovuta all’aumento demografico,

particolarmente sensibile nell’ambiente urbano costrinse a lavorare le terre comuni

e talvolta anche quelle pubbliche, superando i confini della città e del suburbio.

Anche le sempre più numerose donazioni alla chiesa cittadina e ai monasteri di

oratori e cappelle, e quindi di terre per il loro sostentamento, furono i fattori che

estesero l’autorità della cattedrale, e quindi del vescovo su nuove terre, sulle quali

non mancò l’imposizione di una decima, che, per la situazione dei territori ai quali si

applicava, fu detta decima novalium”. (ARNALDO pagg. 94 e 95)

Mhp eccetera QUI!!!!!

In questo modo “veniva formandosi in Brescia quella volontà di autogoverno che è

premessa indispensabile della formazione degli istituti comunali” (SDB pag. 572) e,

contemporaneamente, dalla metà del Mille si assistette alla nascita di esigenze di

rinnovamento religioso, che pur essendo a volte abbastanza eterogenee vennero

generalmente raccolte sotto il nome di Pataria; il cui epicentro era MiIano e questo

non poteva essere un aspetto indifferente per le città lombarde, Brescia compresa.

Intanto l’ingerenza imperiale, che in genere si manifestava nella scelta di

personaggi di formazione culturale o lingua germanica per i ruoli di maggior

prestigio sociale e politico, aveva fatto eleggere ad abate di Leno, Richerio “sicuro

sostegno per la politica imperiale in Lombardia”. (…) Lo stesso che chiese poi

all’imperatore Enrico III conferma e protezione per i beni che aveva donati al

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monastero del Monte Ursino (1053). Durante il regno di Enrico III (…), i monasteri

bresciani godettero i favori del sovrano. I monasteri di Leno e di Monte Ursino, e il

cenobio femminile di S.Giulia ottennero privilegi e conferme da Enrico III, il quale

nella sua azione politica era portato ad appoggiarsi soprattutto ai monasteri, che egli

tendeva a rendere liberi – sotto l’alto patronato regio – da ogni soggezione verso

signori laici o anche (talvolta) ecclesiastici. Morto nel 1054 il vescovo Oderico I (…)

l’ingerenza imperiale ebbe modo di affermarsi ancora nettamente nella chiesa

bresciana. Con il vescovo Adelmanno (1055- 1061) le forze riformatrici bresciane si

legarono sempre più alla Sede Apostolica, determinando la violenta reazione degli

ambienti conservatori. L’applicazione dei decreti sinodali contro i chierici simoniaci e

concubinari (…) destò la reazione violenta di coloro che erano stati colpiti e (…) in

un tumulto il vescovo fu percosso e gravemente ferito. (…) L’episodio, irritando

l’opinione pubblica diede incremento al movimento patarinico non solo a Brescia,

ma ancor più a Cremona, a Piacenza, a Milano e in altre città, spingendo i fedeli

all’astenersi dal partecipare alle funzioni celebrate da chierici concubinari”. (SDB

pag. 1032 ). Verso la fine del 1086 e l’inizio dell’anno seguente Enrico IV fece

eleggere alla cattedra episcopale di Brescia un nuovo vescovo di sua fiducia,

Oberto soprannominato Baltrico, forse ancora un germanico. Ma questa volta gli

elementi riformatori locali (chierici e laici, soprattutto dei ceti popolari) sostenuti dalla

contessa Matilde che da Mantova dirigeva le fila del partito “gregoriano”, riuscirono

a eleggere un altro vescovo, fedele a Roma, Arimanno, originario della diocesi

bresciana (probabilmente di Gavardo, come dice il cronista Landolfo Iuniore (…)

che era stato eletto soltanto dal clero e dal popolo, senza intervento imperiale (SDB

pag. 1039 e FRUGONI pag. 5). Le molte iniziative che, in questi anni, si

manifestano e si attuano nella diocesi bresciana con un vivace spirito di

rinnovamento religioso avevano – in genere – carattere e origine monastici,

specialmente cluniacensi. Nel periodo più infuocato della lotta tra papato e impero

(verso la fine del 1100) a Brescia sulla parte riformatrice o patarinica, che si vedeva

rappresentata nella figura del pontefice Gregorio VII, prevalse quella scismatica

legata all’imperatore, come del resto successe anche a Milano. Il vescovo

“imperiale”, “Oberto Baldrico usurpò per un decennio la sede di Brescia a un

vescovo Arimanno, eletto canonicamente, cioè senza ingerenza imperiale a clero e

populo tantum, sebbene col conforto della contessa Matilde, alunna del papa

Alessandro II, uno dei più attivi promotori della pataria milanese (…). L’elezione da

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parte del popolo sarebbe in direzione di una forte opposizione antimperiale che

agiva, anche se con fatica” (SDB 578 e 580). Durante il vescovato di Oberto

Baldrico, il vescovo legittimo, Arimanno, fuori Brescia, non rimase inoperoso, ma

collaborò con la diplomazia papale in importanti missioni a Milano e in altri luoghi.

Quando poi fu riammesso alla sede vescovile, si dedicò alla riforma delle istituzioni

religiose bresciane e al restauro del Duomo vecchio, la sede vescovile”. Oltre alla

consacrazione della chiesa in Conche di Nave favorì la nascita del monastero di

S.Pietro in Oliveto (1095-1096) e quello di S.Giovanni de Fora (verso l’attuale Via

Milano, 1096-1100 circa). “Sostenuto dalla contessa Matilde, egli aveva un po’

ereditato la funzione di Anselmo II da Baggio come guida del partito «romano»

nell’Italia settentrionale, e come lui aveva ricevuto il titolo di vicario pontificio per la

Lombardia”. (…) La situazione di contrasto fra Oberto e Arimanno non era tuttavia

ancora risolta: “sebbene si fosse stabilito nel palazzo vescovile, Arimanno non era

riuscito ancora a spuntarla non solo nei riguardi del suo antagonista, ma

probabilmente (…) anche nei confronti del clero della cattedrale; e faceva ora

affidamento appunto sui canonici regolari di San Pietro in Oliveto per trionfare nella

lotta contro i simoniaci e gli scismatici”.

“Rispetto della giurisdizione pontificia, sostegno della riforma canonicale in senso

stretto con l’esercizio della povertà individuale da parte dei canonici, favore per lo

sviluppo del nuovo monachesimo riformato e per le esperienze anacoretiche e le

fondazioni di origine eremitica: sembrano queste le direttive della politica

riformatrice di Arimanno … e rivelano un ideale religioso centrato particolarmente

sulla vita claustrale intesa soprattutto come realizzazione del consiglio evangelico

della povertà. (…) E del pontefice Arimanno condivideva anche la politica tendente

a trovare ogni possibilità di conciliazione tra le forze e le esigenze dei riformatori e

quelle dei tradizionalisti e filoimperiali nelle diocesi dell’Italia centrosettentrionale.

Arimanno fu deposto nel 1116 (…) per una reazione di carattere municipalistico (da

parte dei milanesi …) e probabilmente anche di carattere antiromano. Ma era

soprattutto una opposizione contro la politica del papa, la quale appariva – al tempo

stesso – estremista sul piano spirituale e compromissoria su quello tattico e

istituzionale; opposizione diffusa nel sinodo lateranense del 6 marzo, sotto l’incubo

della discesa di Enrico V in Italia, per imporre a Pasquale II non solo la condanna

del privilegium redatto cinque anni avanti in riconoscimento dei diritti sovrani di

investitura, ma anche la scomunica dell’imperatore. Come Grosolano, Arimanno era

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vittima di un ben vasto movimento di opinione e schieramento di forze nell’ambito

della Chiesa. Forse, piuttosto che una condanna vera e propria il suo dovette

essere un ritiro forzato, determinato da varie pressioni dopo tanti e così travagliati

anni di episcopato”. (SDB pag. 1046)

Nel frattempo però il potere imperiale si impegnava a contrastare con fierezza il

rinato predominio vescovile: “Brescia dove esisteva una specie di condominio tra il

vescovo- signore e i liberi homines – vassalli, dovette passare momenti assai critici

nel 1111 quando, (…) parve che stessero per finire nel nulla tutte le infeudazioni

fatte a favore dei vescovi da parte di Carlo Magno in poi, e con esse tutte le

subinfeudazioni fatte dai vescovi a favore di terzi; e anche dopo la morte della

contessa Matilde (…) molti signori e alcuni comuni sbocciati all’ombra dell’autorità

dei vescovi” rimasero allo sbaraglio, “rimasti senza signore certo (…)” (SDB pag.

584) .

“Le forze riformatrici dovevano ormai arroccarsi nei monasteri (…), mentre dopo la

morte di Adelmanno, sulla cattedra episcopale si succedevano per circa un

trentennio vescovi imperiali e scismatici (…) con alterne fasi di questa lotta tra

presuli filo imperiali o filo vescovili (…). Un’importante bolla papale (di Gregorio VII e

datata 1078) per Leno riconosce (…) vari diritti senza fare alcuna menzione

dell’autorità regia o di quella vescovile, e quindi senza riconoscerne i superiori diritti

nei campi rispettivi (…): questo provvedimento si inquadrava molto bene nella

politica seguita dal pontefice in quegli anni di massima tensione nei riguardi del

sovrano e dell’episcopato lombardo, politica che faceva leva soprattutto sui centri

monastici e che tendeva a sviluppare e ad estendere le strutture politico-

amministrative ed ecclesiastiche basate sull’immunità e sull’esenzione” (SDB pagg.

1035-1038). A questa regola non sfuggirà nemmeno il monastero di Conche: per

decisione del suo fondatore, esso sarà posto direttamente sotto la tutela papale e a

nulla varranno i tentativi dei vescovi di Brescia (soprattutto nei primi periodi della

sua esistenza) per poterne ottenere il controllo e i frutti economici. In questo modo il

monastero fondato da S.Costanzo veniva equiparato ai più importanti monasteri

bresciani di formazione più o meno recente: S.Giulia, l’Abbazia di Leno e altri.

Questo clima, sebbene, come si è potuto capire dai rapidi cenni, particolarmente

turbolento, si era mantenuto su un livello di lotta abbastanza controllata, ma “dopo

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la salda e lunga alleanza fra i cittadini e il clero delle città di Brescia e Milano nella

guerra decennale contro Como, la discesa di Corrado di Svevia in Italia determinò –

a quanto pare – una grave frattura tra la chiesa bresciana e quella milanese.

Nell’estate 1132, il pontefice Innocenzo III, tornato dalla Francia,si fermò per circa

due mesi a Brescia (dal 26 luglio 1132 al primo settembre), dopo aver visitato altre

importanti città piemontesi e lombarde (…) al fine di ottenere il riconoscimento di

una regione che gli rimaneva ostile, soprattutto per l’ostinata opposizione di Milano.

Il Vescovo di Brescia, Villano, con ogni probabilità esponente degli ambienti cittadini

– laici ed ecclesiastici – nei quali era più vivo lo spirito municipalistico fu deposto a

causa della sua adesione allo scisma dell’obbedienza all’antipapa Anacleto. In

occasione di questa sua sosta in città, Innocenzo III fu prodigo di privilegi per i

monasteri bresciana di Santa Eufemia, San Faustino e Santa Giulia e per i cenobi di

Leno e di Monte Ursino: le bolle (…) mantenevano inalterati i rapporti giuridici fra il

vescovo e le fondazioni monastiche della sua diocesi”. (SDB pag. 1044) In questo

modo Innocenzo portò al potere il partito filo-imperiale sostenuto dal nuovo vescovo

Manfredi. In questi anni il conflitto tra il Vescovo e i monasteri raggiunse livelli molto

accessi, in particolare con quello di Leno: “lotta nella quale il vescovo Villano e il

Comune furono alleati nel perseguire quella politica di espansione nel contado in

contrapposizione con l’invadenza dei monasteri stessi, che negavano al vescovo la

giurisdizione spirituale con gli annessi vantaggi economici sulle chiese minori e

sulle pievi, mentre al Comune contrastavano il godimento dei diritti signorili su

castelli, corti e terre del contado”. (ARNALDO pag. 82)

La burrasca arnaldiana a Brescia e oltre.

Nel secolo XII, “in un tempo i cui si mutavano le strutture della società e la Chiesa

pareva sempre più irrigidita nelle sue istituzioni così simili a quelle che i nuovi ceti

combattevano, il Vangelo apparve a molti la nuova e vera Chiesa, ed essi se ne

sentirono spontaneamente sacerdoti: o desiderosi di affiancare in quel loro fervore

religioso la Chiesa tradizionale, nella certezza di esserne la milizia apostolica (…) o

sospinti verso l’eresia” (FRUGONI pag. 161)

“La predicazione di Arnaldo e la sua attività agitatoria contro il vescovo bresciano

Manfredi e l’alto clero a lui legato dovettero svolgersi in questi anni che ne

seguirono l’insediamento (secondo quarto del secolo XII). Nel Concilio ecumenico

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lateranense del 1139, il vescovo Manfredi e “viri religiosi” bresciani accusarono

Arnaldo, il quale fu deposto dalla carica abbaziale ed ebbe ordine di sospendere la

predicazione e di lasciare l’Italia. Gli anni che seguirono furono agitati in Brescia da

lotte e da violenze; (…) la città fu probabilmente uno dei centri del movimento

arnaldista che fu anche detto dei “poveri lombardi”, e certo era covo di eretici catari.

(…) L’intensa attività del pontefice a favore di chiese e monasteri, e della stessa

cattedrale, era la sanzione altissima di una vasta opera di restaurazione e di

espansione delle istituzioni ecclesiastiche, che il vescovo Manfredi condusse

sempre con grande zelo. (…) Indubbiamente la Chiesa bresciana attraversava un

periodo di ricostruzione e di riordinamento, con le inevitabili conseguenze di

irrigidimenti gerarchici e di aumento del fiscalismo: motivi che dovettero essere esca

alla rivolta arnaldista e forse a questi furono anche un po’ la reazione”. (SDB pag

1049)

Arnaldo (inizio sec. XII – 1155) era un monaco e la sua predicazione locale aveva

spinto alcuni gruppi a ribellarsi al clero, in particolare ove esso era di costumi non

integerrimi; accusato di essere un sedizioso, come accennato sopra, nella sua città

di Brescia, ripara a Parigi, presso il suo maestro, il celebre Abelardo. In seguito,

quando Abelardo si rifugiò a Cluny, Arnaldo rimane a Parigi, dove raccoglie una

cerchia di scolari. Ma considerato scismatico, si ottiene dal re “cattolicissimo” di

espellerlo dalla Francia, nella segreta speranza di ridurlo al silenzio in un qualsiasi

monastero. Dopo questa parentesi francese lo troviamo in Svizzera, a Zurigo. San

Bernardo, il principale accusatore di Arnaldo, “non lo presenta come il tipo del

tribuno popolare, tutto istinto e passione, trascinatore di folle, fanatizzante”, cioè la

sua immagine bresciana era ben diversa da quella della sua ultima esperienza

romana, ma inizialmente “l’aspetto di Arnaldo è quello innanzitutto di uno che chiede

moltissimo a se stesso. Uomo districte vite; animato quindi da un ideale ascetico, di

lotta contro ogni tentazione mondana per purificare nell’austerità rigorosa, nella

mortificazione della carne, se stesso e, degnamente, gli altri”. (FRUGONI pag. 24)

La sua dottrina lo avvicina certamente alle idee patariniche, che all’epoca erano

molto diffuse in Lombardia e in particolare a Milano (condanna dei ministri della

chiesa corrotti, negazione del potere carismatico dei sacerdoti indegni, rifiuto dei

sacramenti, confessione reciproca tra fedeli), ma la sua posizione volta al ritorno di

una pratica apostolica lo spingono verso una nuova Chiesa, “Chiesa dei figli di

Cristo che, pervasi da un soffio di sacerdotalità nuova, austeramente ricercano la

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perfezione e si spronano”. (FRUGONI pagg. 80 e 81) Da un punto di vista più laico

però, non si può non sottolineare che Arnaldo si era formato in una cultura legata “a

una tipica civiltà comunale, nella quale civiltà proprio la struttura feudale

ecclesiastica fu avversata dalle forze nuove cittadine”. (FRUGONI pag. 118). E’

proprio in questo clima, caratterizzato dalla tensione verso una religione più pura e

spirituale da un punto di vista dottrinale, ma altresì sganciata dai vari interessi di tipo

economico, che le idee riformatrici di Arnaldo e dei patarini si legano in maniera

stretta alle esigenze della nascente classe comunale e genereranno, come abbiamo

descritto nella parte iniziale di questo capitolo, conflittualità a vari livelli, con picchi

anche molto accesi. In un accenno del pregevole libro di Arsenio Frugoni (pag. 118)

si sottolinea come gli storici abbiano nel passato avvicinato alcuni caratteri

dell’esperienza di Arnaldo a quella degli Umiliati. Non sfuggirà ai lettori più attenti,

come si evidenzierà nei prossimi capitoli, che lo stesso Ordine avrà una parte

significativa nel periodo iniziale della vita del monastero di Conche e altrove sarà

anche molto vicino anche all’esperienza, poi condannata come eretica, dei “poveri

Lombardi”. E’ proprio nello stretto guado tra tensioni ereticali ed esigenze di riforma

ortodossa della chiesa, che le esperienze di nuovi ordini, anche laicali come gli

Umiliati, e le vite povere e devote di Costanzo e di Arnaldo lette in controluce l’una

rispetto all’altra, possono rivelare il vero spirito di un’epoca stretta tra esigenze

innovatrici e necessità di ordine e di controllo, sociale e religioso.

Nel 1148, nel pieno della burrasca arnaldiana e quando ormai la vita di Costanzo

volgeva al termine, il papa Eugenio III fu presente al Concilio di Cremona, e si fermò

a Brescia dal luglio al settembre. Da qui partì la lettera ammonitrice nei confronti

della rivoluzionaria predicazione di Arnaldo per il clero romano, ma con la

deposizione del vescovo di Brescia Villano, lo stretto rapporto tra il Vescovo e

Comune di Brescia doveva essersi rotto: ora il nuovo vescovo Manfredi si

presentava decisamente ligio alla Chiesa Romana, nella persona di un pontefice

che non si mostrava niente affatto disposto a fare concessioni all’orgoglio

municipale delle sedi vescovili. A Milano fu raggiunto un accordo tra la superstite ala

del movimento patarinico e i ceti dirigenti del primo Comune. Anche a Brescia,

forse, avvenne un simile connubio, in quanto gli elementi patarinici, delusi dal finale

insuccesso del loro esponente Arimanno, dovettero accordarsi con il ceto dirigente

comunale, irritato inoltre dalla deposizione di Villano e dalla nuova politica

filoromana di Manfredi (…)”. (SDB pagg. 1049 e 1050) Sono questi i tratti che

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condanneranno a livello locale e nazionale la dottrina di Arnaldo all’oblio e la sua

persona alla morte. “Un’esperienza religiosa dunque questa di Arnaldo e dei

Lombardi, fioriti, dal movimento evangelico, in una regione da tempo vibrante di

motivi antiecclesiastici e che aveva conosciuto realtà di riforme e vittorie dopo vera

lotta, una volontà religiosa che poteva sollecitare ceti che, contro le istituzioni feudali

ecclesiastiche, si impegnavano per loro istanze sociali e politiche. Onde la violenza

della negazione della Chiesa mondana, fissata dallo stesso ricordo del martirio del

maestro. Poi l’Arnaldismo scomparirà adagio adagio, come setta operante. Rimarrà

il nome, quasi per inerzia, nei documenti imperiali e pontifici di proscrizione della

eresia e in qualche trattato contro gli eretici”. (FRUGONI pag.168) Varie

vicissitudini, a tratti anche alterne accompagneranno anche la storia dell’eremo di

Conche che tuttora però si rivela, con un po’ di fatica fisica o mentale, a chi ancora

desidera ritrovare lo spirito di tempi così lontani e insieme così vicini alla nostra

complessa epoca moderna.

BIBLIOGRAFIA utilizzata:

Storia di Brescia, Treccani degli Alfieri, Banca S.Paolo di BS, 1961 (SDB)

A. Fappani, Conche e il suo santo, Nave, 1987 (FAPPANI)

A.Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Einaudi, Torino,1989

(FRUGONI)

G. Tabacco - G.G.Merlo, La civiltà europea nella storia mondiale, Medioevo, Il

Mulino, Bologna, 1981 (TABACCO-MERLO)

AA.VV., Arnaldo da Brescia e il suo tempo, Grafo, Brescia, 1991 (ARNALDO)

G.Valentini, Gli statuti di Brescia, Fratelli Visentini, Venezia, 1898

(VALENTINI)

E. Stefanoni, TESI DI LAUREA…….. (STEFANONI)

BIBLIOGRAFIA consultata, ma non utilizzata:

G. Vezzoli, Serle e la sua gente, Vannini, Brescia, 1979

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AA.VV., Economia e società rurale – Incontri di storia bresciana 3, Grafo, BS 1995

P.Guerrini, Il Monastero di S.Faustino Maggiore, in Memorie storiche II, Brescia

E. Barbieri-E. Cau (a cura di), Le carte del monastero di San Pietro in monte di Serle, Fondaz. Civiltà Bresciana, BS, 2000 e relativo sito internet