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IL RISORGIMENTO ITALIANO L'Italia e la questione nazionale Il Risorgimento Nella prima metà dell'800 prende avvio in Italia un processo di riscoperta e di sempre più decisa rivendicazione della propria identità nazionale. Questo processo, che avrebbe portato in pochi decenni alla conquista dell'indipendenza, fu definito dai contemporanei, e poi dagli storici, col nome di "Risorgimento": una definizione che ne sottolineava il carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto morale da una lunga condizione di servitù e di decadenza, di ritorno a un passato glorioso e a un'unità dalle antichissime origini. Per la verità l'Italia era stata unita politicamente solo ai tempi dell'Impero romano, ma all'interno di un'entità statale sovranazionale. In seguito, era sempre rimasta divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere (Francia, Spagna, Austria). La nazione italiana Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una nazione italiana, in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa e in qualche parte anche economica, esisteva almeno fin dall'età dei comuni. E l'idea di Italia come entità unitaria, dai confini geografici ben definiti, era sempre stata viva nel pensiero di molti autorevoli intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri. Alla fine del '700, in alcune componenti della cultura illuminista, questa consapevolezza si era fatta più viva e si era accentuata soprattutto all'interno delle correnti più radicali del movimento giacobino. Ma questi intenti erano rimasti soffocati dalla contraddizione tipica di tutto il giacobinismo italiano: quella di dover legare la realizzazione delle proprie idee alle sorti della potenza francese, alla politica nazionalista e assolutista di Napoleone. Ideali di libertà e questione nazionale Con la Restaurazione, per i patrioti italiani la scelta diventava più semplice: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva coincidere con quella per la liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non significava ancora battersi per l'indipendenza e per l'unità italiana. Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la

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IL RISORGIMENTO

ITALIANO

L'Italia e la questione nazionale

Il Risorgimento

Nella prima metà dell'800 prende avvio in Italia un

processo di riscoperta e di sempre più decisa

rivendicazione della propria identità nazionale. Questo

processo, che avrebbe portato in pochi decenni alla

conquista dell'indipendenza, fu definito dai

contemporanei, e poi dagli storici, col nome di

"Risorgimento": una definizione che ne sottolineava il

carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto morale

da una lunga condizione di servitù e di decadenza, di

ritorno a un passato glorioso e a un'unità dalle

antichissime origini.

Per la verità l'Italia era stata unita politicamente solo ai

tempi dell'Impero romano, ma all'interno di un'entità

statale sovranazionale. In seguito, era sempre rimasta

divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere

(Francia, Spagna, Austria).

La nazione italiana

Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una

nazione

italiana, in quanto comunità linguistica, culturale,

religiosa e in qualche parte anche economica, esisteva

almeno fin dall'età dei comuni. E l'idea di Italia come

entità unitaria, dai confini geografici ben definiti, era

sempre stata viva nel pensiero di molti autorevoli

intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri.

Alla fine del '700, in alcune componenti della cultura

illuminista, questa consapevolezza si era fatta più viva e si

era accentuata soprattutto all'interno delle correnti più

radicali del movimento giacobino. Ma questi intenti erano

rimasti soffocati dalla contraddizione tipica di tutto il

giacobinismo italiano: quella di dover legare la

realizzazione delle proprie idee alle sorti della potenza

francese, alla politica nazionalista e assolutista di

Napoleone.

Ideali di libertà e questione nazionale

Con la Restaurazione, per i patrioti italiani la scelta

diventava più semplice: la lotta per gli ideali liberali e

democratici poteva coincidere con quella per la

liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non

significava ancora battersi per l'indipendenza e per l'unità

italiana. Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la

questione nazionale fu infatti pressoché assente, o

comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine

costituzionale, alle spinte per un mutamento politico

all'interno dei singoli Stati.

I primi moti rivoluzionari

L'insurrezione nel Napoletano e in Sicilia

Nella prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa

all'inizio degli anni '20 furono coinvolti, come abbiamo

visto, il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna. Il

1° luglio 1820, infatti, pochi mesi dopo l'insurrezione

spagnola, la rivolta scoppiò a Nola, nel Napoletano, ed

ebbe subito l'adesione di numerosi alti ufficiali ex

murattiani, fra cui il generale Guglielmo Pepe. Il re

Ferdinando I fu costretto a concedere una Costituzione

simile a quella spagnola del 1812. Questa rivoluzione

seguì un corso analogo a quella di Spagna e si trovò ad

affrontare problemi molto simili: le divisioni fra

democratici e moderati; il comportamento ambiguo del re,

profondamente ostile alla Costituzione; la inevitabile

opposizione del governo austriaco a un esperimento che

sembrava minacciare l'intero assetto politico della

penisola.

A questi problemi si aggiunse la questione siciliana. Il 15

luglio, infatti, anche Palermo diede vita a una violenta

ribellione che, al contrario di quella del Napoletano,

registrò un'ampia partecipazione di popolo. Agli operai e

agli artigiani si unirono anche gli esponenti

dell'aristocrazia locale, delusi dalla politica accentratrice

della monarchia napoletana che aveva fatto perdere a

Palermo il rango di capitale, e la rivolta assunse subito un

chiaro carattere separatista. A queste velleità

indipendentiste dei palermitani il governo di Napoli reagì

inviando in Sicilia un corpo di spedizione e la rivolta

palermitana fu domata in pochi giorni, alla fine di ottobre.

In Piemonte e nel Lombardo-Veneto

Il successo della rivoluzione napoletana accese le

speranze dei liberali italiani, attivi soprattutto in Piemonte

e in Lombardia. Questi avevano l'obiettivo di una

costituzione e soprattutto della cacciata degli austriaci dal

Lombardo-Veneto per la formazione di un regno

costituzionale indipendente nell'Italia settentrionale. In

Lombardia ogni ipotesi insurrezionale fu però stroncata

dalla scoperta, nell'ottobre 1820, di un'organizzazione

carbonara e dal conseguente arresto dei suoi capi, Silvio

Pellico e Pietro Maroncelli, condannati poi a pesanti pene

detentive.

Dopo molte esitazioni dovute soprattutto ai contrasti fra i

democratici e i moderati, il moto scoppiò nel marzo 1821,

quando alcuni reparti dell'esercito si ammutinarono,

costringendo il re Vittorio Emanuele I ad abdicare in

favore del fratello Carlo Felice. Dato che il nuovo re si

trovava lontano dal regno, la reggenza fu affidata al

nipote Carlo Alberto, che aveva manifestato qualche

simpatia per la causa liberale. Carlo Alberto si impegnò

dapprima a concedere una costituzione simile a quella

spagnola ma poi, sconfessato e richiamato all'ordine da

Carlo Felice, si unì alle truppe lealiste che, all'inizio di

aprile, con l'aiuto di contingenti austriaci, sconfissero a

Novara i rivoluzionari guidati dal conte Santorre di

Santarosa.

La repressione militare

La fine dell'esperienza liberale piemontese si inquadrava

nella generale sconfitta delle correnti costituzionali e

patriottiche, delineatasi già alla fine del marzo 1821 con

la conclusione della rivoluzione napoletana. Era stato il

cancelliere austriaco Metternich a decidere un intervento

armato: l'Austria, infatti, egemone nella penisola, aveva

imposto una serie di legami militari e politici anche al

Regno delle Due Sicilie. Così gli austriaci entrarono a

Napoli e restaurarono il potere assoluto di Ferdinando I,

che mise in atto una dura repressione contro i protagonisti

della rivoluzione. Anche in Piemonte la fine del moto

costituzionale fu seguita da una serie di condanne contro i

militari ribelli e da un massiccio esodo all'estero di

patrioti.

Le rivolte del 1831

Anche la seconda fase delle insurrezioni italiane fini

rapidamente con la repressione militare ad opera degli

austriaci e con la condanna dei principali promotori.

Questa volta la cospirazione prese avvio nel Ducato di

Modena dove lo stesso duca Francesco IV sembrava

appoggiare i cospiratori: il duca sperava infatti di

profittare di un eventuale sommovimento politico per

diventare sovrano di un Regno dell'Italia centro-

settentrionale. Per questo entrò in contatto con alcuni

esponenti delle società segrete, fra cui Ciro Menotti,

imprenditore e industriale, che lavorò per allargare allo

Stato pontificio e alla Toscana la trama di una

cospirazione destinata a porre le premesse per un'Italia

unita sotto una monarchia costituzionale. Francesco IV

non era però l'uomo più adatto per realizzare progetti di

questo genere. Quando si rese conto che l'Austria si

sarebbe opposta con le armi a qualsiasi mutamento

politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di

cospirazione e fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi

della congiura riuniti in casa di Menotti.

La rivolta tuttavia si era ormai estesa a Bologna e a tutti i

centri principali delle Legazioni pontificie, ossia la

Romagna con Pesaro e Urbino, oltre alle attuali province

di Bologna e Ferrara (territori amministrati dai

rappresentanti del pontefice, i «cardinali legati»): dalle

Legazioni il moto dilagò nel Ducato di Parma e in quello

di Modena.

Tentativi unitari e repressione

Rispetto ai moti del '20-21, le insurrezioni dell'Italia

centro-settentrionale del '31 presentarono alcuni caratteri

di novità.

Questa volta a muoversi non furono tanto i militari,

quanto i ceti borghesi appoggiati dall'aristocrazia liberale

e sostenuti in qualche caso da una non trascurabile

mobilitazione popolare, soprattutto nelle Legazioni, dove

molto forte e diffuso era lo scontento nei confronti del

malgoverno pontificio. Sia a Bologna sia nei Ducati,

questa mobilitazione fu sufficiente per aver ragione di un

potere debole e poco preparato a una repressione militare.

Nonostante i tentativi di dare alla rivolta un carattere

unitario, le persistenti divisioni municipali e il contrasto

tra democratici e moderati indebolirono le iniziative

insurrezionali. L'ipotesi di un intervento della Francia

orleanista in favore dei ribelli si rivelò un'illusione,

mentre l'esercito austriaco sconfisse a Rimini le forze

degli insorti (marzo 1831).

Il ritorno al vecchio ordine fu accompagnato

dall'inevitabile repressione. Ciro Menotti fu condannato a

morte e impiccato. Anche gli insorti emiliani e romagnoli

furono condannati a lunghissime pene detentive, quando

non riuscirono a riparare all'estero per ingrossare le file

dell'ormai numerosa emigrazione politica italiana.

Immobilismo politico e arretratezza

economica degli Stati italiani

I quasi due decenni successivi ai moti insurrezionali

furono caratterizzati ovunque da un ritorno a forme di

assolutismo autoritario, non solo in Piemonte o nello Stato

della Chiesa, ma anche nella più illuminata Toscana.

L'economia e le infrastrutture

Qualche novità si registrò invece nel settore economico

che, nonostante una tendenza alla crescita produttiva,

continuava comunque a essere caratterizzato da una

condizione di notevole arretratezza rispetto alle zone più

progredite d'Europa. Il settore agricolo, infatti, restava per

lo più legato alle tecniche e ai sistemi di conduzione

tradizionali: solo in alcune zone della Lombardia e, in

minor misura, del Piemonte si erano realizzati progressi

consistenti nella cerealicoltura e nell'allevamento.

L'industria, poi, era rimasta sostanzialmente estranea alla

tecnologia delle macchine: il settore tessile, in particolare,

si fondava ancora sulla manifattura tradizionale e sul

lavoro a domicilio.

Anche le ferrovie ebbero un inizio assai lento e ritardato:

solo nel corso degli anni '40 la costruzione di strade

ferrate assunse un carattere sistematico, limitatamente al

Piemonte, al Lombardo-Veneto e alla Toscana. Questo

avvio delle costruzioni ferroviarie fu comunque uno degli

elementi che contribuirono a dare nuovo slancio

all'economia degli Stati italiani. Altri fattori furono i

progressi del sistema bancario (soprattutto in Toscana e in

Piemonte), lo sviluppo dei porti e della marina mercantile,

il generale incremento del commercio internazionale che

ebbe ricadute positive anche sull'Italia.

La mancanza di un mercato nazionale

Si trattava, nel complesso, di progressi limitati, non tali da

permettere agli Stati italiani di ridurre il ritardo che

stavano accumulando nei confronti dell'Europa in via di

industrializzazione.

Ma furono sufficienti a far riflettere la parte più avvertita

dell'opinione pubblica sui danni derivanti all'economia

dalla mancanza di un mercato nazionale e di un efficiente

sistema di comunicazioni: venne così riproposto il

progetto di una unione doganale italiana da realizzare sul

modello dello Zollverein tedesco e divennero argomenti

centrali di discussione il confronto con gli altri paesi

europei e la necessità di elaborare un nuovo e più

razionale assetto politico di tutta la penisola.

Il progetto mazziniano

Una nuova strategia

L'esito negativo delle insurrezioni nell'Italia centro-

settentrionale segnò la crisi irreversibile della Carboneria

e, più in generale, mise in evidenza i limiti della strategia

che aveva fin allora guidato le rivoluzioni italiane: la

necessità di affidarsi all'appoggio di sovrani rivelatisi poi

inaffidabili; la segretezza delle trame settarie che

ostacolava una più ampia partecipazione; e soprattutto

l'assenza di una direzione unitaria, capace di agire in una

prospettiva autenticamente nazionale. Progetti unitari e

repubblicani si erano affacciati negli ambienti

dell'emigrazione italiana già nel decennio 1820-30, ma

solo all'inizio degli anni '30 l'ideale dell'unità italiana da

conseguirsi attraverso un'autentica lotta di popolo si

diffuse fra i patrioti di orientamento democratico e si

tradusse in concreto programma d'azione, grazie

soprattutto all'opera di Giuseppe Mazzini.

Il giovane Mazzini

Mazzini era nato a Genova nel 1805 da una famiglia della

borghesia medio-alta. Si era accostato fin dagli anni

giovanili alle idee democratiche e patriottiche e aveva

aderito alla Carboneria. Arrestato nel 1830, era stato

costretto a emigrare a Marsiglia. Nell'esilio francese,

Mazzini entrò in contatto con i maggiori esponenti

dell'emigrazione democratica, in particolare con

Buonarroti, ma subì anche l'influenza di molte fra le voci

più importanti della cultura politica dell'epoca, da

Lamennais ai sansimoniani. Venne così prendendo corpo,

fin dai primi anni '30, una concezione politica in cui

all'originaria ispirazione democratica si univa una forte

componente mistico-religiosa.

Una religione politica

Quella di Mazzini era una religiosità tipicamente

romantica, dove Dio si identificava con lo spirito insito

nella storia e, in ultima analisi, con la stessa umanità. La

fede nella libertà e nel progresso umano doveva dunque

essere vissuta come una fede religiosa. La rivendicazione

dei diritti degli individui e delle nazioni non poteva essere

separata dalla consapevolezza dei doveri dell'uomo e dalla

coscienza di una missione spettante ai popoli quali

strumenti di un disegno divino: di qui la celebre formula

mazziniana «Dio e popolo». Nemico dell'individualismo

settecentesco, Mazzini credeva invece fermamente nel

principio di associazione. Al di sopra dell'individuo c'era

la famiglia, al di sopra della famiglia la nazione, al di

sopra di tutto l'umanità. Così come gli individui, anche le

nazioni dovevano associarsi per cooperare al bene

comune.

L'idea di nazione e la missione dell'Italia

L'idea di nazione aveva, nel pensiero di Mazzini, un posto

fondamentale. La nazione – intesa come entità culturale e

spirituale, prima ancora che naturale e geografica – era la

cellula fondamentale attraverso cui si sarebbe realizzato il

sogno di un'umanità libera e affratellata. All'Italia, in

particolare, spettava il compito di porsi alla testa delle

nazioni oppresse, di abbattere i fondamenti principali del

vecchio ordine – l'Impero asburgico e lo Stato della

Chiesa – e di farsi iniziatrice di un generale movimento di

emancipazione. Se la Roma dei Cesari aveva unificato

politicamente l'Europa, se la Roma dei papi l'aveva

assoggettata a un'unica autorità religiosa, la Terza Roma

sarebbe stata il centro di una nuova e più alta unità morale

e sociale di tutti i popoli della terra. Come si può notare

c'era molto di utopistico (e anche di velleitario) in queste

posizioni.

La questione sociale

Nelle idee di Mazzini non c'era posto né per le teorie

materialistiche (fondate sull'idea che la realtà derivi

unicamente dalla materia e che dunque non possa

spiegarsi con l'intervento divino) né per le tematiche

legate alla lotta di classe (il contrasto permanente fra bor-

ghesia e proletariato, secondo Marx ed Engels). Mazzini

non ignorava certo i problemi sociali ed era favorevole a

riforme anche audaci (tra cui la divisione tra i contadini

delle terre incolte), ma difendeva il diritto di proprietà

come base dell'ordine sociale, considerando pericolosa

qualsiasi teoria che tendesse a dividere la collettività

nazionale e a incrinare l'unità spirituale del popolo. Per lui

anche la questione sociale si sarebbe dovuta risolvere

attraverso il principio di associazione: lui stesso, infatti, si

impegnò nella promozione di cooperative e società di

mutuo soccorso fra gli operai.

Indipendenza, unità, repubblica

Se queste formulazioni ideologiche potevano apparire

poco concrete, il programma politico era invece di

un'estrema chiarezza. L'Italia doveva rendersi

indipendente e darsi una forma di governo unitaria e

repubblicana. Erede della tradizione giacobina, Mazzini

non ammetteva alcun compromesso con il principio

monarchico e rifiutava ogni soluzione di tipo

federalistico, pur prevedendo ampie autonomie per i

comuni. La via per giungere all'unità e all'indipendenza

era solo una: l'insurrezione di popolo, di tutto il popolo

senza distinzioni di classe.

La Giovine Italia

Lo strumento per realizzare l'insurrezione di popolo era

una nuova organizzazione che, anziché nascondere agli

affiliati i suoi scopi ultimi, li rendesse subito evidenti e

propagandasse apertamente i suoi principi fondamentali

svolgendo così, accanto all'azione cospirativa, un'opera di

continua educazione politica. La nuova organizzazione

nacque a Marsiglia, nell'estate del '31, si chiamò Giovine

Italia, adottò la bandiera tricolore – bianca, rossa e verde

– e riunì attorno a Mazzini numerosi emigrati politici

dell'ultima generazione e molti giovani democratici che

operavano in Italia.

I tentativi insurrezionali

Convinti della necessità di un legame strettissimo tra

«pensiero e azione» (la famosa formula mazziniana),

Mazzini e i suoi seguaci non aspettarono il maturare di

condizioni internazionali favorevoli per mettere in atto i

loro progetti e organizzarono, negli anni '30-40, una

serie di tentativi insurrezionali in Italia.

Nell'aprile del 1833 fu scoperta una congiura in Piemonte,

dove la Giovine Italia aveva numerosi seguaci tra le file

dell'esercito: vi furono decine di arresti e 12 fucilati,

mentre oltre 200 patrioti furono costretti a fuggire

all'estero. Nel febbraio 1834, invece, fu bloccato sul

nascere un progetto rivoluzionario basato su una

spedizione di un corpo di volontari che sarebbe dovuto

penetrare in Savoia dalla Svizzera e su una

contemporanea insurrezione da organizzare a Genova. In

questo piano ebbe una parte attiva anche Giuseppe

Garibaldi, allora venticinquenne marinaio di Nizza che,

sfuggito miracolosamente alla cattura e condannato a

morte in contumacia, dovette riparare in Sud America.

La crisi della Giovine Italia e i dubbi di Mazzini

L'esito fallimentare della spedizione in Savoia rappresentò

un duro colpo per il prestigio di Mazzini e per l'attività

della Giovine Italia. Privato, nel giro di pochi mesi, di

molti dei suoi

migliori collaboratori, Mazzini dovette affrontare in questi

anni una vera e propria crisi di coscienza e notevoli

difficoltà personali (espulso prima dalla Francia e poi

dalla Svizzera, si trasferì a Londra). La «tempesta del

dubbio» (così la chiamò Mazzini stesso) fu in breve

superata. Come i grandi rivoluzionari di ogni tempo,

Mazzini era convinto che la «santità» della causa per cui

lottava giustificasse anche i sacrifici più dolorosi.

Nell'aprile del '34, poco dopo il fallimento della

spedizione in Savoia, aveva dato vita, assieme a esuli di

altre nazionalità, alla Giovine Europa: un'iniziativa che

aveva però un valore soprattutto simbolico e che ebbe

scarsi effetti sul piano operativo.

La spedizione dei fratelli Bandiera

Nella prima metà degli anni '40 ci furono altri tentativi di

insurrezione. Nel 1843 e nel 1845 furono soffocati due

moti nelle Legazioni pontificie. Nel giugno-luglio 1844,

invece, falli una spedizione in Calabria organizzata da due

giovani veneziani, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera,

ufficiali della marina austriaca aderenti alla Giovine Italia,

che avevano sperato di far sollevare i contadini contro il

governo borbonico: la popolazione locale rimase

indifferente e i due fratelli vennero catturati e fucilati

insieme con altri sei compagni.

In realtà, né i moti nelle Legazioni né la spedizione dei

Bandiera erano stati organizzati da Mazzini, che anzi

aveva espresso un parere negativo sulla opportunità di

queste iniziative. Ma il ripetersi di episodi insurrezionali

ispirati dai repubblicani e immancabilmente destinati al

fallimento contribuì ad alimentare le critiche nei confronti

dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle

polemiche dei moderati contro le strategie rivoluzionarie.

Moderati, cattolici e federalisti

I moderati e il cattolicesimo liberale

Negli anni '40, il dibattito politico italiano si ampliò e si

arricchì di nuove voci. La principale novità fu l'emergere

di un orientamento moderato, che si differenziava

nettamente sia dal conservatorismo tradizionale e

legittimista sia, ovviamente, dal radicalismo repubblicano

di Mazzini. Per il problema italiano i moderati miravano a

soluzioni gradualistiche, tali da non comportare l'uso della

violenza e lo scontro con le autorità costituite. La base

principale del pensiero moderato stava nel tentativo di

conciliare la causa liberale e patriottica con la religione

cattolica – considerata il più importante fattore di unità

della nazione italiana – e con la Chiesa di Roma.

Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli

anni della Restaurazione e aveva i suoi esponenti più

illustri in Alessandro Manzoni e nel filosofo Antonio

Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, nel

solco dell'ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe

erano quegli intellettuali toscani – come Gino Capponi e

Bettino Ricasoli – che si erano formati attorno

all'«Antologia» di Vieusseux. La condanna papale del

1832 del cattolicesimo liberale, per quanto fosse rivolta

soprattutto contro il gruppo francese dell'«Avenir», si

ripercosse anche sul movimento italiano, limitandone gli

spunti più apertamente riformatori. Ma non impedì al

pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie:

come i romanzi, per lo più di ambiente medievale, di

Cesare Cantù; o come le opere storiche del piemontese

Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e del

papato nella storia nazionale e ne esaltavano il ruolo di

difensori delle «libertà d'Italia». Definiti "neoguelfi", con

un termine tratto dalla storia medievale, suscitarono, per

reazione, la nascita dei "neoghibellini", tra cui emerse uno

scrittore toscano di orientamento repubblicano e

anticlericale come Francesco Domenico Guerrazzi.

Gioberti

Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior

popolarità dopo il 1843, con la pubblicazione del Primato

morale e civile degli italiani, un libro dell'abate torinese

Vincenzo Gioberti. Riprendendo da Mazzini il concetto di

una speciale «missione» spettante al popolo italiano,

Gioberti ne capovolse il significato, identificando questa

missione col ruolo della Chiesa. Il "primato" era quello

che veniva all'Italia dall'essere sede del papato e

dall'averne condiviso nel corso dei secoli la missione di

civiltà. Gioberti era convinto che, per tornare alle glorie

passate, l'Italia avesse bisogno di ampie riforme politiche

e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo

scopo non fosse necessario puntare all'unità politica: la

soluzione da lui proposta era una confederazione fra gli

Stati italiani, fondata sull'autorità superiore del papa (che

ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del

Regno di Sardegna.

Era un'ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana,

anche perché puntava su un'evoluzione liberale e

nazionale della Chiesa al momento inimmaginabile. Ma

presentava all'opinione pubblica moderata un progetto che

non prevedeva rivoluzioni, si accordava con il sentimento

cattolico dominante e soddisfaceva al tempo stesso gli

ideali patriottici, poiché rivendicava all'Italia un «primato

morale e civile» fra le nazioni europee.

Balbo e d'Azeglio

L'opera di Gioberti apri un intenso dibattito politico e fu

seguita da una serie di altre proposte che ne

riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi

fondamentali. Nel 1844 usci Le speranze d'Italia di

Cesare Balbo, che auspicava anch'esso la formazione di

una lega – doganale e militare – fra gli Stati italiani. A

differenza di Gioberti, però, Balbo si poneva il problema

della presenza dell'Austria, principale ostacolo per

qualsiasi ipotesi indipendentista, e proponeva di risolvere

la questione con mezzi diplomatici, assecondando la

tendenza dell'Impero asburgico a spostare il centro dei

suoi interessi verso l'Europa centro-orientale.

Un altro esponente del liberalismo moderato piemontese,

Massimo d'Azeglio, prendendo spunto dal fallimento dei

moti del '45 nelle Legazioni pontificie, espresse in un

opuscolo uscito all'inizio del 1846, Gli ultimi casi di

Romagna, una dura critica sia del malgoverno pontificio

sia delle iniziative insurrezionali, giudicate inutili e

persino dannose per la causa nazionale. In alternativa,

indicava la via delle riforme graduali, senza escludere, in

prospettiva, una soluzione militare affidata alle armi del

Regno sabaudo.

Il federalismo di Carlo Cattaneo

La scelta a favore delle riforme e la tendenza alle

soluzioni federalistiche non erano patrimonio esclusivo

dei moderati. Negli stessi anni in cui il neoguelfismo

conosceva i suoi maggiori successi e i moderati

piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo

al ruolo di guida del Risorgimento nazionale, una corrente

federalista, democratica e repubblicana si sviluppava in

Lombardia.

Principale esponente di questa tendenza era il milanese

Carlo Cattaneo, direttore dal '39 al '45 della rivista «Il

Politecnico», erede della tradizione di pragmatismo e di

riformismo tipica della cultura illuminista dei Verri e di

Beccaria. Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi,

orientati soprattutto verso il campo economico e sociale.

Da una parte la sua formazione laica e illuminista lo

portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini,

dall'altra la profonda avversione che nutriva per il

dominio austriaco non gli impediva di considerare con

ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-

Veneto da parte di un Piemonte assolutista e clericale. La

via da lui indicata per la soluzione del problema italiano

non si discostava nella sostanza da quella dei moderati, in

quanto puntava sulle riforme politiche e sullo sviluppo

economico all'interno dei singoli Stati, con particolare

insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di

comunicazione e dell'istruzione pubblica. Ma molto

diverso era l'obiettivo finale, che consisteva in una

confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti

o della Svizzera, che lasciasse ampi spazi di autonomia a

tutte le istanze della vita locale e fosse la premessa per la

costituzione degli Stati Uniti d'Europa.

Un altro esponente del federalismo repubblicano fu

Giuseppe Ferrari. Milanese, emigrato a Parigi alla fine

degli anni '30, Ferrari criticò sia il moderatismo cattolico

dei neoguelfi sia il nazionalismo unitario dei mazziniani,

sostenendo la necessità di inserire la soluzione del caso

italiano nel quadro di una rivoluzione europea che

avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia. Nell'esilio

parigino Ferrari si accostò anche alle teorie socialiste

(soprattutto quelle di Proudhon) e fu tra i primi a

collegare strettamente la questione nazionale ai temi della

questione sociale.

Pio IX e il movimento per le riforme

Le riforme di Pio IX

Tra il 1846 e il 1847 l'opinione pubblica italiana visse un

periodo di intensa mobilitazione e di febbrile attesa di

grandi mutamenti. L'evento decisivo fu l'elezione, nel

giugno 1846, di papa Pio IX, l'arcivescovo di Imola

Giovanni Maria Mastai Ferretti (sul soglio pontificio fino

al 1878). li nuovo papa era noto soprattutto come un

pastore di anime, dalla religiosità sincera e profonda.

Aveva un tratto umano bonario che lo aveva reso popolare

nella sua diocesi, ma non sembrava avere una personalità

politica molto spiccata, né gli si riconoscevano simpatie

liberali.

I primi atti del suo pontificato — in particolare la

concessione di un'ampia amnistia per i detenuti politici —

suscitarono però un vero e proprio entusiasmo. Liberali e

moderati di tutta Italia credettero di aver trovato in Pio IX

il loro eroe, l'uomo capace di dar corpo al programma

neoguelfo. Anche da parte democratica vennero al nuovo

papa aperture e riconoscimenti.

Le piazze delle principali città italiane si riempirono di

manifestazioni inneggianti al pontefice. Questo clima di

entusiasmo finì per coinvolgere lo stesso Pio IX e

spingerlo a una serie di concessioni che probabilmente

non rientravano nei suoi programmi iniziali. Nella

primavera-estate del '47, fu convocata una Consulta di

Stato, formata da rappresentanti delle province scelti

dall'autorità centrale, venne istituita una Guardia civica e

fu attenuata la censura sulla stampa. Questi

provvedimenti, tutt'altro che rivoluzionari, ebbero un

effetto superiore al loro valore reale, dando ulteriore

stimolo alla mobilitazione per le riforme e alla

propaganda patriottica in tutti gli Stati italiani e nello

stesso Lombardo-Veneto.

Negli altri Stati italiani

Fra l'estate e l'autunno del '47, il movimento per le

riforme dilagò in tutta Italia, accompagnato da una

mobilitazione popolare a sfondo sociale, legata alle

conseguenze della crisi economica europea che, in questo

periodo, fece salire anche in Italia i prezzi dei generi

alimentari. Sovrani e governanti — preoccupati dal

rischio di una svolta democratica — furono indotti a

prudenti concessioni. In ottobre, Carlo Alberto varò un

nuovo ordinamento amministrativo, che rendeva elettivi i

consigli comunali e provinciali, e allentò i controlli sulla

stampa. In novembre, Piemonte, Toscana e Stato della

Chiesa sottoscrissero gli accordi preliminari per una Lega

doganale italiana. Estraneo al progetto di Lega — e a tutto

il moto riformatore — rimase il Regno delle Due Sicilie,

che godeva dell'appoggio dell'Austria ma doveva fare i

conti con la crescente ostilità dell'opinione pubblica

nazionale e internazionale. Proprio nel Regno borbonico

sarebbe iniziata l'ondata insurrezionale che avrebbe

coinvolto l'Italia intera, nel più ampio quadro delle

rivoluzioni europee del 1848.

Il '48 italiano.

La guerra contro l'Austria

L'inizio delle sollevazioni

In Italia la rivoluzione del '48 ebbe, nella sua fase iniziale,

uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei.

Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano

percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale

obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la

concessione di costituzioni o statuti fondati sul sistema

rappresentativo. Fu la sollevazione di Palermo del 12

gennaio 1848 (legata soprattutto alle rivendicazioni

autonomistiche dei siciliani) a determinare il primo

successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di

Borbone — il più retrogrado di tutti i regnanti della

penisola — ad annunciare la concessione di una

Costituzione nel Regno delle Due Sicilie. La mossa

inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere

l'autonomismo siciliano ed ebbe inoltre l'effetto di

rafforzare la mobilitazione per le costituzioni in tutta

Italia.

Le costituzioni

Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle

continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di

Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio

IX decisero di concedere la Costituzione. Annunciate —

salvo quella di Pio IX — prima dello scoppio della

rivoluzione di febbraio in Francia, le costituzioni del '48

avevano tutte un carattere moderato ed erano ispirate al

modello di quella francese del 1830.

La più importante di tutte, lo Statuto albertino,

promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, sarebbe poi

diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia,

rimasta in vigore per un secolo fino alla costituzione

repubblicana del 1° gennaio 1948. Prevedeva una Camera

dei deputati — le cui modalità di elezione, definite da

apposita legge, legavano il diritto di voto a un censo

piuttosto elevato —, un Senato nominato dal re e una

stretta dipendenza del governo dal sovrano.

Una soluzione costituzionale-moderata si andava dunque

delineando nei maggiori Stati italiani, quando lo scoppio

della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico

giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo

spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo

piano la questione nazionale, fin allora rimasta in ombra.

Le rivolte di Venezia e Milano

Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di

Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A

Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare

aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei

detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici,

l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta

degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi

marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in

larga parte da veneti) costringeva i reparti austriaci a

capitolare. Il 23 marzo un governo provvisorio presieduto

da Manin proclamava la Costituzione della Repubblica

veneta.

A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto

al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le

celebri «cinque giornate» milanesi. Borghesi e popolani

combatterono, fianco a fianco, sulle barricate contro i

soldati austriaci del maresciallo Joseph Radetzky. Ma

furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il

peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400

vittime. La direzione delle operazioni fu assunta da un

consiglio di guerra composto prevalentemente da

democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli

esponenti dell'aristocrazia liberale finirono, dopo molte

esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e

formarono, il 22 marzo, un governo provvisorio. Il giorno

stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un

intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe

all'interno del cosiddetto quadrilatero, l'area definita dal

perimetro delle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e

Peschiera.

La prima guerra di indipendenza

Il 23 marzo, all'indomani della cacciata degli austriaci da

Venezia e da Milano, il Piemonte dichiarava guerra

all'Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo

Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei

liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi

dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli

austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia dei

Savoia ad ampliare verso est i confini del Regno; infine il

timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di

propaganda repubblicana.

Anche in questo caso, com'era avvenuto per la

concessione degli statuti, l'esempio di un sovrano finì col

condizionare le decisioni degli altri. Preoccupati dal

diffondersi dell'agitazione democratica e patriottica che

minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di

Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX decisero di unirsi

alla guerra antiaustriaca e inviarono truppe regolari che

partirono, in un'atmosfera di grande entusiasmo popolare,

affiancate da numerosi contingenti di volontari. La guerra

piemontese si trasformava così nella prima guerra di

indipendenza nazionale, benedetta dal papa e combattuta

da tutte le forze patriottiche.

La crisi dell'alleanza e la sconfitta

Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa

risolutezza nel condurre le operazioni militari e si

preoccupò soprattutto di preparare l'annessione del

Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l'irritazione dei

democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco

entusiasti della partecipazione al conflitto.

Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX,

che si trovava in guerra contro una grande potenza

cattolica.

Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe.

Pochi giorni dopo lo imitava il granduca di Toscana. A

metà maggio Ferdinando di Borbone richiamò il suo

esercito. Rimasero a combattere contro l'Austria,

disobbedendo agli ordini dei sovrani, molti fra i

componenti dei corpi di spedizione regolari. Rimasero i

volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che

furono protagonisti, in maggio, di un glorioso scontro a

Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America

Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del

governo provvisorio lombardo. Ma il contributo dei

volontari fu poco e male utilizzato da Carlo Alberto,

deciso a combattere la «sua guerra» e a non lasciare

spazio all'azione dei democratici.

Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi,

l'iniziativa tornò nelle mani dell'esercito asburgico. Il 23-

25 luglio, nella prima grande battaglia campale che si

combatté a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo

Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il

Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci.

La sconfitta dei democratici

Gli obiettivi dei democratici

Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro gli

austriaci restavano solo i democratici italiani e ungheresi.

Mentre in Ungheria lo scontro assunse il carattere di una

vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti

democratici dovettero combattere una serie di battaglie

locali – a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia –

geograficamente divisi e senza poter dare alla loro lotta

una dimensione autenticamente popolare. L'ideale di una

guerra di popolo che unisse la prospettiva della

liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica

e sociale contrastava con la ristrettezza della loro base

sociale formata dalla piccola e media borghesia urbana,

soprattutto quella intellettuale, e dai ceti artigiani delle

città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza

della popolazione italiana, rimasero invece estranee, e

spesso apertamente ostili alle loro battaglie.

La fase democratica della rivoluzione italiana

Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia

rimaneva incerta. La Sicilia era sotto il controllo dei

separatisti, che si erano dati un proprio governo e una

propria costituzione democratica. A Venezia, in mano

degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin

aveva nuovamente proclamato la Repubblica. In Toscana,

alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione

popolare a formare un ministero democratico, capeggiato

da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico

Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi.

A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del

primo ministro pontificio, il liberale moderato Pellegrino

Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a

rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borbone. Nella

capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i

gruppi democratici. Nel gennaio del 1849, in tutti i

territori dell'ex Stato della Chiesa, si tennero le elezioni a

suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli

eletti, in maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini

e Garibaldi. A febbraio l'Assemblea proclamò la

decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo

Stato avrebbe assunto «il nome glorioso di Repubblica

romana», avrebbe adottato come forma di governo «la

democrazia pura» e avrebbe stabilito col resto d'Italia «le

relazioni che esige la nazionalità comune», in vista

dell'unità nazionale, da realizzare su basi democratiche e

non dinastiche.

Gli sviluppi della situazione nello Stato della Chiesa

ebbero immediate ripercussioni in Toscana. A febbraio il

granduca Leopoldo II abbandonò il paese e venne

convocata un'Assemblea costituente: i poteri, intanto,

passarono a un triumvirato composto da Montanelli,

Guerrazzi e Mazzini.

La sconfitta di Novara e la restaurazione

dell'ordine

Anche in Piemonte i democratici ripresero l'iniziativa. Il

20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato tra la pressione

di questi ultimi e l'intransigenza degli austriaci che

ponevano condizioni molto pesanti per la firma della

pace, decise di entrare di nuovo in guerra. Ma le truppe di

Radetzky, penetrate in territorio piemontese, affrontarono

l'esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e

gli inflissero una gravissima sconfitta. La stessa sera del

23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le

sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio

Emanuele II. Il giorno dopo, il nuovo re firmò un nuovo

armistizio con gli austriaci. Una rivolta democratica

scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito.

Sconfitto il Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora

procedere alla restaurazione dell'ordine in tutta la

penisola. Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu

schiacciata dopo durissimi combattimenti, le «dieci

giornate» di Brescia. In aprile, le truppe imperiali

strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito

eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per

fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre

Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare

la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle

Legazioni pontificie e contemporaneamente posero fine

all'esperienza della Repubblica toscana.

La resistenza della Repubblica romana

Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica

romana, dove erano affluiti esuli e patrioti da tutta Italia:

da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al

genovese Mameli (che scrisse l'inno Fratelli d'Italia), al

napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi

delle «cinque giornate». Fin dai suoi primi atti, il governo

repubblicano romano, sotto la guida di Mazzini, si

qualificò per l'energia con cui cercò di portare

avanti l'opera di laicizzazione dello Stato e di

rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali

ecclesiastici e venne decretata la confisca dei beni del

clero. Fu varato – caso unico nella storia delle rivoluzioni

italiane dell'800 – un progetto di riforma agraria che

prevedeva la concessione in affitto perpetuo alle famiglie

più povere di parte delle terre confiscate al clero.

Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era

rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei

suoi territori. A questo appello avevano risposto non solo

l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la

Repubblica francese, ormai dominata dalle forze

cattoliche e conservatrici.

La fine degli esperimenti democratici

Il presidente Bonaparte si riservò il ruolo principale nella

restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di

spedizione che all'inizio di giugno attaccò la capitale. I

repubblicani – che avevano affidato i pieni poteri a un

triumvirato composto da Mazzini, Saffi e dal romano

Carlo Armellini – organizzarono una difesa efficace ma

destinata inevitabilmente a soccombere. Il 4 luglio, subito

prima della capitolazione, fu promulgata la Costituzione

della Repubblica romana che, sebbene rimasta come pura

enunciazione, divenne il documento-simbolo degli ideali

democratici e un modello alternativo rispetto alle

costituzioni liberali e moderate. Mentre i francesi

entravano a Roma, Garibaldi lasciò la città con qualche

centinaio di volontari, nel tentativo di raggiungere

Venezia. Ma il 26 agosto gli austriaci, dopo aver soffocato

la rivolta in Ungheria riuscirono a spegnere anche la

resistenza della città veneta.

Si concludeva così, con la duplice sconfitta sia dell'ipotesi

liberali e moderata, sia di quella democratica, la stagione

rivoluzionaria del 1848-49.

Il patriottismo risorgimentale

Chi erano i patrioti

Le insurrezioni, le lotte rivoluzionarie e la guerra contro

l'Austria avevano visto all'opera, accanto agli eserciti

regolari, un numero sempre maggiore di patrioti disposti a

mettere in gioco la propria vita nella lotta per

l'indipendenza dallo straniero e insieme per la nascita di

nuovi organismi politici.

Per gran parte giovani o nella prima età matura si erano

formati, i più anziani, nelle organizzazioni segrete, eredi

del giacobinismo, salvo trovare motivi di aggregazione

comune nelle nuove ideologie politiche sia sul fronte

moderato neoguelfo o liberale, sia, soprattutto i più

giovani, nell'adesione al mazzinianesimo.

Queste adesioni e queste militanze erano sostenute da un

discorso patriottico nazionale che si era venuto costruendo

non solo sul terreno ideologico e politico, ma anche

avvalendosi, e talora prevalentemente, di elementi

letterari, musicali e delle arti figurative.

Le memorie di Silvio Pellico, I sepolcri di Foscolo, le

poesie di Giovanni Berchet, le opere musicali o singoli

brani di Giuseppe Verdi, alcuni quadri di Francesco

Hayez costituivano un repertorio collettivo di parole,

suoni e immagini in grado di diffondere il messaggio

nazionale. In particolare il melodramma, ascoltato e

riproposto in chiave patriottica, forniva un terreno

comune ad ampi strati sociali, dalla nobiltà ai ceti

popolari urbani, come principale mezzo di

comunicazione, veicolo degli ideali risorgimentali e di

formazione politica e civile.

La nascita di una tradizione

Privo di riferimenti consolidati a un comune passato

nazionale, se non a quello "inventato" della continuità con

l'antica Roma o con l'Italia dei comuni, il patriottismo

italiano riprendeva singoli episodi di rivalsa contro lo

straniero dove si era manifestato vincente l'orgoglio

ferito degli italiani: la battaglia di Legnano (tra i comuni

italiani e l'imperatore Federico Barbarossa, 1176), i

Vespri siciliani (la rivolta scoppiata a Palermo contro gli

Angiò che determinò la cacciata dei francesi dall'isola,

1282), la disfida di Barletta (il duello tra cavalieri italiani

e francesi in terra di Puglia, 1503). Si veniva costruendo

nel suo farsi, proprio lungo il filo degli avvenimenti, una

tradizione patriottica con i suoi martiri da celebrare — i

fratelli Bandiera, i volontari di Curtatone e Montanara,

i caduti nella difesa della Repubblica romana — e da

portare come esempio. Una tradizione che esaltava gli

elementi di fratellanza e di valore guerresco — come nelle

esplicite strofe dell'inno Fratelli d'Italia di Goffredo

Mameli (1827-1849) — per rovesciare l'immagine diffusa

in Europa, lo stereotipo degli italiani «che non sanno

battersi».

Una tradizione che aveva dei riferimenti obbligati in

alcune figure carismatiche: Mazzini e in seguito

soprattutto Garibaldi.