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Il regolo imperfetto caRmine maRi Intrighi e alchimie alla Scuola Medica Salernitana THRILLER STORICO

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Il regolo imperfetto

carmine mari

Intrighi e alchimie alla Scuola Medica Salernitana

THRILLER STORICO

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© carmine mari 2015

© atmosphere libri 2015Via Seneca 6600136 roma

[email protected]

redazione a cura de il menabò (www.ilmenabo.it)

i edizione nella collana Biblioteca del giallo giugno 2015

iSBn 978-88-6564-145-3

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NOTE STORICHE

Salerno, ai tempi de Il regolo imperfetto, contava una popolazione dicirca diecimila abitanti, ed era già famosa per la sua Scuola di Me-dicina e i medici. Già nell’epoca romana la città era rinomata per leterme e il suo clima salubre, meta di patrizi che vi si recavano percure e riposo.

Le origini della Scuola si perdono nel tempo, ma una leggendanarra che quattro sapienti, Salernus, un latino, Pontus, un greco,Adela, un arabo e Helinus, un ebreo, si fossero dati convegno e aves-sero fondato la scuola, fondendo in un crogiuolo culturale le loroesperienze.

In effetti a Salerno nell’alto medievo, VII-VIII sec., era nutrita lacomunità di medici che esercitava la loro arte in modo empirico, magrazie a Costantino l’africano vennero introdotti Galeno e Ippocratee la teoria umorale, che rimase in auge fino alle soglie dell’epoca con-temporanea.

Tra il IX e l’XI sec. la scuola conobbe una vera fioritura di nomi euna vasta produzione scientifica; Alfano, Cofone, la famosa medi-chessa Trotula de Ruggero, Matteo Plateario solo per citarne alcunie naturalmente Rogerius de Fugaldis, medico chirurgo.

Solo più tardi, a partire dal XIII sec., la scuola ebbe finalmente lasua istituzionalizzazione. Le costituzioni “melfitane” del 1231 di Fe-derico II di Svevia diedero una rigorosa organizzazione didattica,oltre che a conferire alla scuola il privilegio esclusivo di rilasciare i di-plomi all’esercizio dell’arte medica; furono previste pene severissimeper i ciarlatani e i medici che facevano “società” con farmacisti: un co-dice deontologico all’avanguardia per quei tempi, e non solo. Fu inol-tre definito il curriculum formativo dello studente, lo stesso riportatonel romanzo, con tanto di tesi, dibattito finale e tirocinio annualepresso un dottore accreditato. A capo vi era un priore o praeses, e unorgano collegiale composto dagli insegnanti. Il medico che avevaconseguito il titolo era chiamato magistrer, mentre chi non era abi-litato all’insegnamento era appellato con il termine medicus. Inveceil dottore in scienza medica o phisica doveva essere colui che, pur di-plomato presso la scuola, non era ancora abilitato all’esercizio dellaprofessione.

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PERSONAGGI PRINCIPALI

Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano ImperoRogerius di Giovanni, studente di medicinaPandolfo l’Amalfitano, aromataro e zio di RogeriusRomualdo Guarna, praeses della scuola di medicinaRebecca Guarna, figlia del RomualdoGemma Guarna, seconda moglie di RomualdoUgo da Marcina, magister e medicoArnaldo degli arsenali, capo dei barcaioli e appaltatore dell’arsenaleHermann Von Salza, Gran Maestro dell’Ordine dei teutoniRaimondo di Puglia, cavaliere e stratigotoNicolò di Matteo, erboristaGuido Alamanno, cavaliere teutone e capitano della guardiaGiovanni Da Procida, magister e medicoVittore da Capua, arcidiacono e inquisitore apostolicoGiacomo di Exeter, chierico vaganteOrbofino, tagliagole di Arnaldo degli arsenaliFra’ Matteo, ex frate e socio in affari di Arnaldo degli arsenaliUnto, il vero nome è Rinaldo da Messina, nipote di ArnaldoTicone del fornaro, tagliagole di Arnaldo degli arsenaliMarciano Lamaguzza, tagliagole di Arnaldo degli arsenaliAdelghisa, madre di RogeriusIoanna, moglie di Raimondo di PugliaMercuriade del Campo, studentessa e amica di Rebecca GuarnaGrammazio, rilegatore di codici e conciatore di pergameneAltruda, moglie di GrammazioGuarniero, cerusico di Von SalzaRotaringer, cavaliere teutone di Von SalzaBluchard, cavaliere teutone di Von SalzaUlrico il “porta spada”, cavaliere teutone di Von SalzaLudolf, teutone esploratore di Von SalzaEccardo di Turingia, cavaliere teutone al servizio di Guido AlamannoCorrado “senza collo”, cavaliere teutone al servizio di Guido AlamannoMartino Capograsso, protoiudex e capo della curia cittadina

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PROLOGO

San Giovanni d’Acri, 1235

Da giorni non metteva il naso fuori dall’ospedale.Scrocchiò le dita indolenzite, distese le braccia sopra la testa e si

stropicciò gli occhi arrossati per la stanchezza. Mancava da ricopiaresolo un foglio dell’ultimo capitolo. Pietro si accertò che l’inchiostrofosse asciutto prima di riporre le pergamene nella sacca posta ai suoipiedi.

Maestro Giovanni era stato perentorio durante il pasto di mezzodì,rivolgendosi agli altri due studenti che partecipavano alla spedizione:«Ritiratevi nelle vostre celle prima che cali il sole, perché domani al-l’alba dovrete essere pronti a partire. Non intendo rimanere un giornoin più». E quando era rimasto da solo con lui gli aveva confidato en-tusiasta, sottovoce: «Devo tradurre ancora poche pagine, ma possogià dirti che avevamo conoscenze limitate circa la preparazione deifarmaci. Ho scoperto in questo libro che vi è un processo che rendeil medicamento cento, mille volte più potente, con una forza incre-dibile. Questo farà della nostra scuola la più importante della cri-stianità».

Pertanto si era impegnato molto affinché quei fogli potessero essereperfettamente leggibili e gli schizzi precisi e accurati. Il solo pensierodi tornare a casa aveva riacceso in lui la nostalgia e la voglia di riab-bracciare i suoi cari.

Il viaggio era stato lungo e faticoso. Maestro Giovanni aveva guidato la piccola compagnia attraverso

ospedali e biblioteche del nuovo regno d’oltremare di Federico, incerca dei codici di Charaka, un testo indiano scampato per miracoloall’incendio della biblioteca di Bisanzio nella primavera del 1204 eche, si diceva, fosse finito in Terrasanta. Si erano presi cura dei pel-legrini ammalati, avevano visitato lebbrosari, piccoli ospizi, ma diquel libro nessuna traccia.

Un giorno, nella città di Ascalona, Giovanni aveva dato dimo-strazione della sua maestria di chirurgo ridando la vista a un nobile

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siriano affetto da cataratta. Salim, il medico dell’ospedale, era rima-sto sbalordito e in segno di riconoscenza gli aveva donato un’am-polla. «Fanne buon uso, è la medicina più potente che io conosca, lasua forza viene da una bacca. Non so come venga preparata, ma so diun medico che ne conosce il segreto» gli aveva spiegato.

Ed era stato così che, con la missiva di presentazione di Salim, Gio-vanni e i suoi studenti erano partiti per Acri in cerca di Bashir. Lotrovarono in un ospedale nel quartiere del porto, non molto distantedal molo dove erano sbarcati al loro arrivo. Avevano vagato per tuttala Terrasanta fino a tornare al punto di partenza.

Bashir era molto anziano, ma ancora in forze. Aveva scrutato i vi-sitatori uno a uno e, dopo aver letto la lettera di Salim, aveva invitatoGiovanni e Pietro a seguirlo al piano superiore, dove si trovava loscriptorium.

Da un armadio incassato nel muro aveva tirato fuori un libro dallacopertina blu e lo aveva consegnato al magister: «Questa è la miatraduzione del codice. Potrai leggere molte cose interessanti, degliunguenti e dei veleni, degli impiastri per la pelle e del potere dellabacca».

Pietro aveva visto gli occhi del suo maestro accendersi di gioia ecommozione davanti al libro, e quando Giovanni aveva sfogliato leultime pagine si era soffermato a leggere a voce alta:

La saggezza e la salvezza dell ’uomoderivano dal tempo e dal suo trascorrere.Sapiente è colui che dalle rughe e dai segni del Cieloridona alito e linfa vitale.Nitrium nell ’acqua di chiara fonte, la goccia del sanguinis dragonis seguir l ’altra deve.Delle cristalline essenze vedrai l ’impronte,camminar sul fondo, simile alla neve.

Cominciava a imbrunire. Dalla strada venivano le grida dei mari-nai appena sbarcati e il calpestio dei cavalli. La voce del muezzin tra-sportata dal vento si levava da qualche minareto poco lontano,mentre Pietro finiva di copiare l’ultima pagina della traduzione.

In attesa che l’inchiostro si asciugasse completamente, Pietro si-stemò i calami e i raschietti. Poi l’occhio cadde sul disegno che avevaappena realizzato: una clessidra, divisa in due, senza strozzatura, ma

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dotata di un tubicino di raccordo fra le due parti. Non aveva ancoracompreso il suo funzionamento e pensò si trattasse di una macchina.

Con le gambe intorpidite si diresse alla finestra che si apriva a me-ridione sul porto. Respirò la brezza salmastra e la sua mente indu-giava sul disegno misterioso. Nonostante anelasse a sapere comefunzionava quel marchingegno, si arrese alla fame. Il maestro avevaordinato agli studenti di aiutare il vecchio Bashir prima di fare i ba-gagli, ma già nel pomeriggio i due si erano dileguati come gatti nelbuio.

Discese allora al piano di sotto, deciso a soddisfare il suo appetito.L’infirmarium non era grande, aveva dieci giacigli e quella sera

c’erano solo cinque ospiti: un’anziana donna febbricitante, uno stor-pio e una famiglia di pellegrini, marito, moglie e il loro figlioletto diotto anni che, raccolti da una carovana dopo essersi persi nel de-serto, riposavano nei giacigli riparati da teli di lino.

Tutto era predisposto per la notte, le brocche d’acqua, i pitali aipiedi dei letti per gli infermi e la grande lanterna appesa al soffittofaceva già luce. Pietro si aspettava di incontrare qualche infermiere,ma sbirciando nel cubiculum oltre la tenda vide solo il vecchio Ba-shir che sonnecchiava sulla sedia.

Si diresse alla cucina, che si trovava di fronte all’infermeria. Su unvassoio trovò dei cosciotti di agnello allo zenzero ancora caldi, e unostufato brodoso di verdure con prezzemolo e grossi spicchi d’aglio.Lo stomaco gli brontolò alla vista della carne, ne afferrò un pezzo ecominciò a mangiarlo. Masticando un boccone si aggirò tra le cre-denze in cerca di qualcosa da bere. Si accorse così che la porta chedava accesso al giardino sul retro era socchiusa. Un fatto insolito, per-ché Bashir conservava le chiavi e non permetteva a nessuno di uscirein giardino in sua assenza. Pietro si voltò e il vecchio era sempre lì chedormiva. Non resistette alla tentazione di dare uno sguardo a quel-l’angolo ancora sconosciuto dell’ospedale.

Non appena varcò la porta, il vento trasportò un’inebriante misceladi odori e sensazioni. L’aria profumava di lavanda e di fiori di pescoappena sbocciati. Pietro avanzò sul viottolo che divideva il giardino.A ridosso del muro di fango rossiccio crescevano un melograno, duespogli aranci, tre limoni carichi di frutti, un pesco e un grosso fico ilcui tronco era venuto su appoggiandosi ad un muro di pietra.

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Il giardino era grande circa la metà dell’ospedale. Vi erano piante digiusquiamo, ruta, calendula, siepi di aneto, lavanda e un ampio lembodi terra era coperto da foglie di mandragola. Lì si trovava anche lapianta che l’ospedale somministrava sotto forma di infuso agli am-malati, per placare dolori e febbri. Nell’angolo esposto a sud si in-contravano dei salici, i cui rami sfioravano il terreno. In alcuni puntidel tronco, dove la corteccia era strappata, si intravedeva uno stratodi terracotta indurito dal sole, come a voler rimarginare quelle ferite.

Si avvicinò a una siepe di rose, oltre la quale notò un arbusto altoquanto la gamba di un uomo. Riconobbe lo stelo dritto e le piccolefoglie dalla forma tondeggiante, e subito gli venne alla mente l’im-magine riprodotta sul codice. Perché Bashir aveva tenuto segreta l’esi-stenza di quella pianta? Si chinò e sfiorò con le dita i piccoli frutti,raggruppati in grappoli. Erano duri al tatto e alla luce del crepuscolole sfere apparivano di colore bruno. Si rese conto di avere davanti labacca che il magister cercava da anni.

Se avesse preso una piantina non se ne sarebbe accorto nessuno,pensò.

Rifletté sul da farsi, doveva agire in fretta e gli venne un’idea. Rien-trò in cucina, prese da una credenza un piccolo sacco di iuta e uncucchiaio di legno e si mise in cerca di qualcosa per legare il fagotto.Pensò che una benda potesse fare al caso suo. Scostò la tenda e sbir-ciò nella grande sala dell’ospedale.

Bashir era sempre al suo posto, sembrava dormire profondamentecome tutti gli altri ospiti e nell’infirmarium regnava un profondo si-lenzio. Trovò infine una benda nell’armadio dove erano conservate lespezie e le erbe per confezionare i farmaci.

Dopo aver sbarrato la porta con il chiavistello ritornò di fretta nelgiardino, dirigendosi alla siepe. Il cielo appariva limpido e la luce erasufficiente al suo scopo. Pietro iniziò a scavare attorno allo stelo dellapianta e si fermò solo quando il cucchiaio arrivò alle radici. Disteselo straccio sul terreno e prese due manciate di terra fresca. Con de-licatezza estrasse la piantina e la depose al centro del cencio. Dovevanascondere il sacco e portarlo nello scriptorium senza farsi sorpren-dere da Bashir.

Si sentì emozionato come uno scolaretto mentre richiudeva il tutto,quando d’un tratto udì un cigolìo provenire dalla cucina. Si accovac-

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ciò dietro la siepe e trattenne il respiro. Se Bashir lo avesse scoperto,quale sarebbe stata la reazione? Giovanni non era uomo da lasciarcorrere, era un maestro severo e intransigente. Per un attimo Pietrotemette di dover dire addio al suo futuro di medico.

Stava per alzarsi per affrontare Bashir e ammettere la sua colpaquando avvertì un colpo sordo alla testa e un dolore lancinante lotrafisse. Poi un velo scuro gli calò sugli occhi.

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PARTE I

Padova, monastero di Santa Giustina. Inverno 1239

L’imperatore sedeva davanti al focolare, adagiato sul morbido cu-scino, dono dell’abate Arnoldo. Sulle gambe reggeva un libro aperto,un bestiario finemente miniato che il bibliotecario dell’abbazia avevafatto copiare da un raro manoscritto. Federico osservava assorto ilfuoco che crepitava vivace, sprigionando scintille che si perdevanonel buio della cappa. Avrebbe voluto trovarsi nella sua calda Palermopiuttosto che in quella pianura grigia e nebbiosa, dove la luce del solesvaniva appena dopo l’alba, inghiottita da una coltre lattiginosa.

Legato a una catena, un cucciolo di ghepardo, acciambellato ai piedidi una colonna, era intento a leccarsi la zampa maculata e di tanto intanto emetteva un miagolio spalancando le fauci e mostrando le te-mibili zanne. Il suo falco prediletto era appollaiato sul trespolo, conil cappuccio sulla testa.

«Il Gran Maestro è arrivato» riferì un servo con un inchino.«Bene» rispose Federico.Attendeva il fidato consigliere Von Salza fin dalle prime luci del

giorno, sperando che portasse liete notizie. Ne aveva un gran bisogno,in quei primi giorni dell’anno. Quello vecchio si era chiuso con eventisfavorevoli che ne presagivano altri ancor più funesti. Gli inutili ten-tativi di portare a termine la vittoria di Cortenuova erano falliti, imilanesi resistevano con tenacia e le città alleate, Bologna, Brescia,Alessandria e altri piccoli comuni, incoraggiati dal Papa, rappresen-tavano ancora una minaccia al suo esercito e al suo potere.

«È giunto coi cavalieri?» domandò Federico con una punta di ansia,stringendosi ai braccioli della sedia.

«Sì, mio signore, si sono accampati nei pressi della torre campana-ria, un magnifico spettacolo!» rispose l’altro, contento di allietarel’animo dell’imperatore.

Federico sospirò. L’esercito si era logorato durante il lungo assedio alla città di

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Brescia, risoltosi in un nulla di fatto. A niente erano servite le nuovemacchine d’assedio contro i bastioni e le torri. Il tempo inclementeaveva ridotto il campo ad un acquitrino fangoso, un’insana palude.Molti cavalieri si erano ammalati a causa di un’epidemia, le fila eranodecimate.

I rinforzi dunque erano arrivati, tuttavia Federico sperava in qual-cosa in più dal Gran Maestro, il pezzo migliore da muovere quandole forze erano in stallo e la battaglia diventava incerta. Il tempo strin-geva e giocava contro di lui, ma era la salute del suo consigliere a pre-occupalo.

Proprio in quel momento Hermann Von Salza comparve nel capi-tolo scortato dai tre imponenti cavalieri. L’imperatore gli andò in-contro. Von Salza era come un padre, si era preso cura di lui fin dagiovinetto, rimanendo sempre al suo fianco. Era stato l’artefice delsuo trionfo in Terrasanta e ambasciatore accorto presso tutte le corti.

Federico salutò il Gran Maestro dei teutoni con un lungo abbrac-cio.

«Sono contento di averti qui» esordì.«Non potevo mancare» rispose Von Salza. Congedò la sua scorta e

si liberò del mantello. «Come stai?» gli chiese Federico stringendogli la mano.«Ancora in piedi, come vedi, nonostante gli acciacchi». Von Salza

aveva passato i sessantatré anni e i tratti del volto, incorniciati dallafolta barba, rivelavano i segni di una recente sofferenza.

Federico lo fece accomodare al caldo, nei pressi del camino. Il ca-pitolo dell’abbazia era diventato la sala del trono, addobbato conarazzi, tappeti e candelieri d’argento. Federico quella sera aveva or-dinato alla corte di ritirarsi e di lasciarlo solo, licenziando anzitempoun noioso ambasciatore e una delegazione di principi tedeschi.

Lo Svevo non perse tempo e illustrò subito la situazione militare ei suoi risvolti politici, sciorinando una serie di invettive contro i ne-mici. Raccontò delle nuove alleanze che aveva stipulato e degli ultimiintrighi. Proprio quella mattina aveva fatto impiccare due ribelli che,spacciandosi per contadini, si erano infiltrati nel campo. Poi passò adescrivere le condizioni del suo esercito.

«La neve costringe i soldati all’ozio, dando fondo alle scorte. Speronon duri, giacché con i tuoi aiuti posso contare su una forza d’urto

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di duemila cavalieri».«Bisogna porre fine ai combattimenti, Federico» disse il Gran Mae-

stro con fermezza. «Sei troppo esposto e non potrai reggere a lungoquesta posizione, anche con i teutoni al tuo fianco. Genova e Vene-zia hanno stretto un accordo contro di te e il papa romperà presto gliindugi».

Von Salza si fermò a riprendere fiato. «Se verrai colpito da anatemaperderai in fretta il sostegno delle città che ti hanno giurato fedeltà.Cremona, Verona, Mantova ti volteranno le spalle molto presto. Saraistretto in una morsa da forze soverchianti, per questo è importanteche io incontri il Papa al più presto, prima che il cerchio sia chiuso».

Federico si alzò rimuginando sulle considerazioni del Gran Mae-stro, che ancora una volta aveva intuito ed esposto con lucidità i pe-ricoli della situazione. Inoltre demolì in un solo colpo l’idea dellaneutralità di Gregorio: il papa stava tramando la sua tela nell’ombra.

«Le tue condizioni di salute non te lo consentono. Ho saputo dellatua malattia, da quanto tempo ne soffri?»

«Un mese» rispose il teutone facendo un gesto con la mano «non ri-cordo con esattezza, ma due giorni or sono la febbre mi ha tenuto aletto. Il medico dell’Ordine mi ha sconsigliato di mettermi in viag-gio, perché a suo giudizio la febbre ricomparirà presto. Ma sia fattala volontà di Dio».

«Non potevi capitare peggio, allora, circondato da neve e nebbia»commentò Federico dimenticando per un momento la politica e laguerra. D’un tratto divenne pensoso e il suo umore cambiò, e presea passeggiare tra le colonne della sala capitolare.

«Non puoi restare qui» esclamò. «Sei troppo importante per le sortidel regno. Ti ordino di recarti a Salerno non appena il tempo mi-gliorerà, e solo dopo andrai dal papa».

Von Salza non prendeva ordini da Federico, ma l’imperatore vo-leva solo essere premuroso, sollevandolo da obblighi e impegni. IlGran Maestro sapeva di non essere nelle migliori condizioni per af-frontare il papa. Tra gli avversari molti erano i nemici che desidera-vano vederlo bruciare su una pira, a partire dai templari, ai qualiFederico aveva confiscato beni e commende per affidarli proprio aiteutoni. Altri lo consideravano più semplicemente un nemico dellachiesa, avendo schierato i suoi cavalieri dalla parte di Federico nella

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disputa contro le città del nord Italia. Il sovrano aveva ragione, do-veva rimettersi in salute prima di ogni cosa.

«Sì, ammetto di aver bisogno di un buon dottore. Il mio cerusico faquello che può».

«Bene. Anche se quella città non è tra le migliori» disse Federico,ripensando con dolore alla prigionia della madre Costanza d’Alta-villa, nel Castel Terracena. «La sua scuola ha medici di valore. L’ariae il clima mite agevoleranno la tua guarigione. Informerò il mio stra-tigoto affinché predisponga ogni cosa per il tuo arrivo. Tutta la scuoladeve essere coinvolta, nessun magister escluso. So come renderli so-lerti. Farò partire i subito i messaggeri, giusto il tempo di salutarci.Ti recherai a Salerno e ti farò ospitare nel monastero di San Gior-gio, così sarai circondato dalle mie suore» concluse con una risata.

Il giorno dopo, nel cuore della notte, due cavalieri dell’Ordine ga-loppavano veloci verso sud.

Salerno, marzo 1239

Sembrava avesse appena chiuso gli occhi quando sentì bussare allaporta.

Mise i piedi fuori dal letto, si avvolse nella veste e si diresse a piedinudi verso la traballante scala di legno che portava al piano di sotto.Anche se aveva la mente intorpidita dal sonno, il primo pensieroandò allo zio Pandolfo, l’uomo che lo aveva allevato come un figlio.Lo speziale si era forse sentito male? Un incidente nella bottega? Unladro forse, o più semplicemente una banda di ragazzacci che si di-vertiva a spaventare la gente in piena notte?

«Se è uno scherzo vi riempio di legnate!» urlò. Rogerius abitava da sei mesi in un catodeo che si affacciava su una

silenziosa e recondita platea alle spalle della ruga dei vasai, nel quar-tiere occidentale della città, chiamato Locus Veterensium, a pochipassi da Santa Trofimena e dall’ospedale di San Giovanni.

La casa aveva una cucina al pianterreno e una comoda stanza daletto al piano di sopra. La cantina scavata nella roccia somigliava alfrigidarium di un bagno romano tanto era fredda, e per questo il vec-chio proprietario, Boiano delle galline, ne aveva fatto un magazzino

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per stagionare pezzi di lardo, carne, polli ai quali tirava il collo luistesso, oltre a conservarvi sacchi di piume che rivendeva a chi im-bottiva cuscini e guanciali.

«Chi è?» chiese appoggiando l’orecchio all’uscio e preparandosi amenar ceffoni.

Il giovane aveva trascorso gran parte della notte nel frigidarium aripassare gli appunti e, sfinito, si era addormentato sullo scrittoio. In-tirizzito dal freddo era risalito in camera da letto e si era catapultatosul pagliericcio.

«Sono Mattia» disse una voce dall’altra parte «il servo di maestroPellegrino».

Rogerius rimase un istante interdetto. Maestro Pellegrino era unmagister della scuola di medicina che da qualche mese non si vedevain giro e non teneva più alcuna lezione. Correva voce che fosse al-lettato per un malanno che lo consumava giorno dopo giorno, manessuno sapeva con esattezza di cosa soffrisse e quale fosse la causache lo aveva costretto, in modo così rapido, a ritirarsi dalla vita sco-lastica. Stranamente il vecchio maestro si ostinava a tenere fuori dacasa sua qualunque medico si offrisse di dargli il proprio aiuto.

«Il padrone vuole parlarvi con urgenza, ma bisogna sbrigarsi, èmolto grave» disse il ragazzo.

«Perché mai?» chiese Rogerius immaginando che Pellegrino nonlo chiamava di certo per farsi curare da lui.

«Non lo so» rispose il servo «il padrone è debole e parla a fatica,ma ha insistito perché venissi a chiamarvi».

Fuori ogni cosa era avvolta dalla luce opalescente dell’aurora chefiltrava attraverso un cielo grigio, velato di nubi. L’aria era fredda e ilrespiro si condensava in una nuvola di vapore. In giro non c’era animaviva, tranne un cane randagio che sonnecchiava sotto il portico dellabottega dei cesti di donna Ginestra.

A passo svelto percorsero la ruga ferrariorum e Rogerius faticava astare dietro al giovane che, svelto di gambe, saltellava come un grilloda una pozza all’altra.

Il fabbro, come sua abitudine, era già seduto sull’uscio della bot-tega e mangiava un pezzo di pane. «Occhio alla merda!» disse, ri-dendo come se stesse assistendo alla scena più divertente al mondo.

Era quella un’ora poco adatta per addentrarsi nel dedalo di angusti

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vicoli, di palazzi addossati e di balconi a strapiombo sulle vie. I duecamminavano tenendo un occhio sulla strada e uno alle finestre, ra-sentando i bordi delle platee e degli slarghi, pronti a cogliere ogniimprovviso movimento di scudi e di battenti: piscio e altre cose im-monde potevano venir giù sulle loro teste come un improvviso ac-quazzone d’agosto.

Rogerius camminava e pensava che avrebbe dovuto menare a me-moria quelle assurde idiozie dettate da Ugo da Marcina, il più bo-rioso ed arrogante magister della scuola: «La medicina non è cosaper tutti» gli aveva detto con tono minaccioso in occasione dell’ul-timo dibattito «pertanto ritorna a studiare e ti consiglio di farlo bene,perché la prossima volta andrà peggio».

Anche se ignorava il motivo di quell’astio, Rogerius sentiva chequell’uomo, dal profilo tagliente e dagli occhi grigi come la pietra,trovava gran diletto ad avvilirlo e a umiliarlo di fronte a tutti, quasia cercare di provocare in lui una reazione sconsiderata. Era evidenteche Ugo da Marcina lo teneva sotto tiro, come un balestriere chepunta il quadrello contro la sua vittima.

«Un giorno» si era ripromesso «mi toglierò lo sfizio di prenderlo apugni» aveva detto al suo nuovo amico, Giacomo di Exeter, un ra-gazzotto dalle spalle larghe e dall’aspetto possente che veniva dallalontana Inghilterra. «Non essere stupido» gli aveva risposto quello,secco. «Ugo non aspetta altro per distruggerti».

L’inglese aveva ragione, pensò scansando con un salto doppio unapozzanghera di fango e merda all’incrocio con il lavinaio di SanGiorgio, e pertanto il dibattito con Ugo non doveva finir male; oc-correvano cinque augustali d’argento per pagare un nuovo ciclo dilezioni e di visite agli ammalati, una cifra che pochi in città potevanopermettersi, e tra questi non figurava neppure suo zio Pandolfo. Seavesse fallito sarebbe stata dura rimettere assieme quei denari,avrebbe trascorso l’estate e l’autunno dietro al bancone, a confezio-nare confetti e contare grani di incenso per i monaci.

Mattia lo precedeva di alcuni passi e lo esortò ad accelerare l’anda-tura.

La strada della Drapparia portava dritto a oriente. Sopra le mura ei palazzi si cominciava a vedere il chiarore dell’alba. Quando giunseronei pressi della chiesa di Santa Maria della Piantanova imboccarono

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un vicoletto buio che sbucava in una platea sotto il massiccio del Ca-stel Terracena.

Dovettero inerpicarsi per una ripida salita che si snodava tra orti egiardini e dopo aver percorso un centinaio di passi, costeggiato lospiazzo e la fontana pubblica, giunsero davanti alla casa del maestro.Pellegrino abitava nel quartiere di Orto Magno, nella platea di PortaElina, in una vecchia solarata scampata al saccheggio dell’impera-tore Arrigo, un edificio con balconi che si appoggiavano sul porticatodel pianterreno.

Il servo fece entrare i due giovani, richiuse la porta e fece lorostrada attraverso la cucina, conducendoli poi al piano superiore. Lastanza era illuminata da un candelabro e dalle fiamme del caminoche animavano le ombre sulle pareti. C’erano puzzo di chiuso e unpregnante odore di spezie. Sullo scrittoio si trovavano una brocca ealcune ciotole di terracotta usate per i salassi. Rogerius vide unenorme libro aperto con delle macchie di inchiostro sui bordi e unapenna. Capì che si trattava del registro degli elettuari, un elenco det-tagliato delle sostanze usate dai farmacisti della città per la prepara-zione dei farmaci.

I due si appressarono al giaciglio in punta di piedi, mentre il pavi-mento di legno scricchiolava sotto i loro passi. Un panno di lino,sporco di sangue, pendeva da una sedia ai piedi del letto.

Con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, maestro Pellegrino gia-ceva immobile, con la testa calva adagiata sul guanciale. Sulle gote in-giallite e chiazzate di eczemi dal spuntava qua e là un ciuffo di peli.Le coperte non riuscivano a nascondere la sagoma del corpo, ridottoormai a un mucchio di ossa.

Mattia si chinò sul magister e gli sussurrò: «Maestro, è qui il gio-vane Rogerius».

Pellegrino mosse le labbra: «Temevo non venissi». La voce era unflebile bisbiglio tremolante, gli occhi, infossati nelle orbite, appari-vano tuttavia ancora vigili e mobili.

Il giovane si fece avanti invitato da Mattia, ed entrò nel fascio diluce gialla proiettato dal candelabro appeso alla parete.

«Hai chiamato anche gli altri?» chiese Pellegrino al servo. «Sì, tutti» rispose Mattia «è quasi l’alba e fra poco saranno qui».«Bene, vai ad attenderli allora». Il vecchio ansimava a ogni parola.

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Rimasto solo con il maestro, Rogerius aspettava curioso di cono-scere lo scopo di quella chiamata.

Dal piano di sotto, intanto, salivano rumori di passi e di personeche entravano in casa. Ci fu un breve trambusto di sedie, poi tuttotornò al silenzio.

«Ti starai chiedendo perché sei al capezzale di un moribondo».Maestro Pellegrino tirò fuori un braccio dalle coperte e porse la manoossuta al giovane. Nonostante fosse debole e provato dalla malattia,Rogerius sentì le dita del vecchio, lisce e fredde, stringersi attornoalle sue.

«Perdonami, figliolo, ti supplico» disse Pellegrino con commozione.«Non chiedermi di spiegare, per me significherebbe morire di nuovo,sono troppo vigliacco per un altro dolore». Si fermò, chiuse gli occhie iniziò a piangere.

Rogerius si stupì e per un attimo pensò che il maestro fosse in predaal delirio. Cosa poteva fare se non assecondare quel desiderio? “Per-donarlo, per cosa?” si domandò, ma non gli venne in mente nulla.

Pellegrino gli strinse forte la mano in un gesto estremo: «Ti im-ploro!»

Rogerius vide lo sguardo supplichevole del maestro e il volto rigatodalle lacrime.

Era una splendida mattina di maggio dell’anno 1231, e quel giornosulla spiaggia suo padre lo aveva abbracciato prima di imbarcarsi sullanave diretta in Terrasanta. C’erano soldati, cavalieri, destrieri scalpi-tanti, masserizie ammucchiate sulla sabbia, pellegrini, crociati e unamoltitudine di persone intente a salutare i propri cari. Il sole era caldoe una brezza leggera increspava il mare azzurro.

Erano trascorsi otto lunghi anni e molti ricordi erano sfumati, al-cuni cancellati. Poi gli vennero alla mente il calore e l’odore del padre.Quel giorno c’era anche Pellegrino che si aggirava tra la folla. Con lasua folta chioma e la barba precocemente ingrigita, lo rivide incam-minarsi verso Porta Maris, e sparire infine inghiottito dall’ombradelle mura e dei ricordi.

Per un breve istante Rogerius si perse in quella visione: suo padrelo stringeva forte, gli dava un ultimo bacio e lo sfiorava con una ca-rezza.

Quello era stato l’ultimo abbraccio.

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«Vi perdono, maestro» rispose il giovane non sapendo cos’altro po-tesse dire.

Il vecchio chiuse gli occhi, fece un sorriso, poi iniziò a balbettaresuoni incomprensibili e Rogerius comprese che stava per spegnersi.Le parole uscivano agonizzanti dalla bocca, tra un respiro e l’altro.

«Maestro!» esclamò.Pellegrino aprì gli occhi un’ultima volta: «Fermali…» sussurrò con

la voce ridotta a un soffio. «Il cilindro, trovalo prima di loro, a Po-mona, drago sanguine…»

Furono le sue ultime parole.Rogerius si fermò dietro la porta, turbato e pensoso. Pellegrino se ne era andato con i suoi segreti. Era solo il delirio di

un malato o il frutto di una mente ancora lucida? Aveva sentito direche in punto di morte si è sinceri perché non si ha nulla da temere ela propria anima può finalmente liberarsi da pene e fardelli, prima disprofondare agli inferi o salire al paradiso.

Due chiacchiere con Mattia forse avrebbero dissipato le ombre cheiniziavano a tormentarlo. Il servo sapeva qualcosa delle preoccupa-zioni del maestro?

Dal pianterreno giungeva un sommesso chiacchiericcio. Rogeriusriconobbe la voce chioccia di Geremia di Orto Magno, magister dalleciglia cispose e dall’alito di un fetore soporifero. Discese i gradinilentamente, cercando di interpretare le parole di Pellegrino.

Chi erano quelli che Pellegrino implorava di fermare? Aveva poi ac-cennato a un cilindro, chiedendo di trovarlo in fretta. E quando avevanominato Pomona intendeva forse l’antico tempio, ora scriptoriumdella scuola di medicina?

Rimase altrettanto sbalordito nel vedere seduti attorno al tavolotutti i magistri della scuola, nei loro eleganti abiti da cerimonia dipanno blu, i mantelli foderati di soffice lana e i cappucci orlati di pel-liccia. Erano venuti a dare l’ultimo saluto a Pellegrino?

Guarna, il praeses, occupava il posto a capotavola, mentre ai latistavano gli anziani. Geremia di Orto Magno aveva passato i sessan-t’anni ma la testa canuta e il volto glabro lo facevano apparire piùvecchio. Ursone sedeva alla destra del praeses e se ne stava con lebraccia conserte e gli occhi chiusi, preso da chissà quali pensieri. Alsuo fianco c’era Giovanni da Procida, un giovane dalla mente lucida

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e fredda, che apparteneva a un’antica e nobile famiglia molto vicinaall’imperatore. Vi era poi Silvestro Longopiede, un uomo dall’aspettomalaticcio e caduco, vicino ai cinquant’anni. Si mormorava che il suostato di salute fosse il frutto di una vita dissennata e spesa in violentepassioni, ma era stimato quale profondo conoscitore dei filosofi greci.L’ultimo magister era Ugo da Marcina, che lo osservava con sguardosevero e impassibile. Se ne stava tronfio e immobile con le braccia in-filate sotto il mantello e non smetteva di tenere gli occhi puntati suRogerius. Sembrava avesse l’aria stupita e al contempo preoccupata.

«Cosa ci fai qui?» chiese il praeses perplesso sporgendosi in avanti. «Sono stato chiamato dal maestro Pellegrino» rispose Rogerius con

un inchino. Raimondo Guarna oltre a essere la persona più impor-tante della scuola era anche il padre di Rebecca.

«Capisco» commentò con un colpo di tosse portandosi con graziauna mano alla bocca. «Come sta il maestro?» domandò.

«Pellegrino è morto» rispose Rogerius.Nella stanza ci fu un attimo di sgomento, poi discese un gelido si-

lenzio.Ursone aprì gli occhi e disse ad alta voce: «Requiescat in pace». Mattia, che stava in disparte nei pressi della finestra, si alzò in piedi,

sollevò l’orlo della veste e corse al piano superiore.«Siamo giunti in ritardo a quanto pare» esclamò Guarna alzandosi

dallo scranno «in tempo solo per l’estremo saluto». Geremia di Orto Magno e Silvestro Longopiede seguirono il prae-

ses che si era avviato su per le scale, mentre Giovanni prese sotto-braccio il vecchio Ursone per accompagnarlo.

«Chiamato per cosa?» domandò Ugo da Marcina, rimasto solo conlui. «In quale veste sei qui? Studente, amico, medico?» la voce eraaffilata come un bisturi.

Rogerius non aveva intenzione di contrariarlo prima del dibattito,ma non voleva rivelare tutta la verità circa il suo incontro con Pelle-grino.

«Credo che il servo si sia sbagliato. Il maestro delirava quando hapronunciato il mio nome» mentì. E si domandò perché Ugo fossetanto curioso.

Il magister si avvicinò al giovane: «Che cosa ti ha detto Pellegrino?»«Nulla, nulla» si affrettò Rogerius.

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«Uhm» bofonchiò Ugo aggrottando le sopracciglia. «Non eri certotu a prenderti cura di lui. Sei solo uno studente e sai bene cosa suc-cede a coloro che si professano medici quando non ne hanno licenza»lo ammonì.

L’ultimo a finire nelle celle del Castel Terracena era stato un sici-liano, sorpreso nel quartiere di Curtis Dominica mentre faceva visitaa un bottegaio. Per i truffatori che si spacciavano per medici e far-macisti la legge prevedeva ammende e sanzioni molto pesanti e neicasi più gravi la confisca di tutti i beni e un anno di carcere.

«Mi guarderei bene dal farlo» rispose il giovane. «Buon per te. Dunque, se non eri qui per alleviare le sofferenze di

Pellegrino, per quale ragione sei stato chiamato?»Rogerius si sentì alle strette. Perché, pensò, doveva nascondere un

avvenimento che non aveva niente di strano? Inoltre mostrandosicosì insicuro poteva indurre Ugo a sospettare di lui. Se lo avessero ac-cusato di essersi spacciato come medico, Pandolfo avrebbe dovutovendere bottega e licenza per salvarlo dal carcere.

«Voleva dirmi qualcosa» disse d’un fiato «ma era consunto e stre-mato. Ha pronunciato solo poche parole incomprensibili, poi è spi-rato. Ecco tutto».

Ugo gli puntò l’indice sotto il naso. «Non c’è proprio altro che vuoidirmi?»

Rogerius sentì un brivido. Per un breve ma interminabile momento,ebbe la sensazione che il magister potesse sapere, poi si rese conto cheera impossibile. Proprio in quel momento Mattia ricomparve in cu-cina.

«Torna a casa a studiare, se ci tieni a diventare medico» gli intimòUgo con il solito tono di avvertimento. Si voltò, diede un’occhiata alservo e prese a salire lentamente le scale.

Rogerius tirò un lungo sospiro e attese che il magister giungesse incima alla scala per parlare indisturbato con Mattia: «Ho bisogno divederti» gli disse.

Il giovincello aveva gli occhi pieni di lacrime e singhiozzando glidomandò per quale ragione desiderava farlo.

«Non discutiamone qui ora» rispose Rogerius «ti aspetto dopo leesequie davanti alla fontana di pietra».

Mattia corse via lasciando aperto l’uscio di casa.

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Albeggiava e i raggi del sole coloravano di viola le nuvole e le poz-zanghere della platea. Rogerius rimase immobile davanti alla portacon lo sguardo perso nel vuoto. Cosa diavolo aveva perdonato a Pel-legrino, si domandò. Udì un rumore alle spalle, si girò e vide Ugoancora sulle scale che lo guardava.

Si sarebbe precipitato al tempio di Pomona e avrebbe riposto tuttodov’era, se solo avesse compreso il significato di quei fogli o datoascolto al detto “chi il giorno lascia spegnere, la mente riduce in ce-nere, chi lingua non comprende, futuro non apprende”.

La bottega dove Grammazio preparava le pergamene si trovava inun minuscolo locale sotterraneo annesso al palazzo vescovile, pocodistante dalle mura di Castel Terracena, a una cinquantina di passidalla biblioteca del tempio di Pomona. Una stanza cieca senza fine-stre, la cui unica apertura era costituita dalla piccolissima porta pe-rennemente aperta.

Con l’accordo di fornire ogni primo dell’anno venti grandi fogli dipergamena all’ufficio del vescovo, Grammazio aveva preso in affittol’angusto deposito e lo aveva trasformato in laboratorio. Uno scaffalemalfermo inchiodato al muro, tre tinozze di legno, il raschiatoio,mezzo sacco di pietra pomice, qualche rasoio arrugginito, un trabal-lante banco da lavoro impregnato di grasso e colla, i vecchi telai ere-ditati dal padrone, una dozzina dei quali pendevano dalle travi delsoffitto annerito dal fumo.

Ben presto alla puzza di chiuso e di muffa si erano aggiunti l’odorepungente della calce sciolta in acqua dove maceravano le pelli equello del fumo rancido e acre che lento risaliva dal paiolo ribollentedi grasso.

Nonostante fosse proibito l’uso della carta e fatto obbligo ai pub-blici ufficiali di servirsi delle pergamene, Grammazio non guada-gnava più come una volta, quando monaci e studenti, rubricatori ecopisti si rivolgevano a lui per i velli lucidi e lisci sui quali stenderel’inchiostro. Molti preferivano la cartastraccia degli amalfitani, piùeconomica perché più facile da produrre. Così i suoi ultimi clientierano avidi notai, che Grammazio considerava peggio dei giudei, equalche magister della scuola affezionato alla pergamena.

La moglie Altruda si era ammalata e non lavorava più alle

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concerie di Sant’Eremita. Le si era gonfiato il ventre ed era rinsec-chita nel giro di una settimana. Ora la donna se ne stava a letto tuttala giornata. Di medici neanche a parlarne, troppo esosi rispetto allavecchia Maria che si era presa in cura la donna per una zuppa dipesce. I due figli aiutavano lo zio pescatore e grazie a loro la famigliariusciva a mettere qualcosa sotto i denti.

Era andato di buonora alla biblioteca con la speranza di rimediareun lavoretto da Bonosio. «Pellegrino ha tirato le cuoia stamattina,vedi cosa puoi ricavare da questi velli» aveva detto il bidello, indi-cando un mucchio di pergamene ammuffite e rosicchiate dai topiche giaceva nell’angolo di una stanza nei sotterranei dell’antico tem-pio di Pomona.

Grammazio aveva pensato che Bonosio volesse ripetere il giochettodell’ultima volta: restaurare i velli e rivenderli alla biblioteca comenuovi. Naturalmente doveva dividere con lui il ricavato, ma quellamattina il bidello lo aveva trattato con aria di sufficienza e Gram-mazio, deluso, aveva accettato il lavoro per due tarì. “Meglio diniente” si era consolato. Avrebbe comprato un po’ di provviste e se glifosse rimasto qualcosa si sarebbe concesso una bevuta di vino an-nacquato.

Le pergamene erano ammonticchiate con ordine, tenute insiemecon sottili spaghi. La pila appoggiata al muro, alta due braccia, sem-brava una torre pericolante. A una prima occhiata si rese conto chenon si sarebbe recuperato molto, i topi avevano banchettato allegra-mente, divorando grandi quantità di pelle e le tarme si erano ingoz-zate fino a scoppiare. Riempì il sacco e lo richiuse torcendogli il collo,lo issò in spalla e si avviò per le scale.

A memoria non ricordava sacchi così pesanti. «Diavolo!» imprecòlasciando cadere il fardello sul nudo pavimento della bottega. Ri-prese fiato inarcando la schiena indolenzita e, nonostante l’aria friz-zante del mattino, gocce di sudore gli colarono dal naso. Il fumoaveva saturato l’aria del locale, impregnando ogni cosa del tanforancido della colla. Grammazio tossì diverse volte mentre rimesco-lava l’impasto nel paiolo. Aggiunse un’altra manciata di frattaglie,poi prese lo sgabello e si sedette allargando le gambe ai lati del sacco.

Era necessario ripulire le pergamene dalla muffa con un lavaggioin acqua e calce, dove si sarebbero ammollate, poi dopo averle

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asciugate nei telai bisognava raschiare il vecchio inchiostro, lisciarlecon la pietra pomice badando a non consumare troppo lo spessore delvello, e infine si doveva stendere la colla che ribolliva nel paiolo.

Un lavoro che gli avrebbe portato via tempo, almeno due settimane.Ma a Grammazio conveniva tenersi buono Bonosio, che reggeva icordoni della borsa e verso il quale nutriva una riverenza dettata solodal suo estremo bisogno.

Mise sul banco il fagotto e dopo aver reciso lo spago si sorprese nelvedere che all’interno non c’erano le solite pergamene.

Si trattava di un mazzo di fogli di carta, simile a quella degli amal-fitani, ma ingiallita dal tempo e priva di macchie di muffa. I fogli dicarta erano stretti attorno a un oggetto, e quando Grammazio sciolseil nastro si meravigliò.

Inizialmente pensò che l’oggetto potesse appartenere alla biblio-teca, ma si ricordò che quelli conservati là erano leggeri e grezzi difattura, adatti a proteggere dai roditori e dall’umidità antichi papirio cartastraccia, mentre il cilindro che aveva in mano era levigato emolto pesante, lungo circa un piede e mezzo e largo tre pollici.

Era un astuccio lucido di colore rossiccio, con venature regolari piùscure e senza nodi. Lo agitò sentì un debole tintinnio. Grammaziosi mise in cerca di un’apertura o di un chiavistello, chiedendosi cosamai potesse contenere. Un astuccio da scrivano con tanto di penne eboccette di inchiostro? “No, perché mai sigillarlo in questo modo senon per proteggere un oggetto di gran valore?” E d’improvviso ilcuore iniziò a battergli forte.

Smanioso di aprirlo per scoprirne il contenuto, iniziò a colpirlo conle nocche delle dita. Non si intendeva di legno, ma uno così duro epesante non lo aveva mai visto. Il cilindro era diviso in due perfettemetà e le fessure, in un affascinante gioco di mimesi, si perdevanonella trama del legno, per finire sotto i due tappi che ne sigillavanol’apertura.

Tutti i tentativi di aprirlo a mani nude fallirono miseramente: provòa tirare con forza uno dei coperchi, lo tenne fermo in mezzo allegambe, lo strinse sotto un’ascella. Le due estremità sembravano ser-rate come le cosce di una fanciulla riluttante al piacere. Avrebbe po-tuto sfasciarlo con un’accetta, ma non era certo che Bonosio sapessedel cilindro e, una volta accortosi della sua mancanza, avrebbe potuto

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precipitarsi a reclamarlo. Glielo avrebbe restituito, ovvio, non primaperò di averne visto il contenuto, si disse sorridendo. In fondo stavasolo facendo il suo lavoro!

Introdusse la punta dello stiletto nella fessura in cerca di una levao di un meccanismo. Forzò la mano e la lama si ruppe volando sulpavimento. Doveva pur esserci un modo per aprirlo, pensò gingil-landosi con il misterioso oggetto. Se c’era una serratura doveva tro-varsi nei tappi esagonali. Sulla superficie erano scolpiti deibassorilievi, quattro figure geometriche simili a stelle, disposte suivertici di un rombo immaginario, al centro esatto dell’esagono.

L’altro coperchio invece recava incisi una serie di numeri: 3, 4, 12,6 e 8. Provò a spingere la stella a cinque punte credendo che agissesu un meccanismo posto al di sotto del coperchio, ma quella si staccòdalla superficie, rivelando un foro. Sotto ai tasselli intarsiati eranoben nascoste piccole aperture il cui profilo rispecchiava quello deitasselli stessi.

«Ah ah!» proruppe il pellaio. «Cosa c’è qui sotto?» Rimosse gli altritasselli rivelando quattro fori perfettamente sagomati nei quali si in-castravano i finti bassorilievi. Notò che i raggi corrispondevano pernumero a quelli incisi sull’altro coperchio e si convinse pertanto diavere scoperto una chiave segreta, una sorta di codice, ma non avevacompreso il significato del numero centrale, il 12. Chissà, si domandòlisciandosi la barba ispida che giungeva fin sopra gli zigomi, se neifogli che avvolgevano l’astuccio poteva trovare un inidizio. Posòl’astuccio e li radunò davanti a sé.

Si trattava di appunti scritti in bella grafia, agile e veloce, ordinatae regolare. Nei primi quattro fogli si snodava un elenco fittissimo dinomi, che Grammazio non comprese, e una serie di note scritte conun inchiostro di diverso colore. Vi erano poi altri fogli: disegni,schizzi di piante e erbe con descrizioni a lato, in minuscoli caratteri.Appartenevano certamente a un magister della scuola che stava com-mentando un codice e, per una qualche ragione, erano finiti tra vec-chie pergamene.

Presto si rese conto che non c’era nessun indizio legato al cilindro. Crucciato e deluso, si mise a riordinare i fogli quando notò un

pezzo di pergamena ridotto a lacerto, con una traccia di ceralaccausata per sigillare le missive e le lettere. Incuriosito l’aprì e lesse:

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La nostra parte è conclusa. Per il cilindro dovrete attendere il ritorno. Lachiave è al sicuro e al momento rappresenta la migliore garanzia, per en-trambi.

Vi conviene consegnarci il cilindro, nel vostro bene. Dunque era lui l’uomo sulle tracce del cilindro, concluse Gramma-

zio leggendo il nome alla fine del messaggio. Gli balenò alla mentel’ipotesi che Pellegrino non fosse morto in modo naturale, bensì uc-ciso in maniera subdola. Dubbioso e sconcertato si accarezzò labarba, temendo di essere in pericolo. Cosa fare, si chiese, restituire iltutto alla biblioteca o contattare il misterioso cacciatore? Osservò ilcilindro, se lo rigirò tra le mani per un po’. Infine un’idea si fece largotra i suoi pensieri.

***

La cattedrale era un imponente edificio che sorgeva su un pianoro inOrto Magno, all’ombra del maestoso campanile.

Oltre a essere dimora delle sante reliquie dell’apostolo Matteo ecustode di altre pie ossa, la chiesa massima della città era divenutaluogo di scienza e sapere, sede della famosa scuola medica. Era fre-quentata da studenti che venivano da ogni luogo della penisola e fi-nanche da terre lontane per seguire le lezioni dei dotti maestri, chesi tenevano nelle aule del quadriportico. Immersi nella pace e nel si-lenzio, lontani dal chiasso dei mercati e dalle urla dei venditori cheaffollavano le vie, monaci, magistri e studenti potevano passeggiaree discutere sotto gli archi del chiostro antistante la cattedrale, go-dendosi la giornata o riparandosi dalla pioggia.

L’editto dell’imperatore Federico del 1231 aveva dato nuovo im-pulso alla scuola che, grazie a esso, riacquistava il prestigio e la famadi un tempo. L’editto prescriveva infatti che solamente la Scuola diSalerno fosse autorizzata a rilasciare diplomi e licenze in campo me-dico, e introduceva norme severe per coloro che volevano esercitarel’arte della medicina e della preparazione dei farmaci.

Lo studente che si accostava a tali pratiche aveva un lungo percorsodavanti: un triennio dedicato alla logica, analizzando Aristotele, Pla-tone, nonché gli altri filosofi greci e romani, e cinque anni per lo stu-dio della medicina vera e propria.

Un buon medico agiva in base al principio “contraria contrariis

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curantur”, ogni malanno andava curato con il suo contrario, quindiil rimedio a una malattia che avesse origine da un eccesso di freddosarebbero stati alimenti e farmaci caldi. La teoria dei quattro umori– sangue, flegma, bile gialla, bile nera – era alla base della diagnosi el’alunno doveva conoscere i testi di Ippocrate, Galeno e Avicennaoltre a quelli dei padri fondatori della scuola, come Costantino l’Afri-cano, Alfano, Gariopontus, Maestro Petroncello, Afflacio, Cofone epersino una leggendaria medichessa, una certa Trocta o Troctula chesi narrava fosse esperta levatrice. La preparazione dello studente do-veva passare attraverso lo studio dei ricettari, degli erbari che tratta-vano la classificazione dei semplici e la preparazione delle medicine:decotti, tisane, pillole, sciroppi, impiastri, unguenti , cataplasmi, las-sativi, astringenti, espettoranti ed emetici. Bisognava imparare poi atastare il polso dell’ammalato. Vi erano oltre centoventi risultatipossibili, classificati in base alla frequenza e alla forza, e l’alunnoera chiamato a distinguerne almeno la metà se voleva superarel’esame.

Doveva diventare esperto della uroscopia e delle regolae urinarorume saper leggere nella matula i sedimenti e gli umori della malattia. In-fine era fondamentale apprendere l’anatomia e la chirurgia. Moltecose venivano insegnate attraverso i testi e le belle illustrazioni deicodici, ma l’editto permetteva la dissezione di un cadavere ogni cin-que anni, in corrispondenza della fine di un ciclo di lezioni e di esami.

Al termine degli otto anni di studio il candidato era chiamato asvolgere un dibattito conclusivo davanti al Collegium, in presenza diun funzionario imperiale, per praticare poi un anno di tirociniopresso un maestro della scuola e, solo alla fine di questo lungo per-corso, poteva ottenere licenza di medico e phisicus.

La scuola era aperta a tutti, donne comprese, e non faceva distin-zioni di rango: vi erano figli di nobili, conti e signorotti, mercanti ebottegai. Era necessario pagare la retta annuale al magister, acqui-stare i libri e le pergamene per lo studio. Certo si trattava di una spesaimportante che solo i più ricchi potevano permettersi, ma il collegionon poneva limiti alla partecipazione, sapendo, in linea di principio,che solo i migliori sarebbero riusciti.

Quella stessa mattina, poco dopo l’ora nona, Ugo da Marcina avevaterminato la lezione sul fegato e congedato gli alunni dando loro

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appuntamento al giorno successivo, all’ospizio dei Barbuti, per far vi-sita ad un ammalato.

Nell’aula dalle pareti color ocra vi erano dieci studenti, tra i qualidue giovani fanciulle, continua fonte di distrazione per i maschi. Unaera Mercuriade del Campo, una ragazza dai capelli fulvi e riccioluti,figlia di un benestante bottegaio. L’altra, allo stesso banco, era Re-becca Guarna, figlia del praeses. Aveva i capelli neri e lucidi come lepiume di un corvo, e pareva che avesse una certa intesa con Rogerius,anch’egli presente quella mattina, seduto agli ultimi posti in compa-gnia del biondo amico, Giacomo di Exeter.

Da Marcina si era accorto, suo malgrado, che la spiegazione si stavatrascinando tra i lampi e i tuoni che annunciavano l’arrivo di un tem-porale. Non ci furono domande né osservazioni da parte degli stu-denti, solo sguardi distratti persi nel vuoto e penne svolazzanti chescarabocchiavano ghirigori sui fogli. In altre occasioni avrebbe affer-rato per le orecchie e sbattuto con una pedata fuori dalla porta qua-lunque studente avesse accennato uno sbadiglio. La prima goccia dipioggia gli diede il pretesto di licenziare i ragazzi, che scattarono inpiedi con grande energia, svuotando l’aula in un battito di ciglia. Ro-gerius uscì per primo, seguito da Giacomo di Exeter. Ugo notò inloro una certa sollecitudine ed ebbe la sensazione che i due aves-sero qualcosa di urgente da fare. Le fanciulle si alzarono dai banchi,imitate subito dai compagni che ronzavano come moscerini attornoai due bocconcini. Ci fu un breve trambusto, poi solo pace e silenzio.

Pioveva a dirotto. L’acqua dalle grondaie della cattedrale zampillavacome da una fontana e dal tetto del chiostro cadeva simile a una ca-scata. D’un tratto l’aria si impregnò dell’odore di terra bagnata e difoglie marce. Le aule erano deserte. Si udivano solo il vento che sfer-zava le colonne, e il ritmo della pioggia che batteva sul lastricato dipietra grigia.

Gli scrosci impetuosi si abbattevano sull’alta vetrata e Ugo rimasein attesa di Nicolò. Distese le gambe in cerca di una posizione co-moda sullo scranno e prese a fissare la fiamma tremula della candelache a stento brillava nella penombra. Le esequie di Pellegrino si sa-rebbero celebrate allo scoccare del vespro, poco prima dell’imbrunire.Lo avrebbero seppellito sulla collina di Sant’Eremita alla luce delletorce, in un diluvio universale. Non aveva voglia di seguire il feretro

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camminando nel fango e sotto la pioggia, ma sapeva che non potevasottrarsi a quel dovere. Sarebbe stato il solo a mancare, purtroppoGeremia e Ursone erano troppo vecchi e quindi toccava a lui e a Gio-vanni da Procida, assieme al praeses, rappresentare il collegio.

Si alzò e si diresse alla finestra in attesa di una schiarita. Il ritardo del suo amico lo rendeva inquieto, non resisteva più a

stare da solo con i pensieri che lo tormentavano fin dall’alba. Nicolòtrovava sempre una soluzione ai suoi problemi e Ugo si fidava sola-mente di lui. Più l’ansia cresceva più avvertiva il bisogno di sentire lasua voce, che sortiva lo stesso effetto della valeriana su un cuore agi-tato. Non si era mai pentito della fiducia accordatagli, e se era di-ventato ciò che era lo doveva in parte a lui.

Erano lontani i giorni in cui Bruno, suo fratello maggiore, lo am-moniva al cospetto del padre, il conte da Marcina. Ugo era stato av-viato alla vita religiosa ma aveva scarso senso di Dio. I frati delcenobio di San Benedetto non ne potevano più delle sue scappatellee del suo carattere ribelle. «Il giovane non mostra nessun profitto einteresse per la fede» diceva l’abate. A nulla erano valse le legnate ele severe punizioni per riportarlo all’ordine, perché il ragazzo parevainsensibile al dolore e indifferente alle ramanzine. Il conte allora loaveva affidato al fratello maggiore che già governava alcune terrenelle tenute di famiglia. Ugo era poco attratto dai mulini e dalle at-tività dei campi, se non per portare all’ombra di un fico una servettacompiacente e giacere con lei. E dopo avere ingravidato la figlia delmugnaio Zaccaria (cosa che era costata al conte uno sgravio sul ma-cinato e una dote al bastardo) e dietro il suggerimento della madreCostanza, Ugo si era trasferito in città, per studiare alla scuola.

«Ti sosterrò negli studi con ogni mezzo, ma giuro sul mio onoreche solo se diventerai praeses della scuola avrai la tua parte di eredità»lo aveva ammonito il padre, stanco e avvilito dal comportamento delfiglio. «La dote, le terre, la servitù e i denari, per ora restano nellemani del cenobio e sarà svincolato tutto a tuo favore solo dopo lanomina. Sta a te accorciare i tempi».

Un compito arduo, aveva pensato Ugo, impossibile. Significava at-tendere otto lunghi anni per diventare medico, poi avrebbe dovutoimpegnarsi in una dura lotta per essere nominato magister, quindisgomitare e farsi largo per entrare nel ristretto circolo del Collegium

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e, solo a quel punto, avrebbe avuto il diritto di porre il suo nome trala rosa dei candidati a praeses. Ma per questo occorrevano legami,amicizie potenti con nobili e funzionari imperiali. E tutto questo po-teva non essere sufficiente; la carica di praeses durava tutta una vita,solo la morte o una malattia grave legittimava una nuova nomina eGuarna pareva godere di buona salute, purtroppo.

Tuttavia, a trentatré anni, Ugo da Marcina si sentiva assai vicinoalla meta e non intendeva aspettare oltre per venire in possesso del-l’eredità.

«Il ragazzo non sa nulla» concluse Ugo dopo aver fatto un riassuntodegli eventi della mattina.

«Come fai a esserne così certo?» chiese Nicolò levandosi il mantelloinzuppato di pioggia.

Figlio di un mercante di olio, Nicolò aveva trascorso l’infanzia eparte dell’adolescenza presso il cenobio di San Benedetto, dove avevaconosciuto il coetaneo Ugo, con il quale aveva condiviso molte cose:la giovinezza, gli studi e i viaggi, oltre all’interesse per la medicina eper le donne alla stufa di Donnaghezza in Plaium Montis.

«Non avrebbe chiesto al servo di incontrarsi. Si sono dati appunta-mento dopo le esequie, Rogerius è incuriosito dalla faccenda, mapenso che in questo momento si stia ancora chiedendo per quale ra-gione Pellegrino lo abbia voluto lì» disse Ugo.

«Era alla lezione oggi?»«Sì, non ha accennato all’accaduto e non saprei dire se fosse di-

stratto per il mistero di stamattina o per l’imminente dibattito».«Entrambe le cose» disse Nicolò.«Mi auguro che il servo tenga la bocca chiusa. Temo possa essere a

conoscenza dei movimenti del padrone».«Temi che Pellegrino si sia confidato con lui?» chiese l’erborista.Ugo guardava le gocce di pioggia scivolare sui vetri impiombati. Il

cielo si stava schiarendo e all’orizzonte le nuvole si erano colorate diporpora.

«Chi può mai dirlo» rispose. «Pellegrino potrebbe avergli dato unalettera, una memoria».

Nicolò si aggiustò la veste. «Potrebbe, certo. Tutto è possibile, maperché non mandargliela a casa? Se avesse voluto divulgare il segreto,Pellegrino avrebbe avuto tutto il tempo per farlo in modo comodo e

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ragionato, invece si è limitato a convocare il giovane in punto dimorte e a confondere le acque riunendo il collegio per intero».

Come si aspettava, Nicolò aveva il potere di placare ogni sua ansiae preoccupazione e trasformare le sue paure in spirito d’azione. Co-minciò a ritrovare la calma, mentre un raggio di luce bianca fendevail freddo dell’aula.

Nicolò aggiunse: «È chiaro che Pellegrino abbia voluto lanciare unsegnale». Poi si fermò in attesa che l’amico riflettesse e potesse giun-gere alle stesse sue conclusioni.

«Un segnale, un avvertimento allora!» disse Ugo pensando ad altavoce.

Nicolò annuì. Da Marcina puntò l’amico dritto negli occhi: «Questo spiega molte

cose, come l’ordine di tenere i medici fuori da casa sua. Non si fidavadi noi, di nessuno di noi, ma la presenza di Rogerius, stamattina,aveva uno scopo preciso. Ora il segreto è svelato: ma perché non dirlochiaramente? Cosa aveva da perdere?»

Nicolò si diresse alla finestra: «Le minacce lo hanno solo spaven-tato, costringendolo a diffidare di tutti, tanto da rinchiudersi in casa.Ma il gesto di stamattina conferma i sospetti che avevo su di lui».Nicolò fece una pausa e Ugo trattenne il fiato. «Ora ne sono certo,Pellegrino era il custode della sacca con gli appunti e anche del ci-lindro».

Ugo sbarrò gli occhi e aprì la bocca per lo sgomento.L’erborista osservava la pioggia che scivolava lungo i vetri. «Credo

che il vecchio abbia voluto liberarsi la coscienza da un macigno chelo tormentava da tempo, e che forse avrà confessato solo al suo prete.Era Pellegrino il nostro uomo».

Ugo incrociò le braccia e si appoggiò a una colonna. «Mi chiedodove siano finiti i miei avvertimenti» esclamò preoccupato. «Se qual-cuno se ne impossessasse capirebbe che la vita di Pellegrino era mi-nacciata e che la sua morte non è stata poi del tutto naturale».

I due amici rimasero in silenzio incrociando i loro pensieri.«Se Mattia sa qualcosa, bisogna che la sua bocca resti sigillata» fece

Nicolò. «Pensavo che potresti chiedere all’arcidiacono di prendersicura del ragazzo per farlo affidare al convento di San Giovanni. Cisono quattro frati in quel posto dimenticato da Dio, oltre il fiume e

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la palude. La tua parrebbe un’opera pia. Che altro potrebbe chiederedi meglio alla sorte quello sventurato ragazzo?»

Ugo si mise a passeggiare fra gli scranni e i banchi, poi si fermò da-vanti alla porta lasciando vagare lo sguardo tra i sarcofagi di marmoche adornavano la passeggiata sotto i portici. «Pensi sia sufficiente?»

Nicolò alzò le spalle: «Per il regno dei cieli è una piccola buonaazione, ma un medico come te può vantare un certo credito verso ilparadiso».

«Il convento di San Giovanni dei mulini è a dieci miglia da Sa-lerno, sulla strada carraia. Qualcun altro potrebbe comunque far vi-sita al ragazzo».

«A questo non avevo pensato» rispose Nicolò lisciandosi il mentocon aria dubbiosa. Ma l’impressione di Ugo fu diversa.

Rinunciare alla sua parte di eredità per vivere solo della “generosità”dispensata da quei signorotti lo infastidiva, figuriamoci se poteva ac-cettare l’idea che un servo senza più padrone potesse improvvisa-mente diventare ostacolo al godimento della sua ricchezza. Non ebbedubbi.

«Allora dovrò rimandare la mia buona azione» disse fregandosi lemani. «Ci penserai tu, non è così?»

***

Il temporale era stato tanto improvviso quanto violento, lasciando lacittà sommersa di fango. Il sole aveva fatto capolino tra le nuvole,ma i suoi pallidi raggi non riuscivano a scaldare l’aria fredda. Lestrade si erano trasformate in rigagnoli di detriti, fogliame e rami,strappati dalla furia del vento.

Rogerius e Giacomo di Exeter camminavano per la Drapparia trale pozzanghere che andavano da un lato all’altro della strada.

Durante il nubifragio la città aveva trattenuto il fiato poi, allo spun-tare del sole, si era di colpo rianimata e la gente si era riversata nellestrade.

La Drapparia correva dalla chiesa di Santa Maria della Piantanovafino al quartiere di Curtis Dominica e altro non era che un lungoporticato di colonne di marmo e archi di pietra, di botteghe, negozie laboratori dove si vendevano e si tessevano le migliori stoffe cheuna donna potesse mai desiderare: velluto, broccato, soffice lana e

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morbido lino. La Drapparia era un lungo decumano che si snodavada est a ovest, affollato di massaie, compratori, contadini, fattori, mer-canti e ambulanti, venditori d’acqua e di frittelle, borsaioli, storpi emendicanti, che si contendevano ogni mattina il posto migliore persvolgere i propri affari.

In ogni platea vi erano banchi di merce e ogni slargo di strada eraun posto buono per esporre una stia di galline, ceste di uova e mele,sacchi di ceci e di fave secche. Il vociare e le grida degli uomini siunivano a quelli di asini testardi e di maialini stridenti, allo starnazzodi oche legate per le zampe e al lamento raccapricciante di un agnelloappena sgozzato, in una giostra chiassosa che si chetava solo al ca-lare del sole.

Percorrere la Drapparia dopo un simile acquazzone era un com-pito arduo e farsi largo tra la calca e i carretti era difficile quanto at-traversare il corso di un fiume impetuoso. Inoltre, dopo la pioggia, siriaprivano le dispute tra i venditori per accaparrarsi il posto piùasciutto in cui esporre la mercanzia, creando problemi al traffico giàcaotico. Uno spettacolo imperdibile per i cittadini che si affollavanoper assistere al bagno degli ambulanti che finivano a mollo nel fango.Tra le risa e il divertimento della gente, tra un pugno e l’altro, c’erasempre un birbante lesto ad arraffare qualcosa dalla merce rimasta in-custodita.

«Non c’è una strada più tranquilla per tornare a casa?» chiese l’in-glese fermo davanti a un capannello di persone, in cerca di un pas-saggio asciutto. Le passerelle erano insufficienti per il traffico e spessocreavano ancora più intralcio dei carretti impantanati.

«Sì che c’è, ma devo sbrigare una faccenda e dobbiamo prima pas-sare da Isacco il giudeo» rispose Rogerius.

Così i due amici fecero una deviazione verso il mare, imboccandouno stretto passaggio poco prima del Lavinaio di San Giorgio, pas-sando sotto un arco buio e maleodorante di piscio. Sbucarono in unaplatea di fronte alle mura della città. Il vicolo della Giudaica era co-stituito da una serie di casette di legno, addossate alla doppia muratadifensiva chiamata muricinum. La comunità degli ebrei era la piùnumerosa censita fino a quel momento sotto il regno di Federico eviveva sotto la giurisdizione della curia: ottocento persone in due-cento famiglie che vivevano a pochi passi dalla spiaggia e sulle quali

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ogni notte calava una coltre di salsedine sprigionata dal respiro in-cessante del mare. I giudei abitavano in basse e tristi catapecchie,umide e malsane, il cui fitto finiva dritto nelle casse del vescovo, lorogiustiziere.

Nel vicolo vi erano alcune botteghe, dove gli ebrei con licenza po-tevano svolgere commerci: Beniamino l’ispanico vendeva lucerne estoviglie di creta, Isaia era un mercante di tessuti, mentre Aronnesmerciava spezie. Isacco il Giudeo era il più ricco di tutta la comu-nità, avendo fatto fortuna prestando denaro a usura e mercanteg-giando in oro e argento. Potendosi permettere un affitto più alto,viveva con la famiglia nella casupola più grande, ai piedi di un laricei cui rami spogli, protesi verso il cielo, parevano le dita nodose e de-formi di un vecchio.

«Aspettami qui» disse Rogerius all’amico. Fece presto ritorno e dopo aver chiuso la porta infilò le mani sotto

la veste. «Fatto. Ora possiamo andare a mangiare». Giacomo di Exeter lo guardò con aria interrogativa, chiedendosi

cosa avesse fatto Rogerius in quella casupola. Con le mani strettesotto lo scapolare e il cappuccio sul capo si mise in cammino sui passidell’amico.

Rogerius non si era confidato con l’inglese riguardo a Pellegrino.Era un modo per non rinnovare le proprie preoccupazioni, dovendoaffrontare il dibattito con Ugo da Marcina che lo teneva sulle spineda diverso tempo. Combattuto tra il desiderio di sfogarsi e quello dinon gravare ulteriormente il suo animo, aveva pensato fosse megliotacere.

«Cosa vuole Ugo da te?» chiese improvvisamente Giacomo, che lotallonava da vicino.

«Ti riferisci a qualcosa in particolare?» domandò a sua volta Roge-rius.

«C’è altro tra te e Ugo, giacché parli di dettagli? Io mi riferivo allostudio» puntualizzò l’inglese, aggiustandosi l’inseparabile viella cheportava appesa alla spalla.

Rogerius rifletté sulla propria domanda, si voltò e fece un sorriso al-l’amico: «Però, sei sveglio!»

«L’ansia ti ha spinto a parlare così e a rivelarmi il tuo turbamento»

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osservò il compagno. Giacomo sovrastava di parecchio la spalla diRogerius, che era costretto ad alzare la testa per guardarlo negli occhi.Se non avesse indossato quel grigio saio che lo faceva sembrare unmonaco, le donne sarebbero cadute ai suoi piedi, pensò lo studentecon una punta di invidia.

«Molte cose sfuggono alla mia ragione e in questo momento i pen-sieri si affollano come la Drapparia» rispose evasivo.

Il cielo si era di nuovo incupito, gettando un’ombra plumbea sullacittà. Affrettarono il passo e quando raggiunsero la Taverna del Pe-scatore mancava poco allo scoccare dell’ora nona. Entrarono nel lo-cale e si accomodarono a un tavolo. La sala fumosa puzzava di pescearrostito e di vino spillato. Furono fortunati, poco dopo venne giùun temporale con scrosci rabbiosi e lampi accecanti e in breve la ta-verna si riempì di gente. Il tempo capriccioso e il mare agitato ave-vano tenuto i pescatori fermi sulla spiaggia e molti di loro silagnavano per la magra giornata, ma in breve i commenti lasciaronospazio a rutti fragorosi.

Nella locanda l’aria sapeva di sudore e fango umidiccio. I due sguat-teri andavano avanti e indietro tra la cucina e la cantina, con brocchee piatti di cibo. Qualcuno iniziò a giocare a dadi e i pescatori, con lefacce bruciate e segnate dalla salsedine, assistevano ai lanci con com-menti coloriti.

«In questo siamo tutti uguali» commentò Giacomo, che osservavadivertito gli avventori. «Sembra che il sudiciume, la sporcizia e lamelma della strada ci renda tutti simili, qui come in qualsiasi postodella mia terra».

Rogerius osservò per alcuni istanti il suo amico, poi rivolse losguardo attorno. Molti di quei volti li aveva incrociati lungo le stradedella città ma poche di quelle persone le conosceva davvero. Qual-cuno che aveva bevuto troppo già sembrava preda di Bacco e non sa-rebbe trascorso molto tempo prima che volassero i pugni. Le risseerano giornaliere soprattutto quando si giocava a dadi.

«Pare che un misero destino accomuni i semplici» disse Rogerius.«Alla fine siamo tutti sbronzi di vino o di cervogia».

Uno sguattero lasciò sul tavolo un piatto di pesci arrostiti e unabrocca di vino.

Giacomo di Exeter riempì le ciotole di terracotta. «Sei pronto per

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il dibattimento?» chiese cambiando argomento. Rogerius bevve un sorso e rispose: «Ugo da Marcina ha qualcosa

contro di me, ne sono certo, non vuole che io termini gli studi». «Perché dovrebbe?» chiese l’inglese.«Il dibattito c’entra solo in parte in questa faccenda, anche se lo

ammetto, l’ostilità di Ugo da Marcina agita i miei sonni proprio per-ché mi sfugge il senso, e dunque stamattina, molto prima dell’alba, ilservo di maestro Pellegrino ha bussato alla mia porta».

E così Rogerius si lasciò andare al racconto. Tra un pezzo di pesceall’aglio e un sorso di vino annacquato illustrò all’amico cosa era suc-cesso nella mattinata. Alla fine, però, appariva più nervoso e insicurodi prima.

«Credi sia saggio dar retta alle parole di un moribondo? Perché,continuo a chiedermi, maestro Pellegrino non mi ha incontratoquando la sua salute ancora glielo permetteva? Io non vedo rispostea queste domande e tutto ciò non ha senso».

«Così è difficile dirlo» disse Giacomo. «Dobbiamo indagare, e rac-cogliere tutte le informazioni possibili sul maestro. Hai detto che ilservo è disposto a parlare, allora dobbiamo incontrarlo prima che lofaccia qualcun altro».

«Dunque tu credi alle parole di Pellegrino?» chiese Rogerius.«E cosa ci resta da fare? Aspettare che altri» e sottolineò la parola

“altri” «lo scoprano prima di noi? Non so cosa sia questo cilindro, néchi sono gli altri, ma trovo la cosa molto stimolante». L’inglese sivoltò in direzione della finestra.

«Ha smesso di piovere, in attesa che il nostro amico Mattia ritornia casa paghiamo e come consigliano i tuoi saggi maestri “post pran-dium aut stabis aut lente deambulabis”» aggiunse Giacomo.

Curtis Dominica era il quartiere antico della città, il cuore dellaOpulentum Salernun dove un tempo il palazzo del principe rilucevadi fulgore e l’antica cappella palatina, all’ombra del campanile dimarmo, aveva accolto secoli addietro il leggendario Carlo Magno ela sua corte.

Ma passeggiando per i vicoli e le anguste stradine, la grassa e pro-sperosa capitale era solo un pallido ricordo. Molti edifici erano ora fa-tiscenti e diroccati, con gli intonaci scrostati e altri in completarovina. L’assedio del 1194 di Enrico VI, padre dell’imperatore

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Federico, aveva gettato in disgrazia i commerci e le industrie che in-vece erano fiorenti e prosperi, e lo stesso aveva fatto il saccheggioperpetrato ai suoi danni, spogliandola dei beni più preziosi. La città,un tempo fiera e bella, era stata deturpata e violentata, i segni lasciatisi leggevano sulle mura annerite che spuntavano dal terreno come identi marci nella bocca di un vecchio.

Rogerius e Giacomo di Exeter si incamminarono a passo lentoverso la casa di Mattia passando sotto gli archi del palazzo del prin-cipe Arechi. La strada era un acquitrino di liquami e di rifiuti. Iltempo capriccioso si divertiva a cambiare umore a ogni tocco di cam-pana. L’aria si era fatta gelida e il vento tirava forte.

Giacomo era approdato a Salerno per approfondire le lezioni di lo-gica e di scienze naturali perché alla scuola di Parigi non era con-sentito lo studio di Aristotele. Ma era giunto in città proprio neigiorni turbolenti legati alla nomina del nuovo stratigoto. Una serasul tardi una banda di ribaldi, vedendolo uscire di corsa dal portonedi un edificio dove abitava un nobile, lo aveva scambiato per un av-versario e lo aveva inseguito. Per un pelo non era finito appeso per ilcollo, ma con un intervento provvidenziale Rogerius lo aveva salvatonascondendolo in casa sua per diversi giorni, fintanto che non era ri-tornata la calma.

Giacomo era figlio del conte Giovanni di Exeter. Durante la cam-pagna del re Enrico in Guascogna era stato catturato in un’imbo-scata e rinchiuso in un monastero di Tolosa. Aveva trascorso quattroanni in Francia prima di ritornare in Inghilterra. La morte del conteaveva fatto cadere in disgrazia la sua famiglia. Dopo aver studiato aOxford e poi a Parigi, Giacomo aveva intrapreso un lungo viaggioche lo avrebbe infine condotto in Italia, tirando avanti suonando laviella e vivendo come un chierico vagante.

«Volendo supporre che Pellegrino avesse pienezza di spirito, perquale ragione pensi abbia implorato il tuo perdono?» chiese.

«Al momento non mi viene in mente nulla» rispose Rogerius «quasinon lo conoscevo».

«Potrebbe darsi che lo conoscesse qualcuno molto vicino a te, untuo familiare al quale Pellegrino ha fatto un torto nel passato» ipo-tizzò l’inglese.

«Pandolfo è l’unico parente che mi è rimasto. Mio padre non è più

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tornato dalla Terrasanta e mia madre morì che avevo otto anni» disseRogerius.

Giacomo rimase silenzioso. Rogerius tentò di pescare dai ricordi, ma l’unica immagine che

aveva di Pellegrino era quella che risaliva al giorno della partenzaper la crociata.

«Conosceva tuo padre forse?»«Non escludo che i due avessero rapporti, Pellegrino era un erbo-

rista e mio padre invece un medico».«Forse Pellegrino gli confezionava i farmaci».«No, era zio Pandolfo che lavorava per mio padre, si fidava solo di

lui. A quei tempi, prima del nuovo editto, gli erboristi potevano con-fezionare liberamente le medicine».

«Oggi invece?»«Oggi gli erboristi e gli elettuari sono sotto il controllo di due fi-

duciari nominati dall’imperatore tramite lo stratigoto. Uno è Zac-cheo Silvatico senior, fratello di Giovanni. I Silvatico sono unapotente famiglia molto vicina all’imperatore, pare che Giovanni siaprossimo a diventare Gran Maestro Giustiziere del contado del Mo-lise. Zaccheo l’erborista cura il viridario di famiglia, lassù in PlaiumMontis, un bellissimo orto a terrazzi dove sono piantate erbe rare».

«Chi è l’altro fiduciario?»«Era, perché è morto. Maestro Pellegrino» rispose Rogerius.«Perbacco!» esclamò l’inglese. «Chi l’avrebbe mai detto che era un

uomo così importante!»«Niente affatto! È questo che trovo insolito. Pellegrino non era un

uomo potente, faceva vita riservata, non era sposato e aveva una so-rella monaca. Tuttavia anche lo stratigoto, che ha il potere di nominadei fiduciari, non poteva nominarlo da solo senza l’appoggio del col-legio dei medici».

Rogerius e l’inglese erano giunti al lavinaio di San Giorgio. Ognitanto si fermavano a riflettere e parlare con molta calma.

«Ora bisognerà nominarne un altro» aggiunse Rogerius.«Una carica molto importante?» chiese Giacomo. «I fiduciari stabiliscono i criteri per la fabbricazione delle medicine,

le erbe e le sostanze da impiegare per esse e possono in qualsiasi mo-mento eseguire controlli presso gli erboristi. Il nuovo editto

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dell’imperatore dispone la confisca di tutti i beni per gli erboristicolpevoli di fare società con i medici e la pena di morte per coloro chenon si attengono alle prescrizioni dei fiduciari».

«Pfiuuu! Una legge severa» commentò l’inglese. «Quindi convieneessere amico dei fiduciari!»

Talvolta Giacomo si esprimeva con serietà, mentre in altre occa-sioni camuffava il suo disprezzo con figure retoriche che a Rogeriusparevano frutto di una educazione alla lettura dei classici latini egreci, una cosa davvero inusuale per un chierico vagante, suonatoredi viella e amante della birra.

«Non sono sicuro che quell’amicizia sia gratuita».«Intendi dire che gli erboristi mettono mano alle borse perché i fi-

duciari chiudano un occhio?» domandò Giacomo. «Stando a quanto dice Pandolfo, i fiduciari fanno ottimi affari ap-

profittando del loro potere. Ah sì, buoni affari».«Qualcuno, quindi, non è del tutto dispiaciuto per la morte di Pel-

legrino!» «Ah! Certamente» ammise Rogerius. «E si starà fregando le mani

per prepararsi alla successione».«Tuo zio potrebbe sapere altro su Pellegrino».«Ci avevo pensato ma Pandolfo è fuori città, dai suoi parenti ad

Amalfi, credo stia trafficando qualcosa. Appena sarà di ritorno lo in-terpellerò».

Giunti davanti alla chiesa della Piantanova, i due videro un pretecon la tunica inzaccherata di fango camminare a passo svelto e diri-gersi verso la canonica. Sotto il porticato c’era un mendicante av-volto in una coperta che dormiva sdraiato accanto alla sua ciotola dilegno. Poco più avanti incrociarono un gruppo di lavoratori di ri-torno dagli arsenali e più in là, sotto un elegante edificio rivestito ditufo giallo, si trovava un capannello di uomini, quattro pendagli daforca che confabulavano tra loro. Rogerius riconobbe gli sgherri diArnaldo. I quattro si voltarono a guardare i due giovani, poi ripreseroa parlare tra loro.

La Drapparia terminava davanti a un poderoso bastione eretto aguardia del fossato e svoltava ad angolo retto verso l’alto, per per-dersi in uno spiazzo chiamato platea di Porta Elina, dove al mattinosi svolgeva il mercato e da cui partiva la strada carraia. Al lato dello

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spiazzo, addossato alle mura, vi era l’edificio del fondaco con gli ufficidei pesatores e del magistrato fundicarius.

Un uomo a cavallo stava fermo davanti all’ingresso dei magazzinidoganali, circondato da un paio di armigeri. Alcuni facchini stavanotrasferendo dei sacchi dall’interno all’esterno dell’edificio e li addos-savano a un muro, sotto una bassa tettoia di scandole e gli occhi ac-corti del pesatores che controllava e ne appuntava i movimenti.

«Quello deve essere il nuovo capitano delle guardie, Guido Ala-manno».

«Cosa fanno?» chiese il giovane inglese.«Le merci che entrano in città vengono prese in consegna dai pe-

satores che sono al servizio del magistrato fundicarius, il quale sta-bilisce la gabella in base al peso e al tipo di merce».

«Lo fanno sempre in presenza delle guardie?»«Di solito no, è il fundicarius che ha tale compito e agisce in piena

autonomia» rispose Rogerius sovrappensiero. «Deve esserci lo zam-pino dello stratigoto».

I due proseguirono, dirigendosi all’altro lato della platea di PortaElina.

«In quella casa vicino alla fontana abitava Pellegrino» Rogerius in-dicò con un dito il punto a Giacomo.

«Allora sarà meglio separarci» propose l’inglese stiracchiandosi lebraccia dopo aver fatto un lungo sbadiglio. «Penso che andrò a fareun bagno caldo e tonificante alla stufa in Plaium Montis».

***

Dopo il vespro un vento di tramontana prese a soffiare forte, sgom-brando il cielo dalle nuvole. Una fredda luce purpurea si specchiavanella vasca di pietra della fontana e nelle pozzanghere che punteg-giavano il pianoro del Castel Terracena.

Tra i giardini e gli orti recintati, gli alberi di pesco spargevano at-torno l’odore dei fiori appena sbocciati, e la fronda di una grossaquercia si agitava sferzata dalle raffiche come una chioma di capelli.

Mattia camminava a capo chino di ritorno dalla sepoltura. Tremavaper il freddo, aveva i piedi fradici e il corpo intirizzito a causa dellapioggia che aveva accompagnato il corteo funebre. Era deluso. Si sa-rebbe aspettato qualcosa in più dal suo maestro che, da quando si era

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ammalato, era tormentato da funesti presagi. Pellegrino convocavaspesso uno dei bidelli dello scriptorium, Bonosio, e si chiudeva in ca-mera con lui.

Erano stati giorni faticosi per il piccolo servo, impegnato ad adem-piere agli ordini del padrone che lo menavano in giro per la città.“Porta questo lì, metti via quest’altro. Fammi venire Tizio e chia-mami Caio, fino in Locus Veterensium dove abitava quel giovanestudente, e come se non bastasse, un’ultima corsa alla canonica dapadre Lorenzo”.

«Svelto!» gli aveva ordinato il praeses Guarna. «Vola a chiamare ilprete della parrocchia». Per cosa non lo aveva capito, che fretta c’eradato che il maestro era morto stecchito? Per l’ultimo sacramento?

Al suo ritorno erano andati via tutti, tranne Guarna che lo atten-deva in cucina. «Merita una grande messa» aveva detto il praeses, ecosì aveva fatto celebrare il rito nientemeno che dall’arcidiacono Vit-tore da Capua.

In chiesa erano in molti, tutti coloro di cui Pellegrino si era presocura quando era in vita: artigiani, pescatori e altra umile gente,Guarna era in prima fila con la testa bassa assieme agli altri magistridella scuola, gli aromatari e i farmacisti. Il sermone dell’arcidiaconoera stato breve, poche parole in latino e poi tutti dietro alla salma, inmarcia fino al cimitero che si trovava a circa un miglio, su un colle aSudest della città.

La sepoltura del maestro era avvenuta in presenza di pochissimepersone, qualcuna si era persa per strada. Mentre il parroco recitaval’ultimo requiem, era giunto da lontano il suono della campana dellacattedrale che segnava il vespro. Dopo la benedizione, Mattia avevapagato l’uomo del carro che aveva trasportato la salma e i due tiziche avevano scavato la fossa, poi si era trattenuto con padre Lorenzoa chiacchierare.

Il servo non aveva avuto disposizioni dal maestro in merito alla so-larata e ai beni del padrone, avendo questi solo l’anziana sorella, monacanel monastero di San Giorgio. Pellegrino prima di ammalarsi inmodo grave gli aveva dato in consegna alcuni tarì per il funerale e unamanciata di monete per i suoi bisogni.

Strada facendo, padre Lorenzo lo aveva informato che Pellegrinoaveva donato la casa alla diocesi e una parte dei beni al cenobio di

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San Benedetto in Orto Magno. Il ragazzo avrebbe dovuto sceglieredi entrare in convento oppure lavorare nei tanti poderi sparsi di pro-prietà del vescovo.

Avevano attraversato il boschetto di pini per sbucare poi, alla lucedel crepuscolo, di fronte alle mura della città. Il terreno era dolce-mente ondulato e il sentiero snodandosi tra gli orti si immetteva sullacarraia che conduceva a Porta Elina.

Il prete, con un largo gesto delle braccia, gli aveva indicato le terreche appartenevano alla sua parrocchia. Mattia infreddolito avevavisto un uomo camminare curvo sotto il peso di un enorme canestrodi vimini pieno di sassi. Si era ricordato di suo padre, un povero con-tadino senza podere. Se un giorno avesse avuto un figlio, si era dettocon amarezza, non lo avrebbe mai venduto come avevano fatto conlui.

Sul sentiero avevano incrociato alcuni braccianti, sporchi e stanchi,con dei sacchi di tela calcati sulla testa a mo’ di cappuccio, che ritor-navano alle loro capanne.

«Vita grama!» aveva esclamato il prete ad alta voce. «A quest’oranel cenobio staranno cenando, bevono vino e mangiano ottimo cibo,nella pace del Signore».

Mattia lo aveva guardato di sbieco. Giunti davanti alla platea di Porta Elina i due si erano separati. «La notte porta consiglio figliolo» si era congedato il prete, e Mat-

tia aveva proseguito da solo verso la fontana. Il Castel Terracena dominava lo spiazzo con le sue alte torri, l’in-

gresso principale, che guardava a sud, era chiuso e le guardie si eranogià rintanate al caldo al riparo dal vento che fischiava tra le feritoiee i merli delle mura.

Il maestro si era dimenticato di lui, pensò tristemente Mattia men-tre infilava la chiave nella toppa. Rimase fermo sull’uscio a contare glispiccioli rimasti, i quali a malapena sarebbero bastati per un piatto diminestra. Se c’era qualcosa da fare, doveva provvedere prima che unmonaco venisse a reclamarne la proprietà.

Mattia rabbrividì. Sentiva l’umido fin dentro il suo corpicinosmunto e nel momento in cui prese la chiave sotto la veste, un’om-bra gli si avvicinò alle spalle.

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