Il recupero degli aspetti relazionali nell’accoglienza...

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Progetto cofinanziato da UNIONE EUROPEA Fondo Europeo per l’Integrazione di Cittadini di Paesi Terzi 2007-2013 Programma annuale 2012 Azione 5 Progetto: “L’intercultura è per tuttiPROG-103598 DIREZIONE DIDATTICA “AMITERNUM” L’AQUILA ISTITUTO COMPRENSIVO MAZZINI-PATINIL’AQUILA Il recupero degli aspetti relazionali nell’accoglienza degli alunni stranieri: indicazioni operative e buone prassi

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UNIONE

EUROPEA

Fondo Europeo per l’Integrazione di Cittadini di Paesi Terzi 2007-2013 Programma annuale 2012 – Azione 5

Progetto:

“L’intercultura è per tutti” PROG-103598

DIREZIONE DIDATTICA “AMITERNUM”

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Il recupero degli aspetti relazionali nell’accoglienza degli alunni

stranieri:

indicazioni operative e buone prassi

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Introduzione

I cambiamenti che hanno caratterizzato i flussi migratori nel nostro paese, hanno spinto il

mondo dell’Educazione ad interrogarsi, ormai da diversi anni, sulla qualità e le

caratteristiche del sistema istruzione, sulle dinamiche interculturali e sui processi di

accoglienza in ambito scolastico. Dunque, sulle caratteristiche che la scuola dovrebbe

assumere e sulle buone prassi da mettere in atto.

Ci preme ricordare in breve che le prime “immigrazioni”1 che hanno interessato il nostro

paese negli anni ’70- ’80 coinvolgevano principalmente individui di sesso maschile, che

arrivavano soli e con forti motivazioni economiche alla base della “scelta” migratoria;

soltanto in seguito ad immigrare in Italia furono per lo più donne -si pensi al diffusissimo e

ormai consueto lavoro di “badante”- e uomini che arrivavano con un progetto migratorio a

tempo indeterminato e non più temporaneo o stagionale. Un progetto che, dunque, iniziava

a contemplare anche i figli, in un primo momento lasciati in patria, alle cure dei nonni.

I cambiamenti geo-politici degli ultimi anni, le vicende legate alla cosiddetta “primavera

araba”2, la fine di dittature non coincidente con la reale nascita di democrazie

3, le grandi

emergenze sociali e civili sviluppatesi nella maggior parte dei paesi convolti, la grave crisi

economica mondiale, le guerre in atto in molti stati dell’Africa sub-sahariana ma anche del

1 Per un’attenta disamina del fenomeno si confronti Macioti M.I., Pugliese E., L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Editori Laterza, 2003. 2 Primavera araba (in arabo ثورات ية ال عرب al-Thûrât al-ʻArabiyy; letteralmente ribellioni arabe o rivoluzioni arabe) è un الtermine di origine giornalistica utilizzato perlopiù dai media occidentali per indicare una serie di proteste ed agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011. I paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono la Siria, la Libia, l'Egitto, la Tunisia, lo Yemen, l'Algeria, l'Iraq, il Bahrein, la Giordania e il Gibuti, mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, in Arabia Saudita, in Oman, in Sudan, in Somalia, in Marocco e in Kuwait. Le vicende sono tuttora in corso nelle regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. Fonte: Wikipedia, l’enciclopedia libera. It.wikipedia.org 3 Pensiamo ai casi di Tunisia, Egitto e Libia, ad esempio.

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Medio-Oriente e in Europa4, hanno contribuito ad innalzare il numero di profughi sbarcati

sulle coste italiane. Molto spesso, molto più che in passato, arrivano donne incinte, intere

famiglie, oltre che giovani soli, talvolta minori non accompagnati5.

La stanzializzazione di famiglie migranti, unitamente alla diffusione dei ricongiungimenti

familiari e all’arrivo di profughi, richiedenti asilo e rifugiati, ha accresciuto il numero di

alunni stranieri sui banchi delle nostre scuole.

Il Rapporto Immigrazione 20136 ci fornisce un dato significativo: “la presenza degli alunni

stranieri nelle scuole italiane nell’anno scolastico 2012/2013 è di 786.630 unità, ovvero

30.691 in più rispetto all’anno precedente”.

Da tempo la Scuola si interroga su quali siano le corrette strategie da applicare con gli

alunni stranieri, eppure solo negli ultimi tempi si è proceduto a sistematiche progettazioni,

spesso a carattere locale e favorite dalla diffusione delle autonomie scolastiche, in realtà

sempre più accompagnate e sostenute dalla diffusione di indicazioni ministeriali. Ne sono

un esempio le norme pubblicate, ormai nel 2007, dall’Osservatorio nazionale per

l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale e le Linee guida per

l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, che già da diversi anni il Miur

diffonde.

Documenti che vedono nell’educazione interculturale il contesto comune su cui

incastonare i percorsi educativi individualizzati necessari ad ogni singolo alunno. Come

dire che l’intercultura è il presupposto da cui partire, non l’obiettivo finale: “La scuola

4 Si fa riferimento alla recente e delicatissima situazione dell’Ucraina che proprio nei giorni in cui il presente contributo viene redatto, è teatro di violenze e scontri senza sosta. 5 È notizia di questi giorni che nell’ultima emergenza sbarchi, maggio 2014, siano in crescita i minori che arrivano sulle coste siciliane (cfr. a titolo di esempio “I bambini in fuga dalla guerra arrivati nel porto di Augusta. Sbarcati i migranti: 133 sono minori, quindici senza genitori”, quotidiano La Stampa, 22 maggio 2014. www.lastampa.it). Il Rapporto Immigrazione 2013 (Caritas e Migrantes) stima il numero di MNA a fine 2013 a 6537 unità, la cui maggior parte ha 17 anni. 6 Caritas e Migrantes (a cura di), XXIII Rapporto Immigrazione 2013.

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infatti è un luogo centrale per la costruzione e condivisione di regole comuni in quanto può

agire attivando una pratica di vita quotidiana che si richiami al rispetto delle forme

democratiche di convivenza (…)”7. L’educazione interculturale rifiuta la logica

dell’assimilazione come pure quella della convivenza tra comunità chiuse al loro interno ed

è invece volta a favorire lo scambio, il confronto, il dialogo, con l’obiettivo di raggiungere

un arricchimento reciproco, nel rispetto delle reciproche appartenenze culturali.

Il tutto all’interno di una programmazione che prenda sì in considerazione specifici aspetti

di didattica interculturale -relativi all’insegnamento dell’italiano come L2 oppure ad una

riletture meno occidentalista di storia e geografia- e che contempli, finalmente, delle

aperture al contesto relazionale e agli scambi comunicativi tra coetanei.

Campi in cui l’apprendimento diviene solo in parte aspetto secondario, poiché gli ultimi

approfondimenti ed acquisizioni della psicologia hanno spinto a riconsiderare il ruolo che

variabili psicologiche hanno sull’apprendimento stesso, come possano influenzarlo in

positivo e negativo. Soprattutto nel caso di alunni con una cultura altra. Alunni per i quali

il processo di crescita e di costruzione identitaria assumono un significato e delle

caratteristiche specifiche, che è bene che la scuola inizi a tenere in debito conto.

Un’identità non univocamente data, bensì in continua costruzione e frutto

dell’integrazione, non sempre facile, tra diverse eredità.

Il presente contributo nasce con l’intento di approfondire tale delicata tematica e con

quello di offrire degli spunti di riflessione agli insegnanti, indirettamente coinvolti nel

processo di crescita dei bambini e degli adolescenti stranieri, non più solo alunni da

istruire.

7 Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale (a cura di), La via italiana per

la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, Ministero Pubblica Istruzione, ottobre 2007.

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Straniero a chi?

Se è vero che negli anni parlare di intercultura a scuola non è più stato un fatto raro o una

novità, non sempre è stato chiaro o si è stati d’accordo su quali fossero gli alunni

“stranieri” da coinvolgere in attività di integrazione, inizialmente pensate solo per loro e

non per l’intera classe. L’idea di fondo era che bisognasse lavorare sugli stranieri da

integrare e non sul contesto-classe che con la presenza di tali alunni avrebbe assunto delle

caratteristiche nuove.

Alla base di tale errore epistemologico c’era soprattutto la preoccupazione per la

comprensione: il problema che le scuole si ponevano -ancor oggi in alcuni casi ci si pone,

purtroppo, solo quello- era di tipo didattico, specificamente relativo alla comprensione

della lingua. Ci si preoccupa spesso, non solo di come un allievo che non comprende

l’italiano possa affrontare lo studio del programma curricolare ma anche e soprattutto di

come la sua presenza possa rallentare lo svolgimento stesso di tali attività da parte

dell’insegnante e l’apprendimento degli altri allievi.

Nel lavoro che da anni portiamo avanti nelle scuole come Abruzzo Crocevia, ci siamo

abituati a sentirci dire, anche dagli insegnanti più sensibili alla tematica, che gli stranieri

sono “quelli che non capiscono”. La realtà dei fatti ci mette spesso di fronte a bambini e

giovani che acquisiscono in tempi rapidi una comprensione linguistica di base che consente

loro di comunicare con insegnanti e coetanei e, a volte, anche di eccellere su quest’ultimi.

Evidenza sostenuta non soltanto dalla fortissima motivazione a “recuperare” il gap

esistente quando arrivano ma anche dalle conoscenze scientifiche sul funzionamento del

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cervello, che ci consentono di affermare che è molto più facile imparare una lingua in

giovane età.8

Ne abbiamo ulteriore conferma quando confrontiamo il livello di conoscenza linguistica

del bambino con quella del proprio genitore, sicuramente un adulto che ha meno occasioni

didattiche e sociali per imparare ma anche un adulto che fa realmente più fatica ad

imparare. Non a caso, sono spesso i figli a fare da ponte e da traduttori tra una lingua e

l’altra.

Chi sono, dunque, gli alunni stranieri?

Sicuramente quelli arrivati in Italia con i loro genitori, alunni che, in alcuni casi, hanno

frequentato già una scuola nel paese d’origine. Sicuramente non solo loro.

Dovremmo contemplare tra gli alunni stranieri anche tutti coloro i quali “stranieri” lo sono

per origine, i figli delle adozioni internazionali oppure i “minori non accompagnati”, coloro

i quali, pur essendo accolti in un contesto socio-culturale completamente italiano, hanno

nel loro nome di battesimo, nella propria lingua madre, nella propria fisicità, tratti somatici

o colore di pelle, quel segno tangibile di alterità con cui dovranno fare i conti per tutta la

vita.

Situazioni delicate, la cui complessità emerge spesso nella fase dell’adolescenza, quella in

cui avviene con una certa frequenza che i minori stranieri adottati entrino in crisi9, proprio

a causa di quelle radici che prepotentemente riaffiorano, anche nei più “assimilati”, nel

momento in cui si tenta di rispondere al quesito: chi sono io?

8 Cfr. Doidge N., Il cervello infinito, Saggi, Ponte alle grazie, 2007. 9 Non potendo approfondire qui la tematica delle adozioni internazionali, ci preme rimarcare come sia un percorso molto delicato sia per i genitori, sia per i bambini e ragazzi che ne sono protagonisti. Una “delicatezza” che è bene gli insegnanti tengano in debito conto, poiché spesso esita in vere e proprie patologie e comportamenti antisociali. A tale riguardo si confrontino Cancrini L. (2006 e 2012 cit.) e Vadilonga F. (2010 cit.).

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Contempliamo tra gli alunni stranieri anche i figli di “coppie miste”, quei bambini e

ragazzi che hanno una doppia appartenenza culturale, malgrado una cultura sia dominante

e l’altra resti sullo sfondo.

La doppia eredità culturale che caratterizza le situazioni appena richiamate non sempre

viene integrata in modo facile e coerente e non sempre viene loro riconosciuta dai coetanei

o dagli “altri”, comprese le istituzioni come la scuola.

In effetti, non è così automatico. Talvolta, essi vengono considerati stranieri tout court,

semplicemente perché il loro nome di battesimo è straniero, non italofono, perché il loro

colore di pelle è differente o la loro religione non è la stessa praticata dalla maggioranza. In

tal senso, anche un nome di battesimo italiano, accade spesso sia per i figli di coppie miste

ma ancor più per i minori stranieri adottati, non basta a tutelare dall’essere additati come

“stranieri”, né garantisce loro quell’identità italiana che spesso si attribuiscono e quella

cittadinanza che pure per la legge hanno, in casi di questo tipo.

Per inciso, il dibattuto problema di cittadinanza resta come una spada di Damocle su tutte

le seconde generazioni10

, figli di immigrati nati in Italia (o arrivati piccolissimi), ragazzi

che si sentono “italiani” più dei loro coetanei, spesso ignari di quelle leggi che invece loro

conoscono benissimo, proprio perché aspettano ardentemente il compimento della

maggiore età per uscire da quel limbo che li tiene “ostaggi”.

Un’identità italiana che si riconoscono completamente poiché, quando tornano nella terra

d’origine dei propri genitori, vengono addirittura derisi per una non completa

comprensione di quella che dovrebbe essere, ma per loro non è più, una lingua madre: in

fondo sono nati, cresciuti e hanno ricevuto la scolarizzazione in Italia.

10 Sempre il Rapporto Immigrazione 2013 (cit.) ci fornisce, in tal senso, un dato su cui riflettere: “Una tendenza ormai consolidata è la crescente presenza di alunni con cittadinanza straniera che sono nati in Italia ovvero bambini e ragazzi che in molti casi non hanno mai visitato il paese di cui hanno la cittadinanza: costituiscono ormai quasi il 50% del totale. Questo significa che un alunno su due è straniero solo sulla carta”.

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Interessanti le iniziative portate avanti da una serie di Comuni che hanno scelto di insignire

di cittadinanza onoraria le seconde generazioni11

: molto attivi i giovani figli di immigrati in

tale direzione, attraverso i social network, per esempio, su cui sono sorte molte reti G212

.

Campagne di sensibilizzazione a tale tematica sono state attivate in tutta Italia.

Non ultimi, troveremo sui banchi di scuola anche i figli di rifugiati o richiedenti asilo, una

popolazione in crescita, come già ricordato. Molti di loro, attualmente, sono accolti

all’interno del cosiddetto servizio SPRAR13

(Sistema di protezione per Richiedenti Asilo e

Rifugiati). Si tratta, in questo caso, di bambini con un vissuto emotivo diverso da quello di

un “migrante regolare”, si tratta di bambini che molto spesso arrivano dal mare, dopo

giorni di viaggio durissimi, senza cibo né acqua. Si tratta di bambini che, se accolti in un

progetto SPRAR, usufruiranno di condizioni di accoglienza un po’ diverse, forse di una

situazione più protetta: per la durata del progetto, in genere sei mesi prorogabili, avranno

dietro una rete di persone che lavora per loro e con loro. Pur essendo diverse le condizioni

di accoglienza e spesso quelle di arrivo, non di meno si troveranno a condividere con altri

migranti l’abbandono (forzato) del proprio paese e quel generale senso di smarrimento che

provoca il doversi adattare ad un contesto di vita molto diverso da quello di provenienza.

Quello che, in casi estremi, può esitare in uno “shock culturale”: sentimenti di

estraniamento, irritabilità, ostilità, indecisione frustrazione, tristezza per la lontananza da

“casa”.

Iniziamo, dunque a capire quanto articolato sia il quadro, quanto necessiti di essere

approfondito in modo serio ed efficace e quante siano le sfide che tale complessa

situazione richiede al mondo scolastico.

11 Sono 358 i comuni che hanno insignito di tale onorificenza i giovani figli di immigrati nati in Italia. Tra questi, anche quelli di Roma, Milano, Bari, Napoli, Genova. 12 www.secondegenerazioni.it 13 Progetti attivati dagli enti locali, con le disponibilità del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo.

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Dalla logica duale alla mente relazionale: il superamento del concetto di

integrazione

…l’hip hop, come tutte le culture vive, è frutto di un complesso di interazioni,

e ha così tante facce che non è possibile abbracciarle con un solo sguardo.

Per poterlo comprendere bisogna partecipare alla sua vita quotidiana

e al processo della sua costruzione sociale,

o almeno avvicinarne lo “spirito”.

(Bazin, 2007)

Non è una novità il fatto che la convivenza interetnica abbia da sempre posto interrogativi

al mondo scientifico e suscitato un certo grado di curiosità ed inquietudine14

nella

popolazione autoctona.

Contrapporre il concetto di “noi” a quello di “loro”, sulla base di una logica binaria

piuttosto antica, di origine cartesiana, è stato in parte il goffo tentativo di rispondere a tale

inquietudine, enfatizzando ed estremizzando le differenze come modo per proteggere i

confini della propria cultura e del proprio mondo interno.

Attualmente, parlare di “noi” e “loro” non corrisponde più al quadro sociale e familiare15

cui ci troviamo di fronte, benché sia ancora il modo in cui il fenomeno venga inquadrato

dal mondo politico e da un certo giornalismo, che pongono l’enfasi sull’invasione che il

14 De Rudder V., “La cohabitation pluriethnique et ses enjeux”, in Migrants Formation, n. 80, mars 1990. 15 Zanatta A.L., sulle nuove forme di famiglia vedi

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“noi” riceve dal “loro”. O che si limitano a fare leva su ancestrali paure16

, veicolando

un’immagine dello straniero che minaccia l’integrità individuale. In una costruzione

sociale della paura17

che lascia tutti sconfitti.

Già in Francia, paese con storia di migrazioni antica e riflessioni sociologiche a maggior

ragione approfondite e datate, si è rivelato fallimentare il tentativo di comprendere la

convivenza plurietnica rifacendosi ad un modello dicotomico: da sempre ci si è trovati di

fronte ad un “loro” piuttosto variegato e a relazioni “tra gruppi multipli, fluttuanti, difficili

da definire con precisione, attraversati da numerose fratture”.18

Quello che, con qualche anno di distanza, sta accadendo proprio in Italia, paese che si

espone, soprattutto per posizione geografica, ad arrivi “variegati”. Paese ormai

ufficialmente riconosciuto “frontiera dell’Europa”.

Il dualismo tra conflitto e integrazione non rende conto delle combinazioni possibili,

attualmente infinite, come non rende conto di una “mente” che non è più duale ma frutto di

un processo interattivo19

, poiché è nell’interazione con l’altro che ci si definisce, come

individui e come gruppi. Nel concetto di relazione un gruppo etnico si auto-definisce e

viene definito dagli altri (etero definizione), in un gioco di reciprocità che è molto simile a

quello che ciascuno di noi fa nel percorso di acquisizione identitaria. Le caratteristiche di

un gruppo, così come quelle personali, non possono essere “date” una volta per tutte, non

sono preesistenti ad una relazione ma con essa si qualificano, per l’appunto.

Riprendendo Mauro Ceruti20

possiamo affermare che “è iniziato un percorso di

riformulazione delle identità tradizionali all’interno di ecologie concettuali unitarie: per

16 Touraine A., Quando lo straniero diventa una minaccia, in Bauman Z., Il demone della paura, Editori Laterza, 2014. 17 Bauman Z., (cit.). 18 Mantovani J., Saint- Raymond O., “Espace et coexistance interethnique”, in Espace et Société, n. 45, Juil.- Déc. 1984. 19 Cfr. il concetto di “ecologia della mente”, così come teorizzato da Gregory Bateson, Mente e Natura, Adelphi, 1984. 20 Ceruti, M., Ecologia della contingenza. In S. Manghi (a cura di), Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Milano, Raffaello Cortina, 1998.

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ciascuna delle polarità, delle dicotomie, delle coppie concettuali, onnipresenti nelle nostre

narrazioni e teorie della storia naturale e del tempo profondo, perde di senso sia la metafora

dello “scontro frontale” fra le due polarità, che dovrebbe condurre alla vittoria e alla scelta

di una delle due, sia la ricerca di un punto di vista sintetico, a metà strada nell’angusta

linea che le interconnette”.

Parlare di una “mente” interattiva, relazionale e non determinata una volta per tutte,

equivale a mettere in risalto “nessi di relazione e scambio reciproci” e non può che

condurre al superamento di quell’ottica oggettivistica, limitata, finita.

Riprendere i contributi di Gregory Bateson ci consente di inquadrare in modo nuovo anche

la convivenza multietnica per arrivare al superamento dello stesso concetto di integrazione,

come già avvenuto in quei paesi che con le migrazioni si sono confrontati prima del nostro.

Dopo i tentativi di assimilazione, acculturazione, “melting pot”, multiculturalismo, lo

stesso concetto di integrazione, inizialmente visto come “politicamente corretto”, viene

messo in discussione in favore di un modello epistemologico che si orienti ancor più sulla

“messa in comune” e non sulla necessità di integrare una cosa nuova, diversa, ad una

preesistente.

In tal direzione solo un’ottica sistemica, allargata, che comprenda le ragioni profonde degli

spostamenti di persone nel mondo, un’ottica che veda tutti parte di un sistema di forze in

gioco e non meri bracci di una bilancia, può avvicinarci ad una realistica comprensione del

quadro. Un modello di riferimento teorico, una cornice quella sistemica, che ci spinge a

guardare con occhi nuovi anche l’accoglienza degli alunni stranieri in ambito scolastico,

ambito in cui, come abbiamo illustrato, è quasi impossibile rintracciare una situazione

“pura”, l’immigrato appartenente ad una specifica comunità, e dove molto più spesso varie

condizioni si stratificano. E non soltanto quelle relative all’ “essere straniero” ma anche

alla possibilità di essere portatore di un Bisogno Educativo Speciale, oppure di una

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situazione emotiva delicata, perché figlio di genitori divorziati oppure parte di una famiglia

ricomposta, adottiva, “mista”. Oppure in quanto “minore straniero non accompagnato”.

Condizioni che si vanno ad aggiungere, in maniera esponenziale, non addizionale, al

percorso di crescita che ogni bambino compie per diventare adolescente, giovane adulto ed

infine adulto. Un percorso, meglio potremmo dire un ciclo di vita21

, costellato di tappe e

specifiche “sfide evolutive” da affrontare e superare per arrivare al successivo stadio di

sviluppo.

Detto in termini più semplici, non è solo un alunno oppure un immigrato o ancora uno

straniero quello che gli insegnanti si trovano di fronte: prima di tutto è un bambino o un

adolescente che va accompagnato nel suo percorso di crescita. Un percorso che ha delle

peculiarità e delle difficoltà aggiuntive per chi ha in sé quell’alterità da gestire.

A tal proposito, Graziella Favaro ritiene che, a prescindere da quale sia la tipologia di

alterità -minore immigrato, adottato, figlio di coppia mista, seconda generazione-: “ciò che

accomuna bambini e ragazzi con storie così diverse è il vissuto -reale o simbolico- della

“migrazione”, intesa non solo come spostamento da un luogo di vita ad un altro, ma anche

come cambiamento profondo di sé, ridefinizione dei legami di filiazione, delle

appartenenze, del modo di rappresentare il mondo. Cambiamento che si può tradurre in

sentimenti ambivalenti di perdita e di separazione che influenzano i riferimenti dello spazio

e del tempo, al Paese d’origine e al Paese d’immigrazione, l’immagine di sé, la cultura al

quotidiano e le pratiche culturali e linguistiche”.22

Parlare di vissuto, sia esso reale o simbolico, equivale a mettere in primo piano

l’individualità e ciò che si sperimenta, significa farsi carico del dolore, della scissione

identitaria, dei cambiamenti, delle appartenenze ma anche di eventuali rifiuti della propria

cultura d’origine o anche solo rifiuto a parlarne. In una parola, delle ridefinizioni del sé che

21 Per il concetto di ciclo di vita e tappe di sviluppo vedere Cancrini L. (cit.), Cigoli V., Scabini E. (cit.), Carter e McGoldrick (cit.). 22

Favaro G., Il mondo in classe Nicola Milano Editore 2000.

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spesso seguono un’esperienza di migrazione, attivamente o indirettamente vissuta. In ogni

caso, un percorso di costruzione personale in fieri costante.

Vale per i bambini, che a volte reagiscono meglio ai cambiamenti e assumono la funzione

di “ponte” tra una lingua e l’altra, tra una cultura e l’altra, tra la società di accoglienza e i

propri genitori; ma che altrettante volte si sentono smarriti, divisi a metà, quando non

completamente scissi.23

Vale ancor più per gli adolescenti, che in tale fase sentono il

bisogno e le pressioni di una definizione identitaria propria, che vada al di là delle lealtà24

familiari senza dover necessariamente significare rottura totale con esse, né rappresentare

una semplice “assimilazione” da parte della cultura dominante, quella del paese ospite.

Una cultura che esercita, tuttavia, un richiamo fortissimo per loro, soprattutto perché

assomigliare agli italiani, che questo possa essere interpretato come vera “integrazione”

oppure no, consente loro di sentirsi accettati e non rifiutati. Accade ancora troppo spesso,

agli stranieri.

Ancor più se una certa politica ne evidenzia solo problematicità ed aspetti di “emergenza”

e un certo giornalismo ne mette in luce solo gli aspetti negativi, quelli legati agli episodi di

cronaca che li vedono protagonisti in aggressioni, stupri, rapine, investimenti, spaccio di

stupefacenti oppure mette l’accento sull’ “invasione” che il nostro territorio starebbe

subendo e sulla “corruzione” dei nostri usi, costumi e credo religioso.

L’identità degli adolescenti è in continua costruzione, non qualcosa di statico o monolitico

trasmesso in blocco dalla famiglia ed “ereditato” in modo passivo ed una volta per tutte.

Anche le identità, oltre che le persone, possono essere in movimento.

23 Casi clinici sulle patologie legate ad una non completa elaborazione del vissuto migratorio in Andolfi M., Haber R., (a cura di), La consulenza in terapia familiare. Una prospettiva sistemica, Raffaello Cortina Editore, 1995. 24 Per il concetto di “lealtà familiare” si veda Boszormenyi-Nagy I., Spark G.M., Lealtà Invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale, Casa Editrice Astrolabio, 1988.

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Una funzione scolastica aggiuntiva diviene anche quella di accompagnare questi studenti

nel delicato processo di integrazione identitaria, per arrivare a restituire agli altri, oltre

che a se stessi, un’immagine di sé positiva ed univoca.

Ragazzi che, a volte, in questo percorso si trovano a dover affrontare non soltanto le

difficoltà legate alla crescita, quelle che hanno anche gli altri bambini ed adolescenti, ma

soprattutto quelle relative all’ambiente sociale di appartenenza.

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L’accoglienza delle diversità nel contesto classe:

quando il buon senso non guasta

“Quando arrivano ragazzi da Paesi lontani, la scuola può accoglierli con molta attenzione alla provenienza

oppure li può accogliere con molta attenzione alla presenza. Sono due sfumature che, portate avanti,

divergono molto. Queste due dimensioni possono essere accettabili entrambe come punto di partenza di un

rapporto ed è importante che chi educa insegnando abbia una formazione e un allenamento per capire qual

è l’avvio di una relazione significativa e costruttiva”.

(Canevaro, 2000).

Fatte le suddette considerazioni, non ci resta che capire come affrontare a scuola bambini e

adolescenti appartenenti alle nostre “colorate” categorie. Non parlerei di linee guida tout

court, piuttosto di pratiche di buon senso che possano agire come facilitatori di accoglienza

per gli stranieri.

Se analizziamo l’etimologia del verbo “accogliere” ci rendiamo conto di come nella nostra

lingua esso contenga varie sfumature: è sia il fornire ospitalità, sia il sentimento con cui

tale “accoglienza” viene offerta, il senso di accettazione ed approvazione che ad essa è

sotteso, come pure il senso dell’inclusione. Significati che in inglese, ad esempio,

convergono su differenti forme verbali: “to receive”, “to accept”, “to contain”.

Se applichiamo tale logica al gruppo classe, ci rendiamo conto che una buona accoglienza

abbia come presupposti il ricevere, l’accettare, e l’offrire inclusione a chi entri a farne

parte. Che esso sia o meno un alunno straniero.

Ciò detto, sarà buona norma privilegiare fin dall’inizio, il lavoro di gruppo.

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Ad esempio, nella messa a punto di regole, quelle che governeranno il microcosmo classe.

Regole esplicite ed esplicitate che chiaramente dovranno essere improntate a quei principi

di inclusione ed accoglienza che abbiamo enunciato essere prioritari. Guidati dagli

insegnanti, fin dai primi anni di scuola, è bene che i bambini apprendano a negoziare delle

regole che favoriscano l’inclusione di tutti i membri, che non prevedano giustificazioni per

chi metterà in atto comportamenti aggressivi o non rispettosi dell’altro. Regole che

comprenderanno anche la modalità più adeguata per la risoluzione dei conflitti.

È importante che i bimbi/ragazzi capiscano che anche se il mondo esterno è spesso teatro

di episodi di intolleranza quando non apertamente di razzismo, nessun atteggiamento di

quel tipo sarà tollerato nel contesto classe.

Le regole del microcosmo varranno per tutti, nel rispetto delle diversità individuali e di

quelle familiari, che non sono solo determinate da un’appartenenza culturale.

Si potrebbe partire da una più ampia riflessione sul concetto di regola/norma per passare

dalle regole scolastiche -che vanno esplicitate poiché non è detto siano universalmente

conosciute da tutti e uguali per chi ha già avuto esperienze di scolarizzazione in altri paesi-

a quelle familiari, un modo per mettere in risalto similitudini e peculiarità culturali da

valorizzare e non da far divenire spunto per rimarcare diversità/esoticità del compagno.

Grazie all’insegnante, si potrà allargare la riflessione sulle regole di convivenza di una

società civile e riflettere su quelle norme -universali25

e di giurisdizione nazionale- che

sono preposte a garantirla. Inoltre, si potrà così evidenziare come ci siano posti del Mondo

in cui tali regole non ci sono o non vengono rispettate. Ragione alla base, spesso, di

forzature ad abbandonare il paese in cui si nasce.

25 Ad esempio, qualche anno fa lavorammo come Crocevia con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con la Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo, verificando, inoltre, come il concetto di “diritto” fosse spesso sconosciuto anche ai ragazzi delle classi di istruzione superiore.

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Fare questo tipo di lavoro consente di inquadrare in una stessa, chiara, cornice sia le cause

che stanno alla base di spostamenti di persone nel mondo, sia le possibili e doverose

modalità di accoglienza che ne conseguono.

Soltanto a questo punto, varie tipologie di lavoro di gruppo potranno essere realizzate sui

paesi di provenienza degli stranieri che si hanno in classe.

Prima di farlo, sarà fondamentale che l’insegnante “sondi il terreno” per capire quali sono

le disponibilità che le famiglie e i ragazzi hanno a tali condivisioni. Si dà a volte per

scontato che si abbia piacere nel raccontare il paese di origine o la propria storia: non

sempre è così.

Per quanto riguarda la fascia dei più piccoli, tale propensione è influenzata dalla

disposizione della famiglia in tal senso. Una curiosità eccessiva potrebbe essere

interpretata con diffidenza, soprattutto da chi è arrivato da poco o da chi è scappato da

situazioni di povertà estrema, conflitti, dittature, eventi difficili o che si ha vergogna a

raccontare.

Mi capita spesso, nel lavoro che compio con i richiedenti asilo e rifugiati politici, di

toccare con mano tali ritrosie e blocchi emotivi; occorrono vari incontri e una certa dose di

fiducia, tutta da guadagnare con fatica, per superarli, malgrado si lavori in un contesto

protetto che è pensato solo per fornire aiuto e si abbia dalla propria parte l’ausilio di un

mediatore culturale (eventualità non sempre possibile, spesso per ragioni economiche, a

scuola).

Ove ci sia una disponibilità alla condivisione, si potranno utilizzare tecniche

narrative/biografiche (ad es., l’approccio etnico-sistemico-narrativo)26

per aiutare i ragazzi

a ricostruire e rinarrare la propria storia. Con modalità orali oppure per iscritto,

raccontandola nel dettaglio nei suoi aspetti reali oppure sublimandoli attraverso un

26 Messo a punto, tra gli altri, da Natale Losi che lo ha utilizzato, ad esempio, con i rifugiati politici e con le vittime di tortura.

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racconto metaforico27

che consenta di esprimere con maggiore leggerezza i contenuti più

pesanti e dolorosi; ma anche ricorrendo a tecniche di espressione non verbale e

“proiettive”, come i collages28

oppure le maschere29

.

Superare la diffidenza delle famiglie straniere risulterà complicato, poiché i

contatti/colloqui con loro sono spesso appesantiti da una non perfetta comprensione della

lingua oppure da chiusure che in alcuni casi sono anche culturali: le madri restano in casa e

a scuola a parlare dei figli non ci vanno, o è bene che non ci vadano, o non ci possono

andare, perché non conoscono nemmeno una parola di italiano.

Da qualche anno a questa parte, tuttavia, non ne viene più messa in discussione l’utilità:

proprio tale cresciuta consapevolezza ha spinto le scuole ad includere sempre le

famiglie30

nel lavoro che si fa con i piccoli alunni (una tendenza che va ben oltre i nostri

confini nazionali).

In particolare, le Linee Guida ministeriali31

, raccomandano: “di instaurare un rapporto di

ascolto con la famiglia per comprenderne specifiche condizioni ed esigenze”.

Tale scelta risulta vincente, malgrado le permanenti difficoltà a coinvolgerle tutte ed in

modo costante. L’ideale sarebbe istituzionalizzare degli incontri di gruppo (anche le Linee

Guida parlano di un calendario), magari guidati da un esperto della tematica che agisca da

facilitatore. Incontri che, va ribadito l’ovvio, dovrebbero coinvolgere anche i genitori

italiani: ancor più difficili da coinvolgere, in base alla mia esperienza. Fare questi gruppi

comuni consentirebbe ai genitori stranieri di non sentirsi “alieni”, sempre sotto la lente di

ingrandimento; a quelli italiani, ove necessario, di smorzare eventuali pregiudizi. Magari

27 Cfr. Caillé P., Rey Y., C’era una volta. Il metodo narrativo in terapia sistemica, Franco Angeli, 1998. 28 Per un approfondimento dello strumento clinico del collage si cfr. de Bernart R., ITFF Firenze. 29 Modalità utilizzata e divulgata dall’Unità Psicosociale e di Integrazione culturale dell’OIM, soprattutto rispetto alle migrazioni forzate e accompagnate da eventi drammatici e luttuosi. 30 Un capitolo delle Linee Guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (Miur 2014), è dedicato proprio al coinvolgimento delle famiglie: “Il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie”. 31 Cit.

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con incontri a tema che approfondiscano argomenti di interesse comune: i bisogni emotivi

di bambini e ragazzi, l’adolescenza, i disturbi emotivi, i disturbi del comportamento

alimentare, l’adozione (che pone un certo numero di sfide e difficoltà sia a chi adotta

italiani, sia a chi adotta stranieri). Argomenti che attirano le attenzioni e le preoccupazioni

dei genitori: che sono tali, a prescindere dalla nazionalità.

Identità in bilico: una complicata gestione delle eredità culturali

I contatti con i genitori dovrebbero essere privilegiati anche per comprendere la visione

che essi stessi hanno del proprio figlio. È importante capire come il bambino viva le sue

origini (e questo, come anticipato, riguarda anche i genitori italiani che si confrontino con

l’adozione internazionale), quanto le accetti come dato di fatto o le valorizzi perché

orgoglioso e fiero, quanto invece le viva come una zavorra, qualcosa che crea imbarazzo o

netto rifiuto. Qualcosa da nascondere, ove possibile.

Le due scelte estreme, di ostentare o occultare le origini, sono entrambi molto comuni,

soprattutto nella fascia dei ragazzi/adolescenti.

La fase dell’adolescenza, per eccellenza la più delicata di tutto il ciclo di vita, espone i

ragazzi con origini straniere a diverse sollecitazioni. Il senso di identità propria è in pieno

sviluppo ed è facile arroccarsi su posizioni estreme.

Da un lato della “rocca” avremo coloro i quali sentono il bisogno di distinguersi oppure di

farsi riconoscere nei loro connotati fisici e culturali: molto spesso si estremizza un credo

religioso diventandone fanatico32

oppure l’appartenenza ad un gruppo etnico “sposando”

gli aspetti distintivi, anche negativi, che esso incarna. Pensiamo a quanto sia facile

32 Ci è restato molto impresso un giovane pachistano che ostentava la religione musulmana e i suoi precetti più rigidi che pedissequamente seguiva, limitando al minimo i contatti con chi stava al di fuori del suo “clan” familiare e nazionale.

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raggrupparsi in “bande” giovanili, caratterizzate nel nome dal luogo di provenienza33

e da

una certa propensione per l’illegalità. Modalità comportamentale utilizzata per arginare le

situazioni di marginalità e povertà nelle quali spesso vivono ma anche per ostentare la

propria forza, da “sbattere sul muso” a chi di loro pensa che siano solo dei perdenti.

È quello che sta accadendo nel Nord Italia con le bande originarie del Sud-America, les

pandillas34

per esattezza, che gestiscono il mercato dello spaccio a Genova e Milano, ad

esempio. A Genova, in particolare, queste bande si autodefiniscono gang-nazione, “perché

il cordone ombelicale -il paese di provenienza- è presente in ogni azione e nei riti”. Riti

che riguardano le illegalità commesse ma anche le modalità con cui vengono compiute

(mazze da baseball, coltelli).

Non sempre e non necessariamente il desiderio di distinguersi passa attraverso l’adesione a

valori negativi. A volte si fa gruppo scegliendo un certo tipo di musica oppure di

espressione artistica: è il caso dell’hip-hop35

molto in voga tra i giovani in questo momento

storico, come pure dei graffiti. Espressioni artistiche che ebbero origine proprio nei ghetti

degli USA, come unica forma di linguaggio consentito alle minoranze. Su un “terreno di

disgregazione sociale (isolamento negli spazi urbani, distruzione della cellula familiare,

violenza e mercato della droga, legittimazione culturale della segregazione razziale…)” e

di “riscoperta della negrité”, valore ostentato con orgoglio per restituire “il grido

dimenticato della stiva” alla memoria collettiva36

. Benché tale elemento storico non sia

sempre rintracciabile nelle vicende personali dei nostri giovani (situazioni di marginalità

estrema, non ancora paragonabili a quelle dei ghetti americani o delle banlieues parigine,

riguardano al momento solo le grandi città), non di meno il potere di tali contenuti musicali

funge da richiamo per chi prova in sé sentimenti di rabbia forte da riversare contro quella

33 Alcune bande sono state “importate” al pari di prodotti tipici e tradizioni culinarie. 34 Cfr. R’E le inchieste, “I gangster ragazzini del Sudamerica nelle strade di Genova e Milano”, 23/11/11. 35 Cfr. Bazin H., La cultura hip hop, Besa- Astrolabio 2007. 36 Ibidem.

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società e cultura dominante che molto spesso li lascia ai margini e non offre loro le stesse

occasioni dei propri coetanei. Per inciso, le rivolte delle banlieues parigine37

, seppur non

frequentissime, sono sempre partite da morti violente e non hanno potuto che segnalare il

fallimento della politica ad interloquire con questi giovani emarginati le cui “aspirazioni

(sono) frustrate dall’incapacità del sistema educativo e formativo di organizzarne

l’inserimento sociale ed economico”. La sottocultura dell’hip hop è, dunque, diventata

quella che consente ai giovani francesi di seconda generazione di superare proprio la

richiesta di integrazione tra due culture tra le quali non si sente più la necessità di scegliere

ma che vengono sentite parimenti proprie: “i figli di immigrati, nati per la maggior parte in

Francia, non si pongono più il problema di dover scegliere tra due culture (…) al contrario,

essi rivendicano il diritto all’inserimento sociale su basi egualitarie senza tuttavia

abbandonare la loro specificità culturale”38

.

Porrei grande attenzione a tali considerazioni, visto che anche in Italia le seconde

generazioni (G2) iniziano a far sentire la propria voce e a rivendicare con forza i propri

diritti.

Riprendendo il filo del nostro discorso, dall’altro lato della “rocca” avremo coloro i quali

cercano di mimetizzarsi tra gli italiani, ostentando una perfetta padronanza della lingua39

,

che imparano ad utilizzare nelle sue forme più forbite, utilizzando lenti a contatto colorate

che “mitighino” il colore di pelle olivastra, truccandosi più del dovuto per nascondere

quell’incarnato bianchissimo che richiama l’est europeo da cui si proviene, ribellandosi

all’uso del velo e vestendosi “all’occidentale”.

Ragazzi che tendono ad autodefinirsi “italiani” oppure “cittadini del mondo”, pur di non

essere collegati al paese di origine.

37 Ricordiamo gli episodi piuttosto violenti partiti da Clichy-sous-Bois nel 2005. 38 Cfr. Bazin H., cit. 39 Ci è capitato di osservarlo soprattutto nei licei.

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Secondo Mancini40

una parte dei preadolescenti stranieri che vive in Italia sceglie di

controbattere alle minacce identitarie derivanti dalla posizione subordinata riconosciuta al

proprio gruppo etnico e dagli atteggiamenti negativi che la società esprime nei loro

confronti, assimilandosi alla cultura ospitante e cercando di nascondere a se stessi e agli

altri la propria origine etnica. “Le strategie utilizzate da tali minori comportano un

tendenziale abbandono -spesso più “mentale” che reale- dei propri gruppi d’origine e

tendono di fatto a coincidere con quella modalità di rapporto con la cultura autoctona che i

teorici dell’acculturazione definiscono assimilazione”41

.

Non sarà facile capire quando tali comportamenti siano solo una “fase di passaggio”,

quella necessaria rottura con i modelli proposti dalla famiglia di origine per arrivare a

costruire un’identità propria, oppure quando dietro ad essi si celi una patologia vera e

propria, un disturbo dell’immagine di sé ad esempio. Come pure non sarà facile capire

quanto dietro all’impegno ad eccellere nella padronanza della lingua e nel rendimento

scolastico si celino forme di ansia patologica.

Il compito dell’insegnante sarà osservare e dare ascolto a questi ragazzi fragili e agli

eventuali disagi che essi, anche involontariamente, mostrino per poter segnalare a chi di

dovere le situazioni limite che si dovessero incontrare.

L’attenzione degli psicologi è ormai alta, in tal senso. Il centro Shinui di Bergamo, ad

esempio, da anni attiva progetti di intercultura in ambito scolastico che hanno sì l’obiettivo

di favorire lo scambio e la comunicazione42

per favorire l’integrazione degli alunni

stranieri ma anche quello di accogliere il disagio psicologico con percorsi individualizzati,

40 Mancini T., Le appartenenze etnico-culturali e l’identità, in G. Giovannini (a cura di), Ragazzi insieme a scuola. Una ricerca sui percorsi di socializzazione di studenti stranieri e italiani nelle scuole medie di Modena, Homeless Book, 2001. 41 In Valtolina G.G., Aspetti psicologici dei percorsi di agio e disagio: la problematica identitaria e il benessere relazionale, in Giovannini G., (a cura di), La condizione dei minori stranieri in Italia, Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca - Fondazione Ismu. 42 Il titolo del progetto realizzato nelle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado nell’annualità 2013-2014 è “Incontriamoci”

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alla cui base si colloca proprio una stretta sinergia tra insegnanti e psicologi: “sono gli

insegnanti che raccontano ciò che vedono e che portano la sensazione dell’esistenza di un

disagio di un singolo alunno o del gruppo classe. La segnalazione può evidenziare

difficoltà in più ambiti, non escludentisi tra loro: le relazioni (anche familiari, ma

ovviamente non solo), la frequenza scolastica, gli apprendimenti, la socializzazione, lo

svolgimento dei compiti scolastici”43

. Un aspetto molto interessante di tale sinergia

riguarda la costruzione condivisa di indicatori che possano segnalare le difficoltà: è bene

che gli psicologi mettano a disposizione degli insegnanti parte delle loro conoscenze per

arrivare al comune obiettivo di identificare tempestivamente le situazioni su cui

intervenire. Per poi, in un primo momento, ragionarne insieme, attraverso una lettura

sistemica del disagio e del contesto in cui esso hanno preso forma.

Ricorrere ancora all’epistemologia sistemica ci consente di operare una lettura batesoniana

del contesto come “matrice di significati”44

: i comportamenti, tanto più se devianti oppure

patologici, possono essere compresi soltanto nel contesto in cui si attualizzano; i “sintomi”

hanno sempre un significato relazionale, per cui non basta focalizzarsi solo sul loro

contenuto (di cosa si tratta) ma sarà necessario prendere in esami i più ampi aspetti

relazionali45

che essi veicolano. Aspetti che possono riguardare allo stesso tempo il

gruppo-classe oppure il sistema familiare.

“I riferimenti all’epistemologia sistemica aiutano l’équipe a formulare delle ipotesi che

riescano a dare senso al disagio segnalato, e che tengano conto del percorso migratorio che

la famiglia ha svolto o sta vivendo. Spesso il segnale dato dal figlio e dall’alunno, ha

qualcosa a che fare con il ruolo da esso giocato all’interno della famiglia e negli altri

contesti di vita, tra cui la comunità di appartenenza. Riuscire a co-costruire con la famiglia,

43 Per una descrizione analitica di tale progetto si rinvia al sito www.shinui.it 44 Cfr. Bateson G., cit. 45 Il termine tecnico è “vantaggio secondario” del sintomo che, molto spesso, sottende alla paura di cambiamenti e serve a mantenere lo status quo, bloccando il ciclo evolutivo dell’individuo o dell’intero sistema-famiglia.

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con gli insegnanti e con gli operatori delle ipotesi dall’interno, e a condividere poi delle

azioni che possano agire sul sistema, diventa un lavoro di rielaborazione, di presa di

consapevolezza rispetto agli aspetti della storia della famiglia e dell’alunno. Ciò consente

di attribuire un significato diverso a quello che normalmente potrebbe essere letto solo

come un’anomalia rispetto all’andamento generale della classe. L’alunno, quindi, viene

visto come risorsa, perché il significato che può avere il suo comportamento può essere

letto come significato relazionale all’interno delle dinamiche di classe, oltre che all’interno

del sistema familiare”.

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Conclusioni

Aver introdotto la differenza tra aspetti di contenuto e aspetti di relazione46

che ogni

messaggio veicola, ci consente di riflettere su come degli aspetti di contenuto ci si sia

preoccupati esclusivamente nei primi anni in cui si è parlato di alunni stranieri: la priorità,

come ricordato, era comprenderli e farsi comprendere. Se attualmente ci si è interessati di

più a considerare la rilevanza assunta dagli aspetti di relazione (tra alunni stessi, tra alunni

ed insegnanti, tra insegnanti, dirigenti scolastici e famiglie…) è stato soprattutto grazie alle

nuove acquisizioni della psicologia applicativa. È stato dimostrato, soprattutto in ricerche

di matrice americana, come esistano delle variabili intermedie, mediatori e moderatori

psicologici, che influenzano l’apprendimento scolastico. In particolare, la “disparità nei

risultati raggiunti a scuola da alunni che hanno differenze etniche o razziali”47

, sulla quale

si ritiene necessario intervenire al fine di ridurla. Molto spesso tali disparità di

apprendimento si correlano a differenze di trattamento, sono la conseguenza di

discriminazioni effettuate, in modo più o meno intenzionale, da insegnanti, educatori, altri

studenti. A volte si tratta di atteggiamenti eclatanti, a volte di velate allusioni, veicolate da

una malcelata aggressività di fondo, da commenti apertamente razzisti oppure da

atteggiamenti paternalistici, tutti tesi a stigmatizzare lo straniero.

Ne voglio parlare esplicitamente, poiché non è affatto vero che l’Italia non sia un paese

razzista. Ancor meno lo è nell’attuale momento storico di durezza della crisi economica,

che colpisce molte famiglie italiane prima ancora che relegare a situazioni di marginalità

socio-economica soltanto gli stranieri.

46 Cfr. Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie, dei paradossi, Astrolabio 1978. 47 American Psychological Association (a cura di), Ethnic and Racial Disparities in Education: Psychology’s Contributions to Understanding and Reducing Disparities Presidential Task Force on Educational Disparities (2012).

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Il ruolo della psicologia diventa, a tal punto, fondamentale poiché consente di rafforzare le

relazioni interpersonali, di far leva sui sistemi motivazionali, di rinforzare gli aspetti

cognitivi, linguistici, e le caratteristiche di identità sociali connessi ad eventuali disparità

educative riservate alle minoranze.

Lo si può fare attraverso programmi basati sull’apprendimento di abilità sociali48

, abilità

cognitive, emotive e relazionali di base il cui ruolo è stato dimostrato essere fondamentale

per rispondere alle sollecitazioni della vita: vale per tutti, italiani e stranieri. Tra queste

abilità annoveriamo l’empatia, la comunicazione efficace, la capacità di prendere decisioni

e quella di problem solving, la gestione delle emozioni e dello stress, l’autostima,

l’autoconsapevolezza (che per uno straniero significa rispondere al “chi sono io?” ma

anche al “di che gruppo faccio parte? Chi sono io in questo contesto sociale?”).

Un percorso di presa di coscienza personale che per lo straniero significa anche divenire

consapevole dei pregiudizi di cui può diventare oggetto. Proprio alcuni studi in contesto

americano hanno evidenziato come tale consapevolezza sia ormai in crescita anche tra i

bambini49

. Si tratta soprattutto delle forme “manifeste” di aggressività razziale, forme

plateali che per loro sono più facilmente identificabili, rispetto agli adolescenti che hanno

invece la capacità di identificare anche le forme più sottili di razzismo.

Parlare di pregiudizi in ambito scolastico è solo uno dei modi che negli anni è stato scelto

per neutralizzarli. Non basta e non basterà. Abbiamo capito che le sfide che i bimbi

stranieri rappresenteranno per i loro insegnanti saranno molte di più. Ma anche le

opportunità di crescita individuale, collettiva e reciproca se si troverà il modo di

valorizzare tali presenze e arginare e offrire fin da subito risposte chiare a disagi manifesti

o latenti. Soprattutto offrendo un ascolto professionalizzato, di tipo psicologico o

psicoterapico, ove necessario.

48 Per una descrizione del modello delle Life Skills si confronti l’OMS (1994). 49 Cfr. McKown & Weinstein, The Development and Consequences of Stereotype Consciousness in Middle Childhood, 2003.

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L’AQUILA

ISTITUTO COMPRENSIVO “MAZZINI-PATINI”

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Lo si potrà fare in mille modi, purché lo si faccia in gruppo, in relazione, in quella

valorizzazione di competenze che risulterà sempre vincente. In qualunque campo

dell’ecologia della mente50

.

50 Bateson G. (cit.)

Progetto cofinanziato da

UNIONE

EUROPEA

Fondo Europeo per l’Integrazione di Cittadini di Paesi Terzi 2007-2013 Programma annuale 2012 – Azione 5

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www.apa.org

www.arci.it

www.caritas.it

www.cestim.org

www.interculturatorino.it

www.miur.it

www.romaintercultura.it

www.shinui.it

www.secondegenerazioni.it

Sul social Facebook: La Rete G2- seconde generazioni

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Corriere delle migrazioni

Italianipiu.it