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1 PUBBLICAZIONI DELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA CXLIV MARCELLO MARIA FRACANZANI IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA NELLA DOTTRINA DELLO STATO

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PUBBLICAZIONI DELLA FACOLTÀ DI

GIURISPRUDENZA

DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA

CXLIV

MARCELLO MARIA FRACANZANI

IL PROBLEMA

DELLA

RAPPRESENTANZA NELLA DOTTRINA DELLO STATO

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INDICE

PREMESSA

p. 1

.I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

.I.1. Posizione del problema e questioni di metodo INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA NELLE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA NEL COGLIERE LA

DEFINIZIONE DI RAPPRESENTANZA POLITICA – RICOGNIZIONE DELLO STATUS QUESTIONIS

ATTRAVERSO LA DISAMINA DEI CONTRIBUTI PIÙ E MENO RECENTI IN MATERIA: DISTINZIONE

TRA LA POSIZIONE CHE ASSEGNA LA PREMINENZA AL SISTEMA O AL MOMENTO ELETTORALE E

LA POSIZIONE CHE RICERCA UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO – POSIZIONE PROVVISORIA

DELL’ALTERNATIVA TRADIZIONALE TRA RESPONSABILITÀ / INDIPENDENZA DELL’ELETTO

VERSO GLI ELETTORI: INSUFFICIENZA – NECESSITÀ DI UNA RIFLESSIONE RADICALE: PROPOSIZIONE DEL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER IDENTITÀ E DIFFERENZA, NON

CONTRADDIZIONE E TERZO ESCLUSO – CONTINUITÀ E DIFFERENZE CON LA DOMMATICA

TRADIZIONALE – CONCLUSIONE: INDIVIDUAZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO

COME ELEMENTO RITENUTO CARATTERIZZANTE NELLE DIVERSE POSIZIONI DOTTRINALI E

CONSEGUENTE SUA CENTRALITÀ NELL’INDAGINE.

p. 5

.I.2. La struttura della rappresentanza: tentativo di enuclearne il concetto PREMESSA: QUATTRO ACCEZIONI LINGUISTICHE DEL TERMINE “RAPPRESENTANZA”: RIPRODURRE, SIMBOLEGGIARE, MANIFESTARE, SOSTITUIRE – CONFRONTO CON LA DOTTRINA

TEDESCA: VERTRETUNG E DARSTELLUNG – IL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER ASTRAZIONE:

POSIZIONE DI LOCKE, BERKELEY, HUME E LEIBHOLZ SULL’IMPOSSIBILITÀ DI RICONOSCERE IL

CONCETTO SENZA FARE RIFERIMENTO ALL’ARCHETIPO – CRITICA E NEGAZIONE –

INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE STATUNITENSI DI ACTING FOR E STANDING FOR -

DISTINZIONE PLATONICA TRA EIKÒN E FÀNTASMA: LA FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA DI

IMMAGINE COME TRATTO INELUDIBILE DEL RAPPRESENTANTE – IL DUALISMO COME

CARATTERE ESSENZIALE DELLA RAPPRESENTANZA E SUA DIFFERENZA CON IL NUNCIUS –

INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA CON IL MONISMO

DELL’UNICITÀ QUALE STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ, CARATTERE SPECIFICO DELLO STATO

MODERNO – CONCLUSIONE: NECESSITÀ DI VERIFICARE GLI ASSUNTI ENUCLEATI.

p. 31

.I.3. Le tèknai della rappresentanza

- .I.3.1. La teoria del mandato Introduzione delle categorie di “situazione”, come posizione del rappresentante verso i terzi,

e di “rapporto”, come relazione tra rappresentante e rappresentato – La capacità di manifestazione

della volontà giuridicamente rilevante come spettro della personalità: posizione e rinvio – Distinzione tra mandato e rappresentanza ai fini della ricerca – La responsabilità come misura e garanzia del

dualismo – Funzione di reductio ad unum del mandato: da due soggetti ad una volontà.

p. 61

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- .I.3.2. La teoria dell’interpretazione ESSENZIALE MONISMO STRUTTURALE DELLA TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE - SUO

PRIVILEGIARE ESCLUSIVAMENTE IL MOMENTO DELLA SITUAZIONE RAPPRESENTATIVA

OBLIANDO IL RAPPORTO DEL RAPPRESENTANTE CON IL RAPPRESENTATO – SUA CONFORMITÀ

ALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – CONSEGUENTE RIDUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA

A CONSAPUTA FICTIO JURIS – TENTATIVO DI SUPERARE LA DICOTOMIA MANDATO / INDIPENDENZA CON LE CATEGORIA DI ACTING FOR E STANDING FOR: CRITICA E NEGAZIONE.

p. 71

- .I.3.3. Rappresentanza, conoscenza, decisione: le ragioni delle

difficoltà della rappresentanza Premessa: rapporto tra procedura di costituzione dell’assemblea e sue funzioni – Possibilità

di differenti concetti di rappresentanza in dipendenza dalle funzioni svolte come rapporto tra struttura

e funzione: critica e negazione – Necessità di individuare un concetto di rappresentanza non condizionato dallo scopo applicativo - Filosofia teoretica, pratica, poietica – Articolazioni classiche e

monolitismo moderno – Conclusione: rapporto tra essere e volontà.

p. 80

.II. DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

.II.1. Dal Contratto all’Enciclopedia

- .II.1.1. Collegio perfetto e delega Costruzione della non delegabilità delle funzioni politiche: limiti e critica – Necessaria

partecipazione all’assemblea per il riconoscimemto del deliberato (la legge) come volontà generale –

Impossibilità di formazione di volontà rilevanti in un momento precedente la discussione assembleare – Conseguente necessità di assemblea in forma totalitaria – Difficoltà di ottenerla in Stati di grandi

dimensioni od in società a capitale altamente frazionato – Stato federale e principio di sussidiarietà:

posizione del problema e rinvio.

p. 87

- .II.1.2. Delega e rappresentanza virtuale TEORIA DELL’INDIVIDUAZIONE DEI RAPPRESENTANTI IN DIPENDENZA DELLE LORO CAPACITÀ

TECNICO SCIENTIFICHE: CRITICA E RINVIO – TEORIA FISIOCRATICA DELLA DELEGA DEL

GOVERNO AI SOGGETTI CHE HANNO IL PROPRIO INTERESSE MAGGIORMENTE CONNESSO CON

LA PROSPERITÀ PUBBLICA: GRANDI PROPRIETARI – NECESSITÀ DI TEMPERARE TALE DELEGA

CON L’INCARICO ANCHE A SOGGETTI ILLUMINATI: FUNZIONARI PUBBLICI E STUDIOSI –

CRITICA E RINVIO – CONCLUSIONE: LA COSTRUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA VIRTUALE E

LO SPEECH DI BURKE.

p. 107

.II.2. Mandato imperativo, mandato limitativo, mandato libero, nessun

mandato PREMESSA: NECESSITÀ DI RICOSTRUIRE L’INTRODUZIONE POSITIVA DEL DIVIETO DI MANDATO

IMPERATIVO – IL MANDATO IMPERATIVO NEI CAHIERS DE DOLEANCES – TEORIA DEL

MANDATO LIMITATIVO: DEFINIZIONE DI COLLEGIO ELETTORALE, DI DEPUTATO, DI MANDATO

– NULLITÀ DEI MANDATI IMPERATIVI NEI CONFRONTI DELL’ASSEMBLEA, LORO

OBBLIGATORIETÀ NEI CONFRONTI DEGLI ELETTORI - AMMISSIBILITÀ DEI MANDATI

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LIMITATIVI: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE – PRIMA DISTINZIONE TRA MANDATI DI

DIRITTO PUBBLICO E MANDATI DI DIRITTO PRIVATO – PROPOSTA DI ANNULLAMENTO DEI

MANDATI IMPERATIVI: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUENTE SUL POTERE COSTITUITO -

TEORIA DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUITO SUL

POTERE COSTITUENTE – LA SFERA E LA LEGGE: DIMOSTRAZIONE DELLA FINZIONE DELLA

RAPPRESENTANZA DOPO L’INTRODUZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: REAZIONI

E CRITICHE – CONCLUSIONE: LA CONSACRAZIONE DEL DIRITTO POSITIVO.

p. 123

.II.3. Giuspubblicistica tedesca e Destra hegeliana

- .II.3.1. Die Epigonen PREMESSA: RIPROPOSIZIONE DI TEMI HEGELIANI ATTORNO AI FONDAMENTI DELLO STATO –

PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ FRA CITTADINO E STATO IN CAMPO PUBBLICO –

CONSEGUENTE REIEZIONE DEL CONTRATTUALISMO… - SEGUE: SOTTRAZIONE DELLA

FORMAZIONE DELLO STATO ALLA VOLONTÀ DEI SINGOLI E SUO FONDAMENTO SULLA

NECESSITÀ… - SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE COME CRISTALLIZZAZIONE DEL

VOLKSGEIST… – SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI REGOLAMENTO E DI ATTO

AMMINISTRATIVO: LA FIGURA DELL’INTERESSE LEGITTIMO: RINVIO – L’EINZELNER WILLE

COME CONDIZIONE PER GARANTIRE L’EINHEIT DER RECHTSORDNUNG – STATO ETICO ED

ETICA DELLO STATO – IL RUOLO DELLA SOVRANITÀ – CONCLUSIONE: DAL

PROFESSORENRECHT AL VOLKSRECHT: IL RUOLO DELLA STORIA.

p. 161

- .II.3.2. Die Juristen PREMESSA: RECEZIONE DEI TEMI HEGELIANI E LORO COLLOCAZIONE A FONDAMENTO DEL

DIRITTO PUBBLICO DA PARTE DEI PRIMI STAATSLEHRER – PREMINENZA DEL DIRITTO PUBBLICO

SUL DIRITTO PRIVATO PER LO STUDIO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO – IMPORTAZIONE DEL

METODO DOGMATICO DAL DIRITTO PRIVATO AL DIRITTO PUBBLICO – NECESSARIA IDENTITÀ

DI VOLONTÀ IN CAMPO PUBBLICO TRA CITTADINO E STATO: COSTITUZIONE DI UN’UNICA

PARTE IN SENSO FORMALE E PROCESSUALE – RAPPRESENTATIVITÀ NECESSARIA DI OGNI

ORGANO DELLO STATO IN QUANTO TALE – LEGAMI ED ASSONANZE TRA LE POSIZIONI

TEMATIZZATE DA ERDMANN E LE COSTRUZIONI GIURIDICHE PROPOSTE DA GERBER –

CONCLUSIONE: CEDIMENTO DI GERBER NELL’AMMETTERE UN SINDACATO DIRETTO DEL

POPOLO SULL’OPERA DEGLI ORGANI DELLO STATO E CONSEGUENTE CONTRADDIZIONE CON

L’ASSUNTO INIZIALE DELLA PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ TRA CITTADINO E STATO.

p. 203

- .II.3.3. Volere è essere: Paul Laband PREMESSA: RADICI HEGELIANE NELL’OPERA DI LABAND - NEGAZIONE DEL CARATTERE

RAPPRESENTATIVO IN SENSO GIURIDICO DEL REICHSTAG – IRRILEVANZA DEL MOMENTO

ELETTORALE - RAPPRESENTANZA E DIVISIONE DEI POTERI – RAPPRESENTATIVITÀ DEL KAISER

– DEDUZIONE DELL’ESISTENZA DI UN SOGGETTO (IL POPOLO) DALLA SUA CAPACITÀ DI

ESTERNARE ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTI: LA VOLONTÀ COME SPETTRO

DELLA PERSONALITÀ – CONCLUSIONE: RETTIFICHE E MUTAMENTO DI PROSPETTIVA

NELL’ULTIMA PARTE DELL’OPERA DI LABAND. 231

p. 231

- .II.3.4. Essere è volere: Georg Jellinek

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PREMESSA: IL POPOLO COME ORGANO PRIMARIO DELLO STATO: CAPOVOLGIMENTO DELLA

COSTRUZIONE LABANDIANA ED IMPUTAZIONE DI ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE

RILEVANTI IN CAPO A SOGGETTI REALMENTE ESISTENTI… - SEGUE: CONSEGUENZE IN ORDINE

AL SYSTEM DER SUBJEKTIVEN ÖFFENTLICHEN RECHTE… - SEGUE: CONSEGUENZE NEL TEMA

SPECIFICO DELLA RAPPRESENTANZA – CONCLUSIONE: VERIFICA DEI PRESUPPOSTI HEGELIANI

NELLA COSTRUZIONE DI JELLINEK, LORO SUSSITENZA E CONSEGUENZE.

p. 242

- .II.3.5. Questioni di sovranità. Premessa: necessità di verificare l’entità dell’influsso delle posizioni tedesche nella

riflessione italiana – Il concetto di sovranità popolare come idoeno piano di riscontro di tale influsso e

come ipotesi per consentire la rappresentanza del popolo – Il problema della coesistenza di personalità

(e sovranità) dello Stato con la dichiarata sovranità popolare – Tesi del popolo come organo sovrano dello Stato… - Segue: come collettività autarchica di fronte allo Stato… - Segue: come titolare di una

parte della sovranità dello Stato… - Segue: come titolare esclusivo della sovranità esercitata in modo

diretto ed in modo indiretto tramite lo Stato… - Segue: identificazione del popolo con lo Stato comunità e sua contrapposizione allo Stato apparato – Rappresentanza del primo nel secondo –

Riconoscimento del principio di responsabilità come elemento essenziale per la rappresentanza: la

responsabilità dello Stato apparato nei confronti del popolo – Conclusioni: riconosciuta necessità di rivedere il concetto di sovranità - Posizione di Crisafulli, Crosa e Tosato.

p. 254

.III. SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E

RAPPRESENTANZA

.III.1. Sulla applicazione della rappresentanza all’ambito pubblico Premessa: teoria della distinzione tra “rappresentanza giuridica” e “rappresentanza politica”:

- Elementi della prima: presenza di due soggetti determinati o determinabili; astratta

fungibilità del ruolo di rappresentante e rappresentato; pretesa necessità di spendita del nome del rappresentato; …e caratteristiche della seconda: pretesa indeterminabilità del

rappresentato; insuscettibilità del rappresentato di assumere il ruolo di rappresentante;

assenza della spendita del nome del rappresentato - Esame e critica: sull’indeterminabilità del rappresentato e sul concetto giuridico di “parte” – Il ruolo delle elezioni nella distinzione:

carattere fittizio della rappresentanza plasmata sul modello labandiano una volta rimossi i

presupposti (pseudohegeliani) di quell’Autore – Rapporti tra rappresentanza e potere politico e tra rappresentanza e diritto: critica e rinvio – Rapporti tra rappresentanza politica ed

interesse generale: ruolo del divieto di mandato imperativo e rinvio.

p. 271

.III.2. Diritto dell’eletto a rappresentare e diritto ad agire PREMESSA: TEORIA DEL “LIBERO MANDATO PARLAMENTARE” COME DIRITTO SOGGETTIVO

DELL’ELETTO: LIMITI E CRITICA – DISTINZIONE DEL DIRITTO DELL’ELETTO AD AGIRE DAL

DIRITTO A RAPPRESENTARE – CORRELATIVA POSIZIONE GIURIDICA SOGGETTIVA DEL DOVERE

DELL’ELETTO DI RAPPRESENTARE – RISCONTRO: IL PROBLEMA DELLE VARIANTI AL P.R.G. ED

INCOMPATIBILITÀ DEI CONSIGLIERI COMUNALI NEI RECENTI ORIENTAMENTI

GIURISPRUDENZIALI – SOLUZIONI PROSPETTATE DALLA PRATICA ED OSSERVAZIONI CRITICHE:

LA RICHIESTA PREVENTIVA DI NOMINA DEL COMMISSARIO AD ACTA - INAMMISSIBILITÀ DI UNA

VALUTAZIONE EX ANTE DA PARTE DELL’ORGANO SOSTITUENDO – SEGUE: LA

“PARCELLIZZAZIONE” DELLA VARIANTE - CONTRASTO CON LA NATURA GENERALE

DELL’ATTO PROGRAMMATORIO – SEGUE: LA DELIBERAZIONE IN SECONDA CONVOCAZIONE –

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L’ADOZIONE DELL’ATTO DA PARTE DI QUATTRO CONSIGLIERI – RAPPORTI CON LA NOMINA

DEL COMMISSARIO AD ACTA – SPUNTI RICOSTRUTTIVI – ESPERIBILITÀ DI AZIONI A TUTELA

DEL DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO - DIFFICOLTÀ

NELL’INDIVIDUAZIONE DELLE RELATIVE GARANZIE E RINVIO.

p. 287

.III.3. Diritto dell’elettore ad essere rappresentato Premessa: correlazione tra funzione rappresentativa ed esercizio del potere – Correlazione

(ulteriore) tra rappresentanza e sovranità - Distinzione tra rappresentanza popolare e

rappresentanza nazionale – Correlazione tra funzione rappresentativa e controllo sull’esercizio del potere - La minoranza come garanzia di rappresentanza: limiti e critica –

Rapporti tra rappresentanza, corporazione, sindacato di voto – Distinzione tra rappresentanza

e negotiorum gestio – Distinzione tra sovranità e potestà di imperio (Herrschaft) - Centralità dell’indagine suelle situazioni giuridiche soggettive di rappresentato e rappresentante:

concetti tradizionali e principi ricostruttivi – Possibilità di concepire la rappresentanza come

interesse legittimo: enucleazione della posizione dell’interesse legittimo in deduzione dei principi tematizzati dagli Epigonen – Possibilità di concepire la rappresentanza come diritto

soggettivo: concezione del diritto soggettivo come spazio di signoria della volontà del titolare

e correlativa definizione del dovere come luogo della soggezione: loro derivazione dalla struttura della sovranità – Possibilità di concepire la rappresentanza come facoltà: lo spazio

giuridicamente vuoto e le lacune dell’ordinamento – Incompatibilità della struttura monista

della sovranità con la struttura dualista della rappresentanza – Conseguente incompatibilità delle tradizionali definizioni delle situazioni giuridiche soggettive, mutuate sulla sovranità,

con l’esercizio della rappresentanza – Particolare rilevanza per la teoria dei diritti pubblici

soggettivi – Conclusione: principi ricostruttivi e proposte.

p. 321

1 CONCLUSIONE

p. 421

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PREMESSA

Le difficoltà pratiche che emergono dall’esperienza giuridica sono

spesso indicative di sottostanti nodi teoretici non risolti, ai quali non può

far fronte il solo momento del diritto positivo se non preceduto da un atto

di fronesis.

Che la rappresentanza costituisca un problema per la dottrina dello

Stato moderno è osservazione talmente ripetuta da poter risultare scontata.

Meno frequente è imbattersi in chi, tra coloro che tentano di ovviare al

problema, per trovarvi la soluzione sia disposto ad indagarne le recondite

radici teoriche. Qui, senza la pretesa di fornire soluzioni definitive, si

cercherà di capire perché la rappresentanza costituisca un problema per lo

Stato moderno e per lo studio a guisa di dottrina che su di esso si è

edificato. L’ambito (e l’ambizione) è, pertanto, duplice: la rappresentanza

nella struttura dello Stato ed in quel particolare approccio epistemologico

che lo ha studiato a mo’ di teologia secolarizzata.

In questo senso, conviene esporre fin da subito, nei termini più

chiari, la tesi che si intende sostenere: in tema di rappresentanza politica la

struttura logica del concetto contrasta con la sua attuale regolamentazione

giuridica, cioè la rappresentanza è incompatibile con il divieto di mandato

imperativo; quest’ultimo istituto, per parte sua, risulta essere il prodotto di

dimenticati presupposti teorici scaturiti, per un verso, dalla Rivoluzione

francese e, per un altro, dalla giuspubblicistica tedesca sulle spalle della

Destra hegeliana; presupposti dai quali la riflessione odierna dimostra di

essersi affrancata, ripudiandoli, seppure con pervicacia ne mantiene

ancora in vita il prodotto giuridico, che risulta essere così d’inciampo in

quanto simulacro di una concezione dello Stato ormai (apparentemente)

superata. Non è un caso che, a partire dalla metà del Novecento, i più

attenti Staatslehrer, così come diversi esponenti della dottrina

pubblicistica italiana degli ultimi decenni, parlino del divieto di mandato

imperativo al modo di un’autentica finzione; finzione che, una volta

smascherata e svelata ai sudditi, perde anche la sua valenza operativa di

convincimento sui consociati, imponendo una riflessione più radicale, non

fosse altro che per por rimedio alla disaffezione nei confronti di ciò che

viene ormai visto come un vuoto simbolo.

Qual è la situazione giuridica soggettiva dei rappresentati? E quale

quella dei rappresentanti? Quali doveri ha l’eletto nei confronti dei propri

elettori, al di là del divieto di mandato imperativo? Lo scopo propostoci è

dunque quello di indagare la struttura logica, prima che giuridica, propria

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della rappresentanza e di confrontarla con la struttura dello Stato

moderno, per verificarne la compatibilità teorica e la possibilità di

concreto funzionamento. L’esame potrà essere utile anche al fine di

ripensare quegli istituti che, da due secoli più o meno tralatiziamente ed

acriticamente recepiti, tuttora presiedono alla partecipazione dei governati

nella direzione delle comunità politica, sia essa quella più ampia, sia essa

quella degli enti minori (territoriali e non), fino a quelle associazioni come

partiti e sindacati che, pur regolate dal diritto privato, esplicano un ruolo

incisivo nell’ambito pubblico, veicolando, in sostanza, la formazione della

legge come dei regolamenti. E si potrà valutare se ed in quale misura

questi istituti concorrano ad assicurare la politicità e la positività

dell’ordinamento giuridico intesi come il momento di individuazione del

bene comune e della predisposizione dei mezzi per il suo perseguimento.

Certi che ogni intervento del legislatore, come atto di volontà, è destinato

ad essere frustrato se non accompagnato da un momento di consapevole

riflessione critica; giacché la pretesa onnipotenza della legge rischia di

portare disordine o di rimanere lettera morta ove diriga il proprio volere al

di fuori e in contrasto con la “prudenza regia” raccomandata da Platone.

Con questi intendimenti la ricerca si snoderà su tre filoni.

In primo luogo –dopo aver censito gli strumenti logici di cui ci si

intende valere, il metodo, anzi, l’approccio conoscitivo che si vuole

adottare- si indagherà la struttura logica propria della rappresentanza, al di

là dell’ambito di applicazione tra pubblico e privato (nei limiti in cui

siffatta distinzione può essere utile e non foriera di equivoci). Poi, nella

Francia rivoluzionaria, si ricostruirà il dibattito teorico giuridico (primo ed

unico in tutte le assemblee costituenti ove poi è stato recepito l’istituto)

che ha portato all’introduzione del divieto di mandato imperativo,

consentendone l’esportazione incondizionata in pressoché tutti gli

ordinamenti. Si verificherà così la (in)compatibilità di questo istituto con

la rappresentanza, sia nel momento strutturale (essenzialmente dualista,

come si dirà), sia nel momento funzionale, ovvero nella partecipazione dei

rappresentati - governati alle decisioni fondamentali dell’ordinamento.

Infatti, crediamo di poter dimostrare che il pregiudizio monistico,

scaturito dalla Rivoluzione e consacrato nella carta francese del 1791,

contrasti con la rappresentanza non solo da un punto di vista logico -

strutturale, ma anche con lo stesso scopo operativo per il quale si ricorre a

questo paradigma giuridico, scopo che dovrebbe consistere nel propiziare

l’attività di governo, cioè l’orientare la comunità individuandone i fini

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nella tensione verso il bene comune, attività distinta dall’amministrazione,

cioè l’organizzazione dei mezzi per il perseguimento di quei fini.

Seguendo su questo filo l’eredità della Rivoluzione, l’indagine si

sposterà alle radici pseudo hegeliane della giuspubblicistica tedesca tra

Ottocento e Novecento, grazie all’elaborazione della quale, com’è noto, si

deve l’enucleazione dei principali concetti giuridici tuttora applicati dalla

dottrina dello Stato continentale, sui quali, però, gravano le spesso

dimenticate ipoteche logiche della loro origine; sicché il divieto di

mandato imperativo, nel ridurre il dualismo della rappresentanza alla sola

voce degli eletti, si dimostra ancora una volta funzionale ad una peculiare

dottrina dello Stato.

Infine, con il terzo momento, dalle osservazioni critiche si cercherà

di trarre degli spunti ricostruttivi, anche alla luce delle difficoltà rinvenute

nell’esperienza giuridica, condizione essenziale per svolgere un’indagine

circa la sussistenza o meno di una situazione giuridica soggettiva, non

vogliamo (ancora) dire un diritto, alla rappresentanza, nei poliedrici profili

del diritto a rappresentare ed a farsi rappresentare, che intrecciano il

momento attivo con il momento passivo. In questo senso dovranno essere

esaminate le figure dei diritti pubblici subiettivi e, più in generale, delle

situazioni giuridiche soggettive che legano cittadino e Stato.

Di più. Proprio un’indagine sulla struttura della rappresentanza si

offre come osservatorio privilegiato per rivedere le tradizionali figure

giuridiche soggettive di diritto e dovere, nella loro genesi e rimeditarle

alla luce delle impellenti necessità conseguenti alla crisi (se non al

ritenuto superamento) della sovranità, così come conosciuta nella

tradizionale definizione del superiorem non recognoscere. Anche per

essere muniti di un idoneo quanto opportuno bagaglio logico concettuale

con cui saggiare l’effettiva originalità di quel “nuovo” verso il quale

siamo, più o meno consapevolmente, traghettati.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

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2 STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA

RAPPRESENTANZA

2.1 Posizione del problema e questioni di metodo

INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA NELLE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA NEL COGLIERE LA

DEFINIZIONE DI RAPPRESENTANZA POLITICA – RICOGNIZIONE DELLO STATUS QUESTIONIS

ATTRAVERSO LA DISAMINA DEI CONTRIBUTI PIÙ E MENO RECENTI IN MATERIA: DISTINZIONE

TRA LA POSIZIONE CHE ASSEGNA LA PREMINENZA AL SISTEMA O AL MOMENTO ELETTORALE E

LA POSIZIONE CHE RICERCA UNA DEFINIZIONE DEL CONCETTO – POSIZIONE PROVVISORIA

DELL’ALTERNATIVA TRADIZIONALE TRA RESPONSABILITÀ / INDIPENDENZA DELL’ELETTO

VERSO GLI ELETTORI: INSUFFICIENZA – NECESSITÀ DI UNA RIFLESSIONE RADICALE: PROPOSIZIONE DEL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER IDENTITÀ E DIFFERENZA, NON

CONTRADDIZIONE E TERZO ESCLUSO – CONTINUITÀ E DIFFERENZE CON LA DOMMATICA

TRADIZIONALE – CONCLUSIONE: INDIVIDUAZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO

COME ELEMENTO RITENUTO CARATTERIZZANTE NELLE DIVERSE POSIZIONI DOTTRINALI E

CONSEGUENTE SUA CENTRALITÀ NELL’INDAGINE.

Proponendosi di rinnovare la "scienza politica", per avviare il

lettore alla comprensione di questo processo, Eric Voegelin sceglie

proprio di svolgere alcuni studi sulla rappresentanza.1

La centralità dell'istituto nella riflessione intorno al diritto e allo Stato

appare dall'importanza che vi hanno riconosciuto pressoché tutti i teorici

del diritto e dello Stato, seppure in misura diversa e, per certi versi, con

obbiettivi opposti. Da Marsilio da Padova, che ne tratta per la formazione

della legge, a Guglielmo d'Occam, con l'idea di riunire la Chiesa in uno

compendio rapraesentativo, a Cusano, che individuava l'autorità politica

dei cardinali nel principio elettivo, cioè nella rappresentanza di tutto il

popolo dei Christifideles o di una parte di esso, contrapponendo alla figura

del papa persona repræsentativa, la collectio repæsentativa del concilio,

individuando –forse per primo- la radice del problema che ci occupa nel

rapporto tra rappresentanti e rappresentati.2 Ed ancora dai monarcomachi,

3

1 Cfr. E. VOEGELIN, The New Sience Politic, Chicago, 1952, trad. it. La nuova

scienza politica, Torino, 1968, p. 80.

2 Non è un caso che proprio il teorizzatore della coincidantia oppositorum abbia

coniato la formula ossimorica repræsentatio identitatis, per acute osservazioni sulla quale

si rinvia a M. MERLO, Vinculum concordiae. Il problema della rappresentanza nel

pensiero di Nicolò Cusano, Milano, 1997, a cui si rinvia anche per una bibliografia

ragionata del e sull’autore.

3 Sulla rappresentanza nel passaggio dal medioevo alla modernità, per il particolare

ruolo che avrà nel seguito della trattazione, occorre segnalare fin da subito l'interessante

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

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all'ultimo capitolo del secondo Tractatus di Spinoza.4 Per non parlare dei

più noti filosofi e giuristi, alle cui elaborazioni teoriche si devono gli

istituti recepiti nelle principali carte dell’occidente moderno.5

ricostruzione di O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen

Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche

Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868 (cfr. altresì, IDEM, Die Grundbegriffe des

Staatsrecht, Tübingen, 1915), dove viene ripresa la teoria federalistica e corporativa

propria dell'Althusius per riproporre, in anticipo su Santi Romano e Hauriou, la teoria

pluralista della società, costituita da corporazioni che si intrecciano e si raccordano, gli

Stände, Gemeinde, Genossenschaften. Teoria considerata da Voegelin (op. cit., p. 59)

viziata in radice per la concezione provvidenziale della Storia che sostiene tutta la

riflessione dell'autore, che come si dirà infra al § II.3.2, non ebbe molto seguito in

Germania, pur essendo l'unica a contrapporsi efficacemente a Gerber, a Laband e a

Jellinek. Essa, poi, troverà seguito paradossalmente in Inghilterra, dove Maitland

recependola, su di essa costruirà quella teoria della persona ficta, che, di origine

medioevale, aveva permesso la concezione dello Stato come ente scisso dalla persona del

detentore del potere (cfr. E. KANTOROWICZ, The King’s two bodies. A Study in Medioeval

Political Theology, Princeton, 1970, trad. it. Torino, 1989). Infatti, una volta appurato che

tra ceti e Stato non c'è alcuna differenza di struttura, appartenendo tutti alla categoria delle

personae fictae, la differenza è solo una questione di quantità. Per la verità, il traduttore

inglese si pone il problema teorico della natura della volontà delle corporazioni e della

personalità giuridica, affrontando il problema se questa persona ficta debba la sua

esistenza ad una mera concessione del sovrano o se il suo riconoscimento sia la semplice

presa d’atto di una volontà reale già esistente. In ogni caso l’alternativa esclude

l’originalità che tanto stava a cuore a Gierke.

4 B. SPINOZA, Tractatus theologico-politicus, nella traduzione italiana a cura di E.

Giancotti Boscherini e A Droetto, Torino, 1972.L’ultimo capitolo, il xx, com’è noto,

dimostra che in una libera repubblica sia lecito a ciascuno di pensare quello che vuole e di

dire quello che pensa. Tuttavia, la dimostrazione di questo assunto prende le mosse da un

richiamo testuale dell’Autore al precedente capitolo xvii, ove si esclude la necessità da

parte dei singoli di trasferire tutti i propri diritti nella suprema potestà, introducendo

l’istituto della rappresentanza; che assume così una duplice veste nel pensiero del filosofo -

lucidatore di lenti olandese: sia come istituto giuridico fondamentale per evitare

l’assolutismo (citando in esempio Mosé), sia come garanzia della libertà di pensiero e di

parola. Per luci ed ombre su questa “libertà soggettiva”, cfr. i contributi ormai classici di J.

DELEUZE, Spinoza et le problème de l’expression, Paris, 1968, nonché IDEM, Spinoza.

Filosofia pratica, (Paris, 1981) trad. it., Milano, 1991, p. 34 e ss.; altresì, si veda l’ancora

fondamentale studio di C. GALLICET CAVALLI, Spinoza lettore di Machiavelli, Milano,

1973, p. 171 e ss. Più recentemente, cfr. l’acuto saggio di R. BORDOLI, Baruch Spinoza:

etica e ontologia. Note sulle nozioni di sostanza, di essenza e di esistenza nell’Ethica,

Milano, 1996, specialmente p. 154 e ss, così come di particolare interesse si offre

l’originale interpretazione di A. RAVÀ, Il pensiero di Spinoza nel terzo centenario della

sua nascita. Relazione sul congresso filosofico tenutosi all’Aja dal 5 al 10 settembre 1932,

in “Rivista di Filosofia”, 1932, n. 4, p. 386 – 94; cfr. anche infra, nota 439.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

13

La difficoltà nel coglierne il concetto, manifestatasi in costruzioni

di ogni specie, si deve forse a quello stretto legame che nella storia del

pensiero vede (ma svisandone il significato) la rappresentanza come

sostegno, strumento della sovranità.

Cerchiamo di chiarire l'assunto. Ripercorrendo le tappe del pensiero

giuridico si può tentare di ricostruire le definizioni di sovrano scoprendo

la caratteristica di rappresentante che le accompagna. Se si eccettuano

tradizioni orientali di teocrazia assoluta, nelle quali, peraltro, qualora il

monarca non sia direttamente dio, ne è qualificato suo rappresentante, si

riscontra quasi sempre riferita al sovrano una varia qualifica di

rappresentante dei suoi sudditi. Qualifica marginale nelle versioni più

assolutistiche, dove si tende a giustificare l'esercizio del potere con la

presunta rappresentanza dei governati. Qualifica essenziale, nelle non

meno assolutistiche dottrine democratico - assembleari, dove la

condizione di appartenenza all'assemblea, che veicola l'esercizio del

potere, deriva dalla qualifica di rappresentante. Ora, proprio le varie

esigenze a cui è stato piegato l'istituto ne hanno prodotto diverse versioni,

impedendo di mantenere una definizione unitaria. A riprova è appena il

caso di notare come il rappresentante di Hobbes non sia quello di

Rousseau, come il rappresentante degli Stati Generali non sia il membro

dell'Assemblea nazionale, come il Parlament di Jellinek non sia più

(almeno in apparenza) il Reichstag di Laband; ma più in generale, come il

rappresentante di diritto privato non sia più il rappresentante di diritto

pubblico.

La struttura rappresentativa, uguale a sé stessa dalla giurisprudenza

romana in avanti, viene attratta nell’ambito pubblico e stravolta per essere

adattata a puntello del sovrano, o per giustificare una peculiare dottrina

dello Stato. Non volendo o non potendo mutare la struttura assoluta,

5 È appena il caso di ricordare, oltre le costruzioni mutuate sul Leviathan di

Hobbes, rappresentante di tutto il popolo, il secondo Trattato sul governo di Locke; il

Patriarca di Filmer, padre e rappresentante necessario di tutti i sudditi; i Commentari di

Blakstone, al I, n 2; l’Esprit di Montesquieu; il capitolo XV del terzo libro del Contract di

Rousseau, lo Geslossene Handelstaat di Fichte, opere che daranno lo spunto per

l’elaborazione teorica di Erdmann, Gans, Gerber, Mohl, Laband, Mayer, Jellinek, Duguit,

Carré de Malberg, u.s.w.

Nel momento in cui questo lavoro veniva a compimento è apparso l’agile volume

di Bruno ACCARINO, Rappresentanza, Bologna, 1999, terzo della collana “Lessico della

politica” a cura di Carlo Galli, di cui non si è potuto tener conto se non marginalmente in

nota, ma al quale si rinvia per la sua compiuta ricostruzione dell’evoluzione delle idee di

rappresentanza nella storia delle dottrine politiche, che si spinge anche oltre l’elaborazione

di Weimar, per lanciare lo sguardo nel dibattito politologico contemporaneo.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

14

unica, del sovrano, gli si adatta quella binaria, dualistica della

rappresentanza, con tutte le difficoltà che ne conseguono.

Occorre allora, da un lato, tentare di individuare che cosa sia

rappresentanza, dall'altro confrontare quanto di rappresentanza vi sia nelle

prime costruzioni giuridiche a giustificazione del sovrano.

Per un altro verso tuttavia, occorre muovere l'indagine anche dalla

funzione che si vuole assegnare alla rappresentanza, agli scopi che si

vogliono ottenere con questo istituto: la struttura può essere adattata anche

per gli obbiettivi che con essa si intendono perseguire. In altri termini, pur

individuati una serie di elementi comuni, ricorrenti che concorrono a

costituire la rappresentanza, si otterranno varianti in relazione agli intenti

perseguiti da chi intende servirsi dell'istituto. Altro è chi rappresenta per

portare a conoscenza, altro chi rappresenta per agire o per governare, altra

è la rappresentanza del tutore. Si può allora convenire che il Kaiser

rappresenti tutto il popolo, purché ciò avvenga nella consapevolezza della

convenzionalità di questa definizione di rappresentanza, funzionale agli

scopi operativi a cui si mira. In questo senso tale sarà la definizione di

rappresentanza, quale necessaria alla costruzione del diritto e dello Stato

in cui rientra.

Accingendoci dunque all’indagine, risulta già da un pur sommario

esame dei contributi scientifici più recenti in tema di rappresentanza

"politica", che l'istituto appare centrale tanto nel diritto costituzionale,

quanto nella filosofia giuridica e politica, confermandone l'importanza per

la riflessione attorno al diritto e allo Stato. Tuttavia, la rinnovata

attenzione di cui gode e di cui è stato fatto oggetto non ha

immediatamente comportato un chiarimento nell’articolato dibattito

dottrinale.

Già le difficoltà per renderne una definizione, che sembrano

annidarsi nella specificazione aggettivale, dimostrano l'intreccio dei nodi

teoretici sottesi, laddove si fa per lo più un generico riferimento alla

rappresentanza nell'ambito del diritto pubblico o, comunque, a quella non

riducibile al solo diritto privato: esempio ne siano i partiti politici e i

sindacati che, seppur associazioni regolate dal codice civile, a questo non

si riferiscono per quanto riguarda la rappresentanza.6

6 Cfr. A. CORASANITI, La rappresentanza politica, in "Diritto e Società", 1992, pp.

569 e ss., specialmente p. 571; cfr. anche A.A. ROMANO, La Rappresentanza politica come

legittimazione politica, in "Arch. dir. cost.", 1991, p. 39.

Per la particolarità dell'esperienza italiana del Ventennio, tra organicismo e

corporativismo, cfr. L. PALADIN, Il problema della rappresentanza nello stato fascista, in

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

15

Pertanto, già considerando l'imprecisione apparentemente

fisiologica della definizione, non è qui possibile elencare esaustivamente

la corposa bibliografia sull'istituto. Dopo aver rinviato alle voci relative

delle enciclopedie specializzate, ci si limiterà piuttosto ad indicare i

contributi più recenti, soprattutto per far rilevare le diversità di approccio

e di metodo che ne sostengono le rispettive indagini, per quanto più

interessa al prosieguo della trattazione, se non altro con l’intento di fare il

punto sullo status questionis.

Alcuni autori possono essere raggruppati per il guardare soprattutto

al sistema elettorale, condizionando la delineazione del concetto di

rappresentanza al sistema di formazione dell'organo o, comunque,

riconoscendo al momento dell'elezione una posizione preminente, quando

non il fondamento, nella riflessione sull'istituto, seppure si insiste sulla

necessità di riportare l'attenzione su alcune caratteristiche ritenute

fondamentali della rappresentanza, quali la conoscibilità da parte del

rappresentante delle istanze dei rappresentati, nonché l'esigenza di

responsabilità del primo verso i secondi.7 Altri hanno messo bene in

"Studi in memoria di C. Esposito", Padova, 1972, p. 851 e ss., che riesamina la posizione

dei contributi dottrinali dell'epoca, proponendo quale chiave di lettura la distinzione tra

rappresentanza dello Stato e rappresentanza nello Stato, riabilitando particolarmente

l’opera di Carlo Esposito.

In Italia, riassume lo stato della questione, proponendo soluzioni quantomeno

innovative, il volume La rappresentanza politica, Bologna, 1985, con scritti di C. GALLI,

G. MIGLIO, P. SCHIERA ed altri; lo stesso Gianfranco Miglio, altrove, aveva sostenuto che

un mandato o è imperativo o non è: cfr. G. MIGLIO, Le trasformazioni del concetto di

rappresentanza, (1984) in IDEM, Le regolarità della politica, Milano, 1988, vol. II, p. 976.

A dimostrazione delle disparità di vedute in subjecta materia, sostiene che il divieto di

mandato imperativo svolga funzione di garanzia democratica all'interno dei partiti P.

RIDOLA, Divieto del mandato imperativo e pluralismo politico, in Scritti in onore di V.

Crisafulli, Padova, 1985, vol. II, pp. 688 e ss; in senso opposto, A. SPADARO, Riflessioni

sul mandato imperativo di partito, in "Studi parl e di pol. cost.", 1985, pp. 21 e ss. Ancora

sull'ambiguità della specificazione aggettivale del termine "rappresentanza politica", cfr.

M. COTTA, Parlamenti e rappresentanza, in P. PASQUINO (a cura di), Manuale di scienza

della politica, Bologna, 1986.

7 F. LANCHESTER, Sistema elettorale e strategie di riforma del sistema politico

italiano, in Quale riforma della rappresentanza politica?, Milano, 1985, p. 1 e ss. (atti del

seminario tenutosi a Roma, 17 gennanio 1985, a cura dello stesso e con contributi di D.

FISICHELLA, F. D'ONOFRIO, A. BARBERA, V. DI CIOLO, A. SENSINI, G. COTTURRI, R.

PAGANO, G. LONG, R. CARELLI, S. FORTUNA, P.A. CAPOTOSTI); IDEM Parlamento

europeo: il progetto di procedura elettorale uniforme in, "Quaderni costituzionali", 1986,

n. 1, p. 148 e ss; M. VOLPI, Le riforme elettorali in Francia. Una comparazione con il caso

italiano, Roma, 1987; R. RUFFILLI (a cura di), Materiali per la riforma elettorale, Bologna,

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

16

evidenza le due anime dell’obbligatorietà del voto: da un lato il

mantenimento della libertà del singolo, dall’altro l’autogoverno del corpo

sociale che di tale libertà si alimenta.8 Alcuni individuano nel rafforzarsi

dei partiti un momento scardinante dei meccanismi rappresentativi

ereditati dalla Rivoluzione francese9. Altri ancora propongono una

costruzione della rappresentanza politica funzionale a quelle che vengono

individuate come le tre esigenze attuali dell’Italia: governabilità,

partecipazione, trasparenza.10

Infine, proprio nel momento del (parziale)

1987; G. PASQUINO (a cura di), La lenta marcia nelle istituzioni: i passi del P.C.I.,

Bologna, 1988; IDEM, Rappresentanza e democrazia, Bari - Roma, 1988.

8 G. CORDINI, Il voto obbligatorio, Roma, 1988. Sotto altro profilo, per il dovere di

recarsi alla urne, qualificato dalla dottrina costituzionalistica un dovere civico, e per il

significato della sanzione con la menzione sul certificato di buona condotta, cfr. infra al §

III.2 e III.3.

9 M. BARBERA, Rappresentanza ed istituti di democrazia diretta nell'eredità della

Rivoluzione francese, in "Politica del Diritto", 1989, p. 541 e ss. Per opposte

considerazioni su questo stesso punto, cfr. L. CEDRONI, Il problema della rappresentanza

politica in E. J. Sieyès (1789-1799), in C. Carini (a cura di), La rappresentanza tra due

rivoluzioni (1789 – 1848), Firenze, 1991, p. 25 – 38, nonché IDEM, Il lessico della

rappresentanza politica, Soveria Mannelli (CZ), 1996, specialmente p. 180, ove viene

rivalutata l’importanza per la tradizione giuridica continentale anche del legato ricevuto

dalla rivoluzione americana, che punta principalmente su di un sistema di checks and

balances, secondo un paradigma improntato più sull’equilibrio dei poteri che non sulla

separazione propria di Montesquieu.

10 F. TERESI, Le riforme istituzionali tra governabilità, partecipazione e

trasparenza, Torino, 1989; F. LANCHESTER (a cura di), Il voto degli italiani, Roma, 1988;

IDEM, Quaranta anni di legislazione elettorale in Italia: aspetti problematici, in "Nomos",

1989, n. 1. p. 1 ss. (estr.); IDEM, Rappresentanza, responsabilità e tecniche di espressione

del suffragio. Nuovi saggi sulle votazioni, Roma, 1990; E. DI NUOSCIO (a cura di), Oltre la

proporzionale: nuovi materiali per le riforme in Italia, Manduria, 1990; M.S. PIRETTI,

Giustizia dei numeri. Il proporzionalismo in Italia, Bologna, 1990; M. LUCIANI, Il

referendum impossibile, in "Quaderni costituzionali", 1991, n. 3, p. 509 ss.; IDEM, Il potere

di scelta degli elettori, in Le riforme di governo nei moderni ordinamenti policentrici,

Milano, 1991, pp. 186 e ss.; C. CHIMENTI, Considerazioni su alcune proposte di riforma

delle istituzioni, in "Nomos", 1991; E.M. GIULIANI, Sistemi elettorali e loro incidenze su

alcune realtà istituzionali, Poggibonsi, 1991; A. CERRI, Riflessioni giuridiche sul

cosiddetto paradosso delle maggioranze cicliche, in "Rivista trimestrale di diritto

pubblico", 1991, n. 1, p. 3; C. FUSARO, Principio maggioritario e forma di governo,

Milano, 1991; O. MASSARI, Democrazia dell'alternanza e riforma elettorale, in

"Democrazia e Diritto", 1991, n. 4, pp. 35 e ss; L. TENTONI, Gli strumenti per cambiare.

Viaggio nei sistemi elettorali, Roma, 1991; A. BARBERA, Una riforma per la Repubblica,

Roma, 1991; La riforma di governo nell'Italia odierna, (contributi di AMATO, BARBERA,

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

17

mutamento del sistema elettorale in Italia, su sei quesiti proposti da Livio

Paladin, sul tema “la forma di governo in transizione”, proprio con

particolare riguardo alle forme dei sistemi elettorali, di particolare rilievo

appare la risposta di Augusto Barbera che sulla scorta di analisi

comparatistiche, propone o l'indicazione formale del candidato-Premier o

addirittura, ma con la consapevolezza delle difficoltà sottese, il

superamento del bicameralismo paritario, conferendo il primato alla

Camera dei Deputati e trasformando il Senato in Camera delle Regioni,

riprendendo così orientamenti già noti, oltre alla previsione di un premio

di governo, da attribuirsi a seguito di ballottaggio. Dal canto suo Andrea

Manzella, rileva l'insufficienza del maggioritario a risolvere (non solo

quello della rappresentanza, ma anche) il problema della stabilità, mentre,

per altro verso, denuncia come la diversità di sistemi elettorali attualmente

operanti consenta di “rappresentare” contemporaneamente la medesima

realtà in modi diversi.11

Nella medesima prospettiva di prevalenza del momento elettorale

nella definizione di rappresentanza politica, si è orientata anche una

cospicua parte del dibattito nei paesi di tradizione tedesca,12

ove alcuni

BALBONI, CALANDRA, CHELI, ELIA, GRISOLIA, LANCHESTER, LONG, MANZELLA, ONIDA,

PALADIN, PEGORARO, TOSI) in "Quaderni costituzionali", 1991, pp. 7 e ss; A. MANZELLA,

Il Parlamento, Bologna, 1991 (I ed., 1971); S. GAMBINO (a cura di), Sistemi elettorali e

governo locale - Modelli europei a confronto, Roma, 1991; G. RICCAMBONI (a cura di),

Cittadini e rappresentanza in Europa, Milano, 1992; F. LANCHESTER, L'innovazione

istituzionale difficile: il dibattito sulla rappresentanza politica agli inizi della XI

legislatura, in "Rivista trimestrale di diritto pubblico", 1992, p. 911 ss. S.P. PANUNZIO,

Riforma delle istituzioni e partecipazione popolare, in "Quaderni costituzionali", 1992, pp.

551 e ss.; G. MOSCHELLA, Trasparenza e regolarità del procedimento elettorale, Roma,

1992; G. PASQUINO, Riformare la politica, Bari, 1992; G. SARTORI, Seconda repubblica?

Sì, ma bene, Milano, 1992; G. MIGLIO, Come cambiare. Le mie riforme, Milano, 1992; P.

COLOMBO, Governo e Costituzione, Milano, 1993; G. AMATO, Il dilemma del principio

maggioritario, in "Quaderni costituzionali", 1994, pp. 171 e ss.; nonché G.U. RESCIGNO,

Democrazia e principio maggioritario, nella stessa rivista, p. 187 e ss.

11 Gli interventi si possono leggere in "Quaderni Costituzionali", 1995, n. 2.

12 Oltre alla bibliografia internazionale ragionata dedicata alla Germania (1945-

1980) pubblicata da G. Mola in C. CARINI (a cura di), Dottrine ed istituzioni della

rappresentanza, Firenze, 1990, p. 317-372, si veda J. IENSEE e P. KIRCHHOF (a cura di),

Handbuch des Staatsrechts des Bundesrepublik Deutschland, Heidelberg, 1987, III vol.

(1988), specialmente p. 42 e 43; U. THAISEN e S. SCHÜTTEMEYER (a cura di), Bedarf das

Recht der parlamentarischen Untersuchungsausschüsse einer Reform?, Baden-Baden,

1988.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

18

mettono bene in evidenza le progressive complicazioni concettuali e

pratiche della rappresentanza in parallelo al moltiplicarsi delle forme di

elezione, ma anche all'estensione del suffragio;13

mentre altri studiosi

richiamano l'attenzione sul diverso sistema rappresentativo interno ai

partiti politici, nella prospettiva dell'unione europea, ritenendo che pur

avendo i partiti perso in buona parte la capacità di muovere le masse, il

vero nodo della rappresentanza si annidi nell’assunzione delle

responsabilità di partito, comunque “rappresentante” degli iscritti e, in

qualche modo, anche degli elettori.14

In questo senso, risultano di

particolare interesse i problemi di rappresentanza conseguenti al

mutamento di regime nei Paesi dell’Europa dell’Est, ove, ancora una

volta, il dibattito più che incentrarsi sulla struttura della rappresentanza,

ritiene di risolvere ogni problema nella forma di votazione,15

secondo un

orientamento che ha preso piede anche in Francia.16

13 C. WALTHER, Wahlkampfrecht, Baden-Baden, 1989; D. HARRIS SACKS, The

Paradox of Taxation: Fiscal Crises, Parliament and Liberty in England, 1450 – 1640, in

Ph. T. Hoffman & K Norberg (edited by), Fiscal Crises, Liberty and Representative

Government 1450 – 1789, Stanfort (USA), 1994. Ma su punto già si veda O BRUNNER,

Land und Herrschaft (1939), Darmstadt, 1973, trad. it. Terra e potere, Milano, 1983.

14 D.Th. TSATSOS, D. SCHEFOLD, H.P. SCHNEIDER (a cura di), Parteinrecht, in

europäischen Vergleich. Die Parteien in den demokratischen Ordnungen der Staaten der

Europäischen Gemeinschaft, Baden-Baden, 1990. In questo senso, più recentemente, cfr.:

R. Graf von WESTFALEN (a cura di), Parlamentslehre. Das Parlamentarische

Regierungssystem im technischen Zeitalter, München, 1993; propone un insolito quanto

proficuo angolo visuale, H. STEIGER, Entwicklung des Völkerrechts von 1815 bis 1945 im

Spiegel seiner Quellen, in "Der Staat", 1995, p. 130 e ss.

15 Per i problemi di rappresentanza conseguenti al mutamento di regime nei paesi

dell'est-Europa, privilegiano ancora una volta il momento elettorale: H. SLAPNICA, Die

Entwicklung der Wahlrechts in der Tschechoslowakei seit dem zweiten Weltkrieg, in "Ost

Europa Recht", 1990, p. 237 ss.; A. WEBER, Wahlsystem und freie Wahlen in Osteuropa, in

"Jahrbuch fuer Ostrecht", 1990, p. 331 e ss. In Italia si è occupato delle trasformazioni

politico-costituzionali di tali paesi S. BARTOLE, Riforme costituzionali nell'Europa centro-

orientale, Bologna, 1993.

16 Per la dottrina francese, oltre alla bibliografia internazionale ragionata dedicata

alla Francia (1945-1980) pubblicata da G. D’Agostino e G. De Simone in C. CARINI (a

cura di), La rappresentanza nelle istituzioni e nelle dottrine politiche, Firenze, 1986, p.

203-230, segnaliamo: J. CADART (a cura di), Les modes des scrutin des dix huit pays libres

de l'Europe occidental. Leur résultats et leur effets comparés. Elections nationales et

européennes, Paris, 1983; A. ROUX e P. TERNEYRE, Principio di eguaglianza e diritto di

voto, in "Politica del diritto", 1991, n. 3, p. 379 e ss.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

19

Non mancano, tuttavia, ed è il secondo raggruppamento, i contributi

che propongono una riflessione diretta sul concetto di rappresentanza,

prescindendo dalla sua forma di realizzazione, riordinando la gerarchia

(logica) tra ente e sue modalità di attuazione, cioè tra rappresentanza e

sistema elettorale.17

E tra questi, primeggiano quegli studi che si occupano

17 E.W. BÖKENFÖRDE, Demokratische Willensbildung und Repräsentation, in J.

IENSEE e P. KIRCHHOF (a cura di), Handbuch, cit., II, vol. (1987), p. 39 e ss.; per le acute

osservazioni sul pensiero e l'opera di Schmitt, cfr. IDEM, Der Begriff der Politischen als

Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts (1988) ora in IDEM, Recht, Staat,

Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte,

Frankfurt, 1991, p. 344 e ss. Recentemente, ricostruisce il panorama della riflessione

tedesca in tema di Vertretung des ganzen Volkes il corposo e densissimo saggio di K.A.

SCHACHTSCHNEIDER, Res publica res populi. Grundlegung einer Allgemeinen

Republiklehre. Ein Beitrag zur Freiheits-, Rechts-, und Staatslehre, Berlin, 1994, che, fra

l'altro, ricostruisce con chiarezza le posizioni di W. Mantl e R. Thoma e su cui infra;

nonché il saggio di K. WAECHTER, Studien zum Gedanken der Einheit des Staates. Über

die rechtsphilosophische Auflösung der Einheit des Subjektes, Berlin, 1994, che raccoglie

l'eredità del dibattito costituzionale tedesco attorno agli anni Venti di questo secolo. Il

problema della rappresentanza "necessaria" dei singoli nello Stato è riaffrontato con un

parallelo all'attualità in G. MARRAMAO, Dopo il Leviatano, Torino, 1995, su cui infra. In

Italia il problema della rappresentanza politica è stato oggetto di accurata ricerca e di

puntuali saggi ad opera di G. DUSO, di cui, oltre ai contributi indicati nel prosieguo,

conviene fin da subito segnalare: Logica ed aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte,

in "Filosofia politica", 1987, p. 31 e ss.; IDEM, La rappresentanza: un problema di filosofia

politica, Milano, 1988, che muovendo dalla distinzione platonica tra eikón e phántasma,

studia il rapporto tra rappresentanza e potestà di imperio (Herrschaft), accentrando poi la

sua ricerca sul rapporto tra Schmitt, Leibholz e poi Voegelin, riconoscendo la centralità del

dibattito degli anni Venti in Germania; IDEM, La rappresentanza politica e la sua struttura

speculativa nel pensiero hegeliano, in "Quaderni Fiorentini", 1989, p. 43 e ss., su cui infra;

G. SORGI, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Milano, 1989, pp. 188 e ss,

dove, coraggiosamente, si respinge la tesi della rappresentanza hobbesiana meramente

monista, riconoscendovi, invece, la compresenza di "situazione" e "rapporto", sul cui

significato, per quanto già implicitamente citato nel richiamo generale alle enciclopedie

specializzate, conviene rinviare ancora una volta a: D. NOCILLA e L. CIAURRO,

Rappresentanza politica, in "Enciclopedia del Diritto Giuffré", Milano, 1989, vol.

XXXVIII, pp. 543, nonché, in modo più esplicito, D. NOCILLA, Situazione rappresentativa

e rapporto nel diritto positivo e nelle prospettive di riforma della rappresentanza politica,

in "Arch. Giur.", 1990, pp. 87 e ss.; J.Ph. REID, The concept of representation in the age of

the American Revolution, Chicago and London, 1989, su cui infra; M.S. BARBERI,

Presenza e alterità. Tre figure della rappresentanza politica in Carl Schmitt, in "Il

Politico", 1989, p. 291 e ss. Per alcuni interessanti spunti storici, che riportano l'attenzione

su puntuali aspetti della rappresentanza, cfr. anche: C. CARINI (a cura di), La

rappresentanza nelle istituzioni e nelle dottrine politiche, Firenze, 1986; IDEM, (a cura di),

Dottrine e istituzioni della rappresentanza, Firenze, 1990; D. FISICHELLA, Crisi della

rappresentanza e nuova democrazia, in F. MERCADANTE (a cura di) Due convegni su

Giuseppe Capograssi. Roma - Sulmona 1986), Milano, 1990, pp. 449 e ss.; L. ELIA,

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

20

del divieto di mandato imperativo, riconoscendo proprio in questo istituto

il nodo essenziale della rappresentanza. Ritenendo che il divieto del

mandato imperativo costituisca per il parlamentare un dovere ed un

diritto, in certi casi anche giurisdizionalmente azionabile e, muovendo

sempre dal disposto normativo, ricostruiscono attentamente il dibattito

sulla funzione ed il ruolo dell'istituto nell'esperienza tedesca ed italiana

della prima metà del secolo, con particolare attenzione ai corollari del

divieto di mandato imperativo quale, per esempio, il voto segreto.18

Più

radicalmente, si è anche richiamata l'attenzione sulla costruzione di

Althusius, che intende contrapporre alla struttura granitica dello Stato

moderno propria della prospettiva hobbesiana, la pluralità e l'articolazione

proposte dal filosofo di Emden accomunato in questo a Locke, Leibniz e

Montesquieu -la cui teoria della divisione dei poteri viene indicata quale

sintomo di una presupposta articolazione del concetto di Stato-

deducendo, per quanto a noi più interessa, l'affrancamento dell’Althusius

dalla categoria monista della sovranità, posizione che gli permetterebbe un

diverso approccio alla rappresentanza, muovendo dalle articolazioni

presenti nella società, secondo un metodo simile al sistema medioevale

degli Stände.19

Altri hanno collegato strettamente la rappresentanza alla

Mortati e le forme di governo, nonché P. RIDOLA, Democrazia e rappresentanza nel

pensiero di Costantino Mortati, entrambi in M. GALIZIA e P. GROSSI (a cura di), Il

pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano, 1990, rispettivamente pp. 245 e ss. e pp.

285 e ss. Particolarmente attento al dibattito tedesco, riconoscendone l'importanza per

l'indagine sull'istituto, P. PASQUINO, La rappresentanza politica. Progetto per una ricerca,

in "Quaderni piacentini", 1984, p. 68 e ss, che tuttavia muove dall'esperienza della

Rivoluzione francese ed in particolare di Sieyès: cfr. IDEM, Il concetto di rappresentanza e

i fondamenti del diritto pubblico della Rivoluzione: E.J. Sieyès, in F. FURET (a cura di),

L'eredità della Rivoluzione francese, Bari, 1989, pp. 297 e ss. Per le considerazioni critiche

su quest'ultimo scritto, cfr. M. BARBERIS, L'ombra dello Stato. Sieyès e le origini

rivoluzionarie dell'idea di nazione, in "Il Politico", 1991, p. 509 e ss., specialmente n. 14.

18 Così, N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull'art. 67

della Costituzione, Milano, 1991, sul quale amplius infra § III.2. Ma sul dibattito tedesco

degli anni Venti del Novecento, cfr. l’ottima indagine di A. SCALONE, Rappresentanza

politica e rappresentanza degli interessi, Milano, 1996, sui cui infra.

19 Th. HÜGLIN, Sozietaler Föderalismus. Die politische Theorie des Johannes

Althusius, Berlin, 1991. Riporta l'attenzione sul significato e sul ruolo della rappresentanza

nella costruzione hobbesiana, L. JAUME, Hobbes et l'État représentatif moderne, Paris,

1986, ove, a pag. 185, nella distinzione tra rappresentante moderno "operante" e nuncius,

meramente "riflettente" della tradizione medioevale, sembra individuare il meccanismo di

uscita dal mitico stato di natura.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

21

democrazia, pur riconoscendo che l'una non comporta o necessita

dell'altra,20

mentre da più parti si riconosce la necessità dell'effettiva

responsabilità dei governanti nei confronti dei governati, loro

“rappresentati”, fino a proporre di “integrare istituzionalmente anche i

comportamenti elettorali negativi”, cioè quelli che segnano “disaffezione

o rifiuto”.21

Ancora l'esigenza di responsabilità dei rappresentanti, quale

feed back, momento di ritorno, di controllo, di identificabilità coi

rappresentati, costituisce il nucleo essenziale di acuta riflessione nelle

correnti della dottrina italiana che più si è abbeverata all’esperienza anglo

americana.22

Tuttavia, nella ricerca attorno al concetto ed alla struttura della

rappresentanza occorre guardare anche a dei contributi meno recenti, oltre

a tutta la produzione di Carl Schmitt anteriore alla fine della guerra,23

che

affrontando, direttamente o indirettamente, il problema della

rappresentanza, è stata fatta oggetto di innumerevoli studi (su cui infra).

Interessa qui riportare l'attenzione in modo particolare sulla sua teoria del

partigiano,24

la cui importanza ci sembra essere proprio

20 D. ZOLO, Il principato democratico, Milano, 1992; L. RIZZI, Il problema della

legittimazione democratica in Kelsen e Rousseau, in "Il Politico", 1992, pp. 225 e ss. su

cui infra; F. MAZZANTI PEPE, Mably: per una democrazia a misura d'uomo, in "Materiali

per una storia della cultura giuridica", XXIII, 1993, n. 1.

21 E. BETTINELLI, Tre approcci al formalismo costituzionale. La via "prudente" del

metodo pedagogico-integrativo e la rivalutazione della rappresentanza politica, in

"Politica del Diritto", 1992, p. 213 e ss., specialmente p. 221 e 225. Riconosce che nei

meccanismi di garanzia del dissenso vada ricercata l'essenza della democrazia E. SCIACCA,

Interpretazione della democrazia, Milano, 1988.

22 G. SARTORI, Democrazia, cos'è, Milano, 1993, che peraltro riprende il suo

precedente fondamentale, Democrazia e definizioni, Bologna, 1957. In questo senso cfr.

anche P. RIDOLA, La rappresentanza parlamentare tra unità politica e pluralismo, in

"Diritto e Società", 1994, pp. 709 e ss.

23 Principalmente ricordiamo C. SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin, 1928 (tr. it.

Milano, 1984); IDEM, Der Hüter der Verfassung, Berlin, 1931 (tr. it. Milano, 1981). Si

veda il recente contributo di C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi

del pensiero politico moderno, Bologna, 1997; nonché IDEM, Strategie della totalità. Stato

autoritario, Stato totale, totalitarismo nella Germania degli anni Trenta, in “Filosofia

politica”, XI, 1997, n. 1.

24 C. SCHMITT, Theorie des Partisanen: Zwischenbemerkung zum Begriff des

Politischen, (1963) III ed., Berlin, 1992 (tr. it. della I ed., Milano, 1981). Per questi aspetti,

cfr. le puntuali ed acute osservazioni di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato,

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

22

l'irrappresentabilità come categoria propria, necessaria conseguenza della

struttura "irriducibile" del partigiano, inteso come colui che, pur essendo

parte, si pone come il tutto e, di conseguenza, non può ammettere la

(reale) esistenza di un rappresentato da cui ripete la sua legittimazione, né

l’eventualità di farsi rappresentare da alcuno diverso da sé;

irrappresentabilità che manifesta tutta la sua rilevanza se, alla lettura del

contributo di Schmitt, si tiene presente lo studio di Cassirer sullo Stato,25

alla ricerca degli elementi costitutivi (ben inteso, logici, non meramente

positivi, e, quindi quasi “mitici”) della massima forma di organizzazione

sociale propria della modernità, inaugurando o, meglio, riprendendo un

filone che tenta di superare il momento di esegesi del dato normativo

costituzionale, magari corroborato con ricerche sulle origini storiche dei

disposti, per investigare le difficoltà concettuali che sottendono i

problematici Grundbegriffe su cui poggia, in fondo, la norma

fondamentale, nella versione positiva, o nella variante kelseniana di

presupposto logico.26

E non è un caso che tali ricerche giungano a fondersi

II ed., Milano 1984, p. 97. Per la concezione della rappresentanza in Carl Schmitt, cfr.

anche infra nel testo.

25 E. CASSIRER, Il mito dello Stato, trad. it. Milano, 1950, soprattutto pag. 409 e ss.

Su prospettiva analoga si muove J.L. TALMON, The origins of totalitarian democracy,

London, 1952 (tr. it. Bologna, 1967); per altro verso J.H. KAISER, La rappresentanza degli

interessi organizzati, (1956), trad. it., Milano, 1993.

26 Per una prospettiva che, superando le angustie del diritto statuale, riporta il

dibattito sul piano della migliore teoria generale, proprio nel momento in cui muoveva i

primi passi il progetto di unione europea, cfr. M. DUVERGER, Esquisse d'une théorie de la

Représentation politique, in L’évolution du Droit public. Etudes offertes à Achille Mestre,

Paris, 1956, pp. 212 e ss. Nella rinascita della filosofia pratica - su cui cfr. l'esaustivo

saggio di E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992- la rappresentanza trova diretta

applicazione, anzi, rilevanza di archetipo in E. VOEGELIN, The New Science of Politics,

Chicaco, 1952 (tr. it. Torino, 1968) su cui infra; in prospettiva opposta, per le aporie del

principio "tutto il potere a nessuno", cfr. R.A. DAHL, Who governs? Democracy and Power

in an American City, New Heven & London, 1961; S. LANDSHUT, Der politische Begriff

der Repräsentation (1964) in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und Geschichte der

Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 482 e ss.; G. LEIBHOLZ,

Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der Demokratie in 20. Jahrhundert,

3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo diverso è del 1929), trad. it. La

rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, in cui il ruolo della Sippe, presenta

curiose assonanze, seppure in prospettive totalmente diverse di ricerca, con la definizione

di gruppo quale in G. CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta, in Opere, Milano, 1959,

vol. I, pp. 469 e ss.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

23

con studi squisitamente logici sulla rappresentanza come presenza

dell’assente,27

oppure con indagini più ampie che rivisitano il ruolo più

generale della politica, rinverdendo la tradizione degli studi di dottrina

dello Stato tra il XVIII e XIX secolo.28

Tentando di ricercare gli elementi ricorrenti negli studi sulla

rappresentanza, per altro verso, com'è noto, pur muovendo da molteplici

approcci e condotte con diversi metodi, le indagini sull'istituto sembrano

tuttavia incontrare una difficoltà comune nel rapporto tra rappresentati e

rappresentanti, che ci si prospetta come la reale difficoltà della

27 Per il simbolo come rappresentanza dell'assente, cfr. E. CASSIRER, Filosofia

delle forme simboliche, trad. it. Firenze, 1967; H.F. PITKIN, The Concept of

Representation, Berkeley, 1967; E. FRAENKEL, Die repräsentative und plebiszitäre

Komponente im modernen Verfassungsstaat, in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und

Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 330 e

ss.; J. ROELS, Le concept de représentation politique au XVIII siècle, Louvain-Paris, 1969;

programmatico fin dal titolo nel ridimensionare il ruolo della rappresentanza, ricordando

che comunque non può essere la fonte di ogni potere statale, D. STERNBERGER, Nicht alle

Staatsgewalt geht vom Volke aus, Stuttgart, 1971; IDEM, Kritik der dogmatischen Theorie

der Repräsentation (1971) in Herrschaft und Vereinbarung, Frankfurt a. M., 1980, p. 175

e ss.; B. MONTANARI, La questione della rappresentanza politica in Hans Kelsen, in

"RIFD", 1972, p. 200;

28 Per un'indagine sul concetto di rappresentanza, muovendo da un'analisi del

significato del termine, dall'antichità, fino al secolo scorso, cfr. H. HOFMANN,

Repräsentation. Studien zur Wort und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19.

Jahrhundert, Berlin, 1974; W. MANTEL, Repräsentation und Identität, Wien, 1975; H.

EULAU e P.D. KARPS, The Puzzle of Representation: specifying components of

responsiveness, in "Legislative Studies Quarterly", 1977, p. 233 e ss.; R. BENDIX, Kings or

People. Power and Mandate to Rule, Berkeley, 1978; V. HARTMANN, Repräsentation in

der politischen Theorie und Staatslehre in Deutschland, Berlin, 1979; per una prospettiva

più ampia, cfr. J. HABERMAS, Cultura e critica. Riflessioni sul concetto di partecipazione

politica ed altri saggi, Torino, 1980, parzialmente ripreso in IDEM, Morale Diritto Politica,

Torino, 1992, pp. 81 e ss. Per lo sviluppo della rappresentanza politica tra "spazio gotico"

e spazio illuministico cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza - Francia,

Palermo, 1981, su cui infra; N. BOBBIO, Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna,

1981; IDEM, Il futuro della democrazia, Torino, 1984; D. FISICHELLA, Il concetto di

rappresentanza, introduzione all'antologia dallo stesso curata La rappresentanza politica,

Milano, 1983, p. 3 e ss., ora in IDEM, La rappresentanza politica, Bari – Roma, 1996, su

cui infra § III.3; H. QUARITSCH, Staatsangehörigkeit und Wahlrecht, in "Die öffentliche

Verwaltung", 1983, p. 1 e ss.; R.A. RHINOW, Grundprobleme der schweizerischen

Demokratie, in "Zeitschrift für Sozialreform", 1984, p. 111 e ss. In senso più generale, ma

con chiarezza nelle distinzioni dai concetti affini e/o complementari, cfr. A. PODLECH,

voce Repräsentation, in Geschichtliche Grundbegriffe, Band 5., Stuttgart, 1985.

Page 24: IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA3 INDICE PREMESSA p. 1 .I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA .I.1. Posizione del problema e questioni di metodo INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA

POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

24

rappresentanza.29

In termini più espliciti, riprendendo le fila delle varie

posizioni, la quaestio potrebbe riassumersi così: se ed in che misura i

29) Questa, invero, è la difficoltà che, ineludibile, si è sempre riproposta a partire

dall'intervento del vescovo Filippo Pot agli Stati Generali di Tour, nel 1484, e su cui hanno

dovuto misurarsi tutte le successive riflessioni. Tra le opere fondamentali meno recenti, sui

cui maggiore è fiorito il dibattito, ricordiamo: H. AHRENS, Juristische Enzyklopädie oder

organische Darstellung der Rechts und Staatswissenschaft auf Grundlage einer ethischen

Rechtsphilosophie, Wien, 1855; IDEM, Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto,

trad. it. di A. Marghieri, 2 voll., Napoli, 1872; R. von MOHL, Staatsrecht, Völkerrecht und

Politik, 2 voll., Tübingen, 1860; P. DANDURAND, Le mandat impératif, Paris, 1896; H.

SIMONNET, Le gouvernement parlamentaire et l'Assemblée Constituante de 1789, Paris,

1899; C. KOCH, Les origines françaises de prohibition du mandat impératif, Nancy, 1905;

A. PRINS, De l’esprit du Gouvernement Démocratique, Paris, 1905; O. REINCKE, Die

Verfassung des Deutschen Reichs, Berlin, 1906; F. MÜLLER, Begriff und Rechte des

deutschen Bundesrates, Heidelberg, 1908 E. ZWEIG, Die Lehre vom Pouvoir Constituant.

Ein Beitrag zum Staatsrecht der französischen Revolution, Tübingen, 1909; A. VOEGELS,

Die staatsrechtliche Stellung der Bundesratsbevollmächtigten, Tübingen, 1909,

specialmente § 5, Stellung der Bundesratsbevollmächtigten den sonstigen Reichsorganen,

p. 30 e ss.; R. REDSLOB, Die Staatstheorien der französischen Nationalversammlung von

1789, Leipzig, 1913; O. von GIERKE, Die Grundbegriffe des Staatsrecht, Tübingen, 1915;

K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament. Nach der Staatstheorie der französischen

Nationalversammlung von 1789. Studien zur Dogmengeschichte der unmittelbaren

Volksgesetzgebung, München, 1922 (rist. 1964); O. HINTZE, Weltgeschichtliche

Bedingungen der Repräsentativverfassung, 1931, ora in Gesammelte Abhandlungen,

Göttingen, 1961; H.J. WOLFF, Die Repräsentation (1934) in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur

Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung, Darmstadt,

1968, p. 116 e ss.; F. PIERANDREI, I diritti subbiettivi pubblici nell'evoluzione della

dottrina germanica, Torino, 1940; W. SAUER, Juristische Methodenlehre, Stuttgart, 1940

(rist. 1970); H. JAEGER, Grundzüge des öffentlichen Rechts, Stuttgart, 1948; C.J.

FRIEDERICH, Constitutional government and democracy, Boston, 1950 (tr. it. Vicenza,

s.d.); E. THOMPSON, Popular sovereignty and the French Constituant Assembly 1789-

1791, Manchester, 1952; L. BERGSTRASSER, Die Entwicklung des Parlamentarismus in

Deutschland, Laupheim, 1954; M. DRAHT, Die Entwicklung der Volksrepräsentation

(1954), in H.H. RAUSCH (a cura di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und

Repräsentativverfassung, Darmstadt, 1968, p. 260 e ss.; P.G. GRASSO, Sui sistemi elettorali

a collegio uninominale con rappresentanza delle minoranze, in "Riv. trim. dir. pubb",

1955, p. 603 ss.; IDEM, Le norme sull'eleggibilità nel diritto pubblico italiano, in "Riv.

trim. dir. pubb.", 1957 p. 720 e ss., nonché p. 920 e ss.; J. DILLIER, Das Parlament als

Richter, Freiburg, 1958; E. FRAENKEL, Die repräsentative und plebiszitare Komponente in

demokratischen Verfassungsstaat, Tübingen, 1958; R. KOSELLECK, Kritik und Krisis,

Freiburg - München, 1959 (tr. it. Bologna, 1972); M.J. RUSSEL, Representative institutions

in Reinassance France (1421-1559), Madison, 1960; K. LOEWENSTEIN, Beitrage zur

Staatssoziologie, Tübingen, 1961; U. SCHNEUNER, Das repräsentative Prinzip in der

modernen Demokratie, in Festschriften für Hans Huber, Bern, 1961, p. 222 e ss; A.

MARONGIU, Il Parlamento in Italia nel Medioevo e nell'Età moderna, Milano, 1962; A.

PFITZER, Der Bundesrat, Bonn, 1963; E. FRAENKEL, Deutschland und westlichen

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

25

rappresentanti siano responsabili verso i rappresentati per il loro operato;

se ed in che misura gli eletti debbano ascoltare (e seguire) le istruzioni

degli elettori, cioè in che misura la volontà e/o gli interessi dei primi sia, o

debba essere, manifestata dai secondi. Donde si impone una preliminare

questione di metodo, in quanto si sono date e si possono offrire varie

risposte a tali domande in ragione della diversa funzione che si è inteso

volta per volta assegnare alla rappresentanza, concepita ora come

legittimazione del potere costituito o come metodo per la formazione della

volontà dello Stato,30

ora come forma di conoscenza delle istanze dei

Demokratien, Stuttgart, 1964; A. BHOM - F.A. von der HYDITE, Krise des

Parlamentarismus, in Beitrage zur Begegnung von Kirche und Welt, Gottenburg, 1964; W.

APPELT, Geschichte der Weimarer Verfassung, (1946) II ed. München und Berlin, 1964,

specialmente p. 176 e ss.; C.R. FRIED, Comparative political institutions, London, 1966;

Ch. MÜLLER, Das imperative und das freie Mandat, Leiden, 1966; E. SCHMITT,

Repräsentation und Revolution, München, 1968; K. von BEIME, Intereßengruppen in der

Demokratie, München, 1969; IDEM, Die parlamentarischen Regierungßystem in Europa,

München, 1970; H. MEYER, Wahlsystem und Verfassungsordnung. Bedeutung und

Grenzen Wahlsystem und Gestaltung nach der Grundgesetz, Frankfurt (a.M.), 1973; E.

SCHMITT, Rapresentatio in toto und rapresentatio singulariter, in Die Französischen

Revolution, Darmstadt, 1973; R. KOSELLECK, Preußen zwischen Reform und Revolution,

Stuttgart, 1975; J. ELLUL, Storia delle Istituzioni, tr.it. Milano, 1976; E. RUFFINI, Il

principio maggioritario, Milano, 1976; K. BOSL (a cura di), Die moderne

Parlamentarismus und seine Grundlagen in der ständischen Repräsentation, Berlin, 1977;

D. SUHR, Repräsentation in Staatslehre und Sozialpsychologie, in "Der Staat", 1981, p.

517 e ss; BRUNNER, CONZE, KOSELLECK (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe, Band 6,

Stuttgart, 1990; E.W. BÖCKENFÖRDE, Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur

Verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, Frankfurt, 1991; D. GRIMM, Die Zukunft

der Verfassung, Frankfurt, 1991.

30) Cfr. l'acuto saggio di L. RIZZI, Il problema della legittimazione democratica in

Kelsen e Rousseau, in "Il Politico", 1992, n. 2, pp. 225-258, specialmente, p. 226 ove, alla

ricerca di una continuità teoretica tra Rousseau e Kelsen, tra chi nega la rappresentanza e

chi la denuncia come finzione, si indagano i fondamenti della teoria kelseniana attorno alla

rappresentanza come procedura di formazione delle leggi, avendo condizionato la validità

dell'ordinamento ad un certo grado di indipendenza dalla volontà di coloro che vi sono

sottomessi (p. 231, ma vedi anche p. 250). Per l'applicazione delle teorie del pensatore

praghese ad un istituto di diritto costituzionale americano, cfr. le stringenti deduzioni di L.

GIANFORMAGGIO, Kelsen ed il presidenzialismo, in "Teoria Politica", 1995, n. 1, p. 45 e ss,

che muovendo dalla finzione della volontà popolare, revoca in dubbio la tralatizia

correlazione tra elezione diretta e rappresentatività della volontà popolare, implicitamente

confermando che il nodo teoretico della rappresentanza dipende solo in stretta misura dal

criterio elettorale.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

26

governati,31

ora come processo di formazione della volontà comune.32

Sicché, riformulando in altri termini i nodi che presenta la questione, lo

studio scientifico dell'istituto, intendendo con questo un'indagine

improntata sulla convenzionalità e operatività della riflessione, porta ad

assumere ipoteticamente, ad enucleare tante definizioni convenzionali di

rappresentanza, quanti sono i risultati operativi che si vogliono

raggiungere con tale istituto,33

piegandolo, di volta in volta, alle

31) Per la ricostruzione teorica in questo senso, cfr. A. BARBERA, Rappresentanza e

istituti di democrazia diretta nell'eredità della Rivoluzione francese, cit., nonché A.A.

ROMANO, La rappresentanza politica come legittimazione politica, cit., specialmente p. 86.

All’estero, cfr. H. HOFMANN, Repräsentation, Berlin, II ed., 1992, specialmente p. 391, che

individua in Hobbes (specificamente in De cive, cap. V, par. 9) il mutamento della

rappresentanza per conoscere in rappresentanza costitutiva dello Stato, cioè come

sussunzione delle volontà particolari nell’unica volontà del sovrano, secondo un passaggio

che la dottrina tedesca sottolinea con il mutamento del termine, da Vertretung, al

neologismo di matrice latina (medioevale) Repräsentation. In questo senso, cfr. IDEM, Der

spätmittelalterliche Rechtsbegriff der Repräsentation in Reich und Kirche, in “Der Staat”,

1988, p. 523 e ss.

32) Recentemente, cfr. A. CORASANITI, La rappresentanza politica, cit.,

specialmente p. 571, nonché le osservazioni di A. BARBERA, op. ult. cit., p. 544. Cfr. altresì

J. HECKER, Die Perteienstaatslehre von Gerhard Leibholz in der wissenschaftlichen

Diskussion, in "Der Staat", 1995, p. 287 e ss.; B. HALLER, Repräsentation. Ihr

Bedeutungswandel von der hierarchischen Gesellschaften zum demokratischen

Verfassungsstaat, Münster, 1987. Le linee fondamentali di questa posizione, pur nella

varietà che la caratterizza, producono una tensione tra chi ritiene sufficiente il mero

convincimento dei consociati di concorrere alla formazione di un comune volere cui

sottostare, e chi non ritiene sufficiente la fictio, pur riconoscendone l’indubitabile efficacia

operativa. In questo modo, però, si rischia di perdere di vista l’oggetto di indagine,

accecati come si è dall’obbiettivo perseguito. In altri termini, per questa via, la ricerca

della fondamentale struttura della rappresentanza passa in secondo piano, purché si giunga,

realmente o fittiziamente, alla formazione di una volontà comune rappresentativa, anche

mediante un meccanismo che più nulla ha di rappresentativo. Esempio di quest’ultima

posizione è dato dalla concezione professata da D. FISICHELLA, La rappresentanza politica,

Roma - Bari, 1996 (su cui amplius infra, § III.3) ove la rappresentanza altro non sarebbe

che l’arena di una competizione politica, un agone secondo regole prefissate, per la

conquista del potere, cioè per far valere la propria volontà come la volontà di tutti. Ma era

già stata denunciato l’effetto perverso di questa costruzione che impone (ai partiti, alle

correnti, ai sindacati) continue riaffermazioni della propria rappresentatività, misurando i

propri rapporti di forza con il frequente ricorso alle urne: cfr. L. ORNAGHI, V.E. PARISI, La

virtù dei migliori, Bologna, 1994, specialmente p. 108 e ss.

33) L'enucleazione delle categorie della convenzionalità ed operatività, quali

fondamenti epistemologici del procedimento conoscitivo scientifico, costituisce oggetto di

acuta analisi in F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

27

contingenti necessità pratiche o, forse meglio, poietiche,34

del momento.

In virtù della stessa impostazione epistemologica di questa peculiare

Methodenlehre, ne consegue che l'obiettivo non sarebbe tanto quello di

ricercare il tratto essenziale della rappresentanza -come di qualsiasi altro

istituto o, più in generale, di ogni concetto35

- enucleazione asseritamente

dichiarata per un verso opinabile e per un altro inutile, quanto piuttosto si

tratterebbe di ricostruire di volta in volta una diversa struttura dell'istituto,

secondo le funzioni che si intendono affidargli.36

Per cui altro sarebbe la

che, dopo aver dedotto da tali premesse le aporie dell'applicazione del metodo scientifico

allo studio del diritto e dello Stato, denunciandone l'insufficienza, ne mette in evidenza le

differenze che lo oppongono al procedimento anipotetico, fondato sulla problematicità

pura, secondo il metodo della dialettica classica cui si accompagna il principio di non

contraddizione e del terzo escluso.

34) Il riferimento è alla bipartizione aristotelica tra teoria e prassi, o alla

tripartizione conseguente alla distinzione tra prassi e poiesi (Et. Nic., II, 1, 1103 a b; II, 6,

1106 a; VII, 3, 1146 b - 1147 a), su cui cfr. infra. Ad ogni modo, qui interessa mettere in

evidenza la distinzione tra l'operatività e la pratica nell'accezione aristotelica del termine,

ripresa e posta a fondamento, per quanto riguarda la rappresentanza, che ne è addotta come

esempio, da E. VOEGELIN, La nuova scienza politica, cit., in un più ampio movimento di

rinascita della filosofia pratica, in reazione agli esiti totalitari della prima metà del nostro

secolo, su cui cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, specialmente p. 194 e ss.

Cfr. anche P.J. OPITZ, Politische Wissenschaft als Ordnungswissenschaft. Anmerkungen

zum Problem der Normativität im Werke Eric Voegelins, in "Der Staat", 1991, p. 349 e ss..

35) Che anzi, in questa prospettiva, non avrebbe alcuna dignità logica conoscitiva e,

o proprio perché, privo di rilevanza operativa, nella sua indeclinabilità ipotetica. Per la

distinzione tra concetto come sostanza, der Grund sotto le apparenze mutevoli, e concetto

come conoscenza dell'adoperabilità, cfr. le acute e dense riflessioni di M. GENTILE,

Trattato di Filosofia, Napoli, 1987, p. 25 e ss. Per quanto più rileva nel campo del diritto,

cfr. J. KLÜVER, Begriffsbildung in den Sozialwissenschaften und in der Rechtswissenschaft,

in G. JAHR e W. MAIHOFER (a cura di), Rechtstheorie. Beiträge zur Grundlagendiskussion,

Frankfurt (a. M.), 1971 (?), p. 369 e ss. A questo proposito, sulle recenti tendenze della più

accreditata dottrina americana, cfr. le osservazioni di M. PAWLIK, Ronald Dworkin und der

Rechtsbegriff, in "Rechtstheorie", 1992, p. 289 e ss.

36) Con Frosini, distinguo due accezioni del termine «struttura»: da un lato, intesa

in modo meccanico, si riferisce "ad una parte sia pure fondamentale, che può staccarsi

dalle altre, alle quali è collegata secondo le leggi fisiche, che governano il mondo della

materia inerte" e corrisponde al termine tedesco Struktur. In un secondo senso la struttura è

intesa "in modo organico, e significa l'unità profonda di una forma vivente: essa

rappresenta per così dire la forma interna di un organismo" ed è ritenuta corrispondere più

al termine tedesco Gestalt (cfr. V. FROSINI, Il concetto di struttura e la cultura giuridica

contemporanea, in "RIFD", 1959, n. 2 e 3, p. 167 e ss, distinzione ripresa in IDEM, La

struttura del diritto, Milano, (1962), II ed., 1968.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

28

rappresentanza per conoscere, altro la rappresentanza per deliberare, altro

ancora la rappresentanza per consigliare; varianti che a loro volta

troverebbero ulteriore moltiplicazione nelle diverse applicazioni, di volta

in volta, al Parlamento, ai consigli degli enti locali, ai partiti ed ai

sindacati.

A questo proposito, è emblematico come pure nel variare delle

posizioni (varietà scientificamente legittima), singolarmente un dato

appaia costante: l'assunto del divieto di mandato imperativo, spesso

acriticamente considerato il punto di cesura tra rappresentanza medioevale

e rappresentanza moderna, ossia il criterio qualificante la rappresentanza

c.d. "politica", intesa quasi estranea, se non antitetica, alla rappresentanza

giuridica, ove si fa per lo più riferimento alla rappresentanza di diritto

privato, figura dogmatica modellata sul mandato.37

A questo si aggiunga la considerazione per cui l'attuale tendenza dei

contributi scientifici dedicati al tema, mira paradossalmente a fondare la

legittimazione del potere sulla presunta rappresentanza e il consenso dei

governati, unita alla massima indipendenza dei governanti.38

Tutto ciò,

peraltro, sembra intrecciarsi con la fondamentale questione, indicata

all'inizio, del problematico rapporto tra rappresentati e rappresentanti,

In questo secondo senso al termine struttura è correlato il concetto di funzione che,

seppure non può plasmare su sé stessa la struttura, pena la convenzionalità di questa, su di

essa influisce, proprio in ragione dell'organicità che la caratterizza nel secondo senso

sopraindicato.

Sulla funzione del diritto, quale momento dell'indagine che completa la ricerca

della struttura, preservandola dalle critiche di mero dogmatismo, cfr. N. BOBBIO, Dalla

struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano (1977), II ed., 1984.

37) Per la contrapposizione tra “rappresentanza giuridica” e “rappresentanza

politica” cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, in “Politica del

Diritto”, 1995, n. 4, p. 543 e ss., su cui amplius infra. In senso opposto, è nota

l'osservazione di N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino, 1984, p. 125, secondo cui

la democrazia tende a sussumere la struttura, il metodo e i contenuti del diritto privato, cui

non si sottrarrebbe nemmeno la rappresentanza politica.

38) Per la critica alla definizione e funzione della rappresentatività cfr. A.A.

ROMANO, La rappresentanza, cit., p. 43; nonché G. DUSO, La rappresentazione e l'arcano

dell'idea, in "Il Centauro", 1985, p. 15 e ss. Cfr. altresì H. HOFMANN, Geschicklichkeit und

Universalitätsanspruch des Rechtsstaats, in "Der Staat", 1995, p. 1 e ss. In altro senso, in

modo ancora più radicale, le recenti riforme elettorali, orientate verso il sistema

maggioritario sono state introdotte dichiaratamente proprio per garantire stabilità, seppure

a scapito della "somiglianza" con l'elettorato, criterio fondamentale del sistema

proporzionale.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

29

sicché la direzione intrapresa, che sembrava quella di tendere alla

massima rappresentatività, alla massima somiglianza, ma non alla

rappresentanza (sintesi di situazione rappresentativa e rapporto tra

rappresentante e rappresentato),39

cercando cioè sistemi elettorali che

assicurassero quanto più è possibile la somiglianza tra organo

rappresentante e comunità rappresentata, tra eletto ed elettore, sembra ora

declinare tale obiettivo in favore della stabilità del politeuma. Ed è

emblematico che in entrambi i casi, il diverso -quando non l'opposto-

obiettivo operativo passi attraverso il divieto di mandato imperativo,

negando ogni rapporto tra governanti e governati, tra cui, in primis, la

responsabilità degli eletti verso gli elettori, tenendo fermo cioè quel limite

che è stato assunto come caratteristica precipua della rappresentanza c.d.

"politica". In altri termini, il divieto di mandato imperativo sembra

strumento obbligato per raggiungere i diversi obbiettivi operativi verso i

quali tende la speculazione scientifica più recente sulla rappresentanza

politica in particolare, ma anche nella filosofia politica più in generale,

guardando al divieto di mandato imperativo sia per la presunzione di

somiglianza con il corpo elettorale, seppur senza responsabilità verso

quest’ultimo, sia per la garanzia di stabilità dell’assemblea, che non può

(entro certi limiti) essere delegittimata dai “rappresentati”.

Proprio l'intrinseca aporeticità di una siffatta prospettiva impone

dunque una riflessione più radicale, vale a dire non meramente funzionale

all'obiettivo operativo perseguito con l'istituto nelle differenti costruzioni

sul diritto e sullo Stato, bensì anipotetica, radicalmente problematica, in

una parola, filosofica.40

In altri termini, per una riflessione attorno ai

fondamenti costitutivi del diritto e dello Stato che non voglia limitarsi al

piano del convenzionale e dell'operativo, per non incorrere nelle relative,

39) Per l'individuazione di “situazione” e “rapporto” come i due elementi costitutivi

della rappresentanza, nonché per i riferimenti dottrinali e bibliografici sull'argomento, si

veda il paragrafo successivo. Tuttavia, preme notare fin da subito che il binomio

“situazione” / “rapporto” non ha nulla a che vedere con la contrapposizione tra

rappresentanza / identità, secondo il modello proposto da Schmitt e ripreso poi da

Voegelin e Leibholz: cfr. infra alla nota 80.

40) Con le parole di M. GENTILE (Trattato di Filosofia, Napoli, 1987, p. 48 e 53):

"La problematicità è invece un atteggiamento teoretico, cioè appartiene al sapere in quanto

tale, e ne costituisce la stessa condizione; giacché il sapere sorge solo in quanto il

conoscere non risulti adeguato a se stesso e richieda il concetto o la dimostrazione", per cui

la filosofia "non può costituirsi se non come risposta ad una domanda, che ecceda ogni

confine particolare e si estenda ad ogni possibile aspetto di investigazione".

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

30

già denunciate, aporie epistemiche,41

si impone la ricerca di un tratto

essenziale, secondo il procedimento di indagine per “diversità” e

“comunanza” propri della dialettica classica, alla luce dei principi di non

contraddizione e del terzo escluso.42

È interessante notare come la riproposizione di questi canoni del

procedimento conoscitivo, che, ricordiamolo, vantano origini nell’antica

Grecia, riprenda in pieno la tradizione della metodologia giuridica che a

sua volta, in stretto connubio con la filosofia, aveva proceduto, seppur con

alterne vicende, da Irnerio in avanti. Emblematico è il confronto delle

monografie in subjecta materia, soprattutto ad opera della dottrina

41) Cfr. supra, alla nota 33. Alle difficoltà epistemologiche sopra ricordate

nell’enucleazione dei profili essenziali dell’istituto, si debbono aggiungere anche i

problemi connessi al fondamento dello Stato che vengono condizionati dal variare della

concezione di rappresentanza che viene accolta.

42 Seppure rimanga affermata nel linguaggio corrente la dizione principio per

identità e differenza, la dottrina più attenta già da qualche decennio ha messo in luce come

questa dicitura risulti impropria. Infatti, il confronto dialettico non potrebbe darsi “per

identità”, poiché, in ossequio alla confutazione platonica del sofista attorno alla

quadripartizione dell’essere (uno - molti, quieto – in moto) due termini “identici” non

potrebbero sussistere, in quanto sarebbero la medesima cosa. Per questo l’indagine

dovrebbe avvenire solo per “comunanza e diversità”, cioè raggruppando e dividendo gli

oggetti da conoscere per ciò che gli accomuna e per ciò che li diversifica. In verità, a ben

vedere, la “comunanza” dei due oggetti a confronto può darsi solo tramite un

procedimento analitico che, sezionandoli, individui i profili “identici” tra i due termini che,

per questo aspetto, diventano “comuni”. Come possono dirsi “comuni” due oggetti di

indagine, se non legati da spetti che sono tra loro “identici”? La comunanza non può che

essere data dalla corrispondenza dell’oggetto con il suo archetipo. Ciò che rende due

termini “comuni” non può che essere l’identità, cioè l’esatta sovrapponibilità di uno o più

dei loro aspetti, che poi questi aspetti si presentino già distinti dal fatto di accedere a due

termini diversi, fa si che gli oggetti di indagine siano due e non uno. Altresì, il

procedimento della dialettica classica deve essere completato con il principio, anch’esso di

origine platonica, di non contraddizione e terzo escluso, ponendo la ricerca in termini di

alternativa dualista e identificando il termine di indagine in un dato tempo, giacché il fluire

del “divenire” consente a Socrate (per mantenere il noto esempio) di essere prima seduto e

poi in piedi, giacché solo nello stesso tempo egli non può essere in piedi e seduto. Così

come, l’alternativa tra identità e differenza può esplicare la sua efficacia euristica solo se

mantenuta nei termini dell’alternativa, giacché l’introduzione di un tertium genus sposta il

termine di indagine compromettendo il confronto. Per questo motivo, pur mantenendo la

consapevolezza della diversità che distingue “identità” da “comunanza” (e proprio a questa

condizione) non riteniamo di dover mutare la terminologia di quello che è orami

conosciuto come principio per identità e differenza, non contraddizione e terzo escluso.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

31

germanica, che maggiormente si è occupata dell'argomento.43

Com'è noto,

proprio la ricerca di un preteso maggior rigore, ancora una volta sull'onda

della filosofia, ma questa volta rappresentata dal positivismo comtiano, ha

spinto, i giuristi in un primo tempo alla riduzione del principio di identità

e differenza (della dialettica platonica del Sofista) al dogmatismo, mentre,

in un secondo momento, ha comportato la progressiva esclusione di ogni

metafisica, giungendo ad affermare l'irrazionalità dei valori. Non è

peregrino sostenere allora che proprio la tensione a circoscrivere l'ambito

di ricerca ha finito per espungere dalla riflessione anche i presupposti di

cui i canoni sopramenzionati erano le conseguenze che, proprio in quanto

tali, una volta privi di giustificazione teoretica, seppur ancora

astrattamente funzionanti, non hanno saputo resistere alle critiche loro

mosse.44

Indicativo, per la funzione di guida che ha avuto nel pensiero

giuridico dell'Europa continentale, l'esempio tedesco, ove, com'è

parimenti noto, il progressivo affinamento delle téknai, dall'intuizione di

Savigny di ricostruire in System la ratio del diritto romano, alla

pandettistica, alla giurisprudenza dei concetti, degli interessi, dei valori,

43) Tra le molte, per il ruolo che hanno avuto ed ancora hanno nella storia del

pensiero, cfr. E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, Gotha, 1877;

IDEM, Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig, 1894; R. STINTZING, Geschichte

der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1880; E. LANDSBERG,

Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig, 1898; più

recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre. Zugleich eine Einleitung in die

Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940; F. MÜLLER, Juristische Methodik,

Berlin, 1976; nonché il più diffuso K. LARENZ, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, V

ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione italiana, non a caso, limitata

alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica, Milano, 1966. In Francia, oltre

ai capitoli dedicati al metodo nelle opere di Gény, di Eisenmann, Batiffol e Villey cfr.

particolarmente, P. AMSELEK, Méthode phénoménologique et théorie du droit, Paris, 1964,

p. 24 e ss. Per un'esplicita professione di applicazione del metodo di identità e differenza e

del principio di non contraddizione e del terzo escluso, in un ampio capitolo introduttivo di

carattere metodologico, ad imitazione delle migliori monografie germaniche, cfr. la

rilevante opera di G. BRUNETTI, Il dogma della completezza dell'ordinamento giuridico,

Firenze, 1924, p. 27.

44 Cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre, cit. p. 327 e ss., p. 441 e ss., nonché

560 e seg. La rilevanza (anche) giuridica del principio di non contraddizione, inteso come

condizione per il significato di ogni altro discorso, viene evidenziata da E. BERTI, Il

principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica

aristotelica, memoria presentata dal socio Marino Gentile in “Rendiconti della Classe di

Scienze morali, storiche e filologiche” dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti

(Venezia), serie VIII, vol. XXI, fasc. 7-12 – Luglio – Dicembre 1966.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

32

fino al neokantismo, trova in Kelsen il proprio compimento, ma anche la

propria negazione.45

Peraltro, nel recepimento di questa eredità, più o meno ancor oggi

scientemente spesa dai giuristi, la riproposizione degli strumenti

conoscitivi indicati nel testo può superare, a nostro avviso, le critiche di

cui sono stati fatti oggetto (si veda da ultimo il decostruzionismo di

Derrida), laddove, rimediando all'errore ottocentesco (ma si tratta di una

prospettiva che ha tempo, che non può essere ridotta adun solo momento

storico), anziché ridurre l'esperienza giuridica in canoni geometrici, si

tenga ben presente la globalità, la radicale problematicità della ricerca,

nella consapevolezza dell'insufficienza di una prospettiva puramente

scientifica nel senso indicato nel testo. In altri termini, secondo il metodo

proposto, le critiche di dogmatismo, da un lato, e di soggettivismo

metafisico, dall'altro, possono essere superate, ci pare, ove si consideri che

queste, così come formulate, non minano gli strumenti conoscitivi in

quanto tali, ma la prospettiva parziale, riduttiva, in cui sono stati costretti,

per cui la dialettica, il procedimento per identità e differenza, decade nel

dogmatismo, proprio laddove non si è problematizzato, si è voluto cioè

lasciare tra parentesi, una porzione dell'oggetto di indagine, ponendo

convenzionalmente un limite alla ricerca in modo, appunto, dogmatico nel

diritto e ideologico nella politica.

Sebbene l'adesione al metodo dogmatico sia ancor oggi professata,

spesso fraintendendone il reale significato,46

la consapevolezza critica

della necessità di una continua verifica estesa anche al principio proprio,

potrebbe preservare l'opera di riconoscimento degli istituti nell'esperienza

giuridica dal degenerare in classificazione dogmatica.47

45 Cfr. H. KELSEN - R. TREVES Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di

S.L. Paulson, Napoli, 1992, p. 33 e 39; nonché 55 e 59; Cfr. altresì F. MÜLLER, Juristische

Methodik, cit., p. 103; nonché infra, alla nota n. 319.

46 Cfr. R. MENEGHELLI, Al giurista che si professa dogmatico: una parola di

chiarimento, in “Diritto e Società”, 1992, p. 577 e ss.

47 Al proposito, cfr. M. GENTILE, Trattato di filosofia, Napoli, 1987, p. 49, 51, 205

e ss., nonché i saggi raccolti nel volume G. JAHR e W. MAIHOFER (a cura di),

Rechtstheorie. Beiträge zur Grundlagendiskussion, Frankfurt (a. M.), 1971 (?),

specialmente i contributi di D. BÖHLER, Rechtstheorie als kritische Reflexion, p. 62 e ss, ed

in modo particolare il capitolo 2, Rechtstheorie als Reflexion auf den

Wissenschaftscharakter der Rechtswissenschaft und Rechtssätze, p. 98 e ss.; E. ZACHER,

Zum Verhältnis von Rechtsphilosophie und Rechtstheorie, p. 224 e ss.; G. JAHR, Zum

Verhältnis von Rechtstheorie und Rechtsdogmatik, p. 303 e ss., che, ripercorrendo lo

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

33

Con queste premesse di metodo, lo spunto da cui prendere le mosse,

potrebbe essere proprio il carattere comune a tutte le riflessioni sull'istituto

fin qui richiamate, -il divieto di mandato imperativo, appunto- per

indagare se sia veramente questo il criterio che permette di distinguere la

rappresentanza del diritto privato dalla rappresentanza c.d. "politica",

giungendo alla conclusione che la specificazione aggettivale del

medesimo sostantivo nasconde due distinti concetti di rappresentanza,

deducendo quindi che dalla funzione dipende il concetto; o se, all'opposto,

non si possa riconoscere una medesima struttura sottostante, un solo

concetto di rappresentanza logicamente, se non temporalmente,

precedente la distinzione tra pubblico e privato, ammesso che tale

distinzione sia sempre proficua. Di conseguenza l'indagine sul divieto di

mandato imperativo, senza alcuna pretesa di trattazione esaustiva, peraltro

impossibile, su tale complesso istituto, cercherà, piuttosto, di rivisitarne le

radici nell'esperienza della Rivoluzione francese, da un lato, e della

Giuspubblicistica tedesca a cavallo tra XIX e XX secolo, dall'altro.48

Dottrina, quest'ultima, sulle cui spalle poggia la riflessione filosofica e

costituzionale dell'esperienza di Weimar, di Kelsen, di Schmitt, di

sviluppo del dibattito tedesco, fino ai primi anni Settanta, propone una chiarificazione

terminologica dei termini Rechtsdogmatik, Rechtsordnung, Rechtssatz,

Rechtssatzbehauptung, u.s.w, da leggersi tenendo presenti quelli che ci sembrano essere a

tutt'oggi i contributi italiani più profondi in subjecta materia: P. PIOVANI, Dommatica,

teoria generale e filosofia del diritto; nonché F. TESSITORE, Filosofia del diritto,

dogmatica e scienza romanistica, entrambi in "Atti del VI Congresso nazionale di filosofia

del diritto (Pisa, 30 maggio - 2 giugno 1963)", a cura di R. ORECCHIA, Milano, 1964.

All’opposto la critica alla Begriffenjurisprudenz giunge quando il tronco originario

si è avvizzito: viene perso di vista l’interesse che era stato il fattore stimolante la ricerca

fin dall’epoca romana: è per un interesse concreto che si superano, meglio, si adattano le

antiche formule. Per le radici e lo sviluppo della Methodenlehre, per il sorgere della

riflessione generale e sistematizzante dallo studio (non più solo) storico del diritto romano,

recentemente cfr. U. VINCENTI, Lezioni di metodologia della scienza giuridica, Padova,

1997, p. 65 e ss. Cfr. altresì le acute osservazioni metodologiche di F. CAVALLA, La verità

dimenticata, Padova, 1996.

48) Il riferimento d'obbligo è ovviamente a Laband e Jellinek, cui ci si limiterà nel

prosieguo, avvertendo come tradizionalmente (cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione

politica nell'Ottocento tedesco, Milano, 1979, p. 154) la giuspubblicistica nasca con

l'intervento nel dibattito di C.F. GERBER, Über öffentliche Rechte, Tübingen, 1852, su cui

infra, senza dimenticare il contributo di chi, provenendo (come del resto Gerber) da altre

discipline, si era occupato dei fondamenti del diritto e dello Stato. Per questi aspetti, cfr.

infra, § II.3.2. e § III.3.

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POSIZIONE DEL PROBLEMA E QUESTIONI DI METODO

34

Voegelin, di Leibholz e che, per altro verso, come è noto e si dirà, tanto ha

influito sulla dottrina costituzionale italiana.

Interessa allora qui riprendere la ricerca sulle origini del divieto di

mandato imperativo sia per indagare i motivi della sua introduzione, sia

per vedere se tali ragioni possano ancora oggi giustificarlo, nel già

dichiarato e più ampio intento di esaminare se comunque tale istituto

possa essere assunto come il criterio discretivo tra rappresentanza di

diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, giustificandone la

distinzione.

Altresì, partendo dalla Francia rivoluzionaria e seguendo il

propagarsi dell’istituto nell’Europa continentale, debbono essere ricercate

le ragioni che hanno sostenuto l’irresponsabilità degli eletti nei confronti

degli elettori nella Germania dell’Ottocento, tessendo una robusta maglia

teoretica –a nostro parere- tra gli autori della Destra hegeliana ed i padri

del diritto pubblico tedesco. Ma l’indagine può essere interessante e forse

maggiormente proficua anche se condotta nella direzione diametralmente

opposta: oltre ad esaminare gli argomenti che portano alla giustificazione

del divieto di mandato imperativo, si deve guardare al ruolo, al contributo

del divieto di mandato imperativo nella realizzazione dello Stato etico e

nell’edificazione dell’Impero prussiano. In altri termini, il divieto di

mandato imperativo può essere visto sia come il risultato di una

riflessione consapevole attorno alla rappresentanza, sia –e forse più- come

utile tassello in un mosaico teso ad affermare la ragion di Stato del

sovrano, travolgendo in un colpo solo i delicati equilibri di filosofi e

giuristi, nel perseguimento della reductio ad unum, senza alcuna remora di

responsabilità nei confronti di sudditi (non più rappresentati) che vengono

addirittura definiti giuridicamente inesistenti.

È bene allora chiedersi quanto di questo prodotto sia stato distillato

senza alcun filtro dall’Assemblea costituente italiana, ricostruendone i

percorsi che hanno condotto alla compresenza nella Carta repubblicana di

due istituti antitetici -il dogma della sovranità popolare e il divieto del

mandato imperativo- con ciò riducendo il popolo alla sua

rappresentazione parlamentare.

Nella speranza di costituire un sostegno critico che sia

indispensabile elemento per la rivisitazione teoreticamente fondata delle

tecniche rappresentative.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

35

Ma è giunto il momento di lasciare -per un poco- il dibattito

contemporaneo e, anche per capirlo meglio, fare un passo indietro

all'inizio del pensiero occidentale, per dotarci di quel bagaglio logico

concettuale, ma anche per riassumere quell’approccio schiettamente

problematico, da spendere nell’esame critico dell’istituto.

D’altro canto, non è un caso che lo stesso Voegelin, da cui abbiamo

preso le mosse, appartenga, con altri pensatori a lui contemporanei, ad una

scuola che è stata riconosciuta muoversi sotto l'insegna della rinascita

della filosofia pratica di matrice aristotelica.49

49 Cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, specialmente p. 195-6, che

annovera nella scuola anche Leo Strauss e Hannah Arendt, come poi Hans Georg

Gadamer, Joakim Ritter, Alasdair MacIntyre, Hans Jonas e, con tendenze kantiane, Martin

Riedel e Karl Heinz Ilting. Per il significato di “filosofia pratica” aristotelica recuperato da

Berti e per le nostre osservazioni in merito, cfr. infra alla nota n. 688. Un aspetto

particolare della filosofia pratica aristotelica costituisce la linea portante della speculazione

di Hannah Arendt, che fa del comunicare il fondamento di tutta la propria opera: il

giudicare nel conoscere ed il comunicare nel giudicare saranno le coordinate del suo agire

politicamente. Per questi aspetti, rinviamo T. SERRA, L’autonomia del politico, Teramo,

1984, fra i primi saggi italiani sull’argomento. Altresì, L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire

politicamente, pensare politicamente, Milano, 1995, p. 136; nonché, L. BAZZICALUPO,

Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, 1996, p. 254. L’osservazione risulta

interessante per il prosieguo della nostra ricerca, giacché riconoscendo nel comunicare

l’essenza dell’arte della pòlis (anzi la caratteristica stessa dell’uomo), fonda

necessariamente il diritto (anche) sull’alterità, profilo peculiare della struttura della

rappresentanza, come si dirà subito.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

37

2.2 La struttura della rappresentanza: tentativo di enuclearne il

concetto

PREMESSA: QUATTRO ACCEZIONI LINGUISTICHE DEL TERMINE “RAPPRESENTANZA”:

RIPRODURRE, SIMBOLEGGIARE, MANIFESTARE, SOSTITUIRE – CONFRONTO CON LA DOTTINA

TEDESCA: VERTRETUNG E DARSTELLUNG – IL PROCEDIMENTO CONOSCITIVO PER ASTRAZIONE: POSIZIONE DI LOCKE, BERKELEY, HUME E LEIBHOLZ SULL’IMPOSSIBILITÀ DI RICONOSCERE IL

CONCETTO SENZA FARE RIFERIMENTO ALL’ARCHETIPO – CRITICA E NEGAZIONE –

INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE STATUNITENSI DI ACTING FOR E STANDING FOR -

DISTINZIONE PLATONICA TRA EIKÒN E FÀNTASMA: LA FEDELTÀ ALLA PROPRIA NATURA DI

IMMAGINE COME TRATTO INELUDIBILE DEL RAPPRESENTANTE – IL DUALISMO COME

CARATTERE ESSENZIALE DELLA RAPPRESENTANZA E SUA DIFFERENZA CON IL NUNCIUS –

INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA CON IL MONISMO

DELL’UNICITÀ QUALE STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ, CARATTERE SPECIFICO DELLO STATO

MODERNO – CONCLUSIONE: NECESSITÀ DI VERIFICARE GLI ASSUNTI ENUCLEATI.

Platone insegna che per enucleare un concetto non vale tanto

spogliare dell'accidentale l'essenziale, dell'accessorio il necessario, per

comprendere come veramente questo sia fatto o cosa veramente esso sia.

Occorre piuttosto cercare di cogliere ciò che vi è di costante nelle diverse

manifestazioni dell'oggetto di indagine, scoprendone il diverso e

riconoscendone il comune, procedendo così dialetticamente verso la

definizione di un concetto.50

Qui, ossequienti all'insegnamento dell'autore del Sofista,

cercheremo di individuare gli aspetti costanti che concorrono a formare il

concetto di rappresentanza per conoscere poi le particolarità che riveste

nell'ambito del diritto. Con questi propositi, la ricerca prende le mosse da

un'indagine semantica sul termine stesso, per delimitarne

convenientemente il campo d'applicazione.

L'analisi linguistica elaborata dalla dottrina assegna al termine

rappresentare il significato di rendere presente qualcosa di non presente,

per qualsiasi ragione, nel tempo e nel luogo: "qui ed ora". Su questa

funzione base si sono elaborate delle specificazioni per cui la dottrina

sembra ormai concorde51

nell'ammettere quattro distinte accezioni del

50 Sul concetto e sulla sua funzione, cfr. M. GENTILE, Trattato di Filosofia, Napoli,

1987, p. 25 e ss; specialmente p. 32 e ss.

51 Cfr D. NOCILLA e L. CIAURRO, voce Rappresentanza politica, nella

"Enciclopedia del Diritto Giuffré", Milano, 1987, vol. XXXVIII, nota 10. La voce ci

sembra debitrice dell’ampio e complesso studio di H. HOFMANN, Repräsentation. Studien

zur Wort- und Begriffsgeschichte von Antike bis ins 19. Jahrhundert, Berlin, 1974, di cui

segnalo una seconda edizione, ivi, 1990. Le tesi fondamentali saranno riprese e sviluppate

dall’Autore in contributi minori più recenti esaminati nel prosieguo, fra i quali vale la pena

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

38

termine, cioè il riprodurre, il simboleggiare, il manifestare e il sostituire. Il

tratto comune ci è dato dalla circostanza che tutte sembrano muoversi

all’interno di un paradigma monista di presenza/assenza, ove cioè assume

rilevanza un solo soggetto, il rappresentante, che è il “presente”, ed in

questo si può riconoscere l’ipoteca della riflessione tedesca, in particolare

modo dell’esperienza di Weimar, di cui si dirà, che vede nella

rappresentanza una valenza costitutiva, cioè di portare ad esistenza ciò che

altrimenti nemmeno sarebbe.

1. Il riprodurre può, per un verso, avere il significato preciso di

raffigurare, cioè sottoporre alla vista aspetti della realtà sensibile con

figure o segni. È quello che la dottrina tedesca chiama Darstellung,

intendendo propriamente raffigurazione, nel senso di illustrazione,

rappresentazione, ma anche nel significato di esposizione, così come di

interpretazione, recita. Per un altro verso, il termine è usato nel senso più

generale che si è indicato all'inizio, cioè di rendere presente ciò che esiste

autonomamente, ma che in questo momento, nell'accezione puntuale del

tempo, non è, non esiste in questo luogo, puntuale nello spazio. L’aspetto

interessante è dato dalla circostanza che si tratta di un’operazione

strumentale, cioè di ricostruzione dell’assente che trova il suo fine

propriamente nell’immagine riprodotta, che viene così resa disponibile per

ulteriori operazioni o riflessioni. Questo profilo è corroborato dall’uso

chimico o meccanico del termine, con cui si traducono i sostantivi

preparazione, elaborazione. Il verbo relativo, darstellen, accentua

l’aspetto tecnico, potendo addirittura essere usato nel senso di produrre,

fabbricare, nello stesso modo in cui può voler dire descrivere, delineare,

abbozzare, ma anche, nella forma riflessiva, presentarsi, mostrarsi,

apparire.

2. Il simboleggiare, dal canto suo, consiste nel richiamare

convenzionalmente in forma sensibile un'idea o un concetto astratto o

comunque non suscettibile di manifestazione immediata. Esempio classico

è la colomba che rappresenta - simboleggia la pace e in questo senso si

poterebbe richiamare tutta l'iconografia a partire dall'antichità, ma altri

esempi si trovano nel campo scientifico: dalla x algebrica che rappresenta

un valore ignoto, al π, si può dire che il convenzionalismo scientifico

di menzionare subito H. HOFMANN, Bilder des Friedens oder die vergessene Gerechtigkeit.

Drei anschauliche Kapitel der Staatsphilosophie, München, 1997; IDEM, Repräsentation,

Berlin, II ed., 1992; IDEM, Geschicklichkeit und Universalitätsanspruch des Rechtsstaats,

in "Der Staat", 1995, p. 1 e ss.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

39

moderno rappresenti in simboli il procedimento astraente della

conoscenza operativa.

Ad ogni modo il simboleggiato, per quanto astratto possa essere,

deve avere una sua autonomia quantomeno concettuale definita. Il

procedimento di astrazione cioè deve portare all'enucleazione di un quid

novi, di un concetto nuovo, rigorosamente delimitato. Questa accezione è

criticata da Leibholz,52

sostenendo che non è rappresentazione il frutto di

un procedimento astraente, di un elaborazione logico analitica di ciò che è

comune a più fenomeni, e perciò già c'è, non è nuovo, o meglio, distinto

da ciò che rappresenta. Su questo punto a Leibholz preme distinguersi da

Locke, così come ripreso da Berkeley.

Com’è noto, Leibholz fa riferimento a quel passo de An Essay

concerning the Human Understanding,53

dove Locke afferma "and ideas

are general when they are set up as the representatives of many particular

things". Appare chiaramente il riferimento al processo conoscitivo per

genere e specie e in questo senso va letto l'assunto lockiano, non come

descrizione del concetto di rappresentanza: non era certo questo l'intento,

che viene invece perseguito nei Two Treatises. Qui, il filosofo inglese

vuole solo indicare la continenza delle idee più particolari in idee più

generali. Altrettale è il senso del passo di Berkeley che Leibholz critica.

Anche in questo caso si fa riferimento alla circostanza che idee più

particolari siano ricomprese aliquo modo in idee universali.54

Ma allora –

ed introduciamo così la questione epistemologica di fondo in questa

indagine- in quale maniera possiamo pensare a una tal cosa come facente

52 Cfr. G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der

Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo

diverso è del 1929), trad. it. La rappresentazione nella democrazia, Milano, 1989, p. 70.

53 Cfr. J. LOCKE, An Essay concerning the Human Understanding, L. III, cap. II,

sez. II, nell’edizione classica delle Opera curata da Thomas Tegg (10 vol.), vol. II, London

1823, p. 162. Il riferimento dell’autore tedesco al pensatore inglese non può che veicolare

la sensazione di un fondamento essenziale della rappresentanza (anche) giuridica nella

struttura stessa della conoscenza, in un settore ove, quindi, il legislatore statale non ha

certo il potere di intervenire con pretesa costitutiva.

54 Cfr. G. BERKELEY, A Treatise concerning the Principles of Human Knowledge,

Dublin, 1710, Introduction, § 12, nell’edizione delle opere complete di A. A. Luce e Th. E.

Jessop, in 9 voll. Londra, 1948 – 57 ed in traduzione italiana a cura di A. Guzzo, Torino,

1946, di cui si veda la densa prefazione. Sul punto, cfr. altresì J. FOSTER – H. ROBINSON,

Essays on Berkeley, Oxford, 1988.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

40

parte di un genere, come possiamo aver realmente applicato ad essa un

qualche termine generale? Locke fa l’ipotesi che noi traiamo per

astrazione le qualità che sono comuni a tutte le arance e utilizziamo l’idea

astratta risultante come “rappresentativa” dell’arancia per riconoscere una

particolare arancia come tale. Berkeley respinge questa tesi, poiché a suo

modo di vedere arance differenti presentano qualità irriducibili: noi quindi

utilizziamo un’immagine particolare per “rappresentare” tutti i membri del

genere. Ma in ogni singola immagine sarà rappresentabile una schiera di

generi: arance, ma anche cose sferiche, cose arancioni e così via. Nel

dibattito intervenne Hume, sostenendo, in risposta a questa

argomentazione, che quando noi assegniamo qualcosa ad un genere per

una qualche sua somiglianza ad una qualche immagine tipo, abbiamo

nello stesso tempo una serie di altre immagini a nostra disposizione che

possiamo richiamare alla mente come guida per un nostro corretto

percorso di classificazione. In sostanza, Hume anticipa già nella prima

parte del Treatise of Human Nature temi che svilupperà successivamente

in maniera più organica nel corso della trattazione degli oggetti materiali e

delle persone, attraverso un generale rifiuto della legittimità dell’idea di

sostanza. Non essendovi alcuna impressione da cui essa possa essere

derivata, tutto ciò che noi percepiamo è costituito da raccolte di qualità

associate tra di loro in maniera persistente. Se si definisce sostanza ciò che

risulta capace di un’esistenza autonoma, allora impressioni e idee sono le

sole sostanze.55

Per quanto interessa il prosieguo della nostra indagine,

conviene rileggere il passo del Treatise che riguarda la critica a Berkeley.

Dice Hume: “è stata aperta una questione veramente essenziale circa le

idee astratte o generali, cioè se esse siano idee generali o particolari nella

mente che le concepisce. Un grande filosofo [il riferimento è a Berkeley]

55 “Tutte le percezioni della mente umana fanno capo a generi distinti, che io

chiamerò impressioni e idee. La differenza fra di esse consiste nel grado di forza con il

quale esse colpiscono la nostra mente e si creano la loro via nel nostro pensiero e nella

nostra coscienza. Possiamo chiamare quelle percezioni che entrano con più forza e

violenza impressioni; comprendo sotto questo nome tutte le nostre sensazioni, passioni ed

emozioni, appena loro fanno la loro prima comparsa nell’anima. Le idee sono invece per

me le pallide immagini di queste nel pensiero e nel ragionamento; tali sono, ad esempio,

tutte le percezioni suscitate dal presente discorso, fatta eccezioni solo per quelle che hanno

origine dalla vista e dal tatto, e fatta pure eccezione per il piacere o il dolore immediato

che esso può causare. Non credo che sarà necessario impiegare un gran numero di parole

per spiegare tale distinzione: ognuno percepirà da solo la differenza fra il sentire ed il

pensare.” Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, nell’edizione ormai classica curata da

L. A. Selby – Bigge, Oxford, 1888, p. 1.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

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ha messo in discussione il luogo comune che vige su questo punto e ha

sostenuto che tutte le idee generali non sono altro che idee particolari

legate ad un certo termine, il quale dà loro un significato più ampio e fa si

che esse all’occasione ne richiamino altre individuali a loro simili. Dal

momento che io considero questa una delle più grandi e più preziose

scoperte compiute negli ultimi anni nella repubblica delle lettere, mi

proverò nel dare ad essa conferma attraverso alcune argomentazioni che,

spero, la metteranno al riparo da ogni dubbio e controversia”.56

E così

l’argomentazione muove dall’evidenza che nella formazione della

maggior parte delle nostre idee generali si faccia astrazione dai particolari

gradi di qualità e quantità, così come un oggetto non cessa di appartenere

ad una specie determinata a causa di una piccola alterazione nella sua

estensione, nella sua durata ed in altre sue proprietà. Ci si può quindi

rendere conto che qui sussiste un chiaro dilemma, risolutivo circa la

natura di quelle idee astratte che hanno tanto dato da speculare ai filosofi.

L’idea astratta di un uomo –sostiene Hume- rappresenta gli uomini di tutte

le taglie e qualità: ciò appare possibile o mediante la rappresentazione

simultanea di tutte le possibili taglie e qualità, oppure mediante una

rappresentazione che non riguardi proprio nessuna di esse in particolare.

Così, scartata la prima opzione, perché ritenuta assurda in quanto

presuppone una capacità infinita della mente umana, l’opinione

tradizionale si sarebbe attestata sulla convinzione per cui le nostre idee

generali non rappresentino alcun grado di quantità o qualità. Hume ritiene

erronea questa posizione e si propone di combatterla, affermando la

capacità potenzialmente infinita della mente di rappresentare ogni quantità

e qualità dell’idea, in questo riprendendo un tema galileiano, sulla

equiparazione, quanto meno intensive, dell’intelletto umano alla mente

dell’universale.57

56 Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, cit. p. 17. È appena il caso di

sottolineare la vis polemica dello scettico scozzese contro il puritanesimo intellettuale dei

suoi contemporanei. Com’è noto, il luogo comune cui si fa riferimento Hume considera le

idee particolari come divisioni di idee generali, in un rapporto di gerarchia logica che ne

sostiene uno di gerarchia politica, tematizzato in forma emblematica da Robert Filmer, in

scoperta polemica con Locke.

57 Cfr. D. HUME, Treatise of Human Nature, cit. p. 18. In altro luogo, Hume

osserva che tutti gli oggetti della ragione umana o del suo ricercare possono certamente

essere divisi in due specie: relazioni di idee e dati di fatto. Quanto alle prime, vi rientrano

la geometria, l’algebra e l’aritmetica ed ogni altra affermazione che sia ritenuta certa per

intuizione o per dimostrazione. Che il quadrato costruito sull’ipotenusa sia pari alla somma

dei quadrati costituiti sui due cateti è una proposizione che esprime la relazione tra queste

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

42

Tuttavia, la critica più radicale al procedimento per genere e specie,

proviene dal kantismo, ove si afferma che l’aggregazione dei termini in

comparazione presuppone già quel criterio di distinzione che si afferma

essere il prodotto della ricerca. In altri termini, per collocare gli oggetti

dell’indagine nelle diverse categorie nelle differenti caselle di un genere e

di una specie, il ricercatore dovrebbe già avere in mente, in via

necessariamente preventiva, dunque, un criterio discretivo che gli

consenta di sceverare operando quella classificazione di cui si è detto. In

questo senso si riconosce l’eredità prettamente kantiana delle categorie,

cioè di quella griglia a priori che costituisce il punto di forza ma anche il

limite della speculazione del Maestro di Königsberg, già denunciata dagli

allievi, giacché si sottrae alla problematicità del criticismo il punto di

partenza, cioè proprio il carattere a priori delle categorie. Singolare

destino, per chi voleva fondare un nuovo metodo speculativo libero da

incrostazioni metafisiche, quello di veder dichiarata forte l’assonanza tra

le categorie a priori e le idee platoniche. La stessa critica, infatti, potrebbe

essere mossa alla dialettica classica, affermando che anche in tale

prospettiva la distinzione dei termini oggetto di indagine può avvenire

solo tramite la rimembranza delle idee che ha il soggetto conoscente e che

figure, così come “tre volte cinque è la metà di trenta” sarebbe una proposizione che

esprime una relazione fra questi numeri. Si giunge ad operazioni di tal specie attraverso

mere operazioni del pensare, a prescindere da ciò che da qualunque parte esista

nell’universo. Anche se mai si manifestassero in natura un cerchio o un triangolo –sostiene

Hume- le verità di mostrate da Euclide manterrebbero in eterno la loro certezza ed

evidenza. Ed è facile qui cogliere una tentazione di cedimento alla fallacia naturalistica di

quello che passa per essere il filosofo scettico per eccellenza: la consapevolezza che la

geometria non è rappresentazione della natura, se non in termini ipotetici, troverà maggior

forza di emergere con l’introduzione dei sistemi non euclidei. Ancora, i dati di fatto, cioè

la seconda specie di oggetti della ragione umana, non sono verificabili nella stessa maniera

delle relazioni di idee, ed il nostro dimostrare la loro verità, per quanto grande essa possa

essere, risulterebbe di una natura diversa rispetto a quella precedente, giacché il contrario

di ogni dato di fatto sarebbe sempre possibile, dal momento che non può mai implicare

contraddizione, per il semplice fatto di esistere: esso viene concepito dalla mente con la

stessa facilità e distinzione che si avrebbero se esso fosse sempre conforme alla realtà. È

fin troppo noto l’aforisma per cui “Che il sole domani non sorgerà è una proposizione non

meno intelligibile e non più contraddittoria dell’affermazione che esso sorgerà”. Cfr. D.

HUME, Enquiries Concerning the Human Understanding and Concerning the Principles of

Morals sempre nell’edizione curata da L. A. Selby – Bigge, II ed. Oxford, 1902, p. 26.

L’esito di tale posizione conduce al falsificazionalismo, di stampo prettamente scientifico

empirista: ogni ripetizione positiva dell’esperimento che conferma la tesi non le dà

maggior forza, al contrario un solo esperimento negativo è sufficiente a negarle la validità

dell’assolutezza.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

43

proietta sull’oggetto di indagine, classificando per genere e specie. In

questo modo, viene facile il parallelo tra le idee, bollate come metafisica,

fuori dalla verifica empirica, e le categorie kantiane, parimenti fuori

dall’esperienza sensibile e dalla verifica, programmaticamente assunte

come a priori. In questa prospettiva, anche in Platone, come in Kant (e,

per altro verso, secondo la tradizione empiristica inglese), il procedimento

conoscitivo avverrebbe grazie alla memoria di archetipi noti e quindi

sarebbe privo di capacita critica originaria, poiché alla fine della

classificazione avremmo in mano quello sapevamo già, proprio quel

concetto che ha costituito il metro con cui abbiamo potuto svolgere la

classificazione. Così come senza le categorie non ci si può orientare,

parimenti togliendo le idee non vi sarebbe più alcun riferimento con il

quale accorpare, dividere, cioè classificare gli oggetti del conoscere; di

più, la svolta idealistica sarebbe già in nuce nelle premesse platoniche,

dacché il riconoscimento delle cose starebbe tutto nella rimembranza del

soggetto conoscente; consentendo così il breve passo per il quale si

afferma che è il soggetto (con il suo pensiero) a dare esistenza alle cose.

Tuttavia, a ben vedere, per riconoscere il “diverso” ed il “comune” fra due

termini si possono enucleare gli elementi specifici di ciascuno senza fare

riferimento a categorie pregresse, vuoi dell’esperienza, vuoi reperite

aliunde.58

In altri termini, la forza euristica del procedimento che

riteniamo programmaticamente di adottare emerge dalla considerazione

che per esso non è necessario il confronto tra l’oggetto di indagine ed un

secondo termine di paragone, di difficile, problematica (ancorché spesso

non problematizzata) individuazione; al contrario, la comparazione

avviene tra i due (o più) termini di indagine, in confronto tra di loro, senza

la necessità di richiamare ciò che è fuori da quell’indagine nella sua

puntualità, sia idea metafisica, sia categoria a priori. E così, ancora, il

confronto può essere tra un oggetto fisico ed un termine astratto: ciò che

caratterizza l’indagine è proprio il confronto tra entrambi i termini; non si

tratta di un oggetto che dev’essere conosciuto mediante la

sovrapposizione di categorie prefissate, bensì di due oggetti, entrambi

sottoposti a conoscenza o a (ri)conoscimento, sicché anche il termine di

confronto (le categorie kantiane, per capirci) è soggetto a nuova

58 E con questa espressione ricomprendiamo ogni momento non riconducibile

all’esperienza intesa qui come luogo privilegiato degli orientamenti empiristi,

accomunando le speculazioni che vanno dall’adduzione di Peirce alle categorie subliminali

di Poincaré, alla ricerca della “qualità”.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

44

conoscenza ed a eventuale modificazione in ragione del confronto con un

altro oggetto. Operazione impossibile per un criticista, come per ogni

scienziato che intenda esplorare un oggetto fruendo del suo bagaglio di

categorie, in quanto tali date per non modificabili, almeno all’interno della

singola operazione conoscitiva, poiché questa è la funzione delle

categorie, quella cioè di fungere da piano di riscontro, da misura, da

immobile criterio di paragone.

Ma a questo punto, tuttavia, anche noi, con Spinoza, dobbiamo dire

“sed de his, satis”59

3. Ci avvicina al mondo del diritto la terza accezione del termine

rappresentare, il manifestare. Esso indica il far presente, qui ed ora,

qualcosa che già esisteva ed eventualmente è anche presente, ma che per

qualche ragione non è percepibile, non si può cogliere nella sua esistenza.

Vi è dunque un rappresentante che manifesta ai terzi il rappresentato, che

pur dotato di vita propria, o perlomeno di autonomia concettuale, non è

percepibile se non attraverso l'opera del rappresentante. Il rappresentante

non quindi un portare nuovamente a presenza, ma semplicemente il

portare ad evidenza ciò che non è percepibile al di fuori dell’opera del

rappresentante stesso. Se poi un tal rappresentante è l’unico che può “dare

presenza” a un tal rappresentato, è forte la tentazione di concepire il

rappresentato come creazione del rappresentante. Già si intuisce la svolta,

anzi, la caricatura idealistica di questa accezione, per cui il rappresentato

rischia di essere ridotto a manifestazione - creazione del rappresentante, a

fantasma di sé stesso; ma su questo, oltre.

4. L'ultima specificazione del termine rappresentare è il sostituire,

la Vertretung dei tedeschi. Rappresentare significa in questo contesto stare

al posto di qualcuno o agire al posto di qualcuno; ma non solo. Anche in

questo caso il rappresentare propizia una valenza euristica, basti pensare

all’opera fondamentale di Schopenhauer60

col ruolo fondamentale della

59 Così B. SPINOZA, Ethica, Pars IV, XXXVII, Scholium II, nell’edizione (che

reputo la migliore) curata da G. GENTILE, (Bari, 1915 e 1933), Firenze, 1963, p. 480.

60 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, vol. II, cap.

XXXVIII (supplementi al Lib. III, sulla storia), III ed., 1859, nella traduzione italiana di P.

Savi – Lopez e G. De Lorenzo, Vol. II, Bari, 1930, p. 537 e ss. Sul punto rinvio al

ponderoso saggio di P. BELLINAZZI, Conoscenza, morale e diritto: il futuro della

metafisica in Leibniz, Kant e Schopenhauer, Pisa, 1990, p. 440 e ss. Cfr. altresì,

recentemente, C. TOMMASI, Riflessioni sul pensiero etico e politico di Arthur

Schopenhauer, in “Il Pensiero Politico”, 1996, I, p. 41 e ss.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

45

rappresentazione come immagine della realtà per cogliere la vera essenza

del mondo: se è tramite l’immagine che si può conoscere l’essere, ben si

comprende quale delicata importanza rivesta l’immagine, via e strumento

della conoscenza.

Forte anche nella tradizione anglosassone, il termine è stato ripreso

e ridefinito in epoca recente da Hanna Pitkin,61

distinguendo le due ipotesi

di acting for e standing for, agire al posto di qualcuno e stare al posto di

qualcuno. Com’è intuitivo, in questo significato il termine ha trovato il

maggior favore nell'ambito giuridico anche di matrice continentale, pur se

identificare la rappresentanza con l'agire in favore di un altro soggetto può

essere riduttivo, importando limitazioni che lo stesso ambito giuridico

dimostra ormai di aver superato. Resta il fatto che al terzo e quarto

significato fanno riferimento le due teorie che a tutt'oggi si contendono il

campo della rappresentanza nel diritto. La circostanza trova forse ragione

nell’esigenza di dualismo, la necessaria reale esistenza di rappresentante e

rappresentato, come caratteristica della rappresentanza, che

nell’esperienza giuridica è sentita in modo particolare.

Quest’ultima osservazione ci aiuta ad introdurre il binomio

situazione – rapporto, quale caratteristica della rappresentanza, ovvero la

necessaria presenza di due soggetti, di due termini, come elementi

costitutivi della rappresentanza, dati dalla situazione di chi si propone

come rappresentante, e dal rapporto che lega quest’ultimo al

rappresentato, sottintendendo, dunque, nella varietà di ampiezza di

situazione e rapporto, la necessaria coesistenza dei due termini.62

L’analisi linguistica, già di per sé indicativa (coscientemente o

meno) di una realtà sottostante, è corroborata dalla speculazione teoretica

dei classici. L'archetipo del binomio situazione - rapporto si potrebbe

trovare in Platone, nella distinzione tra eikón e phántasma, introdotta al §

235 del Sofista, ove lo Straniero sembra mettere in guardia Teeteto

dall'arte mimetica, intesa come luogo di rifugio del sofista. Tuttavia –ed è

questa la differenza con il binomio precedente- alla lettera (d), per bocca

61Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967, su cui amplius

infra.

62 Cfr. D. NOCILLA, Situazione rappresentativa e rapporto nel diritto positivo e

nelle prospettive di riforma della rappresentanza politica, in "Arch. Giur.", 1990, pp. 87 e

ss., seppure è forte la tentazione di sciogliere il rapporto, cedendo alle tentazioni

lusinghiere esposte in E SIEYÈS, Dire de l’abbé Sieyès sur la question du veto royal, nella

seduta dell’Assemblea nazionale del 7 settembre 1789, su cui infra.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

46

del matematico eleate, Platone espone il suo pensiero in tema di

rappresentanza, proponendo una distinzione fondamentale: non bisogna

confondere rappresentazione ed apparenza. Infatti due sono le vie che si

possono percorrere nell'arte dell'imitazione, e che conducono a risultati

diversi: il primo è l'eikón, la buona immagine, l'immagine fedele alla sua

natura di immagine come altro dalla cosa che richiama alla mente. L'eikón

è una cosa, il suo modello un'altra: non può nascere confusione, non c'è

sofisma; anzi la rappresentazione proponendosi come immagine del

modello, ma contemporaneamente avvisando di non essere il modello,

denunziando in qualche modo la sua parzialità, si offre come valido ed

utile mezzo al processo conoscitivo, trovandovi dignità concettuale. Altro

è il phántasma, l'apparenza, l'immagine che tradisce la sua natura,

negando il rapporto con la cosa rappresentata, ponendosi come

autosufficiente, cioè non come semplice immagine di qualcos’altro, ma

come la cosa rappresentata, non come l’immagine, ma come l’ente in sé

stesso; ed in questo il phántasma si pone anche in concorrenza con la

realtà: dimenticando, anzi tradendo, la sua natura d’immagine e

pretendendo di essere la cosa che dovrebbe rappresentare, il phántasma

mira a sostituirsi alla cosa da cui ha preso la forma.63

Lungi dall'essere

63 Esempio ne sia l’Assemblea nazionale che pretende di essere la nazione,

l’immagine astratta del Popolo che pretende di essere il popolo. Per gli esempi giuridici

della struttura del phántasma, cfr. infra, § II.1.1. e II.2.

Su avvicina alla distinzione, pur non riconoscendone la radice platonica, anche

H.G. GADAMER, (Wahrheit und Methode, Tübingen, 1960, tr. it. Verità e metodo, a cura di

G. Vattimo, Milano, 1983, p. 191 e ss.), laddove propone la differenza tra l’immagine

originale (Urbild) e l’immagine come copia (Abbild), seppure non viene indicato il

movimento o la tensione che lega la prima alla seconda, sicché la costruzione dell‘Autore

tedesco sembra quasi collocata al di fuori del tempo. Ma è ben chiarisce il rapporto che

lega rappresentante e rappresentato, quando afferma che “l’importante, nel concetto

giuridico di rappresentanza è che la persona repraesentata è solo rappresentata e tuttavia il

rappresentante che ne tiene luogo ne dipende” (cfr. op. ult. cit., p. 179). Su questa

dipendenza, seppure implicitamente, l’Autore sembra fondare, a nostro avviso

correttamente, il principio di responsabilità che il rappresentante mantiene nei confronti

del rappresentato e che costituisce la vera essenza, come tale insopprimibile, della

rappresentanza. Non sembra invece cogliere la valenza della distinzione H. ARENDT, On

Revolution, New York, 1963, tr. it. Sulla rivoluzione, Milano, 1983, p. 145, quando

propone la differenza tra persona e hypokrites: se è vero che i fantàsmata di Platone sono

degli “ipocriti”, la teorica della filosofia pratica si limita a criticare l’etimologia della

maschera – strumento teatrale qui per sonat, distinguendo rappresentazione da realtà,

limitandosi però ad un discorso di somiglianza, guardando alla fedeltà come somiglianza,

non come dichiarazione di altro dalla realtà, cioè di immagine, rappresentante di

qualcos’altro.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

47

utile al processo conoscitivo, l'apparenza confonde il ricercatore, poiché

non distinguendo tra cosa e sua rappresentazione ingenera un numero

incontrollato di realtà concorrenti o meglio, di apparenze senza realtà.

Occorre a questo punto mettere bene in evidenza ciò che da questa

distinzione ci sembra emergere come l'essenziale caratteristica della

rappresentanza, come criterio discretivo tra rappresentazione e apparenza.

Non tanto la maggiore o minore similitudine al modello distingue la prima

dalla seconda, quanto la fedeltà alla propria natura di immagine, il suo

manifestarsi dichiarandosi come altro dalla cosa che rappresenta, ma

legata funzionalmente a questa. In altre parole, un rappresentante, prima

di essere rappresentativo, cioè somigliante alla cosa che rappresenta,

specchio fedele dei rappresentati, deve mantenersi fedele alla sua natura di

immagine (che in fondo è la ragione per cui si ricorre alla sua opera), cioè

come altro dalla realtà che rappresenta, non deve porsi come

autosufficiente, come concorrente del rappresentato. In questo senso nel

testo si è usata l'espressione rappresentatività senza rappresentanza:

somiglianza senza rapporto, senza responsabilità; apparenza senza realtà.

Dalla coscienza del rappresentante di essere altro dal rappresentato,

dell'esistenza di un originale cui la copia, se buona immagine, deve

rinviare, ci sembra di poter dedurre che in tema di rappresentanza di

volontà, la volontà espressa dal rappresentante debba necessariamente

richiamare una volontà (o gli interessi, non vale qui distinguere) di cui (e

solo in forza di ciò) la rappresentazione è tale. In altri termini, se nella

rappresentanza relativa all'essere, cioè nel portare nuovamente a presenza

l'assente, perché si abbia eikón, per garantire cioè il dualismo della

rappresentanza, è sufficiente l'avvertenza che esiste un altro termine

(anche solo concettuale) rappresentato; al contrario, laddove il

rappresentante pone in essere atti di volontà giuridicamente rilevanti

(anche per il rappresentato), in questo caso, per mantenere il dualismo

della struttura rappresentativa, non è sufficiente il rinvio al rappresentato

nella sola sua essenza, ma il rinvio deve comprendere anche la volontà di

quest'ultimo: come vi deve essere un rappresentato cui il rappresentante fa

rinvio, allo stesso modo, crediamo, deve sussistere una volontà

rappresentata cui la volontà del rappresentante fa rinvio; ma tale rinvio, a

sua volta, non deve portare all'annichilimento del rappresentante

riducendolo a mero nuncius della volontà preconfezionata del

rappresentato. Nella rappresentanza di volontà, il phántasma è evitato e

l'eikón è raggiunto o, in altri termini, il dualismo della struttura

rappresentativa si realizza quando si può fare un confronto tra volontà del

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

48

rappresentante e quella del rappresentato, cosicché la prima, pur non

essendo la mera copia della seconda (nuncius), non sia da questa avulsa o

contraria (phántasma): si impone allora, prepotente, il fondamento di un

principio di responsabilità del rappresentante verso il rappresentato per il

proprio operato. Tale necessità, ci sembra, non viene superata sostituendo,

secondo la dottrina americana,64

gli interessi del rappresentato alla sua

volontà, atteso che comunque la conoscenza di questi e la loro

corrispondenza con la volontà manifestata dal rappresentato deve avvenire

con un atto, un giudizio di quest'ultimo, non con l'interpretazione di

conformità datane dal rappresentante stesso. Né il phántasma può essere

scongiurato sostenendo65

che i rappresentanti debbano agire secondo gli

interessi dei rappresentati, posto che normalmente interessi e volontà

coincidono: da un lato si ripropone il problema di chi sia il migliore

interprete degli interessi del rappresentato, dall'altro emerge una

costruzione tutoria, del rappresentato necessario, di cui si prende cura il

rappresentante, e si avrà modo di vedere come la rappresentanza

necessaria proprio rappresentanza non sia.66

64 cfr. H.F. PITKIN, op. cit., nella trad. it. parziale apparsa in La rappresentanza

politica, a cura di D. Fisichella, cit., p. 195. Seppure la teoria della rappresentanza degli

interessi aveva già avuto altri sostenitori, tanto che si fatica ad attribuirne con certezza la

paternità, taluni arrivando anche a riconoscerla in capo ad Edmund Burke, nel suo famoso

discorso agli elettori di Bristol.

65 H.F. PITKIN, op. ult. cit. p. 206. Si tratta, invero di un tentativo sincretistico, teso

a trattare gli interessi al pari della volontà, ricercando l’elasticità di contenuto dei primi

con la rigorosa ed univoca riferibilità della seconda. In effetti, tutta la teoria in esame si

fonda sulla empirica (ma non scontata) coincidenza di volontà ed interessi. Sempre

empiricamente rileviamo come nei moderni sistemi politici lo stesso interesse possa essere

perseguito in più e diversi modi, sicché resta alla volontà determinarne la concreta scelta

della via da seguire. La teoria della studiosa americana dimostra la propria inutilità proprio

in quelle società “evolute” (come gli Stati Uniti degli anni Sessanta), ove il benessere

generalizzato costituisce appagamento degli interessi, sicché le scelte politiche sono

demandate ad atti di volontà, atti a scegliere tra i termini di un’alternativa, le cui due

soluzioni tutelano comunque gli interessi.

66 Infatti, la rappresentanza necessaria, come istituto di protezione, tende a fornire

di volontà capace di effetti giuridici colui che non è in toto o non è ancora in grado di

averne una di propria. Sulle spalle di Gans e di Jellinek si esamineranno i limiti di tale

costruzione a la sua non esportabilità nel campo del diritto costituzionale. In questa sede

preme mettere in evidenza come, ad onta di una capacità giuridica assicurata all’incapace,

difetti proprio la capacità di agire, con la conseguenza dell’annichilimento di ogni

incisività d’azione e la riduzione del proprio volere al quello del rappresentante.

Quand’anche permangano due soggetti distinti, dotati di propria capacità giuridica,

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

49

Due sono allora le arti dell'imitazione: l'arte dell'apparenza senza

realtà in cui l'immagine ponendosi come autosufficiente dimentica il

modello e il rappresentante rendendosi irresponsabile tradisce i

rappresentati. E l'arte della rappresentazione ove la buona immagine è

altro dal modello (financo non somigliante), ma si richiama a questo,

secondo una struttura che ha nella dualità il suo paradigma.

Gerhard Leibholz nella sua acuta analisi linguistica, ci ricorda come

il termine rappresentare “non sia di origine classica” (riservando

evidentemente la qualifica di “classico” alla sola grecità), e lo si incontri

per la prima volta in Cicerone e Cesare con determinati significati

specifici come: realizzare qualcosa "qui ed ora", garantire, fare in modo

che, utilizzare. "Anche in questo senso temporale figurato, il significato

originario della parola emerge nell'espressione: 'qui ed ora', che indica il

fatto che si realizza qualcosa che altrimenti non accadrebbe".67

E qui

riemerge ancora la dualità della struttura rappresentativa;68

del rendere

nuovamente presente qualcosa che è già esistente in maniera autonoma e

autosufficiente, ma che non lo è qui ed ora, se non per mezzo di un

rappresentante, a sua volta autenticamente esistente -a prescindere cioè dal

ruolo di rappresentante- ma a differenza del rappresentato, realmente

presente "qui ed ora". Né i due termini cioè, rappresentante e

rappresentato, né uno dei due, devono la loro esistenza alla funzione del

rappresentare, ma esistono a prescindere da questa.

Indubbiamente tale funzione può influire sulla natura dei soggetti,

ma non può esserne condizione di esistenza, senza negare se stessa.

l’assenza di volontà originaria dell’incapace produce l’appiattimento del rapporto tra

rappresentante e rappresentato sulla situazione del rappresentante, unico vero dominus. Per

tutt'altro tipo di considerazioni intorno alla coppia eikón-phántasma nei dialoghi platonici,

cfr. G. DUSO, La rappresentanza: un problema di filosofia politica, cit., pp. 38 e ss.

67 G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der

Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo

diverso è del 1929), trad. it. Milano, 1989, p. 85, nota 7. Il riferimento al “qui ed ora”

veicola l’esistenza del rappresentato come ente a sé stante, esistente pure in assenza del

rappresentante, esistente però in un altro luogo o, addirittura, in un altro tempo; ma

comunque esistente: tanto basta per riconoscere l’insopprimibilità del dualismo strutturale

proprio della rappresentanza.

68 Cfr. H. HÄTTICH, Demokratie als Herrschaftsordung, in H.H. RAUSCH (a cura

di), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung,

Darmstadt, 1968, p. 498 ss.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

50

Leibholz individua nel § 311 della Filosofia del Diritto di Hegel,69

il

rappresentare come nuovamente 'portare a presenza', ove il Maestro di

Berlino prescrive che i rappresentanti siano consapevoli degli speciali

bisogni, ostacoli ed interessi particolari della Società civile,

partecipandovi essi stessi. Tuttavia, Leibholz non sembra prestare la

debita attenzione al ruolo che ha la deputazione della Società civile di cui

si tratta in quel paragrafo: poiché essa promana direttamente secondo la

natura della Società civile e dalle sue diverse corporazioni, secondo il noto

movimento dialettico della storia, Hegel può affermare che per il suo

compito non è necessaria elezione, che si traduce in qualcosa di superfluo

o in un vile gioco, precisando inoltre che se i deputati sono considerati

come rappresentanti ciò ha un significato “organicamente razionale”

purché si intenda che essi non sono rappresentanti dei singoli, cioè di una

moltitudine disorganizzata, ma sono rappresentanti di una delle cerchie

essenziali della società. In forza di questa deduzione viene criticata la

concezione della rappresentanza intesa come “l’uno al posto dell’altro” (lo

standing for, riesumato come novità da Hanna Pitkin centotrenta anni

dopo), poiché l’interesse è proprio ed attuale negli stessi rappresentanti e

questo sarebbe indice della scarsa considerazione nella quale (già allora)

era tenuto in considerazione il diritto di voto, provocando, con

l’astensione generalizzata, proprio quell’atomismo, quella prevalenza

dell’interesse particolare ed accidentale che con la rappresentanza doveva

essere superato. Ma in realtà, il paragrafo ove Hegel introduce la

rappresentanza non è propriamente il § 311, né Leibholz richiama il § 309

che riguarda il rapporto tra eletti ed elettori, sul quale avremo agio di

soffermarci in seguito, né, tantomeno, fa riferimento al § 302 che

introduce il problema della rappresentanza e che merita di essere

anticipato fin d’ora per gli sviluppi della nostra indagine. La

rappresentanza avviene per classi, intese –secondo la tradizione

medioevale- come organo di mediazione tra il detentore del potere ed il

popolo concepito come somma di singoli. L’aggregazione dei cittadini

nelle corporazioni avviene tramite il senso dello Stato e nel contempo

degli interessi particolari delle cerchie e dei singoli. Sicché le classi non

sono in antitesi con il governo, ma in delicato equilibrio tra il singolo e lo

Stato, alle cui funzioni, peraltro, concorre.

69 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 85, nota 8.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

51

Questa costruzione, che peraltro non esaurisce il pensiero di Hegel

sulla rappresentanza,70

ben implica due soggetti, distinti ed esistenti, ciò

che si rappresenta e chi lo rappresenta; senza il primo il rappresentante

rappresenterebbe sé stesso, senza il secondo il rappresentato non sarebbe

tale. L'importanza che l'uno può avere in un determinato contesto non può

intaccare l'esistenza dell'altro e viceversa. In altre parole non bisogna per

esempio, che il rappresentato per esistere, debba farsi rappresentare. Solo

in questo senso si può concordare nel definire il rappresentare un portare a

presenza come portare nuovamente ad esistenza.

A questo proposito Glum71

indirizza a Schmitt una critica radicale

sulla natura della rappresentanza, intesa come portare a presenza l'assente,

concezione che Duso72

definisce "particolarmente aporetica". Per Glum

sarebbe contraddittorio affermare che ciò che si presuppone assente sia

nello stesso tempo reso presente; poiché se il rappresentato, grazie al

rappresentante è reso presente, non sarebbe più assente, ma

semplicemente presente. E conseguentemente, aggiungiamo noi, non

avrebbe più necessità di essere rappresentato. Tutto ciò, secondo noi,

muove dal non considerare quanto la tradizione giuridica, a far data

dall'insegnamento romano, ritiene per acquisito e che appare dalla stessa

analisi linguistico concettuale del termine rappresentare.

Occorre mettere bene in evidenza la distinzione tra nuncius e

rappresentante: mentre il primo è strumento per far giungere dichiarazioni

predeterminate da o a un soggetto; il secondo, per contro, gode di una

soggettività propria, talché il portare a presenza il rappresentato è dato

dalla combinazione di due soggetti: il rappresentato ed il rappresentante.

Ciò che viene reso presente con la rappresentanza, non è il rappresentato

nella sua identità, né potrebbe comunque esserlo, ma il rappresentato

attraverso l'opera del rappresentante. Glum muove da presupposti di unità

- identità anziché da una visione di dualità - rappresentanza. La differenza

risulterà chiara considerando che l'assemblea non è il popolo, il

70 La trattazione della concezione di Hegel attorno alla rappresentanza ed in

particolare l’esame del § 309 e seguenti delle Grundlinien dev’essere rinviata al § II.3.1,

ove sarà ripresa, peraltro limitatamente a quanto interessa per comprendere la riflessione

degli Epigonen, i suoi allievi che tanto hanno influito sulla giuspubblicistica tra XIX e XX

secolo.

71 Cfr. GLUM, Begriff und Wesen der Rapräsentation, in H.H. RAUSCH, op. ult. cit.

72 G. DUSO, La rappresentanza, un problema di filosofia politica, cit., p.28, n. 38.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

52

Parlamento non è la Nazione (e si esamineranno nei prossimi capitoli le

conseguenze perverse di siffatta identificazione), ma non per questo solo

si deve concludere che l'uno non rappresenti l'altro.

Due soggetti esistenti dunque, con la differenza che il rappresentato

non lo è nel luogo e nel tempo in cui lo rende il rappresentante. Per

Leibholz allora, il rappresentare non sarebbe altro che il superare i limiti

spazio - temporali73

del rappresentato grazie al rappresentante; non il

venire ad esistenza di una cosa che altrimenti non sarebbe se non grazie al

suo rappresentante. Tale ultima ipotesi infatti annichilirebbe il

rappresentato riducendolo, con Platone, al fantasma del rappresentante,

negando il dualismo, assolutizzando uno dei due termini. Tuttavia,

sembrerebbe che per Leibholz il ruolo del rappresentante sia solo quello di

manifestare il rappresentato, senza aggiungere nulla di suo. Il

rappresentante sarebbe si esistente, ma sarebbe solo un mezzo; si corre qui

il rischio opposto di assolutizzare il rappresentato, riducendo il

rappresentante a nuncius.74

"Attraverso la rappresentazione dunque,

qualcosa viene pensato come assente e allo stesso tempo presente. In

questo processo sta la dialettica specifica che è propria del concetto di

rappresentazione" conclude Leibholz.75

E avverte: “come il rappresentato,

secondo l'analisi linguistica, deve possedere un'esistenza autonoma, così

73 In questo senso sembra orientato anche Cassirer, che nello stesso periodo (1923),

scrive: "Solo in questa rappresentazione e mediante essa diventa possibile anche ciò che

noi chiamiamo l'esser dato e la presenza del contenuto. Tutto ciò risulta subito e

chiaramente se prendiamo in considerazione anche soltanto il caso più semplice di questa

«presenza»: la relazione temporale e il «presente» temporale. Nulla sembra essere più

sicuro del fatto che tutto ciò che è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si

riferisce ad un singolo istante, o a un determinato «ora», ed è in esso racchiuso." E.

CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, vol I, trad. it., Firenze, 1961, p.37 ss. Sul

medesimo punto, cfr. G. GADAMER, Verità e Metodo, trad. it., Milano, 1983, p. 152.

74 Cfr. tuttavia G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 95.

75 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 70. Qui non entriamo nel merito della distinzione di

Leibholz tra la rappresentazione come ruolo specializzato della rappresentanza, ci

accontentiamo di indagare la struttura della rappresentanza tout-court. Anche in Italia del

resto si è sostenuto, più di trent’anni or sono, da T. MARTINES (in AA.VV., La funzionalità

dei partiti nello stato democratico, Milano, 1967, p. 231) la distinzione tra rappresentanza

e rappresentazione, dove quest'ultima avrebbe la peculiarità della somiglianza tra

rappresentante e rappresentato che nella prima non troverebbe considerazione. D. NOCILLA

(op. cit. nota 19) avverte comunque che "si tratta di discussioni spesso sottili che a volte

lungi dal recare elementi di semplificazione, finiscono per ampliare i problemi".

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

53

anche il rappresentante deve potere, e volere, rendere presente l'entità da

rappresentare.”76

Avremo modo di tornare sull'inciso 'e volere'.

Da quanto detto non sembra compatibile la rappresentanza in

termini di identità. Mentre la prima ha struttura duale, la seconda è

costruita sull'unità. La conseguenza è che il rappresentato non diviene

nuovamente percepibile in modo oggettivo e concreto nel rappresentante.

Per riprendere degli esempi nel campo giuridico, il Parlamento non è la

Nazione, né il Sovrano è il Popolo; si potrà verificare se uno rappresenti

l'altro e a che condizioni, ma non c'è identità fra essi.

Avremo modo di tornare anche sulla struttura dell'identità fondata

sull'unità o meglio sull'unicità, come caratterisitica - esigenza dello Stato

moderno e sulle aporie che comporta in tema di rappresentanza. Qui

preme ora ricordare quanto Schmitt afferma sulla rappresentanza, cioè che

"non è né un fatto normativo, né un processo, né una procedura, ma

qualcosa di esistenziale. Rappresentare significa rendere visibile e

illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente

pubblicamente. La dialettica del concetto consiste nel fatto che l'invisibile

è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente".77

Tuttavia

76 G. LEIBHOLZ, op.cit., p. 70. Lo stesso autore parla di “duplicità” del concetto di

rappresentanza che tuttavia non ha molto a che vedere con quanto si manifesterà con il

dualismo insito nell’idea di rappresentanza. Per il pensatore tedesco, infatti, la duplicità è

data dalla realtà del rappresentato al di là ed al di fuori della rappresentanza, così come, per

il secondo profilo, si deve mantenere distinta la rappresentanza dall’identità e,

conseguentemente, dalle figure che sul paradigma dell’identità si fondano. A questo

proposito si può concordare almeno parzialmente coll’autore, nel senso di ritenere che

contrasta con la rappresentanza ogni figura mutuata sull’unicità, che sicuramente partecipa

dell’idea di identità; ma si è certi che l’affermazione possa essere ampliata fino a creare

un’antitesi identità / rappresentanza.

77 C. SCHMITT, Verfassungslehre, Leipzig, 1928, trad. it., Dottrina della

Costituzione, Milano, 1984, p. 277. Sul problema della rappresentanza nella Germania

degli anni Trenta, cfr. l’ottima indagine di A. SCALONE, Rappresentanza politica e

rappresentanza degli interessi, Milano, 1996. Con informata precisione l'Autore ci

guida alle radici delle difficoltà incontrate prima da Smend ed Heller, ma soprattutto

da Carl Schmitt, nel tentativo di descrivere, ormai più che di influire, sull'ormai

ineludibile riconoscimento di una reale distinzione tra rappresentanza politica e

rappresentanza degli interessi, prendendo con ciò atto dell'intervenuta rottura della

Einheit der Rechtsordnung, come hanno avuto modo di precisare recentemente, con

dovizia di particolari, due esponenti della più attenta dottrina tedesca, peraltro non

considerati da Scalone, G. MEUTER, Der Katechon. Zu Carl Schmitts

fundamentalischer Kritik der Zeit, Berlin, 1994, specialmente, p. 260 e 278; e K.

WACHTER, Studien zum Gedanken der Einheit des Staates. Über die

rechtsphilosophische Auflösung der Einheit des Subjektes, Berlin, 1994, che compara

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

54

sistematicamente le costruzioni di Schmitt, Smend, ed Heller, seguendo il duplice

binario del progressivo articolarsi del monolitico Stato di concezione prussiana e del

parallelo consolidarsi dell'individuo nel campo pubblico (il cittadino), a dispetto della

tradizione germanica che ha sempre privilegiato il "gruppo", nella forma della Sippe e

degli Stände.

Infatti, i sempre più deboli richiami all’unità etica del popolo (p. 46)

allontanano questi Autori dal fondamento delle costruzioni degli Staatslehrer di soli

cinquant'anni prima, affrancandoli così, almeno in parte, dal debito hegeliano (ma più

propriamente -crediamo- della Destra hegeliana di Rosenkranz, Oppenheim, Rössler

e, soprattutto, Erdmann) che aveva caratterizzato le prime due generazioni di

giuspubblicisti tedeschi, da Gerber a Jellinek.

Secondo Scalone, insomma, da un lato vi sarebbe la presa d’atto dei pensatori

tedeschi degli anni Venti e Trenta che la società civile, nell’urgenza delle esigenze

economiche, preme con insistenza per concorrere all'indirizzo, se non ad assumere la

gestione, dell'interesse pubblico, fino ad allora -per definizione- stretto monopolio

dello Stato, vanificando così la tradizionale distinzione accademica tra Stato e società

(p. 47).

Per altro verso, e di conseguenza, si inserisce la figura del partito politico

(sulla cui importanza in quegli anni, ci sembra essenziale il rinvio alla recente

monografia di K. RUPPERT, Im Dienst am Staat von Weimar. Das Zentrum als

regierende Partei in der Weimarer Demokratie 1923 - 1930, Düsseldorf, 1992;

nonché al saggio di Ch. GUSY, Die Lehre von Parteienstaat in der Weimarer

Republik, in "Der Staat", 1993, p. 57 e ss.), vera e propria contradictio in terminis,

soprattutto per Schmitt, che Scalone in questo senso oppone ai c.d. pluralisti, come

Weber e Leibholz. Infatti, ove "politico" corrisponda a "pubblico" e cioè a "statale", il

partito altro non può essere che un gruppo esponenziale portatore di un interesse

particolare da far pesare nella determinazione della rotta del pubblico bene,

costringendo la dottrina a quell'inesausta rincorsa per comprenderlo in qualche modo

(p. 168) all'interno della forma necessariamente unitaria dello Stato moderno, che,

dalle considerazioni sociologiche di Max Weber (secondo il collegamento tra l'opera

di Schmitt e il pensiero di Max Weber, ripreso recentemente anche da G. EISERMANN,

Max Weber und Carl Schmitt, in "Der Staat", 1994, p. 76 e ss.), attraverso la

Repräsentation di Leibholz, porta al compromesso di Kirchheimer e di Kelsen e alla

dichiarata fictio della rappresentanza parlamentare, alle recenti elaborazioni di

Fraenkel e alla rappresentanza degli interessi organizzati di Kaiser, fino agli ultimi

contributi di Steinberg, che cerca di coniugare la tradizione tedesca con l'esperienza

americana, proponendo una correlazione paritetica tra Stato e partiti, ove

l'aggregazione e formazione di interessi dei secondi è di pari dignità e rilevanza

pubblicistica del primo, agevolandone il lavoro e rendendolo edotto sulle esigenze da

soddisfare (p. 181). Per i debiti di Savigny nei confronti del pensiero di Burke, cfr.

anche E. FRAENKEL, Der Doppelstaat, Frankfurt (a M.), 1974 (ma 1941), nella trad. it.

Torino, 1983, specialmente p. 159 e ss. Sul punto si venda anche M. WEBER,

Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1922; G. SIMMEL, Über soziale

Differenzierung, Leipzig, 1890.

In altri termini, l'ineludibile presa d'atto dell'esistenza di un

Interessenrepräsentation, la differenza di volontà e di interessi nel campo pubblico tra

cittadino e Stato (ancora dichiarata da Jellinek con implicito riferimento al § 258 e

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

55

per Schmitt la rappresentanza ha rilevanza solo nel campo pubblico: gli

interessi privati possono essere delegati. "Nella rappresentanza invece, si

manifesta concretamente una più alta specie di essere. L'idea della

rappresentanza si basa sul fatto che un popolo che esista come unità

politica rispetto all'esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che

vivano insieme, ha una specie di essere più alto e sviluppato, più intenso.

Se viene meno il senso di questa particolarità dell'esistenza politica e gli

uomini preferiscono altri modi del loro esistere, scompare anche la

260 della Rechtsphilosophie di Hegel, forse nell'interpretazione datane dagli allievi),

la dichiarata esistenza, in fondo, di esigenze pubbliche particolari (quando non

individuali), necessariamente diverse tra di loro e, magari, contrastanti con quelle

dello Stato, conduce i pensatori di Weimar, da un lato, a dichiarare spezzata la sfera di

Sieyès, senza però trarne tutte le conseguenze sul piano del diritto costituzionale

(p.203); dall'altro, a tentare di ricomprendere il partito nella Einheit der

Rechtsordnung.

L'Autore può così concludere chiedendosi se la rappresentanza degli interessi,

più che smascherare la pretesa unità dello Stato moderno, non ne sia invece che

l'epifenomeno. Le due cose non ci sembrano escludersi a vicenda, anche per chi abbia

assunto che nella nozione di Repräsentation -pur nel suo significato specifico, distinto

da Vertretung e Darstellung- "si compendia la struttura logica dell'intera forma-Stato

moderna, che trova la sua prima e più compiuta formulazione nel Leviathan di

Hobbes" (p. 22, in nota).

Preme invece notare come in questo saggio la rappresentanza (politica e degli

interessi) non sia esaminata per indagarne l'intima struttura dualista, contrastante con

la pretesa unicità propria dello Stato moderno, quanto piuttosto per metterne in rilievo

il ruolo di elemento scardinante la forma-Stato moderno: muovendo infatti

dall'equazione tra pubblicità e struttura rappresentativa, sostenendo cioè che non può

darsi Öffentlichkeit se non tramite rappresentanza, e ciò anche nelle forme di

democrazia identitaria, si deduce necessariamente che nel momento in cui i Verbände

divengono elementi del pubblico, o portatori di esigenze di cui si fa carico lo Stato,

accedono inevitabilmente alla Repräsentation, condividendone assenza di

legittimazione, infondatezza e fictio, in quanto "non esistono, o perlomeno, non sono

politicamente rilevanti, interessi naturali" (p.204), secondo quanto già percepito,

forse, tanto da Schmitt che da Leibholz, sul confronto delle cui posizioni, in un ottica

di Allgemeine Staatslehre, non si può che rinviare al ricchissimo K. A.

SCHACHTSCHNEIDER, Res publica res populi. Grundlegung einer Allgemeinen

Republiklehre. Ein Beitrag zur Freiheits-, Rechts-, und Staatslehre, Berlin, 1994,

specialmente 8. Teil: Die republikanische Vertretung des ganzen Volkes, ed in

particolare il 4. Kapitel: Repräsentation und Identität in den Lehren von Carl Schmitt

und Gerhard Leibholz, pp. 735 e ss.

Si verifichi, altresì, l’assonanza di queste posizioni con la costruzione di Erdmann

di quasi un secolo precedenti, su cui infra, § II.3.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

56

comprensione di un concetto come la rappresentanza.”78

Sembrerebbe che

l'impossibilità di concepire la rappresentanza nell'ambito del diritto

privato per Schmitt, sia dovuta non alla diversità della struttura che stiamo

enucleando, ma proprio per il diverso ambito di applicazione. Gli affari di

diritto privato in altre parole, concernono il singolo e non riguarderebbero

la sfera politica. E questo carattere distinguerebbe rappresentanza politica

da delega privata. In altre parole, e con un paradosso, nell'ambito pubblico

i cittadini possono entrare in relazione tra di loro e può darsi

rappresentanza. Nell'ambito privato non entrano in rapporto uti cives, ma

uti singuli e nemmeno la rappresentanza sarebbe concepibile bensì solo

una delega. Questo è uno dei passaggi meno felici del pensiero di Schmitt,

ove maggiormente si fanno sentire le esigenze sistematiche e

classificatorie della dogmatica giuridica della tradizione tedesca, che ha

troppo presto dimenticato come tutti i concetti del diritto pubblico siano

stati mutuati (sempre trasformandoli, spesso stravolgendoli) dal diritto

privato, secondo l’intento programmatico lucidamente espresso da Gerber,

nel 1852, come si dirà al § II.3.2. In realtà è contraddittorio sostenere che

la politica metta in relazione gli uomini, ma solo nell'ambito pubblico,

quasi che nel privato non si diano relazioni giuridiche complesse, frutto di

78 Ibidem. Per capire appieno questo passaggio del pensatore politico tedesco, a

nostro avviso, occorre tenere a mente quando da lui esposto nello stesso volume, più di

cento pagine prima (a pag. 114 dell’ottima traduzione italiana curata da Antonio

Caracciolo). Gli uomini che si aggregano, di cui abbiamo appena letto, sono gli stessi che

costituiscono la nazione, intesa allo stesso modo di (e con espliciti riferimenti a) Sieyès,

cioè, come vedremo infra al § II.2, cioè una nazione continuamente allo stato di natura,

non tanto nei rapporti internazionali, ché questo era uno dei casi dello stato di natura

indicati da Hobbes (elemento di prova della non convenzionalità dell’originario luogo

dell’unicità), quanto piuttosto al proprio interno, titolare di soli diritti, anzi pretese, e non

soggetta a nessun dovere: si tratta in sostanza della manifestazione del potere costituente,

di tutto ciò che può essere per il solo fatto di esserlo, secondo l’icastica formulazione di

Sieyès. Di più, la volontà non potrebbe essere del popolo per il semplice motivo che il

popolo non può avere una volontà, altrimenti si concreterebbe un mandato imperativo nei

confronti dell’assemblea (cfr. C. SCHMITT, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen

Souveranitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, 1921, trad. it. La Dittatura.

Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Bari, 1975, p.

155. Per l’originalità dell’interpretazione di Sieyès resa da Schmitt, cfr. C. GALLI,

Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna,

1997, specialmente p. 582). È solo l’assemblea che “fa volere” il popolo; anzi, poiché il

popolo non corrisponde all’immagine che ne dà l’assemblea, lo si sostituirà con il Popolo,

secondo una produzione di “maiuscole” che avremo agio di esaminare più avanti.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

57

esigenze politiche.79

La primogenitura storica del privato sul pubblico ne

sottende, in realtà, una di carattere logico. È il comunicare degli uomini,

lògon èkon, a permettere la nascita della politica, ed il diritto è lo

strumento di tale comunicazione. Essa si concreta tanto nel privato quanto

nel pubblico (quand’anche –come detto- la distinzione sia proficua e la si

voglia mantenere a fini sistematici) e ne è la ragione di esistenza. La

rappresentanza è pertanto concepibile, con identica struttura, nei due

ambiti tradizionali del diritto, a meno di ritenere, come sembra fare

Schmitt, che la categoria della relazionalità, cara a Simmel, sia solo nel

settore pubblico, ma già questo solo impone di affermare anche la

distinzione tra pubblico e privato è antecedente al diritto, alla giuridicità.

Ma un ulteriore passo adesso si impone per enucleare appieno la

struttura della rappresentanza ed il contributo ci viene ancora una volta da

Leibholz: "se la rappresentazione è da distinguere concettualmente

dall'identità, deve altresì venir differenziata anche dalle situazioni

oggettive della solidarietà, che sul pensiero dell'identità si fondano".80

Tuttavia la struttura dell'identità non dovrebbe essere ritenuta

79 In altro luogo Schmitt sembra cogliere l’intima struttura dualistica della

rappresentanza che andiamo scoprendo quando afferma che la rappresentanza è così

dominata dal pensiero dell’autorità personale che “tanto il rappresentante quanto il

rappresentato devono conservare una dignità personale”. A questa osservazione fa subito

eco la perentoria affermazione del carattere necessariamente “autorevole” che deve

dimostrare il rappresentante per qualificarsi tale. Proprio l’autorevolezza starebbe alla

radice della rappresentanza politica, distinguendola dalla “meschinità” della delega privata

dove si concreta un semplice “stare al posto di altri”. In questa prospettiva, però, il

dualismo è solo apparente, poiché l’affermata esistenza “personale” di rappresentante e

rappresentato viene assorbita nell’autorevolezza (o nell’autoritarismo) del

“rappresentante”. Infatti, se da un lato Schmitt insiste nella non riducibilità della

rappresentanza politica a mera Vertretung, dall’altro non fa nulla per mantenere la

protestata dignità personale del rappresentato, cui non spetta alcun sindacato sull’opera del

rappresentante, né è previsto alcun giudizio di responsabilità, che –come andiamo dicendo-

è la misura della dualità. Cfr. C. SCHMITT, Römisches Katholizismus und politische Form,

München, 1923, trad. it. Cattolicesimo romano e forma politica, Milano, 1986, p. 50. Sul

punto si veda anche C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del

pensiero politico moderno, Bologna, 1997, specialmente p. 272 e ss.

80 G. LEIBHOLZ, Die Repräsentation, cit., p. 73. L’Autore riprende e fa propria la

contrapposizione rappresentanza - identità tematizzata da Schmitt. Sul punto si veda anche

la recensione di E. VOEGELIN, Die Verfassungslehre von Carl Schmitt. Versuch einer

konstruktiven Analyse ihrer staatstheoretischen Prinzipien, in «Zeitschrift für öffentliches

Recht», XI (1931), p. 89 e ss., nella traduzione italiana curata da G. Zanetti, in G. Duso (a

cura di) Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, 1988, p. 291 - 314

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

58

incompatibile con una pluralità fisica di soggetti unitariamente intesi:

l'esempio proposto da Leibholz è l'unità della Sippe, nella responsabilità

per atti commessi da un suo componente verso un appartenente ad un altra

Sippe, ove il gruppo non è rappresentante del singolo, ma sarebbe in

rapporto di identità col singolo stesso, per quella forma di identità che

sarebbe la solidarietà. In questo modo si prospetta la possibilità che

l'unum Sippe possa essere rappresentato da un singolo, appiattendo le

diverse voci che compongono la Sippe. Leibholz si espone qui alla critica

kelseniana della rappresentanza come finzione.81

È difficile immaginare la

Sippe come qualcosa di distinto dai suoi componenti. In effetti la Sippe

può volere ed agire solo attraverso i suoi rappresentanti che la rendono

manifesta agli altri (compresi i suoi componenti), interpretandone i

bisogni e i desideri. È da notare come ogni procedimento di astrazione

esponga alla critica di finzione la rappresentazione del suo prodotto. Idee

di popolo unitariamente inteso, di nazione di corpo elettorale, non sono

ritenute rappresentabili perché effettivamente inesistenti, se non nella

rappresentazione, in completa balìa del loro "rappresentante", che tale non

sarebbe proprio per l'assenza del rappresentato. Si dovrebbe dire allora

che popolo, nazione, corpo elettorale, non esistono o non sono

rappresentabili? Crediamo di no. La difficoltà si annida nell'assegnare alla

rappresentanza funzioni diverse dal rappresentare, come il creare o

l'annichilire i soggetti. Perché la rappresentanza possa svolgere la sua

propria funzione occorre esercitarla con strumenti che siano suoi propri,

che non ne violentino cioè, la struttura dualistica. Ma che origine ha la

difficoltà di accettare il dualismo della rappresentanza?

Una prima risposta ci viene da Voegelin, seppure indirettamente.

Occorre dunque introdurre, per quel che interessa in questa sede, la

concezione della rappresentanza di questo autore. Richiamatosi alla

premesse metodologiche di Aristotele82

sullo scopo e sui limiti della

filosofia pratica e affidando al fluire della Storia l'insegnamento, ma non il

mero plagio, dei prodotti delle epoche trascorse, Voegelin individua

l'origine della rappresentanza nell'articolazione. Il diversificarsi della

società e l'emergere di differenti centri di interesse dal mare magnum

81 Cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it.

La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70. Sul punto cfr. altresì IDEM, Der Staat als

Integration. Eine prinzipielle Auseinandersetzung, Wien, 1930.

82 Tuttavia sul punto cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, p. 186,

195-6.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

59

medioevale, pronti ad agire nella Storia, portano alla necessità del

rappresentante. Così come a suo tempo il processo storico per cui si

giunge al limite estremo dell'articolazione, si era compiuto introducendo

la rappresentanza nell'antica Roma. "Per il momento basterà segnalare che

il passaggio in campo dialettico presuppone un'articolazione della società

giù giù fino all'individuo come un'unità rappresentabile. Questo

particolare tipo di articolazione non si realizza dovunque; di fatto, esso si

è realizzato solo nelle civiltà occidentali. Lungi dall'essere una

caratteristica della natura dell'uomo, la sua realizzazione è condizionata da

certe condizioni storiche che si sono verificate solo in Occidente. In

Oriente, dove queste condizioni storiche specifiche non si sono verificate

storicamente, questo tipo di articolazione non esiste e l'Oriente

rappresenta la parte più numerosa del genere umano."83

La rappresentanza

allora non sarebbe qualcosa di connaturale all'uomo, ma il frutto della

necessità di funzionamento, della convivenza in società. L'articolarsi di

questa porta alla diversità dei soggetti e dalla distinzione sorge impellente

la necessità di farsi rappresentare, che quindi si fonda proprio sulla

diversità come rottura dell'omogeneità originaria. In altre parole,

l'articolazione della società introduce quella diversità che permette la

distinzione dei singoli, prima indistintamente ricompresi nell'unità

dell'Essere al modo di Parmenide.

Il fatto che in Oriente tutto ciò storicamente non sia avvenuto,

sembra far concludere a Voegelin, contrariamente alla tradizione greca,

che il diritto e il vivere in società non siano propri dell'uomo; ma questo è

contro le intenzioni del filosofo austriaco. Tuttavia Voegelin distingue tra

rappresentanza esistenziale e rappresentanza 'elementare'. Quest'ultima

altro non è che il governo costituzionale di Hauriou,84

cioè la descrizione

della realtà data dalla veste giuridica. Il vero rappresentante sarebbe

quello in senso esistenziale, cioè colui che realizza nella Storia l'idée

directrice85

dell'istituzione di Hauriou. Secondo Voegelin un soggetto

esiste quando è capace di agire nella Storia e l'articolazione della società

altro non sarebbe che il frutto della spinta per determinate azioni: a quel

83 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 98.

84 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 106.

85 Ibidem. Una critica serrata alla definizione di rappresentanza proposta da

Voegelin è mossa da H. KELSEN, La democrazia cit., p. 123-143. La rappresentanza in

senso esistenziale sarebbe un concetto impreciso e politicamente ambiguo.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

60

punto occorre un rappresentante per ogni articolazione poiché l'unità è

spezzata. "E il monito implicito in tutto ciò può essere esplicitato così: se

un governo è rappresentativo soltanto in senso costituzionale, sarà

spazzato via, presto o tardi, da un capo rappresentativo in senso

esistenziale; e molto probabilmente il nuovo capo esistenziale non sarà

neppure rappresentativo in senso costituzionale".86

Tralasciamo per il

momento il ruolo del rappresentante come realizzatore di idee nella Storia.

Appare interessante la distinzione tra rappresentanza esistenziale,

esercizio del potere inarrestabile nella Storia, in cui vediamo tracce della

Herrschaft, tanto cara alla dottrina tedesca; e la veste giuridica,

rappresentanza elementare secondo Voegelin, che ricopre anche chi non è

più portatore dell'idée directrice. Essa indica una rotazione, necessaria, dei

rappresentanti, esprime la temporaneità della rappresentanza, salvo capire

chi veramente sia rappresentante - interprete dell'idée (lo deciderà il

Tribunale della Storia?). Ma da Voegelin emerge soprattutto che la natura

della rappresentanza è nella pluralità. La rottura dell'unità per le spinte

particolaristiche porta all'articolazione, ma, allo stesso tempo, l'esigenza di

ordine, necessario per la realizzazione delle idee direttrici che hanno rotto

l'unità, si risolve nella rappresentanza. Originata dalla pluralità, essa è

dunque chiamata a ricostruire l'ordine, la cui massima espressione è

quell'unità da cui si era partiti, ma che nella modernità è stata assunta in

un'accezione del tutto particolare.87

È stato messo bene in evidenza88

il carattere di unicità che sta alla

radice della concezione di Stato nel pensiero dei principali autori moderni.

Prendendo le mosse dalla sostituzione della volontà all'essere come

86 E. VOEGELIN La nuova scienza politica, trad. it. Torino, 1968, p. 107. Il concetto

viene esposto chiaramente a pag 137: "Al significato esistenziale della rappresentanza

bisogna aggiungere quello per cui la società è la rappresentante di una verità trascendente.

I due significati si riferiscono ad aspetti diversi di un solo problema, nella misura in cui: 1)

il rappresentante esistenziale di una società è il suo leader attivo nella rappresentanza della

verità; 2) un governo che si regge sul consenso dell'insieme dei cittadini presuppone

l'articolazione dei singoli cittadini fino al punto di poter partecipare attivamente alla

rappresentanza della verità mediante Peitho, la persuasione.”

87 Torna il binomio pluralità-rappresentanza / unità-identità, alla base anche della

costruzione di Leibholz e che Schmitt chiama "i due principi della forma politica". Cfr. C.

SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin, 1928, p. 270.

88 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984,

specialmente p. 57 e ss; p. 97 e ss.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

61

fondamento del diritto e dello Stato, sostituzione individuata chiaramente

e in forma esplicita già nell'opera di Marsilio da Padova, molto prima

dell'inizio convenzionale della modernità, si è enucleata la struttura

monista che sostiene lo Stato moderno. Con la sostituzione della volontà

all'essere quale fondamento del diritto infatti, uno Stato non è più tale "per

una sua qualità naturale", al modo della pòlis o come l'Impero rigenerato

dalla cristianità, rappresentato da Dante. Uno Stato è, perché frutto della

volontà del sovrano che lo unifica e lo organizza sotto la propria spada.

Nata come volontà parziale, partigiana, la volontà del sovrano che si è

progressivamente affermata, mantiene la struttura dell'unico anche quando

è divenuta Stato; né, considerate le premesse, potrebbe essere

diversamente. In questa prospettiva infatti, "pubblico" e "privato", sovrano

e singolo, in toto accomunati ciascuno dalla propria pretesa unicità, hanno

identità di struttura e in questo senso sono incapaci di instaurare fra di loro

alcun rapporto dialettico, alcuna comunicazione, essendo nel proprio

ambito ciascuno egualmente assoluto e sovrano, il solus ipse. Ogni atto di

volontà infatti, riconduce ad un solo soggetto, ad uno, ed uno solo, centro

di imputazione di interessi, anche nella pluralità delle persone fisiche che

lo compongono. Se alla radice della volontà sta dunque l'unità, e se la

volontà in quel singolo di dimensioni maggiori che è lo Stato assume il

nome di sovranità, alla radice dello Stato non può che rinvenirsi l'unicità,

cioè il non voler, il non poter riconoscere altro all'infuori di sé. Ben si

comprende allora la difficoltà di inquadrare il dualismo della

rappresentanza in una simile concezione di Stato. Di più, in tale

prospettiva lo stesso diritto, che sull'alterità, sul riconoscimento dell'altro

si fonda, viene ridotto a mera veste formale della forza. Nella regolazione

degli affari, dove non c'è comunicazione, subentra inevitabilmente

l'imposizione.89

Le conseguenze di siffatta costruzione "geometrica",

tutt'oggi seguita, per lo più acriticamente, sono già state messe ben in luce,

dimostrandone l'intrinseca aporeticità.90

Qui interessa richiamare

l'attenzione su quanto più direttamente rileva per il nostro argomento. Ora,

se la rappresentanza è chiamata a ricondurre ad ordine la pluralità che la

89 Per una serrata analisi delle costruzioni che pongono a proprio (spesso

inconsapevole) fondamento il presupposto dell’incomunicabilità e per i risvolti pratici che

ne scaturiscono, in limpido sviluppo delle intuizioni di Francesco Gentile, cfr. L.

FRANZESE, Il contratto oltre privato e pubblico, Padova, 1999, specialmente p. 86 e ss.

90 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p.

127 e ss; per la citazione di Marsilio, p. 101.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

62

origina, come sopra indicato, e se l'ordine nella modernità assume la veste

assoluta dell'unicità, ben si comprende la difficoltà della scelta del criterio

rappresentativo, cioè in fine del criterio ordinatore dello Stato. Se poi si

intende sviluppare la correlazione ordine come unicità, i veri criteri

rappresentativi sarebbero quelli che eliminano alternativamente o il

rappresentante o il rappresentato, dando rilievo o solo al primo o solo al

secondo: verso il primo si orienta esplicitamente e con la consueta

decisione Hobbes, verso la seconda ci conduce suadente Rousseau. Vero

criterio rappresentativo sarebbe allora quello che annulla la

rappresentanza come struttura dualistica: l'applicazione contraddice i

presupposti. Tuttavia anche ammettendo che l'ordine sia nell'unità (altro

dall’unicità) vi è la possibilità di fondarlo sulla rappresentanza,

dialetticamente, senza ignorare fittiziamente le diversità che hanno dato

origine alla pluralità, o "articolazione" voegeliniana, e che, poiché

esistenti, metterebbero subito in crisi l'unità artificialmente raggiunta.

Questo è il compito della rappresentanza. Il problema si presenta nel

momento della scelta di un criterio rappresentativo che salvaguardando la

pluralità giunga all'ordine, ad unità; è in sostanza quell'aspetto della

quadratura del cerchio politico, che già aveva affaticato Rousseau.

In sintesi, riteniamo che per avere rappresentanza occorrano due

soggetti: il rappresentante ed il rappresentato; la “situazione” che propone

un soggetto in rappresentanza di un altro impone un “rapporto” tra i due

che la giustifichi. In altri termini in tanto si è rappresentanti in quanto vi

sia qualcuno che si rappresenta ed al contempo in tanto si è rappresentati

in quanto ci sia qualcuno che rappresenti. L'assunto risulterà meno ovvio

ove si introduca una correlazione tradizionale nell'ambito giuridico, ma da

indagare nelle sue radici, per la quale in tanto un soggetto è, in quanto

emani atti di volontà giuridicamente rilevanti.91

Allora non è sufficiente

assumere che il monarca o il parlamento rappresenta il popolo, se questo è

incapace di atti di volontà giuridicamente rilevanti; come non è

91 La peculiare correlazione tra esistenza ed attitudine ad emanare atti di volontà

giuridicamente rilevanti, che sembra scardinare la tradizionale distinzione tra capacità

giuridica e capacità di agire, trova fondamento testuale in più lavori degli Staatslehrer,

ripreso forse dall’insegnamento degli Epigonen ed in particolare di Erdmann: cfr. infra §

II.3.3. e § II.3.4.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

63

rappresentato chi mandi in assemblea al proprio posto un soggetto

incapace di formulare atti di volontà giuridicamente rilevanti.92

Una volta ammessi due soggetti realmente esistenti (e volenti),

occorre precisare il contenuto della rappresentanza, per cui ciò che è

concluso dal rappresentante, lo è per il rappresentato; in altri termini

occorre indagare il rapporto tra i due, costituito anche dalla responsabilità

per il proprio operato del secondo verso il primo. È quest'ultimo un

aspetto molto importante poiché è un indice sicuro dell'effettiva esistenza

del rappresentato: in tanto il rappresentato è, in quanto può realmente,

concretamente sindacare quanto il rappresentante ha fatto in suo nome o

per suo conto. Perché il rappresentato sia, non bisogna che la sua unica

voce sia quella del rappresentante o, secondo la tradizionale correlazione,

non bisogna che non possa avere manifestazioni di volontà oltre quelle del

suo rappresentante. Per converso il rappresentante si distinguerà dal

nuncius per l'autonoma esistenza (volontà) che riveste anche agendo in

nome e per conto, a favore, nell'interesse o secondo le volontà del

rappresentato.

Passando a guardare l’altra faccia della medaglia, cioè il

rappresentante, è opinione comune che per aversi un rappresentante

occorre qualcosa di più della semplice trasmissione di quanto previamente

confezionato dal rappresentato; su quanto di più sia necessario, è aperto

ampio ed approfondito dibattito, ma su un dato si è d’accordo: la

differenza è data dall'autonomia del rappresentante. Aspetto un po'

ambiguo per la verità, quest'ultimo, che ripropone la stessa questione in

termini nuovi: quand'è che il rappresentante ha autonomia; ma in più ne

prospetta una di nuova: quali limiti deve avere questa autonomia, per non

travalicare nell'assolutezza? Una risposta è già implicita: il limite

dell'esistenza del rappresentato. In altri termini, il rappresentato deve

92 Il problema della rappresentanza dell'incapace occuperà apposita trattazione. Qui

è appena il caso di notare i distinguo della dottrina civilistica più attenta che al proposito

parla di rappresentanza necessaria: tra i molti manuali e testi istituzionali si vedano F.

GALGANO, Diritto Privato, Padova, 1990; A. TRABUCCHI, Istituzioni di Diritto Civile,

Padova, 1993, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1998. In tema di

rappresentanza restano di grande attualità per l'analisi approfondita, gli studi di S.

PUGLIATTI, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965; IDEM, Grammatica e diritto, Milano,

1978. Esaustivo sul punto F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I vol., IX

ed., Milano, 1957, specialmente p. 540 e ss. Trovo la radice del parallelo tra la

rappresentanza necessaria dell’incapace e la rappresentanza politica nell’opera di Eduard

Gans, autore, com’è noto, di solida formazione romanistica, su cui infra § II.4.

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

64

godere di esistenza autonoma a prescindere dall’opera di chi lo

rappresenta, sicché il diritto ad essere rappresentante trova il proprio

limite nel diritto dell’elettore ad essere rappresentato: il potere di azione

del rappresentante non deve portare all’annullamento del rappresentato, né

può consentirgli di recidere quel “legame” che lo ha costituito tale, cioè

rappresentante dell’assente.

Si sono già venuti così anticipando i concetti di “situazione e

rapporto” su cui ha lavorato la più recente dottrina tanto continentale,

quanto angloamericana,93

ricongiungendo nella ricerca comune due

esperienze costituzionali diversissime, non foss'altro storicamente.

Nella nostra indagine non si è guardato se non marginalmente

all'esperienza inglese e americana. Questo limite ha due ragioni: da un lato

l'impossibilità di riportare in maniera esaustiva il dibattito costituzionale

anglosassone circa l'istituto e di ricercarne le radici filosofiche; dall'altro

l'assoluta diversità di prospettive e di ruoli della rappresentanza nella

riflessione insulare e d'oltreoceano, che di per sé merita una ricerca

specifica. Basti pensare all'accostamento del divieto di mandato

imperativo, frutto consacrato costituzionalmente dalla Rivoluzione

francese, e la rappresentanza virtuale del Discorso agli elettori di Bristol

di Burke. Entrambi gli istituti, formulati a distanza di soli quindici anni,

mirano al medesimo scopo: la rappresentanza nazionale e non del singolo

collegio o dei singoli elettori; ma diverse sono le radici da cui muovono e

le conclusioni cui pervengono, sebbene entrambi, si vedrà, abbiano la

medesima struttura: quella monista.

"Nel Novecento ci sono due teorie che si contrappongono e che

riflettono le contraddizioni attraverso le quali si era formato lo Stato

moderno: quella giuridica, monista, che tutto incardina nello Stato e nella

93 Il riferimento d'obbligo è al saggio di H. F. PITKIN, The Concept of

Representation, Berkeley, 1967; pietra angolare anche della più recente dottrina

americana: cfr. J. Ph. REID, The concept of representation in the age of the American

Revolution, Chicago & London, 1989. Tuttavia di molto precedente è il breve ma denso

saggio di A. AQUARONE, Due Costituenti settecentesche, Pisa, 1959: una comparazione tra

le due esperienze costituzionali svolta attraverso i nodi problematici che si presentarono

alle rispettive assemblee costituenti, quella di Filadelfia e quella di Parigi. Come si desume

anche dal titolo, sullo sfondo dei lavori di questi due organi stanno da un lato il

colonialismo britannico, dall'altro l'Ancien Règime e tutto ciò si riflette in problemi di

metodologia giuridica: le categorie del Common Law e l'illuminismo enciclopedico filtrato

dall'irrazionalità del droit commun coutumier.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

65

sua volontà sovrana, e quella politologica, pluralistica, che privilegia i

gruppi e le società in cui essi si muovono".94

Così Matteucci riassume e sintetizza le posizioni nel dibattito della

dottrina circa la struttura dello Stato, individuando come caratteristica

della prima corrente di pensiero una concezione dello Stato come

portatore dell'universalità, dell'eticità, per certi versi, cui si contrappone la

seconda, che vede nella società il luogo della diversità e della libertà.

Teoria organica da un lato e teoria istituzionalistica dall'altro, per usare

riferimenti più specifici.

Una soluzione tra queste due posizioni è "problema teoreticamente

non solubile", conclude Matteucci, perché proprio questo secolo ha

confuso le classiche distinzioni che avevano guidato i costituzionalisti -

filosofi francesi del XVI secolo.

Precisiamo che non in questo senso si parlerà qui di monismo e

pluralismo, anzi. L'indagine si manterrà in quell'ambito che Matteucci

risolve come "monismo giuridico", per scoprire come quell'unità granitica,

proprio giuridicamente tale non sia.

Chiariamo l'assunto: vi è opinione concorde, e l'autorità di

Matteucci la rafforza, nell'individuare la caratteristica della riflessione

moderna attorno al diritto e allo Stato nella categoria dell'unità, se non

dell'unicità: si è già detto come questo sia il luogo della sovranità. Al

contempo però ove si riesca a dimostrare che la struttura della

rappresentanza è giuridicamente dualista, cioè dove si riconosca che in

tanto si può parlare giuridicamente di rappresentanza in quanto si dia

rilevanza a due soggetti, pur restando del medesimo ambito statale e

giuridico, si è già oltre il monismo. In altre parole non occorrerà mutare

criterio, passare dal "giuridico" al "politologico" (con i termini di

Matteucci) per giustificare la società civile, la diversità, il luogo della

libertà.

Com'è noto, proprio la limitazione al solo primo ambito aveva

portato la Begriffenjurisprudenz a quelle difficoltà in cui ha trovato le

critiche più radicali, lasciando per converso, alle riflessioni più diverse

quello che veramente era il suo fondamento.95

94 N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno, Bologna, 1993, p. 52, poi ripreso in IDEM, Lo

Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, 1997.

95 Non si vuol con questo rovesciare l'analisi di Matteucci, anzi. La struttura dello

Stato moderno è stata costruita sulla categoria dell'unità dall'indagine dei primi teorici

rinascimentali, pur con mutate giustificazioni, fino alla giuspubblicistica tedesca di questo

secolo e ancora in quella dottrina che a questa, più o meno consapevolmente si rifà. Ad

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TENTATIVO DI ENUCLEARNE IL CONCETTO

66

Con queste premesse si possono rivisitare le forme, le tecniche con

le quali la rappresentanza è stata tradotta nell’esperienza giuridica, per

vedere se ed in quale misura le modalità di attuazione incidano sulla

struttura concettuale testé enucleata.

essa si è contrapposta la speculazione sulla struttura della società e della convivenza in

generale, che si vorrà far assurgere alla dignità di scienza con il positivismo francese di

Comte. Ambito della società e sfera del diritto seguono quella diversità di strade che

ricorda Matteucci. La semplificazione sta forse nel ridurre il giuridico allo statuale, ma allo

Stato inteso come unicità. Ogni istituto giuridico viene allora piegato sulla forma della

categoria fondamentale di quest'ultimo, con le forzature di cui la distinzione tra

rappresentanza di diritto privato e rappresentanza c.d. politica non è che un esempio: in

fondo la seconda altro non è che la prima ridotta nelle maglie della sovranità. Quest'ultima,

a sua volta, non è da confondersi con la potestà di imperio che caratterizza lo Stato: la

necessità di ordinare, di farsi obbedire nell'interesse della collettività e ben diversa dalla

caratteristica di non riconoscere altri sopra se stessi, nemmeno la collettività, potendo così

agire a piacimento, senza limite alcuno.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

67

2.3 Le tèknai della rappresentanza

2.3.1 La teoria del mandato

INTRODUZIONE DELLE CATEGORIE DI “SITUAZIONE”, COME POSIZIONE DEL RAPPRESENTANTE

VERSO I TERZI, E DI “RAPPORTO”, COME RELAZIONE TRA RAPPRESENTANTE E RAPPRESENTATO

– LA CAPACITÀ DI MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTE COME

SPETTRO DELLA PERSONALITÀ: POSIZIONE E RINVIO – DISTINZIONE TRA MANDATO E

RAPPRESENTANZA AI FINI DELLA RICERCA – LA RESPONSABILITÀ COME MISURA E GARANZIA

DEL DUALISMO – FUNZIONE DI REDUCTIO AD UNUM DEL MANDATO: DA DUE SOGGETTI AD UNA

VOLONTÀ.

Da quanto sopra, si è potuto dedurre che l'analisi etimologico -

concettuale della rappresentanza, in tutti campi e in tutte le accezioni usate

e comparativamente tra questi, fa emergere un nocciolo duro che ben può

considerarsi la struttura fondamentale della rappresentanza: la dualità. Si

hanno sempre e comunque due soggetti, due cose, due concetti. Uno

appare, si manifesta, agisce, sta al posto dell'altro che (potremmo quasi

dire) per sua natura, risulta meno immediatamente percepibile; tuttavia

entrambi devono realmente esserci, esistere in maniera autonoma e

autosufficiente, non incrinata dal rapporto che li lega. In altre parole la

rappresentanza può instaurarsi solo tra due soggetti già esistenti ed

individuabili, non può essere condizione di esistenza di uno di questi o di

entrambi. Anche per questa ragione, alla già esaminata dicotomia assenza

/ presenza, elaborata dalla dottrina tedesca tra le due guerre, si preferisce

la distinzione eikòn / phántasma, sia perché l’assente deve comunque

esistere, al di fuori dell’opera del rappresentato, sia perché la

rappresentanza è comunque “qualcosa di più” del semplice “stare al posto

di un altro”.96

Per converso, proprio questi due soggetti, rappresentante e

rappresentato, sono condizione di esistenza della rappresentanza, talché vi

sarà vera e autentica rappresentanza solo se instaurata fra due soggetti

autonomi. E si vedrà in fine perché si è scelto di usare proprio questo

aggettivo.97

96 Così apre il proprio volume Bruno ACCARINO, Rappresentanza, Bologna, 1999,

p. 7.

97 Con Francesco Gentile, per autonomia intendiamo l'attitudine a darsi delle

regole e rispettarle, in questo senso contrapposta all'eteronomia, assoluta sregolatezza,

propria dello stato di natura, quale convenzionalmente presupposto, seppur spesso motivo

di fallacia scientista, dalla dottrina giuridica politica moderna. Per regolarità, con lo stesso

Autore intendiamo l'attitudine al rispetto delle regole fissate, consci che in qualsiasi attività

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO

68

Le costruzioni teoriche che definiscono il rappresentato come

manifestazione del rappresentante, inteso cioè come colui che porta ad

esistenza qualcosa che altrimenti non ci sarebbe, invertono il rapporto

causa - effetto. Sono i soggetti che costituiscono la rappresentanza, non

viceversa. Non si vuole qui dire che il rappresentato debba all'esterno

avere la forza del rappresentante; i limiti che gli impongono o lo

consigliano di farsi rappresentare qui non interessano, ma vogliamo

sostenere che il rapporto che lega il rappresentante e il rappresentato non

deve essere tale da incrinare l'autonoma esistenza di uno dei due o di

entrambi. Diversamente il rappresentante rappresenterebbe se stesso ed il

rappresentato non sarebbe rappresentato da nessuno. In entrambi i casi

non vi sarebbe rappresentanza. Per l'aspetto teorico giuridico che qui

interessa limiteremo la nostra analisi alla teoria del mandato e alla più

recente costruzione dell'interpretazione, che ha assunto vieppiù

importanza nell'ambito costituzionale.

Nell'ambito giuridico in generale, il soggetto viene tradizionalmente

ritenuto operante con atti di volontà,98

attraverso una determinata forma,

cui l'ordinamento riconosce un effetto giuridico. Si è già potuto mettere in

evidenza come per ogni atto di volontà corrisponda un effetto giuridico e

come ogni atto di volontà faccia capo ad un centro di imputazione di

interessi.99

È una manifestazione dell'esigenza di ordine propria di una

intersoggettiva - che necessiti cioè dell'alterità, del riconoscimento dell'altro - l'essenziale

non risiede nella regola quale essa comunque sia, ma nella consapevolezza che il gioco, il

rapporto economico, in fondo il vivere civile, stia nella capacità di autoregolamentazione,

nel saper riconoscere e rispettare la regola posta, a prescindere dalla cogenza esterna, dalla

forza che ne possa garantire comunque l'effettività. Per la precisa definizione di questi due

termini -regolarità ed autonomia- cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II

ed., Milano, 1984, specialmente p. 35 e ss.

98 Una formulazione esplicita in questo senso è in Th. HOBBES, Elementa

Philosophica de Cive, cap. V; par. VI, nell’edizione di Amsterdam, 1696, p. 79. Si veda

altresì J. E. ERDMANN, Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle, 1851,

soprattutto l’inizio della quinta lezione, su cui amplius infra, II.3.1. Più di recente, a questa

prospettiva si è rifatto un filone della pandettistica e della dogmatica tedesca, nella

polemica con i sostenitori della tutela dell’affidamento, che ha trovato precaria

composizione solo negli ultimi tempi. Smaschera l’ipoteca concettuale di questa

equiparazione posta a fondamento dello Stato moderno, proponendo il recupero di

categorie classiche quali percorsi alla vita politica M. AYUSO TORRES, ¿Después del

Leviathan? Sobre el estado y su signo, Madrid, 1996.

99 Si è consapevoli che ad un atto di volontà possano fare riscontro più effetti, ma

qui si fa riferimento all'effetto fisiologico che ha spinto il soggetto a volere per

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

69

certa concezione dello Stato moderno e l'unità è la forma più ordinata

possibile. Tuttavia la tendenza all'unità contrasta con la struttura dualistica

propria della rappresentanza.

Della conciliazione di tali opposte esigenze si incaricano

principalmente due teorie, che nelle numerose varianti, conservano

identità di principio: una contrapposta all'altra, dualistica nella struttura la

prima, monista la seconda.

La prima teoria, detta del mandato, prevede la presenza di due

soggetti distinti: il mandante e il mandatario. In questo ben sembra

adattarsi alla struttura dualistica della rappresentanza, ove il mandante

riveste il ruolo di rappresentato e il mandatario il ruolo di rappresentante.

Anche per il mandato, come per la rappresentanza, appare

essenziale individuare i due termini e mantenerli distinti nei lori ruoli, non

riducendo il primo al secondo, non subordinando l'esistenza dell'uno

all'attività dell'altro, pure se nell'autonoma esistenza uno debba

funzionalmente piegarsi ai desideri dell'altro. Mandante e mandatario sono

concepiti come due soggetti realmente esistenti ed operanti. Il primo è

colui che incarica il secondo per il compimento di uno o più atti giuridici,

i cui effetti ricadranno in capo al mandante stesso.100

Il secondo riceve le

conseguirlo; altrettanto dicasi per più soggetti riuniti in un unico centro di imputazione di

interessi, è il concetto di parte; sulla distinzione tra volontarietà dell'atto e degli effetti, cfr.

E. ZITELMANN, Irrtum und Rechtgeschäft, Leipzig, 1879, cui sembra ispirarsi V.

PIETROBON, L'errore nella teoria del negozio giuridico, Padova, 1963. Per un altro verso

occorre tener distinta la rappresentanza dalla procura, questa è solo la manifestazione

esteriore della qualità di rappresentante; dà la misura del potere del rappresentante. Come

chiariamo nel testo, l'esistenza della rappresentanza si desume dall'ampiezza dei rapporti

tra rappresentante e rappresentato. Per una distinzione concettuale di rappresentante,

portavoce, mandatario, cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile,

Napoli, 1962, p. 264 e ss; nonché G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, 1979, p.

354, più recentemente gli stessi temi vengono riproposti in G. SARTORI, Democrazia, cos'è,

Milano, 1993.

100 La compiuta ricostruzione civilistica dell’istituto esula dai nostri compiti; si

faranno pertanto quei richiami necessari per il prosieguo della trattazione, con particolare

riguardo a quegli aspetti che sono stati ritenuti “esportabili” nell’ambito pubblico. In

ordine all’esempio riportato nel testo, secondo il diritto civile, com’è noto, la ricaduta degli

effetti sarà diretta od indiretta a seconda che il mandato sia con o senza rappresentanza.

Nel secondo caso, tuttavia, sorge il dovere di trasferire le situazioni giuridiche soggettive

maturate dal mandatario in nome proprio ma nell’interesse del mandante, ai sensi dell’art.

1706 c.c. Poco limpide, a nostro giudizio, e, comunque, non del tutto sovrapponibili alla

tradizione continentale appaiono le categorie, proposte da H. F. Pitkin, di Acting for e

Standing for: cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967, sui cui

infra.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO

70

indicazioni del mandante e si incarica di portarle a compimento. Si è

discusso a lungo, e a tutt'oggi la questione è aperta, se il mandante detti

delle volontà in capo al mandatario o se gli fornisca semplici istruzioni e,

in tal caso, fino a che punto vincolanti. Parallelamente il problema si pone

dal lato del mandatario: l'alternativa che sembra aprirglisi è tra l'agire

secondo la volontà del mandante, ma contro i suoi interessi o, al contrario,

secondo quelli che il mandatario reputa gli interessi del mandante, ma

contro le sue precise volontà. Non risolve il problema sostenere che

normalmente la volontà di un soggetto concorda con i suoi interessi e che

se non c'è coincidenza ci deve essere una “buona ragione”.101

Non lo

101 Cfr. nota 65 e infra nel testo. In verità l’equivoco si annida nella pretesa

corrispondenza tra interessi e volontà. Dando per scontata e lasciando quindi da parte

l’osservazione sociologica per la quale gli stimoli esterni del benessere producono pulsioni

che inducono i soggetti ad agire contro il loro stesso interesse, due sono gli aspetti giuridici

che dimostrano l’inapplicabilità di questa teoria: l’assenza di un rimedio alla

manifestazione di volontà affetta da una falsa rappresentazione della realtà ed l’assenza del

sindacato di un terzo che giudichi della conformità tra volontà ed interessi. Quanto al

primo punto, nelle procedure elettorali e nella rappresentanza politica in generale, a

differenza che nella disciplina del negozio, non è dato rilievo alla falsa rappresentazione

della realtà, sicché non è dato un criterio per confrontare la corrispondenza della volontà

politica di un soggetto con i suoi interessi: si tratta di valutazioni ampiamente discrezionali

che non possono essere sindacate con un piano di riscontro oggettivo. E

quest’osservazione ci porta al secondo punto: chi deve giudicare della conformità della

volontà del soggetto ai suoi interessi? Non il soggetto stesso, poiché in questo caso

ricadremmo nel “dogma della volontà” già individuato nel punto precedente; non un terzo,

poiché costui si porrebbe in posizione di tutore del soggetto, disponendo delle sue azioni in

base a quello che ritiene il di lui interesse; non il “rappresentante” come sembra voler

suggerire la studiosa americana: in questa prospettiva, infatti, sarebbe lo stesso eletto a

rendere “un’interpretazione autentica” degli interessi del soggetto e cadremmo nella

situazione opposta a quella del dogma della volontà, creando una sorta di dogma

dell’interesse, accordando rilevanza solo a quello che l’eletto ritiene interesse del proprio

elettore. Qui sotto v’è tutta la problematica del “politico di professione”, già studiato dalla

scienza politica; ma v’è anche un aspetto ben più insidioso, cioè l’eventualità che,

detenendone l’interesse, di cui è il solo interprete autorizzato, sia l’eletto ad instillare

nell’elettore cosa deve volere. Pratica, questa, tematizzata esplicitamente da Sieyès (cfr. §

II.2) e ripresa anche da parte della dottrina italiana più recente (cfr. § III.1), che propone

un’inversione logica per la quale è il “rappresentante” che dice al “rappresentato” quello

che deve volere, assicurando, per l’Abate, il prevalere del costituito sul costituente, e per le

costruzioni di questi tempi la (invero simile) legittimazione dell’assemblea, qualunque essa

sia. In entrambi i casi, anzi in tutte tre le ipotesi formulate sopra, viene negato il dualismo

della rappresentanza, facendo riferimento ad un solo centro di imputazione, ora l’eletto,

ora l’elettore, ora il terzo che si pone nelle vesti del tutore.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

71

risolve per tre ordini di motivi: il primo è che tale “buona ragione” indica

che non si sta procedendo secondo un principio. Il secondo si ricollega al

primo nel senso che la mancata coincidenza tra volontà e interesse

potrebbe essere per una "buona ragione" che non è percepibile dal

mandatario, cui sembra spettare la scelta dell'alternativa. Infine, la

presunzione di una buona ragione da parte del mandatario sarà sufficiente

per disattendere le precise istruzioni del mandante, ove non si provvedesse

ad individuare un criterio oggettivo per sapere quando un “buona ragione”

sia sufficientemente tale da consentire di distaccarsi dalle istruzioni

ricevute. Le difficoltà giurisprudenziali emerse anche nell’ambito del

diritto privato indicano l’ambiguità di fondo che regge la costruzione

destinata ad aggravarsi nella poliedricità di interessi che si intersecano in

campo pubblico.102

Tutto ciò ci indica che gli interessi attribuiti al

102 Ne sono testimonianza le ambiguità in cui è costretta a muoversi la

giurisprudenza civile, spinta in acque insidiose dalla necessità di contemperare gli interessi

di mandante e mandatario. A titolo di mero esempio si consideri che in tema di esecuzione

del mandato, quando il mandatario si discosti dalle specifiche e rigide istruzioni ricevute è

superflua la verifica della conformità dell'atto allo scopo e agli interessi del mandante,

attesane la contrarietà all'espressa volontà di questi. In tale ipotesi quando la difformità

riguardi una clausola del contratto concluso dal mandatario con rappresentanza, alla quale,

secondo l'incensurabile apprezzamento del giudice di merito, debba riconoscersi carattere

essenziale, l'inefficacia nei confronti del mandante non è limitata alla sola clausola

difforme ma riguarda il contratto nella sua globalità. Così la Suprema Corte di Cassazione

civile sez. II, 18 marzo 1997, n. 2387, che si può leggere in “Giust. civ. Mass”. 1997, 413,

nonché in “Contratti” (I) 1997, 559, con nota di ZAPPATA. Altra Sezione del Supremo

Collegio ha statuito che il mandatario deve curare diligentemente l'interesse del mandante.

Il sopravvenire di circostanze nuove e idonee a riflettersi sull'interesse dedotto in contratto

impone per prima cosa al mandatario di comunicare dette circostanze al mandante.

Qualora la tempestiva comunicazione non sia possibile, sorge per il mandatario l'obbligo di

discostarsi dalle istruzioni ricevute nel caso in cui la verifica della loro congruità alle

nuove emergenze approdi ad una valutazione negativa. L'attenersi ancora a quelle

istruzioni, lungi dal configurare un corretto adempimento degli obblighi contrattuali,

costituisce per il mandatario una violazione del dovere di diligenza. Peraltro, l’obbligo del

mandatario di discostarsi dalle istruzioni ricevute, nella situazione prevista dall'art. 1711,

comma 2, c.c., non sorge nel caso in cui l'impossibilita di comunicare tempestivamente con

il mandante o comunque di provocare un eventuale mutamento delle istruzioni ad opera

del mandante medesimo sia imputabile ad un colposo comportamento di quest'ultimo,

contrario ai doveri di cooperazione cui egli è tenuto. Cfr. Cassazione civile sez. I, 11

dicembre 1995, n. 12647, in “Giur. it.” 1997, I, 1, 518, con nota di AVERSANO, ed altresì,

in “Foro it.” 1996, I, 544, “Giust. civ”. 1996, I, 1703, “Contratti” (I) 1996, 248, con

illuminante nota di CALISSE, in “Riv. dir. comm.” 1996, II, 177, in “Danno e resp.” 1996,

183, con nota di BRECCIA. Inoltre, la medesima Sezione, pochi mesi prima, aveva precisato

che il negozio stipulato dal mandatario eccedente i limiti del mandato non è annullabile,

ma unicamente inefficace nei confronti del mandante, come resta confermato dal rilievo

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO

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che esso è suscettibile di ratifica (art. 1711 c.c.). Ne consegue che, in mancanza di ratifica,

il negozio compiuto dal mandatario eccedente dai poteri ricevuti dal mandante non è né

nullo né annullabile, ma solo inopinabile nei confronti del mandante ed i suoi effetti si

producono nel patrimonio del mandatario, che li assume a suo carico ed ha l'obbligo di

tenere indenne il mandante da qualsiasi pregiudizio che possa derivare per il suo

patrimonio dalla stipulazione e dalla esecuzione di quel negozio. Cfr. Cassazione civile

sez. I, 10 marzo 1995, n. 2802, in “Giust. civ. Mass.” 1995, 574. Ancora la Seconda

Sezione della Suprema Corte, ha ritenuto che, con riferimento ad un contratto di mandato,

in esecuzione del quale sia stata stipulata una vendita di terreni con costituzione di servitù

di passaggio, a carico della proprietà del mandante venditore, e a favore dei terreni

compravenduti, si sottrae al sindacato di legittimità la sentenza di merito che interpretando

il contratto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e con motivazione immune

da vizi, abbia escluso, attraverso l'esame sia delle espressioni usate, sia della reale portata

complessiva delle clausole usate e delle circostanze di fatto in cui si inseriva il

regolamento di interessi perseguito dal mandante, la configurabilità di un mandato rigido e

specifico, ravvisando, per contro, nell'incarico conferito, un contenuto di ampiezza tale da

ricomprendere l'assunzione dell'obbligo di costruire la strada, come opera indefettibilmente

inerente alla utilità economica dei terreni venduti, in quanto diretta a rendere possibile

l'utilizzazione della servitù di passaggio e indispensabile alla conclusione dello stesso

contratto di vendita, ed abbia escluso, in pari tempo, un abuso nel potere di rappresentanza,

attraverso la verifica della conformità dell'atto allo scopo perseguito dal mandante,

ravvisato nella conclusione dell'affare, in funzione del quale l'impegnare la venditrice alla

realizzazione della strada appariva assolutamente opportuno. Così Cassazione civile sez.

II, 28 settembre 1994, n. 7891, in “Giust. civ. Mass.” 1994, 1160 (s.m.).

Della questione si è interessata ex professo anche la giurisprudenza di merito,

affermando che la banca incaricata risponde dei danni subiti dal mandante per l'esecuzione

di un ordine di acquisto di un rilevante quantitativo di valuta estera (nel caso di specie,

dollari statunitensi) ad un tasso di cambio eccezionalmente e palesemente abnorme

allorché non abbia comunicato al mandante, pur avendone avuto la possibilità, siffatte

circostanze sopravvenute di tale gravità da poter determinare la revoca o la modificazione

del mandato, e non abbia esercitato - in base ai doveri di diligenza e buona fede sottesi alla

disposizione di cui all'art. 1711 comma 2 c.c. - il potere - dovere di discostarsi dalle

istruzioni ricevute fino ad astenersi dall'esecuzione dell'incarico stesso. Così il Tribunale

Roma, 29 aprile 1992, che si può leggere in “Foro pad.” 1992, I, 424, con illuminante nota

di COACCIOLI, PERLETTI.

Da segnalarsi, infine, l’interessante ipotesi in cui il proprietario di un autoveicolo

abbia conferito ad un soggetto il mandato con rappresentanza ad alienare tale bene e gli

abbia trasferito la detenzione di esso, ove il mandatario è stato tenuto a rimborsare, a titolo

di risarcimento, al mandante le somme anticipate da quest'ultimo come sanzioni per le

infrazioni amministrative commesse dal terzo futuro acquirente alla guida del veicolo,

prima della vendita, sia che tali infrazioni sono state consumate durante la circolazione

dell'automezzo non finalizzata alla prova del buon funzionamento dello stesso, perché, in

tal caso, il mandante, consentendo tale circolazione è incorso in un eccesso dei poteri

rappresentativi ex art. 1711 c.c. sia che la circolazione sia stata invece finalizzata a tale

prova. In quest'ultimo caso, invero, il mandatario era tenuto a vigilare che il veicolo

circolasse nel rispetto delle norme di legge e, quindi, ove non provi di non aver potuto

impedire l'inosservanza di dette norme, ne risponde a titolo di abuso di rappresentanza.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

73

mandante dalla sensibilità del mandatario, possono non corrispondere a

quelli veramente sentiti dal primo. In altre parole, non esisterebbe

l'interesse in sé del mandante, ma solo la rappresentazione che di questo

ne dà il mandatario. La disciplina della negotiorum gestio ne è esplicita

conferma.103

La maggior parte della dottrina per non cedere dunque al

soggettivismo del rappresentante circa l'interpretazione degli interessi, ha

preferito dare rilievo solo alla volontà esplicita del rappresentato. Se

Nella diversa ipotesi in cui le infrazioni siano state commesse dall'acquirente dopo la

vendita ma prima della trascrizione del trasferimento della proprietà dei veicolo, il

mandante il quale abbia pagato le somme richiestegli a titolo di sanzione amministrativa,

senza fare opposizione nelle sedi competenti, deducendo che il veicolo non gli

apparteneva, non ha diritto ad essere risarcito dal mandante, poiché non ha fatto quanto gli

competeva per evitare il danno. Così il Pretore di Forlì 26 novembre 1990, in “Riv. giur.

circol. trasp.” 1991, 71.

103 Un elemento caratterizzante questo istituto è la necessità dello utiliter coeptum.

Per non incorrere in responsabilità per danni, ma anzi per godere del rimborso spese,

occorre che il gestor abbia agito secondo quello che al momento dell'azione gli appariva

essere l'interesse del dominus. Tale esigenza è già indicata nelle fonti romane, si confronti,

per esempio, D. 3, 5, 5, 5 (3); nonché D. 3, 5, 9 (10), 1; entrambi tratti da ULPIANUS X ad

edictum. In questo senso si è sviluppata la disciplina dell'istituto nelle moderne

codificazioni. Il Codice Civile Italiano vigente all'articolo 2031 parla testualmente di

gestione utilmente iniziata. La dottrina dal canto suo, in pieno ossequio alla tradizione, ha

messo chiaramente in evidenza che per operarsi l'effettiva imputazione al dominus degli

effetti dell'attività gestoria, è sufficiente che essa sia utilmente iniziata, mentre è irrilevante

il risultato finale (così ARU, in Commentario Scialoja e Branca, cfr. anche C.M. BIANCA, Il

contratto, Milano, 1984, p. 151). A sua volta, la giurisprudenza ha precisato che quando la

gestio sia articolata in più atti, è sufficiente che solo l'atto o gli atti iniziali abbiano il

requisito dell'utilità (così p. es Cass. 56/3336). Si è comunque precisato che non è

necessario che il risultato utile sia attuale, essendo sufficiente che esso appaia predisposto

e conseguibile con la diligenza del buon padre di famiglia, anche se poi, di fatto, non verrà

ad essere (così G. DE SEMO, voce Gestione d'affari, in “Novissimo Digesto”, vol. VII,

Torino, 1961, p. 812 e s). Per quanto riguarda la valutazione dell'effettiva ricorrenza

dell'utilità, la dottrina oscilla tra la tesi soggettiva, cioè del riferimento all'interesse

individuale del dominus, e quella oggettiva, che fa riferimento all'affare che il dominus

avrebbe intrapreso secondo l'astratta valutazione del buon padre di famiglia. Tra i

sostenitori della tesi obbiettiva si distingue se il riferimento vada fatto agli atti che il

dominus, secondo il citato criterio, avrebbe potuto intraprendere, ovvero a quelli che

avrebbe dovuto porre in essere (in quest'ultimo senso cfr; ARU, op. cit.). Per un criterio

oggettivo, tenuto però conto delle specifiche attività patrimoniali del dominus, cfr. S.

FERRARI, voce Gestione d'affari, in "Enciclopedia del Diritto Giuffré”, Milano, vol. XVIII

(1969) p. 645. Da questa panoramica ben si evince la difficoltà di una delimitazione

univoca dell'interesse del rappresentato, difficoltà che, come ricordato nel testo, ha indotto

la dottrina a propendere, in tema di mandato, per il riferimento alla volontà del mandante.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO

74

infatti gli interessi del mandante fossero solo quelli che il mandatario gli

attribuisce, qualsiasi cosa questi facesse in nome del primo, se chiamato a

risponderne, potrebbe comunque asserire di aver agito nell'interesse del

mandante. A questo punto il rappresentato - mandante cesserebbe di avere

vita propria, ma sarebbe fantasma del rappresentante - mandatario; uno

dei due termini del mandato cesserebbe di esistere, proprio come abbiamo

visto accadere per la rappresentanza. La difficoltà sta nel fatto che la

teoria del mandato, tanto nel pubblico quanto nel privato, viene intesa

come un tentativo di ridurre ad unità la struttura dualistica della

rappresentanza, cercando di ricondurre la volontà degli effetti

essenzialmente ad uno dei due termini: nel mandato con procura si finge

che la volontà degli effetti sia del solo rappresentato, nel mandato senza,

si finge che sia solo del rappresentante. Tutto ciò perché si ritiene che solo

uno debba aver veramente voluto e questi solo sarà il destinatario degli

effetti dell'atto. Ma la finzione appare manifesta solo che si consideri la

cosa da un altro punto di vista. Poniamo la distinzione tra il mandante che

propone uno spettro più o meno ampio di soluzioni al mandatario e quello

che ne impone una sola, specifica e puntuale. Nel primo caso la soluzione

effettivamente adottata sarà frutto della volontà combinata, in diverse

proporzioni di mandante e mandatario, a nulla rilevando che la soluzione

in concreto adottata da quest'ultimo era già voluta dal primo, poiché lo era

in astratto, data come possibile, per la scelta concreta essendo

determinante anche la volontà del rappresentante, unita in varia misura, al

giudizio di quest'ultimo. Nel secondo caso non vi è rappresentanza, ma

semplicemente l'opera di un nuncius: uno dei due termini si elide. Infatti

la commissione di una volontà specifica e puntuale riduce il soggetto

destinatario a strumento di trasmissione di tale puntuale volere, non lo

costituisce (rappresentante) mandatario del soggetto che ha commesso tale

volontà. Tra queste due posizioni tertium non datur, poiché mentre il

minimo di discrezionalità concessa al rappresentante implicherà

l'intervento della sua volontà, d'altro canto la massima libertà di manovra

non può prescindere dal conferimento dell'incarico con un atto di volontà

del rappresentato. In entrambi i casi prospettati si prescinde dalla procura,

che in sostanza si riduce alla conoscenza da parte dei terzi del

conferimento del mandato per tutelare il loro affidamento individuando il

singolo, l'unico con cui si tratta (cioè rappresentante senza e rappresentato

con), visto che gli effetti cadono in via immediata o mediata in capo al

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

75

rappresentato.104

Tale inconveniente è dovuto alla pretesa unicità,

all'impossibilità, secondo una certa concezione del diritto e dello Stato, di

ammettere l'alterità e quindi la pluralità e con essa a riconoscere la

diversità; all'incapacità in sostanza di instaurare un rapporto dialettico tra

due soggetti per individuare cosa hanno di diverso e cosa di comune e alla

luce di ciò, il suum cuique tribuere. La categoria della singolarità, dunque,

sostiene l’imputazione degli effetti e, paradossalmente, il mandato –che è

duale nella struttura- sembra chiamato a preservarla o a tale categoria

dovrebbe ricondurre, tutte le volte in cui palesemente vi è la concorrenza

di due soggetti ben distinti. Altrettanto artificiale sarebbe applicare il

concetto, unificatore, di parte in senso giuridico, presupponendo che

agendo il mandatario nell'interesse del mandante, agisca anche nel proprio

e costituire così con lui un solo centro di imputazione di interessi. Questa

costruzione potrebbe aver pregio solo quando il fine da perseguire fosse

comune o superiore a mandante e mandatario, rientrando nella categoria

del mandatum mea et tua gratia già individuato dalla giurisprudenza

classica romana;105

ma su questa ipotesi, cioè sull’unità di parte

104 Come si è detto, in tal maniera si giustifica l'unità rispetto ai terzi, ma la

distinzione tra mandante e mandatario è tale che tradizionalmente un'azione è data per

regolare i loro rapporti ed è in questo luogo che prende corpo l'esigenza di responsabilità.

Actio mandati directa ed actio mandati contraria presiedono al dualismo proprio

dell’istituto e ci consentono di intuire fin d’ora il fascio di obbligazioni che lega

reciprocamente il mandante col mandatario e, sotto analoghi profili, il rappresentante con

il rappresentato, in una complessità di situazioni giuridiche soggettive il cui esame

dev’essere rinviato all’ultimo paragrafo di questo lavoro.

105 “Mandatum contrahitur quinque modis, sive sua tantum gratia aliquis tibi

mandet, sive sua et tua, sive aliena tantum, sive sua et aliena, sive tua et aliena. At si tua

tantum gratia tibi mandatum sit, supervacuum est mandatum et ob id nulla ex eo obligatio

nec mandati inter vos actio nascitur. 1. Mandantis tantum gratia intervenit mandatum,

veluti si quis tibi mandet, ut negotia eius gereres, vel ut fundum ei emeres, vel ut pro eo

sponderes. 2. Tua et mandantis, veluti si mandet tibi, ut pecuniam sub usuris crederes ei,

qui in rem ipsius mutuaretur, aut si volente te agere cum eo ex fideiussoria causa mandet

tibi, ut cum reo agas pariculo mandantis, vel ut ipsius periculo stipuleris ab eo, quem tibi

deleget in id quod tibi debuerat. 3. Aliena tantum causa intervenit mandatum, veluti si tibi

mandet, ut Titii negotia gereres, vel ut Titio fundum emeres, vel ut pro Titio sponderes. 4.

Sua et aliena, veluti si de communibus suis et Titii negotiis gerendis tibi mandet, vel ut sibi

et Titio fundum emeres, vel ut pro eo et Titio sponderes. 5. Tua et aliena, veluti si tibi

mandet, ut Titio sub usuris crederes. Quod si ut sine usuris crederes, aliena tantum gratia

intercedit mandatum. 6. Tua tantum gratia intervenit mandatum, veluti si tibi mandet, ut

pecunias tua potius in emptiones praediorum colloces quam feneres, vel ex diverso ut

feneres potius quam in emptiones praediorum colloces. Cuius generis mandatum magis

consilium est quam mandatum et ob id non est obligatorium, quia nemo ex consilio

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: IL MANDATO

76

sostanziale e processuale di rappresentante e rappresentato si deve rinviare

oltre, al § III.3. Ora, il mandante quanto può riconoscere la sua volontà

nell'opera del mandatario? E in campo pubblico, quanto può l'elettore

riconoscere la propria volontà nell'operato dell'eletto e quanto, in

definitiva, nella legge? E qui riemerge l'esigenza di responsabilità.

Bisogna guardare l'operato del deputato o alla legge per vedere se

l'elettore vi è rappresentato? La preoccupazione per gli svantaggi del

primo punto di vista e le difficoltà del secondo sono alla base della

costruzione di Talleyrand la cui originalità è stata travolta dagli

avvenimenti. Ma è la base anche delle principali teorie della

rappresentanza da mandato.106

[mandati] obligatur, etiamsi non expediat ei cui dabitur, cum liberum cuique sit apud se

explorare, an expediat consilium”. Cfr. Iustiniani Institutiones, 3; 26, pr.- 6.

106 Come viene e detto nel testo, una riflessione a parte meriterebbe l’esperienza

inglese, nella secolare tradizione parlamentare, alla quale, peraltro, non si potranno che

fare dei riferimenti per incidens, ed in primis alla rappresentanza dello Speech di Burke,

già definita virtuale, prima dell’invenzione dell’informatica, tradizionalmente considerata

come esempio di struttura dualistica, nel senso specificato nel testo, e recentemente

revocata in dubbio proprio nel suo intimo costrutto: cfr. J.Ph. REID, The concept of

representation in the age of the American Revolution, Chicago and London, 1989, su cui

infra.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

77

2.3.2 La teoria dell’interpretazione

ESSENZIALE MONISMO STRUTTURALE DELLA TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE - SUO

PRIVILEGIARE ESCLUSIVAMENTE IL MOMENTO DELLA SITUAZIONE RAPPRESENTATIVA

OBLIANDO IL RAPPORTO DEL RAPPRESENTANTE CON IL RAPPRESENTATO – SUA CONFORMITÀ

ALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – CONSEGUENTE RIDUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA

A CONSAPUTA FICTIO JURIS – TENTATIVO DI SUPERARE LA DICOTOMIA MANDATO /

INDIPENDENZA CON LE CATEGORIA DI ACTING FOR E STANDING FOR: CRITICA E NEGAZIONE.

Alla teoria del mandato, che conserva una derivazione privatistica,

si contrappone quella che possiamo definire teoria dell'interpretazione. La

contrapposizione è totale e si deve riconoscere nella differenza di

struttura. Se infatti la teoria del mandato ammette ab initio due soggetti,

rappresentante e rappresentato, adeguandosi in questo al dualismo proprio

della rappresentanza, la teoria dell'interpretazione, al contrario, ne

ammette solo uno: il rappresentante, che sarebbe tale perché appunto

interprete della volontà o degli interessi, a seconda della formulazione, dei

rappresentati. Tale costruzione ha origini più remote di quanto

tradizionalmente non appaia. Se ne può individuare l'inizio compiuto

durante la Rivoluzione francese nel polemico rifiuto da parte di Sieyès,

delle istruzioni ai membri degli Stati Generali con il metodo tradizionale

dei cahiers de dolèances, concretizzanti un sistema di mandato

imperativo. Ma posizioni prodromiche si rinvengono in tutti quegli autori,

dal medioevo in poi, che pur definendo il monarca rappresentante del

popolo in virtù di una qualche sorta di mandato, lo dichiarano poi solo ed

unico interprete della volontà popolare, insindacabilmente. Siamo al

nocciolo della teoria dell'interpretazione. Il rappresentante è tale perché

interpreta i bisogni e gli interessi di chi rappresenta. Questi non gli

commettono alcun volere o alcuna istruzione, né comunque potrebbero

farlo. È il rappresentante ad individuare i bisogni dei rappresentati, al

modo del tutore che opera nell'interesse dell'incapace, senza che

quest'ultimo, ovviamente, proprio in quanto tale, possa sindacarlo; e

proprio in questi termini la costruzione venne stigmatizzata da Eduard

Gans, come si avrà modo di vedere in seguito. Nel campo pubblico, a

prescindere se elettivo o no, il rappresentante interpreta con leggi i bisogni

del popolo e della nazione, a seconda dei casi, egli individua e ricerca

qualcosa che già c'era, ma che il rappresentato non poteva o non sapeva

indicare e vedere. In questo senso ben si comprende la frase di Sieyès per

cui "l'unica voce della nazione è quella dell'Assemblea nazionale." Il

rappresentato viene annullato e ben si confà al rappresentante, ormai non

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE

78

più tale, il nome di sovrano.107

È appena il caso di notare la tendenza

unificatrice e astraente propria della modernità, che raccoglie le mille voci

del popolo o nazione, in un senso ben diverso da quello medioevale, e che

poi riduce al sovrano.108

Infatti non si può negare che tutto è nel sovrano e

107 Conviene già anticipare qui il concetto di Herrschaft, tradotto dalla dottrina

italiana con il termine potestà di imperio. La distinzione con il concetto di sovranità non

sempre è agevole, ma quello che qui più interessa è la necessità sentita di distinguere i due

termini emersa colla giuspubblicistica tedesca della metà del secolo scorso, ma già latente

fin dall'enucleazione della Corona come centro di imputazione di potere staccato,

concettualmente indipendente dal monarca. Non è peregrino sostenere che proprio

l'enucleazione del concetto di sovranità sia avvenuta per garantire una veste formale, una

cornice di legittimità all'uso della forza. Tutto ciò spiegherebbe la sua natura

essenzialmente monista, propria del comando. Tale processo astraente sembra subire

un'inversione laddove si cerchi un fondamento diverso della sovranità dall'effettivo centro

di esercizio. Non è un caso che dai riconoscimenti della sovranità in capo alla nazione o al

popolo o a quant'altro si è avuto, si proceda ad individuare i centri dotati di potestà di

imperio in determinati organi od uffici statali. Un procedimento simile a quello riassunto

nel famoso aforisma (di cui non sono riuscito ad individuare una paternità anteriore a

quella del barone di Luynes) per cui il re regna, ma non governa.

Crediamo di poter distinguere la sovranità dalla potestà di imperio ove la prima

consiste, secondo la formulazione sintetica e felice di Bodin, nel superiorem non

recognoscere, mentre la seconda è la soggezione dei cittadini al potere dello Stato, in

attuazione della legge. Si potrebbe dire che la potestà di imperio si manifesta

nell’autorietarietà degli atti del potere esecutivo e della pubblica amministrazione in

generale, nella soggezione del singolo ai disposti (ancorché illegittimi) dei provvedimenti

pubblici, tuttavia non “sovrani” – ecco la differenza – ma in dichiarata attuazione della

legge. In questo senso, la potestà di imperio potrebbe sussistere anche in un ottica non

“geometrica”, essendo funzionale all’attività di amministrazione, dialetticamente legata

all’attività di governo, ove quest’ultima indirizza la comunità verso il bene comune,

riconoscendo (più che ponendo) la legge, mentre la prima, organizza uomini e cose per il

perseguimento dei fini determinati dal governo e distillati nella legge. Sotto questo profilo,

com’è noto, la dottrina amministrativa più attenta mantiene fermo il principio ormai

consolidato che ogni atto o provvedimento trova nella legge la ragione della sua esistenza,

essendo da questa che deriva il potere – dovere (nei limiti della discrezionalità concessa,

ma ancora una volta dalla legge) della P.A. all’adozione del provvedimento. Per questi

aspetti, recentemente cfr. F. VOLPE, Le espropriazioni amministrative senza potere,

Padova, 1996, specialmente p. 105 e ss. Più in generale per la necessità di mantenere

distinti i due momenti del “governo” e della “amministrazione”, cfr. F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 121.

108 Va tenuta distinta, ci pare, l'ordinatio ad unum del pensiero medioevale (non

riducibile al tomismo), con la traduzione nella “filosofia pratica” di tale principio, fino ad

allora solo teoretico, individuabile con alcuni dei primi trattatisti politici tra fine Duecento

e primi del Trecento. Sarà facile riconoscere le differenze in questo senso tra due "amici"

quali Occam e Marsilio per i quali cfr. F. BOTTIN, La scienza degli Occamisti, Rimini,

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

79

che egli è tutto perché per definizione la sua volontà è quella di tutti e

poiché nel mondo del diritto è ancora forte la tradizione per cui la volontà

è essere, il sovrano è tutti, ma a patto che nessun rappresentato possa

ergersi a chiedere il resoconto dell'operato al sovrano - rappresentante. Il

particolarismo non può essere ammesso perché incrinerebbe l'unità

raggiunta, smascherandone la finzione. Se il mandato tenta di unificare

due soggetti diversi, la teoria dell'interpretazione presuppone

l'assorbimento del rappresentato nel rappresentante. Sostanzialmente dopo

aver riunito tutte le voci in un'unità fittizia, dopo aver cioè sostituito al

popolo medioevale, il Terzo Stato-Nazione, attraverso un procedimento

che merita approfondita analisi, lo si rende incapace di volere e gli si

affida come tutore un'assemblea per curarne gli interessi che la stessa

Nazione, peraltro potere costituente, fonte di ogni sovranità e

insuscettibile di forma positiva, è incapace di riconoscere. Tutto ciò

richiama alla mente il contratto a favore di terzo del sovrano hobbesiano

nella nota interpretazione di Bobbio: il rappresentante - interprete non è

legato da niente ai suoi elettori: essi stipulano in suo favor un contratto a

favore di terzo. In realtà la teoria dell'interpretazione, almeno nella sua

formulazione più rigorosa,109

in cui in qualche modo si è coscienti

dell'annichilimento dei rappresentati, afferma che i più illuminati devono

essere tutori della nazione. Resta il problema di come si debba definire

l'attitudine al governo e come si possa stabilire chi è il più adatto. Il

problema, si sa, è tra i fondamentali della materia. Nella migliore delle

ipotesi i tutori della nazione sono investiti dal popolo e ben si può dire

allora, con Rousseau, che ogni nazione ha il governo che si merita.

Tuttavia l'oggetto dell'interpretazione resta il punto più ambiguo di tale

costruzione, momento su cui i suoi sostenitori sono costretti a

diversificarsi, se non a prendere le distanze l'uno dall'altro. Presupposto

della teoria è che ci sia qualcosa di reale, ma non palese, che è compito

del rappresentante individuare per poterlo indicare alla collettività. La

sensazione è che tutte le indagini mirate a definire, se non a trovare,

l'oggetto dell'interpretazione, tralascino di misurarsi sul suo carattere di

presupposto della teoria medesima oppure di dato reale percepibile 1982, specialmente p. 87. Altresì, cfr. P. VIGNAUX, La filosofia del medioevo (1987), trad.

it. Bari, 1990, specialmente, p. 61 e ss., 105 e ss., nonché infra nel testo.

109 Sul punto cfr. già A. PRINS, De l'esprit du Gouvernement Démocratique,

Bruxelles, 1905, p. 97, che non sembra essersi affrancato dalle critiche che Gans, quasi un

secolo prima di lui, aveva enunciato.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE

80

nell'esperienza, anche se non da tutti. Nelle varie enunciazioni lo si è

ritrovato ora nel voeu national, ora nella vox populi, nel Volksgeist, nel

fato o nelle esigenze del mercato o dell'economia. Le particolarità delle

posizioni saranno messe in evidenza trattando dei singoli autori che le

hanno individuate. Un tratto comune merita tuttavia di essere richiamato

fin d'ora. Tutte le posizioni concordano che non è ammissibile alcuna

interpretazione dell'oggetto al di fuori di quella degli organi

istituzionalmente incaricati o comunque del potere costituito,

"rappresentativi" proprio perché a ciò deputati. Ogni interferenza

extraistituzionale deve essere bloccata per non compromettere il

meccanismo. Sembra di essere di fronte al noumeno kantiano che può

essere visto solo attraverso le categorie di un interprete autorizzato.

Senz’altro, possono qui riprendersi tutte le critiche mosse al noumeno

dagli stessi allievi di Kant. Ma la critica più radicale mossa a questa teoria

proviene proprio da un neokantiano di Marburgo, che bolla l’istituto come

un'autentica finzione.110

Scivolando cioè verso l'idealismo del

rappresentante, il noumeno scompare e la volontà dell'interprete diviene la

volontà nazionale. Su questo ramo, che potremo definire classico della

teoria dell'interpretazione, si innesta, rinvigorendolo di nuova linfa, il

pensiero della destra hegeliana. Muovendo dai §§ 257/8 e 260/1 della

Filosofia del Diritto di Hegel, soprattutto Rosenkranz, ma anche

Oppenheim, Erdmann e, a suo modo Rössler, concludono che il singolo,

in quanto cittadino, non può nel campo pubblico, avere un interesse

diverso da quello dello Stato.111

A questa scuola si formarono i nomi più

importanti della giuspubblicistica tedesca a cavallo del secolo, e la teoria

degli organi altro non è, secondo noi, che l'esposizione in termini giuridici

di questo insegnamento. Espressa per la prima volta da Gierke,112

è

110 Cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it.

La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70; per una tendenza al ritorno al mandato

imperativo come rimedio all'imprecisione della rappresentanza politica, vedi specialmente

pag. 155 e ss. Cfr. anche B. MONTANARI, La questione della rappresentanza politica in

Hans Kelsen, in "RIFD", 1972, II, 200.

111 Per questi autori cfr. H. LÜBBE (a cura di), Die hegelsche Rechte, Stuttgart -

Bad Cannstatt, 1962, nonché amplius infra § II.3.1.

112 Cfr. O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen

Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche

Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

81

sviluppata da Laband,113

che negando sostanzialmente ogni legame tra

eletto ed elettore e constatato che "in senso giuridico i membri del

parlamento non rappresentano nessuno",114

ritiene che il Parlamento sia

rappresentativo in quanto organo dello Stato, a nulla rilevando il processo

elettivo di formazione. E poiché emanazione dello Stato, tutti gli organi

statali sarebbero perciò rappresentativi. È interessante notare come in

questa formulazione sembri scomparso ogni oggetto nascosto da

interpretare, essendo l'unità raggiunta tramite un processo di

identificazione in materia di interesse pubblico, tra volontà dei cittadini e

volontà dello Stato. Ma si badi bene che tale identità è data come

impossibilità per il cittadino di avere interessi diversi da quelli dello Stato.

Non occorre nemmeno un’opera di interpretazione per manifestare ciò che

c'è, ma non appare, come nella versione di Sieyès; gli interessi dei

cittadini sono quelli dello Stato. È sufficiente guidarlo. Chi governa deve

fare il bene dello Stato e nessun cittadino, in materia di interesse pubblico,

potrà rimproverargli di aver agito contro il proprio bene. Su questa base

sembra fondarsi quello che a tutt'oggi appare come un dogma della

rappresentanza politica: l'irresponsabilità dei deputati verso i cittadini per

il loro operato. Anzi tale caratteristica è stata assunta come criterio di

distinzione della rappresentanza politica da quella di diritto privato e per

negare il carattere giuridico della prima.115

Nel tentativo di superare la contrapposizione

mandato/interpretazione (cioè legame/indipendenza nei confronti degli

elettori), dev’essere verificata la soluzione risultante dal paradigma

rappresentativo proposto dalla dottrina d’oltreoceano. Come già

anticipato, infatti, nella riflessione sulla rappresentanza politica

continuano a trovare fortuna presso gli studiosi le categorie e gli strumenti

proposti da Hanna Pitkin in un saggio ormai famoso e che si è già avuto

113 P. LABAND, Il diritto pubblico nell'Impero germanico, trad. it., Torino, 1914.

Cfr., altresì, amplius infra, cap. II.3.3.

114 Op. ult. cit., p. 400.Per gli ultimi due autori citati, oltre agli scritti di Maurizio

Fioravanti, già indicati, cfr. P. SCHIERA, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella

Germania dell’Ottocento, Bologna, 1987; ampie informazioni bibliografiche su Gierke

nell’interessante saggio di S. MEZZADRA, Il corpo dello Stato. Aspetti giuspubblicistici

della Genossenschaftlehre di Otto von Gierke, in “Filosofia politica”, 1993, 3, p. 445 e ss.

115 Vedi per tutti: G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, Milano, 1976,

102-104; ma vedi contra già S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale, Milano, 1942,

p. 166.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE

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modo di anticipare, in parte, nei paragrafi che precedono.116

L'autrice

prende le mosse riconoscendo il dualismo insito nel concetto di

rappresentanza, le due anime che la sostengono: la situazione, cioè la

sostituzione del rappresentante al rappresentato, il suo stare, manifestarsi,

agire al posto di questi; e il rapporto che lega il sostituto al sostituito, il

rappresentante al rappresentato. Ponendo l'accento esclusivamente sul

primo fattore i rappresentati perderanno di importanza fino eventualmente

a scomparire, mentre i rappresentanti acquisteranno in indipendenza. Per

converso, privilegiando il secondo i rappresentanti saranno vieppiù

vincolati ai loro sostituiti fino a perdere di significato. Ora i rappresentanti

della nazione, i deputati, i portatori della volontà popolare, devono godere

di piena indipendenza fino ad essere irresponsabili verso i propri elettori

oppure debbono essere fedeli latori quasi nuncii delle volontà dei loro

committenti? Sostenuta anche dai risultati di una indagine per campione

sui cittadini medi americani, l’autrice conclude che in termini di

alternativa la domanda è mal posta. Prese ciascuna nella propria radicalità

entrambe le tesi possono apparire corrette. "Non si tratta di vera e propria

rappresentanza - diranno i teorici del mandato - se il rappresentante non fa

ciò che vogliono i suoi elettori. Non si tratta di vera e propria

rappresentanza - ribattono i teorici dell'indipendenza - se il rappresentante

non è libero di decidere sulla base del proprio giudizio autonomo".117

In

questo modo - continua la studiosa americana - finché la controversia fra

mandato ed indipendenza contiene siffatta disputa concettuale del

significato di rappresentanza, entrambe le tesi hanno ragione. Tutto ciò si

traduce in una difficoltà a cogliere l'attività del rappresentare. "Il

rappresentante deve agire realmente, essere indipendente; tuttavia il

rappresentato deve in un certo senso agire attraverso di lui. Quindi non ci

deve essere tra di loro alcun conflitto serio e persistente".118

Prendendo le mosse da un'analisi linguistica del termine interesse,

argomentando che l'interesse dell'elettore ed il suo bene normalmente

coincidono, Pitkin conclude che non vi sarà conflitto quando l'eletto

opererà nell'interesse dell'elettore, poiché sta operando per il suo bene. "Il

metro col quale egli sarà giudicato come rappresentante è se ha favorito

116 Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation, Berkeley, 1967.

117 Il corsivo si trova nel testo; citiamo dalla traduzione italiana parziale apparsa

nel volume a cura di D. FISICHELLA La rappresentanza politica, Milano, 1983, p.187.

118 Op cit., p.192.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

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gli interessi oggettivi di coloro che rappresenta. Entro la cornice del suo

dovere fondamentale vi è posto per una vasta gamma di alternative".119

In questo modo l'eletto non sarebbe tenuto a rispondere sempre del

suo operato, ma dovrebbe essere pronto a farlo se richiesto. "Non c'è

bisogno che vi sia una costante attività di rispondenza, ma vi deve essere

una costante condizione di responsività, di prontezza potenziale a

rispondere".120

Questa la definizione di responsività. Un atteggiamento di

disponibilità ad illustrare il proprio operato giustificato da quella sorta di

presunzione di conformità tra attività dell'eletto, interesse e bene

dell'elettore ricordata poco sopra. Si è già detto il termine: presunzione,

ovvero fictio, ovvero effetto giuridico in conseguenza di una realtà che di

fatto non c’è, ma che è data come esistente; a questo punto si tratta solo di

stabilire se si tratta di fictio juris et de jure, ovvero di fictio juris tantum.

"Non è necessario che egli agisca effettivamente e letteralmente in

risposta ai desideri del mandante, ma tali desideri devono essere

potenzialmente presenti e rilevanti. La responsività sembra comportare

una specie di criterio negativo: il conflitto deve essere possibile e ciò non

di meno non deve verificarsi”.121

“Non è necessario che egli li assecondi

sempre [id est i desideri degli elettori], tuttavia deve considerarli,

119 Ivi, p. 211.

120 Ivi, p. 247. Come si vede, il dibattito ritorna alle posizioni della teoria del

mandato esaminata al paragrafo precedente, giacché il problema ci riconduce al momento

della discrezionalità.

121 Ivi, p. 195. Il conflitto riprende la tensione della società per ceti e

rappresentanza moderna, che è conflitto attorno alla sovranità, come si è già detto. Le

antiche articolazioni cetuali presupponevano l’esistenza del signore feudale sulla forza

della propria autorità, ovvero la mancanza di diritti politici della massa, se non attraverso

la mediazione del signore, che interpreta il suo ruolo di difensore dei singoli e di

“rappresentante”, quasi nel senso di avvocato. Questa condizione corrispondeva alla

concezione del diritto di quella che Hegel chiamerà la società civile, ove non si distingue

ancora statuale e sociale. Solo in questa mescolanza le “libertà e giustizie” cetuali, in

rigorosa pluralità, potevano prosperare. E Ch.H. McILWAIN, Constitutionalism: Ancient

and Modern, Itacha - New York, 1940, trad. it. Costituzionalismo antico e moderno, a cura

di N. Matteucci, Bologna, 1990, p. 45, ci informa che in un documento del 1627 si legge:

“franchigia è una parola francese e in latino essa suona libertas”. Interessa a questo punto

notare come l’autrice sia vittima di quei “singolari collettivi” ricostruiti dal già citato R.

KOSELLECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt (a. M.),

1979, di cui si segnala la traduzione italiana Futuro passato. Per una semantica dei tempi

storici, Genova, 1986.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: L’INTERPRETAZIONE

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soprattutto quando sono in contrasto con quello che egli vede come gli

interessi dell'elettore, perché occorre trovare la ragione di tale

disaccordo".122

Conseguentemente in caso di contrasto deve esserci una

"buona ragione". "Non possiamo proprio credere che ci potrebbero essere

buone ragioni per raggiungere conclusioni abitualmente opposte a quelle

degli elettori. Anzi, la parola 'abitualmente' suggerisce con forza che il

rappresentante non sta agendo sulla base di ragioni”.123

E in effetti è vero, ma reciprocamente, come si è detto, il fatto che

"abitualmente" vi sia accordo, anche questo indica la mancanza di un

principio. "Il fatto ingannevole, a questo punto, è che l'unica garanzia

sicura di non essere in conflitto con i desideri di qualcuno è di agire dietro

suoi ordini espliciti. Ma il punto è che nella rappresentanza non è richiesta

alcuna garanzia."124

Dunque la responsabilità politica che sembrava essersi trasformata

in responsività, si rivela inesistente, anzi addirittura ingannevole. Il

superamento della logica dualistica non sembra essere avvenuto. Ci

troviamo tuttora nella prospettiva di situazione e rapporto con un

particolare accento verso la prima.

Ciò che preme mettere in luce è come l'agire nell'interesse

"oggettivo" dell'elettore, così come interpretato dall'eletto, senza alcuna

garanzia in caso di conflitto, posto che "abitualmente" questo non si

verifica, tutto ciò non possa essere considerato superamento della logica

dualistica nel concetto tradizionale di rappresentanza. Mentre, sotto altro

profilo, può essere foriero di equivoci l’assunto che la rappresentanza non

chieda alcuna garanzia, sicché potrebbe rafforzarsi l’idea di

un’indicazione sommaria di interessi da parte degli elettori, cui

corrisponde un certo onere di prestarvi considerazione da parte dell’eletto,

senza comunque alcuna possibilità di verifica o di potere incisivo. La

122 Ivi, p. 206. A questo punto si potrebbe appuntare all’autrice la critica che il

giovane Marx muoveva ad Hegel, ove riconosceva che la garanzia della mediazione

rappresentativa era affidata a troppi elementi meta giuridici (rectius meta positivi) da

risultare evanescente. “Prima era la fiducia, garanzia dei mandanti, ad essere la garanzia

dei deputati. Ora questa fiducia abbisogna anch’essa della garanzia della sua validità” Così

K. MARX, Kritik des Hegelschen Staatsrechts, nella traduzione italiana in Opere filosofiche

giovanili, a cura di G. della Volpe, Roma, 1963, p. 138.

123 Ivi, p. 207.

124 Ibidem.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

85

pericolosità di questa posizione emerge chiaramente considerando che,

vista la tutela accordata, le situazioni giuridiche soggettive degli elettori

possono, tutt'al più, essere qualificate come degli interessi diffusi. Ben

poca cosa di fronte alla perentoria affermazione che la sovranità

appartiene al popolo, che rende ancor più stridente il contrasto tra titolarità

formale e titolarità effettiva, smascherando la qualità mimetica del potere

nella prospettiva dell’unicità propria di una particolare concezione del

diritto e dello Stato.

La costruzione della dottrina americana vede chiaramente il

dualismo insito nella struttura della rappresentanza, parlando di

“situazione” e “rapporto”; non di meno, la combinazione dei due termini

che ne viene operata ci offre una soluzione che non sembra distaccarsi

dalla contrapposizione mandato / indipendenza, riproducendone tutte le

già denunciate aporie.

La soluzione, allora, deve essere ricercata altrove.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ

86

2.3.3 Rappresentanza, conoscenza, decisione: le ragioni delle

difficoltà della rappresentanza

PREMESSA: RAPPORTO TRA PROCEDURA DI COSTITUZIONE DELL’ASSEMBLEA E SUE FUNZIONI

– POSSIBILITÀ DI DIFFERENTI CONCETTI DI RAPPRESENTANZA IN DIPENDENZA DALLE

FUNZIONI SVOLTE COME RAPPORTO TRA STRUTTURA E FUNZIONE: CRITICA E NEGAZIONE –

NECESSITÀ DI INDIVIDUARE UN CONCETTO DI RAPPRESENTANZA NON CONDIZIONATO DALLO

SCOPO APPLICATIVO - FILOSOFIA TEORETICA, PRATICA, POIETICA – ARTICOLAZIONI

CLASSICHE E MONOLITISMO MODERNO – CONCLUSIONE: RAPPORTO TRA ESSERE E VOLONTÀ.

Per chiarire convenientemente il concetto di rappresentanza

un'ultima distinzione ci sembra essenziale. Di fronte ad un'istituzione o ad

un organo ritenuto rappresentativo occorre chiedersi per quale scopo è

stato creato. Occorre quindi distinguere la rappresentanza a seconda degli

scopi per i quali vi si ricorre, seppure –lo si è già detto- non riteniamo di

dover piegare la definizione di rappresentanza –derivata dalla sua

struttura- in conseguenza dei risultati operativi che si vogliono conseguire

con essa. Dalle origini storiche delle assemblee si evince che la

convocazione avveniva per consigliare il sovrano e di aiutarlo nel

governo: insomma per dare al sovrano quel largo consenso che gli è

necessario ogni qual volta deve portare a compimento un grande progetto.

Consigliare e governare erano dunque le funzioni principali.125

Unificate nell'antichità e nell'alto medioevo cominciano a scindersi nelle

diete della rinascita culturale attorno all'anno mille. Si comincia a

distinguere tra assemblee che rappresentano nel senso di manifestare le

necessità e i desideri del popolo al sovrano, per renderlo edotto, e quelle

che rappresentano la volontà del popolo, inteso come l'insieme degli

uomini liberi (o baronaggio), per tradurla in legge. Si dividono insomma

le assemblee che consigliano da quelle che decidono. Su questa

distinzione forse non ci si è soffermati a sufficienza. Ne indoviniamo

l'esigenza quando si riconosce che il capo rappresentativo di una società

articolata non può rappresentarla nel suo complesso se non ha un certo

rapporto con gli altri membri della società stessa.126

Questa esigenza

sottende la convocazione dei primi consilia principeschi. La stessa Magna

Charta indica il parlamento come "commune consilium regni nostri", cioè

125 M. DUVERGER, Le costituzioni della Francia, trad. it. Napoli, 1984, p. 17 ss; 25

ss; 28 ss.

126 Cfr. E. VOEGELIN, op. cit., p. 95.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

87

del monarca. Esso rappresenta le articolazioni del regno per consigliare il

principe, non rappresenta i baroni nella determinazione delle scelte.

Diversamente l'Assise di Clarendon, nel 1166 era stata convocata

per stabilire il riordino ed il funzionamento dell'amministrazione della

giustizia in Inghilterra; non per consigliare, ma per decidere. Ora la

convocazione di un'assemblea per essere informati, richiede un certo

sistema di scrutinio per rappresentare le esigenze degli angoli più remoti

del regno. Altro ne chiede un'assemblea convocata per decidere in nome

dei rappresentati. In questo caso infatti si impone un diverso sistema,

conformemente ad una diversa funzione: non devono essere portati a

conoscenza le diverse voci dei rappresentati, ma si deve giungere ad una

volontà, in cui tutti possano ritrovare il bene comune. Se l'assemblea

conoscitiva per sua funzione ha natura pluralistica, l'assemblea

deliberativa, per sua funzione, deve tendere e produrre l'unità. Sui

problemi e sulle vie per raggiungere l'unità, si è già detto. Qui ora, preme

mettere in evidenza come un tipo di assemblea non possa svolgere le

funzioni dell'altra senza inconvenienti. La diversità di fini sottende una

difformità di struttura che non può essere ignorata nel momento dei

risultati.

Infatti per rappresentare, nel senso di manifestare, le esigenze degli

elettori ai fini conoscitivi, il sistema più fedele è il conferimento di un

mandato imperativo. Dovendo rappresentare, nel senso di riprodurre, la

voce della nazione in un unico luogo, il solo modo possibile, in assenza

dei moderni mezzi di comunicazione, era riunire in assemblea gli inviati

dei diversi angoli del regno, per sentire da loro la voce dei governati.

Con questo sistema funzionavano le assemblee più o meno

periodiche, nei principali Stati fino alla Rivoluzione francese. Ben si

comprende allora come la preoccupazione principale fosse la totale

corrispondenza tra quanto conferito dai mandanti e quanto detto in

assemblea: in altre parole si richiedeva al rappresentante di essere

immagine quanto più fedele possibile alla realtà del proprio collegio.

Tutto ciò era relativamente semplificato dalla natura stessa delle

assemblee, dal fatto cioè che non a queste spettava decidere, ma al re. Non

era compito dei deputati interpretare le esigenze della nazione in

prospettiva futura, in merito ad una decisione da prendere. In altre parole

non si poneva la questione che assilla i teorici contemporanei e che

abbiamo esaminato sopra, riassunta nella distinzione tra volontà o

interessi degli elettori come criterio guida del deputato. Il sistema di

elezione ne è un aspetto significativo: non si dava la fiducia ad una

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ

88

persona sulla base del programma presentato e sulla promessa di portarlo

a compimento, piuttosto si raccoglievano tutte le necessità, doglianze e

desideri di una certa porzione di territorio e, tradotti in un documento, li si

affidava ad una persona di fiducia scelta, "eletta" per rappresentare, nel

senso di manifestare, i bisogni di quella parte di regno, motivo che aveva

mosso il sovrano a indire la convocazione.

Il problema sorge invero quando l'assemblea decapitata (nel senso

fisico del termine) del sovrano deve provvedere alle decisioni. Non basta

più raccontare quanto i committenti hanno indicato: occorre agire al posto

di questi, divenuti improvvisamente sovrani. Avremo modo di illustrare le

difficoltà sorte nell'Assemblea nazionale francese, che convocata come

organo consultivo, come Stati Generali, si trasforma in organo

deliberativo, addirittura costituente, l'Assemblea nazionale appunto. Qui

preme sottolineare ancora come la diversità di funzioni, conoscitive o

deliberative, sembri sottendere diversità di natura. Con Schmitt si

sosterrebbe che solo le seconde rendono le assemblee veramente

rappresentative, poiché solo in queste si manifesterebbe quella coscienza

superiore che rende un popolo tale. Tuttavia alla luce di quanto esposto

nei capitoli precedenti, si propone un'altra distinzione. Un'assemblea

conoscitiva, pur se specchio fedele della nazione, può non essere

“rappresentativa”: mirata infatti a riprodurre in scala ridotta, la realtà,

tanto sarà immagine fedele quanto più i suoi componenti sapranno ripetere

compiutamente le istruzioni ricevute. In questa prospettiva la tecnica

migliore è il mandato imperativo o addirittura l'utilizzo di nuncii, i

commissari cui fa riferimento Rousseau, semplici latori di dichiarazioni

altrui: la riproduzione sarà perfetta, ma il rappresentante non è più: la

rappresentanza cessa in quello stesso momento. Altrettanto può succedere

in un’assemblea deliberativa in cui i rappresentanti dimentichino i

rappresentati o dove questi ultimi riducano a portavoce i primi. Da quanto

detto allora, il criterio per attribuire carattere rappresentativo o meno ad

un consesso di deputati non è tanto vedere se può assumere decisioni o no,

quanto vedere se ha la struttura dualistica della rappresentanza,

comprendendo cioè un rappresentante ed un rappresentato. In altri termini,

l'oggetto dell'attività non determina il carattere rappresentativo o meno

dell'assemblea. Il criterio discretivo va ricercato a monte, nella presenza

degli elementi necessari alla struttura rappresentativa: in questo modo si

può superare la distinzione iniziale tra assemblee conoscitive e assemblee

deliberative nonché l'equazione che chiama rappresentative le seconde,

ma non le prime.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

89

Un tanto ci consente di osservare come la funzione, consultiva,

conoscitiva o deliberativa, possa influire sul criterio elettorale da seguire,

facendo propendere la scelta più per il proporzionale, piuttosto che per il

maggioritario, o viceversa, ma non incide sulla rappresentanza in quanto

tale, ovvero nella sua intima struttura concettuale, essenzialmente

dualistica, ad onta di quanti, si è visto all’inizio (e sono i più), guardano al

sistema di scrutinio per ricercare la vera natura della rappresentanza. Il

vizio, ci si permetta di essere ripetitivi, al limite dell’insistenza, consiste

nel piegare la struttura alla funzione, ovvero di forgiare l’istituto (ma

anche il concetto) alle proprie esigenze operative e contingenti. Non si

nega la legittimità del fine, poiché in fondo ogni istituto giuridico è

funzionale ad uno scopo. Si stigmatizza, invece, il procedimento logico,

che, pur nella (legittima) ricerca del perseguimento del proprio fine, deve

muovere l’indagine dal riconoscimento di ciò che è, dall’indeclinabile;

onde non scoprire poi l’inattitudine dello strumento proprio per quello

scopo in funzione del quale era stato artificiosamente creato.

E forse questa è una delle difficoltà della rappresentanza.

Prima di procedere nella nostra indagine alle radici della

rappresentanza nella dottrina dello Stato, è opportuno tentare di ricavare

dai contributi e dalle posizioni esaminate sopra, quali possano essere i

motivi per i quali la rappresentanza costituisce un problema

nell’esperienza giuridica della modernità. Le difficoltà della

rappresentanza sono forse dovute alla differenza, anzi all'opposizione

della sua struttura con una concezione dello Stato e del diritto qual è

venuto a svilupparsi negli ultimi cinque secoli. Possiamo riassumere

quanto detto nei seguenti termini. Da Platone127

si evince la distinzione tra

la cosa e la sua rappresentazione, dando dignità di esistenza alla cosa e

alla sua rappresentazione, al rappresentante e al rappresentato, mettendo

in guardia dall'assolutizzare la rappresentazione perché perderebbe la sua

natura di immagine. Conseguenza è il dualismo che emerge

preponderantemente nella struttura della rappresentanza e di cui il

principio di responsabilità costituisce il corollario più importante.

Applicata nell'ambito della politica e del diritto nella tradizione

aristotelica questa concezione della rappresentanza ben si confà alla

pluralità propria della filosofia pratica, nel cui ambito si colloca la

127 PLATONE, Sophista, 235 d), in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Milano, 1991,

p. 281-2.

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LE TÈKNAI DELLA RAPPRESENTANZA: LE DIFFICOLTÀ

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politica: non il luogo del vero e del falso, ma il luogo dell'opportuno e del

conveniente, nella pluralità degli éndoxa.

Tale tradizione dura per tutto il medioevo seppure in modo nascosto

e in latente conflitto con la teoria incipiente della sovranità nazionale.

Ma se già Marsilio sostituisce all'essere, come fondamento dello

Stato, la volontà del singolo, è Bacone che asserisce "la varietà è la

caratteristica dell'errore e l'unità è il carattere della verità".128

L'equivoco si ingenera dall'applicare alla politica il procedimento

della filosofia teoretica: sorge dall'aver confuso ciò che Aristotele aveva

tenuto distinto, dall'aver identificato l'ambito del diritto con l'ambito

dell'operare, la filosofia pratica con la poietica, e nell'avervi imposto il

procedimento della filosofia teoretica, distruggendo quella varietà degli

éndoxa che Aristotele indica come elemento qualificante della politica, in

questo rifacendosi alla tradizione platonica, ove la politica è il luogo

dell'opportuno, del conveniente. Non è un caso che il richiamo alla

tradizione aristotelica si sia avuto da quegli autori di questo secolo che più

anno sofferto degli esiti totalitari della concezione del diritto e dello Stato

costruita sull'unicità.

Tuttavia ancora fino a tutto il '700, più o meno manifestamente, si

riconosce la struttura dualistica della rappresentanza, pur cercando di

ricondurla ad unità con "tecniche giuridiche". È lo sforzo, ci pare, di

Rousseau e dei monarcomachi: la ricerca di una via per attribuire ad uno

ed un solo soggetto la manifestazione di volontà che deve diventare legge.

E la difficoltà è proprio nel muovere la riflessione in termini di volontà

che, come si è detto è la categoria dell'unità.

Il processo viene portato a compimento da Sieyès che non si limita

ad operare sulle tecniche della rappresentanza, ma ne intacca l'intima

struttura: non si ammette più dualismo, fin dall'origine esiste uno ed un

solo soggetto: il "rappresentante"; non esiste, non può esistere volontà

all'infuori della sua. Allora veramente quella che abbiamo chiamato teoria

dell'interpretazione129

non è una semplice tecnica della rappresentanza, ma

una nuova struttura di questa o meglio, se si vuole, il suo stravolgimento.

Al dualismo di rappresentante e rappresentato si oppone l'esistenza del

128 F. BACON, Il parto maschio del tempo, cap. II, in Scritti filosofici, a cura di P.

ROSSI, Torino 1975, p. 116. Se non consapevole nell’opera del Verulamio, l’equivoco si

ingenera sicuramente nei suoi discepoli, in primis nell’allievo geometrico Thomas Hobbes.

Cfr. U. PAGALLO, Homo homini deus, Padova, 1995, p. 53 e ss.

129 Cfr. supra § I.3.2., ove si fa riferimento alla sola rilevanza (nel volere come

nell’agire) del “rappresentante” o, meglio, dell’eletto.

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STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA

91

solo "rappresentante"; all'eikòn si sostituisce il fàntasma. Da questo

momento non è più una questione di tecniche, di conficcare il dualismo di

struttura nel monismo della tecnica, ma l'opposizione avviene su un piano

sostanziale. Con Sieyès la rappresentanza è una costruzione monista,

omologa ed utile strumento della sovranità, con cui divide l’identità di

struttura nella pretesa unicità. Gli interpreti di Hegel si incaricheranno di

portare a conseguenza le premesse dell'Abate. Sciogliendo l'ambiguità del

Maestro di Berlino si sosterrà che in campo pubblico il cittadino non può

avere interessi diversi da quelli dello Stato e che ogni organo è

rappresentativo in quanto espressione dello Stato. E questa è la riprova

che dalla concezione della rappresentanza, dal rapporto tra governanti e

governati, dipende la concezione dello Stato.

Ma da Platone e dalla natura della buona immagine, dell'eikòn,

emerge anche l'esigenza di responsabilità del rappresentante verso il

rappresentato, come garanzia, non sopraffazione dell'uno sull'altro, come

barriera alla degenerazione in fàntasma. Sieyès ha solo fantàsmata

irresponsabili: con essi è aperta la via all'assolutismo assembleare e alla

dittatura fondata sulla conclamata rappresentanza delle masse.

Ma seguiamo partitamente le tappe di questo percorso attraverso il

pensiero dei singoli autori. Cominciando dai semi sparsi da quel viandante

solitario durante le sue meditazioni, dai quali sarebbe germogliata robusta

ed avviluppante la pianta della sovranità popolare.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

93

3 DUALISMO E MONISMO NELLA

RAPPRESENTANZA

3.1 Dal Contratto all’Enciclopedia

3.1.1 Collegio perfetto e delega

COSTRUZIONE DELLA NON DELEGABILITÀ DELLE FUNZIONI POLITICHE: LIMITI E CRITICA –

NECESSARIA PARTECIPAZIONE ALL’ASSEMBLEA PER IL RICONOSCIMEMTO DEL DELIBERATO

(LA LEGGE) COME VOLONTÀ GENERALE – IMPOSSIBILITÀ DI FORMAZIONE DI VOLONTÀ

RILEVANTI IN UN MOMENTO PRECEDENTE LA DISCUSSIONE ASSEMBLEARE – CONSEGUENTE

NECESSITÀ DI ASSEMBLEA IN FORMA TOTALITARIA – DIFFICOLTÀ DI OTTENERLA IN STATI DI

GRANDI DIMENSIONI OD IN SOCIETÀ A CAPITALE ALTAMENTE FRAZIONATO – STATO

FEDERALE E PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: POSIZIONE DEL PROBLEMA E RINVIO.

“Nessuna fraternità fra noi ed il Terzo. Non tolleriamo che figli di

calzolai e ciabattini ci chiamino fratelli, né che la differenza fra noi ed il

Terzo sia diversa da quella che divide signori e servi”.130

Questa la

risposta della Nobiltà all’appello del Terzo stato alla fraternità, già durante

gli Stati generali di Francia del 1614, intesa quale elemento costitutivo del

popolo e condizione della sua rappresentabilità, secondo uno schema che

vedremo giungere a maturazione con Sieyès, 175 anni dopo. E la

spiegazione di questo atteggiamento è illustrata al giovane Luigi XIII da

un rappresentante del Secondo ordine: “Arrossisco al solo pronunciare i

termini da cui siamo stati di nuovo offesi. Osano rassomigliare il vostro

Stato ad una famiglia, composta da tre fratelli; e dicono che l’ordine

ecclesiastico sarebbe il primogenito, secondogenito il nostro, ed essi, il

popolo, sarebbero i cadetti. In quale bassezza siamo caduti! […] I tanti

segnalati servizi, resi da tempo immemorabile, i tanti onori e le tante

dignità, che formano il patrimonio ereditario della nobiltà, meritato dai

suoi sacrifici e dalla sua fedeltà, invece di innalzarla, l’avrebbero talmente

degradata, da unirla al volgo con la più stretta delle società e delle

parentele tra gli uomini, qual è appunto la fraternità.”131

I germi

130 La citazione di LAMENNAIS, De l’esclavage moderne, Paris, 1839, apre

programmaticamente la voce Popolo di F. MERCADANTE in “Enciclopedia del Diritto

Giuffré”, vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 267.

131 F. MERCADANTE, op. cit., p. 268.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

94

dell’egualitarismo rousseauiano e del concetto di rappresentanza politica

consacrata nell’Assemblea nazionale sono già tutti presenti fin dal 1614.

Prima tuttavia di affrontare nel merito la visione specifica del

Ginevrino è opportuno soffermarsi su due aspetti di apprezzabile

importanza grazie ai quali sarà possibile inquadrare più limpidamente il

problema.

Il primo attiene alla dinamica della diffusione di un metodo di

formazione del consenso o, come meglio si vedrà, di sua finzione, il quale

-già presente in epoca antecedente al 1789- delinea una chiave di lettura

del fenomeno rappresentativo scaturito dalla Rivoluzione.

Il secondo, strettamente vincolato al primo, si riferisce alla

dimensione culturale dell’élite divenuta protagonista nel corso della

Rivoluzione.

Le due questioni rivelano un certo interesse, ancorché appaiano

avulse, a prima vista, da uno studio giusfilosofico intorno al diritto di

rappresentanza, proprio perché illustrando la meccanica del progressivo e

inesorabile ridursi nelle mani di pochissimi soggetti posti al vertice della

struttura politica del totale controllo sull’attività pubblica, appaiono

necessariamente propedeutiche all’analisi di qualsivoglia istituto giuridico

che sia stato investito dalla spinta innovatrice rivoluzionaria.

Invero si fa strada in seno ai lavori dell’Assemblea nazionale prima

e della Convenzione poi (e non più solo nei testi filosofici) l’idea che la

volontà popolare possa essere interpretata entro schemi ideologici e

astratti e in ultima considerazione, propri della sola cerchia dominante.132

La definizione giuridica di tutti gli elementi che attengono alla

soggettività della persona e al rapporto tra sfera pubblica e privata

discendono quindi necessariamente da tale impostazione.

In campo storiografico133

è con voce unanime riconosciuto che la

convocazione degli Stati Generali del 1789 fu dettata da motivazioni

132 È innegabile che la pressione della massa cittadina sulle assemblee fosse in

grado di condizionarle; anzi, per dirla con Aquarone, durante i lavori della Costituente

avrebbe costantemente inibito “una maggioranza che si sarebbe espressa con molta

maggior sincerità e chiarezza se non fosse stata consigliata a una costante prudenza dalla

presenza del pubblico, non di rado assai turbolento, nelle tribune” (A. AQUARONE, Due

costituenti settecentesche, Pisa 1959, p. 24). Ma ciò conferma proprio lo stravolgimento

dei rapporti tra le forze politiche rappresentate in favore di nuclei sempre più contenuti; sul

punto si ritornerà più diffusamente nei paragrafi successivi.

133 Il riferimento principale resta all’insuperata opera di J. ELLUL, Storia delle

istituzioni; l’età moderna e contemporanea, trad. it. Milano, 1976.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

95

squisitamente finanziarie; del resto l’istituto, pur non sconosciuto

all’ordinamento francese, era da lungo tempo rimasto inutilizzato.134

L’evento venne tuttavia percepito dall’imponente massa elettorale135

in

fibrillazione come un’occasione formidabile di rinnovamento (non tanto

in chiave anti monarchica quanto anti nobiliare e con il miraggio di un

miglioramento economico) al di là delle stesse intenzioni di Re Luigi e del

primo ministro.

Proprio nei mesi che precedettero la storica assemblea di Versailles

si osserva un imponente movimento organizzativo in apparenza acefalo in

grado di pilotare in modo capillare e formalmente legittimo sia i candidati

da eleggere sia la redazione, nelle loro linee fondamentali, dei cahiers des

doleances136

. La tesi è sostenuta da Cochin137

e per quanto non sia priva di

134 Come si è detto l’ultima convocazione risaliva al 1614. Ed è singolare il nesso

tra la convocazione degli Stati generali con i momenti di maggior difficoltà per la storia

della Francia. Dalla prima convocazione, nel 1302, occasionata dalla tensione tra Filippo

IV “il bello” e Bonifacio VIII, alla Guerra dei cent’anni, con Carlo VII, fino alla

convocazione del 1484 a Tour, che vede il mutare della prassi dell’invio di procuratori in

rappresentanza di delegati eletti, con l’intervento di Filippo Pot, di cui si è già fatto cenno

(cfr. n. 29 e 235). Segue un lungo silenzio. Dopo quella data Carlo VIII non convocò più

gli Stati generali, così come Luigi XII, Francesco I ed Enrico II. A seguito delle tensioni

prodotto della protestantesimo, unitamente alla crisi della dinastia, si hanno le riunioni del

1560 e del 1561, poi del 1577, del 1588, con le evoluzioni del primo re Borbone, ed infine

del 1614, per volontà della reggente Maria de Medici, per affrontare le tensioni interne cui

saprà porre fine il genio politico di Richelieu. Dal 1614 al 1789 un sonno letargico

interrotto solo da due appuntamenti, poi mancati: nel 1652, per volontà della reggente

Anna d’Austria e nel 1715, per la scomparsa del Re Sole. Per un’attenta ricostruzione del

ruolo degli Stai generali nei diversi momenti storici, cfr. C. SOULE, Les Etats Généraux de

France. Etudes présentées à la Commission Internationale pou l’Histoire des Assemblée

d’Etats, Heule, 1968. Per una puntuale analisi del sistema di mandato in quelle assemblee,

cfr. O. ULPH, The Mandate System and Representation to the Estates general under the

Old Regime, in “The Journal of Modern History”, n. 3, September 1951, p. 225-231.

135 Il suffragio è quasi universale poiché anche per il Terzo stato possono votare

tutti i maschi che abbiano compiuto 25 anni e paghino un’imposta sia pur minima. Si vota

a due gradi, prima nelle assemblee di parrocchia e poi, per gli eletti, in quelle di

bagliaggio. Gli eletti erano previsti nell’incredibile numero, per allora, di mille.

136 “La ricca messe di cahiers (...) pur riferendosi sempre a situazioni particolari e

concreti di questa o quella comunità (...) aveva tuttavia chiaramente mostrato come quella

preparazione dottrinale avesse saputo diffondersi anche nei più remoti angoli della

provincia francese, contribuendo validamente a dare nerbo e organicità alle pur così

eterogenee rivendicazioni ...”. Cfr. A AQUARONE, Due costituenti settecentesche cit., p. 98.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

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spunti di notevole originalità (e di frizzante vis polemica) non si pone in

contrasto con l’interpretazione storica tradizionale ed appare utile per la

prospettiva da cui muove, e per le osservazioni che si faranno in seguito,

oltre che per la ricca e rigorosa documentazione presente.

Possiamo ridurre la linea argomentativa di Cochin a due principali

percorsi: l’uno, che si incentra sul merito del fenomeno e sulle sue ragioni

profonde, l’altro che ne studia la struttura dinamica. Sotto il primo aspetto

la critica è radicale: a ridurre in frantumi il sistema sociale così come era

organizzato nel XVIII secolo sarebbe stato, letale negli effetti pur se

innocuo a prima vista, l’adagiarsi ad una dimensione salottiera del

pensare, ad una parolaia “repubblica delle lettere” sganciata dalla realtà.

“A che serve l’acquisizione delle esperienze in un mondo simile?

Sono cose che si esprimono a fatica e non hanno nulla a che fare con una

discussione di principio. Necessari per giudicare rettamente e giustamente

questi consiglieri sono un inciampo per opinare con chiarezza”138

; il

ritorno sul punto è costante, come anche il sarcasmo che lo sostiene.

Sarebbe però un errore vedere in queste pagine solo una filippica contro

un certo razionalismo astratto; Cochin solleva lo sguardo e va più a fondo.

La “repubblica delle lettere” possiede sue proprie leggi, che non hanno

bisogno di farsi conoscere per essere obbedite, ma sono la necessaria e

geometrica conseguenza della stessa ragion d’essere della società di

pensiero dove il più leggero (o vacuo) vola in alto isolando via via gli

elementi legati a valori come fede, tradizione o semplicemente esperienza

del mondo reale.

Ora, non è impossibile intravedere in questo panorama una sorta di

deformazione del concetto di soggettività; si ritrova infatti come

geneticamente vincolato a questa prospettiva la riduzione progressiva di

ciò che forma la dimensione personale e irripetibile di ciascun singolo ad

una formula astratta e convenzionale.

Tuttavia, molto spesso, è proprio la stessa convenzionalità ad essere

dimenticata da coloro che, negando l’assunto di partenza del loro

procedere, sogliono poi dedurre dai risultati delle loro analisi verità

indiscutibili. “È esatto, alla lettera, che la ragione basta a ognuno, giacché

137 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, (raccolta di saggi scritti tra il 1903

ed il 1915, Parigi, 1979 su di un’edizione Plon del 1921) trad. it. Milano 1981, p. 43.

138 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito cit., p.46. L’autore situa cronologicamente il

prodursi di queste prime società attorno alla metà del secolo: “Non parlo dei primi, dei

gaudenti del 1730, parlo degli enciclopedisti dell’epoca successiva”, ibidem p. 45.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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il fine è spostato: quello che conta ormai è l’idea distinta, quella che si

autogiustifica verbalmente, non l’idea feconda che si verifica”.139

L’ulteriore conseguenza non fatica a palesarsi: l’elemento che discrimina

il più forte è ora la purezza, il distacco dagli organi reali di appartenenza

sociale; non più la sperimentazione dell’uomo come esso è, ma il progetto

dell’uomo come entità astratta all’interno di un meccanismo perfetto e

sincronizzato.

Come era strutturata la società francese all’avvento di questa nuovo

fenomeno? Il dato che emerge è la presenza di numerosi livelli associativi;

definibili come corpi intermedi di appartenenza del singolo, nel loro

insieme edificavano un sistema organico e fortemente gerarchizzato quale

riferimento delle relazioni intersoggettive. Tra di essi maggiore oggetto di

analisi storica sono stati gli ordini.140

Si soffermi ora l’attenzione sul primo di essi per importanza, vale a

dire la nobiltà, la cui analisi offre lo spunto per un’osservazione.

L’acquisizione originaria del titolo poteva avvenire in tre modi:

conferimento dell’ordine della cavalleria (Santo Spirito o San Luigi, in

genere per meriti acquisiti in campo militare), conferimento mediante

lettere patenti accordate dal sovrano141

ovvero automaticamente

rivestendo gli uffici militari e quelli civili più elevati. Fuori di questi casi

la regola è la trasmissione ereditaria per antico beneficio feudale; è quindi

un ordine solo relativamente chiuso ma geloso delle proprie prerogative. Il

fatto tuttavia che a determinate condizioni vi si possa accedere consente di

considerare l’ordine più ambito non tanto come una casta, ma piuttosto

alla stregua di uno strumento per l’ascesa ad un’identità sociale

maggiormente prestigiosa. Si è di fronte ad un’espansione della

dimensione soggettiva che si realizza tramite la proiezione sulle gerarchie

della collettività ma, ed è questo il punto qualificante, non mediante un

istituto di diritto privato, bensì –si badi bene- ormai di diritto pubblico.

139 A. COCHIN, op. cit., p. 47.

140 Ma la strutturazione in senso gerarchico si riscontra a tutti i livelli compreso il

mondo operaio: differenze si hanno tra compagnons, entrati nel sistema corporativo, e

artigiani proletari , tra maestri e non, etc.

141 L’acquisizione era in tal caso onerosa dal momento che, per compensare la

perdita di un contribuente (i nobili erano esenti dalla taglia), il re richiedeva una certa

somma oltre alla costituzione di una rendita. Cfr. J. ELLUL, op. cit., p. 127.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

98

Il fenomeno poteva però essere consentito solo all’interno di una

struttura sostanzialmente feudale, come in effetti fu quella francese ancora

per buona parte del XVIII secolo, fondata su di una distinzione, percepita

anche in senso morale, che assumeva valore formale con la ratifica del Re

e in cui l’arricchimento del soggetto era un dato, semmai, meramente

strumentale.142

Si vuole affermare che le prospettive di realizzazione del

singolo, in quanto partecipe della comunità, erano affidate in ultimo esito

alla ricerca di affermazione in una struttura gerarchica parzialmente aperta

secondo un sistema la cui riconoscibilità comune era garantita da una

tradizione plurisecolare.143

La stessa formula in francese arcaico, a

sostegno della monarchia, “car li Rois n’a point de souverain es choses

temporiex, ne il ne tient de ne lui, que de Dieu et de soi”144

voleva

costituire un limite all’ingerenza sul monarca del potere dell’Imperatore e

della Chiesa, da un lato, e del feudalesimo, dall’altro. Almeno fino a

quando il principio di un potere illimitato viene geometricamente

disegnato da Bodin e Loyseau, riferendolo allo Stato, fino a fare dello

Stato e del sovrano termini destinati a rimanere sinonimi.145

Seppure già il

3 marzo 1766, il pronipote del Re Sole era costretto a protestare il proprio

ruolo, “flagellando” il Parlamento di Parigi che aveva osato distinguere la

nazione dalla monarchia, ricordando che “è nella mia sola persona che

risiede il potere sovrano (…) l’ordine pubblico proviene tutto solo da me e

142 È pur vero che un’ingente quantità di capitali è in mano alla nobiltà ma quella

provinciale, che vive sulle proprie terre, e che è poi la più numerosa, si trova in condizioni

spesso di povertà, lavora con l’aiuto di pochi domestici e gode di non molti privilegi; del

resto la possibilità di arricchirsi tramite attività manifatturiere o commerciali è stata ad essa

a lungo preclusa: solo l’industria vetraria o metallurgica (salvo deroghe regie con valore

temporaneo) non fa perdere la nobiltà a colui che la pratica mentre la preclusione al

commercio marittimo cade nel 1629 e quella relativa al commercio all’ingrosso nel 1701.

Cfr. J. ELLUL, op. cit., pp. 127-128.

143 Per questi aspetti, pur nel differente quadro storico, si confronti il saggio di R.

SABBADINI, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a

Venezia, Udine, 1995, che ricostruisce il tentativo mimetico delle famiglie aggregate al

patriziato in occasione della guerra di Candia.

144 A. VIOLLET (a cura di), Les Etablissements de Saint Louis, 4 voll., Paris, 1881-

86, vol. II, p. 370.

145 Per le difficoltà ingenerate da siffatto stretto legame, e per l’ipoteca concettuale

dalla quale il dibattito costituzionale si è da poco affrancato, cfr. infra, § III.4.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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i diritti e gli interessi della nazione, di cui si osa fare un corpo distinto dal

sovrano, sono necessariamente uniti ai miei e stanno solo in mano mia.”146

In questo contesto si può comprendere come il ripensamento

dell’individualità in termini di astrattezza e secondo un procedimento di

tipo ipotetico-deduttivo abbiano avuto, nei quattro decenni precedenti

l’epifania rivoluzionaria, un ruolo non trascurabile nella progressivo

indebolimento del sistema “organico”. Nei fatti il passaggio non è potuto

essere indolore ma si è realizzato attraverso un violento percorso di rottura

politica e istituzionale, come effetto di due diversi punti prospettici

incomunicabili e quindi destinati a confrontarsi in modo conflittuale una

volta raggiunto il livello critico.

La dinamica che connota l’espansione e l’affermazione di un

ambiguo partito senza capi né programma, ma cementato da

un’inconsapevole omogeneità d’azione costituisce l’altro aspetto

dell’indagine giuridico - elettorale che ora è necessario riprendere.

Oggetto di studio sono lo svolgimento dei preparativi e delle

elezioni dei deputati agli Stati Generali svoltesi a Digione e nella

Borgogna verso la fine del 1788. Il meccanismo si esprime dapprima

nell’approvazione delle suppliche da inviare al sovrano a nome del Terzo

stato e della città e presenta ovunque un’identica caratteristica, vale a dire

il raduno per fasi successive e concentriche di adesione di sempre più

vasti raggruppamenti attorno ad un documento già confezionato

dall’inizio ad opera di pochi nomi e rimasto pressoché inalterato fino alla

redazione finale; del resto identiche modalità vengono seguite per le liste

di candidati da eleggere. Un corpo elettorale pur molto ampio si ritrova

lungo un percorso obbligato, ma è privo della possibilità di prenderne

coscienza: “Avvenne allora un fatto inaudito: delle elezioni senza

professione di fede, senza quel conflitto pubblico degli uomini e delle idee

che permette all’opinione delle nostre democrazie di formarsi. Nessuno si

presenta, nessuno sottomette all’esame del pubblico, come farebbe un

146 Questo ed altri passi della celebre “flagellazione” di Luigi XV al Parlamento di

Parigi, che costituisce un trattato dell’assolutismo regio, si trovano in J.J. CHEVALLIER,

Storia del pensiero politico. Il declino dello stato nazionale monarchico, trad. it. Bologna,

1981, p. 318. Per le prospettive dell’identificazione sovrano – nazione, cfr. M. COSSUTTA,

Stato e nazione. Un’interpretazione giuridico – politica, Milano, 1999, p. 96 e ss.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

100

venditore con la sua merce per consentire che venga valutata, il proprio

carattere e i propri principi”.147

Si coglie ora, per la prima volta nella storia francese, l’apparizione

di un modo d’intendere l’identità collettiva in senso artificiale e teorica;

un’identità collettiva che non ha bisogno di luoghi e mezzi precostituiti

per esprimere volontà e interessi, anzi deve aborrirli poiché atti a favorire

l’infiltrazione di elementi estranei ed impuri nel progetto ideale.

Viene tuttavia ad adombrarsi la prima contraddizione del

sillogismo. Da un lato è pressante la convinzione di agire, parlare,

legiferare in nome del popolo e per esso, dall’altro si palesa la necessità di

impedire la effettiva e reale formazione del suo volere. La via d’uscita non

può che essere una: se un popolo così come è immaginato non esiste e non

agisce secondo prefissati schemi di comportamento bisognerà formarlo o,

il che è lo stesso, educarlo conservandogli però formalmente, e

apparentemente, la capacità di autodeterminazione: “non vi è soggezione

tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà; si

accattiva in tal modo la volontà stessa”.148

Nell’Emilio rousseauiano

ritroviamo questa forma mentis che, pur trasferendo sul piano

dell’educazione del fanciullo il principio della persuasione nascosta,

tradisce una percezione del rapporto tra alterità ed estrinsecazione

autonoma delle facoltà del soggetto che forma il sostrato anche degli

scritti politici.

Confortata da recenti studi appare credibile l’osservazione secondo

la quale ben maggiore diffusione ebbero altre fatiche di Rousseau che non

il Contratto sociale. “Senza essere ignorata l’opera aveva avuto molto

meno successo dell’Emilio e della Nuova Eloisa (...). Il Contratto sociale

era stato pubblicato 13 volte separatamente, prima del 1789, l’Emilio 22

volte e la Nuova Eloisa 50. Per di più le riedizioni di queste due opere

furono regolari. Le edizioni del Contratto sono state, al contrario,

concentrate attorno alla prima pubblicazione, il che suggerisce un

successo di lancio seguito ad una relativa indifferenza.”149

È certo sempre

147 Cfr. A. COCHIN, op. cit., p. 90. Sul punto si veda anche É LOUSSE,

Parlementarisme ou Corporatisme? Les Origines des Assemblées d’états, in «Revue

Historique de Droit Français et Etranger», XIV, (1935), p. 683 e ss.

148 J.J. ROUSSEAU, Emilio, II.

149 Così B. MANIN, voce Rousseau in F. FURET – M. OZOUF (a cura di), Dizionario

della Rivoluzione Francese, trad. it. Milano, 1988.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

101

difficile definire, nella concatenazione degli eventi storici, il preciso

legame tra causa ed effetto ed anzi più spesso inutile. Più fruttuoso è

coglierne le relazioni biunivoche e reciprocamente interdipendenti al fine

di meglio comprendere la portata di un’evoluzione globale. Nel nostro

caso riconoscere molto maggior impatto, nella bibliografia rousseauiana,

proprio all’Emilio e alla Nuova Eloisa significa non solo conferire un

sostegno alla tesi di coloro che relegano l’eredità di Rousseau nell’ambito

quasi esclusivamente di un’influenza di principio e di un idem sentire

morale, svalutando, forse, l’incidenza della sua analisi politica; ma

significa soprattutto ammettere che la sintonia con la classe colta del

secondo Settecento francese si sviluppasse sul terreno dei presupposti

logici comuni a tutta la produzione rousseauiana, senza limitazioni al

Contratto sociale.

Si potrà, entrando nel vivo della questione verificare puntualmente

quale fu, nella mente del filosofo svizzero, la collocazione, la ragione e la

giustificazione nella società dell’istituto della rappresentanza politica; è

però fin d’ora opportuno rintracciare, in un’opera, l’Emilio, che non volle

essere un trattato economico né politico né tantomeno un’apologia della

rivoluzione, quello stesso procedere argomentativo e quella disposizione

psicologica di cui, come evidenziato precedentemente, era iniettata la

società pensante e che valsero la risentita ironia di Cochin. Il principio che

vi ritroviamo è il medesimo: viene assunto per valido il procedimento

ipotetico: “Ho preso quindi la decisione di crearmi un allievo

immaginario, di supporne l’età, la salute, le cognizioni ed il talento

convenienti per accudire alla sua educazione e condurla dal momento

della sua nascita a quello in cui, divenuto uomo fatto, non avrà più

bisogno di altra guida che di se stesso”.150

Il fanciullo è “creato” e “create”

sono le sue condizioni; è un modello operativo, non dissimile dal metodo

adottato nella scienza moderna. L’ipotesi, formulata in via preliminare,

viene sperimentata e verificata; dopodiché essa può venire accettata come

valida, non nella sua possibilità di cogliere la realtà, che rimane preclusa,

bensì nella sua utilità strumentale ed, appunto, operativa. Già si è fatto

cenno al pericolo insito in questo itinerario: la dimenticanza, in esito, della

condizione iniziale, costituita dalla rinuncia implicita a comprendere, per

questa via, l’essenza del reale.

Al di là del suddetto limite, spesso trascurato anche dagli stessi

operatori in campo scientifico, se ne impone un altro: l’applicabilità del

150 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Emilio, I.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

102

procedimento rimane obbligatoriamente vincolata alla misurabilità

dell’evento considerato, posto che l’assenza della possibilità di

comparazione su schemi geometrico-matematici ne annulla una qualsiasi

utilità operativa.

L’appunto è particolarmente importante soprattutto quando si

vogliano valutare le diverse letture che di Rousseau si sono date.

Se, per un verso, non manca la consapevolezza di condurre un

esperimento senza riscontro effettivamente misurabile151

a causa della

natura dell’oggetto d’analisi, cioè lo sviluppo del comportamento umano

nel corso della crescita, dall’altro nonostante l’astrattezza e la

convenzionalità dell’assunto di base, pure è presente la tentazione al

ritaglio di dati in qualche modo assoluti ed estensibili. Un momento di

ambiguità ravvisabile nel pensiero dell’autore, dovuta forse ad un genetico

conflitto tra le genuine intuizioni di cui fu portatore in campo pedagogico

ed il percorso utilizzato per dimostrarne la fondatezza, si esprime, da

ultimo, nella sentita esigenza di fondare l’impianto della sua tesi su basi

non convenzionali quanto problematicamente miranti all’essenza: “mi

sono contentato di enunciare i principi di cui tutti dovrebbero sentire la

verità.”152

Un’omogenea formazione psicologica e culturale deve quindi aver

contribuito a rendere ampi strati della società francese compatti, nella

sempre più difficile tolleranza di gioghi e privilegi di cui non era più

avvertita né la necessità né la radice storica, nel senso di un atteggiamento

rabbiosamente demolitorio nei confronti di determinati istituti della

Francia monarchica; atteggiamento che peraltro si trasfuse quasi

osmoticamente nella classe contadina.

Non fu, infatti, una crisi economica popolare a determinare una

rapida precipitazione degli eventi nel 1789 anzi, relativamente ai

contadini, “si acuisce una intolleranza verso questi diritti (signorili) forse

per il fatto stesso che la loro condizione, a partire dal 1750, è molto

migliorata”.153

Vero è invece che la carica anti nobiliare è congenita alla

151 Certamente Rousseau si rende conto della questione quando afferma: “prima

d’osservare bisogna costruirsi delle regole per l’osservazione: bisogna costruirsi una scala

per rapportarvi le misure che si prendono” (Emilio, V); ma il problema della misurabilità è

difficilmente aggirabile, se è vero che l’animo ed il comportamento non si possono

soppesare.

152 Cfr. J. J. ROUSSEAU, Emilio, I.

153 Cfr. J. ELLUL, Storia delle istituzioni cit., p. 162.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

103

diffusione delle idee egualitarie, per loro natura incompatibili con

l’affermazione di qualsiasi privilegio ereditario (anche se, come si è visto,

per la nobiltà non si trattava di un ordine chiuso in assoluto).

È lecito ricercare quale visione di uguaglianza (tradizionalmente

uno dei tre pilastri dell’iconografia rivoluzionaria ed il cui valore

evocativo non venne rinnegato nemmeno in età napoleonica, che aveva

raccolto tutta l’eredità della Rivoluzione) può essere maturata nel contesto

culturale che si è descritto.

Per ottenere una risposta è già indizio come, fin dal suo primo

manifestarsi nella storia, si sia sentita l’esigenza di discriminare

l’eguaglianza formale da quella di fatto.

Se i due termini paiono parzialmente assimilabili essi occultano in

verità un insanabile contrasto: “è sul terreno dell’uguaglianza dei diritti

(...) che fiorisce l’infinita differenziazione degli individui, poiché essa

apre una prodigiosa carriera alla concorrenza dei talenti, una società

sempre più omogenea fa nascere un’umanità sempre più eterogenea”.154

La differenza pare nutrire le sue radici nella ineliminabile condizione di

relatività che si accompagna al concetto di identificazione tra diversi. Non

è logicamente ammesso definire l’uguaglianza in assoluto bensì nei

confronti di un altro termine valido come punto di riferimento:155

se

invece si rimane all’interno di un modello numerico-matematico ecco che

allora la idea di parità assoluta ed irrelata trova la sua dimensione

congeniale. Precisamente la frazione matematica è l’elemento logico che

solo può portare l’immagine di una perfetta sovrapponibilità

(equipollenza, si direbbe in geometria) degli elementi.

Nella categoria matematica, però, l’idea è bastante a sé stessa, non è

impulso in un procedimento dinamico, né può costituzionalmente esserlo

poiché, in tal caso, perderebbe la sua stessa ragion d’essere di modello

astratto.

Una volta che si sia raggiunto l’accordo sul punto, però, tertium non

datur: o si rinuncia a trasferire nella dimensione reale come fonte

154 Cfr. M. OZOUF, voce Egalité, in F. FURET – M. OZOUF (a cura di), Dizionario

della rivoluzione francese cit. Il passo commenta la posizione espressa da CONDORCET in

un Esprit de la révolution, edito solo nel 1815.

155 “L’uguaglianza in un’accezione quantitativistica e fenomenica è contraddittoria

perché è un concetto che importa sempre la relazione.” Così osserva F. ZANUSO, Conflitto

e controllo sociale nel pensiero politico-giuridico moderno, Padova 1993, p.18, in nota.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

104

d’impulso la dimostrazione logico-geometrica, rispetto alla quale essa è

indifferente proprio a causa della postulata convenzionalità, o si è costretti

a rifarsi, per sostenere le proprie conclusioni, al patrimonio di capacità

intuitive dell’individuo, senza poter utilizzare la via di una rassicurante

dimostrabilità.

La falsa prospettiva che ha invece formato il terreno su cui è

cresciuta la Rivoluzione, riferita da Cochin alle società di pensiero e ad un

fantomatico “partito senza nome”, ma che si è notato tratto rinvenibile

anche tra le pieghe del procedere argomentativo di Rousseau, come

nell’esempio dell’Emilio, consiste proprio in una posizione ambigua, in

una sintesi impropria: figlia di uno schematismo astratto, essa aspira

tuttavia ad essere imparentata con un’esigenza collettiva concreta ed

ineliminabile.

L’esito, con il problema così impostato, non può che avere come

risultato un’alternativa: o la professione di un’eguaglianza reale,

comportante la non considerazione (o soppressione) dell’elemento della

diversità, od un’eguaglianza formale venata di ipocrisia e comunque

aberrata rispetto alle intenzioni. “Questa rivoluzione malata di

uguaglianza non partorisce affatto una società senza distinzioni. Al

contrario, l’esistenza di una norma identica acuisce il gusto delle

distinzioni, le fa nascere da dislivelli minimi e simbolici, le rende ad un

tempo intollerabili e continuamente sgorganti”.156

È lecito pervenire alla considerazione di una rivoluzione giacobina

come diretta discendenza di un nuovo modo di intendere i limiti della

soggettività, tratteggiata nei termini di frazione matematica, ed al trionfo

di una nebulosa égalité, nel senso di un’identica soggezione ad un moi

commun fonte e garanzia del legame sociale.

In questo senso, più che una stretta eredità di Rousseau nei

confronti dei giacobini, è opportuno piuttosto pensare ad una pari

derivazione da un ceppo comune, da un medesimo ambiente che ha

trovato nel Ginevrino una delle più compiute realizzazioni letterarie e

filosofico-politiche, e nell’interpretazione degli uomini d’azione del

terrore un’applicazione concreta sulle istituzioni pubbliche; applicazione

che, come si vedrà, non si poteva dire affatto portatrice di un’intima

coerenza quanto alle idee professate, ma piuttosto riscopriva un filo

156 M. OZOUF, voce Égalité, in F. FURET- M. OZOUF (a cura di), Dizionario della

rivoluzione francese, cit.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

105

conduttore nella progressiva e continua eliminazione purificatrice degli

oppositori politici, simbolo di una diversità da negare.

In effetti, restringendo lo studio al merito delle idee, e fondando

solo su questo piano la presunta astrattezza della Rivoluzione, si espone il

fianco a tutta una serie di critiche;157

ma, come si è cercato di evidenziare,

l’attenzione è piuttosto da incentrare su di un metodo di conquista e di

esercizio del potere, poggiante su di un’astratta e distorta percezione

dell’alterità e della soggettività, Relativamente a ciò, è ora matura la

possibilità di spostare l’indagine su di un istituto giuridico, questa volta di

originaria matrice privatistica, il diritto di rappresentanza, cui

generalmente è riconnessa una funzione di espansione e di affermazione

individuale in seno al corpo collettivo, al fine di sondare se anch’essa, ed

eventualmente in che misura, abbia modificato i suoi termini alla luce dei

nuovi strumenti ideologici.

“Appena il servizio pubblico cessa di essere la principale

occupazione dei cittadini, ed essi preferiscono servire con la propria borsa

piuttosto che di persona, lo Stato è già prossimo alla rovina.” Così si apre

il capitolo XV del libro terzo del Contrat social, intitolato “Deputati o

Rappresentanti”.158

Quando si parla di rappresentanza e di Rousseau si pensa a due

termini inconciliabili, a due entità reciprocamente escludentisi.

Sovvengono le non a caso più famose e lapidarie affermazioni del

Ginevrino, quasi sentenze inappellabili sull'istituto. "La volontà generale

non si rappresenta: o è essa stessa, o è un'altra; non c'è via di mezzo. I

deputati del popolo non sono dunque né possono essere i suoi

rappresentanti; ma solo i suoi commissari; non possono concludere niente

in modo definitivo. Ogni legge che non sia ratificata dal popolo in persona

è nulla; non è una legge." In una formidabile sequenza di periodi brevi e

157 Per tutte quella di Aquarone: “Tutto il mito della cosiddetta astrattezza della

rivoluzione francese (...) non regge da tempo alla critica anche se, sia pure indirettamente,

esso continua ad esercitare la sua presa su molte interpretazioni (...). Alla creazione ed alla

vitalità di questo mito hanno contribuito, come è noto, prima Burke e poi Taine, seguiti più

o meno da tutta la storiografia di tendenza moderata e conservatrice cui non è sembrato

vero di poter liquidare tutta la rivoluzione sotto l’accusa di non essere stata altro che il

tentativo, necessariamente votato al fallimento, di trasferire sul piano della realtà le

inattuabili elucubrazioni di teorici non privi, forse, di buone intenzioni ma incapaci di

comprendere la natura umana” A. AQUARONE, Due costituenti settecentesche cit., p. 109.

158 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Il Contratto Sociale, in Scritti Politici, a cura di P. Alatri,

1970, p. 800

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

106

concisi, con un'incalzante progressione di affermazioni perentorie, la

rappresentanza viene indicata come la causa della rovina dei popoli e

degli Stati. Poi, dopo aver attaccato il sistema costituzionale inglese,

Rousseau individua la radice della mala pianta rappresentativa

nell'esecrabile feudalità, indicando invece come retto esempio di governo

il sistema dell'antichità classica. Bisogna veramente dedurne che la

rappresentanza è assolutamente respinta da questo pensatore, come appare

prima facie? Crediamo di no.

In primo luogo lo stesso Rousseau, poche righe dopo, sembra

ammettere la possibilità, addirittura la necessità, della rappresentanza nel

potere esecutivo: se una legge è tale solo se approvata direttamente dal

popolo, la sua applicazione può essere delegata all'organo governativo, al

modo dei littori romani. Si tratta di un pensiero derivato dal Montesquieu:

la sfiducia del barone nel popolo è pressoché totale, tanto da negargli

l'esercizio della maggior parte dei diritti, cosa di cui sarebbe

completamente incapace. Rousseau nutre invece la più completa fiducia

nella volontà generale, sempre retta, ma concorda con l'affermazione del

Secondat: l'esecuzione delle leggi deve essere affidata a persone capaci,

più portate di altre negli affari di Stato. Se la formazione della volontà

generale deve essere il frutto del riconoscimento del bene, la sua

attuazione ben può essere affidata a pochi. Non sembra farsi problema di

capacità. In realtà appare manifesto che questa "rappresentanza"

dell'esecutivo non costituisce un'eccezione al pensiero generale negativo

del Ginevrino sull'istituto. A ben guardare infatti, non di rappresentanza si

tratta, ma di una delega, di una commissione ad eseguire.

Possiamo ricostruire il ragionamento in questo modo: la sovranità è

del popolo, che la manifesta nella volontà generale, all'attuazione della

quale sono incaricati i membri dell'esecutivo, che organizzeranno cose e

persone per la sua attuazione.159

Una volta descritto il processo di

formazione della volontà generale e accertato che questo sia avvenuto

correttamente, non vi sono pericoli per la sopravvivenza dello Stato

nell'incaricare dell'amministrazione una parte sola dei cittadini. Le

preoccupazioni e le cautele che assistono la formazione della volontà

generale, non sussistono quando si tratta di metterla in pratica. Una

eventuale difformità tra quanto disposto dalla legge e quanto attuato dal

159 Sulla distinzione tra governo e amministrazione, cfr. F. GENTILE, Intelligenza

politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 121 ss., nonché ai riferimenti supra alle

note 97 e 107.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

107

governo, sarà sotto gli occhi di tutti ed un eventuale processo di

responsabilità nei confronti degli amministratori non darà comunque

problemi di sorta.

Adesso preme vedere se anche nel potere legislativo, il popolo

possa essere rappresentato nella costruzione del Ginevrino. Occorre allora

vedere cosa sia per Rousseau la rappresentanza. Dal testo appaiono due

idee, ma non sempre distinte, anzi a volte sovrapposte o intercambiate.

La prima è assimilabile al nuncius: un sistema di commissari,

vincolati strettamente alle istruzioni ricevute, dei portavoce del popolo,

niente più che strumenti di trasmissione: per nuncium, quasi per litteras.

Per evitare che compromettano la volontà popolare, interpretandola, sono

ulteriormente limitati dalla non definitività delle loro dichiarazioni e dalla

necessità di ratifica. Si tratta dello specifico status del diplomatico Ancien

Régime, così come disegnato ancora dal Richelieu e che qui viene ripreso

in pieno. La seconda accezione raccoglie in sé tutta la negatività

dell'istituto. Rappresentante è qui sinonimo di mercenario, di mercante

degli interessi pubblici per la propria convenienza, di irresponsabile

traditore della volontà popolare. Da tutto ciò possiamo derivare due

elementi che ci saranno utili nel prosieguo del nostro cammino di ricerca.

Primo: le due idee di rappresentanza di Rousseau corrispondono l'una a

quello che tradizionalmente è chiamato assoluto rapporto, l'altra

all'assoluta situazione. Infatti a ben guardare il rappresentante-mercenario

non ha alcun rapporto di responsabilità con i suoi elettori, è pura

situazione; parimenti il commissario non ha dignità di esistenza propria,

vincolato com'è a chi lo ha incaricato, è puro rapporto. Secondo e

conseguente: il Ginevrino non riconosceva nella rappresentanza alcuna

struttura dualica.

A questo punto, per comprendere appieno la costruzione in esame,

conviene richiamare il procedimento di formazione della volontà generale

che, com’è noto, costituisce la chiave di volta di tutto il sistema del

Nostro. I cittadini riuniti in assemblea, ponendo avanti al proprio

l'interesse generale, riconoscono il bene comune, la volontà generale, che

preesiste alla votazione assembleare, ma che si manifesta

inequivocabilmente nella volontà della maggioranza. Si è fatto

giustamente notare come in tal modo Rousseau, all'opposto di Aristotele,

subordini l'esistenza della comunità al regime, riconoscendola solo nella

democrazia diretta.160

160 Anche per la distinzione tra comunità e regime, cfr. F. GENTILE, Intelligenza

politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, p. 137 ss.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

108

In tale costruzione non vi è, non vi può essere spazio per la

rappresentanza come la conosceva Rousseau, per come era praticata ai

suoi tempi. Non può trovare spazio il rappresentante-mercenario, perché

l'irresponsabilità nei confronti degli elettori che lo caratterizza

inquinerebbe irrimediabilmente la comunità, impedendo il riconoscimento

del bene comune. Parimenti non può trovare spazio il commissario, privo

di identità propria, che al massimo può applicare quanto già deciso,

tradendo così la formazione della volontà generale, anteponendo il

particolare al generale.

Essendo infatti il portatore di volontà non espresse in assemblea,

ma precedenti a questa, la sua dichiarazione di voto, pur se fedele alle

istruzioni ricevute, non può essere riconoscimento di bene comune in

assemblea. Perché lo fosse, occorrerebbe che il rappresentante non fosse

vincolato da istruzioni, ma, dopo la discussione assembleare, riconoscesse

il bene comune, secondo la propria coscienza. Non potrà seguire le

istruzioni degli elettori, perché questi non avendo partecipato alla

discussione non sarebbero in grado di operare convenientemente. In altri

termini, il commissario si troverebbe in questa infelice situazione: se

segue le istruzioni ricevute, porta in assemblea delle volontà precostituite,

che non sono il frutto della discussione assembleare, preesistendo a

questa, anzi limitandola e condizionandola, fino ad impedire il

riconoscimento del bene comune, ma consentendo al massimo una somma

algebrica di volontà singole; al contrario se partecipa alla discussione e

procede al riconoscimento del bene comune, potrebbe tradire le consegne

dei mandanti, comunque espropriandoli del loro diritto al concorso nella

formazione della volontà generale, il cui prodotto non riconosceranno più

come proprio, sottraendosi “legittimamente” all’obbedienza verso le leggi.

Inoltre in questa seconda ipotesi, il commissario scivolerebbe verso

una pericolosa confluenza con la figura del rappresentante mercenario,

condividendone le tentazioni egoistiche che derivano dall'indipendenza.

Di fronte a siffatta eventualità, la dottrina americana, pressoché

compatta da un secolo, indicherebbe al deputato di votare, dopo la

discussione, secondo quelli che in coscienza ritenga essere gli interessi dei

propri elettori, poiché questa, secondo tale corrente di pensiero, che trova

radici nel celebre discorso di Burke, sarebbe la vera natura non della

rappresentanza tout-court, ma della rappresentanza c.d. "politica". Già

abbiamo messo in evidenza come fondare, anzi giustificare, su diverse

strutture la rappresentanza di diritto privato e quella così detta politica, sia

indice della difficoltà di comprendere l'istituto, di cogliere il concetto di

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

109

rappresentanza in sé stesso: "entia non sunt moltiplicanda", ammoniva già

Farinaccio.

Alla proposta "americana", dunque, Rousseau si opporrebbe

fermamente per due ragioni: una pratica e una di principio che la sottende.

La prima, immediata, è che in questo modo si degenererebbe dalla figura

del commissario a quella del rappresentante-mercenario. È indubitabile,

per Rousseau, che il rappresentante al momento della votazione,

contrabbanderebbe per interessi degli elettori il proprio tornaconto. Questa

opinione è una costante che derivata, come già detto, da Montesquieu,

attraverso il Ginevrino, ritroveremo nel pensiero degli enciclopedisti.

La seconda ragione è di principio: se i mandanti o in questo caso gli

elettori, non hanno partecipato alla discussione, non possono procedere al

riconoscimento della volontà generale. Anche qualora l'eletto al momento

della votazione si rappresentasse gli interessi degli elettori e dovesse

votare di conseguenza senza anteporre il proprio al loro interesse, si

ricadrebbe nel soggettivismo di un'interpretazione personale, particolare,

partigiana e settaria. Il prodotto dell'assemblea non sarebbe più allora la

volontà generale, ma la somma algebrica di volontà singolari: il

meccanismo del contratto sociale a questo punto si inceppa. Se infatti il

cittadino riconosce nella legge la propria volontà e vi si sottomette

liberamente, ciò avviene solo se ha direttamente partecipato, se è

personalmente intervenuto nel momento formativo della legge stessa, che,

si badi bene, non è una volontà, ma il riconoscimento di una volontà

comune. Con questo infatti, il Ginevrino non esce dell'ottica volontaristica

della legge, dalla prospettiva costrittiva, eteronoma, del diritto. Il fascino

della costruzione sta tutto nell'identificazione della propria volontà con

quella generale, anche se questa poi si riduce a quella della maggioranza.

L'inammissibilità della rappresentanza come conosciuta da

Rousseau è allora conseguenza logica indefettibile e vale qui la pena di

anticipare fin d'ora come tale conseguenza non sia tratta da Sieyès, che

pure, si vuole161

prendere le mosse da posizioni simili. Non partecipando

all'assemblea, il cittadino si sentirà defraudato, estraneo alla volontà della

legge e conseguentemente legittimato a disobbedirvi.

Come si vede, nemmeno un giudizio di responsabilità dell'eletto

verso gli elettori, nemmeno la prova per "prognosi postuma", che proprio

161 L'affinità concettuale tra Rousseau e Sieyès è sostenuta anche da Carré de

Malberg, cfr. infra nel testo. Certo, l’assonanza è corale nella disinvolta equiparazione di

volontà generale con la volontà della maggioranza.

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

110

in quel modo i mandanti avrebbero votato se fossero stati presenti,

potrebbe giustificare l'ingresso dell'istituto nella costruzione del

Ginevrino. Infatti, qui non è in gioco la fedeltà dei mandatari, ma la

suggestione dei cittadini nel riconoscere nella legge la propria volontà ed

assoggettarvisi. La riprova è che anche i commissari, fedeli latori della

volontà delegata "non possono concludere niente in maniera definitiva",

ma il loro operato deve essere ratificato dal popolo in persona e,

aggiungiamo noi, naturalmente in assemblea. Solo la partecipazione

diretta e personale infatti, mantiene in vita la comunità, solo la democrazia

diretta garantisce la cosa pubblica. È l'ulteriore conferma che in Rousseau

il regime aggrega la comunità. Più che di "monismo" così come definito

nel primo capitolo, a proposito di Rousseau si potrebbe parlare di

"personalismo". Ciò che gli impedisce l'ammissione della rappresentanza

non è tanto la stringente necessità di ricondurre ad unità il sistema del

diritto, facendo capo ad uno ed un solo centro di imputazione degli

interessi, quanto piuttosto il carattere a funzionamento necessariamente

personale della sua concezione di comunità/regime.162

Si tratta del

carattere necessariamente unitario, singolare, che deriva dalla cogente

partecipazione personale alla vita pubblica, necessario corollario

dell’unicità dell’uomo, tematizzata in partenza. A questo punto chiedersi

se Rousseau riconosca o meno il carattere dualistico della rappresentanza

diventa superfluo.

Lo scopo del contratto sociale è di costringere gli uomini ad essere

liberi, permettendo, (ed imponendo) a tutti di concorrere alla formazione

di quella volontà cui dovranno poi ubbidire per garantire la convivenza.

L'identificazione della propria volontà con la legge assicura la miglior

garanzia del rispetto della legge stessa. Ed è per questo che essa deve

essere fatta da tutti ed insieme. Laddove i rappresentati riconoscessero in

quella dei rappresentanti la propria volontà così come la riconoscono nella

legge, alla cui formazione hanno direttamente concorso, Rousseau forse

162 Sarà appena il caso di ricordare che la “comunità” di Rousseau è comunque

fondata sulla forza eteronoma della legge: il sovrano c’è anche se impersonale, quale

prodotto di una volontà assembleare cui hanno partecipato tutti i portatori della propria

individuale sovranità, per quell’equazione algebrica, secondo la quale ciascuno riceve per

contropartita dagli altri quanto ha rinunciato a loro favore. Sul punto specifico rinviamo a

F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 161 e ss.; per i

presupposti ipotetici di questa costruzione, si veda altresì IDEM, Le jeu politique du

promeneur solitaire (relazione al congresso “Jean Jaques Rousseau et la crise

contemporaine de la conscience”, tenutosi a Chantilly nel settembre 1978, in occasione del

bicentenario della morte del filosofo), in “RIFD”, 1978, p. 861.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

111

non avrebbe dubbi ad ammettere una volontà comune rappresentativa. Ma

quest'ulteriore tentativo di quadratura del cerchio non è nella sua opera.

Paradossalmente, respingendo le mistificanti finzioni della

rappresentanza così come allora intesa, è proprio Rousseau a richiamare

l'attenzione sui problemi connessi all'istituto. Dopo di lui infatti nessuno

potrà più parlare di rappresentanza o proporre l'inserimento di tale istituto

in una costituzione senza tentare di ridefinirlo, di perfezionarlo, senza

confrontarsi in sostanza, con le critiche rousseauiane.

È questo il ruolo di Rousseau nello studio della rappresentanza, il

ruolo di pars destruens: l'aver smascherato gli abusi compiuti dietro il

nome di rappresentante.

Ma un'ulteriore annotazione merita di essere fatta. È interessante

infatti il riferimento all'ultimo passo del capitolo citato, ove si riconosce la

funzionalità della democrazia diretta solo nei piccoli Stati, ma è ben

presente altresì la necessità di costituire Stati sufficientemente estesi da

potersi difendere. Rousseau si richiama alla confederazione, che pure non

arriva a trattare. Doveva forse essere il luogo in cui proporre una forma

retta di rappresentanza, per coniugare le volontà confederate alla volontà

confederale.

È quanto sembra affermare in uno spunto che si trova nelle

considerazioni sul governo della Polonia, dove si propone la democrazia

diretta per le piccole diete, in sostanza per il governo locale, e un sistema

di mandati vincolati, di commissari, per la dieta generale. Tuttavia il

primo consiglio ai governanti polacchi è di ridurre i propri confini. Qui, a

nostro avviso, il Ginevrino si rappresenta chiaramente le difficoltà di

attuazione pratica della democrazia diretta. Rousseau ne è consapevole

quando paradossalmente consiglia una riduzione territoriale per garantire

un buon governo e la crescita della comunità. I polacchi, come ogni

popolo, saranno felici solo se potranno dotarsi di una democrazia diretta,

regime aggregante la comunità, ma per avere una democrazia diretta

funzionante occorre avere un territorio piccolo. Quando, come detto, i

piccoli Stati devono confederarsi per raggiungere la sicurezza tra i vicini,

allora si ripropone la necessità della rappresentanza che, non senza

imbarazzo, viene risolta con il mandato imperativo, con l'uso di

commissari nelle assemblee di secondo grado. Non senza imbarazzo,

abbiamo detto, perché si ripresenta il problema chiave del Contratto

Sociale, il fondamento dell'obbedienza alle leggi: il cittadino che non ha

votato la legge, non la riconoscerà come la sua volontà. "Ogni legge che

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COLLEGIO PERFETTO E DELEGA

112

non sia ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge." Così

come Napoleone, anche Rousseau si impantana nel fango polacco.163

Ma un ultima considerazione del Ginevrino deve essere qui

ricordata: occorre costringere i rappresentanti a fare "un rigoroso

rendiconto della propria condotta alla dieta".164

È l'esigenza di

responsabilità che emerge, ma che non viene presentata come carattere

essenziale della rappresentanza. Per il momento occupa il posto di un

correttivo alla corruttibilità dei deputati, affiancata in questo dal rinnovo

frequente delle camere. Tuttavia si differenzia da quest'ultimo per l'intimo

carattere strutturale che riveste: altro è un deputato che sta in carica per

poco tempo, altro è un deputato che deve rispondere di ciò che ha fatto nel

breve o lungo periodo di mandato. La responsabilità implica il

riconoscimento di un soggetto distinto dal rappresentante: il rappresentato.

È un passo verso il dualismo ed è una garanzia del suo mantenimento.

163 L’aneddoto è tratto da una lettera di Napoleone a Talleyrand durante la

campagna di Russia: "Dio ha creato per la Polonia un quinto elemento: il fango!" citata da

D. CASTELOT, La diplomazia del cinismo, trad. it. Milano, 1982, p. 180.

164 J. J. ROUSSEAU, Considerazioni sul Governo della Polonia, in op. cit. p. 1151.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

113

3.1.2 Delega e rappresentanza virtuale

TEORIA DELL’INDIVIDUAZIONE DEI RAPPRESENTANTI IN DIPENDENZA DELLE LORO CAPACITÀ

TECNICO SCIENTIFICHE: CRITICA E RINVIO – TEORIA FISIOCRATICA DELLA DELEGA DEL

GOVERNO AI SOGGETTI CHE HANNO IL PROPRIO INTERESSE MAGGIORMENTE CONNESSO CON

LA PROSPERITÀ PUBBLICA: GRANDI PROPRIETARI – NECESSITÀ DI TEMPERARE TALE DELEGA

CON L’INCARICO ANCHE A SOGGETTI ILLUMINATI: FUNZIONARI PUBBLICI E STUDIOSI –

CRITICA E RINVIO – CONCLUSIONE: LA COSTRUZIONE DELLA RAPPRESENTANZA VIRTUALE E

LO SPEECH DI BURKE.

Sul tronco del pensiero illuminista, comune alla riflessione

rousseauiana, si innestano le posizioni degli enciclopedisti, sviluppi a

volte originali, a volte sincretistici delle idee più varie, comunque

rielaborati per lo scopo finale della Enciclopedia: dare il carattere di

esaustività e completezza per ogni voce trattata in un tutto organico e

coerente nell'insieme. E ciò tanto per la parte prima, relativa alla scienza

della natura, quanto per la parte seconda relativa alla società e al diritto. È

appena il caso di sottolineare la simmetria formale che ne sottende una di

metodo: la purezza illuministico-scientifica della trattazione, al di là ed al

disopra di ogni mistificante metafisica.

È interessante notare fin d'ora come buona parte della voce

Représentants della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert sia dedicata ad

una ricostruzione storica di carattere economico politico, della

distribuzione del potere tramite la rappresentanza, con un sottile accenno

critico ed un'attenzione al modello francese dei tre stati, esteso però a

carattere generale. Si fa riferimento ai barbari che smembrarono l'impero

romano, ai guerrieri che si impossessarono delle terre e con questo titolo,

per lungo tempo pretesero di parlare in nome delle nazioni. Questi feroci e

grezzi nobili conquistatori furono poi costretti a riconoscere chi era più

colto e ragionevole di loro, cioè il Clero. Lo stesso sovrano ne favorisce

l'ingresso nel potere, per controbilanciare la Nobiltà e in ossequio ai

rilevanti possedimenti che nelle sue mani si erano concentrati.

Sembrerebbe contestarsi la pretesa dei primi due ordini di parlare e di

"rappresentare" solo in virtù dei propri beni, richiamando, con l'autorità di

Edoardo I, la necessità che le cose comuni siano decise in comune.165

Ma

andiamo con ordine.

165 Sintesi di un aforisma riportato da William Petty in The Ancient Rights of

Commons of England Asserted, cit. in DIDEROT & D'ALAMBERT Enciclopedia, trad. it. Bari

1968 p. 837: "Sicut lex justissima provida circumspectione sacrorum principium stabilita

Hortatur et statuit ut quod omnes tangit ab omnibus aprobetur, sic et nimis evidenter ut

communibus periculis per remedia provisa communiter obvietur.

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

114

Al contrario di Rousseau, il modello degli Enciclopedisti non

andrebbe ricercato né nella democrazia greca, né nella repubblica romana,

quanto piuttosto nel libero ordinamento degli antichi Germani e nella

monarchia dei Franchi.166

Naturalmente non si tratta di un semplice

ritorno al passato, quanto di un connubio tra l'originaria libertà nazionale

con i progressi e le conquiste della nuova era: la moderna economia e

cultura che segna l'avvento della borghesia. Infatti tutti questi pensatori

sono intimamente "borghesi" nel loro modo di pensare pieno di

un'incontenibile voglia di creare. Tuttavia, a questo proposito, ogni

generalizzazione può risultare fuorviante. Ad onta infatti del metodo

omogeneo, "scientifico", "illuminato", che programmaticamente, abbiamo

visto, doveva sostenere la formazione dell'Enciclopedia, costituendone

uno degli elementi di maggior pregio, chi cercasse una posizione chiara,

univoca, per tutta l'opera, resterebbe sicuramente deluso. La diversità nelle

posizioni di Boucher d'Argis autore della voce Etats et Parlements da un

lato, e quelle di Jaucurt (Monarchie élective e Monarchie limitée) e

Diderot (Représentants) dall'altro, indica chiaramente come sia

impossibile ridurre ad unitarietà il pensiero degli Enciclopedisti intorno

allo Stato. Tutto ciò è dovuto sia all'elevato numero dei collaboratori, sia

ai diversi tempi di elaborazione, ma soprattutto ad una diversità tra

posizioni teoriche e pratiche politiche; per questo senza minimizzare la

funzione aggregante ed unificatrice che esercitò Diderot. Occorre

analizzare la sua voce Représentans per avere un'idea della situazione di

pensiero alla vigilia degli Stati generali. L'analisi potrebbe cominciare

proprio muovendo dal dibattito sulla paternità di questo testo: dapprima

ascritto a Diderot, ora sembra sicuramente da attribuirsi al barone

d'Holbach. Comunque nella voce figura ampio materiale tratto dalla

fittissima corrispondenza tra i due soprattutto in relazione al viaggio in

Inghilterra di d'Holbach e su cui avremo agio di tornare.

Così esordisce il barone: "I rappresentanti di una nazione sono

cittadini scelti che in un governo temperato sono incaricati dalla società di

parlare a suo nome, trattare i suoi interessi, impedire che la si opprima,

contribuire all'amministrazione".167

Il primo requisito dei rappresentanti

166 Cfr. E. WEISS, Geschichtsschreibung und Staatsaufassung in der Französischen

Enzyklopädie, Wiesbaden, 1956, p. 47, nonché J. LOUGH, The Encyclopédie, London, 1971

e J ROELS, La notion de représentation chez Roederer, Heule, 1968, 54 e ss.

167 Citiamo dall'edizione italiana curata da P. CASINI, Bari, 1968, p. 829 ss. Per altri

interessanti osservazioni sul punto si rinvia ai saggi raccolti nel volume curato da H.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

115

quindi è una certa qualità personale ancora non ben definita, comunque

chiaramente il quivis de populo non può essere rappresentante. Questi

uomini virtuosi parlano a nome della società, manifestandone i bisogni e

curandone gli interessi. In terzo luogo sono argine al potere del sovrano,

impedendo che opprima la nazione, per questo partecipano

all'amministrazione. Tutto ciò però può avvenire solo nelle monarchie

temperate. Infatti: "nelle monarchie temperate, il sovrano è depositario

soltanto del potere esecutivo; rappresenta la nazione soltanto per questo

aspetto, ed essa sceglie altri rappresentanti per le altre branche

dell'amministrazione." È il caso di sottolineare una distinzione che

ritroviamo espressa chiaramente per la prima volta, pur se le suggestioni

risalgono, evidentemente, allo scritto di pochi anni precedente, di un altro

barone, quello di Montesquieu.

Holbach ritiene superficialmente pacifica e naturale la negazione

del presupposto contrattualistico hobbesiano: l'ammissibilità della

rappresentanza parziale. La cosa stupisce se si pensa che condizione

essenziale nella maggior parte delle dottrine contrattualistiche dello Stato

moderno è la totale delega, anzi la completa rinuncia di ogni potere in

capo al sovrano, sia esso un singolo o una assemblea. Ne consegue, come

abbiamo visto, l'annichilimento del singolo nel sovrano, se non nei diritti

fondamentali (irrinunciabili secondo Locke), almeno per quanto riguarda

l'ammissibilità della rappresentanza. Da qui le difficoltà che incontra

l'istituto in esame nel pensiero di alcuni autori moderni.

L’inammissibilità della rappresentanza deriva dall'aver ridotto tutto

l'ambito del diritto nello Stato e dall'aver poi costruito quest'ultimo ad

immagine e somiglianza dello stato di natura, dell'unico, di colui che non

ha rapporti che con se stesso, la negazione della giuridicità. Tuttavia non

sarà difficile al lettore attento individuare un'astuzia negli scritti degli

autori più raffinati. In forme più o meno esplicite si è parlato del sovrano

come rappresentante del popolo, quasi a giustificarne da un lato la

posizione di preminenza e dall'altro l'ubbidienza ai comandi. In questo

senso è appena il caso di ricordare che, nella formulazione più rigorosa, il

RAGOTZKY e H. WENZEL, Höfische Repräsentation. Das Zeremoniell und die Zeichen,

Tübingen, 1990; H. HOFMANN, Bilder des Friedens oder die vergessene Gerechtigkeit.

Drei anschauliche Kapitel der Staatsphilosophie, München, 1997. Il riferimento al

governo temperato non deve lasciar pensare ad una democrazia, quanto piuttosto alla

divisione dei poteri tematizzata dal Barone di Montesquieu nel 1748 e di larghissima

diffusione tra gli “illuminati” della generazione immediatamente successiva, ai quali si

iscriveva l’autore in esame.

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

116

singolo debba "rappresentarsi" la condanna capitale come un suicidio.

Tutto ciò, lo si è già intuito, non è rappresentanza, piuttosto si può definire

immedesimazione. Proprio il frontespizio dell'edizione originale del

Leviathan è illuminante a proposito. Si vede infatti un re con tutti gli

attributi della sovranità che domina sul mondo, ma a ben guardare il suo

corpo, simile ad una maglia di ferro delle corazze medioevali, è composta

da tanti piccoli uomini, i sudditi per l'appunto, che quindi, anche

visivamente, lo costituiscono.

Hobbes non può permettere che i sudditi, i contraenti, rinuncino

solo ad una parte delle proprie pretese in favore del sovrano, poiché

sarebbe ammettere che i sudditi hanno diritti all'infuori di quanto ottriato

dal sovrano e comunque da questo revocabile in ogni momento.

In altre parole, il presupposto comune alle più rigorose teorie

contrattualistiche è la totale delega, l'annullamento assoluto del suddito

nelle mani del sovrano. In questo modo il "rappresentante", il sovrano, è

pura situazione e non ha alcun rapporto con il "rappresentato", il suddito.

Anzi, nelle costruzioni più radicali, il sovrano è il solo che permane allo

stato di natura, nella totale incapacità di riconoscere gli altri.168

Ammettere

168 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di Stato, II ed., Milano, 1984,

p.97 e ss. Invero, la difficoltà è percepita dalle varianti soft della geometria legale –si pensi

a Cusano e poi a Locke- che lasciano i diritti fondamentali stretti tra le mani dei consociati,

sicché un “eccesso di potere” da parte del “rappresentante” produce la condizione per

esercitare il diritto di resistenza e, al limite, lo scioglimento del Commonwealth. In questo

modo, però, l’autorità del sovrano è minata in radice, costituendo una capitis deminutio

che era già risultata inaccettabile per Hobbes e che, pur nella diversità di prospettive, sarà

respinta anche da Hegel. Più in particolare il teorico britannico dell’assolutismo aveva

esplicitamente escluso ogni possibilità di rappresentanza complessiva dei corpi intermedi,

demandandone l’opportuna delimitazione al potere supremo: se ogni corporazione si

potesse dotare di un “rappresentante” in toto nel senso vagheggiato da Hobbes, non si

avrebbe più un popolo ma una massa di individui, dacché il popolo è tale solo in quanto

“rappresentato” dal sovrano. Infatti, la personalità e la stessa soggettività giuridica del

popolo si riassumono nell’assoluta ed irrevocabile delega a volere in propria vece conferita

in capo a colui le cui “mani non legate” gli consentono di farsi maglio valere o

assolutamente valere. Questo profilo “assorbente” della rappresentanza (che ne costituisce

–è inutile ripeterlo- anche la negazione) non era sfuggito all’attento esame del sostenitore

del corporativismo tedesco, cfr. O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der

naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, p. 252, trad. it. parziale Torino, (1943)

1975, p. 191; ma già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868. Su

queste osservazioni svolge la sua critica al Leviathan anche N. BOBBIO, Hobbes e le

società parziali, in IDEM, Thomas Hobbes, Torino, 1989, p. 175 e ss. A noi pare che la

correlazione tra “rappresentanza” nel senso espresso da Hobbes, personalità giuridica e

sovranità sia pervenuta fino al dibattito costituente italiano sulla sovranità popolare,

ipotecandone inconsapevolmente la riflessione; ne sono prova le difficoltà nelle quali si

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

117

allora che il sovrano "rappresenti" o meglio, sia delegatario per una parte

del suddito, che comunque vi sia un “altro” cui rendere conto, vuol dire

imporre al Re l'inquietante presenza di altro da sé, di qualcuno per di più,

da cui deriva il proprio potere: vuol dire togliere il sovrano dallo stato di

natura. Nemmeno i Monarcomachi erano arrivati a tanto.169

L'introduzione della rappresentanza parziale comporta l'esistenza di

due soggetti, il governante ed il governato, impedendo che il primo

fagociti il secondo: in questo senso si parla di monarchia limitata. Sebbene

tra il Leviathan e la Encyclopédie vi sia di mezzo il De l’esprit des lois e

la divisione dei poteri, lo stesso Hobbes aveva conosciuto e sperimentato

di prima persona la realtà di diversi centri di potere all'interno dello Stato.

Si può dire che molto prima di Montesquieu l'Inghilterra conoscesse un

parlamento diviso in due camere, un esecutivo ed un'amministrazione

della giustizia tutt'altro che sottomessa; e i riferimenti del Secondat verso

il sistema costituzionale della vicina isola sono numerosi e precisi.

Ora il carattere interessante in Holbach è proprio questa naturale

ammissione di una "rappresentanza" parziale. In questo modo l'equivoco e

le aporie dei moderni sembrano superate: per la possibilità che l'uomo sia

trovano immersi gli autori che si interrogano sulla portata dell’articolo primo della vigente

carta fondamentale: cfr. infra, § II.3.5.

169 Il fondamento popolare dell'autorità sovrana nel pensiero dei monarcomachi

non ne intacca il carattere di tutore unico dei governati. Il punto di partenza, la sovranità

popolare che viene delegata in capo al monarca perché assicuri il bene della comunità, può

far pensare all'esistenza di due soggetti, il popolo rappresentato e il sovrano rappresentante

che al primo deve rendere conto, eventualmente con la vita, veicolando così il dualismo

della rappresentanza. La questione, molto profonda, non può essere qui risolta, ma vale la

pena di indagare se si tratti di rappresentanza o di contrapposizione di poteri

autofondantisi: quello del tiranno e la sovranità del popolo. Tra le possibili varianti può

darsi la versione di Locke nel patto, storicamente verificatosi ed anzi rinnovantesi nel

tempo, tra monarca e popolo, oppure nel rapporto organico derivante dalla

“consanguineità” tra regnante e sudditi nella costruzione del Patriarca di Filmer.

Sull'argomento può essere interessante confrontare i contributi italiani antecedenti al

mutamento istituzionale di metà Novecento con gli studi più vicini a noi: cfr. A. RAVÀ, I

Monarcomachi, Padova, 1933; E. CROSA, La sovranità popolare dal medioevo alla

Rivoluzione francese, Torino, 1915; F. ERCOLE, Da Bartolo all'Althusio, Firenze, 1932; C.

GIACON, La Seconda Scolastica, Milano, 1950; nonché, più recentemente il corposo e

denso saggio di B. NICOLLIER, Hubert Languet: un réseau politique international de

Melanchthon à Guillaume d’Orange, Genève, 1995. Per la critica di Locke a Filmer, che la

primogenitura politica di Adamo su tutto il popolo avrebbe ipotecato il carattere volontario

della rappresentanza nel monarca, cfr. I. HARRIS, The Mind of John Locke, Cambridge,

1994, p. 235.

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

118

allo stesso momento anche cittadino, cioè ad un tempo portatore di diritti

e delegante dei poteri dello Stato.

Ma occorre fare attenzione e raffrontare ancora una volta la

struttura della rappresentanza con quanto proposto da Holbach. In effetti

sembrerebbe che la delega parziale salvi l'esistenza del delegante che

mantenendo ancora in capo proprio quanto non ha trasferito al delegatario,

non è assorbito da quest'ultimo. Tuttavia la sola delega non è

rappresentanza, difettando il ruolo del rappresentante eikòn come lo si è

definito supra. Non bisogna cioè essere tratti in inganno confondendo il

dualismo insito nella monarchia limitata, con quello proprio della

rappresentanza. Se cioè la delega parziale impone di riconoscere il

delegante per quella parte di sé stesso che non è affidata al sovrano, non

garantisce il riconoscimento del rappresentato per quella parte in cui è

sottoposto al sovrano. In altri termini, per quanto è delegatario, il re, anche

nella monarchia limitata, potrà essere sola situazione, negando ogni

rapporto col rappresentato che cessa di essere tale in quello stesso

momento. All'interno della porzione delegata al sovrano occorrerà allora

vedere se quest'ultimo sia veramente eikòn, immagine fedele alla propria

natura di immagine, conscia di essere altro dalla realtà che rappresenta, a

prescindere dalla sua maggiore o minore fedeltà al modello. Solo in

questo caso dalla delega si passerà alla rappresentanza. All'opposto dove il

monarca limitato assuma i caratteri del fàntasma, dell'immagine che si

pone come autosufficiente, come alternativa, concorrente alla realtà

rappresentata, non sarà la parzialità della delega a salvare il dualismo

rappresentativo. Tuttavia, anche ammettendo che non di delega si tratti,

ma di autentica rappresentanza, la sua natura non dipende dal fatto che si

sia rappresentanti generali o solo per affari particolari. Non bisogna essere

tratti in inganno fondando la rappresentanza su criteri quantitativi anziché

qualitativi. In altri termini la rappresentanza non dipende dall'ampiezza

delle materie rappresentate: un rappresentate è tale o no a prescindere se

rappresenti in tutto o solo per determinate questioni il proprio

rappresentato.

Ad ogni modo l'ammissibilità di una rappresentanza parziale ha una

sua funzione specifica: è già una spia, un indice del rispetto della dualità,

se cioè ciò che viene rappresentato non copre la totalità del rappresentato,

è quantomeno un segno che la soggettività del rappresentato sussiste ed è

mantenuta, il primo indizio per una verifica. Questo è il pregio del

pensiero di Holbach, che pur non chiarendo, nemmeno interrogandosi

sulla natura della rappresentanza, teorizza la possibilità di scegliere diversi

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

119

"rappresentanti" per le distinte branche del potere in ossequio alla teoria

della divisione dei poteri di Montesquieu.

Tutto ciò non può avvenire nello Stato assoluto, dove il sovrano è

l'unico interprete dei cittadini, o per loro consenso o per arbitrio, come in

Turchia; in ogni caso il sovrano è tutto e la nazione è nulla. Lo stesso

ragionamento vale per le democrazie dirette, dove il popolo agisce

direttamente, senza l'opera di intermediari.

Ma ecco finalmente enunciate le qualità che rendono un uomo

rappresentante. "Nessun uomo per quanto illuminato, è capace di

governare un'intera nazione senza consigli ed aiuto; nessuna classe nello

Stato può avere la capacità o la volontà di conoscere i bisogni delle altre:

così un sovrano imparziale deve ascoltare la voce di tutti i suoi sudditi; è

ugualmente interessato ad ascoltarli e a por rimedio ai loro mali; ma

perché i sudditi si esprimano senza tumulto conviene che abbiano propri

rappresentanti, cioè dei cittadini più illuminati degli altri, più interessati

alla cosa pubblica, legati dai loro possedimenti alla patria, che per la loro

posizione siano in grado di rendersi conto dei bisogni dello Stato, degli

abusi che vi si introducono, dei rimedi occorrenti".

La rappresentanza proposta dal barone è quella indicata supra come

rappresentanza per conoscere: poiché il Re non può sapere tutto ciò che

avviene nei suoi stati occorre costituire rappresentanti atti a consigliarlo, a

"rappresentargli" le esigenze dei suoi popoli.170

Conseguentemente la

natura della rappresentanza si sposta sulle qualità del rappresentante: tanto

migliore sarà la rappresentanza quanto più illuminato sarà il

rappresentante. A questo punto si possono aprire le posizioni

ideologiche171

più disparate su chi sia "naturalmente" predisposto per

170 Secondo la formula arcaica, ripresa anche dal Luigi XVIII. L’aspetto linguistico

andrebbe sviluppato anche per l’idioma inglese, ove la medesima radice latina di popolus

si riscontra in people che, guarda caso, assieme a Parlament e Society esaurisce le ipotesi

di pluralia tantum di quella lingua.

171 Sulla struttura dell'ideologia, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di

Stato, II ed., Milano, 1984, p.187, ove ne viene stigmatizzata la caratteristica di “filosofia

simulata” che critica e giudica la realtà dal proprio punto di partenza acriticamente

(ideologicamente) assunto. Sotto altro profilo, pur sottolineando che si tratta di una

prospettiva senza tempo, che taglio cioè trasversalmente la storia del pensiero, l’Autore

non manca di informarci che il neologismo è opera di Destutt de Tracy in un’allocuzione

tenuta in pieno periodo rivoluzionario, nel programmatico intendo di sostituire la filosofia

con una “scienza” delle idee, con i caratteri propri ipotetico deduttivi.

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

120

consigliare il sovrano e quindi necessariamente portato ad essere un buon

rappresentante.

Al tema della imperfezione del monarca, caro a d'Holbach, si

accosta la qualità dei rappresentanti i cui attributi sono la proprietà e la

distinzione intellettuale conseguente, sembrerebbe alla proprietà. “È

quindi nell'interesse del sovrano che la sua nazione sia rappresentata; ne

dipende la sicurezza personale... Una nazione privata del diritto di farsi

rappresentare è in balia degli impudenti che l'opprimono; si dissocia dai

suoi padroni... un popolo che soffre si affeziona per istinto a chiunque

abbia il coraggio di parlare a suo favore; si sceglie tacitamente protettori e

rappresentanti.”

Ed ecco finalmente chiarito cosa rende un uomo cittadino, è un

tema tipicamente fisiocratico: "... La proprietà fa il cittadino; tutti i

possidenti dello Stato sono interessati al bene dello Stato, e qualunque sia

la posizione assegnata loro da particolari convenzioni, è sempre come

proprietari, è in ragione dei loro possedimenti che devono parlare o

acquistano il diritto di farsi rappresentare." Il modello di rappresentanza

che emerge ha una funzione di limite nei confronti del sovrano, è difesa

degli interessi della proprietà, soprattutto di quella terriera, ha una

fisionomia censuaria (i chiamati sono i notabili), come è stato messo in

evidenza.172

Holbach approfondirà questo accento sulla proprietà ne La politique

naturelle (1773) dove si legge: "Ma che cos'è che lega il cittadino alla sua

patria? Sono i possedimenti dai quali dipende il proprio benessere; è la

terra che egli possiede che gli rende cara questa patria; è questo possesso

che lo identifica con il paese". Tuttavia, l'accento sulla proprietà terriera

non esclude altri tipi di proprietà che pertanto permettono ai titolari di

essere rappresentanti. Vediamo chi è degno di essere rappresentante.

Primo è il Clero, che le donazioni dei sovrani e la confiance del

popolo hanno reso proprietario di grandi beni, cioè un corpo di cittadini

172 Cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, 1981, p. 62, pur

sorvolando tale paradigma non è facilmente estensibile al magistrato, che non può essere

identificato con il carattere censuario della classificazione: il magistrato interviene come

“esperto” non come proprietario di terreni. Potrebbe essere colto un tema diffuso, ripreso

poi anche da Hegel e, naturalmente, rielaborato con sviluppi originali dai suoi allievi,

come si avrà modo di dire infra al § II.3.1. Non si dimentichi infatti che la camera alta,

nella costruzione fornita dal Maestro di Belino, doveva essere formata dai latifondisti,

proprio per lo stretto legame tra interesse privato e bene pubblico che –è il caso di usare il

temine- si sintetizza in loro.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

121

ricchi e potenti, ascoltati dal Re e dal popolo. Seconda è la Nobiltà, per i

possedimenti che legano la sua sorte a quella della patria; se avesse solo

titoli, goderebbe di una distinzione fondata su una convenzione; se fosse

solo guerriera, la sua ambizione sarebbe dannosa alla nazione: avendo

tutto da guadagnare e nulla da perdere il suo egoismo sarebbe foriero di

disastri. Terzo è il magistrato, "cittadino in virtù dei suoi possedimenti",

ma cittadino più illuminato per la posizione che occupa, poiché conosce

vantaggi e svantaggi della legislazione, usi e abusi della giurisprudenza e

il modo di rimediarvi. Quarto è il commerciante che "si arricchisce

contemporaneamente allo Stato che favorisce i suoi affari; ne condivide

continuamente la prosperità e i rovesci di fortuna". Non si può dunque

ridurlo al silenzio, anche perché il suo consiglio è utile nell'assise della

nazione. Quinto è il coltivatore, "vale a dire ogni cittadino proprietario di

terre" (!); su di lui cade direttamente o indirettamente ogni male o bene

della nazione, la terra è la base fisica e politica di uno Stato.

Alla fine dell'elenco il barone sintetizza così il suo pensiero: "La

voce del cittadino deve aver peso nelle assemblee nazionali

proporzionalmente ai suoi possessi".

La società si articola in queste cinque figure che infatti allargano la

tipologia dell'Ancien Régime. Il sovrano ha il compito di mantenere fra di

esse l'equilibrio: "impedirà che nessun ordine sia oppresso dall'altro; il che

succederebbe immancabilmente se un unico ordine avesse il diritto di

decidere per tutti". Fin qui si riconosce la tematica di Montesquieu

combinata con le teorie dei fisiocrati.

All'interno di questo progetto va letta la parte, dal punto di vista

teorico, più interessante della voce, in ordine ai rapporti rappresentanti -

rappresentati. Vi si afferma che si è rappresentanti solo in quanto eletti. Si

sono dati significati diversi.

Una prima dottrina nota come in questa voce, per la prima volta, sia

posta la questione del pouvoir constiuant citando la conclusione: "Nessun

ordine di cittadini deve godere per sempre del diritto di rappresentare la

nazione; bisogna che nuove elezioni ricordino ai rappresentanti che

devono ad essa il loro potere.” 173

Secondo tale linea di lettura

173 E. SCHMITT, Französische Revolution, Darmstadt, 1973, p. 125. È pur vero che

la figura del potere costituente non evoca nel pensiero di d’Holbach i caratteri che saranno

esplicitati solo con l’opera di Sieyès, ritrovandosi piuttosto elementi cari ad Hobbes. Cfr.

H. SCHRAMM, Karneval des Denkens. Theatralität im Spiegel philosophischer Texte des

16. und 17. Jahrhunderts, Berlin, 1996.

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

122

l'individuazione della nazione come fonte di potere dei rappresentanti fa

acquistare una valenza più moderna alla definizione del rapporto

rappresentati - rappresentanti, dato poco prima in termini di

subordinazione: "i rappresentanti presuppongono degli elettori dai quali

deriva il loro potere, ai quali sono di conseguenza subordinati, e di cui non

sono altro che i portavoce. Qualunque uso e abuso il tempo abbia potuto

introdurre nei governi liberi e temperati, un rappresentante non può

arrogarsi il diritto di far parlare ai suoi elettori un linguaggio opposto ai

loro interessi; i diritti degli elettori sono i diritti della nazione, sono

imprescrittibili ed inalienabili, basta consultare appena la ragione, ed essa

dimostrerà che gli elettori possono in ogni momento smentire, sconfessare

e revocare i rappresentanti che li tradiscono, che abusano dei loro pieni

poteri contro di loro, o che rinunciano a loro nome a diritti inerenti alla

loro condizione fondamentale; in una parola i rappresentanti di un popolo

libero non possono imporgli un giogo che ne distruggerebbe la felicità;

nessun uomo acquista il diritto di rappresentarne un altro contro la sua

volontà." Per questa prima corrente ci troveremmo dinanzi alla

definizione di un mandato senza limiti (si dice "pieni poteri") che l'eletto

riceve dagli elettori non in quanto membri di classi, ma perché membri

della nazione. In questo si dice che è d'Holbach, l'Encyclopédie a

teorizzare un mandato libero, anticipando lo Speech di Burke di nove

anni.

Tale lettura è stata criticata perché taglierebbe di netto dinanzi a

talune ambiguità della formulazione di d'Holbach: come ad esempio il

diritto di popular recall che "in ogni momento" possono esercitare gli

elettori.174

Queste ambiguità infatti consentono letture diametralmente

opposte. Citando lo stesso passo ad esempio, altra dottrina è invece

dell'opinione che d'Holbach, anche se non fa mai esplicito riferimento al

mandato imperativo, affermi il principio secondo cui "la funzione dei

deputati è quella di esprimere i punti di vista dei mandanti e non di

174 P. VIOLANTE, op.cit., p. 64. In verità queste tensioni non appaiono ben

approfondite nel pensiero del barone d’Holbach, quanto piuttosto un retaggio delle

esperienze delle colonie americane, ben ricostruite già da Mill, che si chiedeva fino a quale

punto le forme di governo fossero una questione di scelta. Sul punto cfr. J.S. MILL,

Representative Government, (1861) Chicago, 1952, trad. it. Considerazioni sul governo

rappresentativo, a cura di M. Prospero, Roma, 1997, p. 5-6; altresì, Ch.H. McILWAIN,

Constitutionalism: Ancient and Modern, Itacha - New York, 1940, trad. it.

Costituzionalismo antico e moderno, a cura di N. Matteucci, Bologna, 1990.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

123

arrogarsi il diritto di decidere da soli ciò che sia meglio per essi".175

Ci

troveremmo così dinanzi ad un vincolo strettissimo che permetterebbe agli

elettori di controllare e richiamare gli eletti qualora agiscano contro il loro

interesse. L'allentamento di questo vincolo produrrebbe uno stato di

schiavitù: un pericolo già in atto presso quei governi temperati esistenti e

cioè l'Inghilterra.

"L'esperienza dimostra -continua il barone- che nei paesi che si

illudono di godere della massima libertà, quanti sono incaricati di

rappresentare i popoli ne tradiscono anche troppo spesso gli interessi e

abbandonano i loro elettori all'avidità di quanti vogliono derubarli. Una

nazione fa bene a diffidare di simili rappresentanti e a limitarne i poteri;

un ambizioso, un uomo avido di ricchezze, un prodigo, un dissoluto, non

sono atti a rappresentare i propri cittadini; li venderanno per titoli, onori,

cariche e denaro; e si crederanno interessati ai loro mali. Che avverrà se

questo infame commercio sembra autorizzato dalla condotta degli elettori,

anch'essi venali? Che avverrà se questi elettori si scelgono i rappresentanti

nei disordini e nell'ebrezza, o se, trascurando la virtù, i lumi, i talenti,

daranno al maggior offerente il diritto di definire i loro interessi? Simili

elettori invitano a tradirli; perdono il diritto di lamentarsene, e i loro

rappresentanti chiuderanno loro la bocca dicendo 'vi ho comprati a caro

prezzo, e vi venderò al prezzo più caro possibile.” Evidente l'eco delle

impressioni riportate da Holbach stesso nel suo viaggio in Inghilterra

nell'agosto-settembre 1765, così come le parole tratte da un aneddoto

riportato da Holbach e raccontato da Diderot a Sophie Volland, nella

lettera del 12 novembre 1765: "Une de ces représentants, après avoir fait

attendre deux heures dans son salon les députés de sa province, les fit

introduire dans son appartement. «Eh bien, messieurs, leur dit-il en les

recevant, qu'est-ce qu'il y a?» Les députés s'expliquent. Le représentant les

écoute. Puis voici la réponse avec laquelle il les renvoie: «Non pas,

pardine, messieurs! Il n'en sera pas ainsi. Je vous ai achetés bien cher, et

mon dessein est de vous vendre le plus chèrement que je pourrait!»".176

175 R. FRALIN, Rousseau and Representation, New York, 1978, p. 23. Come si è

avuto modo di vedere nel § che precede, il Ginevrino ammetteva dei deputati solo quali

nuncii per la trasmissione di volontà altrui preconfezionate. Seppure in questo modo viene

ipotecata proprio la decantazione assembleare della volontà generale (rectius della

maggioranza), inceppando il meccanismo dell’autosuggestione rousseauiana.

176 D. DIDEROT, Ouvres complétes, nell’ottima edizione critica presentata a cura di

J. Lough e J. Proust, Paris, 1970, Tomo VI (1976), p. 354. Superfluo rimandare agli scritti

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

124

In questo medesimo passo dunque, seguendo la seconda corrente,

d'Holbach definirebbe un sistema a mandato vincolato esprimendo una

forte critica dell'esperienza inglese. Questa lettura serve alla seconda

corrente di pensiero di cui si è fatto riferimento sopra, per mostrare

l'assonanza della tematica rousseauiana con quella della Encyclopédie. È

sicuramente Rousseau a teorizzare coerentemente il vincolo di mandato

motivandolo con la sfiducia nei confronti delle assemblee e a penalizzare

l'esperienza inglese, mentre d'Holbach -per la seconda corrente- accettò

senza riserve il principio della rappresentanza e vide la restaurazione degli

Stati Generali, da tempo defunti, come la chiave per ristabilire un sano

corpo politico in Francia. Ma quale rappresentanza? Quella libera di cui

parla la prima corrente? Quella vincolata delineata dalla seconda? O più

semplicemente quella ampia raccomandata da sempre dai re? Anche

nell'interpretazione di questa voce è dunque presente il dualismo dell'idea

di rappresentanza. Ci si sarà già accorti che la prima corrente tende ad

interpretare la voce in modo da ridurre la rappresentanza a mera

situazione (di potere) dei rappresentanti; la seconda per converso ammette

solo il rapporto. C'è, tuttavia, una terza posizione che cerca di conciliare a

suo modo le opinioni discordanti.

Secondo quest’ultima prospettiva, la lettura della voce sembrerebbe

far decidere per l’accettazione di un mandato "ampio" piuttosto che

libero.177

Che questo mandato ampio possa collegarsi ad una

rappresentanza nazionale è quanto, già tanto tempo prima, aveva

sostenuto il vescovo Filippo a Tours quando, durante gli Stati generali del

1484, propugnava la rappresentanza nazionale di ogni singolo deputato,

di Burke ed alla prassi imperante nelle aule di Westminster, ove era costituito anche un

apposito ufficio per la compravendita dei voti.

177 P. VIOLANTE, op.cit., p. 64. La proposizione sembrerebbe scardinare

l’alternativa tra mandato in toto e mandato singulariter, su cui supra alla nota 29,

magistralmente espresso da Jouvenel, ove afferma che “Des deux représentations de

l’intérêt national admises par l’ancienne constitution, la représentation in toto et la

représentation singulariter, l’une portée à l’exigence, l’autre au refus, l’une a disparu. Et

ce n’est pas celle qu’on pense. Ce n’est pas le Roi qui a disparu: le Pouvoir législateur

représentant de l’intérêt national est son successeur; mais ce qui a disparu c’est la

représentation des intérêts qui son dans la nation”. Così B. de JOUVENEL, Du Pouvoir,

(1945) Paris, 1972, p. 296. Peraltro, la proposta di un mandato “ampio” si pone in

contrasto con quelle teorie per le quali il mandato o è imperativo o non è: così G. MIGLIO,

Le trasformazioni del concetto di rappresentanza, (1984) in IDEM, Le regolarità della

politica, Milano, 1988, vol. II, p. 976.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

125

argomentando dall’identico dovere che vincola ciascun deputato a

deliberare per il bene della Francia: l’identità di scopo produce così

identità di struttura. Ma il problema diventa più complesso se si ammette,

come talvolta sembra farsi, un'analogia tra la rappresentanza nazionale

cosi come definita da d'Holbach e poi da Burke, con quella teorizzata da

Sieyès, per fissare cosi uno dei tanti solchi continui che attraversano il

campo della storia. Violante sostiene che d'Holbach accettando le

aspirazioni della borghesia progressista si ponga a metà strada tra

Rousseau e Sieyès, poiché l'omogeneità sociale dalla quale scaturisce il

vincolo rousseauiano è l'opposto dell'omogeneità dello spazio corporativo

dal quale il mandato di Holbach non sembrerebbe decollare. Ma in questo

dimentica che "i diritti degli elettori sono i diritti della nazione, sono

imprescrittibili e inalienabili; basta consultare appena la ragione...". Allo

stesso tempo, continua, la nozione di rappresentanza nazionale e la teorica

dell'abolizione del vincolo di mandato ad essa connessa, che si svilupperà

nei dibattiti dell'Assemblea nazionale sulla base della dichiarazione del 17

giugno 1789, nella stanza della Pallacorda, sarebbe invece oggettivamente

diversa. E lo sarebbe nella misura in cui quella dichiarazione segnerebbe

la scomparse della rappresentanza singulariter, poiché da quel momento

in poi il mandato ampio diverrebbe realmente libero. Nel senso che la

libertà del mandato sarebbe legata strutturalmente all'assunzione da parte

dell'Assemblée nationale della rappresentanza in toto conseguente

all'identificazione della borghesia con la nazione e al suo essere cioè

pouvoir constituant.

In realtà il fatto che un medesimo autore nello stesso testo si presti

ad interpretazioni opposte, induce a pensare che vi sia un equivoco di

fondo.

Può e deve essere esaminata in questa sede una quarta eventualità.

Oltre alle differenze messe in evidenza dalle posizioni riportate sopra, vi è

un elemento comune, quasi un filo conduttore, che indica la vera

preoccupazione del barone. La cosa veramente essenziale è che i

rappresentanti siano i più adatti al governo, gli aristocratici nel senso

etimologico del termine. L'attenzione allora si sposta sulla ricerca della

definizione di un concetto di migliore, o di un criterio sufficientemente

condivisibile per riconoscere chi è più degno di essere rappresentante o,

meglio, chi più è adatto a gestire gli affari comuni, ad individuare e

perseguire il bene pubblico. A questo punto ogni indagine su monismo o

dualismo della struttura rappresentativa diventa totalmente superfluo per

d'Holbach. Concependo la rappresentanza come informazione nel modo

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DELEGA E RAPPRESENTANZA VIRTUALE

126

indicato supra, consegue, come già detto, che i "migliori" siano

rappresentanti e governanti, non vi sono problemi di abusi o tradimenti

quando costoro saranno al potere: che poi per d'Holbach gli aristocratici

siano concretamente i nobili latifondisti è un'altra questione, il limite della

sua veduta. Quello che qui preme mettere in evidenza è la totale diversità

di prospettiva, di ottica, di approccio al problema, per cui, forse, è vano

cercare di imbrigliare il pensiero del barone, in maglie, in categorie che gli

erano estranee.

In altri termini, occorre tenere ben presenti quali erano le esigenze

del nostro autore e la costruzione generale dello Stato, per comprendere il

ruolo e la struttura della rappresentanza che vi trova luogo. Da quanto

detto sopra appare chiaro che il rappresentante non è portatore delle

volontà dei popolani che lo hanno eletto o che comunque "rappresenta".

Fedele in questo a Montesquieu e al suo lignaggio, d’Holbach ritiene il

popolo completamente incapace di esprimere volontà e quand'anche lo

facesse, non sarebbe opportuno che il re le seguisse. Vero scopo della

rappresentanza è portare a conoscenza i problemi delle categorie

fondamentali che costituiscono lo nazione178

e ai rappresentanti è richiesta

l'intelligenza di individuarli, interpretarli e proporre le soluzioni: in altre

parole, di consigliare il sovrano ove i suoi occhi non possono arrivare. In

questo senso il gabinetto dei ministri, il consiglio privato del re è

"rappresentativo". Ne consegue però l'irrilevanza della responsabilità

verso i mandatari. Questi ultimi, non avendo commesso delle volontà,

cosa di cui sono completamente incapables, non possono sindacare

l'operato dei rappresentanti, nemmeno per quanto attiene agli interessi

generali del regno, che restano loro incomprensibili. La condizione di

minorità in cui si trovano li assimila all'interdetto, che non può certo

178 È appena il caso di ricordare come anche Sieyès nel suo pamphlet più famoso,

stilando un’ulteriore lista di categorie fondamentali per la nazione, tragga conclusioni per

certi versi analoghe. La differenza sostanziale risiede nella circostanza che il barone

ammette un sovrano cui rappresentare le esigenze della nazione, per il tramite degli

“illuminati” rappresentati: vi è dunque un rappresentato, la nazione –seppure in stato di

minorità, che non le consente di esprimere delle vere e proprie volontà- dei rappresentanti,

che individuano ratione officii il bene della nazione, ed un terzo –il monarca- cui tali

interessi vengono rappresentati, nel senso di fatti conoscere. Il modello dell’Abate, come si

vedrà, prevede un rappresentante che “è” la nazione ed il monarca: rappresentante,

rappresentato e terzo si fondono in un unico corpo, senza possibilità di alterità. Cfr. infra

nel testo.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

127

sindacare l'operato del tutore.179

In quest'ottica deve essere letta allora

anche la temporaneità della carica, prevista non tanto a favore dei

mandatari, quanto per prevenire tentazioni egoistiche, che la permanenza

negli uffici pubblici può comportare; che il consigliere cioè veda il

proprio bene anziché quello dello Stato. Ma in questo d'Holbach non fa

che riprendere la tradizione della Roma repubblicana, per cui le

magistrature erano elettive gratuite e temporanee. È da notare come gli

ultimi due requisiti rimasero caratteri indiscutibili fino all'avvento nelle

camere basse dei primi deputati delle classi e partiti politici popolari, che

essendo privi di rendite ulteriori al loro lavoro, non avrebbero potuto

partecipare all'attività parlamentare; ma tutto questo avviene circa un

secolo dopo gli scritti di d’Holbach.

179 Come si è ricordato, la stessa scienza privatistica più attenta opera dei distinguo

quando perviene ad illustrare l'assunto tradizionale secondo cui il tutore "rappresenta"

l'interdetto o il minore, specificando che si tratta di rappresentanza necessaria. Cfr. A.

TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1993; F. GALGANO, Diritto privato,

Padova, 1990, nonché i contributi citati supra alla nota 92.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

129

3.2 Mandato imperativo, mandato limitativo, mandato libero,

nessun mandato

PREMESSA: NECESSITÀ DI RICOSTRUIRE L’INTRODUZIONE POSITIVA DEL DIVIETO DI MANDATO

IMPERATIVO – IL MANDATO IMPERATIVO NEI CAHIERS DE DOLEANCES – TEORIA DEL

MANDATO LIMITATIVO: DEFINIZIONE DI COLLEGIO ELETTORALE, DI DEPUTATO, DI MANDATO

– NULLITÀ DEI MANDATI IMPERATIVI NEI CONFRONTI DELL’ASSEMBLEA, LORO

OBBLIGATORIETÀ NEI CONFRONTI DEGLI ELETTORI - AMMISSIBILITÀ DEI MANDATI

LIMITATIVI: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE – PRIMA DISTINZIONE TRA MANDATI DI

DIRITTO PUBBLICO E MANDATI DI DIRITTO PRIVATO – PROPOSTA DI ANNULLAMENTO DEI

MANDATI IMPERATIVI: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUENTE SUL POTERE COSTITUITO -

TEORIA DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: PREVALENZA DEL POTERE COSTITUITO SUL

POTERE COSTITUENTE – LA SFERA E LA LEGGE: DIMOSTRAZIONE DELLA FINZIONE DELLA

RAPPRESENTANZA DOPO L’INTRODUZIONE DEL DIVIETO DI MANDATO IMPERATIVO: REAZIONI

E CRITICHE – CONCLUSIONE: LA CONSACRAZIONE DEL DIRITTO POSITIVO.

L’indagine fin qui condotta ha consentito di individuare la radice

del problema della rappresentanza, nel rapporto tra eletto ed elettori e

l’istituto del divieto di mandato imperativo è risultato centrale nella nostra

riflessione. Per enuclearne i problemi e rileggere le diverse posizioni

dottrinali che da due secoli si hanno su questo istituto, ci siamo riproposti

l’intenzione di riportare l'attenzione sul dibattito che ne ha comportato

l'introduzione nella prima carta francese del 1791.180

È un dibattito affascinante ove le diverse proposte attorno questo

istituto indicano disparità di vedute sulla concezione della norma e

dell’ordinamento dei rispettivi sostenitori, a riprova dell'importanza del

concetto di rappresentanza nella dottrina generale dello Stato. Ma il

dibattito deve forse la sua limpidezza e fecondità alla Rivoluzione; i

membri dell'Assemblea nazionale non erano legati da alcun limite di sorta,

salvo quello della raison, non vincolati dall'ossequio alle costruzioni

teoriche precedenti erano consapevoli della libertà di proporre ed attuare

quello che fino ad allora non si era nemmeno osato pensare. Si vuole

mettere cioè in evidenza il grande divario tra le costruzioni anteriori

tendenti alla descrizione di quanto già c'era, della rappresentanza come

poteva essere concepita nell'ordine dell'Ancien Régime, e la freschezza del

dibattito costituente ove le idee sgorgano da fonte nuova, non già

180 La non copiosa letteratura sull'argomento denota l'attenzione limitata che è stata

riservata all'istituto soprattutto nel periodo non immediatamente recente. Verosimilmente

ciò si deve all'opinione diffusa che il problema del mandato imperativo fosse ormai risolto,

coniugandosi felicemente con quella descrizione della rappresentanza c.d. "politica", che

ne giustificava la necessità.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

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avvizzite da una vena esausta. Seppure una seria ipoteca è posta dalla

furia iconoclasta, con cui una buona parte dei deputati guarda all’ordine

passato (anzi, alle idee stesse di ordine e di passato) ed a tutto ciò che da

esso può essere ereditato.

Già all'indomani del giuramento della Pallacorda, dopo essersi

proclamati rappresentanti della nazione, i membri dell'Assemblea

nazionale stentano a comprendere il loro status. La questione del mandato

non poteva che presentarsi fin dal momento della verifica dei poteri. Le

prime difficoltà sorgono il giorno 26 giugno: si consideri la sequenza

stringente delle date. Il conte Lally-Tollendal, deputato di Parigi, presenta

assieme alle proprie credenziali una bozza di discorso, non si sa se

casualmente o no. In tale scritto il deputato sembra accettare il mutamento

costituzionale che ha trasformato gli Stati Generali in Assemblea

nazionale, ma solleva delle perplessità circa la propria posizione: i suoi

elettori lo avevano incaricato di votare par ordre, mentre dal 17 giugno

nella stanza della Pallacorda si è giurato di votare par tête. Per il deputato

parigino la conseguenza da trarre è una sola: occorre interpellare

nuovamente gli elettori per ottenere un nuovo mandato, più conforme alla

mutata situazione e ai convincimenti suoi propri. In caso contrario egli

stesso avrebbe rinunciato all'incarico.

Nella seduta del 26 giugno, dunque, Bouchette, membro della

commissione per la verifica dei poteri, legge quella che, ricordiamolo, era

solo una bozza di discorso. Lally-Tollendal non si oppone perché proprio

in quel momento, ancora una volta casualmente o no, non era in aula. In

questo modo, senza esporsi di persona, manifesta chiaramente il suo

pensiero: il giuramento della Pallacorda, sebbene salutare per la nazione,

deve essere ratificato esplicitamente dagli elettori. La prima reazione è di

Freteau, che appena finita la lettura interviene rivendicando la competenza

dell'Assemblea e non dei singoli deputati sulla questione: nessuno potrà

ritirarsi se prima non si sarà deciso.

Target propone un ordine del giorno per risolvere il nodo dei

mandati imperativi, ma si preferisce piuttosto "legittimare" l'Assemblea

completando la verifica dei poteri. Adesione alla proposta di Lally-

Tollendal esprime invece Stanislas de Clermont-Tonnere, anche lui

deputato nobile. Questi chiede di restare in assemblea, ma senza votare

finché non avrà consultato i propri elettori.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

131

Il Journal di Duquesnoy181

in data 3 luglio ci informa di una

"Motion sur les mandats impératifs", presentata dal vescovo d'Autun,

subito appoggiata da Target. La questione viene più ampiamente discussa

nelle sedute del 7 e 8 luglio durante un dibattito già indicato come centrale

per la formazione della teoria della rappresentanza nazionale.182

Nella seduta del 7 luglio Charles-Maurice de Talleyrand-Perygord,

vescovo d'Autun, illustra la sua mozione-definizione sui mandati

imperativi. È la prima esposizione sistematica che si ha su questo

argomento.

La relazione di Charles-Maurice, dunque, prende le mosse da tre

interrogativi: 1) che cos'è un bagliaggio? 2) che cos'è un deputato? 3) che

cos'è un mandato? Il vescovo risponde nell'ordine affermando che il

bagliaggio non è un “État particulier”, uno Stato legato ad altri Stati come

in una confederazione, è invece una parte di un tutto, “une portion d'un

seul État”, e come parte sottoposto alla volontà generale, sia che vi

partecipi, sia che se ne astenga, ma “ayant essentiellement le droit de

concourir à la volonté générale”.183

Il deputato è, continua Charles-Maurice seguendo il suo ordine,

l'uomo che il bagliaggio incarica di volere in sua vece, ma di volere come

esso vorrebbe se potesse partecipare all'incontro generale, cioè dopo aver

ponderatamente confrontato tra sé le ragioni dei diversi bagliaggi. “Qu'est-

ce que le député d'un bailliage? C'est l'homme que le bailliage charge de

vouloir en son nom, mais de vouloir comme il voudrait lui-même s'il

pouvait se transporter au rendez-vous général, c'est-à-dire après avoir

mûrement délibéré et comparé entre eux tous les motifs des différents

bailliages. Qu'est-ce que le mandat d'un député? C'est l'acte qui lui

transmet les pouvoirs du bailliage, qui le constitue représentant de son

bailliage et par là représentant de toute la nation. (...) Le député aura tous

les pouvoirs qu'aurait le bailliage lui-même, sans quoi il ne serait plus son

représentant.”

181 Journal d'Adrien Duquesnoy, deputé du Tiers-Etat de Bar-le-Duc sur

l'Assemblée Constituant,3 mai 1789 3 avril 1790 a cura di R. De Crevcoeur, 2 voll., Paris,

1894.

182 Cfr. K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament, München,1922 p. 180 e ss.

183 Qui, come in seguito, per la mozione di Talleyrand, facciamo riferimento al

volume curato da F. FURET e R. HALEVI, Orateurs de la Révolution française, Paris,

Gallimard, 1989, pp.1037-1044.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

132

Il mandato è dunque l'atto con il quale il bagliaggio, trasmettendo al

deputato i suoi poteri, lo costituisce suo rappresentante e di conseguenza

rappresentante di tutta la nazione. Tutto il ragionamento è strutturalmente

consequenziale alla definizione del bagliaggio come parte di un tutto.184

Fissate le premesse, d'Autun si chiede se secondo quanto esposto i

mandati debbano essere liberi. Per rispondere il relatore introduce la

distinzione tra mandati limitativi e mandati imperativi propriamente detti:

“Ces deux mots semblent se rapprocher beaucoup, mais les exemples vont

les séparer”. Sarebbero limitativi e legittimi quei mandati che fissano dei

limiti in ordine alla durata, all'oggetto e al tempo di attuazione. Secondo

Talleyrand il mandato sarebbe legittimo se pone un limite di durata fissato

dal bagliaggio, se è limitato ad un certo oggetto di discussione, se contiene

una limitazione che consente di agire soltanto dopo che si sia realizzata

una certa condizione. Circa il limite d'oggetto si ricorda che esso non può,

per le premesse poste, impedire all'Assemblea di decidere su oggetti non

contemplati dal singolo mandato e che la maggioranza può agire senza

tenerne conto, anche se gli effetti cadranno sui committenti di un mandato

così limitato: “les députés feront sans lui, et cependant feront pour lui.”

Secondo d'Autun, come è unicamente chiamato durante gli Stati generali,

sono pochi, nell'Assemblea nazionale alla quale parla, i mandati limitativi

in ordine all'oggetto, mentre sono la maggioranza i mandati con ampi

poteri dal momento che i cahiers hanno demandato ai rappresentanti di

régler la costituzione, la legislazione, l'imposta eccetera. Una volta però

che la costituzione sarà definita, prevede il vescovo, i mandati limitativi

cresceranno, conviene quindi regolare una volta per tutte l'ambigua

questione. Se questi sono i limiti legittimi, oltre i mandati limitativi

esistono limiti illegittimi? Dei mandati imperativi? Talleyrand ne

individua tre che si concretano nei seguenti comandi: 1) vi ordino di

esprimere tale opinione di dire si o no su tale questione; 2) vi proibisco di

decidere su tal'altra questione; 3) vi ordino di ritirarvi se sarà adottata tale

decisione. Talleyrand deduce da quanto esposto che questi tre comandi

non possono essere legittimamente posti dal bagliaggio. Il primo

renderebbe l'Assemblea “parfaitement inutile”, imponendo delle decisioni

prima ancora della discussione. Infatti “Le bailliage ne peut savoir avec

certitude lui-même quelle serait son opinion, après que la question aurait

184 Sul pensiero di Talleyrand restano ancora fondamentali i testi di F. BLEI,

Talleyrand homme d'État, a nostra disposizione nella traduzione francese dell’originale

tedesco, Paris, 1935 e L. MADELIN, Talleyrand, Paris, 1941.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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été librement discutée par tous les autres bailliages: il ne peut donc

l’arrêter d'avance”.

In questo primo caso Talleyrand ritiene che una certa inquietudine

vada scusata, anche perché trattasi di mandati per gli Stati Generali, che

non si riunivano da molto tempo. Non così per gli altri casi prospettati:

non voler partecipare alla deliberazione significherebbe infatti ostacolare

apertamente la volontà generale e disconoscerne l'autorità; ma ancor più

grave è il terzo caso perché configurerebbe una scissione o più

precisamente, imporrebbe di subordinare la volontà generale alla volontà

di qualche bagliaggio o di qualche provincia. Ne consegue che tali

clausole imperative sono nulle, ma, si badi bene, solo rispetto

all'assemblea che le riterrà inesistenti, presumendo liberi i voti espressi e

assenti i deputati non votanti. L'assenza di fatto non può intaccare la forza

delle deliberazioni prese. Gli avvenimenti dell'ultimo mese lo dimostrano,

ma questa è una nostra aggiunta, infatti Talleyrand, al contrario di Sieyès,

in tutta la sua relazione non adduce mai gli avvenimenti a prova di ciò che

afferma.

Se le clausole imperative sono dunque nulle per l'Assemblea, lo

sono anche per i deputati nei confronti degli elettori? No, senza dubbio,

risponde Talleyrand. Se sono state imposte istruzioni illegittime, debbono

essere annullate dai mandanti. Il relatore insiste sulla non rilevanza della

revoca per l'Assemblea e la rilevanza invece per i mandanti e ciò per due

ordini di motivi. Il primo perché i mandanti non avevano il diritto di

imporre tali mandati ai propri mandatari. Il secondo perché è un vantaggio

per loro concorrere alla formazione della volontà generale alla quale,

“dans toute hypothèse”, si troveranno soggetti. Ed è su questo punto che il

vescovo conclude la sua relazione. “Io credo dunque fermamente che i

deputati sono legati ai loro committenti dalle clausole di tali mandati. È

una questione di principio dalla quale non deflettere. Né mi ferma il

ragionamento secondo cui una clausola che non si ha il diritto di apporre,

non è una clausola obbligatoria: perché se penso che i committenti non

avevano il diritto di inserire quella clausola, credo ugualmente che il

deputato aveva il diritto di assoggettarvisi; e questo assoggettamento

volontario che ha espresso ricevendo il mandato, è il vero titolo del suo

impegno.”185

A questo punto, Charles-Maurice minimizza il numero e la

185 “Je crois donc fermement que les députés sont liés envers leurs commettants par

les clauses de tels mandats. C’est un principe de rigueur, il ne doit pas fléchir ici. Je ne suis

pas même arrêté par le raisonnement que l’on fait, en disant qu’une clause qu’on n’a pas

eu le droit d’apposer n’est pas obligatoire; car si je pense que les commettants n’ont pas eu

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

134

portata dei mandati imperativi, insistendo che spesso si sono confusi gli

articoli dei cahier con le clausole del mandato e propone la sua mozione:

“L'Assemblée nationale, considérant qu'un bailliage ou une partie d'un

bailliage n'a que le droit de former la volonté générale, et non de s'y

soustraire, et ne peut suspendre par des mandats impératifs, qui ne

contiennent que sa volonté particulière, l'activité des Etats Généraux,

déclare que tous les mandats impératifs sont radicalement nuls; que

l'espèce d'engagement qui en résulterait doit être promptement levée par

les bailliages, une telle clause n'ayant pu être imposée, et toutes

protestations contraires étant inadmissibles, et que, par une suite

nécessaire, tout décret de l'Assemblée sera rendu obligatoire envers tous

les bailliages, quand il aura été rendu par tous sans exception.”

La costruzione di Talleyrand è sostenuta da un ragionamento,

patrimonio ereditario degli Stati Generali che deve essere attentamente

ricostruito nei suoi passaggi logici. Per secoli i concetti di legge e di

sovranità sono stati considerati complementari tra di loro, talché la forma

stessa della sovranità era considerata la legge. La manifestazione del

potere dello Stato avviene attraverso i suoi ordini.

Qui occorre una chiarificazione terminologica. Indubbiamente per il

pescatore di Brest è manifestazione dello Stato qualsiasi ordine del

Governatore del porto a prescindere se in attuazione di una legge, di un

arrêt, di un decreto o magari per capriccio del governatore stesso. Ma per

gli eruditi di Francia, numero cospicuo in proporzione agli altri paesi fin

dal Rinascimento, la loi, in senso tecnico, è la prima vera manifestazione

della sovranità, del potere dello Stato, sia al suo interno (e in questo

le droit d’insérer cette clause, je crois en même temps que le député a eu le droit de s’y

soumettre; et cette soumission volontaire qu’il a exprimée, en recevant les pouvoirs, est le

titre véritable de son engagement.” Il passo, secondo una simmetria che l’autore eredita

dalla sua formazione ecclesiastica, dopo gli argomenti di conformità giuridica continua

respingendo l’accusa di immoralità di siffatta proposta, aspetto che però è illuminante

dell’argomentazione politica del tempo, fondata su di una sorta di “doppia conforme” data

dal nesso diritto-morale: “Il n’est pas question ici d’une action immorale qu’on n’a pas le

droit d’exiger, ni de promettre, ni de faire quand on l’a promise. Un député a pu promettre

qu’il ne délibérait pas dans tel cas, qu’il se retirait dans tel autre; qu’il dirait oui ou non sur

telle question, puisque c’est le vœu de ceux qu’il allait représenter. Tout le tort est dans

ceux qui ont voulu être ainsi représentés; il n’y a aucune immoralité à promettre cela; il

n’y a aucune loi qui le défende; il peut donc l’exécuter; s’il le peut, il le doit; car il l’a

promis en acceptant le mandat; et il est inutile de dire combien cette obligation se fortifie

lorsqu’à la religion de la promesse se joint la religion du serment.” Cfr. TALLEYRAND, op.

cit., p. 1042.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

135

seguita dalla sentenza che già Hobbes chiamava la legge del caso

particolare), ma anche all'esterno, come delimitazione della sfera di

applicabilità, del proprio territorio, come ius excludendi omnes alios. Non

a caso dei tre elementi costitutivi dello Stato, individuati dalla dottrina

francese del Cinquecento nella sua giustificazione di autonomia

dall'Impero, tutt'oggi tradizionalmente accettati, cioè popolo, territorio e

sovranità, i primi due altro non sono che l'ambito di applicazione di

quest'ultimo.

Già durante gli Stati Generali di Tours del 1484, con l'intervento del

vescovo Filippo Pot, si intravide un collegamento logico tra legge e

volontà generale. In sostanza il quesito impellente era questo. Se la

sovranità si manifesta con la legge, di chi è volontà la legge? Per Marsilio

e Bodin indubbiamente è del sovrano.186

Ma non per il vescovo Filippo:

appare la concezione medioevale della rappresentanza, lo Stato è tutto il

popolo riunito in uno compendio rapraesentativo secondo le parole del

Cusano, conseguentemente la legge è volontà di tutti. I successivi Stati

Generali, di convocazione in convocazione si incaricheranno di farlo

presente al Re. Veniamo al 1789, all'apertura degli Stati Generali. È ormai

opinione comune ad un influente gruppo di intellettuali di varia estrazione

186 Tuttavia MARSILIO DA PADOVA, cfr. Defensor pacis, Primo Discorso, XII e XIII,

ove, analizzando la causa efficiente della legge umana, in rapporto con la legge divina, si

fonda l’autorità degli eletti direttamente sull’elezione, escludendo la conferma di

qualsivoglia ulteriore autorità. Per il padovano, il riconoscimento del giusto e del

“civilmente vantaggioso” non è ancora legge, poiché la causa efficiente della legge è il

popolo, la universitas civium, nell’atto di volontà che esso compie nel porre come legge il

prodotto dell’atto di riconoscimento di ciò che è giusto. Tuttavia, al momento quantitativo

dell’universitas, nell’atto di volontà, si affianca l’aspetto qualitativo del riconoscimento,

che spetta alla pars valentior figura che ha dato plurimi problemi interpretativi, per i quali

rinviamo a V. OMAGGIO, Marsilio da Padova. Diritto e politica nel “Defensor pacis”,

Napoli, 1995, specialmente p 59 e ss. A noi pare che la pars valentior, più che costituire un

riferimento alla figura del filosofo re di Platone, anticipi con precisione letterale l’idea di

maggioranza nel ruolo che acquista all’interno del meccanismo di Rousseau, scolpita nella

lapidaria affermazione “la volontà della maggioranza è sempre retta”, giungendo

addirittura fino al meccanismo di autosuggestione del Ginevrino, che smaschera la vera

portata della democrazia, paludamento per imporre una volontà particolare come la

volontà di tutti. Infatti, afferma chiaramente Marsilio, alla fine del paragrafo 6 del capitolo

XII, indipendentemente dal suo contenuto, una certa legge sarà sopportata di malavoglia

dalla maggioranza del popolo che non vi ha concorso alla formazione. Al contrario, la

legge fatta “con l’ascolto di tutta la moltitudine, anche se meno utile, sarebbe osservata e

sostenuta da ogni cittadino” e avrebbe maggior probabilità di successo. Si potrebbe

chiosare, tessendo un ulteriore filo con l’autore del Contract Social, che ogni popolo ha il

governo che si merita.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

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che la legge debba essere il prodotto della volontà generale, anche se di

questo termine si danno diverse interpretazioni (per Sieyès ad esempio è

la volontà dell'assemblea, vedi infra nel testo). Ed ecco l'ultimo passaggio

logico su cui si regge Talleyrand: se la volontà generale così come

rappresentata, diventa legge, la sovranità dipende dalla rappresentanza. A

questo proposito Leibholz manifesta delle perplessità. “Non si deve

comunque stabilire una connessione necessaria tra sovranità popolare e

sistema rappresentativo. Tuttavia questo accade, tale errore risale -almeno

per quanto riguarda l'Europa continentale- al legame, storicamente

casuale, tra la sovranità popolare ed il sistema rappresentativo, stabilito

nella costituzione francese del 1791. (...) In realtà il sistema

rappresentativo può accostarsi senza difficoltà sia ad una democrazia che

proclama il principio della sovranità popolare sia, viceversa, ad una

costituzione che rifiuta questo dogma, come ad esempio la monarchia

costituzionale limitata.”187

In realtà i protagonisti del dibattito che stiamo

esaminando si trovavano in un regime ben più stretto della monarchia

costituzionale limitata: Luigi XVI era pur sempre monarca assoluto. Ciò

non impediva di considerare sovrano chi produce le leggi e per la maggior

parte della Assemblea nazionale questo è il popolo rappresentato. Tutto

ciò appare chiaro dai cahiers; esempio ne è quello della Nobiltà di

Ponthieu: “La nation représentée par ses députés propose les lois”;188

quello di Presles en Brie: “Que le pouvoir législatif appartient à la nation,

pour être exercé avec le concours de l'autorité royale. Qu'aucune loi ne

puisse, en conséquence, être promulguée qu'après avoir être consentie par

la nation représentée par les états généraux.”189

Il cahier di Meudan: “La

loi n'étant que l'expression de la volonté générale, la puissance législative

réside pleinement, entièrement et uniquement dans la nation.”190

Meno

incisivo perché più pratico, ma non meno chiaro, risulta il primo cahier di

Pontin: “Que la volonté générale d'un nation formant et pouvant seule

former la loi, le pouvoir législatif en entier, soit en matière d’emprunté,

187 Cfr. G. LEIBHOLZ, Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der

Demokratie in 20. Jahrhundert, 3° ed., Berlin, 1966 (ma la prima edizione, sotto titolo

diverso è del 1929), trad. it. Milano, 1989, p.133.

188 Archives parlamentaires (in seguito: A.P.), vol. V, p.431.

189 Cfr. A.P. vol V, p.43.

190 Cfr. A.P. vol IV, p.705.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

137

soit en matière d'impôts, soit en toute autre matière, appartenant, par

conséquent, à la nation seule, à l'avenir aucune acte public ne pourra et ne

sera réputé loi, ni en acquérir le caractère s'il n'est émané de la volonté des

Etats Généraux ou consentis par eux, avant que d'être revêtu du sceau et

de l'autorité royale.”191

A questo punto occorre richiamare l’attenzione perché, come

vedremo, anche Sieyès sembrerà basarsi sull'assunto che sostiene

Talleyrand, tuttavia con una variante fondamentale: se la volontà generale

così come rappresentata diventa legge, la sovranità dipende (non più dalla

rappresentanza, ma) dal rappresentante.

Possiamo tentare di riassumere la posizione di Talleyrand. Se la

legge è la voce della volontà generale e poiché questa per necessità

pratiche deve essere rappresentata, occorre che il sistema rappresentativo

la renda quanto più fedelmente possibile. Questa è anche la premessa di

Rousseau. Ma a differenza del Ginevrino, Talleyrand si accorge che trarne

la conseguenza della necessità del mandato imperativo implica la paralisi

dell'assemblea in balia di veti spaventosi che impediscono la stessa

discussione poiché si consacrerebbe implicitamente la divisione in tanti

Stati quanti sono i collegi elettorali: se infatti questi potessero inviare dei

messi con delle consegne non negoziabili, sarebbero degli Stati sovrani,

secondo l'idea di legge che abbiamo visto supra. Ugualmente, con Sieyès,

se non potessero indicare i loro intendimenti ai propri rappresentanti

questi agirebbero di propria iniziativa e poiché manca il termine di

paragone della volontà dei rappresentati, gli eletti comunque sarebbero

irresponsabili del proprio operato. Occorre dunque che la nazione faccia

conoscere tramite i suoi rappresentanti le proprie esigenze, ma che queste

non impediscano la discussione e la formazione della volontà generale.

Tutto ciò sostiene la distinzione tra mandato imperativo e limitativo. Se il

primo non è ammissibile, il secondo è necessario per ridurre la

discrezionalità del deputato e per sindacarne l'operato. Ma come si misura

la responsabilità dei rappresentanti? Ancora una volta ci soccorre la

correlazione sovranità192

- legge - volontà generale. Se con il mandato

imperativo si chiedeva al mandatario di difendere strenuamente le

191 cfr. A.P. vol IV, p.784.

192 Il rapporto -se rapporto può darsi- tra sovranità e rappresentanza sarà esaminato

dopo, così come la distinzione tra sovranità e Herrschaft, già per altro anticipata alla nota

107.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

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posizioni particolari, con quello limitativo si chiede al rappresentante di

far concorrere le necessità dei mandanti alla formazione della volontà

generale. Se nel primo caso il mandatario era responsabile

dell'imposizione del particolare, talché non gli venivano nemmeno

rimborsate le spese se non aveva adempiuto correttamente al suo incarico,

col secondo il rappresentante è responsabile di non aver fatto concorrere

le esigenze di una parte della Francia alla formazione della volontà

generale. La distinzione tra mandato limitativo e mandato imperativo non

è quindi meramente formale ed irrilevante come è stato autorevolmente

sostenuto da Loewenstein.193

Basti pensare che solo nel secondo caso la

volontà comune, oltre che rappresentata, sarà anche veramente

rappresentativa. Il mandato imperativo svolge una funzione di

manifestazione di volontà finalizzata all'imposizione, quello limitativo, al

contrario, è una funzione di conoscenza per deliberare, a sua volta

differente dalla funzione di conoscenza mera, propria degli Stati Generali

prima del giuramento della Pallacorda. Talleyrand non nasconde le

difficoltà del giudizio di responsabilità da mandato limitativo, ma non lo

ritiene impossibile.

Analogo aspetto a questo collegato è la nullità del mandato nei

confronti dell'Assemblea, ma valido nei confronti dei deputati. Tale

questione esula dall'economia di questo lavoro. Qui vale solo la pena di

precisare che contrariamente a quanto può sembrare, Talleyrand non

intende annullare i mandati imperativi in Assemblea nazionale, bensì

renderli inefficaci di fronte all'Assemblea nazionale stessa, che li

considererà semplici istruzioni, ma ciò nondimeno i rappresentanti ne

saranno legati verso i loro committenti: “È una questione di principio

dalla quale non deflettere”. Se una considerazione si può fare a questo

proposito non è tanto che Talleyrand si muove ancora in un'ottica

civilistica194

o di "acting for" secondo le categorie esaminate sopra, dovute

all’elaborazione di Hanna Pitkin,195

-ammesso che la tradizionale

contrapposizione tra mandato di diritto privato e pubblico sia proficua-,

quanto che la responsabilità dei rappresentanti verso i rappresentati

193 Cfr. K. LOEWENSTEIN, Volk und Parlament cit., p. 193 sgg.

194 Cfr. P. VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, 1981, p. 148.

195 Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of Representation cit., p. 38 e sgg; 112 e sgg.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

139

sopravanza (a dispetto di Sieyès) il mutamento costituzionale del 17

giugno. Anzi è l'unico modo di giustificarlo.

Alla luce del ragionamento di Talleyrand, l'interpretazione dell'art.7

sez. III tit. III, della Costituzione del 3 settembre 1791 deve essere

combinato con quello dell'art. 6 della dichiarazione dei diritti dell'uomo e

del cittadino del 26 agosto 1789, successivamente parte integrante della

Costituzione del 1791. Entrambi sono opera di Talleyrand e vi si

riconosce il suo pensiero esposto in premessa e conseguenza. La prima

parte dell'art. 6 recita: “La loi est l'expression de la volonté générale. Tous

les citoyens ont droit de concourir personnellement, ou par leurs

représentants, à sa formation.” Si tratta della manifestazione in nuce di

quella correlazione legge - volontà generale - rappresentanza che sopra

abbiamo visto risultare da numerosi cahiers ed essere propria

dell'Assemblea nazionale. L'articolo 7 della Costituzione ne è attuazione

pratica: “Les représentants nommés dans les départements, ne seront pas

représentants d'un département particulier, mais de la Nation entière, et il

ne pourra leur être donné aucun mandat”. Si noti come i rappresentanti, e

non i deputati, siano nominati dans les départements, non par. Potremmo

allora esplicitare il testo così: “Les représentants nommés par la Nation,

dans les départements, ne seront pas représentants d'un département

particulier, mais de la Nation entière, et il ne pourra leur être donné aucun

mandat impératif.” Nella lettura del testo occorre tener presente il

significato di représentants e di mandat quali risultano dal dibattito.

Le ostilità della Nobiltà a questa mozione che consacra

definitivamente la fine di un sistema plurisecolare, è manifestata dal

cardinale de La Rochefoucauld. Ma a dispetto delle sue proteste Gualtier

de Biauzat è ancora più radicale di Talleyrand. Argomentando dal

giuramento che i deputati dovevano pronunciare all'atto di consegna dei

cahiers, “io prometto e giuro davanti a Dio, sui santi Evangeli, di dire

tutto ciò che penserò in coscienza essere l'onore di Dio, il bene della

Chiesa, il servizio del re e il riposo dello Stato”,196

egli ritiene superfluo

ricorrere ai mandanti e propone il seguente emendamento: “Senza che vi

sia bisogno che i deputati ricorrano ai loro committenti, l'Assemblea

nazionale autorizza tutti i suoi membri ed ingiunge loro di opinare nella

loro anima e coscienza, salvo a conformarsi nei casi particolari che

196 Citato in A. SAITTA, Costituenti e Costituzioni nella Francia rivoluzionaria e

liberale, Milano, Giuffrè, 1975, p.23.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

140

interessano la loro provincia”.197

La mozione trova favorevole anche

Lally-Tollendal, il quale però propone che venga concesso ai deputati un

breve intervallo per dare il tempo “di avere nuovi poteri a coloro che sono

portatori di mandati imperativi”. Ma questa “condiscendenza volontaria e

patriottica” non può influire sull'interessante concetto di sovranità che lo

stesso Lally-Tollendal ha premesso al suo emendamento: “La

souveraineté ne réside que dans le tout réuni; je dis le tout parce que le

droit législatif n'appartient pas à la partie du tout; je dis réuni, parce que la

nation ne peut exercer le pouvoir législatif lorsqu'elle est divisée et elle ne

peut alors délibérer en commun.”198

L'Assemblea sembra d'accordo; nel verbale a questo punto si legge:

“parecchi membri dei tre ordini appoggiano la mozione del sig. vescovo

d'Autun, o l'emendamento del sig. Lally-Tollendal.”.199

Di altro tenore il successivo intervento di Barrère de Vieuzac.

Questi, forzando la posizione di Charles-Maurice, introduce la pericolosa

distinzione tra rappresentanza di diritto privato e rappresentanza di diritto

pubblico, ponendo il caso in cui dei privati diano mandato ad altri privati

su materia di loro stretto interesse; e il caso in cui assemblee parziali

diano ai deputati poteri che vanno esercitati in un assemblea generale.

Mentre nel primo caso i committenti possono a buon diritto essere ritenuti

legislatori del mandato che pongono, nel secondo caso ciò non può essere,

poiché, l'Assemblea è chiamata ad occuparsi non soltanto di interessi

particolari, ma di un interesse generale, che è comunque da ritenersi

superiore, anche se non si dice da chi derivi, aprendo così la strada

all'autocrazia. Continua Barrère “ora nessun committente può essere

legislatore in materia di interesse pubblico. Il potere legislativo origina nel

momento in cui l'Assemblea generale è costituita. (...) Se si fosse

ammesso il sistema dei mandati imperativi e limitativi, si sarebbero

impedite le risoluzioni dell'Assemblea riconoscendo un veto spaventoso a

ciascuno dei 177 bagliaggi del regno...”.200

Per queste ragioni Barrère

197 Ivi p.24

198 A.P., serie I, vol.VIII p.204. Sull'esprit che deve sempre trasparire nella

conversazione del XVIII secolo cfr. B.GROETHUYSEN, Philosophie de la Révolution

française, Paris, Gallimard, 1956, p.96

199 Ivi.

200 Ivi.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

141

appoggia la mozione del vescovo d'Autun, ma respinge la dichiarazione

che prevede l'annullamento di detti mandati da parte dei committenti. Per

Barrère gli elettori non esprimono volontà; tocca semmai al potere

costituito, divenuto legislatore, rimediare agli "abusi" del pouvoir

constituant.

L'intervento è stato messo in evidenza per la sottolineatura della

preminenza del potere costituito su quello costituente che serve a bloccare

ogni interferenza extraistituzionale, una volta che il sistema

rappresentativo si è consolidato.201

Chi appare molto soddisfatto del livello della discussione è

Duquesnoy che però nel suo Journal lamenta come il dibattito non abbia

centrato quello che a suo avviso è il solo punto importante. Tutto ciò è già

stato superato, grazie a Sieyès, colla Dichiarazione del 17 giugno laddove

si afferma che il 96% della nazione non può rimanere inattivo per

l'assenza dei deputati di qualche bagliaggio o di qualche classe di cittadini,

dal momento che “les absents que ont été appelles né peuvent point

empêcher les présents d'exercer la plénitude de leurs droits, qui est un

devoir impérieux et pressant”.202

Se l'Assemblea, pur senza la

partecipazione di parte della Nobiltà e del Clero, non ha esitato a

proclamare Nazione il Terzo stato, perché si dovrebbero attendere i

rappresentanti di questi ordini ormai "extranazionali"? In base a questa

argomentazione il giovane deputato non accetta l'argomentazione di

Talleyrand che, a suo dire, “fa ciò che noi non abbiamo il diritto di fare,

che ci impegna in una questione infinitamente delicata e pericolosa e che,

qualunque ne sia il risultato, non potrà mai aumentare i poteri di cui siamo

investiti”.203

A questo punto la maggior parte dei deputati è confusa ed incerta

circa il proprio ruolo e la propria veste, ma è in serata che i membri della

"maggioranza della Nobiltà", cioè quelli non ancora confluiti in

Assemblea, dichiarano come massime inviolabili della costituzione del

201 L'osservazione è di P. VIOLANTE, Lo spazio, cit., p. 150; ma vedi già al

proposito: R. de la GRASSERIE, Les principes sociologiques du droit public, Paris, 1911, p.

50 ss.

202 R. DE CRÈVECOEUR (a cura di), Journal d’Adrien Duquesnoy député du Tiers

Etat de Bar-le-Duc sul l’Assemblée Constituante, 3 Mai 1789 – 3 Avril 1790, 2 voll., Paris,

1894, vol 1, p. 169.

203 R. DE CRÈVECOEUR (a cura di), Journal cit, p. 171.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

142

regno la distinzione degli ordini, l'indipendenza degli stessi, il voto par

ordre e la necessità della sanzione reale sulle leggi.

Il giorno successivo, 8 luglio 1789, si riapre la discussione su una

mozione presentata dal presidente dell'Assemblea, l'arcivescovo di

Vienne. Il verbale di questa seduta è assai confuso: si accavallano mozioni

diverse, l'ultima delle quali è quella di Champion de Cicé, arcivescovo di

Bordeaux: “l'Assemblea nazionale dichiara che nessun mandato

imperativo può in alcun caso, fermare e sospendere l'attività

dell'Assemblea, ancor meno assicurare la volontà di qualche bagliaggio

contro la maggioranza degli altri bagliaggi; salvo il diritto per i latori di

questi diritti di prendere le misure che giudicheranno convenienti per far

riformare tali mandati e che essi non saranno ammessi in Assemblea, a

meno che essi non si sottomettano in anticipo alla maggioranza dei

suffragi”.204

Allora, si legge nel verbale, “s'innalza un rumore generale

nell'Assemblea. Un deputato nobile chiede la parola. Egli osserva che

ammettendo la mozione di Monsigneur l'évêque d'Autun si annulla per

sempre la distinzione tra gli ordini. Si diffonde poi sui diritti, sull'utilità,

sul vantaggio di questa divisione. M. de Clermont-Tonnere risponde che

questa mozione non costituisce alcun attentato alla divisione

costituzionale degli ordini”.205

Sieyès interviene per ripetere che non si

deve votare; altri insistono per la votazione. Mirabeau aiuta ancora una

volta Sieyès, proponendo che prima si decida se votare o no.

Con questo escamotage l'Abate rinforza i risultati conseguiti il 17

giugno nel giuramento della Pallacorda: per il giuramento prestato in

quell'occasione, viene a cadere ogni fondamento della questione: è

importante che nemmeno si voti, perché è un implicito riconoscimento del

mutamento costituzionale intervenuto.206

Come si è visto, Duquesnoy fa

propria questa posizione.

L'Abate usa qui gli stessi numeri che hanno portato all'Assemblea

nazionale, gli stessi argomenti che aveva pubblicato il 17 gennaio del

1789 nel famoso pamphlet "Qu'est-ce que le Tiers-Etat?" Per appurare che

cosa sia e che ruolo abbia il Terzo stato, occorre individuare gli elementi

che rendono tale una nazione. La provocazione è nella prima pagina: “Che

204 A. SAITTA, Costituenti, cit., p.24

205 Ivi.

206 A.P. s.I, vol VIII, p.207.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

143

cosa occorre perché una nazione viva e prosperi? Lavori privati e

pubbliche funzioni”.207

Quanto ai primi, sono completamente sostenuti dal

Terzo stato. Le seconde lo sono per i diciannove ventesimi: “Chi dunque

oserebbe dire che il Terzo stato non ha in sé tutto ciò che occorre per

formare una nazione completa?”

Ma non basta, il Terzo stato è anche la maggioranza numerica:

“Cosa sono duecentomila privilegiati rispetto a venticinque o ventisei

milioni di persone?” Tuttavia proprio per mascherare gli argomenti

statistici che, si vedrà, sono gli unici ad interessargli, Sieyès colloca le

nozioni di Egalité e di Nation come chiavi ermeneutiche del suo

discorso208

“Che cos'è una nazione? Un corpo di associati che vive sotto una

legge comune ed è rappresentato da uno stato legislativo. Poiché ha

privilegi, dispense, persino diritti separati dai diritti del corpo generale dei

cittadini, l'ordine nobiliare esce dall'ordine e dalle leggi comuni. I suoi

diritti ne fanno già un popolo separato nella grande nazione. È un vero

Imperium in Imperio. Esso esercita a parte anche i propri diritti politici ed

ha propri rappresentanti che non ricevono nessuna procura dal popolo. Il

corpo dei suoi deputati siede a parte; e quand'anche si riunisse in una

stessa aula con i deputati dei semplici cittadini, non è men vero che la sua

rappresentanza rimarrebbe essenzialmente distinta e a sé stante: è estranea

alla nazione sia per il suo fondamento, in quanto il suo mandato non viene

dal popolo, sia per il suo oggetto che consiste nel difendere non l'interesse

generale, ma l'interesse particolare. Il Terzo dunque comprende tutto ciò

che appartiene alla nazione; e tutto ciò che non è il Terzo non può essere

207 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione

critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 121, da cui citiamo anche in seguito. Da

segnalarsi anche l'edizione curata da E. SCHMITT e R. REICHARDT, E.J. SIEYÈS, Politische

Schriften 1788-1790, Darmstadt, 1975, con un utile glossario e bibliografia critica

sull'Autore. Sul pensiero generale di Sieyès resta fondamentale P. BASTID, Sieyès et sà

pensée, Paris, 1939. Più recentemente, oltre ai contributi citati in prosieguo, e pluribus, cfr.

M. BARBERIS, L'ombra dello Stato. Sieyès e le origini rivoluzionarie dell'idea di nazione,

in "Il Politico", 1991, p. 509 e ss.; L. CEDRONI, Il problema della rappresentanza politica

in E. J. Sieyès (1789-1799), in C. Carini (a cura di), La rappresentanza tra due rivoluzioni

(1789 – 1848), Firenze, 1991, p. 25 – 38, nonché IDEM, Il lessico della rappresentanza

politica, Soveria Mannelli (CZ), 1996.

208 Per la distinzione interessante tra assemblea rappresentativa e assemblea

deliberativa, cfr: C.J. FRIEDERICH, Governo costituzionale e democrazia, Boston, 1950,

trad. it. di Mario Grego, s.n.t. (ma Vicenza), specialmente p. 426 sgg. e 465 sgg.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

144

considerato parte della nazione. Che cos'è il Terzo stato? Tutto.” Ma

anche “è preesistente a tutto, è l'origine di tutto.” La struttura della

nazione è nell'unità della molteplicità. Infatti nella formazione delle

società politiche, secondo Sieyès, il principio è dato dal jeu delle volontà

individuali che si uniscono, poiché “il potere appartiene alla comunità e

risiede soltanto nell'insieme.” Ma in tanto le volontà particolari potranno

riunirsi, divenire nazione, avere il potere, in quanto siano eguali, al modo

originario dello “stato di natura”. Il particolarismo impedisce il processo

ed è per questo che i “duecentomila privilegiati” devono essere cancellati.

Ciò che non è eguale non è originario, è falso, non è numerabile, quindi

deve essere respinto. Tutto ciò, ovviamente, muovendo dal mito

dell'uguaglianza unitaria originale.

“Ma saltiamo le fasi intermedie - continua Sieyès - e veniamo al

punto. Gli associati sono troppo numerosi e sparsi su un territorio troppo

esteso per poter esprimere essi stessi la propria volontà comune. Essi

allora determinano quanto è necessario per vegliare e provvedere alle

pubbliche cure, affidano l'esercizio di questa parte della volontà nazionale,

e quindi del potere, ad alcuni di loro. È questa l'origine di un governo

esercitato per procura (...). La terza epoca è distinguibile dalla seconda in

quanto non agisce più la reale volontà comune, ma una volontà comune

rappresentativa”. O pretesa tale. Il suo prodotto è la legge cui è riservata

un'immagine giustamente famosa: “La legge è paragonabile al centro di

una sfera immensa, sulla cui superficie tutti i cittadini, senza alcuna

eccezione, occupano delle posizioni eguali, equidistanti dal centro; tutti

dipendono in modo eguale dalla legge, tutti le affidano da proteggere la

loro libertà e la loro proprietà”. Eguaglianza ed equidistanza dunque. Non

è difficile sentire tra le righe “questa voce celeste che detta a ciascun

cittadino il precetti della ragione pubblica, e gli insegna ad agire secondo

le massime del suo giudizio, e a non essere in contraddizione con se

stesso”, secondo la laudatio che ne aveva fatto Rousseau nel Discours sur

l’économie politique del 1775. Non è errato, forse, vedere qui l’inizio

della dimensione sacrale della legge, strumento di eguaglianza, dal quale

ci si aspettano i miracoli che non si chiedono al cielo, con una fiducia

intatta non ostanti i risultati spesso deludenti dell’intervento normativo.

Intanto il problema dice Sieyès, resta “sapere che cosa va inteso per

costituzione politica di una società e di delineare i suoi giusti rapporti con

la nazione (...) Non si può creare un corpo per un certo scopo senza

organizzarlo, senza dargli delle forme e delle leggi idonee a fargli

svolgere le funzioni a cui lo si è voluto destinare; ciò viene definito come

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

145

la costituzione di questo corpo”. La costituzione che nasce in questa

seconda fase riguarda soltanto il governo. “Sarebbe ridicolo supporre la

nazione vincolata anch'essa dalle modalità e dalla Costituzione cui ha

assoggettato i propri mandatari. Se per divenire nazione le fosse stata

necessaria una forma positiva essa non sarebbe mai divenuta tale. Il

governo invece può appartenere soltanto al diritto positivo. La nazione è

tutto ciò che è in grado di essere per il solo fatto di esistere”. Poco prima

si legge “In ogni sua parte la Costituzione non è opera del potere costituito

ma di quello costituente”. Si vede che per Sieyès questa nuova figura, il

pouvoir constituant, è l'immagine secolarizzata della nazione. Grazie ad

essa il meccanismo dell'Abate prende vita: “A chi dunque spetta decidere?

Alla nazione, indipendentemente, come sempre da ogni forma positiva.

Quand'anche la nazione avesse regolari Stati Generali non spetterebbe a

questo corpo costituito pronunciarsi su un contrasto che concerne la

propria costituzione. Eventuali rappresentanti straordinari avranno un

potere nuovo e diverso nella misura in cui la nazione lo vorrà. Poiché una

grande nazione non può realmente riunirsi ogni volta che delle circostanze

straordinarie lo richiedessero, essa deve affidare a dei rappresentanti

straordinari i poteri necessari in tali occasioni. Se essa potesse unirsi

davanti a voi ed esprimere la sua volontà, osereste contestarla perché la

esercita in una forma piuttosto che in un'altra? Qui la realtà è tutto e la

formula è nulla. Un corpo di rappresentanti nazionali supplisce

l'assemblea di questa nazione. Senza dubbio esso non ha bisogno di essere

investito dell'intera volontà nazionale; gli occorre solo un potere speciale,

e in rari casi, ma esso rimpiazza la nazione nella sua indipendenza da ogni

forma costituzionale”.209

Sembrerebbe un colpo di Stato. Ma dov'è la

209 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione

critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 185, con corsivi nel testo. In questo punto la

struttura rappresentativa non è stata ancora minata. La rappresentanza nazionale non è di

per sé stessa in antitesi con la struttura dualistica della rappresentanza, lo diviene

solamente nella parte in cui la nazione non ha altra rilevanza diversa da quella del proprio

rappresentante. In questo momento l’Abate afferma ancora che la nazione stia nelle

quarantamila parrocchie del regno, ma non tarderà a muovere dalle difficoltà di riunire la

nazione per dichiarare che la nazione non può avere altra voce che quella dell’Assemblea

nazionale. Il sofisma si annida, dunque, ancora una volta nella distinzione tra nazione e

Nazione, secondo quel gioco della fabbrica di maiuscole già denunciato da Cochin, come

si è visto al § che precede. Pur facendovi leva e dovendovi in gran parte la propria fortuna,

Sieyès tenta di imbavagliare l’opinione pubblica, dopo averla sobillata, non avendone

compreso l’intima portata distruttiva. Sul punto cfr. J. HABERMAS, Strukturwandel der

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

146

nazione? Sta nelle quarantamila parrocchie che abbracciano il territorio

nazionale, tutta la popolazione e tutti i contribuenti della cosa pubblica; è

da questo punto che il processo si svela: “Una società politica non può

essere formata che dall'insieme degli associati. Una nazione non può

decidere che essa non sarà una nazione, né che lo sarà in un determinato

modo: ciò equivarrebbe a dire che in altre forme essa non lo potrebbe

essere (...). Una nazione non ha mai potuto statuire che i diritti inerenti

alla volontà comune, cioè della maggioranza, passassero alla minoranza”.

Cerchiamo di riassumerei passaggi logici dissimulati tra le piroette

disinvolte dell’inebriante Abate. La volontà generale che era stata tradotta

in volontà comune adesso si svela come volontà della maggioranza. La

maggioranza è il Terzo stato, la sua volontà è la nazione, è il pouvoir

constituant: “I veri depositari della volontà nazionale sono i rappresentanti

del Terzo. Essi possono a giusto titolo parlare a nome dell'intera nazione”.

Questo perché gli associati sono troppo numerosi e sparsi su un territorio

troppo esteso per poter esprimere agevolmente essi stessi la loro volontà

comune. Nella decisione dell'Assemblea dunque, si mostra la volontà

nazionale, che è la volontà della maggioranza, che è la volontà dei

rappresentanti del Terzo. Abbiamo già anticipato l'ultima astrazione di

questo progetto di generalizzazione: il centro della sfera. La legge è il

prodotto della volontà generale, che è la volontà della maggioranza, cioè

dei rappresentanti della nazione, che, come si è detto, è l'aggregazione dei

singoli uguali, c'est à dire il Terzo stato. Quindi l'Assemblea rappresenta

la nazione, perciò i suoi membri non possono essere legati (e quindi

responsabili) alle istruzioni dei singoli.

L'unità della costruzione si manifesta anche nell'attività

assembleare. “È impossibile pensare ad un'assemblea legittima che non

abbia per oggetto la sicurezza comune, la libertà comune ed infine la cosa

pubblica. Naturalmente, ogni privato cittadino si propone, oltre a questi,

propri fini particolari. Egli si dice: nell'ambito della sicurezza comune io

potrò dedicarmi ai miei progetti personali e perseguire la mia felicità

secondo la mia volontà, sicuro di avere come unici limiti legali quelli che

la società mi prescriverà in nome di quell'interesse comune, al quale il mio

interesse particolare è così utilmente unito... Ecco dunque qual è l'oggetto

dell'assemblea: gli affari comuni.” In base a questi princìpi l'Abate

presenta la sua mozione: “Juge digne de sa sollicitude générale d'intenter

Öffentlichkeit, Neuwied, 1962, con tr. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari,

1971.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

147

les bailliages à rendre à leur députés la liberté nécessaire à de vrais

représentants de la nation. Au surplus, l'Assemblée déclare que la nation

française étant toujours tout entière légitiment représentée par la pluralité

de ses députés, ni les mandats impératifs, ni l'absence volontaire de

quelques membres, ni des protestations de la minorité ne peuvent jamais

ni arrêter son activité, ni altérer la liberté, ni atténuer la force de ses status,

ni enfin restreindre les limites des lieux soumis à sa puissance législative,

laquelle s'étend essentiellement sur toutes les parties de la nation et des

possessions françaises.”210

Alla fine della giornata, con settecento voti contro ventotto, passa il

seguente testo: “L'Assemblea nazionale, considerando i suoi principi

come fissati a questo riguardo, e considerando che la sua attività non può

essere sospesa o la forza dei suoi decreti indebolita dalle proteste o

dall'assenza di alcuni rappresentanti, dichiara che non vi è luogo a

deliberare”.211

Anche se respinta, tuttavia la sola presentazione della sua

210 A.P. s.I vol. VIII, p.207. Si noti ancora la correlazione tra puissance législative

e souveraineté. Sul problema di sovranità e forme d'État nella giuspubblicistica francese a

cavallo del secolo, cfr: P. ESMEIN, Élements de droit constitutionnel française et comparé,

V° ed., Paris, 1909, p. 243 ss. Giustamente osserva J. ROELS, Le concept de représentation

politique au XVIII siècle, Louvain-Paris, 1969, p. 94 (ripreso anche da Violante, Lo Spazio

cit. p. 72): “L'Assemblea ha nella Nazione il ruolo di un corpo unificante, creatore di

volontà. È essa che capta, per tradurla in decisione, una Volontà nazionale, la cui sede non

è da nessuna parte”.

Più di recentemente così sintetizza la posizione di Sieyès Hans Otto FREITAG

(Praktische philosophie, Staatslehre, Staatsrecht und die Theorie des

Gesellschaftsvertages beim Abbé de Sieyès, in "Rechtstheorie", XXIII, 1992, p. 78):

“Privilegien und sonstige Sonderrechte sind mit seiner Vorstellung des

Souveränitätsgedankens unvereinbar. Man kann wohl sagen, daß der unmittelbar

praktische Bezug der Lehren des Sieyès für die französische Revolution einen

Bedeutungsvollen neuen Ansatz geliefert hat, der der Theorie des Gesellschaftsvertrages

über die Trennung des pouvoir constituant und des pouvoir constitué hinaus

verfassungsrechtlich fortdauernde Bedeutung gegeben und das Souveränitätsprinzip,

gedacht ebenfalls als Ausfluß des Gesellschaftsvertrages, in die Rechtswirklichkeit

umgesetzt hat. Sieyès erreicht überdies eine Synthese des Prinzips der Volkssouveränität

mit dem Grundsatz der Gewaltenteilung, auch wenn er den Gedanken der Gewaltenteilung

bei der Behandlung des Gesellschaftsvertrages vordringlich nicht verfolgt”. Sul punto

specifico cfr. E. ZWEIG, Die Lehre vom Pouvir Constituant. Ein Beitrag zum Staatsrecht

der französischen Revolution, Tübingen, 1909, p. 117.

211 Ivi. Sul punto cfr. anche C. LARRÈRE, Le gouvernement représentatif dans la

pensée de Sieyès, in C. CARINI, (a cura di), Dottrine e istituzioni della rappresentanza,

Firenze, 1990, p. 37, nonché C. CARINI (a cura di), La rappresentanza nelle istituzioni e

nelle dottrine politiche, Firenze, 1986.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

148

mozione assicura a Talleyrand l'elezione a primo degli otto membri del

comitato per la costituzione.

Non ci si pronuncia dunque formalmente come Talleyrand chiedeva

ammonendo che i mandati limitativi sarebbero cresciuti una volta stabilita

la Costituzione. Così la questione del mandato imperativo si ripresenterà

nel dibattito sulla sanzione reale alle leggi tra la fine di agosto e i primi di

settembre del 1789. Infatti, discutendosi sul fondamento della sanzione

reale, il deputato della borghesia di Nancy-Salle deduce da Rousseau la

necessità del mandato imperativo, se non altro limitatamente agli articoli

costituzionali, contro l'opposta opinione di Mounier: “Il signor Mounier

non vuole che la nazione abbia una volontà; io non so in che il signor

Mounier faccia consistere la sovranità nazionale”.212

Al momento della formazione della Costituzione ci si chiede quale

deve essere la natura dei legami tra collegi elettorali e loro eletti. E più

precisamente quanto gli elettori possano influire sulle volontà che saranno

espresse in seno all'Assemblea dai loro eletti. Infatti dall’ampiezza del

mandato varia l'idea di rappresentanza e la natura stessa del governo

rappresentativo. Il primo a prendere la parola è Pétion de Villeneuve nella

seduta del 5 settembre 1789: “Les membres du Corps législatif sont des

mandataires; les citoyens qui les ont choisis, sont des commettants; donc,

ces représentants sont assujettis à la volonté de ceux de qui ils tiennent

leur mission et leurs pouvoirs. Nous ne voyons aucune différence entre

ces mandataires et les mandataires ordinaires: les uns et les autres agissent

au même titre, ils ont les mêmes obligations et les mêmes devoirs. Tous

les individus qui composent l'association, ont le droit inaliénable de

concourir à la formation de la loi; et si chacun pouvait faire entendre sa

volonté particulière, la réunion de toutes ces volontés formerait

véritablement la volonté générale: ce serait le dernier degré de perfection

politique. Nul ne peut être privé de ce droit, sous aucun prétexte.

Pourquoi les peuples se choisissent-ils des représentants? C'est que la

difficulté d'agir par eux-mêmes est presque toujours insurmontable. Car, si

ces grands corps pouvaient être constitués de manière à se mouvoir

facilement, des délégués seraient inutiles; je dis plus, ils seraient

dangereux”.213

L'intervento di Pétion è sostenuto dall'idea che la sovranità

212 Cfr. A. SAITTA, Costituenti e costituzioni, cit, p. 25.

213 A.P. s.I vol.VIII p.581 e ss. nostro il grassetto. Palese l’assonanza con

l’argomentazione di Burke nel noto Speech agli elettori di Bristol, che dipingeva il

Parlamento di Westminster non come un congresso di ambasciatori, una riunione di

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

149

appartenga a ciascuno dei cittadini. È una premessa rousseauiana214

e tale

risulta sostanzialmente la conclusione: una forma di governo popolare

tramite mandato imperativo, il miglior surrogato all'ottima democrazia

diretta, di impossibile attuazione pratica. Qui val solo la pena di notare la

differenza dell'intervento di Pétion in difesa del mandato imperativo, da

quelli di due mesi prima. La prospettiva è completamente mutata. A luglio

la Nobiltà e l'alto Clero sostengono il vincolo di mandato per difendere la

divisione degli ordini e il frazionamento del Terzo, in sostanza i privilegi

della tradizione. A settembre invece si anticipano già chiaramente

posizioni radicali proprie della Convenzione. In mezzo naviga Sieyès.

Proprio lui si incarica di confutare la tesi di Pétion richiamando

l'Assemblea a quanto già deciso: “Je sais qu'à force de distinctions et de

confusion, on est parvenu à considérer le vœu national comme s'il pouvait

être autre chose que le vœu des représentants de la nation, comme si la

nation pouvait parler autrement que par ses représentants. Ici, les faux

principes deviennent extrêmement dangereux. Ils ne vont à rien moins

qu'à morceler, qu'à déchirer la France en une infinité de petites

démocraties, qui ne s'uniraient ensuite que par les liens d'une

confédération générale ... La France n'est point une collection d’Etats; elle

est un tout unique, composé de parties intégrantes; ces parties ne doivent

point avoir séparément une existence complète, parce qu'elles ne sont

point des tout simplement unis, mais des parties ne formant qu'un seul

tout”.215

La sovranità è nell'unità; i rappresentanti sono della nazione, non

mandatari l’uno contrapposto all’altro, quanto piuttosto come un corpo deliberativo di

un’unica Nazione, guidato dal bene e dalle ragioni dell’intero. Sui debiti teorici di Burke

nei confronti di Robert Walpole, il citato saggio di B. ACCARINO, Rappresentanza,

Bologna, 1999, p. 82, nota 34, ci rinvia al contributo di I. KRAMNICK, An Augustan

Debate: Notes on the History of Representation, in J.R. PENNOCK – J.W. CHAPMANN (a

cura di), Representation, New York, 1968, p. 83-91, che richiama anche come fonte

possibile del pensiero di Burke il saggio di D. HUME, On the First Principles of

Government, nella trad. it. Saggi e trattati morali letterari politici e economici, a cura di

M. Dal Prà e E. Ronchetti, Torino, 1974, p. 207-213.

214 Recentemente cfr. F. MAZZANTI PEPE, Mably: per una democrazia a misura

d'uomo, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", a. XXIII, 1993, n. 1, che con

un'attenta analisi sul pensiero dell'abate Mably circa la democrazia, chiarisce lo spazio in

cui si muovono questi oratori sulla cui formazione cfr: D. MORNET, Les origines

intellectuelles de la Révolution française, VI ed., Paris, Collin, 1967; B. GROETHUYSEN,

Philosophie, cit.; F. DIAZ, Filosofia politica nel settecento francese, Torino, Einaudi, 1962;

P. GOUBERT, L'ancien régime, 2 voll., Paris, 1973 (tr. it. 1976).

215 A.P. s.I vol.VIII p.583 e ss.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

150

vi può essere volontà nazionale al di fuori di quella dei rappresentanti:

asserire il contrario non solo è falso ma è pericoloso. Poi, l'Abate sembra

avvicinarsi alle posizioni di Talleyrand: “Un député l'est de la nation

entière: tous les citoyens sont ses commettants. Or, puisque, dans une

assemblée bailliagére, vous ne voudriez pas que celui qui vient d'être élu,

se chargeât du vœu du petit nombre contre le vœu de la majorité, à plus

forte raison vous ne devez pas vouloir qu'un député de tous les citoyens du

royaume écoute le vœu des seuls habitants d'un bailliage ou d'une

municipalité contre la volonté de la nation entière. Ainsi, il n'y a, il ne

peut y avoir, pour un député, de mandat impératif, ou même de vœu

positif, que le vœu national”.216

Tutt'a un tratto sembra che i deputati debbano sentire la voce dei

cittadini di tutto il reame. Poi sembra che l'unico vœu sia quello nazionale.

Ma dove lo si rinviene? Proseguiamo. Sieyès esprime un'altra versione

della sua concezione rappresentativa e comincia distinguendo due forme

di governo, che con il tradizionale linguaggio, già di Montesquieu e di

Rousseau, chiama "democrazia" e "governo rappresentativo". “Les

citoyens peuvent donner leur confiance à quelques-uns d'entre eux. C'est

pour l'utilité commune qu'ils se nomment des représentants bien plus

capables qu'eux-mêmes de connaître l'intérêt général et d'interpréter, à cet

égard, leur propre volonté. L'autre manière d'exercer son droit à la

formation de la loi est de concourir soi-même immédiatement à la faire.

Ce concours immédiat est ce qui caractérise la véritable démocratie. Le

concours médiat désigne le gouvernement représentatif. La différence

entre ces deux systèmes politiques est énorme”.217

La Francia non può che

avere il secondo ed il motivo è quello che aveva già indicato

Montesquieu.218

Sieyès lo riprende: “Le choix entre ces deux méthodes de

216 Ivi. A questo proposito L. DUGUIT (Traité de droit constitutionnel, Paris, 1911,

vol. I, p.339) fa notare: “«Mais celui-ci (id est Sieyès) se garde bien de dire qu’il n’y a pas

de mandat; au contraire, il y a un mandat; mais ce mandat, "c’est le vœu national"; si le

député ne peut pas recevoir un mandat de la circonscription qui le nomme, c’est qu’il est le

député de la nation tout entière, et qu'une circonscription qui lui donnerait un mandat

spécial usurperait les droits de la nation seule souveraine de qui seule peut émaner le

mandat”.

217 Ivi.

218 Circa l'influsso di Montesquieu su Sieyès e suoi contemporanei, cfr: L.

ALTHUSSER, Montesquieu, la politique et l'histoire, Paris, 1946, (tr. it. Roma 1969); E.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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faire la loi n'est pas douteux parmi nous. La très grande pluralité de nos

concitoyens n'a, ni assez d'instruction, ni assez de loisirs, pour vouloir

s'occuper directement des lois qui doivent gouverner la France; leur avis

est donc de se nommer des représentants. Et puisque c'est l'avis du plus

grand nombre, les hommes éclairés doivent s'y soumettre comme les

autres”.219

Di conseguenza l'unica soluzione rimane il regime

rappresentativo che Sieyès ci presenta con sfumature ancora diverse: “Le

peuple ou la nation ne peut avoir qu'une voix, celle de la Législature

nationale. Les commettants ne peuvent se faire entendre que par les

députés nationaux... Le peuple, je le répète, dans un pays qui n'est pas une

démocratie (et la France ne saurait l'être), le peuple ne peut parler, ne peut

agir, que par ses représentants”.220

Ma Sieyès dice di più. I cittadini

rimettono ai deputati la loro fiducia, non delle istruzioni: “Donc, les

citoyens qui se nomment des représentants, renoncent et doivent renoncer

à faire eux-mêmes immédiatement la loi: donc, ils n'ont pas de volonté

particulière à imposer. Toute influence, tout pouvoir, leur appartient sur la

personne de leurs mandataires, mais c'est tout. S'ils dictaient des volontés,

ce ne serait plus cet état représentatif, ce serait un état démocratique”.221

Il

risultato del dibattito, sostanzialmente favorevole ancora una volta a

Sieyès, si traduce nell'Instruction de l'Assemblée nationale du 8 janvier

1790 sur la formation des assemblées représentatives. Vi si legge: “Les

mandats impératifs étant contraires à la nature du Corps Législatif, qui est

essentiellement délibérant, à la liberté des suffrages dont chacun de ses

membres, qui ne sont point les représentants du département qui les a

envoyés, mais les représentants de la nation, enfin à la nécessité de la

subordination au corps de la nation entière, aucune assemblée d’électeurs

ne pourra, ni insérer dans le procès-verbal de l'élection, ni rédiger

CARCASSONNE, Montesquieu et le problème de la constitution française su XVIII éme

siècle, Paris, 1927.

219 A.P., loc. ult. cit. Sull'obbligo per gli "uomini illustri" di sottomettersi, cfr. H.

G. KOENIGSBERGER, Estates and Revolutions, Ithaca, 1971; R. KOSELLECK, Kritik und

Krisis, Freiburg - München, 1959.

220 Ivi. Questa opinione data per scontata sarà rovesciata dalla Convenzione;

incisivo e radicale cfr. L. de SAINT-JUST, Frammenti delle istituzioni repubblicane, a cura

di A. Sobul, Torino, Einaudi, 1952; cfr. anche A. PRINS, De l'Esprit du gpvernement

democratique, Bruxelles Leipzig, Thron, 1906.

221 Ivi.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

152

séparément, aucuns mandats impératifs. Elle ne pourra pas même changer

les représentants qu'elle aura nommés, d'aucuns cahiers ou mandats

particuliers”.222

La questione dei mandati imperativi doveva tuttavia sollevarsi, una

volta ancora, nel mese di aprile 1790. In quel momento spiravano i poteri

di un certo numero di deputati, che erano stati nominati dai loro elettori

solo per un anno. L'opposizione realista viene allora a sostenere che

l'Assemblea non poteva continuare a sedere, ma che occorreva far

eleggere altri deputati dal popolo e cedere loro il posto: lo scopo di tale

proposta era di provocare l'interruzione del lavoro di confezione della

Costituzione, che non era ancora discussa per metà. Per assicurare la

perfezione della Carta, il comitato della Costituzione propose un decreto

che annullasse l'effetto dei cahiers per quanto concerneva la limitazione

della durata dei poteri. Questo progetto di decreto fu combattuto dall'abate

Maury, che per i bisogni della causa invoca la sovranità nazionale,

dichiarando che l'Assemblea avrebbe usurpato i diritti del popolo se

avesse prolungato al di là del suo mandato i poteri che aveva ricevuto da

lui. Tuttavia Mirabeau replicò che dopo il giuramento della Pallacorda,

l'Assemblea aveva modificato la natura dei suoi poteri e si era trasformata

in Assemblea nazionale, e ciò per effetto dello stesso giuramento che

avevano prestato i suoi membri di non dividersi prima di aver donato una

costituzione alla Francia: “Provoquée par l'invincible tocsin de la

nécessité, notre Convention nationale est supérieure à toute limitation

comme à toute autorité, elle ne doit compte qu'à elle-même et ne peut être

jugée que par la postérité”.223

Anche la costruzione di Sieyès sembra sostenuta dalla correlazione

volontà generale - legge - sovranità - rappresentanza che regge l'intervento

di Talleyrand (vedi supra). Ma a ben guardare non si tratta di una formula

del tipo: "se la volontà generale così come rappresentata diventa legge, la

sovranità dipende dalla rappresentanza", bensì qualcosa del tipo: "se la

volontà generale così come rappresentata diventa legge, la sovranità

dipende dal rappresentante". La differenza è capitale. Nella prima

222 Ivi. Sul divieto di mandato imperativo nell'art. 67 della Costituzione vigente,

come diritto e dovere del deputato, cfr. N. ZANON, Il libero mandato parlamentare,

Milano, Giuffrè, 1991, p. 288 e ss. su cui cfr. infra, § III.1.

223 Cfr. R. CARRÉ de MALBERG, Contribution à la théorie générale de l'État, Paris,

1920-22, vol. II, p. 259.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

153

versione la sovranità, o meglio la sua manifestazione, cioè la legge, risale

alla volontà generale mediante il meccanismo della rappresentanza, di

qualunque ampiezza essa sia.224

Nella seconda formulazione essa risale ai

rappresentanti. Ciò che si vuole mettere in evidenza è che –pure restando

in un’ottica volontaristica- poiché la volontà generale per trasformarsi in

legge ha bisogno di passare per il vaglio della rappresentanza, l'ampiezza

di quest'ultima, la sua corretta determinazione concettuale, lo stabilire

cosa i rappresentanti possano o non possano fare, indica la fedeltà della

legge alla volontà generale stessa. L'impossibilità, già denunciata da

Rousseau, di riunire l'intera nazione va superata con il minimo

inconveniente possibile.

Tentiamo di riassumere e sintetizzare la posizione di Sieyès. Non è

facile sia perché viene articolandosi in un lasso di tempo di quasi due

anni, sia perché egli stesso nei suoi interventi mette in luce ora questo, ora

quell'aspetto della sua teoria a seconda degli obbiettivi e della piega che

intende imporre al dibattito.225

Dai diversi interventi dell'Abate possiamo

224 Si è già detto dell'assunto di Leibholz sulla correlazione, se non altro di fatto,

rappresentanza - sovranità popolare. Per questi profili del pensiero di Leibholz e per le

conseguenze del suo pensiero nell’esperienza di Weimar, cfr. A. SCALONE,

Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Milano, 1996, p. 87-90.

225 Secondo D. ZOLO, Il Principato democratico, Milano, 1992, pp 101-9, si può

chiamare "Teoria dell'adattamento", quella teoria della rappresentanza politica in quanto

«concepita e giustificata come un adeguamento o un aggiornamento del modello ateniese,

ovvero come una sua combinazione con elementi della tradizione repubblicana classica da

Roma alle società-stato italiane del rinascimento». La si può riconoscere nel pensiero di

vari pensatori in un certo lasso di tempo, seppure con sfumature diverse: da Montesquieu

agli Stuart Mill, a Bentham, a Destutt de Tracy, fino a Kelsen e Dahl. Per Zolo vi

sarebbero tre ordini di argomenti che denuncerebbero tale teoria "irrealista ed elementare".

Primo è un argomento di carattere storico: la rappresentanza non ha alcun rapporto

con le istituzioni politiche della classicità. L'istituto rappresentativo infatti, lo dice già

Rousseau, era sconosciuto alla polis greca come a Roma, si afferma nel basso medioevo,

particolarmente in Inghilterra e in Svezia, con spiccate caratteristiche di carattere

corporativo ed organico. In secondo luogo vi sarebbe una diversità di struttura: la

rappresentanza politica non avrebbe infatti che un pallido ricordo dell'istituto classico della

rappresentanza negoziale elaborato dalla giurisprudenza romanistica (su cui anche H.

KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it., Milano, Giuffrè, 1954, pp. 294-

7), in particolare mancherebbe la responsabilità. In terzo luogo vi è un argomento di

carattere sociologico, il meccanismo elettorale non farebbe altro che applicare al sistema

politico il criterio generale della divisione del lavoro, demandando ad un corpo di

specialisti, i politici di professione, una funzione che richiede elevate competenze

professionali e che opera secondo la logica specifica della dialettica parlamentare. Per

questa ragione, conclude Zolo, Schumpeter arriverà a sostenere che ogni tentativo di

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

154

ricostruire il suo pensiero come segue. Il popolo o la nazione non possono

avere che una voce, quella della legislatura nazionale, gli elettori non

possono farsi ascoltare che tramite i loro deputati nazionali; il popolo non

può parlare né agire che tramite i suoi rappresentanti. Poiché i deputati

appartengono alla nazione intera, debbono ascoltare la voce di tutti i

cittadini del reame, tuttavia questi ultimi non possono affidare loro alcuna

istruzione, anzi nessuna indicazione: essi possono dare solo la loro

fiducia. Ciò che con termini moderni chiameremo una compiuta frattura

tra paese reale e paese legale trova la sua giustificazione in una

considerazione di fondo. La maggior parte dei cittadini non ha sufficiente

istruzione e capacità per occuparsi direttamente delle leggi e degli affari

della Francia. Conviene che scelga delle persone che siano più capaci di

intendere le bisogna nazionali. Quest'idea era già in Montesquieu: “Il y

avait un grand vice dans la plupart des anciennes république; c'est que le

peuple avait le droit d'y prendre des résolutions actives et qui demandent

quelque exécution, chose dont il est entièrement incapable. Il ne doit

entrer dans le gouvernement que pour choisir ses représentants. Ce qui est

très à sa portée. Car s'il y a peu de gens qui connaissent le degré précis de

la capacité des hommes, chacun est pourtant capable de savoir en général

si celui qu'il choisit est plus éclairé que la plupart des autres... Le grand

avantage des représentants est qu'ils sont capables de discuter les affaires.

Le peuple n'y est point du tout propre. Ce qui forme un des grands

inconvénients de la démocratie”.226

Ma Sieyès trae due conseguenze che

stravolgono la portata della premessa. I cittadini che nominano dei

rappresentanti, rinunziano e devono rinunziare a fare essi stessi la legge.

Ogni potere del popolo cessa con l'elezione dei deputati. Ma ai deputati il

popolo non può indicare la sua volontà, poiché, come aveva detto Barrère,

al momento dell'elezione il potere legislativo non è ancora costituito, esso

esiste nell'Assemblea una volta riunita, gli elettori non possono dare

istruzioni sull'attività legislativa ai loro rappresentanti al momento

dell'elezione. D’altronde la nazione ha una sola voce, lo si è già detto,

quella della legislatura nazionale. Sovviene l'ironica critica di Rousseau al

sistema rappresentativo inglese: “Il popolo inglese crede di essere libero, influenzare i membri del parlamento e di condizionarne la libertà di azione mediante

pressioni dal basso (magari tramite lettere od altro) deve essere rigorosamente bandito

come attentato alla razionalità della divisione del lavoro entro la sfera politica.

226 Cfr. CH. L. DE SECONDAT Seigneur de La Brède et Baron de MONTESQUIEU,

Esprit des lois, Ginevra, 1748, XI, 6.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

155

ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del

Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più

niente. Nei brevi momenti della sua libertà l'uso che ne fa, merita di

fargliela perdere”.227

Lo stesso concetto esprimeva Lenin un secolo e

mezzo dopo svelando che il popolo è libero solo nel momento

dell'elezione, per scegliere chi dovrà imporgli le catene. Ma vi è una

seconda conseguenza. Se è vero che la maggioranza dei cittadini è

ignorante, occorre che si nominino dei rappresentanti; e poiché questo è

l'avviso della maggioranza, le poche persone illuminate dovranno

sottomettersi. Ancora una volta ciò che appariva la volontà nazionale,

risulta la volontà della maggioranza, così come interpretata

dall'Assemblea, senza alcun possibile dissenso. È un altro aspetto di

omogeneità sociale che Sieyès pone all'inizio del libello "Cosa è il Terzo

stato?": “Ainsi, il n'y a, il ne peut y avoir, pour un député, de mandat

impératif, ou même de vœu positif, que le vœu national”.228

Secondo

Carré de Malberg “On retrouve dans ces derniers mots l'idée que

Rousseau avait si fortement exprimée: "Quand on propose une loi dans

l'Assemblée du peuple, ce qu'on demande (aux membres de l'assemblée),

n'est pas précisément s'ils approuvent la proposition ou s'ils la rejettent,

mais si elle est conforme ou non à la volonté générale."”229

Non ci sembra

questa l'interpretazione da dare. Per il Ginevrino l'assemblea è il popolo,

eventualmente presente tramite nuncii, cioè rappresentanti - mandatari

incaricati di recare solamente la volontà dei mandanti, poiché “ogni legge

che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una

legge”.230

L'unico regime è la democrazia diretta, tanto da assurgere da

forma di governo quasi a principio aggregante la comunità.231

In essa la

voce della nazione è la legge. Anche per Sieyès i deputati devono tradurre

in legge la volontà nazionale, ma la sola volontà nazionale è quella

227 J. J. ROUSSEAU, Il Contratto sociale, in Scritti Politici, a cura di Paolo Alatri,

Torino, UTET, 1970, p. 800 e sgg.

228 R. CARREÉ de MALBERG, Contribution, cit., vol. II, pag. 255.

229 Ivi.

230 J.J. ROUSSEAU, Il Contratto, cit.

231 Per la distinzione tra comunità e regime, con particolare riguardo al ruolo di

aggregatore della prima svolto dal secondo nella costruzione di Rousseau, cfr. F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 137 e specialmente p. 145.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

156

dell'Assemblea. Anche per Sieyès la legge è la voce della Nazione, ma la

nazione è l'Assemblea. Appare così manifestamente l'antiteticità delle due

posizioni, la democrazia diretta di Rousseau e il governo rappresentativo

di Sieyès. Ma si tratta di un governo veramente rappresentativo? Si è già

messo in evidenza come due siano gli elementi costitutivi della

rappresentanza: la situazione del rappresentante (buona e fedele)

immagine del rappresentato, che agisce in nome e per conto, secondo la

volontà e nell’interesse (non vale qui distinguere) di quest’ultimo; il

secondo elemento è dato dal rapporto tra il rappresentato ed il

rappresentante, tra l'assente e il presente. Occorre un legame tra le due

parti per cui si possa dire che il secondo sta al posto del primo. Questi

elementi, situazione e rapporto, sono essenziali: possono essere compressi

e ridotti, ma nessuno dei due può cedere completamente all'altro. Le

combinazioni dei due fattori costitutivi sono infinite e storicamente se ne

sono avute diverse gradazioni. Si può accentuare la situazione favorendo

l'autonomia e la discrezionalità del rappresentante. Per contro si può

legare quest'ultimo con le istruzioni precise fino a farlo portatore della

volontà del rappresentato. L'assoluta situazione comporta una completa

sostituzione del rappresentante al rappresentato, piena discrezionalità del

primo, assoluta irresponsabilità verso il secondo: non vi sono più due

persone, ma solo un centro di interesse, non vi è più rappresentanza.

All'opposto assolutizzando il rapporto, il mandatario viene ridotto a mero

nuncius, latore della volontà del mandante, senza alcuna autonomia, senza

apparire come persona distinta. Anche qui non vi sono più due persone,

ma una sola volontà; nemmeno qui vi è rappresentanza. Appare chiaro

come la costruzione di Sieyès si collochi in quella categoria che abbiamo

enucleato nel capitolo precedente, come pura “situazione”, mentre quella

rousseauiana sia puro “rapporto”. Nessuna delle due è rappresentanza.

Tuttavia mentre il Ginevrino adotta la sua per conseguenza logica del

rifiuto di ogni rappresentanza, della inammissibilità stessa dell'istituto nel

potere legislativo, talché è una forma di democrazia diretta attuata tramite

commissari per l'impossibilità di riunire il popolo, comunque un'extrema

ratio cui ricorrere, Sieyès sostiene la sua cercando di contrabbandarla per

gouvernement representatif. L'Abate sa quanto è difficile ottenere

l'unanimità e per questo teme la democrazia. Meglio quindi istituire

un'assemblea sovrana, formata da deputati completamente svincolati dai

propri elettori, assolutamente irresponsabili verso chiunque, un’assemblea

per definizione assunta come unica interprete dei voleri e dei bisogni della

Nazione. Ciò vale a bloccare qualsiasi interferenza extraistituzionale una

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

157

volta che il potere si è costituito. L'omogeneità tanto agognata qui si

realizza. Poiché gli elettori danno al deputato solo la loro fiducia, qualsiasi

cosa faccia il deputato in Assemblea, farà la volontà dei suoi elettori.

Poiché non vi è altra volontà nazionale che quella espressa

dall'Assemblea, ogni cittadino dovrà riconoscere che quella è la sua

propria volontà. Le differenze non esistono perché sono state tolte per

definizione. Né alla fine del mandato gli elettori potranno sindacare

l'operato dei deputati, perché comunque questi hanno attuato la volontà e

l'interesse dei primi. I veri sovrani sono allora i "rappresentanti", poiché

essi sono la Nazione. La formula imporrebbe di riferire loro oltre che

l'esercizio anche la titolarità formale della sovranità.232

Ma non era lo stesso Sieyès che poco sopra abbiamo sentito dire

“Se essa (la nazione) potesse riunirsi davanti a voi ed esprimere la sua

volontà, osereste contestarla poiché la esercita in una forma anziché in un

altra? Qui la realtà è tutto e la formula è nulla!”?233

Gli argomenti usati per

affondare gli Stati Generali, potrebbero ora essergli rivolti contro.

L'artificio sarà infatti smascherato da Robespierre nella seduta del 10

agosto 1791: “Il est impossible de prétendre que la nation soit obligée de

déléguer toutes les autorités, toutes les fonctions publiques, qu'elle n'ait

aucune manière d'en retenir aucune partie... On ne peut pas dire que la

nation ne peut exercer ses pouvoirs que par délégation; on ne peut point

dire qu'il y eût un droit que la nation n'ait pas; on ne peut bien régler

qu'elle n'en usera point, mais on ne peut pas dire qu'il existe un droit dont

la nation ne peut pas user si elle veut.”234

L'irresponsabilità dei rappresentanti porta con sé l'assenza dei

rappresentati. Uno dei due termini della rappresentanza viene vanificato:

la rappresentanza cessa in quello stesso momento.

232 Cfr. H. KELSEN, La Democrazia, Bologna, V ed., 1984, p. 131 ss.; R. DAHL, La

democrazia e i suoi critici, trad. it. Roma, 1989. Contro le finzioni che mirano ad

assicurare il mantenimento del potere e la stabilità governativa, mediante “democrazia

aritmetica ed assembleare”, si confrontino le pungenti critiche di M. BERTOLISSI, “Rivolta

fiscale”, federalismo, riforme istituzionali. Promemoria per un’Italia che cambia, Padova,

1997, specialmente p. 58 e ss, che con la consueta vis stigmatizza il mito nella panacea

dell’ingegneria costituzionale.

233 Cfr. E.J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le Tiers-état?, Paris, janvier 1789. Edizione

critica a cura di Zapperi, Genève, 1970, p. 185.

234 A.P., ser. I, vol. XXIX, p. 326-7; cfr. anche R. CARRÉ' de MALBERG,

Contribution cit., vol. II, p. 261.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

158

L'esigenza di responsabilità era presente o meglio, latente nella

Assemblea nazionale, ma le proposte rimanevano a livello di correttivi. Si

prenda ad esempio questo passo di Rambaud de St. Etienne: “Ces deux

mots, 'représentant' et 'continuel' ne vont pas ensemble. Tout représentant

est révocable, et, s'il n'est pas révocable, il n'est pas représentant”.

Chiariamo subito che non si intende qui niente di simile al moderno diritto

di recall o Aberuffungsrecht, durante l'Assemblea nazionale non si giunse

ad una cosa simile. L'intento chiaro comunque è di impedire una tirannide

assembleare, il legittimarsi di un organo autoritario peggiore del Re, non

fosse altro perché più numeroso. Si costituirebbe in sostanza quello che

Leibholz, mutuando il termine da Heller, chiama "rappresentanza

magistratica" le cui origini vengono fatte risalire all'epoca romana.

Nell'ambito della magistratura romana e proprio sul terreno della sovranità

popolare avrebbe preso origine il principato, in cui l'imperatore all'interno

dei suoi limiti costituzionali, era rappresentante di tutto il popolo.235

235 Per la fonte di Leibholz, cfr. H. HELLER, Die Krise der Staatslehre (1926) in

Gesammelte Schriften, Tübingen, 1971, tr. it. La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del

diritto e dello Stato, a cura di P. Pasquino, Milano, 1987. A questo proposito, sulla

rappresentanza magistratica, si confronti l'opera di Th. MOMMSEN, Romisches Staatsrecht,

Leipzig, 1875, vol. II p.710 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, Napoli,

1951, poi in 5 voll. ivi, 1972-75, specialmente voll. 4.2 e 5 (1975); V. ARANGIO-RUIZ, Il

mandato in diritto romano, 1949, rist. 1965. Tale sistema di rappresentanza "per

sostituzione" ha caratterizzato fondamentalmente tutto il Medioevo, ma con importanti

sviluppi concettuali che hanno permesso gli interventi di Filippo a Tours, le teorie dei

Monarcomachi, influendo anche sul giusnaturalismo moderno.

Per questi aspetti cfr. il già citato lavoro di O. von GIERKE, J. Althusius und die

Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma

già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868. Il principio della

rappresentanza magistratica sostiene la cosiddetta "teoria degli organi" (su cui infra).

Proposta per la prima volta proprio da Gierke nel 1868, è sviluppata da P. LABAND, vi

hanno aderito in Francia M. HAURIOU, (Etudes constituionnelles. La Souverainenté

nationale, Paris - Toulouse, 1912) e R. CARRÉ de MALBERG (Contribution à la théorie

générale de l'État, Paris, 1920).

Sul carattere "fittizio" del Parlamento, cfr. H. KELSEN, Vom Wesen und Wort der

Demokratie, Tübingen, 1929, trad. it. La democrazia, V ed., Bologna, 1984, p. 69 - 70; per

una tendenza al ritorno del mandato imperativo, vedi specialmente pag.155 e ss. Ma oltre

alla giustificazione romanistico - medioevale per cui lo stato rappresenta tutti gli individui

che gli sono aggregati, la teoria organica ne vanta una seconda ben più incisiva. Citiamo da

G. LEIBHOLZ (La rappresentazione nella democrazia cit., p. 144) la considerazione di

Rotteck per cui gli elettori “«come tali non hanno più nelle materie sociali vere e proprie,

nessuna volontà privata, e nessun interesse proprio da far valere, che stia in

contrapposizione col fine sociale.” Ci sovviene la definizione e il ruolo dell'interesse del

rappresentato nella costruzione da Pitkin. Cfr. H. F. PITKIN, The Concept of

Representation, Berkeley, 1967.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

159

Un dato appare acquisito dal dibattito, anche se implicitamente,

perché dovuto in parte alla necessità: la prevalenza del costituito sul

costituente. Più che il ragionamento, artefice ne è la paura, il grande

motore delle rivoluzioni, secondo la definizione di Ferrero.236

Abbandonare l'Assemblea per tornare dai propri committenti

significherebbe arrendersi alle baionette del Re, rinunciare alle conquiste

ottenute dal 17 giugno in poi, negare il carattere rappresentativo, anzi il

ruolo di unico rappresentante all'Assemblea nazionale, riconoscendo il

vecchio sistema degli Stati Generali, dare in sostanza partita vinta a quella

parte della Nobiltà che non era ancora confluita in Assemblea.

Barrère è deciso: spetta al potere costituito rimediare agli errori del

potere costituente. Sostenendo che il potere legislativo esiste solo nel

potere costituito, nega che la nazione abbia una volontà finché non ha una

voce. Ma la posizione più paradossale è quella di Sieyès. Proprio lui nel

gennaio di quell'anno aveva scritto: “A chi dunque spetta decidere? Alla

nazione, indipendentemente, come sempre, da ogni forma positiva.

Quand'anche la nazione avesse regolari Stati Generali non spetterebbe a

questo corpo costituito pronunciarsi su un contrasto che concerne la

propria costituzione.(...) Se essa (la nazione) potesse riunirsi davanti a voi

ed esprimere la sua volontà, osereste contestarla perché la esercita in una

forma piuttosto che in un'altra? Qui la realtà e tutto e la formula è nulla”.

Alcuni mesi dopo la sfiducia di Sieyès nelle capacità di autogovernarsi del

popolo (derivata da Montesquieu), sconsiglia di ricorrere agli elettori,

anche perché secondo l'Abate la nazione ha una sola voce: quella

dell'Assemblea nazionale, immagine stessa del potere costituito.

L'esigenza di unità ed omogeneità impone a Sieyès la finzione di

un'assemblea irresponsabile assunta come sola conoscitrice ed interprete

dei bisogni nazionali. In quest'ottica ogni rapporto con gli elettori, ogni

forma di mandato, ogni voce extra assembleare, dimostra l'esistenza di un

"paese reale", smascherando la falsità della costruzione dell'Abate.

Conseguentemente non vi è spazio per qualsiasi forma di rappresentanza:

tutto si riduce a "situazione".

In fondo, la parabola che abbiamo ripercorso in questo capitolo,

dalle radici illuministiche alla consacrazione di un principio giuridico con

il massimo crisma dell’ordinamento positivo, quale può essere

l’inserzione nella carta costituzionale, è rappresentativa della produzione

236 Cfr. G. FERRERO, Le due rivoluzioni francesi, Ginevra, 1936 e Milano, 1986.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

160

dell’Homo ideologicus, con cui abbiamo aperto le nostre osservazioni

francesi. Homo ideologicus237

non è il risultato né di una mutazione

casuale, né di un incrocio accidentale, né di una manipolazione genetica:

esso è il prodotto normale, automatico, non voluto di una forma specifica

di associazione che il già citato Cochin chiama la società di pensiero. Qui

sta l’intuizione centrale di Cochin. L’ideologo non è mosso dalle passioni,

né spinto dagli interessi, i suoi atti ed i suoi modi di essere non sono il

risultato di alcuna deliberazione coscientemente voluta. È ciò che è e fa

ciò che fa perché è passato attraverso un’impastatrice del tutto particolare,

sebbene perfettamente indolore e perfino innocente. Che cosa sono,

infatti, queste società di pensiero al momento della loro prima comparsa,

intorno al 1750? Sono piccoli gruppi disseminati per tutta la Francia, in

cui si conversa e ci si riunisce solo per conversare. Conversare di tutto: di

scienza, di agricoltura, di economia e di politica, di letteratura e di tutto

ciò che è chiamato filosofia e lumi. Ed il conversare in questa prospettiva

acquista senso proprio in ragione di ciò che esclude, cioè l’azione.

Conversare per il gusto di simulare, senza la preoccupazione del fare.

Nessuna di queste sette promuove complotti, semplicemente ogni

settimana, ci informa Cochin, per qualche ora, avvocati, medici,

ecclesiastici, letterati in genere, dismettono gli abiti usuali delle proprie

attività e conversano, giocando al cittadino ed al filosofo, per provare

l’ebbrezza di rifondare il mondo senza la fatica di farlo davvero, visto che

ci si limita a conversarne. Tuttavia, questo modo di procedere alla lunga

produce almeno tre conseguenze pericolose, anche se all’inizio

impercettibili. In primo luogo la realtà non è mai presa in considerazione,

proprio perché non deve esserlo, aprendo le porte alla virtualità

dell’ordinamento giuridico. Molto prima dell’era cibernetica le società di

letteratura dell’illuminismo francese avevano introdotto la “realtà

virtuale”.238

Ma ciò non autorizza a dire qualsiasi cosa, visto che gli

237 Per la struttura dell’ideologia, come filosofia simulata, che critica ogni visione,

senza verificare il proprio punto di partenza, ipoteticamente, prima, e dogmaticamente,

poi, assunto quale giusta misura, secondo un obbiettivo di mantenimento del potere,

nonché per il concetto dell’utopia, sostenuta dalla medesima struttura, ma con l’obbiettivo

di pervenire alla conquista del potere -cui effettivamente mira l’homo ideologicus di

Cochin- cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984,

rispettivamente p. 187 e 107.

238 Per l’ossimoro cibernetico “realtà virtuale”, cfr. L STRATE, R. JACOBSON, S. B.

GIBSON, Communication and cyberspace: social interaction in an electronic environment,

Hampton, 1996, p. 375; M. BENEDICKT (a cura di), Cyberspace: primi passi nella realtà

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

161

interlocutori sono troppo colti per sentirsi raccontare sciocchezze

smaccatamente grossolane e troppo evidenti, sicché gli argomenti devono

essere nuovi e legati da una concatenazione logica, tanto più ammirata

quanto più ardita, tanto più ricercata se pericolosa, seppure solo

virtualmente, almeno finché le affinità elettive non si trasformano in

relazioni pericolose, che escono dal gioco per colpire i giocatori, come ci

ha insegnato Delacloix. L’aspetto interessante consiste nella circostanza

che le idee diventano pure ed astratte. Non ci si preoccupa più, per

esempio, della libertà dei francesi, nella sua storia secolare fatta di

soprusi, di aneliti, di autonomie, di privilegi, ma comunque intrisa nel

sangue della vita, che trascina con sé, oltre all’ossigeno, anche le impurità

dell’esperienza. Si conversa della Libertà con la L maiuscola, una pura

astrazione con la quale si può entrare in contatto attraverso le parole, ma

che è vano cercare nella realtà. Allo stesso modo ci si disinteressa degli

uomini per appassionarsi all’Uomo, si disprezza il popolo per esaltare il

Popolo. La caricatura non sarebbe troppo calcata se si dicesse che la

società di pensiero è una macchina per produrre maiuscole.239

Anzi, gli

stessi giocatori sarebbero verosimilmente rimasti inorriditi se avessero

potuto prevedere gli esiti nefasti del loro gioco perverso, così come il

visconte di Valmont, ucciso da una lettera che si è trasformata in lama. Ed

è il lato patetico della questione il considerare come le conseguenze

sanguinarie che non tarderanno a rovesciarsi sugli eredi dei giocatori siano

il frutto di una cosa così innocente come la conversazione da salotto. Ma

se nel salotto si deve e ci si deve divertire, nella società di conversazione

si anela alla verità, che per definizione è una. E come la ragione è una e la

medesima che lega tutti gli uomini “correttamente ragionanti”, secondo un

solco che da Grozio porta a Kant, così la verità è una ed attende solo di

essere scoperta, univocamente, al modo scientifico delle scienze esatte

virtuale, trad. it. Padova, 1993, nonché PL. CAPPUCCI, Realtà del virtuale: rappresentazioni

tecnologiche, comunicazione, arte. Per i profili giuridico-politici dell’espressione e per la

valenza operativa sottesa ad un siffatto approccio empistemico dell’esperienza giuridica,

cfr. F. GENTILE, Ordinamento giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e

realtà, in appendice a U. PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed.

Padova, 1999, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà,

Padova, 2000, cui si aggiungono in appendice le sapide note d’appunti di U. PAGALLO,

Teoria e prassi alla radice della filosofia del diritto in Francesco Gentile.

239 Così, testualmente, la stimolante prefazione di Jean Baecheler a A. COCHIN, Lo

spirito del giacobinismo, cit., p. 22.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

162

perché astratte. Una società di pensiero tende all’unanimità, considerando

crimine la dissidenza e persino il dissenso, così come una società di

matematici tratterebbe da pazzo o da provocatore chi sostenesse che due

più due da cinque. Si dimentica il carattere pratico delle discipline di cui si

parla e vi si sovrappone il metodo teoretico, perché più simmetricamente

rassicurante, nelle sue linee razionali.240

Provocatorio, Cochin nel

concludere che la verità e questione di opinione non di esperienza,

afferma che “ogni pensiero, ogni sforzo intellettuale qui esistono soltanto

se oggetto di consenso. È l’opinione che costituisce l’essere. È reale ciò

che gli altri vedono, vero ciò che dicono, bene ciò che approvano. Così

l’ordine naturale è rovesciato, l’opinione qui è causa e non, come nella

vita reale, effetto. L’apparire sostituisce l’essere, il dire, il fare”.241

A chi volesse eccepire che si tratta di osservazioni tutt’al più

storiche, ma, in ogni caso, irrilevanti in un’indagine giuridica, basti

ricordare come tutt’oggi alcuni sostengano che il rappresentante è tale

perché creduto tale.242

Con l’ulteriore conseguenza che queste società portano ad un

selezione dei propri componenti, promuovendo coloro che sono più

staccati dalla realtà: “qui non c’è bisogno di un padrone che designi o di

un dogma che escluda. Basta la forza delle cose, i più leggeri saliranno per

conto loro in alto, i più pesanti e i più carichi di realtà cadranno a terra. È

questione di procedimento, non di scelta.”243

È un circolo vizioso che si

240 Cfr. supra, § I.1., specialmente alle note n. 34 e 35.

241 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 46. “Il fine è spostato:

quello che conta ormai è l’idea distinta, quella che si autogiustifica verbalmente, non l’idea

feconda che si verifica. O piuttosto è solo la discussione, l’opinione verbale , e non più la

prova, quella che verifica e giudica” Ibidem, p. 47.

242 Cfr. infra, § III.1, ove si esaminerà la costruzione di Ugo Rescigno che arriva a

concludere proprio nel senso indicato dal testo, mutuando l’immagine del re nudo della

nota fiaba, che si crede ammantato da un vestito bellissimo, confortato dai complimenti dei

cortigiani e del popolo che giungono a convincersi di non riuscire a vedere il prezioso

vestito che in realtà deve esserci; fino al momento in cui il bambino proclama ad alta voce

la nudità sovrana.

243 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 48. “Nulla illustra meglio

questo fenomeno curioso quanto quella concezione del selvaggio o dell’ingenuo che ha un

rilievo così grande nella letteratura del Settecento. Non c’è autore che non vi presenti il

suo selvaggio, dai più allegri ai più seri. Montesquieu ha cominciato con il principe

persiano, Voltaire immortala il personaggio con Candide; Buffon ne fa l’analisi nel

risveglio di Adamo; Condillac ne costruisce la psicologia col mito della statua; Rousseau

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

163

autoalimenta con l’inesperienza, il senso di potenza e la vanità dei propri

componenti. Si tratta di quegli “Entusiasti”, contro i quali aveva

sacrificato la propria fragile salute Anthony Ashley Cooper di

Shaftesbury. L’ideologia è per propria natura universale e gli ideologi

sono in contatto diretto con l’universo che essi stessi hanno creato. Ma

una volta giunti al potere, il meccanismo dimostra tutta la sua pericolosità,

poiché il tentativo di spiegare il reale secondo il proprio paradigma

virtuale rende presenti quelle difficoltà che erano state messe

prudenzialmente tra parentesi. Una volta che ci si è convinti di

rappresentare adeguatamente il Popolo e di difendere i suoi interessi

superiori, il risultato è che ogni provvedimento che vada nel senso degli

interessi del Popolo interpretati dai suoi rappresentanti è automaticamente

giustificato, mentre –per converso- ogni provvedimento divergente è

deplorevole. Dal momento che il Popolo è il sovrano assoluto, Dio

incarnato –l’immagine non è troppo forte- la sua volontà è il criterio

supremo del Bene e del Male. Ma il popolo è muto, non parla se non per

bocca dei suoi rappresentati autodesignati, come abbiamo esplicitamente

sentito dire da Sieyès, per il quale la Nazione ha una sola voce, quella

dell’Assemblea nazionale. Sicché, appena giunti al potere i

“rappresentanti del Popolo” hanno un brusco risveglio: il popolo non è il

Popolo, ché anzi gli accade sovente di pensare ed agire in modo

sinceramente diverso da come dovrebbe fare il Popolo. Tra i due bisogna

scegliere; e l’ideologo non ha dubbi, visto che tutto il processo, che

costituisce la sua genesi, l’ha staccato dal popolo per portarlo al Popolo.

Si decreterà che il popolo è corrotto e che bisogna costringerlo alla virtù

con ogni mezzo.244

A questo punto la virtualità245

ha avuto il sopravvento

sulla realtà ed è aperta la strada al Terrore assembleare.

ha creato il ruolo e ha passato la sua vecchiaia a giocare al selvaggio nei parchi dei castelli.

Non c’è apprendista filosofo, intorno al 1770, che non cominci la revisione delle leggi e

delle usanze del suo paese in compagnia del suo cinese o del suo irochese di fiducia, come

un figlio di famiglia viaggia con il proprio abate”. Ibidem, p. 50.

244 Cfr. A. COCHIN, Lo spirito del giacobinismo, cit., p. 32. Fortissima l’assonanza

con l’imperativo rousseauiano che, per dar vita al meccanismo dell’autosuggestione

legislativa, impone la partecipazione assembleare di ciascuno, anche del qualunquista o del

disinteressato, sentenziando che lo si costringerà ad essere libero.

245 Per la virtualità come paradigma giuridico, cfr. F. GENTILE, Ordinamento

giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.

PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, Padova, II ed., 1999, p. 209 e ss, ora

in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova, 2000.

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MANDATO IMPERATIVO, LIMITATIVO, LIBERO, NESSUN MANDATO

164

Paradossalmente, nelle soluzioni, Sieyès anticipa i sostenitori della

teoria degli organi: l'Assemblea è rappresentativa non perché effettiva

portavoce della nazione, ma per definizione. Tuttavia diversi sono i

presupposti teorici.246

La giuspubblicistica tedesca a cavallo del secolo,

influenzata dall'idea di eticità, nell'interpretazione degli epigoni della

destra hegeliana del passo § 260 e § 261 della Filosofia del Diritto,

afferma che, nel campo pubblicistico in quanto cittadini, i governati non

possano avere interessi diversi da quelli dello stato e quindi tale Volksgeist

viene rettamente interpretato da un qualsiasi organo statale, sia esso

un'assemblea o magari un singolo. Ecco che il divieto di mandato

imperativo, se non rettamente interpretato, diviene strumento di

assolutismo. Ma come si è visto anche Sieyès nega capacità di volere e

giudicare al popolo. E con tali premesse è stato interpretato l'istituto in

esame dalla giuspubblicistica tedesca fino ai giorni nostri, talora ponendo

l'accento sull'incapacità del singolo, tal'altra sulla inammissibilità di

particolarismi. In questo modo si è creata una conflittualità tra mandato di

diritto civile e rappresentanza politica (negandone perfino la giuridicità),

cui non è estranea la pretesa unicità di pubblico e privato quale deriva da

una parte del pensiero politico moderno.247

Tuttavia poiché nella maggior parte delle costituzioni

contemporanee, tra cui la nostra, si sono ereditati entrambi gli articoli

proposti da Talleyrand, occorre almeno procedere ad un'interpretazione

combinata dei due articoli –la legge come espressione di un comune

sentire ed il divieto di vincolo imperativo sull’eletto- per non incorrere in

contraddizioni logiche, pur senza sollevare la questione del primato del

costituito sul costituente, la pretesa primogenitura dell’Assemblea

nazionale sulla Nazione.248

246 Per la critica di Hegel al contrattualismo, che pure, latente, è alla base della

costruzione di Sieyès, cfr. N. BOBBIO, Studi hegeliani, Torino, 1981, p. 94 e sgg.; G.

MARINI, Struttura e significati della società civile hegeliana, in Il pensiero politico di

Hegel, a cura di C. CESA, Bari, 1979, p. 59 e sgg. Per la filosofia pratica della destra

hegeliana, cfr. il § successivo.

247 Cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed. Milano, 1984, p. 7

248 Cfr. P. G. GRASSO, voce: Potere costituente, in "Enciclopedia del Diritto

Giuffré", Milano, 1985, vol. XXXIV, p. 642 sgg. Sarebbe interessante una ricostruzione

del potere costituito come rappresentante del potere costituente, al di là dei virtuosismi di

Sieyès, che fa appello a quest’ultimo ogni qual volta deve giustificare l’arbitrio del primo.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

165

Ma forse, per giungere anche più vicini a noi, e per comprendere

appieno lo status in cui ci troviamo, conviene inerpicarci su quel nuovo

ramo dell’idealismo tedesco che si innesta nel tronco del dibattito

rivoluzionario francese, oppure –se si preferisce- sulle spalle dei giganti,

in ossequio al detto di Bertrando di Chartres, così da seguire la traduzione

in rigorosi termini giuridici di quelle istanze che a Parigi non avevano

ancora superato lo stato magmatico delle rivendicazioni.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

167

3.3 Giuspubblicistica tedesca e Destra hegeliana

3.3.1 Die Epigonen

PREMESSA: RIPROPOSIZIONE DI TEMI HEGELIANI ATTORNO AI FONDAMENTI DELLO STATO –

PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ FRA CITTADINO E STATO IN CAMPO PUBBLICO –

CONSEGUENTE REIEZIONE DEL CONTRATTUALISMO… - SEGUE: SOTTRAZIONE DELLA

FORMAZIONE DELLO STATO ALLA VOLONTÀ DEI SINGOLI E SUO FONDAMENTO SULLA

NECESSITÀ… - SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI LEGGE COME CRISTALLIZZAZIONE DEL

VOLKSGEIST… – SEGUE: CONSEGUENTE DEFINIZIONE DI REGOLAMENTO E DI ATTO

AMMINISTRATIVO: LA FIGURA DELL’INTERESSE LEGITTIMO: RINVIO – L’EINZELNER WILLE

COME CONDIZIONE PER GARANTIRE L’EINHEIT DER RECHTSORDNUNG – STATO ETICO ED

ETICA DELLO STATO – IL RUOLO DELLA SOVRANITÀ – CONCLUSIONE: DAL

PROFESSORENRECHT AL VOLKSRECHT: IL RUOLO DELLA STORIA.

"Die Epigonen" si intitolava una rivista che per alcuni anni raccolse

un gruppo di pensatori allievi di Hegel. Sulla loro consapevolezza di

essere "epigoni" del Maestro ha già insistito Löwith,249

ripreso in questo

da Cesa.250

Non interessa qui riaprire la questione, tra l'altro mai chiusa, se

questi autori meritino o meno la classificazione di "Destra hegeliana", a

prescindere dal significato negativo di tale aggettivo nella coscienza

attuale,251

né tantomeno insistere sulla bontà della bipartizione tra "destra"

e "sinistra", o di una tripartizione tra hegeliani "di destra", "di centro" e

"di sinistra".252

Paradossalmente non interessa nemmeno la fedeltà di

questi autori agli insegnamenti del Maestro, separando quanto appreso alla

scuola di Berlino, da quanto elaborato in proprio. Come già denunciato

infatti, la pressoché totale assenza di studi su questi autori, darebbe già di

per sé materia per un'indagine vastissima.253

Qui esamineremo invece il

249 Cfr. K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche, Torino, 1949, p. 91 e sgg.

250 Cfr. C. CESA (a cura di), Gli hegeliani liberali, Bari, 1974, p. viii.

251 Così almeno per C. CESA, in op. ult. cit., p. ix.

252 La tripartizione è di D.F. Strauss, mutuandola da una precedente di K.

Rosenkranz, che aveva parlato di filosofia panteista, teista e speculativa.

253 Ancora CESA, op. ult. cit. p. v. Sul Pensiero degli Epigonen, oltre al singolare

saggio di K. LARENZ, Hegelianismus und preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie

J.E. Erdmanns und das Hegelbild des 19. Jahrhunderts, Hamburg, 1940, rimane ancora

significativo H. LÜBBE, Politische Philosophie in Deutschland, Stuttgart, 1963, che,

tuttavia, alla Destra hegeliana dedica solo le pp. 27-84. Lo stesso ha poi curato

un'antologia di scritti dal titolo Die Hegelsche Rechte, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1962, la cui

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DIE EPIGONEN

168

pensiero attorno al diritto e, specificamente attorno allo Stato, di alcuni

autori che tradizionalmente, a torto o a ragione, sono accomunati sotto

l'etichetta di "Destra hegeliana", ritenendo di trovarvi la radice filosofica

o, se si preferisce, la giustificazione teoretica, delle costruzioni sullo Stato

proprie della giuspubblicistica tedesca dalla seconda metà dell'Ottocento

agli inizi del nostro secolo. L'indagine si prospetta interessante perché

mira ad individuare il punto di appoggio delle dottrine che hanno

predominato nel diritto costituzionale continentale fino ai nostri giorni e

che, più specificamente sono state ereditate ed introdotte, spesso

acriticamente, anche nella nostra Carta costituzionale. In particolar modo

interessa individuare quale sia la concezione di rappresentanza, la

traduzione parziale di G. Oldrini, costituisce il già citato volume a cura di C. CESA, Gli

hegeliani liberali, Bari, 1974. Per la difficoltà di una classificazione tra "Destra" e

"Sinistra" hegeliana, cfr. recentemente, E. MATASSI, Eredità hegeliane, Napoli, 1991,

specialmente, per il profilo di Gans, p. 235 e ss., nonché D. LOSURDO, Hegel e la libertà

dei moderni, Roma, 1992, p. 412, n. 78, e, da ultimo, M. H. HOFFEIMER, Eduard Gans and

the Hegelian Philosophy of Law, Dordrecht, Boston, London, 1995, p. 113, n. 75.

L'abisso che separa la costruzione di Hegel in tema di volontà-necessità di

cittadino e Stato in campo pubblico dalla "rappresentazione" che ne danno i suoi diretti

allievi (seppur mossi dai migliori intenti apologetici, come nel caso di Ronsenkranz) e che

mi sembra recepita dai giuspubblicisti, emerge prepotente dal saggio sul pensiero del

Maestro di Berlino di G. DUSO, La rappresentanza politica e la sua struttura speculativa

nel pensiero hegeliano, in "Quaderni Fiorentini", 1989, p. 43 e ss. Su questo specifico

punto, cfr. anche le osservazioni e i richiami di D. Losurdo (a cura di) G.W.F. HEGEL, Le

filosofie del diritto, Napoli, 1989, pp. 453 e ss; nonché P. BECCHI, Il tutto e le parti,

Napoli, 1994, pp. 184 e ss. Per la nota polemica sulle reali intenzioni del Maestro di

Berlino nella Rechtsphilosophie, si rinvia a K.H. ILTING, Rechtsphilosophie als

Phänomenologie des Bewußtsein der Freiheit, in D. HENRICH e R.P. HORSTMANN (a cura

di), Hegels Philosophie des Rechts, Stuttgart, 1982, pp. 225 e ss.; L. SIEP,

Intersubjektivität, Recht, und Staat in Hegels Grundlinien der Philosophie des Rechts, in

op. ult. cit., p. 255 e ss.; nonché P. BECCHI, Contributi ad uno studio della filosofia del

diritto in Hegel, Genova, 1984. Per la figura del monarca come rappresentante di tutto il

popolo, cfr. C. MENGHI, Società o Stato. Critica delle "lezioni" hegeliane di filosofia del

diritto (1817-18), Torino, 1994, p. 142 e ss. Sul potere principesco e sul suo ruolo nel

pensiero hegeliano, tra i molti contributi, segnaliamo C. CESA, Entscheidung und

Schicksal: Die fürstliche Gewalt, in D. HENRICH e R.P. HORSTMANN (a cura di), Hegels

Philosophie des Rechts. Die Theorie der Rechtsformen und ihre Logik, Stuttgart, 1982, pp.

185 e ss. Per il giudizio di Hegel sulla Rivoluzione francese, tanto esecrata dagli Epigonen,

recentemente cfr. J. D'HONDT, Le parcurs hégélien de la Révolution française, in La

philosophie et la Révolution française, Paris, 1993.

La difficoltà di reperire le opere di questi autori giustificherà le lunghe citazioni a

sostegno dei nostri assunti, necessarie anche per dimostrare la corrispondenza quasi

letterale tra gli scritti dei Philosophen e quelli degli Juristen di sui si parla nel testo.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

169

giustificazione del divieto di mandato imperativo, la sua consequenzialità

alla dottrina generale dello Stato e quale la concezione filosofica che la

sottende. La ricerca muove da una semplice considerazione di fatto: negli

stessi anni e, spesso, nelle stesse università in cui Stein, Mohl, Bluntschli,

Gerber, Gierke, Laband e Jellinek elaboravano le loro teorie, operavano

gli esponenti della "Destra hegeliana", pubblicando le loro opere,

rintuzzando le critiche avversarie, in un periodo di fecondità per gli studi

filosofici e giuridici non secondo, in questo, all'epoca della Rivoluzione

francese. Già mentre il Maestro era ancora in vita e immediatamente dopo

la sua morte, Gans,254

Rosenkranz,255

Hinrinchs,256

Michelet,257

Oppenheim,258

Rössler,259

e, più tardi, Fischer,260

riespongono la dottrina

254 E. GANS, Das Erbrecht in weltgeschichtlicher Entwiklung. Eine Abandlung der

Universalrechtsgeschichte, 1-2 voll., Berlin, 1824-1825, 3-4 voll., Stuttgart und Tübingen,

1829-1835; IDEM. Vermischte Schriften, juristischen, historischen,

staatswißenschaftlichen, und ästhetischen Inhalts, Berlin, 1834; IDEM, Rückblicke auf

Personen und Zustände, Berlin, 1836.

255 K. ROSENKRANZ, Hegel. Sendscreiben an C.F. Bachmann, Königsberg, 1834;

IDEM, G.W.F. Hegel's Leben, beschrieben durch Karl Rosenkranz. Supplement zu Hegel's

Werken, Berlin, 1844; IDEM, Meine Reform der Hegel'schen Philosophie. Sendschreiben

an J.U. Wirt, Königsberg, 1853; IDEM, Hegel als deutscher Nationalphilosoph, Leipzig,

1870; IDEM, Hegel. ora in Neue Studien, 3° vol., Leipzig, 1877.

256 H.F.W. HINRINCHS, Grundlinien der Philosophie, Halle, 1826; IDEM, Politische

Vorlesungen, 2 voll., Halle, 1843.

257 C.L. MICHELET, System der philosophischen Moral, mit Rücksicht auf die

juridische Imputation, die Geschichte der Moral und das christliche Moralprinzip, Berlin,

1828; IDEM, Geschichte der letzten Systeme der Philosophie in Deutschland von Kant bis

Hegel, 2 voll., Berlin, 1837-1838; IDEM, Zur Verfaßungsfrage. Den Mitgliedern der beiden

Verfaßungsgründenden Versammlungen gewidmet, Frankfurt am Oder und Berlin, 1848.

258 H.B. OPPENHEIM, Geschichte und staatsrechtliche Entwicklung der

Gesetzgebung des Rheins, Stuttgart und Tübingen, 1842; IDEM, Studien der inneren

Politik, Leipzig, 1842; IDEM, System des Völksrechts, Frankfurt am Mein, 1845; IDEM,

Kaltblütige Gloßen zu der Verfassung - Urkunde vom 5. Dezember [scritto il 6.12.1848!]

Berlin, 1848; IDEM, Philosophie des Recht und der Gesellschaft, Stuttgart, 1850; IDEM,

Über politische und staatsbürgerliche Pflichterfüllung [1864] in Vermischte Schriften aus

bewegter Zeit, Stuttgart und Leipzig, 1866.

259 C. RÖSSLER, System der Staatslehre. Allgemeine Staatslehre, Leipzig, 1857;

IDEM, Der Grundsatz der Nationalität und das preußischen Staatensystem, Berlin, 1860;

IDEM, Preußen nach dem Landtage von 1862, Berlin, 1862; IDEM, Die liberalen Parteien

angesichts der Zukunft Preußens, Berlin, 1862; IDEM, Studien zur Vorbildung der

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DIE EPIGONEN

170

idealistica con tutti quegli accenti enfatici, quegli sviluppi di aspetti

particolari e, in sostanza, con tutte quelle semplificazioni e adattamenti

che un dibattito polemico impone.

Occorre allora fare riferimento al pensiero degli Epigonen, alla loro

interpretazione dell'opera di Hegel, perché questo, e solo questo, poteva

essere conosciuto dagli Juristen, non certo la complessità del pensiero di

Hegel, nelle sue varie versioni, che era proprio la causa della divisione in

diverse scuole. Ecco perché si guarderà solo all'opera degli allievi, senza

tener conto, se non in limine, della fedeltà all'insegnamento del Maestro.

Tuttavia la figura del Filosofo berlinese è talmente grande che non

possiamo permetterci di sorvolare completamente sulla sua opera,

dovendo aver riguardo, almeno marginalmente, ad alcuni aspetti della sua

concezione di rappresentanza, non foss’altro che per meglio coglierne le

differenze con gli allievi.

L’introduzione della rappresentanza può rinvenirsi nel § 302 delle

Grundlinien der Philosophie des Recht, ove viene assegnata ai ceti

(Stände) la funzione di mediazione tra il governo, da un lato, e il popolo,

dall’altro, inteso come insieme di singoli, aggregati proprio nei ceti o

corporazioni. I ceti partecipano quindi del senso dello Stato e del governo

quanto degli interessi particolari dei gruppi o dei singoli e, proprio questa

loro caratteristica, li rende elemento essenziale del cammino verso lo

Stato organico, come trait d’union affinché il governo non sia isolato e,

quindi, soggetto di mero potere arbitrario, né l’atomismo (con un termine

caro alla letteratura polemista dell’epoca nei confronti degli eventi

francesi) possa avere il sopravvento sul popolo, disperdendolo in mille

rivoli individuali.261

A questo paragrafo, il più giovane collega giurista e

storico del diritto Eduard Gans annota che la posizione del governo nei

confronti delle classi non deve essere ostile, come spesso accade, poiché

preußischen Verfassung, 2 voll., Berlin, 1863-1864; IDEM, Die deutsche Reich und die

kirchliche Frage, Leipzig, 1876.

260 K. FISCHER, Geschichte der neueren Philosophie, 6 voll., Mannheim-Stuttgart-

Heidelberg, 1852-1877; IDEM, Die Apologie meiner Lehre nebst Replik auf die

"Abfertigung" des Herrn Schenkel, Mannheim, 1854.

261 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, citiamo dalla

traduzione italiana ormai classica di F. Messineo, Bari, 1913, nella edizione del 1974, p.

300. Si è tenuta presente anche l'edizione curata da Domenico Losurdo, Napoli, 1989,

nonché la polemica Becchi – Marini, su cui infra.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

171

non si tratta di una dialettica dualistica di mera contrapposizione, come se

ci fosse la necessità di sopraffazione del governo sulle classi o di queste

su quello, giacché entrambi sono funzionali all’edificazione dello Stato

organico ed etico. La costituzione è, insomma, essenzialmente un sistema

di mediazione, poiché negli stati dispotici, ove operano solo il sovrano ed

il popolo, il primo esercita un potere dispotico ed il secondo tenta di far

valere le proprie istanze in modo dannoso per l’organismo statale, mentre,

ove si presenta in modo organizzato riesce a far valere i propri interessi in

veste giuridica ed in modo ordinato. E con felice formula precisa

l’insegnamento del più anziano collega nell’Università di Berlino e suo

Maestro in filosofia, affermando “ciò che costituisce il significato

caratteristico delle classi è che lo Stato entra, per tal modo, nella coscienza

soggettiva del popolo, e che esso comincia a prendere parte al

medesimo”.262

In altri termini, solo grazie alla mediazione delle classi il

singolo partecipa del senso dello Stato comprendendo l’utilità del proprio

bene particolare con quello comune, cioè la presa di coscienza del proprio

compimento all’interno dello Stato. La forza della classe è proprio quella

di essere già ben presente nella realtà, insopprimibile tensione

all’organizzazione. Tutto ciò fornisce il destro ad Hegel, nell’aggiunta al §

303 per una critica alle concezioni importate dalla Francia rivoluzionaria,

cioè all’idea che la classe privata, elevata al potere legislativo debba

manifestarsi in quella sede come somma di individui, che si scelgono

rappresentanti per esercitarvi ciascuno il proprio ruolo particolare. Con il

consueto sarcasmo il Filosofo idealista sottolinea come tale atomismo

astratto scompaia già nella Famiglia e nella Società civile. Si vede qui un

esempio di quella sfiducia, ereditata forse da Montesquieu (la cui

posizione ben chiara si è vista al paragrafo precedente), sull’incapacità del

popolo, inteso come moltitudine inorganica, di governarsi.263

E proprio

262 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit., p. 451.

263 La polemica percorre tutta l’aggiunta al § 301, ove si prende in esame la tesi per

la quale i deputati del popolo o addirittura il popolo debba intendere nel modo migliore

qual è il suo meglio e che la sua volontà sia orientata a questo. Si obbietta subito che per

popolo, visto come una parte speciale dei componenti di uno Stato, si intende la parte che

non sa quel che vuole, giacché “sapere che cosa si vuole è, ancor di più, [sapere] che cosa

vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione è il frutto di una conoscenza e di una

penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del popolo”. E preme sottolineare un

aspetto che sarà ripreso e forzato dagli allievi. Infatti, il passo continua affermando che la

garanzia per il cogliere cosa vuole la ragione in sé non si trova nell’intelligenza particolare

della classi, “perché i più alti impiegati dello Stato hanno necessariamente una

penetrazione più profonda e comprensiva della natura delle istituzioni e dei bisogni dello

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DIE EPIGONEN

172

questa presa di posizione serve per capire i §§ 308 e 309. Dopo aver

affermato la necessaria presenza della nobiltà, come elemento di

continuità, assicurato dalla nascita, senza l’accidentalità di una scelta,

Hegel riconosce nelle classi l’elemento instabile della società civile, che

può intervenire solo per mezzo di deputati, ma –si badi bene- non tanto

per l’impossibilità materiale di partecipare direttamente, atteso il numero

elevato dei suoi componenti, quanto per la “natura della sua destinazione

ed occupazione”. Sicché i deputati della Società civile, in quanto suoi

membri, conoscono le sue esigenze. Si tratta, forse di quella

rappresentazione dell’unità che Leibholz rinviene nella tradizione

germanica di quel unum che è la Sippe.264

Ecco in qual senso deve essere

inteso il divieto di mandato imperativo che si incontra al § 309. Poiché la

deputazione avviene per la discussione e per la decisione sugli affari

generali, essa ha il significato che vi sono destinati dalla fiducia dei

soggetti che si intendano degli affari di cui si tratta, facendo valere non

l’interesse del gruppo di cui sono esponenti in contrasto con l’interesse

generale, ma, anzi, promuovendo proprio quest’ultimo. Hegel ne deduce

che tal fatta di deputati non possano essere mandatari o comunque

portatori di istruzioni vincolanti, che possano condizionare l’assemblea e

l’importanza della discussione in comune.265

L’ultima considerazione

potrebbe far pensare ad un’assonanza con i risultati dell’Assemblea

nazionale francese. Ma l’impressione svanisce considerando i momenti

antecedenti della trattazione. La deputazione non è nazionale, ma

corporativa; con l’elezione la corporazione non assegna delle volontà da

sostenere, ma individua nel suo seno i membri più versati ad indicare le

esigenze della corporazione nella discussione generale; i deputati non

sono mandatari, poiché essi stanno in rapporto organico con la

corporazione che solo in questo senso “rappresentano”. Il momento

Stato, come la più grande attitudine e consuetudine per siffatti affari, e possono fare il bene

senza classi”, seppure si avvisa subito che la garanzia di cogliere il volere della ragione in

sé si trova in parte in un contributo d’intelligenza dei deputati, in parte nell’incitamento ai

funzionari che nei posti più alti si trovano meno a contatto con l’esperienza, in parte nella

“censura pubblica”, cioè nel esaminare in precedenza i progetti e di disporli soltanto per i

motivi più puri, attesa, dice Hegel, la propensione della plebe a diffidare del governo. Cfr.

G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 298-99.

264 Cfr. supra, § I.2.

265 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 306.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

173

aggregante la singola corporazione, la misura della singola associazione o

classe concorre nel movimento dialettico, assieme al governo,

all’edificazione dello Stato organico od etico: parlare di rappresentanza in

questo senso è come confondere la corporazione con il collegio elettorale

e la conseguente assenza di mandato non è frutto di una presa di posizione

in ordine alla rappresentanza, quanto la conseguenza della sostituzione

della rappresentanza con il rapporto organico.266

Fin da questa sommaria indagine intorno al pensiero del Maestro di

Berlino preme mettere in evidenza il sottile equilibrio tra rappresentanza

cetuale, come aggregazione dei singoli in forma organica; la deputazione,

come rappresentanza della Società civile nello Stato; l’organicismo di

quest’ultimo che tutto sintetizza in sé, come supremo momento dello

Spirito oggettivo, preludio allo Spirito assoluto. Elaborazione

razionalistica, se si vuole, ma, a ben vedere, descrizione (più che

innovazione) del contemporaneo meccanismo delle diete, corporazioni,

gilde e classi sedimentatesi in quel complesso che era l’Impero

germanico, assicurando una sorta di partecipazione alla vita politica che i

piccoli principati, a differenza delle grandi monarchie nazionali, non

erano riusciti a spezzare. Ed ancora una volta Gans, che avendo ben

266 Di diverso tenore l’aggiunta di Gans, che al § 309 dedicato ai deputati e suoi

elettori, che non sembra saper usciere dal dibattito rivoluzionario, né attingere alla storia

delle istituzioni giuridiche tedesche, campo nel quale il giovane collega di Hegel era a

proprio agio. La rappresentazione hegeliana che ci viene offerta sembra essere ancora ad

una volontà di tutti intesa in modo individualistico (atomistico), non priva di

contraddizioni tra individuale e generale, leggendo che “quando si introduce la

rappresentanza, essa consiste in ciò: che il consenso deve avvenire non immediatamente da

parte di tutti, ma da parte dei deputati; poiché il singolo non concorre più come persona

infinita. La rappresentanza si fonda sulla fiducia; ma la fiducia è qualcosa di diverso dal

fatto che io, come tale, do il mio voto. Del pari la maggioranza dei voti è contraria al

principio che, in quel che mi deve obbligare, debbo intervenire io, come tale. Si ha fiducia

in un uomo, poiché si ritiene suo intendimento di trattare la mia cosa come sua, secondo la

sua migliore conoscenza e coscienza. Quindi il principio della singola volontà soggettiva è

abolito; poiché la fiducia si dirige ad una cosa, ai princìpi di un uomo, della sua condotta,

del suo agire, al suo senno concreto in genere. Quindi, importa che colui, il quale si

presenta nell’elemento di classe, abbia un carattere, un intendimento ed una volontà, che

corrispondano al suo còmpito di essere consultato per gli affari generali. Cioè, non importa

che l’individuo venga a parlare come singolo astratto, ma che i suoi interessi si facciano

valere in un’assemblea, dove si tratta di ciò che è generale. Che il deputato compia e

promuova questo: di ciò si ha bisogno, a garanzia di coloro che eleggono” Così in G. W. F.

HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 452-3. Il punto interessante appare il

principio di responsabilità che risulta comunque evidente alla fine del passaggio come

chiave di volta di ogni rappresentanza, intesa quale trasmissione di volontà o di interessi.

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DIE EPIGONEN

174

presente la costruzione del Maestro nell'articolato rapporto che lega il

cittadino, attraverso la Famiglia e la Società civile, allo Stato, poteva

tradurre in termini giuridici il pensiero che aveva fatto proprio e

sarcasticamente coniare per lo Stato prussiano anteriore al 1848 la nuova

categoria concettuale dello Stato tutore, affermando che "Uno Stato tutore,

come la tutela in sé, è tale per un periodo limitato. L'emancipazione [del

minore] verso uno status più alto e più libero è inerente nella sua natura; si

può negare o posporre l'emancipazione per un lasso di tempo, ma non si

può impedirne l'inevitabile risultato."267

Tuttavia, per capire le radici della scienza giuridica tedesca attorno

allo Stato, crediamo che si debba fare riferimento ad un altro passo della

Filosofia del Diritto, perché è proprio dalla sua interpretazione che

discende, secondo noi, die ganze Geschichte.

Il paragrafo in questione è il § 260. "Lo Stato è la realtà della libertà

concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità

personale, e gli interessi particolari di essa, hanno tanto il loro pieno

sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della

famiglia e della società civile) quanto, in parte, si mutano, da sé stessi,

nell'interesse della generalità, e in parte, con sapere e volontà, riconoscono

il medesimo, cioè in quanto loro particolare spirito sostanziale, e sono atti

al medesimo, in quanto loro scopo finale; così che né l'universale ha

valore ed è compiuto senza l'interesse, il sapere e il volere particolare, ne

gli individui vivono come persone private semplicemente per

quest'ultimo, e, senza che vogliano, in pari tempo, nel e per l'universale, e

abbiano un'attività cosciente di questo fine. Il principio degli Stati

moderni ha quest'immensa forza e profondità: lasciare che il principio

della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della

particolarità personale, e, insieme, riportarlo all'unità sostanziale, e, così,

mantenere questa in esso medesimo".268

L'opera continua, come è noto, distinguendo la partecipazione del

singolo nella Famiglia e nella Società civile, dalla sua necessaria

integrazione nello Stato, intesa come dovere etico, come realizzazione di

sé, sviluppando la premessa del § 258: "il dovere supremo (dei singoli) è

267 Cfr. M. H. HOFFEIMER, Eduard Gans and the Hegelian Philosophy of Law, cit.,

p. 8.

268 Cfr. G. W .F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit. p. 246.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

175

di essere componenti dello Stato".269

Ed è proprio su questo passo che

Hegel spiega la sua posizione in antitesi con il contrattualismo di

Rousseau: non le volontà particolari creano lo Stato formando un

contratto, ma lo Stato preesiste logicamente ai singoli ed è tale proprio

perché non è la somma delle singole volontà.270

Ma sulla polemica contro

Rousseau e il contrattualismo torneremo in seguito. Qui preme mettere in

evidenza le conseguenze giuridiche e politiche che si potevano trarre, e si

sono tratte, dalla lettura di questi passi.

Ancora una volta conviene iniziare dalle aggiunte, ricavate dalle

lezioni del Maestro, compilate da Eduard Gans, che, se non si possono

definire elaborazioni originali dell'allievo, non sono nemmeno opera della

mano di Hegel.

Al già ricordato § 258, Gans aggiunge: "(...) Nella libertà non deve

procedersi dall'individualità, dall'autocoscienza singola, ma soltanto

dall'essenza dell'autocoscienza; poiché, ne possa essere consapevole o

meno l'uomo, quest'essenza si realizza come potere autonomo, nei quali i

singoli individui sono soltanto momenti".271

Che cos'è allora l'essenza

dell'autocoscienza, il punto di partenza? Viene detto poco sopra: è lo

Stato, che è tale solo in quanto esistente nella coscienza, in quanto

consapevole di sé stesso, come oggetto che esiste.

Che il periodare di Hegel fosse oscuro era già noto ai suoi

contemporanei; senza arrivare all'eccesso di Schopenhauer, definendolo

un uomo che parla un linguaggio oscuro perché non ha niente da dire,272

è

bene vedere subito come interpretava il pensiero del maestro in subjecta

materia il suo agiografo-apologeta, Karl Rosenkranz.

Se Gans era anche giurista, aveva infatti studiato a Berlino,

Gottinga e Heidelberg giurisprudenza, storia e filosofia, Rosenkranz273

era

269 Ibidem, p. 239.

270 Ibidem, p. 240/1.

271 Ibidem, p. 430.

272 Non è estranea a questa velenosa boutade l’esperienza concorsuale che vide

Schopenhauer bocciato da Hegel nella selezione per un posto di professore universitario.

Ci piace pensare che la risposta di Hegel sia in quella massima che E. MATASSI, Eredità

hegeliane, Napoli, 1991, pone ad incipit della sua prefazione: “un grande uomo condanna

gli altri a spiegarlo”.

273 Johann Karl Friedrich Rosenkranz (Magdeburg 23.4.1805 - Königsberg

14.6.1876), dopo la laurea, dal 1826 al 1833 fu ad Halle, prima di raggiungere Königsberg,

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DIE EPIGONEN

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un filosofo con un ampia predisposizione ai problemi dello Stato, coronata

da una breve ma intensa esperienza politica. Addottoratosi infatti in

teologia e filosofia, professore nel 1831, dal 1833 a Königsberg, durante

la rivoluzione del 1848/9 era Vortragender Rat a Berlino. Di questo

periodo sono le Politische Briefe und Aufsätze 1848-1856, culminanti con

l'allora più famosa Apologie Hegels gegen Dr. R. Haym, pubblicata a

Berlino nel 1858, in cui l'allievo riespone la dottrina giuridico politica del

maestro, difendendolo dalle accuse di bonapartismo, autoritarismo,

dispregio della religione, che gli erano state mosse. Tuttavia è negli Neuen

Studien, terzo volume, di vent'anni più tardi, che Rosenkranz presenta in

poche pagine in forma piana e sintetica l'insegnamento di Hegel sui

fondamenti dello Stato. A questa conviene fare riferimento, sia perché è la

stesura definitiva e pacata, sia perché riprende posizioni venute

preponderantemente alla ribalta nella accesa polemica e che per questo

godevano di una grande diffusione nel momento di affermazione

dell’Impero tedesco.

"Den Naturstand faßte er (id est Hegel) als einen Zustand der

Willkür und Gewaltthätigkeit auf, aus welchem der Staat befreie, so daß,

den Staat hervorzubringen, keine Aufopferung der persönlichen Freiheit

stattfindet, sondern vielmehr die Freiheit erst mit dem Staat ihre

Wirklichkeit gewinnt".274

Sembrerebbe una premessa rousseauiana, ove

grazie alla quadratura del circolo, ciascuno è libero quanto prima, con in

più la sicurezza fornita dall'ordinamento che lo preserva dalla violenza e

dove operò fino alla morte, esclusa la parentesi rivoluzionaria. Oltre alle opere citate nel

testo, dalla sua vastissima produzione indirizzata specialmente sulla letteratura e l'estetica,

ai nostri fini ricordiamo: De Spinozae philosophia, Halle und Leipzig, 1828; Der Zweifel

am Glauben. Kritik der Schriften de Tribus Impostoribus, Halle 1830; Hegel.

Sendschreiben an C. Fr. Bachmann, Königsberg, 1834; G.W.F. Hegel's Leben,

beschrieben durch K. Rosenkranz. Supplement zu Hegel's Werken, Breslau, 1844; Meine

Reform der Hegel'schen Philosophien. Sendschreiben an J.U. Wirth, Königsberg, 1852;

Diderots Leben und Werk, Leipzig, 1866; Hegel als deutscher Nationalphilosoph, Leipzig,

1870. Per la bibliografia completa rimandiamo a H. LÜBBE (a cura di), Die hegelsche

Rechte, Stuttgart, 1962, pp. 328-9.

274 K. ROSENKRANZ, Neue Studien. 3. Band: Studien zur Literatur und

Culturgeschichte, Leipzig, 1877, p. 239-264, citato da H. LÜBBE, op.cit., p. 35. Teniamo

sotto mano qui, come in seguito, la traduzione italiana di Guido Oldrini nel volume curato

da C. CESA, Gli hegeliani, cit., p. 30, facendo delle annotazioni quando ne rinverremo la

necessità. "Egli intese la sfera della natura come una situazione d'arbitrio e di violenza, da

cui lo Stato si libera, così che nella formazione dello Stato non ha luogo alcun sacrificio

della libertà personale, ma piuttosto soltanto nello Stato ottiene la sua realtà".

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

177

dall'arbitrio propri dello Stato di Natura. Tuttavia ogni dubbio viene

fugato subito dopo, con una precisazione destinata a formare un Leitmotiv

che ritroveremo, in forma più o meno espressa, in tutti gli autori seguenti:

"Daß der Staat durch einen Vertrag entstehe, leugnete er, weil diese

Entstehung der Willkür des Menschen entnommen sei, da er ihn

hervorbringen müsse und über ihn, ob er ihn wolle oder nicht, keineswegs

beschließen könne. Die Verfassung eines Staates entstehe dadurch, daß

der Geist eines Volkes die Allgemeinheit und Nothwendigkeit seiner

Freiheit als Gesetz erfasse, welches in der Sitte als der Inhalt derselben

lebendige Realität habe. Die Verfassung werde daher von allen im Volke

unbewußt und bewußt hervorgebracht. Durch das äußere Staatsrecht,

dessen Traktate zwar ewig gehalten werden sollen, jedoch stets gebrochen

werden, weil die Staaten sich nicht in der Lage von Privatpersonen

befinden, macht Hegel den Übergang in die Weltgeschichte als in das

Gericht, in welches der Weltgeist die einzelnen Völker führe".275

Si

intuisce come questo passaggio non potesse che apparire molto suggestivo

agli occhi del giurista, che verosimilmente era più propenso a ricordare

qualcosa che potesse risultargli congeniale perché in linea con i propri

paradigmi dell’allora dominante dogmatica giuridica, magari sorvolando

sugli astrusi periodi hegeliani. E in effetti gli assunti appena citati possono

giustificare molte conseguenze nel campo del diritto costituzionale. Da un

lato la considerazione che lo Stato non derivi dalla volontà dei singoli, al

cui arbitrio debba necessariamente essere superiore, ottenendo in questo

modo la sua oggettività; dall'altro, l'ammissione che nei rapporti tra

singoli Stati, questi si comportino come privati, ma come privati non

sottoposti a regole, è materia sufficiente per dedurre l'unitarietà

dell'ordinamento e giustificarne la sovranità tanto nei confronti dei sudditi,

quanto rispetto agli altri Stati. Ma non basta, perché di seguito Rosenkranz

275 Ibidem, p. 35.

"Negò che lo Stato tragga origine da un contratto, essendo desunta questa origine

dall'arbitrio dell'uomo, che invece deve necessariamente produrlo e non può affatto

decidere di esso, se volerlo o no. La costituzione di uno Stato si origina per lui in questo

modo, che lo spirito di un popolo afferra l'universalità e la necessità della sua libertà come

legge avente viva realtà nel costume quale suo stesso contenuto; sicché la costituzione

viene prodotta consciamente ed inconsciamente da tutto il popolo. Attraverso il diritto

esterno dello Stato, i cui trattati vanno certo sempre rispettati, ma tuttavia, non trovandosi

gli Stati nella posizione di privati, sono sempre infranti, Hegel elabora il passaggio alla

storia del mondo come al tribunale davanti a cui lo spirito del mondo convoca i singoli

popoli". CESA, op.cit., p. 31.

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DIE EPIGONEN

178

attribuisce specificamente ad Hegel l'assunto che la volontà dello Stato

debba essere essenzialmente singola, anzi, unica, "einzelner Wille",

proprio al modo della volontà dell'individuo: "als ein Individuum

existieren". L'affermazione non potrebbe essere più chiara. "Im

Staatsrecht unterschied Hegel das innere und äußere und im innern 1) die

fürstliche Gewalt, 2) die Regierungsgewalt, 3) die gesetzgebende Gewalt.

Die Souveränität des Staates muß, wie wir gesehen haben, auch als ein

wirklicher, also einzelner Wille, als ein Individuum existieren. Eine

Mehrheit solcher Subjekte kann nur durch die Majorität der Abstimmung

zur Entschiedenheit gelangen, die daher immer gefährdet und dem Zufall

preisgegeben ist. Zwei solcher Subjekte geraten leicht in Gegensatz und

Paralysieren einander, falls nicht das eine das andere tatsächlich sich

unterwirft und ihm nur eine Scheinmacht übrig läßt. Solche Formen der

Souveränität machen die Bestimmung einzelner Subjekte zur Vertretung

des souveränen Willens selbst wieder davon abhängig, daß die Subjekte

gewählt werden müssen. Die Wahl kann sich auf ein Subjekt beschränken,

so bleibt die Abhängigkeit desselben, selbst wenn der Wahlfürst auf

Lebenszeit gewählt wird. In allen diesen Fällen ist die Majestät des

souveränen Staatswillens keine wirkliche".276

Se dunque la formazione popolare dell'organo sovrano attraverso

l’elezione non garantisce una reale volontà dello Stato, perché in balia

degli elettori, anche se il sovrano sia un principe eletto a vita, occorre

allora teorizzare uno svincolamento, presupporre un'indipendenza,

un'irresponsabilità del sovrano stesso verso i governati. In altri termini, il

fondamento dello Stato non può riposare nemmeno concettualmente su di

un supposto atto di volontà dei sudditi, dovendo trovare radice nella

necessità. Con un rovesciamento del contrattualismo, cui ancora aderiva

276 Ibidem, p. 38.

"Nel diritto pubblico Hegel distinse l'interno e l'esterno, e nell'interno: 1) il potere

principesco, 2) il potere del governo, 3) il potere legislativo. La sovranità dello Stato,

abbiamo visto, deve esistere anche come una volontà reale, quindi singola, come un

individuo. Una pluralità di siffatti soggetti solo in grazia della maggioranza nella votazione

possono venire ad una decisione, che resta perciò sempre in forse, e in balia

dell'accidentalità. Due di siffatti soggetti vengono facilmente a contrasto e si paralizzano

l'un l'altro, salvo che l'uno non sottometta realmente a sé l'altro e non gli lasci che un

potere illusorio. Tali forme della sovranità fanno dipendere di nuovo la determinazione dei

singoli soggetti in rappresentanza della volontà sovrana stessa dalla necessità che i soggetti

vengano eletti. L'elezione può limitarsi a un soggetto; ma rimane così la sua dipendenza,

quand'anche il principe elettivo sia eletto a vita. In tutti questi casi la maestà della volontà

sovrana dello Stato non è reale". Ibidem p. 35 e 36.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

179

Kant, la soggezione alla legge non deriva dal riconoscervi la propria

volontà, al modo vagheggiato da Rousseau, quanto dal riconoscere lo

Stato come qualcosa di superiore, quasi di sacro secolarizzato. È da questo

momento che, riprendendo spunti suggeriti da Hobbes, la scienza

giuridica eleva lo studio dello Stato a dottrina. Di conseguenza bisogna

riconoscere allo Stato un volere precedente e superiore al volere del

singolo, ma anche superiore all'unanimità dei consociati o dei sudditi.

Infatti se lo Stato non può essere sottoposto a singole volontà, non potrà

esserlo neanche se si tratta del volere di tutti i cittadini: neppure Rousseau

era mai arrivato a tanto. La categoria dello Stato è veramente la categoria

del sovrano della migliore tradizione hobbesiana: ein Individuum. Ma

un'ulteriore osservazione si impone: lo Stato precede e supera il sovrano,

non si identifica con esso, ma il secondo è solo un mezzo per mantenere il

primo: il Re ha dunque due corpi.277

Che tutto ciò sia una palese forzatura e semplificazione

dell'ingresso di Dio nel mondo, appare talmente evidente da risultare

banale. Tuttavia, se si considera la già ricordata difficoltà del periodare

hegeliano, nonché l'autorevolezza del suo interprete, si deve riconoscere

che questa divulgazione del Maestro berlinese è stata più vasta di quanto

non si sia pensato. Tutto ciò poi, forniva un comodo modo per aggirare le

critiche di Marx e della sinistra, non congeniali ai giuristi e che avrebbero

comunque smascherato le loro costruzioni attorno allo Stato, anzi lo Stato

stesso come concetto.

Inoltre l'astrazione concettuale di uno Stato svincolato e

autosufficiente non poteva che risultare gradita ai costituzionalisti che,

ricordiamolo, derivavano la loro formazione dalla scuola della

pandettistica, e quindi debitori, sostenitori del suo massimo prodotto: la

dogmatica. Si intende allora come un simile presupposto teorico

permettesse la più reine delle costruzioni, la più dogmaticamente pura e

logicamente consequenziale delle teorie. Ma Rosenkranz non si ferma qui

e, con un successo da lui stesso insperato per la sua Apologie, fornisce

ulteriore sostegno ai giuristi, ricordando lo scopo di Hegel: "Seine

Meinung war jedoch unstreitig, in dem Fürsten die Totalität und

subjective Einheit der souveränen Gewalt zu setzen, welche die höchst

entscheidende und beschließende Macht ist, weil sie sowohl die Gesetze,

277 cfr. E. KANTOROWICZ, The King’s two bodies. A Study in Medieval Political

Theology, Princeton, 1970, trad. it. Torino, 1989.

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DIE EPIGONEN

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damit sie Geltung haben sollen, sanktioniert, als den Beamten der

Regierung befiehlt und das Recht zu Krieg und Frieden hat".278

Quest’attaccamento alla monarchia degli Hohenzollern è professato

anche da un altro allievo, Carl Ludwig Michelet279

all’indomani del marzo

1848; ma anche in questo caso vi sono sottese ragioni teoriche non

indifferenti. Scrive al Costituente prussiano il curatore della rivista “Der

Gedanke”, il giorno 10 maggio 1848: "An diese halten wir uns also, um

im Strudel nicht unterzugehen. Mit dem Königthum und durch dasselbe

wollen wir die Errungenschaften, welche uns geworden sind, befestigen,

damit aus der Gleichheit der bürgerlichen Rechte die Versöhnung aller

Stände hervorgehe, damit daraus erblühe die Sicherheit und Ordnung des

Staats. Dieses schöne Ziel winkt uns aber nurerst aus weiter Ferne. Wir

haben es noch nicht erreicht. Die Freiheit ist ein Baum, dessen Wurzeln

bitter, dessen Früchte aber süß sind; noch nagen wie an seinen bittern

Wurzeln. In der ersten Aufwallung des Freiheitsgefühls ist dieser

ungewohnte Besitz etwas selbstsüchtig verstanden worden. Zwischen

Arbeitgebern und Arbeitern entspann sich ein harter Kampf. Gewerbe und

Wissenschaft, Bürgerschaft und Literaten traten sich feindlich

gegenüber."280

La libertà, frutto desueto, inebriando il popolo, ha travolto

278 K. ROSENKRANZ, op. cit. p. 39. "Suo intento, tuttavia, fu senza dubbio di porre

nel principe la totalità e l'unità soggettiva del potere sovrano, che è la forza in sommo

grado decisiva e risolutiva, sia perché sancisce il vigore delle leggi, sia perché sovrintende

ai funzionari del governo e ha il diritto di guerra e di pace". C. CESA, op. cit. p. 36.

279 Vissuto sempre a Berlino, sua città natale, tra il 4.12.1801 ed il 10.12.1893,

ottenuta l’abilitazione nel 1826, fu professore di filosofia alla Friedrich Wilhelms

Universität. Nel 1843, assieme ad un altro allievo di Hegel, il conte Cieszkowsky fondo la

società filosofica, dirigendo per 24 anni il suo organo ufficiale “Der Gedanke”. Per le sue

opere cfr. le note n. 257 e 287.

280 Cfr. C. L. MICHELET, Zur Verfassungsfrage. Der Mitgliedern der beiden

Verfassungsgründenden Versammlungen gewidmet, Frankfurt a. O. und Berlin, 1848, in H.

LÜBBE, op. cit., p. 181.

“A questa ci teniamo, dunque, per non scomparire nel gorgo. Col regime

monarchico, e per mezzo di esso, intendiamo consolidare i risultati ottenuti, affinché dalla

patria dei diritti civili derivi la conciliazione di tutte la classi [concordo qui con la

traduzione di Oldrini che rende in questo caso con “classi” il termine Stände], fiorisca da

essa la sicurezza e l’ordine dello Stato, Questa bella meta ci sorride però solo da lontano.

Non l’abbiamo ancora raggiunta. La libertà è un albero le cui radici sono amare, ma i frutti

dolci; noi stiamo ancora rosicchiandone le amare radici. Nel primo slancio del sentimento

di libertà, questo desueto possesso è stato concepito in modo alquanto egoistico. Tra datori

di lavoro e lavoratori è insorta una dura lotta. Attività economica e scienza, borghesia e

letterati si sono trattati reciprocamente da nemici” C. CESA, op. cit., p. 274.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

181

l’antica struttura cetuale, facendo riemergere gli egoismi particolari, con

quelle lacerazioni sociali che gli allievi più radicali di Hegel avevano

propiziato, in ossequio al motto per cui non è più il caso di descrivere il

mondo, ma si tratta di cambiarlo. Pur muovendosi cautamente tra

tradizionalisti e democratici, nel tentativo di sfuggire ad etichettature

politiche, comunque limitanti, il polemista berlinese individua solo nella

monarchia il criterio unificante e, quindi, realmente rappresentativo. La

forma di Stato diventa quindi elemento aggregante la comunità, forzando,

ancora una volta, il pensiero del Maestro di Berlino. Infatti, se pure si è

sostenuto che in Hegel è lo Stato che fa la nazione,281

non bisogna

dimenticare che lo Stato a sua volta è sintesi di Famiglia (comunanza di

principi morali) e Società civile (comunanza di consuetudini) cioè humus

ove si forma quel Volksgeist con un cui un popolo prende coscienza della

sua missione nel mondo ed assurge a Stato, come avremo modo di

sperimentare subito.

Non può, quindi, che essere vista con sospetto la discussione della

costituzione disordinatamente da parte di tutto il popolo. "Während die

Verfassung nämlich theoretisch durch das Volk, Teils in den Clubs, theils

in den Wahlversammlungen, theils endlich in der National-Repräsentation

debattiert wird, übt das Volk sich praktisch in der Selbstregierung, indem

alle Klassen der Arbeiter, das heißt, das ganze Volk, aber nicht mehr als

Ganzes, sondern in seine Glieder zerlegt, die künftige Organisation seiner

Verhältnisse aus sich selbst durch Verbesserungsvorschläge zu gestalten

sucht, die aus dem Schoße der Associationen der verschiedenen Arbeiter

zum Theil schon hervorgegangen sind, zum Theil noch hervorgehen

müssen."282

Ecco dov’è il vizio di fondo: nella discussione della

costituzione da parte del popolo, ma del popolo inteso come l’atomistico

insieme di individui, operazione, come si è visto, dalla quale non può

nascere nulla di buono; dacché la somma degli interessi particolari,

281 Così C. CESA, op. cit., p. xxiii.

282 H. LÜBBE, op. cit., p. 181. “Mentre infatti la costituzione è discussa dal popolo

teoricamente, parte nei club, parte nei comizi elettorali, parte infine in sede di

rappresentanza nazionale, il popolo si esercita praticamente all’autogoverno, in quanto

tutte le classi [questa volta è Michelet ad usare il termine marxiano Klassen] di lavoratori,

cioè il popolo intero, ma non più come l’intero, bensì scomposto nei suoi membri, cerca di

foggiare da sé stesso la futura organizzazione dei suoi rapporti mediante proposte di

riforma, le quali sono già in parte scaturite” C. CESA, op. cit., p. 274-5.

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DIE EPIGONEN

182

quand’anche si indirizzassero unanimemente in una sola direzione, ancora

non darebbe corpo al Volksgeist. Come si può porre rimedio al disordine

disgregante? Con un singolare operazione di livellamento degno di un

giacobino (a riprova delle differenze di orientamento politico dei pensatori

raccolti sotto il termine di Destra hegeliana), Michelet propone di

ritrovare il minimo comune denominatore nel lavoro, che –pare- diventa

così anche condizione di appartenenza al corpo elettorale. "Was ist nun

hier die Aufgabe? In den Wahlversammlungen ist jeder vom Bedienten

bis zum wirklichen Geheimen Rath nichts Anderes, als ein preußischer,

ein Deutscher Wähler, ein Staatsbürger, und alle sind einander gleich,

während draußen die Arbeit und der Stand verschieden sind. Es kommt

aber darauf an, die Gleichheit auch in dieser Ungleichheit

wiederherzustellen. Die erste Gleichheit aber, die wir entdecken, ist die,

daßwir wir Alle Arbeiter sind unter den Flügeln der Freiheit; und es ist

ungehörig, von einem Arbeiterstande zu sprechen."283

Non sfugge

l‘imbarazzata rincorsa del pensiero marxiano (proprio in quell’anno uscirà

Il Capitale), o, più in generale, della Sinistra hegeliana, che aveva ormai

strappato prepotentemente il testimone del primato filosofico dalle mani

dell’idealismo storico. Interessante che sia il lavoro a rendere uguali, sotto

le ali della libertà. L’uguaglianza non è per natura, al modo del

giusnaturalismo moderno e, come abbiamo visto, nelle suggestioni

illuministe ancora di Sieyès, al contrario è il lavoro che rende uguali. Ma

occorre prestare attenzione, poiché l’uguaglianza formale si articola in

misura delle diverse professioni. Senza con questo ripetere l’ironica

battuta di Orwell, per cui alcuni sono più uguali degli altri, la diversità di

ruoli ricostituisce quegli Stände che sembravano essere stati spazzati via

dalle Klassen: l’intero testo è un sottile gioco letterario (forse

inconsapevole) fra “ceti” e “classi”. Ma, a parte gli espedienti stilistici, è

la preoccupazione di tessere nuovamente l’ormai smagliato rapporto tra

cittadino e Stato che domina l’argomentazione dell’allievo berlinese. E la

ricetta può riuscire paradossale. Dobbiamo lavorare tutti, sia per i bisogni

spirituali che per quelli materiali del prossimo, nel campo della scienza,

come nel campo di grano, poiché anche nel campo delle lettere ci sono i

283 Qual è dunque qui il compito? Nelle adunanze elettorali ciascuno dal servitore

sino al consigliere intimo in servizio, non è altro che un elettore prussiano, (un elettore)

tedesco, un cittadino dello Stato, e tutti sono eguali fra loro, mentre fuori di lì il lavoro ed

il ceto [Stand] sono diversi. Ma è importante stabilire l’eguaglianza anche in questa

diseguaglianza. La prima eguaglianza che notiamo, però, è che noi tutti siamo lavoratori

sotto le ali della libertà; ed è improprio parlare di un ceto di lavoratori.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

183

proletari.284

Occorre allora farsi eguali in questo, nell’aspirare al bene

comune di tutti, che è l’intento di ogni lavoro, affinché ciascuno prenda

parte all’utile comune, in proporzione del suo capitale e della sua capacità

di lavoro. Il mezzo per raggiungere questa situazione viene individuato

nella libera associazione (freie Association), che diriga la concorrenza

senza sopprimerla. Ma quello che nemmeno il principio associativo riesce

a promuovere nelle corporazioni e leghe comunali è riservato, non più si

badi bene, alla Società civile, ma allo Stato. In questo modo la lotta tra

datori e lavoratori verrà a cessare.285

Preme notare fin da subito il

progressivo edulcoramento della Società civile, che vedremo eclissarsi

vieppiù per lasciar spazio allo Stato, dando maggior rigore ed unità alla

costruzione degli Juristen, ma –nel contempo- recidendo le radici da cui

era cresciuta. Lo Stato perde il ruolo di sostanza e di fine in sé, l’ideale

greco della πόλις cui aveva attinto il pensiero di Hegel, e sfuma l’idea di

poter plasmare un’accolta di popoli mediante l’ethos dello Stato. Si è così

osservato che dal punto di vista positivo gli hegeliani di destra, più o

meno progressisti che fossero, non hanno portato alcun contributo

originale, spianando la strada al liberalismo col rinunciare subito al

modello hegeliano di Stato.286

In realtà, come si avrà modo di vedere, se

284 “Auch unter den Literaten giebt es Proletarier.” Cfr. H. LÜBBE, op. cit., p. 183.

285 Non si tratta dunque di corporativismo, al modo di Battaglia, Panunzio e Ugo

Spirito, (su quest’ultimo cfr. L. PUNZO, La soluzione corporativa, Napoli, 1984), ma di

sintesi, anzi, annullamento nello Stato. Il mezzo è l’educazione comune a tutti i ceti, che

dovrebbe avvicinarle e stringerle l’un l’altra. Si affaccia un tema che incontreremo più

avanti, cioè la visione dello Stato come educatore, su suggestioni Aristotele ove sosteneva

la possibilità di affrancamento dalla schiavitù, per mezzo dell’educazione. Com’è noto, per

la soluzione di questo problema Aristotele si affida alla paideia unico rimedio, e nemmeno

sicuro, alla mancanza di eughèneia. Hegel individua il rimedio nell’Aufhebung del

movimento dialettico dello Spirito oggettivo. Per questi aspetti, fra i tanti studi, mi limito a

segnalare il breve ma denso contributo di L. BAGOLINI, La schiavitù in Aristotele, “RIFD”,

1993, pp.33-42.

286 Così C. CESA, op. cit., p. xlv. Riprendendo una vivace polemica contro il

governo prussiano che non si era dato conto del voto negativo della camera sul bilancio

militare, l’autore nota come il primo a tessere un nesso tra Hegel e Otto von Bismarck sia

stato proprio Michelet, ricordando l’ironia di Hegel contro l’altisonante parola

approvazione del bilancio “… den hochklingenden Namen der Bewillugung des Budgets”.

Il passo si trova in C.L. MICHELET, Naturrecht oder Rechtsphilosophie als die praktische

Philosophie, vol. II, Berlin, 1866, p. 177. Cesa ci ricorda che l’originale hegeliano si trova

al § 544 della terza edizione dell’Enciclopedia.

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DIE EPIGONEN

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non può essere considerato contributo originale la sola semplificazione del

delicato meccanismo del Maestro, non di meno proprio la soppressione

dei sottili distinguo che sostengono le Grundlinien ha fornito la base

concettuale che ha consentito le operazioni dei colleghi giuristi. Ed in

questo senso è un prodotto che –se pure non dimostra lo stesso spessore

teoretico- ha provocato effetti giuridici almeno quanto l’elaborazione della

Sinistra hegeliana.

L’illustrazione più compiuta del pensiero di Michelet riprende un

tema comune ad Erdmann, ma recepito incondizionatamente dal Gerber e,

soprattutto, da Laband, ricevendo tutta la forza propulsiva impressa alle

opere di questo autore da una schiera compatta di allievi e dal sostegno

dei governi. Lo si può trovare più che nella storia della filosofia del 1837,

nel manuale di filosofia del diritto del 1866.287

Quest’opera, si è osservato,

nello schema riprende l’impianto hegeliano, pur non risparmiando una

continua polemica nei confronti del Maestro. Fin dalla prefazione la nota

equiparazione, con variazioni sul tema, tra reale e razionale, viene

esplicitata nel senso che ogni diritto reale è anche razionale, per

capovolgerla, in ossequio al detto latino crescit occulto velut arbor ævo,

propugnando la formula per la quale ogni diritto razionale finirà per

realizzarsi: Alles vernüftige Recht wird wirklich. Il punto che ci interessa,

però, riguarda il ruolo dei funzionari. Se Erdmann, come si vedrà, si limita

ad auspicare che deputati e funzionari abbiano una buona preparazione

giuridica, Michelet, vuole che essi siano essenzialmente rappresentanti

delle sfere della Società civile.288

L’arte del governo, si traduce a tecnica,

la politica diviene competenza burocratica; e non poteva esser

diversamente in una prospettiva che vede nell’onnicomprensività della

287 C.L. MICHELET, Geschichte der letsen Systeme der Philosophie in Deutschland

von Kant bis Hegel, 2 Voll., Berlin, 1837-38; IDEM, Naturrecht oder Rechtsphilosophie als

die praktische Philosophie, 2 voll., Berlin, 1866, riediti uniti, come ottavo volume delle

Gesammelte Werke, Berlin, 1884, con la fortuna di avere a nostra disposizione le copie

possedute da Adolfo Ravà, di cui recano l’autografo, la data ed il luogo, quand’Egli era

ancora professore a Camerino. Cfr. si vis, il nostro Adolfo Ravà. Fra tecnica del diritto ed

etica dello Stato, Napoli, 1998, p. 275.

288 A tale proposito, C. CESA (op. cit., p. xliv) afferma la derivazione dell’assunto

dal principio dell’autogoverno professato da Michelet. A noi pare, invece, che non

debbano essere sottovalutate le esigenze razionalistiche e sistematizzanti di ordinamento

del Volksgeist affidate alla burocrazia regia, concretando così anche fisicamente

quell’unità di volontà tra cittadino e Stato, tematizzata da Hegel, che ha consentito lo

svilupparsi della teoria organica dello Stato.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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legge la volontà dello Stato. Così il cerchio si chiude: fa la legge chi

meglio conosce la legge, e chi meglio conosce la legge raggiunge un posto

nell’amministrazione dello Stato. Ma stiamo anticipando.

Dopo le premesse sullo Stato in generale, occorre vedere quale

strumento giuridico l’Hegel-Rosenkranz fornisca ai giuristi per la

realizzazione dello Stato etico. L'esposizione comincia con una

considerazione: nel formulare le sue proposte Hegel pensava

all'esperienza inglese, infatti "In der Verfassung selbst behielt Hegel die

englische Constitution vor Augen. Er forderte Öffentlichkeit des Rechts,

Preßfreiheit, Volksvertretung; die letztere soll nach ihm das

Zweikammersystem befolgen. Das Oberhaus soll aus den großen

Grundbesitzern bestehen, die als Majoratserben unmittelbar das Recht

politischer Standschaft überkommen, hierin dem Erbfürsten analog. Der

große Grundbesitzer ist, wie Hegel meint, von den Versuchungen des

Gewerbetreibenden, von einer beschränkten und beschränkenden

Verwickelung in die Endlichkeit und Verworrenheit augenblicklicher

Umstände frei. Die Continuität des geschichtlichen Process hat an ihm

ihren Träger, und der Zwang des Majorats schützt seinen Besitz gegen

seine eigne Willkür. Das Unterhaus soll aus den Abgeordneten der

Gemeinden, Corporationen und Genossenschaften bestehen; sie sollen

vom Vertrauen ihrer Mitbürger gewählt werden und aus der Kenntniß und

dem Gefühl ihrer Besonderheit sich auf den Zusammenhang derselben mit

dem Allgemeinen hinrichten, eine Ausgleichung aller Verhältnisse, eine

Auflösung aller Widersprüche hervorbringen".289

Le camere, specchio

289 H. LÜBBE, op. cit., p39. "Nella stessa forma di governo Hegel tenne davanti agli

occhi la costituzione inglese. Avanzò l'esigenza di pubblicità del diritto, di libertà di

stampa, di rappresentanza popolare; quest'ultima, secondo lui, deve attenersi al sistema

bicamerale. La Camera alta deve essere composta dai grandi proprietari fondiari, i quali,

come eredi dei maggioraschi, subentrano immediatamente nel diritto del loro stato politico,

analogamente in ciò al principe ereditario. Il grande proprietario fondiario, come ritiene

Hegel, è libero dalle tentazioni dell'esercizio di un mestiere, da un limitato e limitante

inviluppo nella finitezza e confusione di circostanze contingenti. La continuità del

processo storico ha in lui il suo esponente [ci si discosta qui dalla traduzione di Oldrini,

preferendo, in uno studio sulla rappresentanza, tradurre il termine Träger più letteralmente

con "sostenitore" o "esponente", anziché con "rappresentante"], e il vincolo del

maggiorasco difende il suo possesso dal suo proprio arbitrio. La Camera bassa deve essere

composta dai deputati dei comuni, delle corporazioni e delle associazioni; essi devono

essere eletti dalla fiducia dei loro concittadini e, in base alla consapevolezza e al

sentimento della loro particolarità, devono mirare alla connessione di essa con l'universale,

produrre un appianamento di tutti i rapporti, uno scioglimento di tutte le contraddizioni".

C. CESA, op. cit., p. 36 e 37.

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DIE EPIGONEN

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della nazione, o meglio del popolo che prende coscienza di sé ed assurge a

Stato, sono il luogo deputato alla mediazione dialettica. Tuttavia perché

possa compiersi l'Aufhebung, occorre una particolare predisposizione del

deputato a vedere le cose dello Stato: questa attitudine si concreta in un

particolare rapporto con gli elettori che è quanto a noi precipuamente

interessa. "Weil erst die Debatte alle Seiten einer Sache in's Licht stellt, so

muß das Urtheil des Abgeordneten frei sein; er darf nicht durch ein

Mandat auf eine im voraus festgesetzte Abstimmung verpflichtet werden,

in welchem Fall er nicht als eine selbstständige Intelligenz, nur als eine

Votirungsmaschine wirken würde. Einer Vertretung nur nach der

Kopfzahl oder nach einem Census trat Hegel auch hier entgegen, weil sie

auf einer todten, von allem Vernunftinhalt entblößten Atomistik beruhe

und die einzelne Person nicht als eine mit dem Staatsganzen durch eine

concrete Mitte organisch zusammengewachsene setze.290

Le assonanze rousseauiane sono palesi, e se non si fosse già detto

della polemica anticontrattualistica, si potrebbe credere che qui Hegel,

sempre nella versione di Rosenkranz, aderisca alle tesi del Ginevrino,

oltre che per la centralità dell'assemblea e della discussione, anche per

quanto riguarda la formazione della volontà generale. È interessante allora

confrontare questo punto con il resto dell'esposizione del pensiero

hegeliano. L'individualità trova il proprio superamento nello Stato, che

proprio perché superamento non può essere somma di volontà singole,

particolari. La voce dello Stato non può essere allora voce particolare, né

la sua volontà può essere di parte. Si deduce che le decisioni debbano

essere prese nell'assemblea, ove i deputati hanno mandato libero.

Nell'assemblea, perché ogni questione comune deve essere discussa in

comune, ritenendo classicamente che solo la discussione può mettere in

evidenza tutti gli aspetti del problema. Con mandato libero, perché ogni

confronto sarebbe vanificato, ogni tensione al bene pubblico sarebbe

compromessa, se la discussione fosse vincolata da istruzioni partigiane.

Dovendo tendere al bene dello Stato infatti, gli eletti non possono essere

290 Ibidem. "Poiché soltanto la discussione mette in luce tutti i lati di una questione,

il giudizio di un deputato deve essere libero; egli non può venir vincolato da un mandato

ad una votazione anticipatamente predisposta, nel qual caso egli non agirebbe da

intelligenza indipendente, ma soltanto da macchina per votare. A una rappresentanza

soltanto secondo il numero, o secondo un censo, Hegel anche qui si oppone, poiché essa

poggia su un morto atomismo, sprovvisto di ogni contenuto razionale, e non pone la

persona singola come organicamente concresciuta, attraverso un medio concreto, con

l'intero statuale". Ibidem.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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portatori di volontà parziali: ogni vincolo di mandato imporrebbe delle

volontà estranee all'assemblea, negandola nella sua più intima struttura.

Ne vien fatto discendere, come per logico corollario, che i deputati sono

inviati non con istruzioni, ma sulla fiducia nelle loro capacità di cogliere il

bene pubblico: se non lo perseguono, se non lo individuano, non saranno

rieletti.

Si possono svolgere due osservazioni. L'esigenza di responsabilità è

un forte indice di dualismo: se si deve rispondere, vuol dire che c'è

qualcuno a cui rispondere, oltre al rappresentante c'è il rappresentato. Si

badi bene, il principio di responsabilità è solo una traccia, ma è una spia

molto indicativa: non è la prova del dualismo della struttura che si sta

esaminando, ma è quasi una presunzione che si è di fronte all'esistenza di

due soggetti, rappresentante e rappresentato, legati tra di loro da un

rapporto, appunto quello rappresentativo, di cui un carattere è appunto la

responsabilità del primo verso il secondo, il redde rationem.

La seconda osservazione rileva un'aporia. Con il sistema appena

delineato sono chiamati a giudicare la tensione dei deputati verso il bene

dello Stato, a giudicarne l'operato, a sindacare la legge, cioè la volontà

dello Stato, proprio quei singoli, gli elettori, tra l'altro presi

individualmente, neanche in assemblea, alla cui funzione si era appena

riconosciuta tanta importanza. Dovrebbe risultare allora che la volontà

dello Stato è controllata e dipende dal singolo. Tale soluzione, nella

prospettiva che stiamo analizzando, è aberrante e pericolosa. L'Hegel di

Rosenkranz se n'era accorto: si è visto infatti poco sopra come l'elettività

non si convenga nemmeno ad un sovrano assoluto a vita, poiché la

"maestà della volontà sovrana dello Stato in questo senso non è reale",

dipendendo almeno logicamente da coloro che lo hanno eletto, che lo

hanno cioè creato sovrano. Il sospetto verso l'elezione è dovuto forse alla

forma di contratto sociale che si intravede in essa. In effetti l'elezione non

è altro che l'attribuzione del potere di volere (e comandare) in nome di chi

ha eletto, e tale ipoteca resta anche se una volta eletto il sovrano è

assoluto, cioè non responsabile nei confronti dei singoli elettori, non loro

rappresentante. Non è difficile allora un paragone con le forme

hobbesiane di assicurazione contro la paura, che producono il Leviatano.

Ancora una volta si pone un problema, poiché se è vero che Hegel

riprende un pensiero di Rousseau (ma della classicità) indicando nella

libera discussione la corretta tensione al bene della comunità, l'Aufhebung

dell'individualità, non si possono negare le difficoltà di individuare il

processo tecnico per il superamento della individualità nell'assoluto, del

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DIE EPIGONEN

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singolo nello Stato, difficoltà che influiscono anche sul piano teorico,

procurando incertezze ed ambiguità. Si intravede insomma lo sforzo per la

ricerca nella costruzione hegeliana di un attento equilibrio tra cittadino e

Stato. Della messa in pratica delle teorie si incaricheranno i giuristi, cui

poco importa se la realizzazione concreta incrini i sottili 'distinguo' teorici.

In altri termini se ancora in Hegel si può riconoscere il dualismo

necessario alla struttura rappresentativa, la riconosciuta esistenza di

rappresentante e rappresentato, cittadino e Stato, pur nella consapevolezza

che l'uno è nell'altro, con il necessario superamento del particolare

nell'assoluto, non così per i giuristi che, allo stesso modo di Sieyès un

secolo prima, riconosceranno solo lo Stato, il rappresentante, assumendo

che contiene in sé il rappresentato.

Da questo punto di vista, quando Laband afferma che il Reichstag

non rappresenta giuridicamente nessuno, dice una cosa incontestabile già

per la scienza giuridica del tempo, poiché de jure, mancano i due soggetti

propri della rappresentanza quale la poteva intendere un giurista tedesco

(normalmente buon romanista) dell'epoca. Non si deve dimenticare infatti,

come la formazione nelle università tedesche avvenisse secondo

l'insegnamento della pandettistica e della dogmatica. La struttura

rappresentativa, così come elaborata dai pandettisti, non corrispondeva

alla situazione del Reichstag, quale lo osservava Laband, e in questo egli è

logicamente consequenziale con la definizione accademica dell'istituto. Il

salto logico avviene dove si afferma che ogni organo dello Stato è, in

quanto statuale, rappresentativo, che di per sé sarebbe affermazione

innocua, se non si premettesse che il singolo cittadino, proprio in quanto

tale, non è capace di volontà diversa da quella dello Stato. Più che una

rappresentanza questa è una tutela. Individuo e Stato sono organicamente

compenetrati.

Organo e organismo sono termini ricorrenti nell'opera di questi

autori. I giuspubblicisti poi, a loro volta, costruiscono una teoria detta

"degli organi" o "organica". Occorre dunque ricercare quale sia il

significato di tali termini che sembrano essere l'anello di congiunzione tra

Philosophen e Juristen.

A questo proposito ci soccorre l'insegnamento di Johann Eduard

Erdmann,291

che nel 1851 tenne ad Halle un corso di "Lezioni filosofiche

291 Johann Eduard Erdmann, vissuto tra il 1805 e il 1892, completò gli studi di

Teologia a Berlino dove ascoltò Hegel. Abilitato in Filosofia nel 1834, dal 1836 alla morte

insegno ad Halle. Tra gli scritti politici che più interessano il nostro argomento ricordiamo:

Die Zusammensetzung der ersten Kammer nach §38 des Verfassungsgesetzes, Halle, 1848;

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

189

sullo Stato", muovendo e sviluppando tutto il ciclo dall'asserto "Lo Stato

come supremo organismo etico". Sullo sfondo, già lo si intravede, si

staglia lo Stato hegeliano come Aufhebung di Famiglia e Società civile,

che abbiamo incontrato al §260 della "Filosofia del Diritto", e che come il

filo d'Arianna, guida la nostra indagine. Tuttavia, prima di immergerci nel

pensiero del filosofo anseatico e per comprenderlo appieno, conviene qui

sottolineare la data: il 1851. Gli echi del '48 non si erano ancora spenti

(Erdmann ne fa oggetto di tutta la quarta e di parte della quinta lezione),

ed i "tecnici del diritto", in particolare i “neonati” costituzionalisti, erano

alla ricerca di una solida base su cui fondare i propri edifici, base che non

poteva più essere quella offerta dalla scuola romanistica di Savigny,

travolta dalla tempesta rivoluzionaria e ormai irrimediabilmente bollata

come una anticaglia del Vörmarz. È qui appena il caso di notare come le

opere di Gerber, Über öffentliche Rechte da un lato, e di Bluntschli,

Allgemaines Staatsrecht geschichtlich begründet dall'altro, siano entrambe

del 1852, mentre l'intervento di Laband nel dibattito, è del 1871. Ma di

questo parleremo in seguito, è giunto infatti il momento di cedere la

parola a Erdmann.

Asserire che lo Stato è il supremo organismo etico impone subito

una spiegazione del termine organismo ed una giustificazione del suo uso

al posto del termine comunità. "Es bezeichnen aber die Worte

Organismus, organisch, ein logisches (d. h. ein allgemeines Vernunft-)

Verhältnis",292

che non è un termine proprio solo delle scienze fisiche e

chimiche, ma che trova cittadinanza a pieno diritto anche "nella sfera che

Wie die Binnen einmal eine Republik machten. Eine Geschichte für Jedermann, erzählt

von einem alten Binenfreunde. Kostet nur einen Sechster, apparso anonimo ad Halle nel

1848; Das Mißtrauensvotum der zweiten Kammer. Von einem Namenlosen, pure

(evidentemente) anonimo, Halle, 1848; Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle,

1851 qui esaminate; In Frankreich ist/ist nicht Rechts geschehen. Screiben an den

Redakteur der Kreuzzeitung. Von einem Namenlosen, anch’esso anonimo, Berlino, 1857.

Sull'influsso di Erdmann nel diritto costituzionale, cfr. il singolare scritto di K.

Larenz, Hegelianismus und preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie Joh. Ed.

Erdmanns und das Hegelbild 19. Jahrhunderts, Hamburg, 1940, da cui citeremo anche in

seguito.

292 J. E. ERDMANN, Philosophische Vorlesungen über den Staat, Halle, 1851, p. 16-

76 e 188-192, citate in H. LÜBBE, op.cit., p. 222.

"I termini organismo, organico, designano però un rapporto logico (cioè un

rapporto universale di ragione)". Cfr. C. CESA, op.cit., p. 342.

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DIE EPIGONEN

190

oltrepassa la natura".293

Se organismo è un rapporto logico e reale proprio

in quanto logico, l'indagine si sposta sulla natura di tale rapporto, ed ecco

la definizione di Erdmann: "Was dann weiter eigentliche Natur und

Bedeutung dieses Verhältnisses oder dieser Kategorie betrifft, so

bezeichnet das Wort Organismus eine Vereinigung, welche nicht eine

bloße Summe oder Zusammensetzung ist, in welcher die Theile gesondert,

viele, bleiben, sondern eine solche, in welcher durch ein wircklisches

Eins-verden an die Stelle der Theile Glieder treten, d. h. solche, welche

nur im Ganzen sind, nur am ihm eine Realität haben. (Eine Hand vom

Leibe getrennt ist keine Hand, sondern ein Stumpf). Also durch

Aufhebung der Vielheit erst kommt ein Organismus zu Stande.

Aufhebung aber ist nicht Abwesenheit. Wo alle Vielheit mangelt, giebt es

eben so keinen Organismus, sondern nur gleichartige Masse, und seit

Aristoteles haben alle tiefer blickenden Philosophen dies mit Recht

anerkannt, daß das Organische nicht ein Atom, auch nicht ein homogenes

(homöomerisches) sey, sondern ein solches, das eine Mannigfaltigkeit

darbietet. Diese beiden Bestimmungen der Vielheit und Einheit, die

zugleich Nicht-Vielheit und Nicht-Einheit ist, vereinigen sich darin, dass

die Realität des Organismus in dem steten Ein-setzen des Mannigfaltigen,

dem steten Differenziren des Homogonen besteht".294

293 Cfr. C. CESA, op.cit., p. 342.

294 Cfr. H. LÜBBE, op.cit, p. 222.

"Per quanto poi concerne la vera e propria natura e il significato di questo rapporto

o di questa categoria, il termine organismo designa un'unione, che non è una mera somma

o composizione dove le parti restino separate, molteplici, ma tale per cui, mediante un

reale farsi-uno, entrano in essa, invece che parti, membri, cioè elementi tali che esistono

solo nel tutto, che solo in esso hanno una realtà. (Una mano separata dal corpo non è una

mano, ma un troncone). Sicché solo con il superamento della molteplicità viene ad essere

un organismo [pur riportando il termine Aufhebung tra parentesi quadre nel testo, Oldrini

lo traduce con 'soppressione'. Trattandosi del pensiero di un hegeliano riteniamo più

confacente tradurre 'superamento', poiché tale è semmai il terzo momento della dialettica

hegeliana, non 'soppressione' di tesi e antitesi. Famiglia e Società civile trovano la loro

sintesi, l'Aufhebung appunto, nello Stato, non il loro annullamento. Tutto ciò viene chiarito

nel seguito]. Superamento non è però assenza. Dove manca ogni molteplicità, non si dà

nessun organismo affatto, bensì solo massa indifferenziata, e a partire da Aristotele, tutti i

filosofi più profondi hanno riconosciuto a ragione che l'organico non è un atomo, e

neppure un che di omogeneo (omeomerico), bensì tale da presentare una varietà. Queste

due determinazioni della molteplicità e dell'unità, che sono insieme non -molteplicità e

non-unità, si congiungono in ciò, che la realtà dell'organismo consiste nello stabile

unificarsi della varietà, nello stabile differenziarsi dell'omogeneo". C. CESA, op.cit. p. 342.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

191

L'unità del sistema, l'elemento aggregante lo Stato è dato da un

idem sentire et velle, che permette l'Aufhebung, il superamento, della

molteplicità nell'unità, nella totalità dell'organismo. Questo sentimento

tuttavia, non deve essere egoistico, non è un sentimento di convenienza

particolare. Ogni particolarismo infatti incrinerebbe la sfera, ucciderebbe

l'organismo. Ne consegue, che nel luogo dell'eticità ogni volontà difforme

dagli interessi dello Stato deve essere bandita. Con questo assunto si apre

la strada a pericolose conseguenze. Infatti il termine usato, egoismo, come

assolutezza dell'io, individualità esasperata, unicità, ha sicuramente una

valenza negativa, talché di primo acchito si plaude alla sua espunzione per

la costruzione di una forma di convivenza più solida, fondata sulla

solidarietà come antitesi dell'egoismo. Ad un più attento esame però, il

significato del termine emerge dal contesto come sinonimo di individuo,

anzi, di singolo, persona, tutto ciò che non è Stato, tutto ciò che è 'altro'

dallo Stato. Da qui la conseguenza che non l'egoismo come soddisfazione

della propria individualità a scapito degli altri, ma tutta quella parte della

persona che non è Stato, ne costituisce un potenziale pericolo,

contrapponendovisi. Le deduzioni ideologiche che si sono tratte in tema di

proprietà privata, forma di egoismo, luogo di estrinsecazione della

persona e altro ancora, qui non interessano. Preme invece fin da subito

mettere in evidenza la necessità propria, vedremo, degli Juristen, che qui

affonda le proprie radici: l'Einheit dell'ordinamento. Torna tradotto in altri

termini, quanto si era visto già con Hegel - Rosenkranz: "als ein

Individuum existiren; einzelner Wille"295

"Eben so ist nun auch der Staat ein Organismus nur dadurch, dass

ein Geist in ihm waltet, der sich in dem Einzelnen als das den Egoismus

Überwindende zeigt, obgleich er sich in dem Einen mehr als bewusstlose

nur gefühlte Pietät, in dem Anderen als bewusster intelligenter

Patriotismus zeigen wird. Während eine Bande nur durch den Egoismus

der Einzelnen zusammengehalten wird, und daher das, fast immer

berechtigte, Misstrauen nur eine mechanische durch Furcht erhaltene

Einheit erlaubt, während dessen ist es im Staate der Glaube, das

Vertrauen, die Liebe, welche die Bürger verknüpft; dagegen ja mehr der

Egoismus des Einzelnen hervortritt, um so mehr erscheint der Staat als

krank".296

L’assonanza di questa proposizione del pensatore anseatico con

295 Cfr. Supra, nota n. 276.

296 H. LÜBBE, op.cit., p. 223.

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DIE EPIGONEN

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il noto passo del vescovo di Ippona svela la distinzione tra Società civile e

Stato, conseguenza della distinzione tra il contemperamento degli interessi

o delle utilità particolari, che sostengono la prima, e il bene pubblico che

anima il secondo. Ma quand’è che le regole della Società civile diventano

norme dello Stato? Quando cioè una regola che assicura la coesistenza

degli arbitri assurge a norma per il perseguimento del bene pubblico? La

risposta dev’essere cercata nel Volksgeist, frutto della presa di

consapevolezza di un popolo, mercé quell’operazione compiutamente

tematizzata dal Maestro, come si è visto, in virtù della quale il singolo “si

muta da sé” vincendo il proprio egoismo, riconoscendo il proprio bene

intimamente legato a quello della comunità etica. Lo Stato diviene

organismo per l’accordo del singolo con i suoi interessi, che sono comuni

a tutti, pur non essendo particolari di alcuno: è quindi una questione di

sentimento.

Proprio questo passaggio, questo mutamento di prospettiva che

ciascuno fa prendendo (o perdendo) consapevolezza di sé, ci riporta ad un

tema tipicamente giusnaturalistico: la contrapposizione tra stato civile,

artificiale e il mitico "stato di natura". Negare il primo significa ritornare

al secondo; quindi l'individualità che nega il primo è causa della bestialità

che caratterizza il secondo. Ogni forma di individualità, ogni pretesa di

interesse personale, costituisce un passo verso il ritorno allo "stato di

natura", che in quanto ritorno è ancor peggiore.

"Darum ist der Staat ein übernatürlicher, d. h. ein künstlicher oder

Culturzustand, umgekehrt aber das Geltendwerden des Egoismus

untergräbt nicht nur der Staat, sondern ist als Zurückfallen zum

Natürlichen, Rückfall zur Uncultur oder Rohheit, die als Rückfall

schlimmer ist als die erste Rohheit, daher ohne Ausnahme Anarchie die

Bestialität hervorruft. Der Staat ist Organismus heißt also: seine Glieder

sind durch einen Geist durchdrungen und der eine Geist zeigt sich in einer

Mannigfaltigkeit von Gliedern.297

Anche qui si incontra la distinzione tra

"Ora anche lo Stato è altrettanto un organismo, solo perché regna in esso uno

spirito, che si mostra nel singolo come capace di vincere l'egoismo, sebbene nell'uno si

mostri più come pietas inconsapevole, solo istintiva, nell'altro come patriottismo

consapevolmente ragionato. Mentre una banda è tenuta insieme solo dall'egoismo dei

singoli, e perciò la quasi sempre giustificata sfiducia permette solo un'unità meccanica

sorretta dalla paura, invece nello Stato sono la fede, la fiducia, l'amore che legano i

cittadini; per contro, quanto più emerge l'egoismo del singolo, tanto più lo Stato ne

risente". Cfr. C. Cesa, op.cit., p. 344.

297 H. LÜBBE, op.cit., 223-224.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

193

stato di natura e Società civile, seppure, per le premesse

anticontrattualisiche che abbiamo già incontrato, il passaggio dal primo

alla seconda non può essere dato da un contratto, ma da un atto di presa di

coscienza, dalla maggiore o minore consapevolezza del proprio legame

con la comunità di appartenenza. Ne consegue che, come vi sono diverse

sensibilità, così vi sono cittadini più o meno legati allo Stato: l’assunto

dimostrerà subito la sua importanza, dacché a questi è riservato un ruolo

specifico nella formazione della legge, nonché un posto insigne

nell’amministrazione dello Stato. Da questo, alla figura del condottiero,

interprete del Volksgeist, il passo è breve.298

Inoltre, a differenza del

giusnaturalismo moderno, il passaggio da stato di natura a società civile

non è univoco, ma a doppio senso, giacché dall’uno si può progredire

all’altro come dal secondo si può regredire al primo, in virtù di quel

processo “personale” di presa di coscienza che accorda più o meno la

volontà del singolo con quella dello Stato. Ci si potrebbe chiedere allora,

atteso che lo stato di natura e il contratto299

che ne veicola l’uscita sono

costruzioni ipotetiche, come debba essere considerato il sentimento che

consente il superamento dello stato di natura nella visione di Erdmann. La

"Perciò lo Stato è una condizione super-naturale, cioè artificiale o civile, ma

inversamente il prevalere dell'egoismo non solo mina lo Stato, bensì è come un ritorno al

naturale, una ricaduta nell'inciviltà e nella rozzezza che, come ricaduta, è peggiore della

rozzezza primitiva; onde l'anarchia ingenera senza eccezione la bestialità. Lo Stato è

organismo significa dunque: i suoi membri sono pervasi da un unico spirito, e un unico

spirito si mostra in una varietà di membri". Cfr. C. CESA, op. cit., p. 344.

298 La puntuale ripresa delle tesi di Erdmann a sostegno della costruzione

nazionalsocialista è programmaticamente operata da uno dei più insigni giuristi operanti

negli anni Trenta in Germania. Cfr. il singolare e raro K. LARENZ, Hegelianismus und

preußische Staatsidee. Die Staatsphilosophie Joh. Ed. Erdmanns und das Hegelbild 19.

Jahrhunderts, Hamburg, 1940. Tuttavia, per una prospettiva completamente diversa (a

riprova della non omogeneità del pensiero tedesco in tema di rappresentanza) nello stesso

anno, cfr. A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940),

Wiesbaden, 1986.

299 Non si possono appiattire le posizioni di quegli autori che vengono ricondotti

sotto la definizione di giusnaturalisti moderni, nello schema ipotetico stato di natura –

ipotetico contratto – società civile. Com’è noto, per Locke i contratti sono più d’uno,

storicamente avvenuti e destinati a ripetersi nella storia, quasi a rinnovazione delle

obbligazioni contratte, ogni qual volta il vincolo sociale dimostri di allentarsi. Così come

per Hobbes il contratto, pur essendo uno, si sarebbe storicamente verificato, al pari dello

stato di natura, del quale fornisce i noti tre esempi, dati dalla guerra civile, dal rapporto tra

Stati (“diritto” internazionale) e per gli indiani d’America.

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DIE EPIGONEN

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domanda non è oziosa, giacché se stato di natura e sentimento che ne

consente il superamento sono ipotetici, lo Stato che su tale sentimento si

poggia, lungi dal derivare la propria esistenza dalla necessità, la deve

semplicemente ad un’ipotesi. Donde una seconda domanda potrebbe

essere rivolta al nostro autore: è veramente possibile per il singolo

ritornare allo stato di natura? Dall’esposizione che precede si deve tenere

conto che il “passaggio” dall’uno all’altro non involve la pluralità di

individui, come avviene per il contratto, ma avviene mediante un

momento di autocoscienza che si avvera in maniera indipendente dagli

altri. Si potrebbe pensare che l’emergere “dell’egoismo del singolo” possa

intaccare lo Stato, ma non mai revocarlo, quasi per mutuo dissenso. Qui

giocano un ruolo fondamentale il movimento della Storia e l’idea di

eticità.

La risposta dev’essere ricercata, dunque, nella definizione di eticità,

come sintesi di morale e diritto, vera radice dello Stato, chiave di volta del

sistema, quadratura del cerchio politico: "Wir sprechen also von

Sittlichkeit nur dort, wo wir es mit einer ethischen Gestalt zu thun aben, in

welcher Moralisches und Rechtlisches sich nicht nur durch Addition,

sondern durch Multiplication, nicht nur mechanisch, sonder chemisch

verbunden haben. Die legale Gesinnung, die gesinnungsvolle Legalität,

kurz was wir Treue, Pietät nennen, das macht das Band einer sittlichen

Gemeinschaft und in ihr besteht die Sittlichkeit. Unser Satz nennt den

Staat einen sittlichen Organismus und setzt ihn deshalb ausserhalb der

bloss rechtlichen und der nur moralischen Verbindungen. Der Staat ist

kein blosses Rechtsinstitut, und die Theorie des Rechtsstaats hat an mir

keinen Anhänger, weil der Rechtsstaats nur ein aus einem Vertrage

hervorgehender seyn könnte, und weil in einem solchen es sich nur um

Rechtsobjecte d. h. um erzwingbare Leistungen handeln, die Gesinnung

aber ganz gleichgültig bleiben würde. So aber kommt es zu keinem Staat,

höchstens zu einer Solidarität egoistischer Interessen. Zu einem Staat

gehört mehr. Wie Einer noch kein guter Ehemann ist, weil er sein Weib

weder bestiehlt noch sich Injurien gegen sie erlaubt, sondern dazu gehört

dass er sein Weib liebe, so ist es um ein guter Bürger zu seyn nicht

hinreichend, dass man die Abgaben regelmässig leistet, sondern man muss

ein Herz haben für sein Volk, Liebe und Pietät, welche hier Patriotismus

heisst, macht den Bürger".300

Ciò che trasforma un'associazione di

300 H. LÜBBE, op.cit., p. 227.

"Parliamo quindi di eticità solo dove abbiamo a che fare con una figura etica, in

cui l'elemento morale e quello etico si combinano non solo per addizione, ma per

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

195

mercanti, di interessi egoistici, in uno Stato è l'eticità, cui sinonimi, per

Erdmann, sembrano essere attaccamento alla patria, patriottismo, amore

per le leggi. Una formula riduttiva se si pensa al ruolo che trova nella

costruzione di Hegel, ma anche per gli scopi dello stesso Erdmann. È stato

notato che il “civettare”301

di Erdmann con la terminologia di Hegel,

proprio in queste lezioni dedicate al commento della proposizione “lo

Stato come supremo organismo etico”, non deve trarre in inganno sulle

differenze di sostanza fra i due. Se alcuni argomenti -come la

qualificazione del suffragio o la tenuta onnipotenza del parlamento- sono

comuni, in quel tempo, a tutti coloro che guardavano con sospetto al vento

che ancora spirava dalla Francia, così da non poter essere indice di

“figliolanza spirituale”, al contrario, proprio i temi di fondo dimostrano le

differenze teoretiche più insidiose. Infatti, se Erdmann riprende

l’argomentazione hegeliana della dialettica dello Spirito oggettivo, le

integrazioni con rimandi all’organismo naturale o all’addizione chimica

moltiplicazione, non solo meccanicamente, ma chimicamente. Il sentimento del diritto, la

legalità ricca di sentimento, in breve ciò che chiamiamo lealtà, pietas [concordiamo con

Oldrini che rifiutando la traduzione letterale di Pietät, usa il termine latino nella ricchezza

di significati dipinta da Virgilio], questo forma il vincolo di una comunione etica e in esso

consiste l'eticità. La nostra proposizione definisce lo Stato un organismo etico e lo colloca

perciò al di fuori delle relazioni semplicemente giuridiche e di quelle solo morali. Lo Stato

non è un semplice istituto giuridico, e la teoria dello Stato di diritto non trova in me un

sostenitore, perché lo Stato di diritto potrebbe derivare da un contratto e perché in un tale

Stato si tratterebbe solo di oggetti giuridici, cioè di prestazioni coatte, ma il sentimento

resterebbe del tutto indifferente. Così, però, non si perviene a Stato alcuno, ma al massimo

a una solidarietà di interessi egoistici. Per uno Stato ci vuole di più. Come non si è ancora

un buon marito se non si deruba la propria moglie, e non ci si permette di ingiuriarla, così

per essere un buon cittadino non è sufficiente pagare regolarmente le tasse, ma bisogna

avere attaccamento per il proprio popolo, amore e pietas, che qui significa patriottismo,

fanno il cittadino". Cfr. C. CESA, op.cit., p. 350.

301 Così, C. CESA, op. cit., p. XLII, che ricorda come molti dei discepoli avessero

notato nell’ultimo Hegel una tendenza conservatrice delle istituzioni frutto della

Restaurazione, ben a scapito del dinamismo della storia, il vero “motore” dialettico della

sua intera costruzione. In Erdmann, forse anche perché scrive nel travagliato periodo del

Nächmarz, la tendenza conservatrice è più forte, attribuendo una funzione conservatrice a

quei corpi, organismi giuridici, cui assegnava la libertà dei singoli e la conservazione dei

caratteri permanenti dei popoli. Osservatore attento degli uomini e degli avvenimenti, le

sue osservazioni sono ritenute fondate, seppure questo suo empirismo di fondo ha impedito

ai suoi temi di assurgere ad un corpo di dottrine politiche coerente, stretto com’era tra

idealismo ed naturalismo di matrice romantica, unito alla simpatia per le scienze

empiriche, preludio al positivismo di Comte.

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DIE EPIGONEN

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finiscono per ridurre proprio il momento etico, che nelle intenzioni di

Hegel doveva spiritualizzare e, quindi, giustificare, l’elemento naturale,

mentre in Erdmann è quello a dover essere giustificato da quello. Ad ogni

modo interessa sottolineare il richiamo alla dottrina del Maestro (per

quanto stravolta) nell’affermare l’eticità come una categoria della

relazionalità diversa dalla morale e dal diritto, cioè, com’è noto, sintesi di

quelli che costituiscono il momento soggettivo della Famiglia ed

oggettivo della Società Civile, nell’Aufhebung di assoluto dello Stato.

Infatti da qui si spiega la reiezione del contrattualismo presente anche in

Rosenkranz, come si è visto, ma anche la critica all’idea dello Stato di

diritto: vista la sfiducia nelle obbligazioni giuridiche (proprie anche di una

società di ladri, secondo l’osservazione di Agostino), ne discende

l’opposizione allo Stato di diritto, cioè a quella forma di ordinamento che

affida le sue garanzie ad un sistema di pesi e contrappesi

costituzionalmente stabiliti, in forma scritta o consuetudinaria, ma, in ogni

caso, mediante norme. Questa dottrina, allora, si fonda su norme frutto di

atti di volontà e quindi affetti dall’instabilità connessa alla minaccia del

contrarius actus che le può vanificare in qualsiasi momento. Le norme

costitutive dello Stato etico debbono fondarsi invece sulla necessità che

deriva dalla sintesi della cogenza giuridica con l’imperatività della morale.

E non è un caso che la forma costituzionale del Reich fosse lo Stato di

polizia.

Solo il sentire la patria come propria, lo Stato come un bene,

consente ai molti di divenire storicamente un popolo, che occupando un

dato territorio, può assurgere a Stato. Tanto vago risulta, in questa

versione, il contenuto dell'eticità, quanto convinta ne appare la sua

ineluttabilità. Vengono allora riproposti i tre tradizionali elementi

costitutivi dello Stato, già enucleati dalla dottrina francese del Seicento,

popolo territorio, sovranità. Ed è alla definizione di quest'ultima, come era

prevedibile, che si agganciano i "colleghi giuspubblicisti". Merita quindi

di analizzare attentamente il nodo tra teoresi e pratica (o poietica?).

“Souverainetät ist im Sittlichen, was Absolutheit im Allgemeinen

ist, so dass dem Staate Souverainetät zuschreiben nur heißt, ihn für die

absolute sittliche Gemeinschaft erklären, über der es keine gibt, die eben

darum völlig autonom ist. Wo darum ein Volk die Autonomie,

Souverainetät, verliert, da hörst es auf Staat zu seyn, und umgekehrt, wo

eine Provinz zum Staat wird, geschieht dies dadurch, dass sie aufhört

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

197

abhängig zu seyn, dass sie Autonomie, Souverainetät, erhält".302

In questa

prospettiva la sovranità, prima che un concetto giuridico, si svela anche

come un concetto etico, indicando la pienezza dell’eticità. Il superiorem

non recognoscens di Bodin, che si riferiva alla spada del sovrano, si

coniuga con l’eticità.303

Lo Stato è sovrano (e, quindi, Stato) quando

riunisce in sé l’assolutezza del potere e dell’eticità, divenendo così la

comunità assoluta, ove tutto trova compimento, anche l’aspetto del foro

interno. Tutto ciò giustifica anche giuridicamente gli interventi attivi dello

Stato, a differenza del contrattualismo dello Stato liberale, che deve

limitare al limite la propria intromissione nel privato. Anzi, non c’è

nessuna funzione che sia estranea allo Stato, così come non c’è aspetto del

privato che da esso non debba essere regolato. Tra i compiti di benessere,

sorge allora la sanità, la sicurezza, ma primo fra tutti si pone l’educazione.

Lo Stato etico è prima di tutto educatore,304

portatore di un modello di

vita. Non solo. Se l’eticità comprende morale e diritto, lo Stato è chiesa

302 H. LÜBBE, op.cit., p. 234. "La sovranità è nel campo etico ciò che l'assolutezza è

in generale, sicché ascrivere la sovranità allo Stato significa soltanto dichiararlo la

comunità etica assoluta, sopra di cui non ce n'è altra, e che proprio per questo e

completamente autonoma. Laddove quindi un popolo perda l'autonomia, la sovranità, ecco

che cessa di essere uno Stato, e viceversa, laddove una provincia diventi Stato, ciò accade

perché essa cessa di dipendere, che ottiene autonomia, sovranità". C. CESA, op.cit., p. 360.

303 Diversa, com’è noto, la visione di Hegel, ove l’eticità si pone come sintesi di

morale e diritto. Anzi, la filosofia del diritto di Hegel è tutta una serrata critica alla

trascendenza diffusa nelle costruzioni attorno al diritto naturale che si sono succedute da

Grozio e Pufendorf fino a Thomasius e Wolff, secondo una formula di dottrina

secolarizzata che piega il divino secondo le convenienze dell’umano in ossequio alla

logica protestante. Se non si può riscontrare una polemica aperta con quella che sarà

chiamata (impropriamente) la Scuola del diritto naturale, non di meno ogni aspetto del

diritto è trattato per riunire reale e razionale, in rigoroso confronto con i presupposti ideali

“che non si realizzano mai”. Il riconoscimento, tuttavia, delle “regole” prestatali consente

ad Hegel di recuperare il diritto naturale, che inteso come il momento formale, il momento

esterno –se si vuole- in questo senso non molto dissimile dall’imperativo tecnico di Kant.

È solo la mediazione dialettica con la morale che trasforma le regole degli scambi di una

società di mercanti nell’eticità che cementa lo Stato e che pervade la legge. L’unificazione

di questi due momenti (morale e diritto) in una sintesi concreta da dunque luogo all’eticità

che si realizza mediante la famiglia e la società civile per inverarsi nello Stato. Non si può

dunque negare realtà alle regole prestatali, né, in quanto esistenti, una loro intrinseca

razionalità, la quale, tuttavia, nulla ha a che spartire con la tensione verso l’ideale

tematizzata dal kantismo su suggestioni, invero, di due secoli precedenti.

304 Per tutt’altra prospettiva delle funzioni statali in materia di educazione, cfr. D.

CASTELLANO, La razionalità della politica, Napoli, 1993, p. 57 e ss.

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DIE EPIGONEN

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secolarizzata e fonte del diritto privato che diviene un settore della

dottrina (o scienza) della Stato (come allora veniva chiamata), cioè quella

parte del diritto pubblico che ha per scopo la regolamentazione del diritto

tra privati.305

L’ulteriore conseguenza è la primogenitura dello studio del

diritto pubblico sul diritto privato che fino ad allora aveva costituito l’asse

portante dello studio giuridico. Le conseguenze dovranno farsi attendere,

ma già mentre Erdmann tiene le sue lezioni, Gerber medita di uscire dallo

studio del diritto privato per dedicarsi a fondare la disciplina del diritto

pubblico, vera dottrina che comprende in sé e spiega non le singole

norme, ma l’ordinamento giuridico, fondato sul concetto di Stato e di

legge. Ma che cos’è la legge?

Ecco la soluzione che si deduce per individuare la volontà pubblica,

vera chiave di volta del sistema: "Da der Staat nur ein Organismus war,

indem ein Geist alle Glieder durchdrang; das Durchdrungenseyn aber

durch diesen Geist, mag es nun mehr unbewusst, mag es mit klarer

Einsicht verbunden seyn, Patriotismus war, so besteht der Staat eigentlich

nur durch ihn. Nicht nur die Mauern, sagt schon Heraklit, machen die

Stadt, sondern die Liebe der Bürger zum Gesetz. Dieser Satz, welcher,

wenn man anstatt Patriotismus politisches Leben sagt, sogar zu einer

Tautologie wird, sichert Jedem nach dem Masse seines Patriotismus

Einfluss auf das Staatsleben. In wem wahrer Gemeingeist lebt, d. h. wer

was Vernünftige in national- historischer Weise zu verwirklichen trachtet,

der füllt einen wesentlichen Platz im Staate aus, und da leider ein hoher

Grad von Patriotismus zu den Seltenheiten gehört, wird ihm der

ausgezeichnete Platz nicht fehlen".306

Si ricorderà l’assonanza con

305 Contrariamente a quanto sostenuto da P. GROSSI (Epicedio per l’assolutismo

giuridico, in “Quaderni Fiorentini”, 17, Milano, 1988) non crediamo che l’espropriazione

del diritto privato nei confronti dei privati, nel cui patrimonio era rimasto per secoli, sia

intervenuta con il Codice Napoleone. E ben vero che la statualità, l’esaustività e la non

eterointegrabilità del diritto vengono proclamate con la sua introduzione nel 1804. Ma si

trattava di un atto di forza, che riposava sul potere di un uomo. Passato il vincitore di Jena,

la Germania si è regolata con il Corpus ancora per quasi un secolo. Qui la cosa è più

insidiosa, poiché non si tratta delle fortune di un avventuriero, si tratta di mutare la

concezione di Stato, radicandola nella necessità del movimento dialettico hegeliano.

306 H. LÜBBE, op.cit., p. 254. "Essendoci risultato che lo Stato è un organismo solo

in quanto un solo spirito ne pervade tutti i membri; ma che l'esser pervaso da questo

spirito, avvenga poi inconsapevolmente o in connessione ad un chiaro giudizio, è il

patriottismo, lo Stato sussiste propriamente solo per mezzo di quest'ultimo. Non le mura

soltanto, dice già Eraclito, fanno la città, bensì l'amore dei cittadini per la legge. Questa

proposizione che, se si pone vita politica in luogo di patriottismo, diventa persino una

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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l’aggiunta al § 301 dei Lineamenti del Maestro, dove si riconosceva (ma

solo in parte) alla capacità degli impiegati dello Stato di cogliere quello

che la ragione in sé stessa vuole.307

Qui, con ampia concessione di fiducia

alla burocrazia statale che aveva già esasperato i patrioti del ’48, l’allievo,

forzando l’assunto, introduce quel tema della attitudine dei funzionari

dello Stato, in quanto uomini dotati di maggior pietas, a percepire meglio

degli altri il Volksgeist da cristallizzare in legge. La suggestione sarà

ripresa dai colleghi giuspubblicisti, come vedremo, sostenendo per questa

via che ogni organo dello Stato, in quanto tale, è rappresentativo. È degno

di nota la variazione su di un tema che in Hegel affida al senso del dovere

dei funzionari statali il compito di perseguire il bene comune, con

Erdmann assicura un posto statale a chi ha il senso del dovere, fino a

Laband ove il funzionario è rappresentativo delle istanze popolari e

depositario delle esigenze della ragione.

L’organicità dello Stato, la sua stessa esistenza come organismo

etico, è data proprio dalla comunanza di spirito che deve pervadere ogni

cittadino, cioè dalla capacità del singolo di riconoscere il bene comune

(gemein). Il passo appare in diretta esplicazione con il pensiero del

Maestro di Berlino ove, come si è detto, il singolo si realizza in quanto

mutandosi da sé riesce a cogliere l’utilità pubblica. Si potrebbe rilevare

che si tratta di un mero processo psicologico, completamente astratto (o

virtuale, come si usa dire), sicché ciascun singolo, d’un tratto, senza

confrontarsi con alcuno, dovrebbe scoprire in sé il bene comune verso cui

dirigersi. In verità, la “maturazione”, per così dire, dei cittadini è data

dalla dialettica della Storia nel passaggio dalle prime aggregazioni

semplici, prime fra tutte la famiglia, alle aggregazioni più complesse,

come la Società civile, dove si forma quella comunanza di stirpi,

tradizioni e vedute che costituisce il sostrato del Volksgeist. Lungi

dall’essere un processo idealista nel senso deteriore dato al termine dai

critici del pensiero che vi è sotteso, si tratta allora della presa di coscienza

tautologia, assicura a ciascuno un influsso sulla vita statale secondo la misura del suo

patriottismo. Colui nel quale vive un vero spirito comune [preferisco la traduzione letterale

che rende Gemeingeist con spirito comune o di comunità, piuttosto che con spirito

pubblico], cioè chi si sforza di realizzare il razionale in modo storico - nazionale, questi

occupa un posto essenziale nello Stato, e siccome purtroppo un elevato grado di

patriottismo rientra tra le rarità, non mancherà per lui il posto insigne". Cfr. C. CESA,

op.cit., p. 391.

307 Cfr. supra nota n. 263.

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del singolo, del suo riconoscimento –se si vuole- di ciò che emerge come

il bene proprio della comunità, facendola assurgere a Stato.308

Ecco allora

che chi più è pervaso dall'eticità, più è in grado di ben servire lo Stato, in

quanto più è amalgamato "chimicamente" in esso. Ma anche è più indicato

per applicare la legge, anzi ad individuarla. La legge è ancora il prodotto

della volontà generale, ma la si rinviene con un procedimento del tutto

particolare. Non a caso viene proposta come sinonimo di "spirito di

comunità". Infatti "Der Gemeingeist oder der allgemeine Wille ist das

Lebensprincip des Staats. Wie sich nun das Lebensprincip des einzelnen

Menschen in einzelnen Lebensäusserungen zeigt, aus welchen habituelle

Lebenszustände werden, so zeigt sich hinsichtlich des Staates ganz

Analoges. Je meher Alle durch den einen Geist ihres Volkes sich leiten

lassen, um so mehr tritt eine Gemeinschaftlichkeit des Wollens hervor, die

habituell wird und die, unbewusst sich ausbildende, Sitte gibt. Wo dieses

solche Herrschaft gewonnen hat, dass die klarer Blickenden sich derselben

bewusst werden, wird sie als allgemeingültige Norm ausgesprochen, ein

Act, der die grösste Analogie hat mit dem Bilden unserer Grundsätze,

welche auch nur von unserer Handlungsweise abstrahierte Erfahrungen

sind. Wir nenne die zu Satzungen gewordene Sitte eines Volkes (Staates)

seine Einrichtungen oder Institutionen. Es liegt in der Natur der Sache,

dass hier Fehlgriffe möglich sind. Theils kann Unsittliches Gewohnheit

geworden seyn, was nicht zur Norm gemacht werden darf, theils kann der

Gesetzgeber sich übereilen und als Maxime aussprechen, was ganz gegen

die Sitte ist. Darum in jedem Momente das Bedürfniss an dem

Eingerichteten, den Institutionen, zu ändern, ganz wie auch dem gesunden

Organismus von Zeit zu Zeit Etwas abgewöhnt oder auch an ihm Etwas

curirt werden muss. Wie aber bei dem Einzel-Organismus in allen

wechseln den Zuständen, ja bei todesgefährlichen Krankheiten, nicht nur

die wesentlichen physiologischen Functionen bleiben, sondern auch jenes

bestimmte Verhältniss derselben, welches wir seine Constitution nennen,

so wird treffend mit demselben Worte der Complex der Grund-

Institutionen bezeichnet, welcher den Grund bildet, auf welchem die

übrigen Institutionen ruhen, den unveränderlichen Stock, an dem sie

308 Caso mai, più fondata può essere la critica per cui in tal modo si accetta come

necessaria ogni manifestazione della storia, ogni aggregazione storicamente affermatasi in

quanto tale.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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wechseln".309

Il movimento dialettico della Storia procede a sedimentare

le fattispecie ricorrenti trasformandole in consuetudini, fino a che la

riflessione su di esse da parte “dei più attenti” le riconosce conformi alla

natura ed alle esigenze della comunità e, pertanto, vengono poste come

norme fondamentali dell’ordinamento e dello Stato (che, in tale

prospettiva coincidono). Si tratta di quei fondamenti chiamati principi

politici dagli studiosi di diritto costituzionale, che dovendo ripetere da sé

stessi la propria vigenza si pongono necessariamente in linea con la

“natura” (o pretesa tale) della comunità che li riconosce come propri.

Ogni attività legislativa allora è rinvenimento della volontà generale

o spirito pubblico, come qualcosa che già c'è e che aspetta solo di essere

trovato. Lo spirito pubblico si manifesta nei costumi, sedimentandosi nella

tradizione, finché i più consapevoli avvenendosene, non la trasformano in

legge. Ma chi sono i più consapevoli che debbono ricercare la legge?

Senza dubbio chi è veramente pieno di eticità; lo stesso per il cui

attaccamento alla patria non potrà mancare un posto ben in vista, in

sostanza il funzionario statale, cioè lo Stato. Tutto ciò procede dall'assunto

iniziale per cui il singolo, non può avere, in campo pubblico, interessi

309 H. LÜBBE, op.cit., p. 255. "Lo spirito di comunità o la volontà generale è il

principio vitale dello Stato. Ora, come il principio vitale dell'uomo singolo appare in

singole manifestazioni vitali, che divengono abituali condizioni di vita, del tutto

analogamente avviene con lo Stato. Quanto più tutti si fanno guidare dallo spirito unitario

del loro popolo, tanto più emerge una comunanza del volere che diventa abituale e che,

formandosi inconsapevolmente, dà luogo al costume. Quando questo processo ha ottenuto

tale predominio che i più accorti se ne rendono consapevoli, esso viene dichiarato norma

universalmente valida, un atto che ha la più grande analogia col formarsi dei nostri principi

fondamentali, i quali pure sono soltanto esperienze astratte dal nostro modo di agire.

Chiamiamo ordinamenti o istituzioni di un popolo (Stato) il suo costume trasformatosi in

precetti. Sta nella natura della cosa che si possa qui incorrere in errori. In parte può essere

entrato nell'usanza ciò che non appartiene al costume, ciò che non può trasformarsi in

norma, in parte può aver troppa fretta il legislatore e dichiarare massima ciò che è

interamente contro il costume. Donde il bisogno di introdurre ad ogni istante modifiche

negli ordinamenti, nelle istituzioni, proprio come anche allo organismo malato occorre di

tanto in tanto togliere qualche vizio o anche apprestare qualche cura. Ma come presso il

singolo organismo, in tutto l'avvicendarsi delle sue condizioni, e perfino in caso di malattie

pericolose, permangono non solo le funzioni fisiologiche essenziali, ma anche quel

determinato rapporto tra esse che chiamiamo la sua costituzione, così vien designato

esattamente col medesimo termine il complesso delle istituzioni fondamentali che forma la

base su cui poggiano le altre istituzioni, il tronco immutabile su cui esse si avvicendano".

C. CESA, op.cit., p. 392.

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DIE EPIGONEN

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diversi da quelli dello Stato. E non potrebbe essere diversamente, giacché

lo Stato è il supremo organismo etico.

Dopo la rappresentanza come forma di conoscenza di Luigi XVI

con gli Stati generali, individuiamo qui una rappresentanza come forma di

manifestazione, come si è detto al primo capitolo, di ciò che già c'è, ma

non è visibile ai più. In questo senso, e solo in questo, possiamo dire che

l'organo statale rappresenta il volere del popolo. Tuttavia, il solo fatto che

non vi possa essere alcuna forma di volontà rappresentata al di fuori di

quanto interpretato dallo Stato, ci fa concludere per un monismo

strutturale compiutamente stabilito. Tutto ciò risolve forse il problema del

rinvenimento del costume e della positivizzazione della legge, ma non il

processo di formazione, di sedimentazione del costume, del Volksgeist. In

questo gioca un ruolo fondamentale la Storia. Ogni costume, ogni

tradizione, quindi ogni legge è tale solo in quanto storicamente sentita dal

popolo. Da ciò deriva un corollario molto importante: l'autorità della legge

non è tanto nella forza che la sottende, ma nell'attaccamento del cittadino,

che la sente come propria, in quanto storicamente rispondente alle proprie

esigenze. Ma quale Storia, Quella di Savigny e della sua scuola, o

piuttosto quella di Hegel che a Savigny si era fermamente opposto? È già

stato messo in evidenza310

come dopo il 1848 la distinzione sulla Storia

dei filosofi e quella dei giuristi perda di carattere, fino a sfumare quasi del

tutto. Tant'è che né gli allievi del Filosofo berlinese, né i discepoli del

Giurista berlinese, torneranno su questo argomento. Tutto ciò, secondo

noi, è indicativo per due ordini di ragioni. Da un lato mostra come il ruolo

della Storia, centrale in Hegel, venga ereditato più dalla Sinistra

hegeliana, che non dagli autori qui esaminati. Dall'altro, per la

consapevolezza, conscia o meno, di questi filosofi e giuristi, che la Storia

ha ben poca rilevanza in concreto. Se logicamente infatti si ammette che

legge è solo quanto sentito tale dallo spirito pubblico, quanto storicamente

sedimentatosi come costume di un popolo, per un altro verso si è visto

come solo un interprete autorizzato, solo chi abbia ottenuto dallo Stato la

310 Il dissenso di Hegel per la Scuola storica è esplicito nelle Grundlinien der

Philosophie des Recht, ora in Vorlesungen über Rechtsphilosophie, nell'edizione curata da

K H. ILTING, Stuttgart, 1974, voll. II p. 60. Sulla scia del Maestro si mosse anche E. GANS,

Das Erbrecht in weltgeschichtlicher Entiwicklung, Berlin und Stuttgart, 1824-35, su cui

infra.

Sulla questione cfr. altresì G MARINI, La polemica con la scuola storica nella

Filosofia del diritto hegeliana, in "Rivista di Filosofia", 1977, n 7, 8, 9; nonché IDEM, F.C.

von Savigny e il metodo della scienza storica, Milano, 1966.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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patente di giurista, è in grado di individuare la storicità di un costume per

trasformarlo in legge. In altre parole, ancora una volta muovendo

dall'assunto che nel campo pubblico il cittadino non può avere una volontà

diversa da quella dello Stato, si comprende come la Storia non rilevi

veramente nella determinazione della legge più di quanto non la

riconosca, magari accidentalmente, l'apparato. Si deve dedurre allora, che

la legge non è tale perché storicamente sentita dal Volk, ma perché voluta

dallo Stato, che per definizione vuole ciò che i cittadini vogliono. Quanto

statuito dallo Stato sarebbe allora il costume sedimentato. Il che di per sé

non sarebbe eccessivo, se non fosse collegato all'ulteriore corollario del

principio primo: se il cittadino non può avere in campo pubblico un

interesse diverso da quello dello Stato, ogni organo dello Stato è, in

quanto tale, rappresentativo. Ben si può dire allora che lo Stato fa la

Storia. Ad esiti analoghi perverrà, per altro verso anche la Scuola storica

del diritto. Lo stesso Savigny nel Beruf, poneva le basi per lo sviluppo del

Professorenrecht, carattere proprio dell'Ottocento tedesco, in

contrapposizione ai giudici dell'esperienza inglese e al legislatore

francese. La vera legge e la stessa certezza del diritto, riposano "in einer

organisch fortschreitenden Rechtswissenschaft".311

Veri interpreti del

Volksgeist, possono essere solo i cultori di una scienza giuridica,

sistematizzando ed unificando i disordini della prassi giudiziaria. Il pregio

della loro interpretazione è proprio quello di essere "sempre identica,

identica in quanto scientifica".312

Qui è il giurista, o meglio, lo scienziato

del diritto, l'unico autorizzato ad interpretare ciò che storicamente è

proprio della comunità, è il Volksrecht. In questo caso non in forza della

presunta rappresentanza di tutto il popolo, ma grazie al rigore scientifico

del loro approccio all'esperienza, che per buona parte dell'Ottocento

significava verità indiscutibile. Anche qui, ci pare, il processo di

sedimentazione non rileva, la Storia è fatta dai Professoren, ma con una

differenza. Se questi ultimi rinvengono il diritto sulla scorta di strumenti

scientifici, che proprio in quanto tali sono ritenuti oggettivi, al contrario lo

Stato sente il costume del popolo in quanto ne è piena immedesimazione,

ne è il massimo prodotto etico. Proponiamo due osservazioni delle molte

311 F. C. von SAVIGNY, Von Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und

Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814, 3° ed. 1840, p. 161.

312 Cfr. G. TARELLO, Orientamenti analitico-linguistici e teoria dell'interpretazione

giuridica, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1971, p. 1-18.

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che si potrebbero dedurre. Il diritto rinvenuto dalla Scuola storica, in

quanto prodotto di un certo metodo scientifico, con una continuità

omogenea ed ininterrotta dal Methodenlehre del 1802, al System del

1840,313

derivava la sua autorità di legge dalla asserita non contraddizione,

dall'intrinseca logicità, dall'assolutezza dei suoi risultati. Quando nel 1841

Lorenz von Stein, recensendo il primo volume del System savigniano,314

critica tale metodo dall'interno, riesce dove Gans non era arrivato. In altri

termini, una volta dimostrato che il metodo della Scuola storica non è

altro che uno dei possibili e che può essere sostituito da un altro, si pone la

scure alle radici dell'autorità di legge di ogni suo prodotto scientifico,

relativizzandolo. Von Stein dimostra cioè la convenzionalità del metodo

savigniano, ma non si ferma qui. Ne contesta infatti anche l'operatività,

denunciandone i limiti intrinseci, l'inidoneità di ricercare nel diritto

romano soluzioni a problemi del momento attuale, come per esempio la

disciplina delle ipoteche. Ma il colpo di grazia di ogni metodo è la

proposizione in suo luogo di un altro maggiormente operativo. E questo

giunge laddove von Stein indica la possibilità di sistematizzare tutto il

diritto muovendo la costruzione dal diritto pubblico, cioè dall’autorità

dello Stato. Qui possiamo dire trova la sua giustificazione e la sua nascita

la Giuspubblicistica tedesca. Proporre di muovere l'indagine attorno al

diritto prendendo le mosse dallo Stato non vuol dire negare la storicità del

diritto, anzi, è riconoscere che proprio nello Stato si manifesta la più alta

forma di convivenza, che è insomma il luogo dell'eticità.

Questo ci porta alla seconda considerazione che più interessa ai

nostri fini. Se il diritto è storia di un popolo e la sua massima espressione

è lo Stato, quale sintesi di morale e diritto, in campo pubblico non vi è

differenza tra individuo e Stato. Le leggi dello Stato sono il

riconoscimento del diritto di un popolo, del costume di un popolo

storicamente affermatosi come tradizione prima e diritto poi. Ogni forma

di rappresentanza tra popolo e Stato circa il diritto non solo è inutile, ma è

anche inconcepibile, perché per questo aspetto Stato e popolo vogliono –e

313 F.C. von SAVIGNY, Juristische Methodenlehre, ed; postuma, a cura di G.

Wesenberg, Stuttgart, 1951. IDEN, System des heutigen römisches Rechts, 8 voll. Berlino,

1840-49.

314 L. von STEIN, Zur Charakteristik der heutigen Rechtswissenschaft, in

"Deutscher Jahrbücher für Wissenschaft und Kunst" n. 92-100, 1841.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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quindi sono- la stessa cosa.315

Non vi è dualità di soggetti, sarebbe come

rappresentare se stessi.

L'aproblematicità o, se si preferisce, il carattere ideologico di questa

costruzione, emerge dall'impossibilità di una verifica se quanto dichiarato

legge dallo Stato sia veramente diritto del popolo. In altre parole non vi

sono strumenti per giudicare o verificare se lo Stato ha ben riconosciuto i

costumi e scelto tra quelli che hanno sufficiente tradizione per divenire

diritto. Manca insomma la "prova del nove" per verificare che

l'operazione dell'organo statale nel porre la legge, sia corretta. Ben diverso

sarebbe l'approccio ammettendo la rappresentanza.

In questo caso infatti in ogni momento verrebbe messo in

discussione il punto di partenza della costruzione, quello che abbiamo

chiamato il principio primo: nel campo pubblico il cittadino non può avere

un interesse diverso da quello dello Stato. Per il principio di responsabilità

che, si è visto, contraddistingue la rappresentanza, ogni disposto

governativo, ogni atto del rappresentante è soggetto al rendiconto del

rappresentato, al modo che quand'anche oggetto del mandato fosse quello

di "riconoscere il costume del popolo", l'effettiva corrispondenza tra

quanto deciso e quanto è,316

risulta oggetto di controllo. Che questo poi sia

315 Come si vedrà meglio infra § III.3, per quella particolare correlazione tra essere

e volere di cui si è già fatto cenno, il singolo e lo Stato sono la stessa cosa, costituendo

un’unità in senso processuale e sostanziale. Peraltro, questa tendenza alla Einheit di cui si

è detto più volte nel testo, nella sua multiformità di manifestazioni vanta origini lontane,

affondando le radici nel basso medioevo, come ha ben dimostrato il conciso ma acuto

saggio di E. ANCONA, Reductio ad unum. Il modello gerarchico di ordinamento e le sue

rappresentazioni medievali, Padova, 1999, ove viene tematizzata la distinzione tra il

paradigma della ordinatio ad unum, nell’attribuzione del proprio posto ad ogni cosa

all’interno di un ordine generale, e la reductio ad unum, che mira invece ad appiattire le

diversità per ottenere l’omogeneità geometrica.

316 In questa prospettiva, dunque, il popolo esce dalla situazione di minorità nella

quale lo avevano confinato gli emuli di Hegel, secondo una concezione che abbiamo visto

essere criticata già da Gans che più di altri era vicino al Maestro. Non si nega la

tendenziale corrispondenza tra volontà degli eletti ed elettori; solamente non la si dà per

scontata, consentendo al rappresentato di sindacare l’operato del suo rappresentante. Ed è

proprio per questo, come si è visto, che Hegel intendeva mantenere una camera elettiva,

accanto ad una camera di alta formata per cooptazione o per diritto ereditario, in modo da

avere regolari elezioni, assicurando però il temperamento ad eventuali derive populistiche.

In questo modo il meccanismo di Hegel prende vita, mantenendo un ruolo attivo al

rappresentato ed al rappresentante, in un movimento dialettico che, se trova la sua

necessità nella Storia, ha la sua aspirazione nella libertà del singolo all’interno di un

ordine. Per questi ultimi aspetti, in lettura sinottica con il contributo citato alla nota

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DIE EPIGONEN

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in concreto effettivo o meno è problema spinoso, ma che riguarda i modi

di attuazione pratica della rappresentanza; qui si sta ancora distinguendo

tra sua ammissione o no. Potremmo allora dedurre che intrinsecamente la

rappresentanza ha una valenza filosofica o, meglio, è strumento che

permette una continua verifica, carattere essenziale per ogni ricerca, ma

anche principio, forse, di ogni convivenza.

Tanto Hegel quanto Erdmann si pongono il problema della verifica

della coincidenza tra legge e diritto. Tuttavia il secondo non lo risolve.

Come si è visto nell'ultimo passo citato, Erdmann si dilunga a descrivere il

passaggio da costume a legge, ma quando si tratta di individuare le

discrepanze tra i primi e le seconde, si limita a dire che in questo campo è

nella natura delle cose incorrere in errori. Tutto ciò che è stato dichiarato

norma e non lo doveva essere, per troppa fretta del legislatore o per una

sua svista, sarà opportunamente rimosso, così come per l'organismo

umano qualche cura o qualche operazione è necessaria, senza per questo

far venire meno lo stesso organismo. Si vede come alla prospettazione del

problema, Erdmann non faccia seguire alcuna soluzione effettiva,

confidando che come il legislatore saprà individuare il diritto tra i costumi

del popolo, così anche saprà individuare i propri errori e autocorreggersi.

Ben altro spessore emerge dal progetto costituzionale di Hegel. La

previsione di due camere con distinta formazione, pur con le particolarità

e i distinguo di cui si è detto sopra, indica la necessità che il legislatore

possa sussumere il diritto dalla società, pur avendo l'attenzione rivolta

verso il bene pubblico cui sono legati i fini particolari. Tutto ciò

testimonia il tentativo di ricomprendere il particolare nell'universale, non

di cancellare il primo nel secondo.

Seppur la costruzione non sembra reggere alla critica di

irresponsabilità dei deputati elettivi che possono sempre asserire, senza

tema di smentita, di aver seguito l'interesse pubblico, comunque,

basandosi il mandato su di un rapporto fiduciario, laddove la rielezione

non avvenisse, si dovrebbe concludere che effettivamente, anche con le

migliori intenzioni, il bene pubblico da essi individuato, non

corrispondeva effettivamente con quanto sentito dal popolo. Alla critica

che in questo modo lo Stato sarebbe in balia di volontà singole,

mascherando l'elezione un contratto sociale da poter sciogliere in ogni

momento, privando così lo Stato della sua maestà, anzi, negandone la

precedente, si veda il saggio di J. KIM, Der Begriff der Freiheit bei Hegel, Frankfurt (a

M.), 1996.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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stessa natura etica, Hegel risponde mantenendo una camera alta non

elettiva, formata da i maggiorenti terrieri del regno, sulla considerazione,

che non dipendendo il loro voto dagli elettori, possano tener di mira

l'interesse dello Stato, tanto utilmente legato al loro, per usare

un'espressione di d'Holbach. Una soluzione fisiocratica si dirà, certo, ma

qui non interessa sindacare la bontà del meccanismo proposto, sulle cui

difficoltà, lo si è già detto e visto, le migliori teorie si sono arenate. Qui

interessava solo evidenziare la differenza tra la posizione di Erdmann, che

elude ogni necessità di soluzione, e l'Hegel di Rosenkranz, che tale

necessità sente pressante.

Un altro aspetto preme mettere in evidenza e si trova all'inizio

dell'ultima lezione del corso di Erdmann.

Ecco la conclusione del corso: "Genau genommen ist in dem bisher

Gesagten unsere Aufgabe, den Staat zu betrachten, gelöst. Es ist aber kein

Zufall gewesen, dass wir zuletzt zu dem Verhältniss zwischen den Staaten

übergegangen sind. Wir haben nämlich erkannt, dass der Staat ein

persönliches Wollen, ein wollendes Ich ist, als solches bethätigt er sich

nun, indem er ad extra thätig ist oder handelt (Handeln ist: den Willen

äußern)".317

Tutto il corso si riassume nella definizione di Stato come volere,

come un io volente. Appare la struttura dell'individuo aborrita dalla

costruzione hegeliana, tradotta nello Stato: un singolo di dimensioni

maggiori, non il superamento del particolare nell'assoluto. Ciò è

l'antecedente logico di quanto abbiamo visto in tema di rappresentanza,

l'identificazione di rappresentante e rappresentato. Se, infatti, l’uomo, in

quanto cittadino, trova la sua necessaria realizzazione nello Stato, nel

campo pubblico la volontà del cittadino e quella dello Stato sono

necessariamente la stessa cosa; sicché non si pone problema di

rappresentare la volontà dei sudditi agli organi dello Stato, poiché tanto i

primi quanto i secondi sono retti dallo stesso Geist, così che non possono

darsi tra di loro disparità di vedute e di volere; ancora, ogni distinzione tra

317 H. LÜBBE, op. cit., p. 266. "Abbiamo infatti riconosciuto che lo Stato è un

volere personale, un io volente, che si attua come tale in quanto è attivo ad extra, o agisce.

(Agire è: esternare la volontà.)". C. CESA, op.cit., 409. Per i profili di secolarizzazione

connessi alla equiparazione essere – volere, cfr. lo studio di F. BORKENAU, Der Übergang

vom feudalen zum bürgerlichen Weltbild, Paris, 1934, tr. it. a cura di G. Marramao, La

transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, Bologna, 1984,

nonché R. BRAUN, Deus Christianorum. Recherches sur le vocabulaire doctrinal de

Tertullien, Paris, II ed., 1977.

Page 208: IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA3 INDICE PREMESSA p. 1 .I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA .I.1. Posizione del problema e questioni di metodo INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA

DIE EPIGONEN

208

volontà ed interessi risulta superata, nella presupposta coincidenza

dell’una con gli altri. Ma una seconda relazione appare ancora più

interessante: il soggetto è in quanto agisce e l'agire è manifestare la

volontà. Si è introdotta così l'equazione essere è volere, sulla quale

occorre adesso cedere la parola agli Juristen.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

209

3.3.2 Die Juristen

PREMESSA: RECEZIONE DEI TEMI HEGELIANI E LORO COLLOCAZIONE A FONDAMENTO DEL

DIRITTO PUBBLICO DA PARTE DEI PRIMI STAATSLEHRER – PREMINENZA DEL DIRITTO PUBBLICO

SUL DIRITTO PRIVATO PER LO STUDIO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO – IMPORTAZIONE DEL

METODO DOGMATICO DAL DIRITTO PRIVATO AL DIRITTO PUBBLICO – NECESSARIA IDENTITÀ

DI VOLONTÀ IN CAMPO PUBBLICO TRA CITTADINO E STATO: COSTITUZIONE DI UN’UNICA

PARTE IN SENSO FORMALE E PROCESSUALE – RAPPRESENTATIVITÀ NECESSARIA DI OGNI

ORGANO DELLO STATO IN QUANTO TALE – LEGAMI ED ASSONANZE TRA LE POSIZIONI

TEMATIZZATE DA ERDMANN E LE COSTRUZIONI GIURIDICHE PROPOSTE DA GERBER –

CONCLUSIONE: CEDIMENTO DI GERBER NELL’AMMETTERE UN SINDACATO DIRETTO DEL

POPOLO SULL’OPERA DEGLI ORGANI DELLO STATO E CONSEGUENTE CONTRADDIZIONE CON

L’ASSUNTO INIZIALE DELLA PRETESA IDENTITÀ DI VOLONTÀ TRA CITTADINO E STATO.

Occorre verificare quanto delle soluzioni offerte dai filosofi sia

stato effettivamente accolto in campo giuridico, ma soprattutto, quali

trasformazioni abbia subito il prodotto dei primi nella trasmigrazione

verso il secondo. I due aspetti sono essenziali alla medesima domanda: si

possono muovere fruttuosamente ai giuristi le critiche che sono state

rilevate e quelle che ancora potrebbero esserlo, ai Philosophen? In altri

termini, occorre verificare attentamente quanto le teorie dei filosofi

appena esaminati sostengano le costruzioni dei giuristi, degli esponenti

della giuspubblicistica tedesca dalla seconda metà dell'Ottocento, fino ai

primi del secolo ventesimo. In secondo luogo, una volta riconosciuto il

frutto teoretico degli Epigonen, come seme da cui cresce la robusta radice

del pensiero dei principali costituzionalisti tedeschi, occorrerà esaminare

quali adattamenti, mutamenti o varianti abbiano subito dette tesi nell'opera

dei giuristi. Una volta stabilita una relazione e delimitatone

convenientemente l’ambito, si potranno muovere ai costituzionalisti le

stesse critiche rilevate o rilevabili nei confronti dei filosofi. L’operazione

può essere fruttuosa per due ragioni. La riflessione sulla rappresentanza è

stata condotta, per lo più, all’interno del diritto costituzionale, senza

indagarne i presupposti teorici (spesso inconsaputi) che la sostenevano.

Parimenti, le critiche all’impostazione metodologica di fondo si sono

generalmente ridotte a bollare come ideologia questa o quella teoria,

spesso muovendo da prospettive parimenti dogmatiche ed ideologiche. Da

un lato, quindi, la critica è rimasta all’interno della tecnica giuridica,

potremmo dire, dell’ingegneria costituzionale, dall’altro, si è prodotto un

duello, rectius una schermaglia tra ideologie. Si cercherà allora di

verificare allora di verificare le origini, la tenuta e le eredità del pensiero

dei principali tra questi autori, attorno alla rappresentanza, con particolare

riguardo alla pretesa necessità di distinguere tra rappresentanza nel diritto

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DIE JURISTEN

210

privato e rappresentanza nel diritto pubblico, o rappresentanza politica,

nei limiti in cui questa distinzione –come già detto- sia proficua.

All’indomani del 1848, nelle università tedesche, il problema dello

Stato era trattato non nelle facoltà di giurisprudenza, ma in quelle di

filosofia, e la dialettica hegeliana, ripetuta dagli allievi con accenni

sempre diversi, avvinceva tanto i più entusiasti del pangermanesimo

nazionalista, che vi riconoscevano la libertà portata dal vento francese,

mitigato da genuini sentimenti tedeschi, quanto dai più conservatori più

accaniti, che vi leggevano la garanzia e la legittimazione dell’ordine: una

prova di quest’ambivalenza è data dalla difficoltà di classificazione

politica degli autori esaminati sopra, collocati indifferentemente tra gli

hegeliani di destra o di sinistra, come Michelet. Nel momento in cui i

giuristi guardano allo Stato trovano fondata (e congeniale) l’idea che esso

si fondi su di una necessità storica, sottratto quindi alla volontà delle parti

che non costituiscono alcun contratto. Anzi, lo Stato è mezzo e fine ultimo

per la realizzazione dei cittadini, sottolineandone l’identità di volontà che

li rende un’unica parte sostanziale e processuale, ed addirittura un unico

soggetto, per la correlazione forzata in forza della quale se due soggetti

vogliono la stessa cosa costituiscono un unico centro di imputazione di

volontà ed interessi, costituiscono un’unica parte, quindi se hanno identica

volontà, sono la stessa cosa. Fatta propria la dottrina dei colleghi filosofi, i

giuristi si pongono ora il problema del metodo per affrontare lo studio

dello Stato; metodo che non può certo essere quello dei filosofi, per non

condividerne le osservazioni non scientifiche, ma che deve avere tutta la

dignità propria della tecnica giuridica, seppure l’attenzione per la storia è

un tratto comune non solo tra giuristi e filosofi per buona parte del XIX

secolo, pervadendo pressoché tutto il mondo delle lettere. E proprio dalla

storia giunge il paradigma con cui declinare in termini giuridici le

osservazioni del colleghi filosofi.

Il mutamento fondamentale nel metodo giuridico, per l'aspetto che

ci riguarda, avviene nel 1841, con la già ricordata recensione di Lorenz

von Stein al primo volume del System des heutigen römisches Rechts di

Savigny. Come si è detto il carattere dirompente di questa critica,

paradossalmente, è storico: ritenere che ogni aspetto del diritto sia

rinvenibile nelle fonti giustinianee è astorico e antistorico. Astorico,

perché presuppone che nessun mutamento sia avvenuto nei tredici secoli

trascorsi dalla compilazione, negando le nuove esigenze della mutata

società, come in tema di garanzie reali, o per gli aspetti di diritto

commerciale. Antistorico, perché lo stesso approccio alle fonti non

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

211

avviene tramite lo studio di un testo dato, da ricostruire e scoprire in tutti i

suoi aspetti, ma con una continua violenza del dato testuale per farvi

ricomprendere aspetti, istituti, problemi, sconosciuti ai compilatori. Al

modo dei glossatori, il tentativo di dedurre ogni istituto dal Corpus Juris,

aveva lo scopo di accreditarne l'autorità, di pari passo con il potere del

giurista.318

La smascherata relatività della riflessione della Scuola storica

attorno al diritto, ne fa venire meno ogni autorità. Occorre dunque far

riferimento ad un altro polo, e questo non può essere che lo Stato.

L'autorità che sostiene le sue statuizioni è molto più oggettiva e

sicuramente più efficace di quella dei Professoren per due ordini di

motivi. Da un lato lo Stato, come suprema entità etica, rinviene

infallibilmente, o meglio, insindacabilmente, ciò che corrisponde alle

necessità della nazione. Dall'altro, l'uniformità dei precetti statali consente

di superare le mutevoli opinioni dei dottori della legge. Da tutto ciò

derivano due osservazioni. In questa prospettiva lo studio del diritto

pubblico supera logicamente il diritto privato: ogni nuova riflessione del

diritto deve muovere dallo studio della struttura dello Stato - Legislatore,

poiché solo dallo studio preciso dei suoi meccanismi, si può comprendere

il processo di rinvenimento delle norme, di cui la società è insieme fonte e

destinataria. La considerazione invece che l'autorità delle norme derivi

dalla forza nel senso di coazione fisica dello Stato, è ancora del tutto

secondaria. Lo Stato può e deve porre il diritto, poiché storicamente

portatore dei fini del popolo, là dove il momento costrittivo non è ancora

riconosciuto come preponderante caratteristica del diritto statuale.

Se dunque il Volk è creatore e portatore dei costumi e delle

tradizioni, se lo Stato è l'unico soggetto capace di interpretare il diritto,

rinvenendolo nella tradizione, il diritto privato deriva dal diritto pubblico.

318 La considerazione dei Glossatori derivava dall'autorità del “grande libro caduto

dal cielo”, di cui custodi, quasi sacerdoti, avevano il monopolio. La forza delle soluzioni

proposte risiedeva nella possibilità di dedurle dal testo romano. Stabilita dalla Storia

l'autorità del testo infatti, ogni operazione logica che permettesse di ricondurre il caso al

dato testuale godeva di un'autorità derivata inconfutabile. Grosso merito dei Glossatori, tra

gli altri, è allora l'enucleazione di un metodo, di un sistema, per procedere alla sussunzione

di diverse fattispecie concrete in una sola astratta. Si tratta, in fondo, della nascita del

procedimento analogico. Ma è anche il modo di applicare dettami di cinque secoli prima

alla mutata società, operazione che sistema ed ordina la società stessa.

La Scuola storica, svolge e sviluppa le stesse premesse, fondando la propria

autorità oltre che sulla tradizione del diritto romano, sulla ratio scripta che è il Corpus, ma

ancor più efficacemente sulla sistematizzazione scientifica e, in quanto tale, oggettiva,

della propria elaborazione.

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DIE JURISTEN

212

Sono qui superate le diatribe circa la codificazione, i dibattiti attorno alla

certezza, alla statualità, alla non etero- integrabilità che avevano animato

il dibattito circa la codificazione agli inizi del secolo. È appena il caso di

ricordare la polemica tra lo stesso Savigny e Thibaut, con gli strascichi

che ha avuto ad opera dei vari allievi. La prova della mutata prospettiva

d'indagine sta nel fatto che il codice giungerà in Germania quando la

giuspubblicistica aveva già iniziato la sua parabola discendente. Tutto ciò

indica, secondo noi, non che la preminenza del diritto pubblico sul privato

fosse funzionalizzata ad una giustificazione di potere o ad una ricerca di

sostegno nello Stato, ma al contrario, come proprio il mutamento di

indagine attorno al diritto derivi dalla riconosciuta funzione dello Stato,

non di titolare dell'uso legittimo della forza, quanto di fedele interprete

delle esigenze della nazione, secondo un percorso che troverà in Hegel il

suo principio. Che da questo secondo carattere si passerà al primo, è cosa

talmente nota da poter risultare banale. Qui interessa mettere invece in

evidenza come il passaggio dalla preminenza del diritto privato allo studio

del diritto pubblico avvenga essenzialmente per esigenze logiche

dogmatiche. In altri termini era nelle stesse premesse di Savigny che si

dovesse giungere alla primogenitura del diritto pubblico, per cui, in realtà,

von Stein non fa che svolgerle secondo quanto lo stesso metodo di

Savigny imponeva, cioè secondo i canoni della dogmatica. L'indagine

attorno alla struttura dello Stato non poteva che avvenire, come di fatto è

avvenuta, secondo il metodo proprio della scienza giuridica: la dogmatica

appunto.

Tuttavia tale metodo, come è noto319

nasce dal diritto privato e vi

deve la struttura, improntata all'unità. Non è un caso che molte opere della

319 La dogmatica, com'è noto, è quello strumento conoscitivo per cui si procede

alla formazione di una griglia di definizioni, base nella quale sussumere l'oggetto di

indagine tramite il procedimento di genere e specie. Gli Stessi concetti primari sono

definiti tramite un processo di identità e differenza. Procedimento già noto alla

giurisprudenza romana classica, appare fondamento anche della compilazione giustinianea,

ma è nell'Ottocento tedesco, con la Scuola Storica, che riceve nuovo impulso e rigore

scientifico (per quanto un tale approccio sia legittimo nei confronti del diritto). Tale

pretesa porterà a quel formalismo eccessivo, cui la Scuola del diritto libero non è che la più

radicale delle reazioni. Sul punto specifico cfr. E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen

Grundbegriffe, Gotha, 1877; IDEM, Juristische Prinzipienlehre, Freiburg und Leipzig,

1894; R. STINTZING, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und Leipzig,

1880; E. LANDSBERG, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München und

Leipzig, 1898; più recentemente, cfr. W. SAUER, Juristische Methodenlehre. Zugleich eine

Einleitung in die Methodik der Geisteswissenschaften, Stuttgart, 1940; F. MÜLLER,

Juristische Methodik, Berlin, 1976; nonché il più diffuso K. LARENZ, Methodenlehre der

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

213

giuspubblicistica tedesca abbiano per titolo Die Einheit der

Rechtsordnung, e che comunque tale argomento sia uno degli oggetti

principali di ricerca. Occorre qui richiamare la conclusione del corso di

Erdmann, che abbiamo ricordato sopra, lo Stato come un Io volente, per

congiungerlo al sistema dogmatico. La simbiosi tra einzelner Wille degli

Epigonen e procedimento dogmatico degli Juristen produce l’edificazione

di quel granitico edificio statale, di cui il monolitismo labandiano non è

che l’ultima logica conseguenza, nel soffocamento delle articolazioni

tradizionali della società che pur nell’assenza di sistematicità ne

garantivano però anche la vitalità. In altri termini l'analisi attorno allo

Stato della prima giuspubblicistica tedesca muove da questo presupposto e

con questo metodo: occorrerà attendere la teoria istituzionalistica perché

si incrini il mito della Einheit. La struttura logica assegnata allo Stato,

secondo anche la dottrina degli Epigonen, unita al metodo di indagine, già

ci illumina circa il ruolo della rappresentanza in questa costruzione. I

problemi sorgono infatti nel costringere il dualismo di questa nell'unità

dell'ordinamento, conciliare due soggetti parimenti esistenti e volenti, con

l'Io volente di Erdmann. Si badi bene che non si tratta più, come fino al

tempo di Sieyès, di ridurre il consaputo dualismo di teoria in tecniche

moniste, ma è la stessa struttura della costruzione teorica che non può

tollerare logicamente dualismi: si sono sottolineate al paragrafo

precedente le difficoltà di Hegel-Rosenkranz su questo punto; preme ora

mettere in evidenza le soluzioni di chi più si riteneva versato in tecniche

costituzionali.

Prima ancora dei mutamenti del 1848, Robert von Mohl320

aveva

sollevato in un lavoro comparativo321

la difficoltà di assegnare al sovrano

Rechtswissenschaft, V ed., Berlin, 1983, della cui I ed. (1960) esiste una traduzione

italiana, non a caso, limitata alla parte storica, Storia del metodo della scienza giuridica,

Milano, 1966. Recentemente, oltre a R. MENEGHELLI, Al giurista che si professa

dogmatico: una parola di chiarimento, in “Diritto e Società”, 1992, p. 577 e ss.; si vedano

anche gli illuminanti i saggi raccolti in P. DE FRANCISCI, E. BETTI, Questioni di metodo:

diritto romano e dogmatica odierna, Como, 1996, con contributi di Giorgio Luraschi,

Giuliano Crifo e Gabrio Lombardi; nonché A. FALZEA, Dogmatica giuridica, Milano,

1997.

320 Robert von Mohl (Stuttgart 1799 — Berlino 1875), appartenente alla piccola

nobiltà rurale, studia a Tübingen ed a Heidelberg, dove si laurea nel 1822. Dal 1826 alla

morte insegna Scienza dello Stato all'Università di Tübingen.

321 Über die verschiedene Auffassung des repräsentativen Systems in England,

Frankreich, und Deutschland, apparso nel 1846. Nel 1852, all'indomani della costituzione,

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DIE JURISTEN

214

la completa rappresentanza dei governati. La riflessione muoveva dalla

scelta dei ministri per la formazione del gabinetto di governo. Mohl

sosteneva la necessità che il sovrano scegliesse tra esponenti del partito di

maggioranza e rilevava un elemento destabilizzante nel dualismo tra

Monarca e rappresentanza popolare.322

Il termine dualismo qui usato

potrebbe trarre in inganno. Non si tratta della consapevolezza dualistica

della struttura rappresentativa, ma della percezione di due centri di potere

nel medesimo Stato, fonte di confusione, destabilizzazione e disordine in

quanto negazione della Einheit. Mohl non indaga se i rappresentanti siano

veramente tali, né se il monarca sia, a sua volta, rappresentante, ma

sostenuto da una robusta indagine storica sui precedenti francesi e,

soprattutto, inglesi, vede comunque il pericolo di un conflitto tra monarca

e parlamento. La sua proposta di Volksvertretung consiste

nell’accomunare i rappresentati per interessi materiali, artistici spirituali e

territoriali, quasi al modo delle corporazioni, ma non vengono invece

analizzati i rapporti tra eletti ed elettori, tra rappresentati e rappresentanti.

Mohl contestava la capacità del sovrano di comprendere ed

interpretare il Volksgeist nella sua totalità, là dove il suo scopo era quello

di garantire una camera formata sulla base dei differenti interessi, proprio

per "rappresentare" nel senso appunto di far conoscere, le esigenze della

nazione al sovrano. Di qui che l'autore non muova alcuna critica allo Stato

come interprete esclusivo dei costumi popolari quando pone le leggi, ma

realizza che ciò non può essere fatto da un uomo solo. Sostanzialmente la

struttura non viene mutata, si individua un organo, che meglio di un altro

possa procedere all'interpretazione - legislazione: il problema di stabilire

chi possa verificarne la bontà dell'operato, la corrispondenza tra posto ed

interpretato non c'è, ancora. Lo stesso Mohl successivamente,323

denunzierà l'insufficienza dell'analisi attorno al diritto mossa

esclusivamente dal punto di vista dello Stato. L'importanza dell'intervento

emerge dalla necessità di individuare un terzo polo tra individuo e Stato.

Mohl tornò ad occuparsi di rappresentanza con Das repräsentative System, seine Mängel

und die Heilsmittel. Entrambi i lavori sono raccolti in Staatsrecht, Völksrecht und Politik,

2 voll., Tübingen, 1860, da cui citiamo.

322 Mutuiamo il termine da M. FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica

nell'Ottocento tedesco, Milano, 1979, p. 96.

323 Cfr. R. VON MOHL, Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, 3 voll.,

Erlangen, 1855 — 1858.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

215

Si avverte, in altre parole, la difficoltà del superamento del singolo nello

Stato: la struttura unitaria, anzi unica, dell’individuo non trova la sua

Aufhebung nella ormai altrettanto unitaria, singolare, in sostanza nella

Einheit der Rechtsordnung, che non è più equilibrata sintesi di singolo e

società civile, così come disegnata da Hegel. Tra individuo e Stato, Mohl

inventa, anzi recupera, un terzo stadio, autonomo dagli altri due, non

comprensibile in termini di volontà individuale, cioè non riducibile al

diritto privato, ma al contempo, parimenti estraneo alla volontà suprema,

alle categorie del diritto pubblico. Sembra già trattarsi della Società civile

hegeliana, ma se ne è sicuri quando Mohl la definisce come entità

indipendente dal concorso delle singole volontà, non il frutto di un

accordo, ma necessità della convivenza, naturale, dotata quindi di un

carattere oggettivo. È avvertito qui il nodo della legge statuita e non

"riconosciuta", della discrepanza tra costume e diritto, la necessità della

dualità. La società civile è vista allora come luogo di sedimentazione ed

humus per il Volksgeist, fungendo da ponte tra cittadino e Stato. Tuttavia,

pur sentendo la differenza tra società civile e Stato, al momento

dell'attuazione, Mohl sostiene che tra i due termini deve esserci pieno

accordo, rinunciando così a costruire lo Stato più sulla forma della società

civile, che sull'individuo ed appiattendo così quelle esigenze che pure

aveva colto. Ancora una volta, come per la rappresentanza nazionale, pur

rilevando la piega individualistico - unitaria presa dalla riflessione attorno

alla Stato dalla nascente dottrina giuridica pubblicista, e contrapponendovi

efficacemente la realtà della Società civile, non si deduce o non si propone

una costruzione dello Stato differente. Si dovrà attendere la teoria

dell'Istituzione e della Fondazione, per spezzare l'Einheit e procedere alla

costruzione di una dottrina dello Stato più vicina al concetto di Società

civile.

È interessante notare come con la rottura dell'equilibrio hegeliano

tra individuo e Stato, già presente negli allievi del Maestro berlinese,

imponga una rincorsa al recupero della Società civile, che si era ritenuto

di poter liquidare sulla scorta dell'identità tra singolo in quanto cittadino e

Stato, secondo quell'interpretazione del § 258 della Filosofia del Diritto,

ormai più volte citato.

Sull'altro versante invece, la traduzione giuridica dello Stato come

organo giunge nei primi anni Cinquanta del secolo XIX, con l'opera di

Heinrich Ahrens. Le date sono indicative: Die Philosophie des Rechts und

des Staates in due volumi, il primo con il titolo Die Rechtsphlosophie

oder Naturrecht auf philosophisch - antropologischer Grundlage, esce a

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DIE JURISTEN

216

Vienna nel 1850, il secondo, nella stessa città, due anni più tardi, con il

titolo programmatico Die organische Staatslehre auf philosophisch -

antropologischer Grundlage.324

Tutto il pensiero di questo autore è il

tentativo di conciliare il diritto naturale con l'organicismo dello Stato,

sottraendolo al monopolio del contrattualismo e della sovranità popolare.

Anzi, il non dissimulato intento è quello di dimostrare come lo Stato

organico sia per diritto naturale, cioè secondo natura, la sola forma di

Stato.

"Lo Stato essendo un organismo vivente, esiste e si sviluppa

mediante una unità di principio che l'anima fin dall'origine e che forma la

regola e lo scopo costante della sua attività. Se non vi fosse un'unità

fondamentale del principio e dello scopo, il dualismo o anche una più

grande varietà di tendenze costituirebbe un vizio generale che getterebbe

necessariamente lo Stato in una indecisione perpetua e non permetterebbe

niun'azione ben coordinata, niun ordine in un piano adottato o nel

complesso della sua attività. Epperò tutti gli Stati si sono sempre posti,

come scopo predominante, di mantenere l'ordine e la società".325

Questo il § 107 del secondo volume del Corso di diritto Naturale,

intitolato Dello scopo dello Stato sotto l'aspetto ideale. Vi si riconosce

l'insegnamento degli Epigonen o, comunque, un'identità di posizioni, nel

tentativo di costruire l'Einheit dell'ordinamento sul carattere organico

dello Stato, organismo vivente, parafrasando Erdmann.

Merita attenzione la trasformazione dello Stato monolitico,

patrimonio privato del sovrano o comunque ambito di dominio assoluto,

secondo la concezione che ancora era prevalente dopo la Rivoluzione

francese, e la struttura organica, sembrerebbe quasi pluralistica, dello

Stato disegnato dagli Epigonen: sintesi di Famiglia e di Società civile

324 Alle opere citate nel testo deve aggiungersi Juristische Enziklopädie oder

organische Darstellung der Rechts und Staatswissenschaft auf Grundlage einer ethischen

Rechtsphilosophie, Wien, 1855.

Nel seguito faremo riferimento alle seguenti opere a nostra disposizione: Dottrina

generale dello Stato, trad. it. di P. del Giudice, Napoli, 1866; Naturrecht oder Philosophie

des Rechts und des Staates, 2 voll., Wien, 1870; Corso di diritto naturale o di filosofia del

diritto, trad. it. di A. Marghieri, 2 voll., Napoli, 1872; Cours de Droit Naturel ou de

Philosophie du Droit, VIII ed., Leipzig, 1892.

325 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 323. Richiamare le coeve lezioni di Erdmann appare superfluo. Sovviene invece

l’assonanza con la distinzione di N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno, Bologna, 1993, p. 52,

citata supra al § I.1.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

217

nella versione del Maestro; identità col popolo o, meglio, unica

manifestazione del popolo, nelle posizioni degli allievi. Tuttavia non è

possibile ridurre cosi semplicemente il pensiero di Ahrens. Infatti poco

prima, al § 105, intitolato Dell'origine dello Stato e della sua ragione di

esistenza, si legge che lo sviluppo organico degli Stati può compiersi in

due forme giuridiche: sia mediante costumi o consuetudini, sia mediante i

contratti. Questa seconda forma è più frequente in ambiti più vasti, "ma

non serve allora che ad imprimere, in una forma dichiarativa, il soggetto

giuridico a tutti i rapporti che si sono già dapprima stabiliti. Un simile

contratto politico, conseguenza di uno sviluppo anteriore, deve essere ben

distinto dal contratto sociale immaginato dalle scuole, che muove dalla

finzione di uno stato di natura, affine di ricostruire a nuovo tutto l'ordine

sociale".326

Dei due modi appena enunciati, la consuetudine come

consolidamento dei costumi, secondo l'insegnamento idealista, e il

contratto sociale –pur nella versione così rinnovata– sembra allora che

comunque la costituzione dello Stato possa avvenire solo tramite la prima

via e che il contratto non sia che una mera dichiarazione di quanto de

facto già accaduto, il cui solo valore è quello di descrivere la realtà, ma

rimane un atto senza pregio, flatus vocis, quando questa aderenza si

esaurisce, quando il contratto è superato dagli eventi, dalla Storia. Infatti

"la teoria del contratto politico comprende sì la verità essenziale, cioè che

ogni ordine sociale deve riposare sulla libera cooperazione dei suoi

membri; ma ha torto di elevare la volontà a principio di diritto, di

sostituire ad una idea divina un idolo umano. Gli uomini e i popoli

infrangono facilmente gl'idoli che essi stessi hanno elevati; epperò l'ordine

sociale, per essere rispettato e riformato in continuità organica, dev'essere

compreso nel suo fondamento divino e nei suoi rapporti organici con le

condizioni dello sviluppo umano. Al di sopra del potere della loro volontà,

gli uomini e i popoli son tenuti a riconoscere il dovere che debbono

compiere nell'ordine politico per tutti gli scopi di coltura".327

Merita particolare attenzione, per il ruolo che sarà chiamata a

svolgere, il riferimento alla volontà. Si è visto come l'Hegel degli

Epigonen, muova la critica al contrattualismo proprio sulla scorta della

326 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 312.

327 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p.313-314.

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DIE JURISTEN

218

volontà individuale, ritenuta insufficiente per sostenere lo Stato e porlo a

quel livello per cui possa essere riconosciuto come proprio dal gesamte

Volk. Correttamente allora si era espunta la categoria della volontà come

base dello Stato, sostituendola con la necessità della Storia, rompendo con

la tradizione. Tuttavia se tale sostituzione avviene per l'aspetto che

riguarda il popolo e lo Stato, la volontà permane la categoria della

sovranità nella fase discendente del rapporto che riguarda lo Stato e il

popolo: la volontà è e resta infatti alla base della Herrschaft, o potestà di

imperio, nella traduzione della dottrina italiana, colla distinzione che se

n'è operata dalla sovranità.328

Il momento volontaristico dell'ordine

statuale permane allora in latu actionis, ma non più nella formazione dello

Stato: il popolo non emana giuridicamente alcuna volontà e, per quella

peculiare correlazione tra volontà ed essere cui si è già fatto cenno, si

potrà dedurre che il popolo non esiste giuridicamente. Così facendo però,

si reintroduce la volontà come categoria fondante lo Stato anche in quel

lato da dove la si era appena espunta, e cioè il rapporto crescente che dal

singolo porta allo Stato.

In altri termini si è potuto sganciare la formazione dello Stato dalle

volontà singole proprio sfruttando l'insegnamento hegeliano che a queste

ultime sostituisce la necessità della Storia. Tuttavia, osservato che la

volontà era ancora alla base delle manifestazioni dello Stato verso i

governati, solo attraverso queste esistente ed operante, si è dedotto che il

popolo non manifestando delle volontà, giuridicamente non fosse. Infatti, i

giuristi operano un indebito mutamento di paradigma: accolgono la

fondazione dello Stato non sulla volontà dei sudditi (teoria

contrattualista), tuttavia recuperano il momento volitivo quale radice delle

norme, nel momento discendente (dallo Stato verso i sudditi) e viene

surrettiziamente reintrodotto l’equiparazione volontà/essere, per cui il

popolo che non è in grado di emanare alcun atto di volontà giuridicamente

rilevante, viene considerato inesistente; dimenticando che invece la

volontà del popolo è la volontà dello Stato per la forzatura dell’assunto

hegeliano oramai citato a sazietà. Tutto ciò è funzionale, ancora una volta,

alla sovranità dello Stato. Così come i delegati agli Stati generali di

328 Cfr. nota n. 107. La distinzione viene appiattita, fino ad usare i termini come

sinonimi, ancora nel dibattito attuale: cfr. E. CHELI, Cultura delle istituzioni, politica e

innovazione costituzionale in Italia, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI (a

cura della), La riforma costituzionale, Atti del convegno (Roma, 6 – 7 novembre 1998),

Padova, 1999, p. 3; S. P. PANUNZIO, Le forme ed i procedimenti per l’innovazione, ivi, p.

15.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

219

Francia gettano al vento le proprie istruzioni, negando la derivazione del

proprio potere dagli elettori e ponendosi come potere costituente, allo

stesso modo, ma con portata più radicale, il concetto di Stato sorto dal

connubio tra Epigonen e Juristen spiega la propria azione dalla volontà

dei singoli, ricavandola dalla necessità della storia. Tuttavia, la

manifestazione dell’essere dello Stato, anzi la sua stessa unicità-sovranità

si mostra con atti di volontà diretti verso la moltitudine dei sudditi cioè di

quel popolo la cui volontà –prima ritenuta identica a quella pubblica- è

stata assorbita dallo Stato. Lo Stato è in quanto vuole, poiché emana atti di

volontà giuridicamente rilevanti; il popolo, a seguito del processo

“chimico” di compenetrazione, non può più fare altrettanto, e ne viene

inferita la sua non-esistenza o, comunque, l’irrilevanza in termini

giuridici, sicché il popolo giuridicamente è solo in quanto organizzato nel

parlamento: con Sieyès, la Nazione è l’Assemblea. Viene così assorbito

l’ultimo distinguo di Hegel, ovvero l’identità di volontà tra cittadino e

Stato in campo pubblico, passando dall’identità di volontà all’identità di

essenza, riducendo due soggetti che vogliono la stessa cosa ad un solo

soggetto giuridicamente rilevante: se il cittadino non può che avere la

stessa volontà dello Stato, è solo quest’ultimo che veramente conta.329

La

contraddittorietà della deduzione prima dal presupposto della necessità, e

poi con i criteri della volontà non tarderà ad esplodere. Lo stesso Gans

aveva denunciato la finzione di un popolo posto sotto tutela al pari di un

incapace. Per il momento è solo il caso di notare come lo svincolamento

dello Stato dalla volontà dei singoli comportasse il superamento della

struttura volontaristica anche per la rilevanza dei singoli stessi all’interno

dello Stato. All’opposto, per Hegel l'intento di fondare la forma massima

di convivenza sulla necessità della Storia non comportava certo

l'annichilimento della società civile, sul presupposto che giuridicamente

non fosse in grado di volere, proprio perché tale volontà non era più

ritenuta fondante lo Stato. Al contrario, il secondo momento dello spirito

oggettivo, è quello della volontà dei singoli, degli scambi, potremmo dire

329 Indubbiamente in questo processo di astrazione gioca un ruolo essenziale il

principio unificante del concetto giuridico di “parte” in senso sostanziale, intesa come

centro di imputazione di volontà e di interessi, ancorché formata da più soggetti, tutti

dotati di autonoma capacità giuridica. A questo aspetto però si unisce la caratteristica

assorbente propria della sovranità che, come luogo della volontà, tende ad equiparare

volontà ed essere. Si avrà modo di vedere nel prosieguo le ulteriori conseguenze di questa

prospettiva in campo processuale, segnatamente nel momento di individuare lo jus actionis

del singolo nei confronti dello Stato. Cfr. infra § III.3.

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DIE JURISTEN

220

dell’autonomia negoziale; dacché, se per singoli plurimi atti di volontà i

soggetti intessono relazioni che costituiscono la società civile, la

coscienza storica li porta verso lo Stato.

In verità, scopo di Ahrens era ancora quello di dare dignità di

"conforme Natura" allo Stato organico, o "organato", secondo la

traduzione di Marghieri; di dimostrarne cioè l'ineluttabilità storica, in

antitesi alla contingenza del "contratto sociale". In questo tragitto le tappe

intermedie restano in ombra, abbagliate dal traguardo finale, fino a

perdere rilevanza autonoma. Infatti, al successivo § 108, trattando Dello

Stato e della Società umana nella loro distinzione e nei loro rapporti,

concedendo ad Hegel di essersi avvicinato alla costruzione da lui

sviluppata, Ahrens afferma che "la giusta teorica, fondata sul principio

dell'organamento sociale, si reassume nei punti seguenti. La società e lo

Stato non sono due ordini opposti e separati. La società è l'ordine sociale

completo, comprendendo tanti ordini sociali quanti vi hanno scopi

principali particolari, ai quali si tende in questi ordini differenti. La società

è un insieme di scopi organati; per ciascuno scopo principale v'ha un

ordine, un organismo particolare. Lo Stato è l'ordine organato per lo scopo

del diritto, così come la Chiesa lo è per lo scopo della religione, come

l'ordine economico lo è per lo scopo del lavoro agricolo, industriale e

commerciale, ecc.".330

Su questa identità tra società civile e Stato o,

meglio, sulla sola manifestazione della società civile che è lo Stato, si

comprende il ruolo ed il significato della sovranità. Questa ha infatti avuto

la stessa sorte toccata al potere pubblico in generale, cioè di essere

confusa con l'onnipotenza, col dispotismo, in altre parole di essere

"accentrata, in vece di essere concepita organicamente e ripartita tra le

diverse sfere dell'ordine sociale".

“La sovranità della nazione si deve in primo luogo distinguere dalla

sovranità del popolo. In fondo la differenza non è che storica a cagione del

modo differente come sono state giudicate queste due nozioni. Per

nazione s'intende il popolo nella sua unità e nel suo organamento intero,

mentre che si comprende generalmente per popolo, la nazione nella massa

degli individui; l'una è un concetto organico, l'altra un concetto atomistico

del medesimo soggetto. La sovranità della nazione esprime la grande

verità che la nazione nell'organismo e nell'azione regolare dei suoi poteri

costituiti decide in ultima istanza di affari concernenti l'intera nazione,

330 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 346.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

221

mentre che la sovranità del popolo, situata nella massa, nel numero, agisce

non mediante gli organi costituiti; ma mediante una specie di forza fisica,

e fa valere una volontà, che, invece di sottomettersi ai principi obbiettivi

della verità e della giustizia, si considera la sorgente di tutto ciò che è

giusto".331

È superfluo il richiamo alle posizioni del primo Sieyès, di

quello cioè del Qu'est-ce-que le Tiers Etat?, dell'ambivalenza di popolo e

Nazione, indistintamente ora come potere costituito, ora come potere

costituente. Il dogma della sovranità popolare, di Marsilio ed ancora di

Cusano, alla radice anche delle teorie medioevali del monarca assoluto, è

ben lungi dall'essere messo in discussione: gli eventi del '48 sono ancora

troppo vicini. Esso viene tuttavia incanalato nel concetto meno

individualistico e più "organico" di Nazione; un procedimento astrattivo,

di spersonalizzazione che era già convenuto a Sieyès, si è visto, per

l'irresponsabilità dell’uso del potere che comporta.

Con queste premesse possiamo leggere il capitolo dedicato alla

Pubblica Rappresentanza.

"Lo Stato, per essere un vero organismo etico del diritto, deve

presentare un intimo rapporto di azione reciproca tra l'organo centrale ed

il complesso delle diverse sfere della vita nazionale. Questo rapporto si

organa mediante la cooperazione di quelle diverse sfere all'esercizio di

tutti i poteri".332

Dopo aver ricostruito la formazione storica dell'istituto, si

individua che "lo scopo della rappresentanza consiste in costituire lo Stato

realmente ciò che è in idea, un affare di tutti, un ritemprare senza posa i

poteri alle sorgenti prime della vita nazionale, in istabilire un legame

politico insieme e morale tra gli individui e l'ordine generale, (...) ed in

rianimare il sentimento di solidarietà mediante la parte che prende onde

recare in atto l'idea del diritto e l'ordine dello Stato; spetta anche alla

rappresentanza di sviluppare l'intelligenza politica e di diventare un

potente mezzo di educazione popolare".333

Ecco una nuova funzione della

rappresentanza, che non si era esaminata nella prima parte di questo

lavoro, la funzione educatrice (il corsivo è nel testo). Muovendo dal

331 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 356.

332 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 395.

333 Cfr. H. AHRENS, Corso di filosofia naturale o di filosofia del diritto, cit., II vol.,

p. 397.

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DIE JURISTEN

222

presupposto di sintonia, quando non identità, tra governanti e governati,

funzione dei rappresentanti è quella di far comprendere quest'utile unità di

intenti per il benessere della comunità e per la convivenza, di ricordare

come l'interesse del cittadino sia tanto felicemente congiunto con quello

dello Stato. Se l’assonanza stilistica può far propendere per una

similitudine con la radice fisiocratica che si è vista in d’Holbach, al

contrario dissimula un contenuto teso a che i “rappresentanti” instillino

nei “rappresentati” il senso dello Stato, quasi plasmandoli su se stessi;

concretando così un’inversione logica, per la quale è l’immagine che

modifica a proprio uso la realtà. E si vedrà che questa posizione, qui

scopertamente paradossale, non è abbandonata, ché, anzi, qualche autore

tutt’oggi la fa apertamente propria (cfr. infra, § III.2 e 3).

Sullo stesso fronte si impegna Bluntschli,334

che nega dignità

concettuale alla società civile e alla volontà singola e più in generale ad

ogni volontà in quanto non manifestantesi nello Stato. Il popolo è un

essenza organica. In un saggio sulla concezione dello Stato, il nostro

individua il passaggio tra medioevo e modernità nella concezione unitaria

del Volk, nel superamento della caratteristica cetuale che,

frammentandolo, contraddistingueva il popolo nel sistema medioevale. Da

tutto ciò deduce l'importanza della rappresentanza popolare per

caratterizzare lo Stato moderno. Tuttavia l'aspetto interessante, il

contributo originale più rilevante ai nostri fini, è la conseguenza che

l'autore deduce: la rappresentanza è un istituto centrale del diritto

pubblico. Per la prima volta la rappresentanza viene riconosciuta

importante, elemento centrale nella struttura dello Stato, tanto da dover

essere ricompresa nell'ambito del diritto pubblico e da questo regolata, ma

conseguentemente costretta nelle maglie di questo per essere a lui

adattata, come in un letto di Procuste.

Già abbiamo quanto ci serve per comprendere il ruolo e la struttura

della rappresentanza nella costruzione di Bluntschli, e con lui in buona

334 Bluntschli nasce a Zurigo nel 1808, lascia la Svizzera nel 1848 per ricoprire la

cattedra di diritto pubblico dell'Università di Monaco. Dal 1861 succede a Mohl

nell'Università di Heidelberg fino alla morte, che lo coglie nel 1881.

A nostra disposizione sono: Deutsches Privatrecht, 2 voll., München, 1853 — 54,

rist. Frankfurt, 1983; Geschichte der neueren Staatswissenschaft. Allgemeines Staatsrecht

und Politik seit 16. Jahrundert bis zur Gegenwart, München, 1881, rist. Aalen, 1965;

Lehere von modern Staat, 3 voll., Stuttgert, 1876, rist. Aalen, 1965; nonché il rarissimo

Über den Uterschied der mittelalterlichen und der modernen Staatsidee, München, 1855:

trattasi del testo di una conferenza tenuta da Bluntschli a Monaco il 5 febbraio 1855.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

223

parte dei giuspubblicisti seguenti: la fortuna di Bluntschli infatti derivò

anche dalla sua abile retorica. Da un lato lo Svizzero mutua dalla Scuola

storica la concezione unitaria del Volk, quale abbiamo visto sopra, unita

però alla struttura organica propria della Destra hegeliana, dall'altro

proprio da quest'ultima deriva la concezione di Stato organo, espungendo

ogni volontà che non sia statale e in particolare la società civile, che

ancora Mohl cercava di recuperare. La rappresentanza popolare allora, da

un lato non può essere volontà esterna allo Stato, poiché non se ne dà

alcuna, dall'altro non può essere frammentata, poiché il popolo è un'unità

organica, al modo dello Stato. D'altro canto lo stesso popolo trova forma

sensibile solo nello Stato. Se all’osservazione che Stato e popolo sono la

stessa cosa Bluntschli, o un suo allievo, potrebbe opporsi, non così se si

dicesse che Stato e popolo vogliono le stesse cose, che hanno un unica

volontà. Per le premesse poste infatti l'uno si realizza nell'altro. Vale

appena il caso di notare qui la relazione essere è volere, che abbiamo visto

alla fine del paragrafo precedente e che emerge, quale dato acquisito dalle

posizioni dei diversi autori. La rappresentanza popolare moderna allora è

rappresentanza dello Stato, non è rappresentanza dei singoli che

compongono il popolo, perché questa era la visione medioevale, ma è

rappresentanza dell'unità organica del popolo nella nuova versione della

consaputa unità tedesca. Ne deriva che i deputati non possono essere

vincolati alle istruzioni particolari dei loro elettori, né rispondere a questi

del loro operato, visto che non i singoli rappresentano, ma il popolo nella

sua unità. Questa conseguenza dall'unità popolare, o come allora si diceva,

dall'indivisibilità della Nazione,335

l'abbiamo già trovata in Sieyès. Qui

preme mettere in evidenza l'ulteriore conseguenza che per la prima volta

ne trae proprio Bluntschli: la rappresentanza popolare diviene un istituto

fondamentale del diritto pubblico. Il che non sarebbe paradossale se non si

trattasse del diritto pubblico dello Stato organico, quale si è appena

tratteggiato. In questo modo, anche la rappresentanza viene espropriata al

popolo e ricondotta all’interno del diritto pubblico. In questo modo non vi

335 Non crediamo errato rinvenire in questa convinzione l’origine della

correlazione tra sovranità popolare ed indivisibilità della Nazione, precipitata anche

nell’art. 5 della vigente Costituzione italiana, secondo la formulazione rousseauiana

espressa nel 1789 da Lally-Tollendal: “La souveraineté ne réside que dans le tout réuni; je

dis le tout parce que le droit législatif n'appartient pas à la partie du tout; je dis réuni, parce

que la nation ne peut exercer le pouvoir législatif lorsqu'elle est divisée et elle ne peut alors

délibérer en commun.”. Cfr. Archives parlamentaires, Serie I, vol. VIII, p.204, nonché, per

il profilo giuridico italiano tra sovranità popolare e sovranità nazionale, infra, § II.3.5.

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DIE JURISTEN

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è più un inadempimento del dovere di rappresentare, eccezionalmente

giustificato par l'invincible tocsin de la nécessité di Mirabeau;336

al

contrario, qui non c’è più alcun diritto ad essere rappresentato: non si

tratta di infrangere un diritto che c’è, ma di negare l’esistenza dello stesso

diritto. Ecco perché la struttura della rappresentanza viene assorbita ed

adattata alle esigenze che abbiamo visto: divieto di mandato imperativo ed

irresponsabilità dei rappresentanti, sono corollari necessari alla Einheit di

Stato e popolo di cui abbiamo appena detto. Inizia in questo modo la

distinzione tra rappresentanza di diritto privato e rappresentanza di diritto

pubblico, o politica, che il 7 luglio 1789, Barrère de Vieuzac aveva

profetato. Ma si badi bene che tale distinzione è del tutto funzionale alla

teoria organica: corollario di questa, ne è il valido sostegno.

Non sfugge, pur nell'identità dei risultati, ossia il divieto di mandato

imperativo e l'irresponsabilità del deputato, la diversa prospettiva

dell'asserto nell'ottica rivoluzionaria e nei teorici postquarantotteschi.

Anche Bluntschli, come del resto la maggior parte dei teorici dello Stato

tedesco, muove da una decisa opposizione nei confronti della teoria

contrattualistica e della sovranità popolare, che saldamente è alla base dei

costituenti francesi di sessant'anni prima.

Hegel-Rosenkranz ci ha già avvertiti come muovendo da una

prospettiva contrattualistica, si potrebbe dedurre che lo Stato derivi da

volontà singole e ne sia subordinato; in stretta conseguenza allora anche

gli organi dello Stato sarebbero subordinati a volontà singole, o alla

somma di volontà singole che allo Stato hanno dato vita. Lo stesso

sovrano anche se eletto a vita, non potrebbe essere tanto indipendente da

garantire l'esistenza dello Stato, poiché, se non altro logicamente,

subordinato a chi lo ha eletto. Il timore di questi autori è la possibilità di

dedurre che, essendo lo Stato per contratto dei singoli che gli preesistono

e la sovranità appartenendo al popolo, i deputati debbano rispondere a

questo, vanificando la loro costruzione che si basa sul presupposto

dell'identità tra Stato e popolo, o meglio, dell'impossibilità per il cittadino

di aver interessi in campo pubblico diversi da quelli dello Stato. È solo

con un escamotage, abbiamo visto, che Sieyès pone la sovranità tutta

intera nella Nazione e che questa non è rappresentabile fuori

dall'assemblea. In questo modo l'abate riesce a giustificare il divieto di

mandato imperativo, ma in base alle premesse, non dovrebbe ammetterlo.

Più radicale Rousseau che conseguente alle premesse contrattualistiche,

336 Cfr. supra, § II.2

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

225

non concepisce rappresentanza, ma solo l'opera di commissari con

mandato assolutamente imperativo.

Nella prospettiva del Nachmärz, l'elezione non è espressione di

alcuna volontà da parte degli elettori circa l'indirizzo della politica

generale, né tantomeno un influsso particolare, di matrice individualistica,

sull'attività o sui compiti dello Stato. Bluntschli espressamente ritiene che

con le elezioni si scelgano, sulla fiducia, determinate persone per la

formazione di un organo dello Stato, ma niente altro, ed è in questo punto

che crediamo di trovare la compiuta espunzione del ruolo delle elezioni

che sarà una costante nel pensiero degli autori che seguiranno. L'elezione

viene ad essere niente più che un modo come un altro per la formazione di

un organo dello Stato, non dissimile dalla nomina di un organo da parte di

un altro organo dello Stato, parimenti rappresentativo proprio perché

organo dello Stato. Occorre notare che se con l'elezione il corpo elettorale

non manifesta volontà, secondo la correlazione che in tanto

giuridicamente si è in quanto si pongono in essere atti di volontà, lo stesso

corpo elettorale giuridicamente non è, non ha rilevanza per l'ordinamento,

se non come momento di formazione del Parlamento. Solo in quel preciso

momento il popolo vuole e giuridicamente è. Occorrerà attendere ancora

qualche decennio prima che Jellinek definisca il popolo organo primario

dello Stato, ma di questo parleremo dopo.

Nello stesso 1852, e cioè un anno dopo le lezioni di Erdmann in cui

Bluntschli pubblica il suo Allgemeines Staatsrecht geschichtlich

begründet, colui che sarà chiamato il padre del diritto pubblico tedesco,

Carl Friederich Gerber esce dallo studio del diritto privato con il volume

Über öffentliche Rechte.337

Da questo alla prima edizione della sua opera

sistematica, i Grundzüge des Deutschen Staatsrechts,338

passano tredici

anni, densissimi, quasi quanto i quindici che la dividono dalla terza e

definitiva edizione, non foss'altro per l'ingresso nel dibattito di Paul

Laband. Per seguire lo sviluppo del pensiero di Gerber occorre tener ben

presente queste tre date: 1852, 1865, 1880, e mantenere sullo sfondo gli

avvenimenti storici della Germania, dalla prima costituzione, alla

fondazione del Reich, all'uscita di scena di Otto von Bismark.

337 C. F. GERBER (il titolo nobiliare giungerà in seguito alla sua opera di ministro),

Über öffentliche Rechte, Tübingen, 1852, trad. it. parziale a cura di P. L. Lucchini, Diritto

pubblico, Milano, 1971.

338 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, III ed., Dresden, 1880,

trad. it. parziale a cura di P. L. Lucchini, Diritto pubblico, Milano, 1971.

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DIE JURISTEN

226

La forte predisposizione dogmatica di Gerber era riconosciuta e

lodata da Jhering,339

per la chiarezza e la concisione della trattazione del

diritto privato. Gerber era dunque un privatista con una forte capacità

sistematizzante, dovuta alla confidenza con il metodo dogmatico, con il

procedimento, cioè, di enucleazione di concetti generali per progressiva

astrazione da fattispecie particolari. In eredità dalla Scuola storica allora

Gerber portava la forza dell'ordine, la logica del meccanismo.

“Innanzitutto si pone innegabilmente l'esigenza di una definizione

più rigorosa dei concetti dogmatici fondamentali. (…) Di poi però, mi

sembra, - ed è una cosa legata intimamente al primo punto — che sia una

necessità impellente costruire un sistema scientifico nel quale le singole

figure appaiano come lo svolgimento di un'idea unitaria fondamentale".340

Così la prefazione alla prima edizione dei Grundzüge, del 1865; ma la

necessità metodologica di mutuare le categorie privatistiche nel diritto

pubblico è già chiaramente espressa fin dal '52, e fu il motivo del maggior

successo di Gerber. “Ogni qual volta si cerchi di determinare con più

esattezza principi di diritto pubblico, si deve partire dal punto di vista del

diritto privato.”341

Ciò perché solo nel campo del diritto privato la

dogmatica era riuscita fino ad allora ad approdare ad un sistema compiuto,

in sé unitario, continua il Nostro, e poco oltre spiega: “Tuttavia quella

somma di concetti giuridici formali che nel diritto privato vengono

analizzati nella loro semplicità e purezza elementare, occorrono anche al

diritto pubblico ed esattamente nella stessa maniera".342

Tuttavia, quella

che potrebbe sembrare solo una proposta di metodo, rivela anche un

carattere prettamente di validità, quando non di efficacia. Infatti, anche se

i concetti di diritto pubblico si diversificano da quelli di privato per una

maggiore complessità che deriva dalla loro stessa natura, la commistione

di principi che è l'attuale diritto pubblico, “acquista validità se di seguano

gli stessi principi fondamentali d'interpretazione esatta e conseguente che

339 L'elogio di Jhering a Gerber per la sua attitudine alla dogmatica, nonché il

tentativo di dissuaderlo dal coltivare lo studio del diritto pubblico, sono contenuti in una

lettera del 6 aprile 1851, citata in M. FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica

nell'Ottocento tedesco, cit., p. 194.

340 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 91.

341 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 29.

342 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 34.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

227

sono stati elaborati per il diritto privato".343

Non è azzardato rinvenire qui

il tema tanto caro a Savigny, che derivava la validità delle norme in

misura proporzionale alla scientificità dell'elaborazione che le aveva

prodotte; vedremo in seguito che Gerber riconoscerà dignità di diritto solo

a ciò che è durevole. Emerge però un carattere nuovo in questa versione:

l’autorità -intesa come cogenza, uso legittimo della forza- dello Stato

passa ormai in secondo piano, giacché non solo la scientificità

dell'elaborazione consente un'autorità che è validità sul piano normativo,

ma la vera validità deriva dalla sistematicità dell'elaborazione, per cui solo

un tal livello di elaborazione consente quella co-attività delle norme che

garantisce validità all'intero ordinamento. Non è errato, crediamo,

rinvenire qui la radice del sistema di coazione delle norme proprio del

realismo scandinavo prima, e del formalismo kelseniano, poi.344

La correlazione tra sistematicità di elaborazione scientifica e

capacità di farsi obbedire è esplicita nell'introduzione della terza edizione

dei Grundzüge, ma siamo già nel 1880: “Tal scienza, per la sua maggior

parte dei casi, non può, è vero, nelle sue formulazioni, porsi il fine di

giungere a proposizioni imperative, immediatamente vincolanti; può però

porre in risalto il contenuto etico — storico dei singoli istituti e dei

principi giuridici che ricorrono in ogni diritto pubblico particolare”.345

Ritorna qui un altro aspetto già incontrato: la derivazione delle norme dal

costume popolare interpretato dal legislatore, in altri termini l'eticità del

343 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 34.

344 Cfr. In realtà, come si avrà modo di dire, il sistema di co-attività della norme

risulta tematizzato già da August Thon, quando concepisce il diritto quale complesso di

imperativi, in cui la violazione dell’uno produce la condizione per l’applicazione dell’altro.

La posizione appare diffusa in Germania ancora al principio del Novecento, tanto che il

Giovane Adolfo Ravà se ne imbeve, trasponendola nel suo Il diritto come norma tecnica,

Cagliari, 1911. Più interessante, anzi, del tutto peculiare, la spiegazione genericamente

metempirica che ne fornisce la Scuola di Uppsala, sui cui cfr. S. CASTIGNONE, Wilhelm

Lundstedt. Nuove ricerche sul realismo giuridico scandinavo, in “Materiali per una storia

della cultura giuridica”, 1972, 463-517, IDEM, La macchina del diritto. Il realismo

giuridico in Svezia, Milano, 1974; C. FARALLI, Diritto e magia. Saggio su Axel

Hägerström (Bologna, 1981), II ed. in E PATTARO (a cura di), Contributi al realismo

giuridico, Milano, 1982, p.5-170; nonché E. PATTARO, Il realismo giuridico scandinavo. I

Axel Hägerström, Bologna, 1974; e, altresì, G. TARELLO, Realismo giuridico, in

“Novissimo Digesto”, vol. XIII, Torino, 1966.

345 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 102-3.

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DIE JURISTEN

228

popolo storicamente emersa dalla coscienza che fornisce la doverosità

delle norme.

Metodo dogmatico, sistemazione unitaria, aggiustamento degli

istituti di diritto privato che si possono mutuare ed essere utilizzati nel

pubblico, sistema scientifico che sia “lo svolgimento di un idea unitaria

fondamentale”, ecco le premesse metodologiche all'indagine,

comprensibili, vista la formazione del nostro autore.

Il primo concetto da enucleare, der Grund, è lo Stato: “Nello Stato

un popolo trova la disciplina giuridica della sua vita collettiva. In esso un

popolo giunge ad essere riconosciuto e a valere giuridicamente come

un'entità etica totale".346

Il potere dello Stato è la forza di volontà di un

organismo etico idealmente personificato. Codesta forza di volontà non è

un insieme artificiale e meccanico di molte volontà individuali, ma è la

potenza etica di un popolo giunto a coscienza di sé. “Il suo essere non

riposa su di una determinazione astratta né è il prodotto di creazione

altrui, ma è una forza di natura, inerente connaturata allo Stato, in quanto

questo è la forma sociale dell'umanità. Ciò significa che lo Stato ha una

sola volontà, capace di realizzare i compiti posti alla collettività in esso

organizzata e alla quale è sottoposto, in ogni suo membro tutto il

popolo".347

La struttura dello Stato è allora quale quella dell'individuo,

l'unicità data, che si manifesta, che è, in quanto una volontà. Tutto ciò

funziona a patto che non riemergano tendenze individualistiche o volontà

particolari che possano rovinare con secche dissonanze quell’armonia così

faticosamente raggiunta.

Ecco la soluzione per evitare la sottoposizione dello Stato a volontà

individuali. “Quello scopo, di evitare cioè che lo Stato sia sottomesso alla

volontà privata di un individuo singolo, si ottiene già, nel modo più

completo, accogliendo l'idea di organismo. Lo Stato è un organismo

morale che si muove, non come il meccanismo, ad opera di una forza che

gli stia al di fuori, ma in virtù del proprio principio vitale che in lui stesso

risiede principio vitale che non è naturalmente, localizzato in un unico

punto, ma che diviene operante per gli scopi dell'ente nella sua totalità

secondo la determinazione autonoma di ogni suo singolo membro; questa

forma di vita, però, propria dell'organismo, rende possibile un'ininterrotta

espressione e realizzazione della volontà generale nel suo tendere al

346 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 95.

347 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 110-1.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

229

perfezionamento della vita collettiva. Per questa concezione, al quale

trova adesso sempre maggiori riconoscimenti, lo Stato non è un oggetto

sottoposto dall'esterno al potere monarchico, ma non è neppure un

soggetto accanto al monarca, ma il monarca stesso è appunto uno (e

precisamente il più elevato) dei molti membri che trovano, all'interno

dell'organismo, il loro ruolo vitale".348

È appena il caso di rinviare alle

Lezioni di Erdmann, solo per verificarne la corrispondenza quasi alla

lettera. D’altronde è passato solo un anno dal corso del professore di

Halle.

Viene poi chiarito il concetto di personalità dello Stato, chiave di

volta di tutta la costruzione, che vide ancora una volta il plauso di Jhering,

per la distinzione di “organo” da “personalità giuridica”. Ma questo

concetto della personalità non è il concetto giuridico, cioè capacità di una

volontà volta a sottomettere a sé stessa un oggetto,349

bensì il concetto

etico dell'autocoscienza, dell'unità spirituale. “Solo in questo senso, e con

piena ragione, Stahl parla di una personalità politica dello Stato".350

Dalla

definizione di Stato quale concetto etico, non giuridico, prende inizio

quell'astrazione concettuale, anzi quel processo di astrazioni concettuali,

che consentiranno di dedurre tutto il diritto pubblico da un principio primo

non più criticamente verificato, che sarà successivamente attaccato, ma

non intimamente scosso, dalla teoria istituzionalistica. Anche lo Stato

come organismo è un concetto che appartiene al dominio dell'etica; il

diritto non l'ha soltanto chiamato ad esistenza mediante una forma

giuridica, ma lo presuppone già come esistente ed entra a determinarlo

soltanto aprendo una via adatta al movimento dei suoi membri secondo i

criteri propri dell'idea di organismo. “Ne deriva che per il diritto non c'è

nessun bisogno di determinare la natura giuridica dello Stato nel suo

complesso, anche se gli fosse davvero possibile creare una figura

348 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 21.

349 Il concetto di personalità come volontà capace di compiere atti giuridicamente

rilevanti è uno dei corollari della già incontrata equazione tra essere e volere. Parimenti,

l’idea di capacità come volontà di sottomettere un oggetto è corollario della costruzione

dell’ordinamento sulla figura del diritto soggettivo, inteso come luogo assoluto della

volontà nelle obbligazioni e signoria sulla cosa nei diritti reali. Per questi aspetti cfr. infra

§ III.3.

350 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 21.

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DIE JURISTEN

230

appropriata con i mezzi a sua disposizione".351

Il concetto di Stato viene

subito posto tra parentesi, fondamento, ma non oggetto, dell'indagine del

diritto pubblico. Una volta scoperto che esso è per storica necessità, non

dipendente dalla volontà di alcuno e che, altresì, i singoli trovano in lui il

proprio completamento e realizzazione, ogni ulteriore indagine (pseudo)

filosofica può essere pericolosa perché foriera di disordini nel rigoroso

schema dogmatico. Sicché la lanterna della diuturna speculazione critica

deve essere spenta ed il concetto di Stato come comunità etica sovrana dal

quale svolgere le proprie deduzioni può essere posto sull’altare

secolarizzato perché in suo nome sia edificata nuova dottrina.

Ma quale esigenza informava la scelta di un tale concetto di Stato, e

qual è la sua operatività? La risposta per tabulas si trova nell'introduzione

del 1880 dei Grundzüge: “Nella personalità dello Stato si trova il punto di

partenza e il nucleo di tutto il diritto pubblico; dal riferimento ad essa

dipendono, al tempo stesso, la possibilità ed il criterio informatore di un

sistema scientifico, di un sistema ispirato ad un'idea unitaria.”352

Se l'unità

è allora la categoria del metodo, unitario è lo Stato, ne discende che il

popolo è l'essenza di cui lo Stato è manifestazione. Tale identità, ed ecco

la novità di Gerber, si rompe invece nel rapporto discendente, nell'ordine

dello Stato, che è diretto non al popolo in quanto tale, ma al singolo. “Ora,

mentre il popolo negli altri suoi rapporti con lo Stato appare come un'unità

spirituale in cui il singolo non risulta isolato, bensì appare come parte

integrante di una grande individualità etica collettiva che racchiude in sé

passato e presente, la costruzione giuridica del potere dello Stato si rivolge

invece al singolo cittadino in quanto tale".353

Ed in questo Gerber riprende

quel paradigma ascendente – discendente che abbiamo visto teorizzato da

Mohl e da Bluntschli, in virtù del quale la volontà non si manifesta più nel

momento ascendente di formazione dello Stato (frutto non del contratto,

ma delle necessità della storia), ma nel momento discendente di cogenza

sui singoli, cioè nell’emanazione di quegli speciali atti di volontà che

costituiscono la legge.354

351 C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 22.

352 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 97.

353 C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 131.

354 Ma cfr. infra nota n. 524 per la concezione che vede il Volksgeist in ogni atto di

volontà dello Stato, tanto generale ed astratto quanto puntuale e concreto.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

231

Tanto dalle premesse metodologiche unitarie, quanto dalla delineata

struttura dello Stato, già si intuisce il ruolo e la struttura assegnati alla

rappresentanza: il ruolo e la struttura, nel senso che la seconda è costruita,

attagliata al primo, corollario alla definizione di Stato.

Ma vi è un secondo aspetto da mettere in rilievo: è giuridico solo

ciò che è stabile,355

i diritti pubblici saranno veramente tali e non

elargizioni sovrane o conquiste di rivoluzioni passeggere solo se

stabilmente fondati. Si noti la matrice privatistica di questo assunto, ma

anche la radice etimologica di jus come la situazione di normalità

necessaria per i sacrifici agli dei.356

Questa teoria giuridica della libertà, libertà che viene riguardata

dalla prospettiva del tutto (cioè dello Stato), non è altro che “la teoria dei

limiti giuridici che i poteri pubblici pongono a se stessi”357

: è il risvolto

soggettivo dei limiti legali delle competenze statali. È chiaro, però, che in

questo modo si nega la specificità della libertà come diritto fondamentale

dell’uomo. In una simile concezione il cittadino – è stato osservato - “si

trova come tracciata tutto intorno da codesta operazione autolimitatrice

una cerchia, ove egli può a sua volta autodeterminarsi, cioè muoversi e

agire a suo piacimento, manifestando quella credenza religiosa che più gli

piace, valendosi della stampa come meglio gli pare, associandosi con chi

355 “Solo quel diritto pubblico che può essere concepito come un diritto privato e

quindi può essere determinato in tutti i lati secondo il suo valore durevole, sarà considerato

dall'individuo, cui esso spetta, come un bene sicuro. Egli lo considererà come un

allargamento effettivo della sua sfera giuridica, e rivolgerà ad esso un interesse uguale a

quello che richiedono i diritti privati patrimoniali, specialmente nei casi in cui esso è

protetto dalla stessa difesa giuridica di quelli. I diritti pubblici campati in aria come tanti

principi astratti, senza una sede determinata nella sfera giuridica dell'individuo, e che

autorizzano ad agire solo ogni tanto, saranno considerati dall'individuo sempre come

qualcosa di non immediatamente legato alla sua personalità. Se poi la legislazione, nella

sua variazione sperimentale troppo rapida, si rivela oggi in una forma e domani in un'altra,

l'individuo si crederà certamente colpito politicamente, ma forse nemmeno sfiorato

giuridicamente." Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 78.

356 Sull'indagine etimologica di jus che, attraverso la radice indoeuropea, porta

proprio allo stato di normalità, di regolarità, necessario per il sacrificio agli dei cfr. F.

GENTILE, Il giuramento. (Conversazione tenuta agli Allievi del 170° Corso dell’Accademia

Militare – Modena 9 marzo 1989), Modena, 1989, specialmente p. 5; nonché il ricco

studio di A. PIETRANTONI, Il giuramento. Storia, legge, politica, Roma, 1883.

357 Cfr. A. BALDASSARRE, Libertà (Problemi generali), in “ Enciclopedia Giuridica

Treccani ”, Roma, 1990, vol. XIX, p. 5.

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DIE JURISTEN

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crede e per i fini leciti che sarà per proporsi, e così via”358

. Ma in tale

cerchia, può ben osservarsi, il cittadino può fare un’infinità di altre cose,

anche passeggiare o sposarsi: le libertà individuali, che pur si vorrebbero

diritti soggettivi (anche se imperfetti), rimangono confuse ed

indeterminate nell’ambito di ciò che è genericamente permesso359

.

Quale che sia la «tenuta concettuale» della categoria dei diritti

riflessi, può osservarsi che la libertà (diritto soggettivo o effetto riflesso

del diritto oggettivo che sia) di cui si discorre è ancora, e solo, la libertà

negativa. E ciò ben si comprende se si considera l’ottica (imperativistica)

in cui ci sta muovendo: non esistono diritti soggettivi dei singoli, ma

esiste solo il diritto (oggettivo e sovrano) dello Stato, il quale può,

valutando le condizioni dei tempi e le aspirazioni dei sudditi, limitare la

propria sfera (virtualmente illimitata) del suo diritto sovrano. I diritti

soggettivi deriverebbero da questa “graziosa concessione”360

dello Stato

che si autolimita. Ma è chiaro che come (graziosamente) concede lo Stato

può anche (graziosamente) revocare.

In ordine alla teoria gerberiana dei diritti soggettivi pubblici già

Santi Romano avrà modo di osservare innanzitutto che, per comprenderne

al meglio il significato, occorre considerare il «clima culturale» in cui essa

nasceva.

L’enucleazione della categoria dei diritti pubblici soggettivi maturò,

infatti, nell’ambito di una reazione contro le dottrine del diritto naturale

che in Germania fu particolarmente potente e diffusa.

358 Cfr. F. RUFFINI, Diritti di libertà, II ed., Firenze, 1946, p.115. Un’osservazione

(forse superflua): gli esempi riportati da Ruffini non sono, chiaramente, scelti a caso. Essi

mirano a rendere evidenti le conseguenze che dall’applicazione della categoria dei diritti

riflessi deriverebbero ai tradizionali diritti soggettivi di libertà (di religione, di stampa, di

associazione).

359 Sarà, poi Romano a distinguere nell’ambito del lecito le libertà cd. materiali

(attinenti all’indifferente giuridico) dalle libertà giuridiche (attinenti ad attività

giuridicamente rilevanti): cfr. S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale,

Milano, 1947, p. 114 e p.119. Precisiamo, fin d’ora, che per il giurista italiano le libertà

costituiscono diritti soggettivi pubblici veri e propri.

360Al riguardo osserva Ruffini che i cittadini tedeschi, alla luce della costruzione di

Gerber, non godono di un vero diritto subbiettivo alla libertà di coscienza, di stampa, di

associazione, o così via, ma possono credere in ciò che vogliono, associarsi come meglio

credono ecc. solo perché lo Stato, “bontà sua”, si astiene dal fare ciò che un tempo faceva,

ossia dal porre limitazioni all’esercizio di tali loro naturali libertà. Cfr. F. RUFFINI, Diritti

di libertà, cit., p.114.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

233

“Noi non crediamo d’ingannarci – scrive Romano – dicendo che

essa intese dimostrare appunto il contrario di ciò che (...) le teoriche di

diritto naturale sostenevano: come, cioè, non sia vero che gli individui

abbiano diritti propri, primitivi, autonomi e che lo Stato invece abbia quei

diritti che essi gli hanno graziosamente concesso, ma sia vero

l’opposto”361

.

Ed, infatti, la costruzione risulta adesso rovesciata: punto di

partenza della dottrina del diritto naturale era la libertà originaria e

sconfinata dell’individuo che poi, per effetto dannoso del sorgere dello

Stato, veniva compressa e limitata; punto di partenza è, ora, il rapporto di

sudditanza dal quale scaturiscono, come suoi effetti benefici, i diritti

pubblici dei cittadini362

.

Questi, quindi, i presupposti: per quanto riguarda più

specificatamente la presa di posizione di Gerber in ordine alla titolarità in

capo ai singoli di situazione giuridiche soggettive di vantaggio nei

confronti dello Stato, Romano afferma che, in generale, non sembra che il

giurista tedesco "neghi al cittadino qualunque diritto in senso

subbiettivo"363

.

A sostegno di tale affermazione il nostro giurista riporta alcuni

passi dell'autore tedesco che appaiono in tal senso particolarmente

significativi: "lo Stato con la soggezione e per mezzo di essa conferisce

contemporaneamente una quantità di diritti importantissimi, i civici e

specialmente i politici che, in certo qual modo, hanno carattere di

reciprocità (..) e ciò perché la soggezione in uno Stato libero e ben

ordinato non ha alcun altro scopo ed alcun altro effetto che quello di

procurare un'esistenza dotata di diritti civili e politici"364

.

In base a queste considerazioni Romano propone di interpretare

l'espressione «Reflexrechte» non nel senso che il Gerber abbia voluto

distinguere (e perciò contrapporre) i diritti riflessi ai diritti subbiettivi, ma

nel senso che con tale qualificazione egli abbia voluto sottolineare la

361 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi. Nozioni sistematiche,

Milano, 1897 (Estratto da Primo trattato completo di diritto di diritto amministrativo

italiano, a cura di V. E. ORLANDO, Milano, 1900, vol. I, p. 6.

362 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.6-7;

363 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.

364 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.

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DIE JURISTEN

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genesi di tali diritti, i quali quindi sono veri e propri diritti soggettivi dei

cittadini, ma non naturali ed originari, bensì riflessi, derivati dal diritto di

sovranità dello Stato.

Tuttavia, aggiunge il Nostro, nell'opera di Gerber si ritrovano,

indubbiamente, anche dei passi di carattere oscuro, nei quali sembra che

venga negata l'esistenza della categoria dei diritti pubblici soggettivi; ma,

si avverte, non bisogna mai dimenticare il carattere polemico dello scritto.

In conclusione sembra più esatto ritenere che "da queste ambiguità,

se non direttamente dalla teorica del Gerber, prese le mosse quella dottrina

che, più o meno recisamente, con più o meno scarse concessioni, è

arrivata alla conclusione che al cittadino non spettano diritti pubblici nel

senso subbiettivo"365

.

L'espunzione della personalità giuridica dal concetto di Stato,

impone che la sua organicità trovi una manifestazione, per cui tutte le

forze che nascono dalla vita dell'organismo statale, nella misura in cui

possono assumere la natura di diritti, devono necessariamente essere

riferiti alla natura del reggente. Soltanto in virtù di questo riferimento alla

personalità del popolo rappresentata dal re, il potere statale acquista

carattere giuridico".366

Il re agisce allora come rappresentante di tutto il

popolo, la sua volontà è la volontà generale, che però, si badi bene

“«volontà generale» o «volontà del popolo» non significano più

naturalmente la volontà della maggioranza dei singoli individui nel

popolo”.367

La critica delle posizioni individualistiche, disorganiche, si

riflette anche sul rapporto tra eletti ed elettori, in assonanza con

Bluntschli, distinguendo Medioevo da Modernità sulla scorta della

rappresentanza, della partecipazione del popolo. “E così anche la volontà

di quelle antiche rappresentanze feudali non era la manifestazione di un

vero organo nella comunità statale, ma solo quella di una somma di

365 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.8.

366 Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 47.

367 Cfr. C. F. GERBER, Über öffentliche Rechte, cit., p. 50. A questo proposito, M.

FIORAVANTI, Giuristi e Costituzione politica nell'Ottocento tedesco, cit, p. 271, osserva

come l'identificazione di popolo e Stato, caratteristica della teoria organicistica, sia la

causa della difficoltà dell'attività parlamentare, poiché con essa “non si rappresentata

qualcosa di esistente al di fuori dello Stato, di fronte al quale, esso, nella persona del

monarca, debba rispondere", ma semplicemente l'aspetto popolare dello Stato stesso.

L'autore sembra qui usare il termine rappresentante nel senso individuato nella prima parte

di questo lavoro, in altre parole sembra riconoscere la struttura dualistica della volontà.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

235

individui privilegiati, i quali facevano valere i loro diritti non entro e per

l'organismo statale, bensì in una posizione privata all'infuori di questo.

Così si verificava che i deputati non tanto avvaloravano il diritto proprio,

quanto quello dei loro mandanti dietro istruzioni. Ed è abbastanza

singolare che quest'ultimo rapporto, addirittura contrastante col carattere

del diritto pubblico delle moderne istituzioni parlamentari, riappare di

nuovo nelle discussioni sulla posizione degli elettori verso gli eletti, in

quanto anche qui si vuole riconoscere la base dello Stato non nel popolo

come insieme nazionale, ma in una somma di individui (e cioè di tutti) del

popolo stesso secondo il calcolo puramente aritmetico".368

La reazione

all'egalitarismo matematico di Sieyès non potrebbe essere più netta. Il

salto logico si annida dunque nel porre in relazione popolo — mandato

libero / individui — mandato imperativo. Anche non criticando, anche

accettando l'idea che il popolo sia un'unità (assunto non privo di aporie),

non per questo si supera l'esigenza di responsabilità, la verifica della

rispondenza di quanto fatto dagli eletti con quanto è volontà o interesse

(non vale qui distinguere) del popolo. Verifica che vi può essere solo nel

dualismo rappresentativo, qui superabile solo con la finzione che lo Stato

è la voce del popolo, asserto ancora una volta non verificabile, non avendo

il popolo altra forma di manifestazione che lo Stato. Ecco quello che si

intendeva quando si è detto che la rappresentanza ha in sé una valenza

critica, permette un'indagine dialettica, è spia di dualismo, di negazione

dell’unicità della sovranità.

Come in Erdmann, anche in Gerber vi è un cedimento, un dubbio

sull'asserita assoluta corrispondenza tra quanto interpretato dallo Stato e

quanto proprio del popolo. Se Erdmann in modo ottimistico sorvola sulla

questione, ritenendo che il legislatore sappia autocorreggere i propri errori

di interpretazione del Volksgeist, Gerber, avendo negato che il popolo

possa avere diretta capacità legislativa, incrina la sistematicità della

trattazione e spezza l'Einheit der Rechtsordnung, quando afferma: “Solo

questo è giusto, che atti dello Stato che in sé non sarebbero giuridicamente

validi, possono venire sanati con successivo riconoscimento da parte del

popolo. La sottomissione ad un tale atto del popolo nel suo complesso

(specialmente attraverso i suoi rappresentanti) è un rimedio, la cui

368 Cfr. C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 73. Alla

stessa pagina, in nota, si legge: “Gli elettori non hanno i diritti che la Costituzione

conferisce ai deputati. Questo errore riveste spesso l'affermazione che il deputato esercita

soltanto i diritti degli elettori; tale errore si basa sulle teoria della sovranità popolare."

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DIE JURISTEN

236

efficacia può essere valutata solo in relazione al caso singolo".369

In altri

termini, quello che lo Stato ha rinvenuto come costume del popolo e

trasformato in legge, deve essere verificato nella sua rispondenza al vero

dal popolo stesso, in questo caso non rappresentato dallo Stato, inteso

come rappresentato chiamato a ratificare l'opera del rappresentante.

L'assunto non è privo di contraddizioni. Quanto abbiamo appena

esposto cade, l'Einheit si spezza, ammettendo che vi sia un'entità popolo

diversa da quella rappresentata nello Stato, capace di manifestarsi in modo

giuridicamente rilevante, esternando atti di volontà. Se si prevede il caso

di un ricorso diretto al popolo per sanare un atto dello Stato, si riconosce

in esso il fondamento della potestà legislativa primaria. Anche le stesse

espressioni testuali di Gerber appena citate ricordano molto la ratihabitio

del mandante, giustificano un sindacato del popolo sull'operato

dell'organo legislatore, negando l'identità, o quanto meno il supposto idem

sentire et velle, di Stato e popolo.

Riconoscere al popolo capacità di volontà e rinvenirvi la fonte

prima del potere legislativo, vuol dire porlo come organo primario dello

Stato, da cui deriva il legislatore, organo secondario. Questa è infatti la

costruzione di Georg Jellinek, ma prima di lui nel dibattito interviene Paul

Laband.

369 Cfr. C. F. GERBER, Grundzüge des deutschen Staatsrechts, cit., p. 108.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

237

3.3.3 Volere è essere: Paul Laband

PREMESSA: RADICI HEGELIANE NELL’OPERA DI LABAND - NEGAZIONE DEL CARATTERE

RAPPRESENTATIVO IN SENSO GIURIDICO DEL REICHSTAG – IRRILEVANZA DEL MOMENTO

ELETTORALE - RAPPRESENTANZA E DIVISIONE DEI POTERI – RAPPRESENTATIVITÀ DEL KAISER

– DEDUZIONE DELL’ESISTENZA DI UN SOGGETTO (IL POPOLO) DALLA SUA CAPACITÀ DI

ESTERNARE ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTI: LA VOLONTÀ COME SPETTRO

DELLA PERSONALITÀ – CONCLUSIONE: RETTIFICHE E MUTAMENTO DI PROSPETTIVA

NELL’ULTIMA PARTE DELL’OPERA DI LABAND.

Prima di lasciare Gerber però occorre mettere in rilievo un aspetto a

cui si è già fatto riferimento: "Il sistema di diritto privato è un sistema di

facoltà giuridiche che poggiano sulla capacità di volere della persona

individuale umana (o di una personalità su di essa modellata). Anche il

diritto pubblico è un sistema di facoltà di volere, basato però sulla

capacità, rivestita della personalità, del popolo politicamente unito".370

Si

tratta dell'esposizione precisa di quella correlazione tra essere e volontà

con cui ci siamo congedati dagli Epigonen, l'assunto cioè che nel mondo

del diritto in tanto un soggetto è, in quanto possa concretamente volere. Se

fino ad allora tale equazione era rimasta nell'ambito del diritto privato, ora

viene introdotta nel pubblico, dove trova fertile terreno, essendo in

sintonia con le proposizioni già mutuate in quest'ambito. Si è detto di

come Gerber, rinvenendo in capo al popolo la capacità di approvare le

leggi, di sanare gli atti invalidi, in questa stessa opera, gli riconosce

capacità volitiva, e con questo, esistenza. La conseguenza, lo si è visto, è

la rottura dell'unità dell'ordinamento. Se il popolo vuole, il popolo è; e se

vuole al di fuori, oltre le forme dello Stato, è fuori, altro dallo Stato. È

appena il caso di notare come per lo Stato valga lo stesso ragionamento,

che ne giustifica l'esistenza: lo Stato è perché gli si riconosce una volontà.

Lo Stato è perché gli si attribuisce un volere, autonomo e distinto dal

volere, naturale, fisico, dei soggetti che lo compongono. Se il

370 Cfr. C. F. von GERBER, Grunzüge des deutschen Staatsrechts cit., p. 97 nota 5.

Il passo continua così: "Il suo punto di partenza non è una potestà di volere libera in tutte

le direzioni, com'è la personalità umana, ma è una capacità di volere tale, che si può

muovere soltanto entro l'ambito di fini determinati. La sua volontà giuridicamente è il

dominio, cioè attività giuridica svolta nell'interesse e per gli scopi propri dello Stato e

dotata di un'efficacia vincolante per tutto il popolo. Altre ragioni a fondamento di questo

sistema risulteranno dalla trattazione speciale dell'argomento. La sua idea centrale si trova

già in passato, ma non fu mai sviluppata e considerata nel suo giusto valore." É appena il

caso di notare come l'opera da cui citiamo sia del 1880, quattro anni dopo il primo volume

della prima edizione dello Staatsrecht di Laband.

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VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND

238

ragionamento dogmatico impone di dare esistenza solo a chi

giuridicamente vuole, in modo che è considerato soggetto di diritto chi

può emanare atti di volontà, non si dovrebbe fare riferimento, non si

dovrebbe avere in considerazione il criterio empirico, cioè ritenere

esistente ciò che fisicamente è. Quando Gerber considera esistente e

volente il popolo fuori dallo Stato, commette un duplice iatus logico: da

un lato perché aveva definito lo Stato come forma (la sola) di

manifestazione del popolo, mentre poi ammette che il popolo possa

approvare le leggi fuori dallo Stato. Dall'altro perché se aveva definito la

Stato dogmaticamente come forma (la sola) di manifestazione del popolo,

non può poi riconosce fisicamente che il popolo possa approvare le leggi

al di fuori dello Stato, in sostanza che abbia una volontà perché

naturalmente esiste. Se fino a quel momento ha dedotto l'essere dalla

volontà convenzionalmente assegnata ad un concetto, lo Stato nei suoi

organi, al contrario poi deduce la volontà del popolo dalla considerazione

empirica che questo esiste naturalmente. Vi è in sostanza un mutamento di

criterio logico: dal procedimento di deduzione dogmatica dal principio

che il popolo si realizza nello Stato, si passa all'osservazione fisica,

sociologica si sarebbe detto allora con disprezzo, che il popolo esiste al di

fuori dello Stato. Se prima egli rinviene l'essere nel volere, poi riconosce il

volere nell'essere; se fino a quel momento aveva dedotto dal principio

giuridico a fondamento della sua teoria, che in tanto si è in quanto si

vuole, successivamente riconosce che il popolo in tanto vuole poiché, de

facto, è. Che tale mutamento sia arbitrario o sia invece la riconosciuta

insufficienza del metodo dogmatico nella sua incapacità di spiegare il

manifestarsi dei fatti, questo è un altro problema. Resta la considerazione

che così facendo Gerber contraddice una terza volta la sua teoria.

Ammettere l’essenza empirica - naturalistica del popolo, vuol dire

riconoscere la sua volontà costituita da volontà individuali, il suo essere

una somma di singoli ad onta dell'unità del popolo derivata da un lato

dalla Scuola Storica, e dall'altro dall'insegnamento degli Epigonen. Si è

già detto di come le concezioni della storia delle due scuole, all'origine in

fiera opposizione, siano venute gradatamente amalgamandosi, tanto che

ogni distinzione è superata già nei primi anni Cinquanta del secolo XIX. Il

popolo è uno, da un lato per storica comunanza di lingua usi e tradizioni,

che ne costituiscono il Geist, dall'altro per la pietas, "l'attaccamento alla

patria", che lega i suoi membri per quanto riguarda gli affari pubblici; allo

Stato il compito di interpretare il Volksgeist, e di guidare il "patriottismo".

L'osservazione che esiste un popolo manifestantesi al di fuori dello Stato,

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

239

nega il principio primo per cui ogni cittadino non può avere nel campo

pubblico, un interesse diverso da quello dello Stato; in altri termini

ripropone le individualità, fittiziamente (in quest'ottica) sussunte nello

Stato. Uscito dalla costruzione unitaria per progressive astrazioni, il

popolo si frantuma nei mille rivoli degli individui. Contraddetta

l'Aufhebung del cittadino nello Stato, la stessa giustificazione

dell'obbedienza alle leggi cade, non rimane che il potere. Occorre allora,

per avere una teoria ordinata, risuscitare l'Einheit, negare la realtà

empirica del popolo (pericolosa somma di individui), negare che il popolo

abbia delle volontà. Ma questo è nient'altro che l'insegnamento di Paul

Laband.371

Se in Gerber si poteva ancora rinvenire una traccia di dualismo, per

considerazioni naturalistiche, un popolo di fronte allo Stato, Laband è

perentorio: "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen Reiche

verschiedene und ihm gegenüber selbständige Persönlichkeit, ist kein

Rechtssubjekt und hat juristisch keinen Willen; es ist daher außer Stande,

eine Vollmacht oder einen Auftrag zu erteilen und Rechte oder

Willensakte durch Vertreter auszuüben. Eine positive, juristische

Bedeutung hat die Bezeichnung der Reichstagsmitglieder als Vertreter des

gesamten Volkes daher nicht; im juristischen Sinne sind die

Reichstagsmitglieder niemandes Vertreter".372

371 Paul Laband, nato a Breslau nel 1838, addottoratosi nel 1858, insegnò nelle

università di Königsberg, Heidelberg e Strasburgo, l'università voluta dal Kaiser. Tra le sue

opere, ai nostri fini, ricordiamo: Beiträge zur Kunde des Schwabenspiegels, Berlin, 1861;

Das Magdeburg Breslauer Systematische Schöffenrecht, Berlin, 1863; Die "jura

Prutesorum", Königsberg, 1866; Die Magdeburger Rechtsquellen, Königsberg, 1869; Das

Budgetrecht nach den Bestimmungen der preusischen Verfassungsurkunde, Berlin, 1871;

Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, in 4 voll., Tübingen, 1882 (ma il primo volume è

del 1876); a nostra disposizione sono la seconda edizione, in 2 voll., Freiburg, 1888; la

quinta edizione in 4 voll., Tübingen, 1911; nonché Deutsches Reichsstaatsrecht, settima

edizione, Tübingen, 1919, ristampa Aalen, 1969.

372 P. LABAND, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, il passo si ritrova identico

nella seconda ed., Freiburg, 1888, I° vol. p. 274, dalla prima riga, nonché nella quinta ed.,

Tübingen, 1911, I° vol. p. 296.Tuttavia M. FIORAVANTI (op. cit., p. 343) cita parte di

questo passo dalla prima ed. Tübingen, 1876, rinvenendolo a p. 503.

Propongo la seguente traduzione: "L'intero popolo tedesco non differisce

dall'Impero tedesco [si noti come Laband usi Reich e non più Staat: il 1870 è già passato] e

non ha nei suoi confronti una personalità indipendente, non è nessun soggetto di diritto e

giuridicamente non ha alcuna volontà; ne consegue che dalle classi [Stände] tramite il

rappresentante non deriva un mandato o una commissione da trasmettere, diritti o atti di

volontà. La configurazione del Parlamento come rappresentante di tutto il popolo non ha

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VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND

240

L'assunto non potrebbe essere più preciso e fin da subito Laband

coglie il nodo essenziale: il popolo deve manifestarsi giuridicamente solo

nello Stato. Tuttavia la soluzione proposta è molto più compromettente, la

portata dell'assunto, più radicale. Realizzate le difficoltà di sussumere il

popolo nello Stato, di ricomprenderlo nell'Einheit der Rechtsordnung, il

giurista di Strasburgo ne nega la giuridica esistenza, la volontà

giuridicamente rilevante. L'errore di chi l'ha preceduto, secondo Laband, è

stato quello di mantenere l'ambiguità di due soggetti, di cui uno

manifestazione dell'altro. Giuridicamente ciò è inconcepibile, poiché,

come insegna lo stesso Gerber, in tanto giuridicamente un soggetto è, in

quanto vuole. Ora non è possibile ammettere un soggetto che non vuole,

che non è se non manifestandosi attraverso un altro soggetto. Sicché delle

due l'una: o entrambi i soggetti vogliono e giuridicamente esistono, o si dà

un solo soggetto giuridicamente rilevante, e allora il resto non compete

all'indagine del giuspubblicista. È un fatto che la costituzione esiste e da

ciò Laband può occuparsi solo dello Stato; considerazioni "sociologiche"

sui sentimenti del popolo gli sono estranee. Più precisamente la volontà

popolare rileva solo in quanto è volontà dello Stato, cui giuridicamente il

popolo non è distinto. Tutte le pericolose evoluzioni che da Rosenkranz

attraverso Erdmann, Ahrens, Bluntschli, fino a Gerber, abbiamo visto

compiere per giustificare lo Stato come manifestazione giuridica del

popolo, per fondare la volontà dello Stato sulle esigenze, sulle richieste

del popolo, con Laband vengono tagliate di netto. Mantenere un popolo

distinto dallo Stato non solo è pericoloso, ma è anche errato. Occorre

stabilire con precisione infatti chi abbia la titolarità formale di produrre le

norme, che poi queste siano rispondenti o meno al Volksgeist, problema

che aveva affaticato Erdmann, Bluntschli e Gerber, per Laband non è

questione giuridica, essenziale rimane stabilire la fonte della legge, che

per definizione deve essere unica. Qual è allora la funzione del Reichstag,

e quale la sua struttura? Sicuramente non quella di rappresentare qualcosa

che non c'è. Il Reichstag è invece un organo dello Stato. "Oder mit

anderen Worten: eine Volksvertretung ist der Reichstag nicht mit

Rücksicht auf seine Bildung und Zusammensetzung. [Der Reichstag leitet

seine Befugnisse nicht aus dem Willen der Wähler, sondern unmittelbar

aus der Verfassung und den Gesetzen des Reiches ab; sie stehen ihm im

vollen Umfange zu, auch wenn er sich im offenen Widerspruch mit der im

alcun significato giuridico, positivo; in senso giuridico i membri del Parlamento non

rappresentano nessuno".

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

241

Volk herrschenden Stimmung befindet; der Reichstag ist nicht ein

Repräsentant oder Delegatar irgend welcher Wählerschaften, Parteien

oder Bevölkerungsgruppen und seine Befugnisse sind vollkommen

unabhängig von dem Willen der Wahlberechtigten.] Hieraus ergibt sich,

daß die Reichstagsabgeordneten an Instruktionen und Aufträge nicht

gebunden sind, daß sie weder ihren Wählern noch dem Vorstand einer

Partei oder Fraktion rechtlich Rechenschaft schuldig sind für die

Ausübung ihrer öffentlichen Befugnisse und deshalb auch nicht zur

Verantwortung darüber gezogen werden können, ferner daß ihnen die

Mitgliedschaft im Reichstage von ihren Wählern nicht entzogen werden

darf, daß sie gegen ihre Wähler keine Ansprüche auf Ersatz von Kosten

und Auslagen haben u. s. w.".373

Il Parlamento non rappresenta allora un'entità che non c'è, ma

riposa direttamente sulla costituzione, ogni interferenza esterna, ogni voce

extraistituzionale, è rigorosamente espunta. Al modo di Sieyès la Nazione,

o meglio, l'Impero, non può volere che tramite i suoi organi. La Nazione

non ha volontà se non quelle dell'Assemblea nazionale (cfr. supra § II.4).

Tuttavia un principio fondamentale separa i costituenti francesi dai

docenti tedeschi: la divisione dei poteri, e ancora una volta bisogna

ritornare a Hegel. Se coi Contributi per la rettificazione del giudizio del

pubblico sulla Rivoluzione francese, di Fichte, ancora non si vede la

373 P. LABAND, op.cit., citiamo dalla quinta ed., p. 297-8, avvertendo che la parte

racchiusa in parentesi quadre, non figura nella seconda ed., p. 275; tuttavia M. FIORAVANTI

(op.cit., p. 344) ne riporta il primo periodo (fino a "Reiches ab") citando dalla prima ed.

del 1876, p. 504, di cui non dispongo. Deve però rilevarsi che la seconda ed., a differenza

della prima, è in soli 2 voll.; può darsi che il periodo espunto nella seconda e più compatta

edizione, riappaia nelle successive: ricordiamo che del 1900 è l'intervento critico di

Jellinek e un tanto può giustificare la necessità sentita da Laband di riproporre con forza la

propria posizione. Propongo questa traduzione: "Oppure in altre parole, il Parlamento non

è una rappresentanza popolare, con riguardo ai suoi diritti e doveri, ma solo riguardo alla

sua formazione e nomina. [Il Parlamento esercita i suoi poteri non dalla volontà elettorale,

ma al contrario immediatamente dalla costituzione e dalle norme positive dell'Impero. Esse

lo sostengono in tutta la sua ampiezza, anche quando si trova in aperto contrasto con

l'opinione dominante del popolo; il Parlamento non è un rappresentante o un delegatario di

qualsivoglia gruppo elettorale, partito o movimento e i suoi poteri sono assoluti, non

sottomessi al volere dell'elettorato.] Da tutto ciò deriva che le Camere non sono vincolate

da istruzioni e ordini, così che non devono rendere conto giuridicamente né verso gli

elettori, né verso la direzione di un partito o gruppo, per l'esercizio dei loro pubblici poteri

e perciò non possono essere ritenute responsabili, né la deputazione del Parlamento può

essere revocata dal corpo elettorale e i loro elettori non hanno alcun diritto di indennizzo

per costi o esborsi e così via".

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VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND

242

carica dirompente del principio di Montesquieu, sarà il Maestro di Berlino

ad indicarne una volta per tutte, l'intrinseca contraddittorietà con ogni

forma di Stato (ovviamente, etico hegeliano). Si intenda; non bisogna

confondere divisione dei poteri con articolazione degli organi: la prima,

dovuta al Secondat, mira a frenare lo strapotere del sovrano per renderlo

meno pericoloso ed arbitrario, fondendosi con la tradizione inglese dei

checks and balances; la seconda, conosciuta e prevista anche da Hegel,

tematizzata dagli Epigonen (in particolar modo da Rosenkranz) e

sviluppata dagli Staatslehrer, concorre alla formazione dello Stato etico:

basti ricordare il rapporto corpo/membra di Erdmann. È tuttavia appena il

caso di notare, come la divisione dei poteri giunga in Germania solo con

Weimar, e anche allora strenuamente osteggiata. Tale principio, e da

questo la supremazia del legislativo, veicolano la rappresentanza

nazionale, e con questa presuppongono il contratto che è alla base dello

Stato. Erdmann si dice avversario dello Stato di diritto, Rosenkranz e

Gans, da parte loro, ricordano la polemica del loro Maestro con Rousseau

(cfr. supra § II.3.1). La costruzione dello Stato etico prevede il

superamento necessario dell'individuo nello Stato, come necessità storica

e logica, cui si oppone il contrattualismo, ove le singole individualità

permangono, anzi escono rafforzate dal contratto, avendolo concluso

proprio in vista del mantenimento della loro specifica individualità. In

altri termini allo Stato etico si contrappone lo Stato mezzo, garanzia del

singolo. È appena il caso di precisare come la stessa necessità dello Stato

etico prevedesse e volesse la salvaguardia dei suoi membri: lo Stato come

luogo dell'Eticità indica proprio la necessità di una convivenza non solo

de jure. Voler contrapporre in questa sede Stato etico, inteso come salus

rei publicae suprema lex, e Stato garantista come Stato mezzo, sarebbe

fuorviante.374

374 Faccio riferimento alle categorie di L. FERRAJOLI, Diritto e Ragione, Roma –

Bari (1989) III ed., p. 895 e ss. Completamente diversa, ancora una volta, l’esperienza

americana, ove l’ampiezza del territorio, unitamente alla varietà di razze, costumi,

confessioni, produce un’eterogeneità di interessi che non consentono di aggregare

maggioranze se non su aspetti fondamentali, immediatamente percepibili. La società

dovrebbe venire così garantita dalla possibilità di soggiacere a minoranze faziose, secondo

l’aspirazione illuministica del Federalist. Proprio per questo la tradizione (se così si può

dire) americana ha recepito massimamente la pratica dei checks and balances, pur

nell’ossequio formale del padri rivoluzionari alle dottrine del Secondat. Hannah Arendt,

attenta studiosa della sua patria d’adozione, parla infatti di un equilibrio più che di una

divisione di poteri: cfr. H. ARENDT, On Revolution, New York, 1963, trad. it., Sulla

rivoluzione, Milano, 1983, p. 171, n. 23. È da dirsi, comunque, che non può esservi

equilibrio se non v’è divisione e che, anzi, la divisione dei poteri era stata tematizzata

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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Non va dimenticata anche la radice del Volksgeist di Savigny, che

ritenendo il (solo) diritto privato come espressione degli Sitten di un

popolo, storicamente sedimentatesi, assisterà passivamente all'estensione

da parte dei suoi allievi, Lorenz von Stein e Carl Friederich von Gerber in

primis, di questo stesso principio anche nel diritto pubblico.

Alla divisione dei poteri si contrappone allora l'unità del governo,

alla prevalenza del legislativo si contrappone la continuità e regolarità

dell'esecutivo. Compito delle Camere è quello di consigliare, ratificare ed

approvare, quelli che comunque sono atti del governo, inteso come

l'insieme di Camere, amministrazione e Re, che parla per bocca del

sovrano. Il Parlamento, sostiene Laband, non è un organo particolare, se

non nella formazione, che è elettorale, ma non per le funzioni e i poteri

che, come ricordato del passo citato sopra, derivano direttamente dalla

costituzione e su di essa riposano. Solo per questo Laband deduce che non

vi può essere sindacato sull'opera del Reichstag nel suo complesso, né dei

suoi singoli membri; ogni funzione popolare cessa il giorno delle elezioni:

rimandare a Rousseau sarebbe superfluo.

Che Laband tenda a giustificare l'esistente cercando di congiungere

giuridico con statuale è considerazione tralatizia,375

ma in questo senso la

prima tendenza risale ai tentativi di codificazione, dove si cerca di definire

diritto solo quello promanante da norme positive, in antitesi con la ratio

scripta dello jus commune.

proprio per assicurare l’equilibrio tra le diverse componenti fondamentali dello Stato.

L’equilibrio può assumere forse particolare rilevanza nell’esperienza d’oltre oceano ove i

tre fondamentali poteri hanno tutti formazione elettiva: quest’aspetto affatto singolare,

soprattutto per quanto attiene il potere giudiziario, esclude quella primogenitura del potere

legislativo che ha sempre tentato di reclamare i propri diritti nel vecchio continente,

ottenendo una sorta di riconoscimento di immediato riflesso della sovranità popolare. Ove

invece il potere esecutivo riceve la propria investitura con un distinto atto di scelta

popolare, così come il titolare dell’azione penale, riflettendo tutti la stessa sovranità

popolare, prende particolare rilevo l’esigenza di equilibrio.

375 Cfr. M. FIORAVANTI, Costituenti cit., p. 345. È superfluo notare come, secondo

l’impostazione che abbiamo proposto nel legame tra Epigonen e Juristen, questa tendenza

sia frutto di un’altra malcelata radice hegeliana più che dell’esperienza codicistica

napoleonica che, pur avendo fatto proseliti tra i privatisti (Thibaut), nella sua brevità aveva

lasciato nuovamente la Germania sotto il vigore del Corpus Juris per altri ottantacinque

anni. In realtà, proprio la mancanza di un monopolio della produzione normativa in capo al

Kaiser richiedeva di congiungere giuridico a statale secondo la più volte citata dialettica

del Volksgeist, che serviva così anche a giustificare il suolo del sovrano.

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VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND

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Più interessante, per i nostri fini, il paragone con il maestro del

formalismo, Hans Kelsen. Soprattutto in tema di rappresentanza, la

posizione dei due sembra essere identica. La già citata battuta di Kelsen

che la rappresentanza parlamentare è una finzione, scaturisce da una

serrata analisi del dato giuridico costituzionale, che ha come punti cardine

l'irresponsabilità, il divieto di mandato imperativo, l'impotenza del

rappresentato. Si è già messa in evidenza la consequenzialità logica di

Laband, e con lui, di Kelsen, nell'istituto esaminato. Descrittore puntuale

dell'esistente, non meno che giusprivatista raffinato, di solida formazione

romanista. Laband si rende conto che "giuridicamente" non ricorrono i

termini, gli elementi della rappresentanza, tra popolo e Reichstag; e si

deve a questa considerazione la necessità sentita di aggettivare

convenientemente il sostantivo, producendo così quell'espressione,

"rappresentanza politica", che denota tutto l'imbarazzo di una questione

irrisolta. Si apre la strada alle indagini, soprattutto americane, degli ultimi

cinquant'anni, tendenti a giustificare una rappresentanza che non c'è, con i

continui distinguo tra situazione e rapporto per non essere ricompresi in

toto nell'una o nell'altro.

Un'ultima similitudine accomuna tuttavia il giuspubblicista di

Strasburgo e il teorico generale praghese: l'attenzione alla forma, intesa

come procedimento di formazione delle norme, nella ricerca di una

purezza di metodo, che ancor oggi a Laband viene fatta risalire.376

Più che

coniugare giuridico con statuale, das Staatsrecht tenta di identificare

giuridico con governativo, laddove un atto del Kaiser è tale anche pur

dovendo essere approvato dal Reichstag ed anche nell'ipotesi in cui

l'approvazione venisse a mancare. Ricordiamo che il Kaiser, al pari del

Ministero o del Parlamento, è un organo statuale e per ciò stesso

rappresentativo del popolo che con lo Stato è così felicemente unito, tanto

376 La teoria di Laband ha avuto largo seguito non solo in Germania, ma anche in

Italia, fino al secondo dopoguerra, specialmente per quanto riguarda l’aspetto organico,

cioè il tratto più originale del pensatore di Strasburgo, dalla cattedra, cioè, istituita dal

Kaiser appositamente per lui. Fra gli altri, si segnalato O. RANELLETTI, Istituzioni di diritto

pubblico, XV ed, Milano, 1955, p. 70 e ss.; R. LUCIFREDI, La nuova Costituzione italiana,

Milano, 1952, p. 47; E. CROSA, Diritto costituzionale, IV ed., Torino, 1955, p. 43, 65 e

192; C. CERRETI, Corso di diritto costituzionale italiano, III ed. Torino, 1953, p. 168, 329 e

ss.; P. VIRGA, Diritto costituzionale, III ed. Palermo, 1955, n. 26; A.M. OFFIDANI, La

capacità elettorale italiana, Milano, 1953, p. 102 e ss.; U. PROSPERETTI, L’elettorato

politico attivo, Milano, 1954, p. 65 e ss; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II ed.,

Padova, 1952, sui cui amplius infra, III.4.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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da non aver rilevanza propria. Ma vi è di più: a differenza del Parlamento,

organo di limitate competenze, Re e Governo costituiscono l'Haupt dello

Stato e per questo, in base ai principi esposti, possono essere considerati i

veri rappresentanti dello Stato e, per suo tramite, del popolo.377

Tuttavia, a ben considerare, il limite di Laband consiste proprio in

questo: la tradizione di cui si appropria e che porta a svolgimento, si basa

sulla storicità dello Stato come presa di coscienza di un popolo, radici

hegeliane che vediamo ancora ben presenti in Gerber. Laband le taglia,

ma così facendo si priva del solo motivo che giustifica l'identità tra Stato e

popolo. Per garantire meglio (più dogmaticamente) l'Einheit, Laband nega

rilevanza giuridica alla figura del popolo, ma si priva con ciò di ogni

giustificazione filosofica dello Stato, esponendosi alle critiche di

concettualismo, meccanicismo, mosse poi da Jellinek.

In altre parole la ragione dell'obbedienza alle leggi e il principio

dello Stato come evoluzione storica del popolo, camminano di pari passo,

fondandosi sul delicato equilibrio fra singolo, popolo e Stato. Da un lato si

potrebbe sostenere che comunque lo Stato è storicamente la necessaria

Aufhebung del cittadino, per cui la semplice descrizione dello Stato,

qualunque esso sia, racchiude in sé l'obbedienza al comando, ma dall'altro

si sono viste le difficoltà e le precisazioni che l'Hegel di Rosenkranz

indica esponendo il rapporto tra gli organi nei suoi progetti costituzionali,

"avendo sotto gli occhi la costituzione inglese". Di qui che, se può

sembrare di poter dedurre dalla necessità storica del superamento -

assorbimento del singolo nello Stato la tesi che questo è comunque etico,

d'altra parte, l'attenzione che Hegel pone nella ricerca dell'equilibrio tra gli

organi, può essere intesa come indice di non automaticità dello Stato

etico, pur dovendo il singolo obbedienza alla legge in quanto tale. In ogni

caso, si potrebbe dire che Laband mini lo stesso terreno sul quale ha

elevato la propria costruzione. Tutto il valore dello Stato era dato

dall’identità di volontà con il popolo. Si può assorbire il secondo nel

primo, come pure era stato fatto fino ad allora, ma non può essere espunto

dal sistema giuridico e cancellato dal movimento dialettico, pena una

pericolosa contrapposizione tra governanti e governati in cui la sola

377 È appena il caso di ricordare le difficoltà degli autori che stiamo trattando nel

qualificare la figura del Re. Il problema nasceva dal dubbio se ritenerlo organo dello Stato

o superiore a questo e che prerogative assegnarli. Al proposito si confrontino le opere di

Laband e di Gerber citate, nei capitoli che riguardano il Monarca.

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VOLERE È ESSERE: PAUL LABAND

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legittimazione dei primi si riduce alla forza.378

In questo modo si perde

ogni eredità hegeliana. Si è visto proprio all’inizio di questo capitolo ed

anche al § I.2., come il Maestro di Berlino avesse assegnato un ruolo di

mediazione alla rappresentanza, indicando con precisione le conseguenze

deleterie di un suo inceppamento nella pericolosa contrapposizione tra

monarca ed articolazioni della Società civile. E non è un caso, allora, che

funzione mediatrice della rappresentanza (tra rappresentante e

rappresentato) e posizione mediana della società civile nella dialettica

hegeliana (tra famiglia e Stato) si muovano di pari passo, la crisi della

prima essendo null’altro che l’eclissi della seconda ad opera di Epigonen e

Juristen, avviando quella rincorsa al recupero di entrambe, che non appare

ancora terminata.

Un'ulteriore osservazione merita di essere fatta. Nel Deutsches

Reichsstaatsrecht del 1919, la trattazione dedicata alla natura del

Reichstag copre meno di una facciata, vi si legge: "der Reichstag ist eine

Vertretung des gesamten Deutschen Volkes, keine Versammlung von

Delegierten der Landtage der Einzelstaaten".379

L’assonanza con la

mozione di Cherles-Maurice de Talleyrand – Perigord risuona anche

378 È questo un esempio di astrazione dogmatica di cui si è fatto cenno supra al §

I.1. La pretesa astraente del metodo ipotetico deduttivo delle scienze, importato

acriticamente anche nelle discipline del diritto e dello Stato, contro l’avvertimento di

Aristotele (che se non poteva conoscere le categorie epistemiche moderne, tuttavia aveva

messo in guardia dallo spostare lo studio della polis dalle discipline pratiche a quelle

teoretiche o, peggio, poietiche), alla ricerca di un continuo affinamento per un maggior

rigore, produce la progressiva perdita di consapevolezza dei fondamenti della costruzione,

giungendo a recidere così le proprie radici. Dalla presa di consapevolezza del Volksgeist

come elemento caratterizzante il popolo, all’Aufhebung di cittadino nello Stato, con la

conseguente identità di volontà tra il primo ed il secondo si deduce la rappresentatività di

ogni organo statuale, quale interprete del Volksgeist, al pari di ogni membro del popolo.

Ma nel momento stesso in cui si espunge il popolo dalla costruzione non resta che

l’immagine, priva del fondamento che la rendeva utile. La teoria risulta allora meccanicista

ed il prosieguo dell’indagine, una volta perso di vista proprio fondamento (oltre a non

procedere alla sua continua verifica), rischia di contraddire le stesse premesse, ormai

inconsapevoli, su cui poggia. Fino a che la realtà, con un crescendo mozartiano, bussa alle

porte del diritto, secondo le parole di Ascarelli (su cui cfr. le acute pagine di F. CASA,

Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione giuridica tra positivismo ed idealismo, Napoli,

1999).

379 P. LABAND, Deutsches Reichsstaats, VII ed., Tübingen, 1919; ristampa Aalen,

1969, p. 72.

Propongo questa traduzione: "Il Parlamento e una rappresentanza dell'intero

popolo tedesco, non la riunione dei delegati dei parlamenti locali dei singoli Stati.”

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

247

all’orecchio meno accorto, dimostrando la funzionalità operativa delle

posizioni rivoluzionarie anche per chi muove da prospettive

(apparentemente) opposte. È un passo generalmente sconosciuto, forse

perché meno provocatorio delle prime edizioni. Si deve comunque

dedurre che nell'ultima parte della sua vita, Laband abbia cambiato

posizione o, quantomeno, aggiustato il tiro. Non si deve comunque

dimenticare che l'uscita dell'edizione postuma seguiva di diciannove anni

l'intervento nel dibattito di Georg Jellinek.

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

248

3.3.4 Essere è volere: Georg Jellinek

PREMESSA: IL POPOLO COME ORGANO PRIMARIO DELLO STATO: CAPOVOLGIMENTO DELLA

COSTRUZIONE LABANDIANA ED IMPUTAZIONE DI ATTI DI VOLONTÀ GIURIDICAMENTE

RILEVANTI IN CAPO A SOGGETTI REALMENTE ESISTENTI… - SEGUE: CONSEGUENZE IN ORDINE

AL SYSTEM DER SUBJEKTIVEN ÖFFENTLICHEN RECHTE… - SEGUE: CONSEGUENZE NEL TEMA

SPECIFICO DELLA RAPPRESENTANZA – CONCLUSIONE: VERIFICA DEI PRESUPPOSTI HEGELIANI

NELLA COSTRUZIONE DI JELLINEK, LORO SUSSITENZA E CONSEGUENZE.

La vastità dell'opera di Jellinek380

ha meritato una copiosa

letteratura critica e l'evoluzione del suo pensiero è stata ricostruita

puntualmente.381

Confrontando qui le posizioni di Jellinek con

l'insegnamento di Laband relativamente alla rappresentanza, non si potrà

che richiamare per sommi capi, quasi a cornice, i termini del dibattito tra i

due circa la dottrina generale dello Stato e il metodo logico giuridico, solo

per la parte che interessa per il prosieguo della nostra trattazione.

Fin dal suo primo ingresso nel dibattito, nel 1887,382

Jellinek

accoglie e sostiene l'idea labandiana dello Stato come creatore di diritto,

unità che costituisce persona giuridica, ma riafferma la necessità di non

espungere dalla disciplina tecnico - giuridica tutti quegli elementi che

possono aiutare a comprendere meglio il funzionamento dello Stato,

380 Georg Jellinek, di origine ebraica, nasce a Leipzig nel 1851, dopo una breve

parentesi come funzionario in Austria, nel 1883 viene chiamato all'università di Vienna

come professore straordinario di diritto dello Stato. Ottenuta l'abilitazione nel 1889, per un

anno insegna a Basilea e successivamente ad Heidelberg per vent'anni, fino alla morte che

lo coglie nel 1911. La sua vasta cultura nonché l'attitudine alla ricerca di un fondamento

filosofico delle teorie giuridiche, ci sono testimoniate fin dagli scritti giovanili, tra cui: Die

sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, Wien, 1878; Smith und Kant,

Wien, 1877; System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tübingen, 1892; interessante ai

nostri fini, Die Erklärung der Menschen und Bürgerrechte II ed., Heidelberg, 1903, poi

curata ed ampliata nella IV ed. postuma, edita dal figlio Walter, München und Leipzig,

1927; segnalo altresì l'edizione critica curata da R. SCHNUR, Zur Geschichte der Erklärung

der Menschenrechte, Darmstadt, 1964.

381 Per un giudizio sul pensiero e l'opera di Jellinek nel periodo che ci interessa, ed

a riprova della sua influenza sulla dottrina francese, ma soprattutto, italiana, cfr. L.

DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, Paris, 1911, I vol.; R. CARRÉ de MALBERG,

Contribution à la théorie générale de l'État, 2 voll., Paris, 1920-22, II vol.; P. ESMEIN,

Droit constitutionnel française et comparé, Bar le Duc, 1909; F. PIERANDREI, I diritti

subbiettivi pubblici nell'evoluzione della dottrina germanica, Torino, 1940.

382 Cfr. G. JELLINEK, Gesetz und Verordnung, Freiburg, 1887, rist. Aalen, 1964.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

249

soprattutto nel giustificarne l'opera e, aspetto non secondario, l'obbedienza

alle leggi. In questa prospettiva un aiuto importante giunge dall'analisi

storica, dall'evoluzione degli istituti, elemento principe per comprenderne

l'effettiva funzione. Tutti gli scritti di Jellinek dedicano ampio spazio alla

ricostruzione storica degli istituti trattati, confrontandone l'aderenza con la

situazione del tempo e giustificando i mutamenti di disciplina con le

diverse esigenze dei tempi a lui contemporanei.

Oltre al recupero della storia che, elemento fondante in Savigy (e in

Hegel), nel corso del secolo era andato vieppiù perdendosi di pari passo

con la progressiva consolidazione dell'ordinamento, Jellinek reintroduce la

nozione di Volk, sempre presente in tutti gli autori esaminati, fino a

Gerber,383

rigorosamente espunta da Laband. Del Volk, come è noto,

Jellinek farà l'organo primario dello Stato, da cui discendono tutti gli altri

organi. Secondo il giuspubblicista di Heidelberg, ammettendo, anche sulla

base dell'analisi storica, che il popolo è, esiste, non si può negargli

rilevanza nel campo giuridico senza incorrere nelle difficoltà in cui si

dibattevano i più stretti seguaci di Laband. Conseguentemente allora alla

correlazione giuridica tra volontà e essere, ricordata ed introdotta nel

diritto pubblico da Gerber, il popolo è soggetto di diritto, è dotato di una

sua volontà. Anzi, proprio da questa volontà derivano la loro giuridica

esistenza gli ulteriori organi di cui lo Stato è composto.

Si è osservato384

come per Jellinek l'opera di Laband non sia errata,

ma solo incompleta, avendo condotto il proprio esame solo su un primo

momento dell'indagine, cioè quello della necessaria derivazione dei diritti

pubblici dallo Stato, ma senza indagarne gli effetti nei destinatari, senza

cioè indagare l'enucleazione giuridica della figura di cittadino e delle

comunità minori. È appena il caso di notare invece, come il prosieguo

dell'indagine nel senso indicato dallo stesso Jellinek, passi

necessariamente attraverso un mutamento di metodo tale, da porsi in

antitesi con il sistema labandiano. Se infatti il giurista di Strasburgo dà

volontà solo a chi considera, secondo il metodo dogmatico,

giuridicamente esistente, ad Heidelberg, il suo collega invece considera

giuridicamente esistente chi, di fatto, vuole. Se per il primo il popolo non

383 Cfr. la corposa opera di O. von GIERKE, J. Althusius und die Entwicklung der

naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it. Torino, 1975, ma già anticipato in

Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868.

384 M. FIORAVANTI, op.cit., p. 404.

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

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poteva avere giuridica volontà perché giuridicamente inesistente (cfr.

supra), per il secondo poiché il popolo è, può giuridicamente volere.

Occorre precisare che questo mutamento di prospettiva altro non è che

proprio la diversità di un punto di partenza: storico per il secondo, logico

concettuale per il primo. Non crediamo si possa ritenere calzante una

contrapposizione per quanto riguarda tutto il metodo, del tipo empirista

per l'uno, idealista per l'altro, né la tradizione, risalente a Vittorio

Emanuele Orlando nella prefazione alla traduzione italiana parziale

dell'opera fondamentale di Jellinek, che vuole un Laband reazionario,

contrapposto ad uno Jellinek liberale. I due autori sono strettamente

accomunati, pur nella diversità dell'incipit, dal metodo logico concettuale,

importato dal Gerber privatista e (spesso ancor oggi) considerato il solo

oggettivo, perché "scientifico".

Dalla individuazione di un soggetto giuridico distinto, da cui

promanano gli altri organi dello Stato, si potrebbe già pensare di dedurre

un dualismo nel pensiero di Jellinek, ma proprio qui occorre essere

prudenti.

La distinzione concettuale, tra l'altro corroborata dall'analisi storica,

di un popolo e dell'organo statuale chiamato a rappresentarlo, veicola

l'idea di una concezione della rappresentanza basata sulla struttura

dualistica, quale si è enucleata nella prima parte di questo lavoro. Occorre

allora fare riferimento all'opera fondamentale di Jellinek, in quella parte

dedicata specificamente alla rappresentanza, cioè il capitolo 17.

dell'Allgemeine Staatslehre.

Prima di lasciare la parola direttamente a Jellinek, conviene

indicare la struttura dell'opera, proprio per poter comprendere appieno lo

spazio dedicato alla rappresentanza e il ruolo assegnatole dall'autore nella

costituzione dello Stato.

La prima edizione dell'Allgemeine Staatslehre385

ha una data

emblematica: il 1900. Divisa in venticinque capitoli, è ripartita in tre libri.

Il primo tratta dei compiti dello Stato, del metodo della dottrina dello

Stato, con un particolare accento sulla distinzione dal diritto privato, pur

nell'unità del metodo giuridico; una ricostruzione storica delle principali

teorie sullo Stato; il rapporto della dottrina generale dello stato con le

scienze in genere, dalla Natura aristotelica alla sociologia, passando per

385 G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, Heidelberg, 1900; a nostra disposizione è

la più diffusa terza edizione, postuma, a cura del figlio Walter, Berlin, 1914, da cui

citeremo in seguito.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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Rousseau, Hegel, i socialisti francesi, Comte e Spencer, con un particolare

riguardo per i rapporti tra famiglia e Stato, questione disattesa dai giuristi,

ma anche dai filosofi, come abbiamo visto, già dagli allievi di Hegel; una

trattazione di tre pagine sui rapporti tra partiti politici e Stato e sul

rapporto tra società civile e Stato. Cinque pagine invece sono dedicate alla

distinzione tra Nazione e Stato. Il secondo libro è dedicato alla dottrina

sociale generale dello Stato e, come si è detto, è il contributo più

innovativo rispetto alla tradizione labandiana. Fra le altre cose si

individuano e trattano gli scopi dello Stato, prendendo le mosse da una

panoramica storica che copre il periodo da Aristotele a tutto l'Ottocento,

toccando i maggiori pensatori, per concludere con un capitolo che tratta

dei rapporti tra Stato e diritto. Il terzo libro è il solo che Laband avrebbe

ritenuto propriamente di diritto costituzionale, ma ancora una volta in

polemica con le posizioni del giurista di Strasburgo, Jellinek non lo

intitola "Il diritto pubblico tedesco" o "Il diritto dell'Impero tedesco",

delimitandone la portata ed accentuando il carattere prettamente positivo -

descrittivo della trattazione. Al contrario il titolo dell'ultimo libro è quasi

una parafrasi e una specificazione del titolo dell'intera opera, Allgemeine

Staatsrechtlehre, quasi ad indicarne l'intento non meramente esegetico del

diritto costituzionale vigente nel Reich, ma la costruzione logico -

giuridica che proprio perché tale, supera l'angusto limite della positività,

che è da sempre costretta a fare continuamente i conti con i mutevoli

capricci del sovrano. Il primo capitolo di questa terza parte riprende la

distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, ma non più intorno al

metodo, che già era stato riconosciuto unitario nel primo libro, bensì

riguardo ai destinatari e all'ambito di applicazione. Poi si inizia a trattare i

singoli tradizionali elementi dello Stato secondo l'insegnamento di Bodin,

popolo, territorio, sovranità. Si tratta poi della costituzione dello Stato,

ancora una volta con ampi riferimenti da Wolff a Vattel e Rousseau, non

dimenticando l'esperienza inglese. In venticinque pagine poi, al

sedicesimo capitolo, viene esposta la teoria organica e, nelle ultime

cinque, si considera l'analisi del rapporto tra singolo e organo.

Immediatamente successivo è il diciassettesimo capitolo, che più ci

interessa, intitolato “rappresentanza386

e organi rappresentativi”. Da

386 Si noti come Jellinek non usi i tradizionali termini Vertretung o Darstellung,

propri della tradizione giuridica, ma senta la necessità di coniare un termine nuovo,

Repräsentation, quasi ad indicare la distinzione concettuale con il diritto privato e gli

istituti da esso derivati che lo sottende.

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

252

questo punto in poi procede l'analisi sul funzionamento dello Stato,

sempre con un'ampia panoramica storica, che in questo caso vede, per la

prima volta in modo diretto, la trattazione delle teorie di Montesquieu e il

loro influsso sulla dottrina tedesca. Segue l'esame delle varie forme di

governo e di unioni di Stati. Conclude l'opera, non a caso, l'esame della

tutela dei diritti pubblici, o meglio, della loro garanzia.

Si comprende come veramente il nodo della rappresentanza sia

centrale nella Staatslehre di Jellinek, con la stessa consapevolezza con cui

Bluntschli (cfr. supra) riconosceva l'istituto essenziale al diritto pubblico,

automaticamente giustificando quella distinzione tra rappresentanza di

diritto privato e rappresentanza di diritto pubblico, i cui problemi hanno

mosso la nostra indagine. Riconoscendo infatti esistenza e giuridica

volontà al popolo, recuperandolo come fondamento di tutto lo Stato,

definendolo organo primario dello Stato stesso, ben si comprende come

dalla precisa costruzione dell'istituto in esame dipenda la tenuta della

teoria di Jellinek. Ma è giunto il momento di leggere la definizione di

rappresentanza.

"Unter Repräsentation versteht man das Verhältnis einer Person zu

einer oder mehreren anderen, kraft dessen der Wille der erstern

unmittelbar als Wille der letztern angesehen wird, so daß beide rechtlich

als eine Person zu betrachten sind".387

L'assunto sembra di primo acchito

condivisibile, se non fosse per l'ultima deduzione che l'autore trae da una

premessa in sé piana. In altre parole si indica fin da subito la distinta

esistenza di due soggetti giuridici, in cui però la volontà della prima è

riconosciuta come volontà della seconda. Il dualismo di premessa si

scontra con la coincidenza della volontà dei due soggetti, che li riduce ad

uno, conseguenza che esplicitamente l'autore trae sostenendo che

entrambe le entità giuridicamente devono essere considerate una sola

persona. Continuando la lettura, poche righe dopo si legge: "Allein im

engeren Sinne wird unter Repräsentation das Verhältnis eines Organes zu

den Mitgliedern einer Körperschaft verstanden, demzufolge es innerhalb

der Körperschaft den Willen dieser Mitglieder darstellt. Repräsentative

Organe sind somit in diesem Sinne sekundäre Organe, Organe eines

387 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, 3° ed., Berlin, 1914, p. 566.

Propongo questa traduzione: "Con rappresentanza si intende la condizione di una persona

nei confronti di una o più altre, in forza della quale la volontà della prima viene

riconosciuta immediatamente come volontà della seconda, così che entrambe

giuridicamente sono trattate come una persona".

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

253

anderen, primären Organes. Dieses Primäre Organ hat, soweit die

Zuständigkeit des sekundären Organes reicht, an dessen Willen seinen

eigenen Willen und keinen Willen außer diesem. Das primäre Organ hat

nur so weit unmittelbare Willensäußerungen vorzunehmen, als sie ihm

besonders vorbehalten sind. Der regelmäßige Fall dieses Vorbehalts

bezieht sich auf die Bestellung der sekundären Organe durch Wahl.

Dieser Gedanke der Repräsentation ist ein rein juristischer".388

L'assunto è perentorio indicando che l'organo primario non ha altra

volontà che quella dell'organo secondario. Se volessimo trarre le

conclusioni dovremmo ritenere che giuridicamente un organo, e

precisamente quello primario, non esiste giuridicamente, non avendo

volontà autonoma, ma solo quella che l'organo secondario stabilisce essere

la sua. Viene immediata l'analogia con la posizione di Sieyès, laddove

afferma che la nazione non ha altro volere che quello dell'Assemblea

nazionale. La conferma esplicita giunge poche pagine oltre: "Volk und

Volksvertretung bilden demnach juristisch eine Einheit" e poche righe

dopo "Volk und Parlament sind daher eine rechtliche Einheit. Das Volk ist

durch das Parlament im Rechtssinne organisiert".389

Quelli che sembravano essere due enti distinti, popolo e organo

rappresentativo, Parlament (e non più Reichstag), col termine di Jellinek,

risultano in realtà uniti, anzi, costituire un'unità, ove cioè i singoli oggetti

che la compongono, non godono più di individualità propria. Se da un

lato, allora, si era riconosciuta giuridica rilevanza al popolo perché

empiricamente esistente, dall'altro nell'ambito giuridico tale esistenza si

388 Ibidem.

“Solo in questo senso ristretto sotto [il concetto di] rappresentanza viene

ricompresa la condizione di un organo verso il membro di una corporazione, di modo che

all'interno della corporazione questo membro rappresenta la volontà. In questo senso gli

organi rappresentativi sono organi secondari, organi di un altro organo primario.

Quest'organo primario ha la propria volontà, fin dove giunge la competenza dell'organo

secondario, in accordo con la sua volontà e nessuna volontà fuori di questa. L'organo

primario ha concessa solo una così estesa capacità immediata di emanare volontà, quanto

secondo necessità gli è riservata. La regolare caduta di questa riserva avviene attraverso la

scelta dell'organo secondario.

Questo concetto di rappresentanza e un concetto giuridico puro”.

389 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 582/3.

“Popolo e rappresentanza popolare costituiscono giuridicamente un'unità”.

“Popolo e Parlamento sono giuridicamente un'unita. Il popolo è organizzato in senso

giuridico attraverso il Parlamento”.

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

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nega, riconoscendo al popolo la sola volontà che in suo nome manifesta il

Parlamento. Una distinzione tra popolo e Parlamento giuridicamente non

esiste, in altre parole per il diritto il popolo non rileva se non per quanto si

manifesta nel Parlamento. Appare chiaro che in questa prospettiva

problemi di mandato, di responsabilità, di correlazione, con espressione

d'uso comune, tra "paese reale e paese legale", non si pongono, perché

giuridicamente inesistenti.

Tuttavia le considerazioni fin qui svolte debbono confrontarsi con

la struttura dell'organo, quale proposta da Jellinek, al fine di verificare la

vera portata del rapporto tra organo e suo portavoce, tra organo e suoi

membri, tra Stato e suoi organi, al fine di poter vagliare l'effettivo

rapporto tra organi, per meglio comprendere la portata dell'integrazione

tra l'organo primario popolo e l'organo secondario Parlamento, tra

rappresentato e rappresentante, che si è vista poco sopra.

Come si è ricordato, la trattazione degli organi precede

immediatamente la parte dedicata alla rappresentanza e si conclude con

l'asserto di unitarietà, di Stato e organo. Quest'ultimo, afferma Jellinek,

non ha personalità distinta nei confronti dello Stato, “das Organ als

solches besitzt dem Staate gegenüber keine Persönlichkeit.“390

È appena il

caso di ricordare quanto perentoriamente sosteneva Laband, affermando

che il popolo non ha personalità distinta da quella dello Stato, che non ha

personalità giuridica, che non è un soggetto di diritto, che non ha volontà

giuridicamente rilevanti se non quelle che vengono manifestate dal

Reichstag. Conviene allora tener presente che per l'autore di Heidelberg il

popolo è un organo dello Stato, anzi organo primario dello Stato, e

continuare la lettura.

Non si tratta, continua di seguito Jellinek, di due soggetti

contrapposti, la personalità dello stato e la personalità dell'organo, ma al

contrario Stato e organo costituiscono una Einheit, e così spiega: "Der

Staat kann nur vermittelst seiner Organe existieren; denkt man die Organe

weg, so bleibt nicht extra noch der Staat als Träger seiner Organe, sondern

ein juristisches Nichts übrig. Dadurch unterscheidet sich das

Organverhältnis von jeder Art der Stellvertretung. Vertretene und

Vertretender sind und bleiben zwei, Verband und Organ sind und bleiben

eine einzige Person".391

Vale la pena di sottolineare nuovamente le

390 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit. p. 559/60.

"L'organo così inteso non ha nei confronti dello Stato alcuna personalità".

391 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 560.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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assonanze con Erdmann, dove affermava che se si separano da un corpo le

sue membra, non resta nulla.392

È il trionfo dell’organicismo, cioè della

riduzione di due soggetti (rappresentante e rappresentato) ad uno solo, di

cui l’altro non costituisce che uno strumento, un organo, appunto.

Tuttavia, ed è il lato paradossale, non è il rappresentante che si riduce a

strumento del rappresentato, quanto piuttosto il popolo che diviene organo

dello Stato: con un’inversione logica, prima che giuridica, l’ente diviene

mezzo, il popolo da sovrano (pure astratto) viene ridotto ad articolazione

dello Stato. Quanto tutto ciò sia lontano da Hegel è dimostrato dalla

circostanza che il paradigma di Jellinek riproduce la dialettica del servo –

padrone sulla quale aveva appuntato le sue critiche proprio il Maestro di

Berlino, riconoscendo che una concezione protagorea dell’individuo

veicola l’individualismo per il quale il servo è schiavo del padrone e delle

cose che manipola, per esercitare il suo dominio, mentre il padrone

dipende dal servo sia per le cose, sia per affermare il proprio ruolo di

dominio. Ancor più singolare, allora, appare il nesso tra organicismo e la

costruzione di Sieyès, laddove l’Abate riduce il “rappresentato” ad un

bene sotto l’amministrazione del “rappresentante”, il popolo sotto la tutela

dell’Assemblea, dal canto suo Jellinek riduce il popolo (che pur riconosce

esistente) ad un ganglo -secondo la terminologia amministrativa-

dell’apparato statale. In entrambi i casi, l’assemblea, anziché ricevere le

istruzioni (non vincolanti) dei rappresentati, si perita di instillare loro la

"Lo Stato non può esistere che attraverso i suoi organi; se per ipotesi si separano da

lui i suoi organi, non resterà più lo Stato, se non come Träger dei suoi organi, ma non

resterà che un niente giuridico. Da ciò si distingue la condizione organica da ogni forma di

rappresentanza. Rappresentato e rappresentante sono e rimangono due, gruppo e organo

sono e rimangono una persona unitaria".

392 Cfr. supra, nota n. 294. Il filo organicista a nostro avviso si dipana fino a N. LUHMANN,

Grundrechte als Institution, Berlin, 1965, ove i diritti fondamentali, tra cui la

rappresentanza e le stesse procedure di elezione, vengono intensi non più come strumenti e

garanzie per la libertà dell’uomo (senza qui distinguere tra libertà soggettiva illuministica

dell’individuo allo stato di natura o la libertà della persona all’interno di un ordine), quanto

piuttosto come funzionali alla conservazione dell’ordine sociale. Si vede dunque come la

posizione dei singoli sia organicamente inserita all’interno della società e come i diritti

fondamentali tutelino solo “di riflesso” la posizione dei cittadini, in quanto perseguono

solamente la salus rei publicae. Spogliato dei suoi organi l’ente resta muto, ma parimenti,

separati dall’ente gli organi cessano di avere autonoma esistenza. Questa posizione, in sé

condivisibile, rivela tutta la sa pericolosità ove, con un’inversione logica tra fine e

strumento, si ponga il cittadino nel ruolo dell’organo e lo Stato (o l’ordine sociale di

Luhmann) nel ruolo dell’ente.

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

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sua propria volontà, contrabbandata come volontà del Popolo, grazie a

quella fabbrica di maiuscole, secondo l’immagine con la quale ci siamo

congedati dal capitolo precedente. Si tratta di una costruzione raffinata

che troverà fortuna per molto tempo, pur se le critiche non mancheranno

pressoché fin dal primo momento.

Infatti, già con Carré de Malberg393

abbiamo una serrata

comparazione tra rappresentanza tradizionale, alla luce dell'esperienza

francese, e teoria organica nella versione di Jellinek. Questo autore, tra

l'altro docente dell'università di Strasburgo, da quella stessa cattedra che,

prima della guerra, era stata di Laband, aveva subito aderito, tra i primi in

Francia, alle posizioni di Jellinek, ma aveva ben presente anche

l'insegnamento di Gierke e le critiche mosse ai due autori da quella parte

della dottrina francese più affezionata all'elaborazione della

rappresentanza sviluppatasi dalla Rivoluzione francese, in sostanza

l'elaborazione delle posizioni di Sieyès. Con Carré de Malberg potremmo

dire che tra organo e rappresentanza vi sono due differenze fondamentali:

da un lato quest'ultima prevede due soggetti distinti di cui uno agisce per

conto dell'altro, al contrario l'organo, proprio in quanto tale ha una sola

personalità -quella della collettività organizzata-, poiché gli organi e la

collettività non formano che una sola persona. "Verband und Organ sind

und bleiben eine einzige Person", abbiamo visto scrivere Jellinek; "les

organes de la collectivité ne forment avec elle qu'une seule et même

personne",394

si limita a tradurre Carré de Malberg e precisa che non si

tratta di una struttura simile al corpo umano, non deriva da argomenti di

ordine fisiologico, ma riposa unicamente su di un'analisi giuridica del

rapporto esistente tra la collettività étatisée e gli individui che esercitano il

suo potere. Se ne deduce che mentre rappresentante e rappresentato sono

due persone completamente distinte, l'organo non è un estraneo nei

confronti della collettività, poiché è tutt'uno con i suoi membri, proprio

uno o più dei quali, lo "rappresenta" nei rapporti esterni. A questo punto

occorre fare attenzione, poiché se chi parla per l'organo è ad un medesimo

istante rappresentante e rappresentato, talché sembrerebbe essersi

assicurata la corrispondenza tra volontà del rappresentante e volontà del

rappresentato, per un altro verso si deduce che in questo senso chi

393 R. CARRÉ' de MALBERG, Contribution à la théorie de l'État, 2 voll., Paris,

1920/22, II vol. , p. 285 e ss.

394 Cfr. R. CARRÉ de MALBERG, Contribution, cit., II vol., p. 287.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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governa, essendo parte di un organo, è in perfetta sintonia con i voleri o le

necessità, non vale qui distinguere, dei governati. In altri termini, non vi

può essere distinzione di vedute tra governo e popolo, ed è la conclusione

di Jellinek per cui "Volk und Parlament sind eine rechtliche Einheit", ed è

la stessa di Laband, dove si afferma che il popolo vuole solo tramite lo

Stato, ed è, attraverso il dubbio di Gerber, la stessa delle Vorlesungen di

Erdmann, dove si inizia e si conclude che governanti e governati

costituiscono un organismo etico, essendo compenetrati chimicamente.

Vi è però una ragione più profonda che sospinge verso la teoria

organica: la necessità di non fondare lo Stato sopra un contratto tra

individui. Sovvengono le polemiche hegeliane, riportate da Rosenkranz,

sull'inconsistenza e fragilità di uno Stato derivato da un contratto, a cui si

contrappone la necessità storica del superamento del singolo soggetto

sussunto nello Stato etico. Lo stesso timore, che abbiamo visto ben

espresso in Erdmann, latente in Jellinek, risulta esplicito in Carré de

Malberg. Quest'ultimo individua infatti la differenza fondamentale tra

teoria tradizionale della rappresentanza e nuova costruzione organica nella

circostanza che mentre la prima trova la sua origine in un atto giuridico di

volontà da parte di chi vuol farsi rappresentare, che porta ad un contratto

con chi risulterà essere il rappresentante; la qualità di organo, al contrario,

non potrà mai sorgere da un atto di volontà. Quest'ultimo asserto, per la

verità, non viene suffragato in maniera stringente da Carré de Malberg,

tuttavia trova sostegno sufficiente nelle varie argomentazioni degli autori

che sono stati esaminati nei paragrafi precedenti. In questo senso,

avvertiva Hegel per bocca di Rosenkranz, uno stesso sovrano assoluto

eletto a vita sarebbe comunque subordinato e successivo, almeno

logicamente, ai singoli, agli individui che lo compongono: lo Stato non

sarebbe che in balia dei singoli. Tuttavia, nel tentativo di superare

l'individualità, fondando lo Stato su basi più sicure, gli allievi del filosofo

berlinese e i giuristi che da questi traggono a piene mani, risolvono il

delicato problema del rapporto tra cittadino e Stato rimuovendo,

cancellando il primo, e lasciando come unico individuo, lo Stato. In altre

parole la categoria dell'individualità non viene superata, ma anzi

riaffermata, costituendo al posto dei molti individui, un solo individuo, lo

Stato, che, come abbiamo visto, deve proprio "als ein Individuum

existieren". I raffinati equilibri di Hegel sono stati dimenticati.

A questo punto le obbiezioni non potevano tardare, la prima giunge

da Léon Duguit, l’esponente della scuola costituzionalista francese più

affezionata all’eredità scientifica di tradizone gallica: "Derrière le

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ESSERE È VOLERE: GEORG JELLINEK

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représentant, il existe une autre personne; derrière l'organe, il n'y a

rien".395

La stessa osservazione critica potrebbe essere mossa all’abate

Sieyès, e si è visto che l’artificio non era sfuggito agli studiosi francesi.

Per questo autore affermare che la collettività nasce di per sé

organizzata, per cui si può manifestare solo attraverso i suoi organi, è una

mera finzione giuridica, "si il n'y a rien derrière ce que l'on appelle les

organes de l’état, c'est qu'il n'y a que les organes, c'est-à-dire des individus

qui imposent aux autres individus leur volonté".396

L'obbiezione di Duguit

si fonda sull'assunto di Jellinek che abbiamo citato sopra, dove si dice che

lo Stato senza gli organi sarebbe un niente giuridico. Carré de Malberg

non sa dare una vera risposta a questa critica, se non affermando, con

Michoud, che la frase di Jellinek non va presa alla lettera in modo

assoluto. Tuttavia, poche righe dopo, riprendendo la distinzione tra

rappresentanza e teoria organica, afferma che l'organo esprime la volontà

della collettività, ma ciò non vuol dire che la collettività abbia realmente

una volontà propria al modo di Gierke. L'allievo di Beseler, infatti ritiene

che nelle corporazioni e specialmente nello Stato, esista una volontà

effettiva; che la corporazione e lo Stato siano capaci di volere e di agire,

essendo entità reali. Seppure queste possono cominciare a volere e ad

agire solo grazie al diritto, non per questo si deve dedurre che la loro

volontà è creata dal diritto, essendo in realtà a questo preesistente.

A questa posizione i giuristi francesi si oppongono con

l'osservazione, definita prettamente giuridica, ma che potremmo meglio

definire logico dogmatica, che se fuori del diritto non possono volere, tali

entità in vero, sono concetti giuridici e un'eventuale loro sussistenza

sociologica pregiuridica non rileva.

Come si è detto, per sua intrinseca struttura, l'organo si manifesta

attraverso l'opera di un suo membro, singolo o collegiale, a sua volta

organo derivato dall'organo di cui manifesta la volontà. Che tutto ciò non

sia rappresentanza è detto chiaramente e consapevolmente; in maniera

meno esplicita invece è affermato il presupposto che sostiene questa

costruzione, cioè che non vi sia alcuna differenza tra volontà del

rappresentante e volontà del rappresentato o, in modo più esplicito, che

l'unica volontà giuridicamente rilevante è quella dell'organo deputato a

395 L. DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, 2 voll., Paris, 1911, I vol. p. 307 e

ss.

396 Ibidem.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

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manifestarla. Tale presupposto viene giustificato, come si è visto, in

diversi modi, dall'identificazione tra volontà del cittadino e dello Stato,

alla irrilevanza giuridica del popolo fuori dello Stato, alla costituzione

della teoria organica. In ogni caso la conseguenza che se ne può trarre è

una sola: il divieto di mandato imperativo. La possibilità di una verifica

della corrispondenza tra quanto espresso e quanto voluto, "tra paese reale

e paese legale", è la negazione di questo presupposto, cioè la negazione di

quello che abbiamo chiamato il principio primo, da cui è discesa die ganze

Geschichte: in campo pubblico il cittadino non può avere una volontà

diversa da quella dello Stato.

Che questo non fosse l'intento di Hegel, lo si è già detto; preme

mettere qui in evidenza come l'eliminazione del secondo momento dello

Spirito Oggettivo, la Società civile, da parte degli stessi primi allievi del

Maestro di Berlino, abbia portato a quella rincorsa alla ricerca del medio

tra cittadino e Stato, già a partire da Stein e Mohl, fino a Gierke, di cui la

teoria degli organi non è altro, secondo noi, che l'ultimo tentativo.

Del resto questa ricerca affaticherà le menti dei giuristi del

ventesimo secolo, passando dalla teoria dell'istituzione e della fondazione,

al corporativismo, fino a rinvenire la possibilità di una conciliazione tra

Stato e singolo solo in sede superstatale.397

397 Paradigmatica, in questo senso, la parabola svolta nell’opera di Felice Battaglia,

sul cui pensiero cfr. A. SCERBO, Felice Battaglia. La centralità del valore giuridico,

Napoli, 1990, specialmente p. 126 e ss.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

260

3.3.5 Questioni di sovranità

PREMESSA: NECESSITÀ DI VERIFICARE L’ENTITÀ DELL’INFLUSSO DELLE POSIZIONI TEDESCHE

NELLA RIFLESSIONE ITALIANA – IL CONCETTO DI SOVRANITÀ POPOLARE COME IDOENO PIANO

DI RISCONTRO DI TALE INFLUSSO E COME IPOTESI PER CONSENTIRE LA RAPPRESENTANZA DEL

POPOLO – IL PROBLEMA DELLA COESISTENZA DI PERSONALITÀ (E SOVRANITÀ) DELLO STATO

CON LA DICHIARATA SOVRANITÀ POPOLARE – TESI DEL POPOLO COME ORGANO SOVRANO

DELLO STATO… - SEGUE: COME COLLETTIVITÀ AUTARCHICA DI FRONTE ALLO STATO… -

SEGUE: COME TITOLARE DI UNA PARTE DELLA SOVRANITÀ DELLO STATO… - SEGUE: COME

TITOLARE ESCLUSIVO DELLA SOVRANITÀ ESERCITATA IN MODO DIRETTO ED IN MODO

INDIRETTO TRAMITE LO STATO… - SEGUE: IDENTIFICAZIONE DEL POPOLO CON LO STATO

COMUNITÀ E SUA CONTRAPPOSIZIONE ALLO STATO APPARATO – RAPPRESENTANZA DEL

PRIMO NEL SECONDO – RICONOSCIMENTO DEL PRINCIPIO DI RESPONSABILITÀ COME

ELEMENTO ESSENZIALE PER LA RAPPRESENTANZA: LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO

APPARATO NEI CONFRONTI DEL POPOLO – CONCLUSIONI: RICONOSCIUTA NECESSITÀ DI

RIVEDERE IL CONCETTO DI SOVRANITÀ - POSIZIONE DI CRISAFULLI, CROSA E TOSATO.

Nel nostro percorso critico alla ricerca dei tasselli teorici che

militano a sostegno della comune concezione della rappresentanza politica

-intesa come irresponsabilità degli eletti- per verificare l’entità del legato

tedesco raccolto dalla dottrina italiana, può costituire un valido piano di

riscontro la disputa tra i sostenitori della sovranità popolare che li ha visti

contrapposti ai fautori della sovranità statale. La questione si dimostra

interessante ai nostri fini non tanto per un amore di ricerca storica, che ci

ha portati da Sieyès alle soglie dell’Assemblea costituente, quanto per

misurare l’effettiva originalità delle posizioni teoriche della costituzione

repubblicana, oppure riscontrare che anche su di essa gravano le ipoteche

franco prussiane esaminate sopra. Solo in questo caso, allora, si potranno

muovere anche a questa costruzione le critiche di ordine logico, ancora

prima che giuridico, evidenziate già nei paragrafi precedenti nei confronti

dell’edificio statale innalzato a quattro mani da Epigonen e Juristen.

Tuttavia, la disputa sulla titolarità della sovranità, e della sovranità

del popolo in modo particolare, può esserci di aiuto per un'altra ragione.

Non si può infatti respingere ed abbandonare il concetto di sovranità398

senza prima aver tentato tutte le strade per verificarne la compatibilità o

meno con il meccanismo rappresentativo. Accantonata per un momento

l’eccezione per la quale comunque la sovranità è strutturalmente contraria

398 Pur mantenendolo attentamente distinto dal concetto di potestà di imperio,

come si è già detto e come ancora si dovrà dire. Cfr. infra § III.3.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

261

alla dinamica della rappresentanza,399

occorre esaminare le conseguenze

che si sono tratte o che si potevano trarre in tema di rappresentanza

muovendo dal principio della sovranità popolare. La questione può essere

posta in questi termini: chi è titolare del potere sovrano? Se sovrano è non

tanto lo Stato ma il popolo, esso può ben farsi rappresentare; trovandosi

nella duplice veste di rappresentato nella formazione della legge, che è

fatta in suo nome, e, parimenti, destinatario della stessa. La soluzione

involve anche il problema dei diritti pubblici soggettivi cioè del diritto a

farsi rappresentare ed a essere rappresentanti, di cui si parlerà nel

prossimo capitolo. Occorre allora seguire le singole deduzioni per

raccogliere argomenti che diano luce al nostro cammino, muovendo dalle

testimonianze dirette di quei cultori del diritto costituzionale che

parteciparono alla stesura dell’articolo primo della Carta del 1948.

Il problema è dato dalla rottura dell’unità della figura Stato. Come

si è visto la tradizione, affondando le sue radici, invero, fin nella dottrina

dei due corpi del re, scindendo la Corona dal titolare del supremo ufficio,

aveva prodotto il concetto dello Stato persona, accordandogli tutti gli

attributi della divinità secolarizzata, in primis la sovranità. Ora,

l’attribuzione della sovranità al popolo si sostituisce a quella dello Stato?

E come si pone quest’ultimo nei confronti del popolo? In fondo, chi è il

portatore della volontà suprema? Dalle diverse risposte a queste domande

discendono differenti concezioni del popolo, ora come organo dello Stato,

ora come corpo distinto dello Stato, ora come elemento dello Stato

persona, contrapposto allo Stato apparato, con ulteriori conseguenze in

tema di rappresentanza del popolo nello Stato. Per risolvere il problema

della rappresentanza, allora, non ci si può esimere dal circoscrivere la

figura del popolo, di ricercarne, se c’è, la soggettività e definirla nei suoi

precisi contorni, al fine di vedere se ed in che misura esso sia

rappresentabile. Solo poi si potrà regolarne il modo, ritagliando un istituto

giuridico acconcio alla figura del rappresentato, non meno che a quella del

rappresentante.

Inaugurando l’anno accademico 1956-57 all’Università di Torino,

Emilio Crosa apre provocatoriamente la sua prolusione trattando del

“mito” nel diritto e nel diritto costituzionale in particolare, veicolato da

formule suggestive: “Si ammantano alcune volte queste parole o formule

399 Giacché, come si è visto sopra, al § I.2, la sovranità ripete la sua struttura

dall’unicità, mentre la rappresentanza si fonda sul principio dualistico del rapporto tra

rappresentato e rappresentante.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

262

d’una luce che conferisce ad esse una forza capace anche di commuovere

e di trascinare le masse. Si presentano come un ideale cui si tende con

l’entusiasmo di un vero che apre un mondo nuovo”.400

Essi nascono in

tempi “fortunosi e sconvolti”, frutto delle ideologie in aspro contrasto

nelle assemblee ove il potere costituente tenta di diventare costituito, ove,

forse, più che la contrapposizione dei partiti che tentano l’impossibile

mediazione in formule vaghe, conta la necessità di recidere il cordone

ombelicale del passato. Nel mito, allora, che pur partecipa della realtà

(come ci insegna Esiodo401

), non si deve ricercare il rigore tecnico del

diritto e l’importazione immediata di queste formule nelle carte

fondamentali degli ordinamenti moderni impone un grande lavoro ai

giuristi per far si che esse non evaporino, da un lato, in vuote forme, e,

dall’altro non degenerino in elementi perturbatori dell’ordinamento,

“verità questa, di cui la storia del pensiero politico ha dato la più evidente

dimostrazione, anche troppo spesso dimenticata. L’affermazione dei diritti

del popolo, la proclamazione della sovranità del popolo, l’asserita

dittatura del popolo, costituiscono gli esempi più chiari del mito più

favoloso e più irreale se ad essi non corrisponda un ordinamento preciso

che stabilisca la posizione e i diritti di ogni singola persona.”402

E, come si

è detto, la necessità storica di contrapporre il nuovo assetto a quello

superato altera la prospettiva dei diversi elementi.

400 E. CROSA, Miti e realtà costituzionali. Sovranità del popolo, sovranità dello

Stato, in “Studi in onore di Giuseppe Menotti De Francesco”, Milano, 1957, vol. II, p. 303-

327; la citazione si trova alle pag. 306-7.

401 Sul passaggio dal mito alla storia, cfr. G. DE SANTILLANA – H. VON DECHEND, Il

mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, (1969) trad. it., Milano,

(1983) III ed., 1990, p. 71 e ss., nonché 85 e ss.; altresì, J. P. VERNANT, Mito e pensiero

presso i Greci (Paris, 1965 e 1971), trad. it. Torino, 1978, p. 93 e ss. Per il suolo della

storia come strumento di consapevolezza, cfr. J. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e

l’origine della coscienza, (1976) trad. it., Milano, (1984) II ed. 1988, p. 92 e ss., nonché p.

307 e ss.; per il profili più squisitamente politici, cfr. H. BLUMENBERG, Arbeit und Mytos,

Frankfurt a. M., 1991, specialmente p. 274 e ss. Per i riferimenti peculiari nello sviluppo

della letteratura greca classica sul punto, cfr., oltre ai classici saggi di A. J. TOYNBEE, Il

mondo ellenico, (1959) trad. it. Torino, 1967, p. 52 e ss., e di P. L’ÉVÊQUE, L’aventure

greque, trad. it., La civiltà greca, Torino, 1970, p. 215 e ss., si veda anche l’ottimo studio

di B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung Denkens bei den

Griechen, trad. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963, p. 70 e

ss., nonché 141 e ss., 190 e ss.

402 E. CROSA, Miti e realtà costituzionali, cit., p. 316.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

263

La difficoltà è stata percepita fin da subito in seno all’Assemblea

costituente, proprio nel momento di coniare la nuova formula che sancisse

in termini giuridici il principio della sovranità popolare.403

La prima discussione –ci informa, con la consueta precisione di

storico, Maurizio Fioravanti-404

si ebbe nelle sedute del 28 e 29 novembre

e del 3 dicembre 1946 all’interno della Commissione dei 75, ove si stabilì

la necessità di dedicare un articolo alla sovranità e allo Stato. Una prima

versione, nel solco della tradizione, affermava la sovranità dello Stato, pur

dichiarando l’esercizio dei poteri da parte del popolo, sia direttamente, sia

per il tramite di rappresentanti eletti. Si tratta di una posizione che

cementava Dossetti, Moro, La Pira e perfino Togliatti nel ritenere la

sovranità popolare un dogma politico ottocentesco, tanto che lo stesso

Togliatti chiamato ad esprimersi sul punto si pronunciò in favore della

sovranità dello Stato, in apparente iatus con la matrice delle idee che

professava. In verità le sinistre avevano ragione di temere la deriva

populista della sovranità statale, con la possibilità di far risorgere il potere

costituente contro il costituito, tramite il referendum, preferendo ottenere

dal parlamento le innovazioni sociali del proprio programma. Non era da

sottovalutare altresì la “sindrome bonapartista” di un potere forte

legittimato dal basso, che potesse contrapporsi alla gracile struttura

politica che si andava edificando, preferendo l’immagine della Nazione

alla nazione.405

Questa posizione, peraltro, si coniugava con la tradizione

giuridica liberale espressa per voce di Oreste Ranelletti, che dalle colonne

de “Il Foro Italiano” stigmatizzava pressoché tutte le novità della

costituzione, affermando la necessità del principio della sovranità dello

403 L’idea di contrapporre ad un principio il suo contrario, al modo del

capovolgimento, denota uno degli aspetti della struttura propria dell’utopia. Infatti “la

metamorfosi, cioè la trasformazione globale, costituisce l’autentica struttura del progetto

utopico che, indipendentemente dalla forma assunta, si presenta come alternativa globale

dell’esperienza sociale e politica presente”, ben indicato nel gesto che si fa rovesciando

dorso con palmo della mano per significare un cambiamento “da così a così”. Per questo e

per gli altri aspetti dell’utopia che ne fanno una filosofia simulata, cfr. F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 107 e ss.; la citazione è a p.

110.

404 Cfr. M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, in M. Fioravanti e S.

Guerrieri (a cura di), La Costituzione italiana, Roma, 1999, p. 36-66, il punto è a p. 43.

405 Questa almeno l’interpretazione della posizione delle sinistre data da M.

FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit., p. 45.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

264

Stato, come architrave indefettibile dell’ordinamento, di ogni

ordinamento. Da questo dogma discendevano come corollari la necessità

di un presidente eletto, con possibilità di veto o comunque di influenza sul

potere legislativo, un governo forte, non semplice proiezione della

maggioranza parlamentare, il controllo delle leggi affidato alla Corte di

Cassazione, per mantenere quanto più rigida la divisione di Montesquieu,

profetando l’ineliminabile politicizzazione che avrebbe affetto la

Consulta.406

Sorvolando sull’osservazione che le critiche di Ranelletti alla

Carta erano destinate a divenire, cinquant’anni dopo, i capisaldi delle

proposte di riforma dell’ordinamento, preme qui considerare come sul

punto della sovranità dello Stato la tradizione liberale e le sinistre si

trovassero in pieno accordo, non in forza di un transeunte compromesso,

ma per fondato convincimento, pur nella diversità di approccio

epistemico.

La provocazione giunge nelle sedute del 22 e 24 gennaio 1947 che

si caratterizzano per l’intervento di Roberto Lucifero d’Aprigliano, di

provata fede monarchica (primo cugino di Falcone, già ministro della Real

Casa), che sfida tutti coloro che avevano voluto la repubblica ad essere

coerenti fino in fondo, scrivendo ben chiaro nella Costituzione che la

sovranità risiede nel popolo, secondo la nota formula giacobina. Le

cronache ci informano di una levata di scudi unanime, che nulla voleva

concedere allo spirito del giacobinismo, sostenendo una repubblica

parlamentare rappresentativa.407

Tuttavia, contro la formula proposta che la sovranità emana dal

popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle

leggi, è dunque prevalsa poi la dicitura per cui la sovranità non emana

soltanto, ma è del popolo, che ne è dunque il titolare. Per quella strana

correlazione –già sottolineata più volte nei paragrafi che precedono-

secondo la quale in tanto un soggetto è in quanto è capace di atti di

volontà giuridicamente rilevanti, dall’attribuzione della sovranità al

popolo, corroborata da un suo indiscusso esercizio immediato, non si

poteva che dedurne la personalità del popolo. Con il conseguente

imbarazzo di avere un popolo - persona accanto ad uno Stato - persona;

406 Cfr. O. RANELLETTI, Note sul progetto di Costituzione presentato dalla

Commissione dei 75 alla Assemblea Costituente, in “Il Foro Italiano”, 1947, p. 81 e ss,

citato da M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit., p. 40-41.

407 Cfr. M. FIORAVANTI, Sovranità e forma di governo, cit. p. 44.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

265

imbarazzo creato dall’idea che due persone - Stato non possono essere

nello stesso tempo sovrane, in virtù (forse inconsapevolmente) della

categoria dell’unicità che sostiene la sovranità, cioè dell’impossibilità,

dell’incapacità di riconoscere altro da sé. In altri termini, una volta

riconosciuta allo Stato la personalità giuridica, si ritiene impossibile anche

solo pensare che lo Stato persona non sia soggetto di sovranità. Si tratta

del dogma della sovranità dello Stato in conseguenza della sua personalità

giuridica. Alla luce di quanto si è visto nei capitoli che precedono, non è

difficile riconoscere in questo assunto il prodotto più maturo della

speculazione germanica, importato da Vittorio Emanuele Orlando,408

ma

soprattutto, pur con le note elaborazioni originali, da Santi Romano, che

ha sempre sostenuto la correlazione personalità dello Stato – sovranità.409

Nello stesso volume ove Crosa parla del mito, Egidio Tosato

afferma con vigore l’effettiva sovranità del popolo,410

aderendo alla tesi

del collega ed amico Crisafulli, che vi aveva dedicato uno studio critico

approfondito.411

Ma tutti questi autori non si nascondono le difficoltà di

inserire il principio nell’ordinamento, di trasformare il mito in norma.

408 Trovo la prima dichiarazione programmatica di adesione in V. E. ORLANDO, I

criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, 1889, in “Arch. Giur.”,

vol. XLII, p. 107 e ss. Successivamente, com’è noto, le osservazioni critiche si trovano in

IDEM, Capitoli aggiunti a G. JELLINEK, Dottrina generale dello Stato, trad. it. Milano,

1921, p. 735-736.

409 Cfr. S. ROMANO, Lo stato moderno e la sua crisi, in “Riv. dir. pubb.”, 1910, p.

97 e ss; IDEM, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18; IDEM, Principi di diritto

costituzionale generale, Padova, 1946, p. 66, 120, 144. Per le aporie della dottrina, non

solo romaniana, nell’equiparazione di Stato ed ordinamento, cfr. F. GENTILE, Ordinamento

giuridico. Controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.

PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed., Padova, 1999, specialmente §

18 e ss, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova,

2000.

410 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, in “Studi in onore

di Giuseppe Menotti De Francesco”, Milano, 1957, vol. II, p. 1-49; poi riprodotto in IDEM,

Persona, società intermedie e Stato, Milano, 1989, p. 25-82, da cui citeremo in seguito. La

circostanza che nel medesimo volume due saggi siano dedicati alla sovranità popolare,

oltre allo studio di Crisafulli, citato alla nota seguente, dimostra l’importanza della

questione per la dottrina del tempo, non potendosi resistere alla tentazione di ridisegnare

tutto l’ordinamento alla luce di questo fondamentale principio.

411 Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in

“Rassegna Giuliana di diritto e giurisprudenza”, 1954, poi in “Scritti in onore di V.E.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

266

Se dunque il primo attributo dello Stato persona è la sovranità e

(seppure lo Stato è sempre ordinamento, ma può non essere persona)

riconoscendo, come diffusamente si faceva, personalità allo Stato italiano,

l’ordinamento giuridico risulta riposare su due principi contraddittori: la

tradizione della personalità dello Stato e la dichiarazione della sovranità

del popolo.

Comincia così la rincorsa per riappropriarsi del principio originario,

la ricostruzione dell’unità perduta.

La prima soluzione consiste nel riprendere in pieno la tradizione

labandiana, affidandovisi completamente, dopo aver semplicemente

sostituito alla sovranità di un organo, la sovranità di un altro organo dello

Stato: il popolo.412

Secondo un paradigma che abbiamo già visto nei

paragrafi che precedono, il popolo non costituisce un entità distinta dallo

Stato, non è nemmeno semplicemente un suo elemento costitutivo, ma ne

è vero e proprio organo. Sicché l’antitesi tra sovranità del popolo e

sovranità dello Stato viene superata nella sintesi organica tra i due. E

poiché lo Stato non può che agire tramite i suoi organi, la circostanza che

la sovranità appartenga all’organo popolo si limita ad indicare che essa è

esercitata in modo democratico. Dal punto di vista della rappresentanza

questa costruzione non ci fornisce nulla di nuovo a quanto non si sia già

notato supra trattando dei due maestri del diritto pubblico tedesco. Più

interessante l’eccezione che viene mossa a questa costruzione da Vezio

Crisafulli, sostenendo che un organo, in quanto tale, esercita poteri non

propri, ma facenti capo all’ente di cui l’organo altro non è che uno

strumento. Forte del dato positivo che attribuisce al popolo la titolarità

della sovranità, Crisafulli ha buon gioco nel porre in contraddizione il

ruolo strumentale dell’organo con la titolarità del potere, proponendo una

concezione del popolo come ente a sé stante, collocato al di fuori dello

Orlando”, Padova, 1955, vol. I, p 407, infine in IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e

delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 89 e ss, da cui citiamo anche in seguito.

412 In verità, come si è visto sopra, la configurazione del popolo come organo

primario dello Stato, più che quella di Laband, caratterizza la costruzione di Jellinek,

costituendone anzi il tratto precipuo. Non di meno gli autori italiani del secondo

dopoguerra fanno esplicito riferimento più all’opera del giurista di Strasburgo che al suo

collega di Heidelberg. Cfr. supra n. 376.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

267

Stato – persona, rinunciando così all’unità propria della tradizione

tedesca.413

Per la verità, lo stesso Santi Romano aveva, già prima della

costituzione repubblicana, enucleato l’idea del popolo come collettività

autarchica di fronte allo Stato, pensiero poi sviluppato, com’è noto, nella

teoria istituzionalistica, tematizzata da Gierke e ripresa Hauriou. I termini

della posizione sono chiari, pur nelle diverse varianti fornite dall’autore

nel corso della sua speculazione nella continua tensione per affinare il

concetto.414

In questa prospettiva il popolo esercita poteri che gli sono

propri, e lo fa non in nome altrui, ma direttamente in nome proprio,

ponendo in essere atti di volontà giuridicamente rilevanti come corpo

elettorale. Non di meno, come si vede, se la costruzione di Santi Romano

ha il pregio di rompere il monolitismo labandiano, cui l’autore aveva in

principio entusiasticamente aderito, non si concilia con il principio della

sovranità popolare. Fedele alla sua teoria della personalità dello Stato,

Romano mantiene fermo il principio della sovranità statale e pone di

conseguenza il popolo, giuridicamente organizzato in corpo elettorale,

come un soggetto dotato di autarchia, di indipendenza logico - giuridica

nei confronti dello Stato, cui resterebbe attribuita la sovranità. Ne

consegue che il popolo non può essere sovrano, ma, appunto, tutt’al più

autarchico, indipendente. Tuttavia, la costruzione importa un’altra

incongruenza logica, che non risulta esser stata rilevata dalla dottrina. Lo

stesso riconoscimento di una posizione di indipendenza, addirittura di

estraneità allo Stato, assegnata al popolo mina pericolosamente la

sovranità statale, che si trova limitata da un corpo sottratto al proprio

potere che, anzi, ha potere di influire sullo Stato stesso. Lo stridente

contrasto viene sfumato proprio dall’elaborazione della teoria

istituzionalistica che riporta all’interno dello Stato le diverse istituzioni

originarie che concorrono a costituirlo. Ma a questo punto è proprio la

concezione tradizionale di sovranità, intesa quale superiorem non

recognoscere che dev’essere ripensata. In tema di rappresentanza, poi, la

413 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in

IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 111 e ss.

414 Cfr. S. ROMANO, Corso di diritto costituzionale, Padova, 1926, p. 166. Come si

è detto supra, l’autore aveva in un primo tempo abbracciato la costruzione di organica più

nella variante di Jellinek che in quella di Laband: cfr. IDEM, nozione e natura degli organi

costituzionali dello Stato, Palermo, 1898. Per le osservazioni critiche alla prospettiva

generale di questo autore, si veda anche supra alle note n. 115 e 409.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

268

posizione romaniana conduce all’aporia per la quale il popolo è si

soggetto a sé stante, capace di propri atti di volontà e quindi anche di

eleggere dei propri rappresentanti, ma questi ultimi divengono organi

dello Stato, partecipando della sua sovranità, in una posizione, dunque,

antitetica alla loro qualità di rappresentanti, riconducendo la figura in un

paradigma già visto nelle pagine che precedono.

Altrettanto insoddisfacente è stata ritenuta la posizione di Mortati

che ha proposto una figura anfibia di corpo elettorale, inteso come organo

dello Stato nella formazione di altri organi dello Stato, mentre avrebbe

una posizione esterna quando svolge funzioni di stimolo nei confronti di

altri organi dello Stato o esprime volontà ad essi contrarie, come nel

referendum abrogativo.415

Anche questa teoria non rende conto della

sovranità popolare, dacché anziché riunire le figure di Stato e popolo,

scinde ulteriormente quest’ultimo inteso ora come individuo, ora come

parte del tutto. La posizione trova la sua radice, forse inconsapevole, nella

teoria di Jean Jaques Rousseau, mai citato dall’insigne costituzionalista

romano, che tenta di far coincidere l’ipotetico uomo dello stato di natura

col cittadino proponendo lo sdoppiamento del primo in numeratore e

denominatore, da una parte come unico, dall’altra come parte del tutto,

che può così contrattare con sé stesso per l’edificazione dello stato

civile.416

Come si vede, la soluzione proposta in realtà si limita a spostare

il problema, giacché se il popolo, per la parte in cui è organo dello Stato

non è sovrano, per la parte in cui si contrappone allo Stato riproduce quel

dualismo di pretese sovranità, quella popolare e quella dello Stato

appunto, che era il problema cui si voleva dare soluzione. Superfluo dire

che in tal modo ogni tentativo di costruire la rappresentanza si infrange

nelle eccezioni che possono venire mosse da ambo i fronti: per la parte in

cui il popolo è organo dello Stato, la rappresentanza non si pone, attesa

l’identità di posizione tra ente e suo organo, secondo quanto si è visto

essere l’insegnamento degli Epigonen; per la parte in cui il popolo è fuori

dallo Stato, si propone il problema dell’autoesclusione di due enti che si

pretendono sovrani.

415 Così C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II ed., Padova, 1952,

rispettivamente p. 45 e 226.

416 Cfr. sul punto, assimilato al problema della quadratura del cerchio in geometria,

le osservazioni critiche di F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed.,

Milano, 1984, p. 161.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

269

Più raffinata, l’ulteriore versione di questa teoria (che si appalesa in

realtà come uno sviluppo del pensiero di Santi Romano e, per questa via,

di Otto von Gierke) proposta da Balladore Pallieri, che richiama la

distinzione tra Stato - ordinamento, inteso come la collettività organizzata,

mentre lo Stato – persona è visto come l’apparato di governo, la sua

struttura organizzativa.417

Se il popolo, come collettività organizzata, è

elemento costitutivo dello Stato – ordinamento, in ossequio alle posizioni

tradizionali francesi del Cinquecento, esso deve considerarsi del tutto

separato dallo Stato – persona o Stato – apparato, inteso appunto come il

sistema di organi ed uffici necessari per l’espletamento delle funzioni

fondamentali dello Stato. La tesi dovrebbe condurre ad una soluzione del

problema della titolarità della sovranità, riconoscendola in capo al popolo,

con possibilità di esercitarla direttamente per certi aspetti, mentre per altri,

sovrano dovrebbe essere lo Stato – persona. Come si vede, la tesi non

risolve il dualismo, insistendo nella proposizione di due poli di sovranità

interdipendenti, concretando una contradictio in terminis, prima che una

violazione del disposto testuale del più volte citato articolo 1 della Carta.

Peraltro, tutte le costruzioni che scindono Stato - persona e Stato –

apparato sono debitrici, forse inconsapevolmente, della teoria della doppia

personalità dell’amministrazione, ed in qualche misura l’alimentano.418

La

costruzione di Balladore, inoltre, è stata criticata da Crisafulli perché il

dato positivo attribuisce al popolo tutta la sovranità, ponendovi solamente

dei limiti al relativo esercizio, sicché non sarebbe nemmeno pensabile una

titolarità dello Stato – persona.419

In verità, ci sembra che il tenore della

417 In perfetta assonanza con i colleghi d’oltralpe, Donato Donati riconosceva

l’elemento costitutivo dello Stato non nel popolo in quanto tale, quanto nel complesso dei

pubblici funzionari come tali, cioè l’organizzazione, anticipando quindi quegli autori

ricordati nel testo che attribuiscono la personalità allo Stato – apparato. Peraltro, giova

ricordare che, con logica conseguenza, l’autore padovano concepiva anche il popolo come

organo dello Stato, nei momenti di sua partecipazione diretta alla sovranità dello Stato, in

perfetto accordo, ancora una volta, con la posizione di Jellinek: si veda supra ai due §§

precedenti.

418 Per le premesse teoriche quantomeno ambigue e per le conseguenze pratiche

insoddisfacenti della teoria della doppia personalità dell’amministrazione, con particolare

riguardo alla tutela del patrimonio immobiliare del singolo, cfr. F. VOLPE, Le

espropriazioni amministrative senza potere, Padova, 1996, p. 56-56 e 127.

419 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in

IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 102 e ss.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

270

proposta di Balladore Pallieri non mirasse a stabilire due centri di

sovranità, quasi secondo un criterio di competenza, quanto piuttosto un

ruolo servente dello Stato – persona nei confronti del vero sovrano, cioè il

popolo. Peraltro, la critica mossa alla tesi del Balladore si fonda sull’idea

di “limite” che si pone in contrasto già di per sé con l’idea di sovranità. In

questo senso, a ben vedere, il dato normativo testuale dimostra tutta la sua

ambiguità nell’affermazione solenne di attribuzione (o riconoscimento?)

della sovranità al popolo, subito accompagnata ad un limitazione

nell’esercizio, che può avvenire solo in determinati modi. A chi sostenesse

questa posizione, insistendo sul dato letterale della norma, possono essere

mosse almeno due osservazioni, che abbiamo già incontrato nelle pagine

precedenti. Da un lato, infatti, l’attribuzione del sommo potere, la

decisione dello stato di eccezione, il potere costituente, non può essere

soggetto a limiti: o esso è, oppure non è. È questa la posizione vista sopra,

dove la posizione era stata proposta all’Assemblea rivoluzionaria, nel

tentativo di imbrigliare il potere costituente, per cristallizzarlo nelle forme

del costituito; ma, una volta accolte le premesse, la consequenzialità

logica di Robespierre si presenta, è il caso di dirlo, incorruttibile: On ne

peut pas dire que la nation ne peut exercer ses pouvoirs que par

délégation; on ne peut point dire qu'il y eût un droit que la nation n'ait pas;

on ne peut bien régler qu'elle n'en usera point, mais on ne peut pas dire

qu'il existe un droit dont la nation ne peut pas user si elle veut.”420

E pare invece proprio questa la tesi sostenuta da Crisafulli, ove da

un lato afferma (in modo logicamente corretto) l’unica titolarità della

sovranità in capo al popolo, affiancandola tuttavia ad un esercizio che

viene promosso parte in modo diretto, parte in modo indiretto, per mezzo

dello Stato che si pone in veste di rappresentante. In altri termini, il potere

spetta tutto e solo al popolo, che lo esercita in parte direttamente negli

istituti di democrazia diretta, mentre in parte lo esercita tramite lo Stato –

apparato, che si pone così, come rappresentante del popolo: “lo Stato non

è il popolo, ma lo rappresenta nel mondo del diritto”, non come un

sostituto, ma come un rappresentante vero e proprio. Infatti, secondo il

chiaro autore, la forma di espressione unitaria della volontà popolare è e

resta lo Stato – soggetto, “avente carattere rappresentativo del popolo e

420 A.P., ser. I, vol. XXIX, p. 326-7; cfr. anche R. CARRÉ de MALBERG,

Contribution cit., vol. II, p. 261.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

271

strutturato in modo tale da esprimere quanto più è possibile, nella propria

attività, gli orientamenti politici prevalenti nel popolo.”421

La tesi non va esente da critiche, secondo l’amico e collega Tosato,

che si chiede come possa dirsi rappresentante ciò che è qualificato organo.

Infatti, l’idea di organo suggerisce l’assenza di titolarità giuridica dei

poteri che esso esercita, secondo quando era già stato affermato da

Jellinek: “das Organ als solches besitzt dem Staate gegenüber keine

Persönlichkeit“422

. In altri termini, secondo la classificazione dogmatica

tradizionale, l’organo svolge funzioni strumentali nell’esercizio di poteri

altrui, con la conseguenza che gli effetti giuridici delle sue azioni –ed è

questa la differenza dalla rappresentanza- ricadono in capo non ad un altro

soggetto, ma in capo allo stesso ente di cui l’organo è emanazione. Sicché,

mentre il rapporto rappresentativo è trilatero, dipanandosi sui tre poli di

rappresentato, rappresentante e terzi, il rapporto organico si manifesta tra

l’ente, che agisce per mezzo dei suoi organi, ed i terzi. La soggettività –

osserva Tosato- implica titolarità di poteri propri, ed il concetto di

personalità esclude radicalmente il concetto di strumentalità. Se ne deduce

la contraddittorietà di una concezione dello Stato apparato come “persona

essenzialmente strumentale.” Specularmente, continua l’autore, non si

vede per quale ragione non possa essere considerato soggetto di diritto il

popolo, che viene affermato sovrano, sia come potere costituente, ma

anche, preferibilmente per l’autore, come potere costituito. Respinta ogni

tentazione rousseauiana di parcellizzazione della sovranità tra i singoli

componenti il popolo, non sembra potersi sfuggire alla conseguenza per la

quale “la sovranità è attribuita quindi al popolo come unità indivisibile, e

pertanto, anche da questo punto di vista, nulla impedisce la conseguente

considerazione del popolo stesso come soggetto, come persona

giuridica”.423

Appare del tutto superfluo richiamare come anche questo

passaggio logico, al pari di molti altri incontrati nel nostro percorso, si

regga sull’equazione essere – volere: poiché il popolo vuole, in quanto

sovrano, il popolo è come soggetto. La necessaria conseguenza di

421 Cfr. Cfr. V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in

IDEM, Stato, popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p 132.

422 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, (Heidelberg, 1900) III ed., Berlin,

1914, p. 559/60. “L'organo così inteso non ha nei confronti dello Stato alcuna personalità”.

423 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 47, 48 e

51.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

272

affermare la soggettività del popolo, una volta riconosciutagli la sovranità,

non risolve tuttavia il problema di partenza, cioè il rapporto tra sovranità

del popolo e soggettività (e conseguente sovranità) dello Stato. La

proposta dell’autore risulta lapidaria, affermando che “il popolo è lo Stato,

che la personalità giuridica del popolo coincide esattamente con la

personalità dello Stato, che la persona dello Stato si identifica con la

persona del popolo e che quindi la sovranità del popolo non è che la

sovranità dello Stato e viceversa.”424

La suggestione testuale di un ritorno

al più rigoroso labandismo viene addirittura corroborata dal richiamo alla

posizione di Carlo Esposito425

e a due citazioni del già incontrato Oreste

Raneletti, che appaiono la parafrasi se non la mera traduzione dell’opera

del giurista di Strasburgo.426

In verità a ben guardare, la tesi risulta

opposta, concretando un rovesciamento della costruzione labandiana,

giacché Tosato non si ferma qui. Se infatti il popolo coincide con lo Stato

- ordinamento, l’idea di uno Stato apparato, inteso come complesso di

424 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 70.

425 Allievo prima di Adolfo Ravà e poi di Donato Donati, Carlo Esposito aveva

importato dal suo primo maestro l’influsso germanico più squisitamente teorico

nell’elaborazione dell’idea di ordinamento giuridico poi sviluppata dagli studiosi italiani.

L’autore acutamente rileva come il problema consista non tanto nell’attribuzione formale

della sovranità, ma “a chi l’ordinamento attribuisca il potere supremo di decidere”, con una

formula troppo simile al giudice dello stato di eccezione di Schmitt e Kelsen per poter

essere casuale. Peraltro, l’autore afferma che la precisazione delle modalità di esercizio

della sovranità non costituiscono un limite al potere costituente, quanto l’organizzazione di

un potere che non c’è prima e fuori dell’ordinamento. Cfr. C. ESPOSITO, La Costituzione

italiana- Saggi, Padova, 1954, p. 11.

426 “Il popolo non è fuori e sopra lo Stato, ma nello Stato, e di questo è elemento

costitutivo. Lo Stato è il popolo stesso organizzato (…) Il popolo, perciò, non può essere

considerato come una unità o personalità diversa e distinta dallo Stato.” Così O.

RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo, Napoli, 1912, nonché IDEM, Istituzioni di

diritto pubblico, Milano, 1956, citato in E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello

Stato, cit., p. 71 e 72, che sottolinea l’identità di posizione dell’autore dal primo lavoro agli

scritti successivi all’entrata in vigore della Costituzione. Per parte nostra, la citazione

merita di essere riportata per constatarne l’assonanza pressoché letterale con i perentori

assunti di Laband: "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen Reiche

verschiedene und ihm gegenüber selbständige Persönlichkeit, ist kein Rechtssubjekt und

hat juristisch keinen Willen; es ist daher außer Stande, eine Vollmacht oder einen Auftrag

zu erteilen und Rechte oder Willensakte durch Vertreter auszuüben. Eine positive,

juristische Bedeutung hat die Bezeichnung der Reichstagsmitglieder als Vertreter des

gesamten Volkes daher nicht; im juristischen Sinne sind die Reichstagsmitglieder

niemandes Vertreter" Cfr. supra nota n. 372.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

273

organi, produce l’assurdo di un soggetto, privo di poteri, con funzioni

meramente serventi. Senza ricorrere a tali finzioni l’autore raccoglie ed

affina la proposta di Crisafulli, proponendo che i cosiddetti organi siano

intesi come veri e propri rappresentanti, e con estrema lucidità così

conclude: “ciò che è necessario invece è un riesame del concetto della

persona Stato, per rendersi conto che questo non è un soggetto astratto,

uno schema e, in definitiva, una finzione, costruita al fine di ricondurre ad

unità le varie attività statali, finzione della quale si può anche fare a meno,

come inutile ipostasi; ma un soggetto che impersona la realtà concreta e

vivente di una collettività umana giuridicamente ordinata a Stato e che

agisce, normalmente, per mezzo di persone che non sono organi ma

rappresentanti veri e propri, e quindi personalmente e responsabilmente

investiti dell’esercizio di poteri spettanti al popolo, sul quale poi, in

definitiva, ricadono, e non astrattamente, gli effetti, favorevoli e

sfavorevoli, della loro attività.”427

Le ultime due tesi testé esposte, quelle di Crisafulli e Tosato, ci

sono di conforto, poiché si richiamano, concordandovi, alla fondamentale

struttura della rappresentanza, alla quale si era giunti per altra via, nel

primo capitolo di questo lavoro. Da un lato, la posizione di Crisafulli

distingue il popolo dall’insieme dell’apparato statale, nella molteplicità

dei suoi organi, contrapponendo l’uno agli altri, recuperando quella

distinzione di ruoli che si era venuta progressivamente eclissando nel

percorso che dagli Epigonen conduce agli emuli di Laband, di pari passo

con la perdita di consapevolezza delle premesse hegeliane che ne

sostenevano le costruzioni. Dall’altro, la precisazione di Tosato riporta nei

dovuti termini giuridici il rapporto tra popolo ed apparato dello Stato,

dichiarando la soggettività giuridica di quest’ultimo e fornendo così al

parlamento quella autonomia che non aveva avuto nelle costruzioni

precedenti, ove era ridotto comunque al ruolo subalterno e servente tipico

dell’organo. Tuttavia, quest’ultima posizione appare chiarificatrice anche

dal punto di vista squisitamente logico. Infatti, la distinzione tra modello

organico e paradigma rappresentativo è data sulla distinzione

rappresentato - rappresentante – terzi rispetto a quest’ultimo, contrapposto

al meccanismo ente per mezzo dell’organo – terzi rispetto al primo. Ora,

lasciando da parte i terzi, elemento comune ai due schemi, che si pone

all’esterno della costruzione, quasi come piano di riscontro, ci sembra che

la distinzione si sveli tra la struttura eminentemente dualista propria della

427 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 81-82.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

274

rappresentanza, con un rappresentato reale, distinto da un rappresentante,

parimenti esistente, e la struttura monista propria dell’organicismo. Non

c’è dubbio che entrambi i chiari autori riconoscano in tal guisa lo schema

della rappresentanza, né può esservi dubbio che per entrambi la

rappresentanza, in questo suo proprio schema, sia applicabile al diritto

pubblico, anzi ai vertici del diritto pubblico, ove si pone il diritto

costituzionale. Quest’aspetto conforta non poco in ordine alla struttura

della rappresentanza, al di là della distinzione tra privato e pubblico, ed

alla sua spendibilità nel diritto costituzionale. E la sovranità? Come si

pone la forma dell’unicità alla base della sovranità, ancorché sovranità

popolare? Non si era posta l’antitesi tra unicità sovrana e dualismo

rappresentativo? Il nodo dev’essere qui ripreso per essere sciolto.

A ben vedere, da un punto di vista squisitamente logico, l’unico -

sovrano non ammette nemmeno un proprio rappresentante che abbia una

soggettività distinta dalla sua, che si ponga come altro da sé, poiché già la

sola esistenza di un elemento estraneo intacca la sua unicità: non è un caso

il successo della teoria degli organi, concepiti appunto come entità

ricomprese nel grande unicum dello Stato. Ed è ancora Tosato ad

osservare con una battuta che all’État c’est moi del principe è succeduto,

dopo la Rivoluzione francese, l’État c’est moi del popolo, emulazione che

non deve consentire un indebito mutamento dello status giuridico dei

pubblici funzionari, complice la dottrina secolarizzata che attribuisce allo

Stato, progressivamente astratto e spersonalizzato, le caratteristiche del

dio mortale, di cui i servitori (non diversi da quelli che accudivano il Re

Sole, lascia sarcasticamente intendere l’autore) si ammantano a sacerdoti.

“Penetrata ormai nella loro mentalità, avviene infatti che, troppo spesso, i

funzionari e gli incaricati di pubblici servizi si credono, o danno

l’impressione di ritenersi, nell’esercizio della loro competenza, anziché

rappresentanti personalmente individuati e responsabili, ed agenti in nome

e per conto del popolo, organi di quel fantasma inafferrabile ed

inaccessibile che è, come viene presentato da una parte della dottrina, la

persona dello Stato; organi, e quindi espressioni di un ufficio che

nasconde e assorbe la loro personalità, così che tutto si svolge e procede,

come procede, nel campo dell’impersonalità, il che significa talvolta

irresponsabilità”.428

La diagnosi non potrebbe essere più pregnante, così

come abbiamo visto essere puntuale la terapia: il principio di

responsabilità. E si tratta dell’ulteriore elemento che abbiamo visto

428 Cfr. E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, cit., p. 80.

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DUALISMO E MONISMO NELLA RAPPRESENTANZA

275

caratterizzare la rappresentanza, la misura del rapporto che lega il diritto

del rappresentante ad agire, delimitandone l’ampiezza, al diritto

dell’elettore ad essere rappresentato. È di tutta evidenza che il principio di

responsabilità si pone per sua definizione in contrasto insanabile nei

confronti dell’idea stessa di sovranità. Sicché il sovrano come non può

tollerare un rappresentante non può ammettere di essere responsabile di

fronte a qualcuno. Ma in questo caso, abbiamo visto, è proprio l’eletto a

venire considerato responsabile e non – sovrano, rompendo una tradizione

perpetuatasi a partire da Sieyès. Tuttavia, il principio di responsabilità

opera anche nei confronti del soggetto verso cui si è tenuti a rispondere,

ridimensionandone l’assolutezza, come si è detto: il dualismo

rappresentativo è infatti biunivoco, giacché allo stesso rappresentante

dev’essere garantita una reale esistenza, un’autonoma volontà e posizione,

cioè quel fascio di obbligazioni che costituisce la situazione giuridica

soggettiva del rappresentante distinguendolo dal mero nuncius, secondo

quanto si è avuto modo di dire supra al § I.2. Come si può sostenere allora

che il popolo, il rappresentato, sia sovrano, senza provocare un’intima

contraddizione nel pensiero appena esposto? L’equivoco si annida

nell’uso del termine sovranità. In verità, lo stesso Tosato, che come si è

visto si dimostra attento nel correggere Crisafulli nell’uso dei termini

“organo” e “rappresentante”, pur dimostrando consapevolezza fin dai

tempi dell’Assemblea costituente dell’autentica portata del termine

“sovranità”, ne fa qui uso nel senso di potestà suprema, ma all’interno di

un ordine, non di potere assoluto fino ad essere arbitrario. La riprova si ha

nel saggio sul principio di sussidiarietà che, indicando i limiti e i doveri

dell’intervento statale, anticipa di quarant’anni temi oggi di pressante

attualità,429

tracciando le modalità di aiuto, di subsidium dei compiti dello

Stato, precisandone il dovere di rispetto della persona e delle comunità

intermedie. Solo in questo senso la “sovranità” (le virgolette, come si

429 Per una disamina delle diverse posizioni nel dibattito italiano sul principio di

sussidiarietà, rinvio alla relazione di P. RIDOLA, Forma di Stato e principio di

sussidiarietà, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI (a cura della), La riforma

costituzionale, Atti del convegno (Roma, 6 – 7 novembre 1998), Padova, 1999, p. 177,

nonché al relativo intervento di D. FISICHELLA, sulle ragioni della polivalenza del concetto,

ivi, p. 213. Per una concisa indagine teoretica alle radici del principio di sussidiarietà, cfr.

F. GENTILE, Che cosa si intende per sussidiarietà, “Non profit. Diritto, management,

servizi di pubblica utilità”, V (1999), n. 4, pp. 639-647, nonché IDEM, Il principio di

sussidiarietà e la pedagogia del diritto naturale, “La società”, IX (1999), n. 4, pp. 749-

761.

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QUESTIONI DI SOVRANITÀ

276

capisce, diventano d’obbligo) del popolo, che è la “sovranità” dello Stato,

può porsi nella categoria non assoluta, non unica del rappresentato, che ha

e rispetta il proprio rappresentante, con una specifica figura ed un suo

ruolo.

La posizione di Tosato, per quest’ultimo profilo, non era isolata,

com’è dimostrato dalla conclusione cui perviene, per altra via, anche

Emilio Crosa, da cui ha preso le mosse questo paragrafo: “che il termine

sovranità non possa né debba avere come suo presupposto il concetto di

un potere assolutamente indipendente, illimitato, indefinito, sul quale si

operano rinunce, risulta ovvio per qualsiasi giurista, il quale non potrà mai

ammettere che una potestà, considerata nel suo aspetto giuridico, possa

considerarsi illimitata.”430

E continua affermando che l’originale formula

emersa nella Rivoluzione e tralatiziamente riportata nelle principali Carte,

tra cui anche quella italiana, altro non sarebbe che la cristallizzazione

della dottrina rivoluzionaria, espressione e riproduzione di un momento

storico dell’evoluzione del principio, di cui i tempi attuali avrebbero

dimostrato il superamento.

Non vogliamo affermare che il tradizionale concetto di sovranità sia

stato ridimensionato, se non abbandonato (ma certamente

“problematizzato”), dalla dottrina costituzionalistica più attenta. Ci basti

essere stati ampiamente confortati dall’autorevolezza di questa

costruzione, ed avendo appurato nel presente capitolo che il rappresentato

non può essere sovrano, cioè superiorem non recognoscens, così come

non può esserlo il rappresentante, secondo quanto visto nel capitolo

precedente, occorre dunque procedere ad individuare meglio le figure di

rappresentato e rappresentante, cercando di definire i contorni delle

rispettive situazioni giuridiche soggettive.

430 Così E. CROSA, Miti e realtà costituzionali, cit., p. 319.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

277

4 SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E

RAPPRESENTANZA

4.1 Sulla applicazione della rappresentanza nell’ambito pubblico

PREMESSA: TEORIA DELLA DISTINZIONE TRA “RAPPRESENTANZA GIURIDICA” E

“RAPPRESENTANZA POLITICA”: - ELEMENTI DELLA PRIMA: PRESENZA DI DUE SOGGETTI

DETERMINATI O DETERMINABILI; ASTRATTA FUNGIBILITÀ DEL RUOLO DI RAPPRESENTANTE E

RAPPRESENTATO; PRETESA NECESSITÀ DI SPENDITA DEL NOME DEL RAPPRESENTATO; …E

CARATTERISTICHE DELLA SECONDA: PRETESA INDETERMINABILITÀ DEL RAPPRESENTATO;

INSUSCETTIBILITÀ DEL RAPPRESENTATO DI ASSUMERE IL RUOLO DI RAPPRESENTANTE;

ASSENZA DELLA SPENDITA DEL NOME DEL RAPPRESENTATO - ESAME E CRITICA: SULL’INDETERMINABILITÀ DEL RAPPRESENTATO E SUL CONCETTO GIURIDICO DI “PARTE” – IL

RUOLO DELLE ELEZIONI NELLA DISTINZIONE: CARATTERE FITTIZIO DELLA RAPPRESENTANZA

PLASMATA SUL MODELLO LABANDIANO UNA VOLTA RIMOSSI I PRESUPPOSTI

(PSEUDOHEGELIANI) DI QUELL’AUTORE – RAPPORTI TRA RAPPRESENTANZA E POTERE

POLITICO E TRA RAPPRESENTANZA E DIRITTO: CRITICA E RINVIO – RAPPORTI TRA

RAPPRESENTANZA POLITICA ED INTERESSE GENERALE: RUOLO DEL DIVIETO DI MANDATO

IMPERATIVO E RINVIO.

Riprendendo le fila di un dibattito assai ampio, Giuseppe Ugo

Rescigno ha sinteticamente ma puntualmente esposto la propria posizione

attorno alla rappresentanza politica, nei suoi rapporti con il potere, con il

diritto e con l’interesse generale.431

La sua tesi, sia perché ultima in ordine di tempo nel filone a cui

appartiene, sia perché “rappresentativa” della posizione dominante, può

essere qui analizzata in dovuto confronto con quanto esposto al § I.2, per

saggiare la spendibilità di un solo concetto di rappresentanza tanto

all’ambito pubblico quanto nell’ambito privato, dato e non concesso,

come già detto, che tale distinzione sia proficua.

Riferendolo ad un atteggiamento mentale diffuso e facendone

programmatica adesione, l’autore descrive quello che è noto come il

procedimento conoscitivo di classificazione per genere e specie.432

Come

431 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, in “Politica del

Diritto”, 1995, p. 543 – 560. Il testo riproduce una lezione tenuta il 16 ottobre 1995 a

Ferrara ai partecipanti al corso di dottorato in diritto costituzionale con sede presso la

facoltà di giurisprudenza di quella Università.

432 Com’è noto, quella che è conosciuta come classificazione per genere e specie

affonda le sue radici nella classicità dovendosene la compita formulazione ad ARISTOTELE

(Top. I, 8, 103 b. 15), poi fatta propria dalla filosofia tomistica, senza dimenticare di

individuarne la radice platonica, chiarissima in PLATONE, Sophista, 251 B), in Tutte le

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

278

immediata conseguenza, dovendo trattare di rappresentanza politica,

correttamente viene richiamata l’attenzione sull’ambivalenza della

specificazione aggettivale, che può indicare una species di un comune

genus, nel nostro caso, quella “politica” all’interno della più ampia

categoria data dalla “rappresentanza”, oppure mutare completamente il

significato del sostantivo cui si accompagna. Più precisamente, nel primo

caso si potrebbe ritenere che il comune genus “rappresentanza” si

specifichi nella “rappresentanza politica” come nella “rappresentanza

giuridica”; nel secondo caso, all’opposto, l’ambito di applicazione (il

“politico” o il “giuridico”) avrebbe il potere di mutare il significato del

termine “rappresentanza”, che nelle due accezioni non potrebbe più essere

considerato sinonimo, ma nemmeno “parente”, se non alla lontana.433

In

altri termini, si tratta di ricercare gli elementi comuni tanto nella variante

“politica” quanto nella versione “giuridica” e giudicare, una volta

eventualmente rinvenuti, se essi consentano l’edificazione di un concetto

unitario di “rappresentanza”.

Se l’autore non si preoccupa di verificare il rigore epistemologico

del metodo adottato, non di meno, preliminarmente, per parte nostra,

avendo professato la bontà di questo criterio occorre respingere la critica

sulla mancanza di valenza euristica del procedimento di ricerca per

confronto tra “diverso” e “comune” nei termini d’indagine. La critica si

riassume nell’affermazione che siffatto confronto consentirebbe in ogni

caso di individuare un “genere generalissimo” di comunanza tra i termini

in comparazione. Proprio in quanto tale, questo genere sarebbe di dubbia

utilità, e, comunque, in quanto confronto di elementi dati, il procedimento

non aggiungerebbe alcun dato nuovo a quanto già noto prima della

ricerca. Infatti, la diffidenza sulla capacità euristica del procedimento per

diversità e comunanza, si annida proprio nell’affermazione che la

comparazione del dato non può fornire nulla in più del dato stesso, né,

tanto meno, potrebbe consentire di enucleare un concetto. La critica alla

precomprensione di siffatto canone conoscitivo si appunta sulla

circostanza che comparando i diversi oggetti si può trovare solo ciò che si

conosceva già, non il metron, cioè il criterio discretivo per distinguere o

aggregare i diversi oggetti di studio: la comparazione dei dati non può che

opere, a cura di G. Reale, Milano, 1991, p. 294; nonché Pol., 285 A – B) in op. cit., p. 344,

entrambi nella traduzione di Claudio Mazzarelli.

433 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 543-5.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

279

avvenire in base a quel concetto che erroneamente si riterrebbe frutto

dell’indagine, ma che in realtà a questa preesiste (tanto da consentirne la

comparazione) e deve pertanto essere determinato in modo differente. In

sostanza, per questa via, non si potrebbe arrivare induttivamente a

costruire il concetto di “rappresentanza” comparando le diverse

manifestazioni della “rappresentanza politica” e della “rappresentanza

giuridica” o “degli interessi” in quanto l’aggregazione degli elementi

“comuni” e la separazione degli elementi “diversi” può avvenire solo in

forza di un criterio, di un termine di confronto che è proprio il concetto

che si vuole cercare e, nel nostro caso, proprio il termine

“rappresentanza”. Se, dunque, all’inizio della sua esposizione Rescigno

non sembra avvertire l’esigenza di affrontare il problema epistemologico,

per quanto ci riguarda riteniamo sufficiente in questa sede avvisare di aver

già respinto la critica metodologica e di aver enucleato, per altra via il

concetto unitario di rappresentanza,434

dovendoci ora limitare a

riconoscerne la manifestazione o meno nelle diverse forme aggettivate del

termine.

Alla ricerca dei profili propri e specifici della “rappresentanza

giuridica” contrapposta alla “rappresentanza politica”, intese come

“congeneri”, nella tesi dell’autore in esame vengono proposti i seguenti

elementi ritenuti peculiari e caratterizzanti. La prima sarebbe

caratterizzata da un struttura del tipo: “un soggetto A, nei casi previsti dal

diritto, compie atti giuridici in nome e per conto di un altro soggetto B,

nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti giuridici degli atti così

compiuti”. Da un tanto viene esplicitamente dedotto che: 1) la

“rappresentanza giuridica” concerne sempre due soggetti determinati, o

tutt’al più determinabili, cioè individuabili successivamente all’atto

rappresentativo, affermando testualmente che “se i rappresentati sono più

di uno, ciascuno di essi è esattamente individuato, cosicché la

rappresentanza apparentemente collettiva può sempre scindersi in tanti

rapporti seriali tra il rappresentante e ciascun rappresentato”; 2) qualunque

“ente” che nel diritto può fungere da soggetto del rapporto può assumere

la veste di rappresentante o di rappresentato: una persona fisica,

un’organizzazione personificata, fino agli Stati; 3) infine, il rappresentante

deve agire sempre in nome e per conto del rappresentato, cosicché la

mancanza della spendita del nome integra altre figure giuridiche, lecite od

434 Cfr. supra, § I.2.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

280

illecite, mentre l’assenza del secondo elemento integra la fattispecie del

rappresentante infedele.435

Specularmente, vengono indicati i caratteri che sarebbero propri

della rappresentanza politica; così, 1) il soggetto qualificato come

rappresentante politico “non è mai rappresentante di uno o più specifici

soggetti, ma sempre di un gruppo nel suo insieme, non personificato e non

personificabile, dai confini fluttuanti e non esattamente determinabili”,

così da rendere impossibile la concezione e la pratica della rappresentanza

politica come insieme di rapporti seriali quanti sono i rappresentati; 2) il

rappresentante politico non spende e non è tenuto a spendere il nome di

nessuno ed in questo senso il divieto di mandato imperativo altro non

costituirebbe che un rafforzativo di tale fisiologica indipendenza; 3)

infine, il rappresentante politico agirebbe sempre (consapevolmente o

meno) nell’interesse di alcuni individui o gruppi secondo un criterio non

controllabile oggettivamente.

La conclusione proposta dall’autore conduce, come già anticipato, a

ritenere “congeneri” i termini “rappresentanza politica” e “rappresentanza

giuridica”. Altresì, la distinzione viene rafforzata con un argomento

logico, giacché il suo superamento presupporrebbe la definizione di un

concetto di “rappresentanza giuridica” più ampio di quello indicato, che

viene corroborato dall’autore riferendolo all’autorità della dottrina

unanime.

In verità, lungi dal voler riformare i caratteri di quella che viene

definita come “rappresentanza giuridica”, in questa sede preme mettere in

evidenza come essa si accordi con il profilo tracciato supra al § .I.2., né si

contrapponga, a nostro parere, con quelli che l’autore individua essere i

caratteri propri della “rappresentanza politica”.

Infatti, esaminando a ritroso gli argomenti proposti da Rescigno, la

spendita del nome si ritrova in ambo le fattispecie, dacché l’eletto, in

quanto tale, pone in essere atti giuridicamente rilevanti spendendo il nome

del rappresentato: egli è parlamentare in quanto eletto; la circostanza che

agisca per conto di un altro soggetto o per conto proprio, costituisce la

figura del procuratore infedele, tanto nel primo caso quanto nel secondo,

cioè tanto nella rappresentanza “giuridica” che in quella “politica”

(integrando, eventualmente, anche ipotesi sanzionate penalmente, come si

vedrà al § successivo). Che poi, nell’ambito politico, l’eletto possa

impunemente agire da falsus procurator è dovuto alla circostanza che sia

435 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 546.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

281

istituzionalmente irresponsabile per quanto da lui compiuto (in quanto

partecipe della sovranità, come si è detto), ma questo è proprio il punto

che si vuole stigmatizzare, cioè la conseguenza dell’introduzione

nell’ordinamento positivo del divieto di mandato imperativo. Dacché non

può essere posto come giustificazione dell’assunto, pena una palese

petizione di principio. In altri termini, l’irresponsabilità –come preteso

tratto caratteristico- è frutto unicamente del divieto di mandato

imperativo, ben potendo essere concepita la rappresentanza come

storicamente si è verificato fino al 1789. Forse rilevando il punto,

Rescigno afferma che il divieto di mandato imperativo costituisce il

rafforzamento di un principio che comunque sussisterebbe, riservandosi di

ritornare sull’argomento, pur senza soddisfare la promessa.436

Ed

altrettanto dicasi per l’argomento secondo il quale, nell’ambito pubblico,

non sarebbe oggettivamente ravvisabile un referente dell’eletto.

Proseguendo nell’esame a ritroso dell’argomentazione dell’autore,

parimenti non risolutivo appare l’argomento per il quale nella

“rappresentanza giuridica” “qualunque ente che nel diritto può fungere da

soggetto del rapporto” può essere tanto rappresentante che rappresentato.

Così non è. A ben guardare, infatti, anche nel diritto privato vi sono casi

in cui un soggetto può essere rappresentato ma non rappresentante. Basti

pensare all’incapace che è rappresentato necessario, ma non potrà mai

essere rappresentante di alcuno. A prescindere dall’osservazione già

sollevata circa la vera natura rappresentativa della rappresentanza

necessaria (che si concreta in una finzione) è appena il caso di richiamare

quanto sopra si è fatto notare in ordine alla critica mossa da Gans nei

confronti di coloro che concepiscono il popolo come un minore, soggetto

a tutela, ove cioè si tratta di una situazione transeunte, di una finzione

necessaria, comunque giustificabile come tale perché provvisoria. La

tutela, come la minore età, è destinata ad essere superata da un nuovo e

più pieno status; la soluzione contraria impone di pensare al popolo come

ad un minus habens, rappresentato necessario che non sa quello che vuole.

Ma la pericolosità di tale costruzione, non nuova, si è manifestata a chi

non ha dato ascolto al monito di Gans (§ II.3.2.), ove rammentava il

436 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 546;

infatti nel paragrafo dedicato al divieto di mandato imperativo l’autore non sembra

sciogliere il dubbio sull’essenzialità od accessorietà del divieto di mandato imperativo e

sul suo ruolo all’interno della costruzione di “rappresentanza politica” da lui proposta.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

282

carattere necessariamente transitorio o, comunque, eccezionale della tutela

nel mondo del diritto.

In verità, tutti gli argomenti fin qui esaminati, ed altri ancora, sono

corollari del primo che ci sembra il solo rilevante, cioè la constatazione

dell’indeterminabilità del rappresentato. Non si può non riconoscere la

suggestione dell’assunto che rileva la non immediata riconoscibilità del

rappresentato nella variante “politica” della rappresentanza; anzi, forse la

stessa non numerabilità dei rappresentati, l’incertezza degli elettori può

essere alla radice della loro evanescenza anche in termini giuridici,

ingenerando l’ambiguità dei destinatari cui il rappresentante deve

rispondere, veicolando così il principio dell’irresponsabilità, consacrato

nel divieto di mandato imperativo che, quindi, lungi dall’introdurre

un’innovazione, non farebbe altro che sancire una prassi ormai affermata.

A poco vale la considerazione che i problemi non si superano

rimuovendoli e che la difficoltà nell’individuare il soggetto verso cui si è

responsabili non può che essere solo artificiosamente superata cancellando

tout-court il rappresentato.

Tuttavia, a nostro avviso, anche quest’osservazione critica può

essere superata facendo riferimento al concetto giuridico di “parte”. In

effetti, la pluralità di rappresentati è riunita nel concetto di parte,

tradizionalmente inteso come centro di imputazione di volontà ed

interessi. Non si può negare che il rapporto dualistico (implicitamente

riconosciuto come necessario dallo stesso Rescigno) si costituisca tra il

rappresentante, da un lato, e l’insieme dei rappresentati, dall’altro, riuniti

dalla comunanza di posizione giuridica soggettiva nella stessa parte,

sostanziale e processuale. Un tanto, peraltro, già si verifica nelle società

commerciali a grande parcellizzazione azionaria, nei partiti o nei sindacati

di massa e, in generale, in tutte le associazioni di grandi dimensioni ove i

rappresentati quasi decolorano, perdendo la loro propria fisionomia,

all’interno del grande numero. Si dirà che il problema è solo differito e

non risolto, poiché comunque permane la difficoltà di individuare gli

appartenenti alla “parte”. Non di meno, una volta riconosciuta la

possibilità logica si tratta di individuarne i mezzi di applicazione.

L’esperienza ammette in diversi ordinamenti istituti come il popular

recall o Aberuffungsrecht, non ostacolato nemmeno dai collegi elettorali

plurinominali. Pur avendo già chiarito l’assunto che il sistema elettorale

deve essere funzionale e servente alla rappresentanza, e non questa a

quello, non si riscontrano nemmeno le difficoltà applicative paventate

dall’autore, ben potendosi accordare il diritto di revoca del rappresentante

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

283

o dei rappresentanti ritenuti infedeli allo stesso collegio che li ha eletti.437

In latri termini, ferma la caratteristica di rappresentanti della nazione

propria dei deputati, come la misura dell’elezione è espressa dai suffragi

raccolti in una data circoscrizione, cioè dal collegio elettorale, così il

giudizio di responsabilità è demandato allo stesso collegio elettorale;

come per eleggere i propri rappresentanti la nazione è stata divisa

convenzionalmente ed operativamente in collegi, così avviene anche per il

giudizio di responsabilità. Per usare la terminologia dell’autore in esame, i

“rapporti seriali” si instaurano tra singolo elettore (abbia o meno votato,

come si dirà) ed eletto all’interno di un dato collegio. Il problema, semmai

resta quello della “misura” dell’infedeltà, ma su questo punto cfr. infra, al

§ III.3, ove si tratterà del programma elettorale. Basti qui ricordare come,

anche nel diritto privato, il potere di revoca spetti al rappresentato, con

qualche eccezione per la revoca del mandato (che non va confuso con la

rappresentanza) nei riguardi del mandatario in rem propriam, ovvero nelle

ipotesi che il mandante (rappresentante) abbia un interesse all’esecuzione

del mandato: tale sarebbe, nell’ambito “politico”, l’ipotesi nella

configurazione del diritto dell’eletto ad essere rappresentante, sulla quale

cfr. infra al § successivo.

Ad ogni modo, dopo aver concepito in tal modo la distinzione della

“rappresentanza politica” dalla “rappresentanza giuridica”, avendone data

una definizione in negativo, l’autore ne tratteggia la figura in positivo,

riprendendo l’esempio del re, riferito come di origine marxiana, ma

verosimilmente mutuato dalla fiaba popolare, resa celebre da Andersen.

Come il re non sarebbe tale per una sua qualità intrinseca, ma perché si

comporta da re, appare ed è creduto tale, allo stesso modo il

“rappresentante politico” non sarebbe tale per una qualche sua qualità,

tranne per il fatto che presentandosi e comportandosi da rappresentante

viene riconosciuto come tale. È lo stesso Rescigno a professare

esplicitamente la concezione della “rappresentanza politica” (le virgolette,

437 Senza per questo ridurre i deputati a rappresentanti del collegio. Restano

sempre rappresentanti della nazione, ma, come operativamente sono eletti dal collegio –

ove svolgono la campagna elettorale- così sono revocati dallo stesso. Si tratta di aver ben

chiara la definizione di collegio elettorale, quale indicato, per esempio, da Talleyrand: una

parte del tutto che concorre formare la volontà del tutto. Il collegio, allora, cessa di essere

una mera circoscrizione elettorale per costituire un’articolazione funzionale dell’intero

corpo elettorale, che non recide, ma anzi rafforza, i legami tra eletto e corpo elettorale,

giacché non è il collegio ad essere rappresentato, ma l’intera nazione. Cfr. anche infra §

III.3.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

284

come si intuisce, a questo punto sono d’obbligo) quale gioco infinito degli

specchi, ove ciascuno dei termini del rapporto vede nell’altro la stessa

cosa, ripetendo la loro presunta qualifica -rispettivamente, di

rappresentante e rappresentato- dalla circostanza che (e fino a che) tutto

ciò accade, per cui “il rapporto di rappresentanza sta tutto e solamente

nella testa dei soggetti di tale rapporto (esiste se e finché esiste nella loro

testa)”.438

A noi pare di vedere qui della mera psicologia giuridica,

piuttosto che rigoroso idealismo (quand’anche nella versione marxiana),

che riduce la rappresentanza ad un profilo puramente virtuale, ad un

momento di autosuggestione. Si tratta di una consaputa e dichiarata

concezione della rappresentanza come finzione, al modo già parimenti

espresso esplicitamente da Kelsen. Ma a differenza dell’autore di Praga,

Rescigno ne trae delle immediate conseguenze, affermando che, in tal

modo, per essere “rappresentanti politici” non v’è bisogno di alcuna

investitura ufficiale secondo regole prestabilite, mentre l’ordinamento può

proclamare che qualcuno “rappresenta politicamente” altri, dotandolo

anche dei poteri giuridici conseguenti, seppure un tanto non sarà

sufficiente ad innescare il “gioco degli specchi” di cui sopra. Per ulteriore

conseguenza, sotto diverso profilo, non esisterebbero né potrebbero

esistere controlli oggettivi condotti da un terzo imparziale sulla base di

criteri prestabiliti, tali da mantenere l’apparenza della “rappresentanza

politica” una volta che il meccanismo degli specchi si sia inceppato o sia

stato smascherato. L’autore, in fondo, raggiunge le stesse conclusioni che,

abbiamo visto, essere proprie di Laband: ma in quello erano conseguenza

necessaria della sua concezione di Stato, in questo proprio tale concezione

è rifiutata.

A ben vedere, l’assunto potrebbe comportare altresì la fungibilità

dell’eletto, con profili interessanti, al limite del paradosso, in quelle

componenti di organi collegiali a componente vincolata. Pensiamo alle

rappresentanze delle minoranze linguistiche nel consiglio provinciale di

Bolzano: si può veramente sostenere che la fungibilità sia tale fino al

punto di sostituire un componente di lingua tedesca con uno di lingua

ladina o italiana?

In tale prospettiva, poi, sono complici i meccanismi elettorali che

consentono, magari mediante la candidatura contemporanea in più collegi,

di ritrovarsi come “rappresentante” un candidato che non si era gradito:

438 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit.,

rispettivamente p. 548 e p. 549.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

285

non è infrequente infatti, che i leaders dei partiti si pongano capolista in

due circoscrizioni, per “tirare la volata” ad un proprio delfino, rinunciando

od optando per una o l’altra sede, aprendo così la strada dell’assemblea a

chi non era stato “scelto” da quel collegio; in questo senso, la costruzione

dell’eletto come rappresentante non del bagliaggio ma della nazione

esplica tutta la sua rassicurante funzione mimetica. Infatti, ancorché non

scelto da quel collegio egli “rappresenta la nazione”.

Ecco che, il parallelo tra il re, tale perché creduto tale, e gli eletti, o

meglio i “rappresentanti politici”, tali perché creduti tali, anche a

prescindere dalla elezioni, ci risulta chiarificatore della struttura della

sovranità che sostiene entrambi, tematizzati come unici, supremi, nulla

ricevendo dagli altri e non dipendenti da alcuno se non che dalla propria

spada, secondo la formula già citata a sazietà. In questi termini, infatti, la

legittimazione “rappresentativa” dell’Assemblea nazionale non è diversa

da quella di Luigi XVI.

Peraltro, ci pare che questa teoria, che potremo chiamare “degli

specchi”, conduca ad ulteriori conseguenze, ma sveli anche alcune

ambiguità, finora mantenute opportunamente in secondo piano. Da un

lato, essa si configura come una costruzione solipsistica, cioè come

l’effetto di una pura costruzione mentale, esistente se ed in quanto voluta

dal soggetto pensante, per definizione l’unico ad esistere veramente, il

solus ipse,439

ed in quanto tale è e dipende dal soggetto pensante, sicché la

439 Addirittura “esistente” solo come res cogitans, secondo lo sviluppo del

dualismo cartesiano operato da Geulincx prima e da Malebranche, poi. Com’è noto, questa

posizione muove dalla tesi fondamentale di Cartesio che l’oggetto immediato della

conoscenza è soltanto l’idea e che una realtà diversa dall’idea –fuori dal soggetto pensante

e di Dio- è problematica. Inversamente da Hume, la presenza nelle mente di un’idea non

dice nulla intorno alla realtà che essa rappresenta. Per questa via solo Dio garantisce

l’esistenza dei corpi, sicché le nostre idee corrispondono ai corpi non perché siano causate

dai corpi, ma unicamente perché Dio le produce in noi in occasione della presenza dei

corpi stessi. Soltanto Dio è la causa vera di tutto ciò che accade. L’azione del corpo

sull’anima o dell’anima sul corpo non è possibile se non per mezzo dell’intervento divino.

All’obiezione mossa da Dortus de Mairan che in questo modo si perveniva alla

conclusione di Spinoza secondo cui ogni cosa altro non è che manifestazione, modalità

dell'unico essere (Deus, sive natura), Malebranche rispose che noi non vediamo in Dio le

cose ma le loro idee, cioè i loro archetipi o modelli, mantenendo una netta separazione tra

le cose e la sostanza divina per escludere il panteismo spinoziano. Ora, affermare –come

sembra fare Rescigno- che la rappresentanza è solo ed in quanto permane “nella testa” dei

consociati vuol dire negare ogni rapporto intersoggettivo, riducendo i singoli ad individui,

ognuno dei quali, per conto suo ed indipendentemente dagli altri, si crea o subisce

l’autosuggestione della rappresentanza. Per le conseguenze del solipsismo nella logica, cfr.

le osservazioni ancora attuali di A. PASTORE, Il solipsismo, Torino, 1924, da vedersi

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

286

“rappresentanza politica” si ridurrebbe ad un momento psicologico;

dall’altro, svincolando il ruolo e la figura del rappresentante dal momento

elettorale si smaschera l’artificio dichiarando espressamente che il

momento di “scelta” è irrilevante. Tuttavia, forse, la teoria giunge oltre il

bersaglio, poiché, in questo modo, si finisce per compromettere

definitivamente il meccanismo parlamentare: consapevoli dell’irrilevanza

del loro atto di volontà (l’elezione) i cittadini non riconoscono più nel

Parlamento la rappresentazione della nazione, né nella legge la propria

volontà o quella dei loro “rappresentanti”, per quanto in accezione blanda

e parziale, finendo per delegittimare quella che si manifesta palesemente

come un’assemblea fittizia.

In altri termini, gli esiti necessitati delle teorie che sganciano i

“rappresentanti” dalla realtà che dovrebbero rappresentare, cioè quelle

teorie che sopra abbiamo raggruppato secondo il paradigma della

“situazione”, i fantàsmata di Platone, conducono alla presa di coscienza

della finzione, della riconosciuta non rappresentanza (oltre che non

rappresentatività) dell’assemblea. Per lo stesso assunto della teoria,

dunque, la dichiarazione esplicita della costruzione della “rappresentanza”

come apparenza, cioè il suo carattere di finzione, comporta il suo

smascheramento e la cessazione della sua esistenza, infrangendo il “gioco

di specchi”, ma, allo stesso tempo, incrina la definizione, la portata ed il

ruolo del prodotto di quella assemblea, cioè della legge.

Paradossalmente, dopo aver concepito la rappresentanza come

“situazione”, come apparenza che si regge sul convincimento del ruolo

della parti, si è costretti a dichiararla esplicitamente come tale, ma, così

facendo, la si distrugge anche nella sua apparenza. Con un bisticcio,

perché la “finzione funzioni” occorre non svelare il suo carattere virtuale:

quando una finzione viene svelata come tale, per lo più cessa di avere

efficacia, perde la presa sui consociati, con l’eccezione di quelle finzioni

così radicate che producono il risultato di far ritenere un pazzo o un

provocatore chi volesse infrangerle, come Platone aveva profetato, nel

mito della caverna.

Singolare destino, questo, di una teoria che portata logicamente alle

sue conseguenze estreme, perviene all’autodistruzione, rompendo

l’incantesimo su cui si reggeva, una volta che ha preso coscienza di esso.

Ma, in verità, si tratta di un destino comune ed obbligato, cui è soggiaciuta

la tematizzazione del solipsismo stesso, nonché le correnti più spinte

assieme ai brevi spunti accordati da L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico – philosophicus,

trad. it. Milano, 1954.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

287

dell’idealismo: basti pensare alla summa divisio gentiliana del pensiero

pensante e del pensiero pensato.

Alla luce di quanto detto sopra a proposito della dottrina germanica

di fine Ottocento, crediamo si poter individuare il percorso, nelle sue

ultime battute, che ha condotto a queste conclusioni. Si ricorderà, infatti,

come la teoria della “situazione”, tematizzata già da Sieyès per il

sovvertimento degli Stati generali di Francia, venga riconosciuta come

assenza di rappresentanza da Laband, ove afferma che in termini giuridici

il Reichstag non rappresenta nessuno. Tale assunto non poteva essere

scardinante all’interno della costruzione del maestro del diritto pubblico

tedesco, così come non lo era, pur nella diversità delle prospettive

teoriche, nell’edificio concettuale di Jellinek: avendo assunto lo stesso

popolo come organo dello Stato, nella pretesa identità di volontà tra

cittadino e Stato, ogni organo dello Stato era rappresentante e

rappresentativo dei sentimenti e delle aspirazioni del Volk a prescindere

dal momento elettorale.440

Non di meno, una volta superata siffatta

concezione, una volta rimosse, cioè, le ultime incrostazioni hegeliane che

pervadevano (ma in qualche modo ancoravano e cementavano) le

costruzioni di questi autori, l’assunto della “non rappresentanza” è

rimasto, sviluppando tutta la sua forza dirompente, manifestandosi come

finzione nell’icastica affermazione di Kelsen. Non essendoci più la

presupposta coincidenza tra volontà del singolo e volontà dello Stato,

come manifestata dai suoi organi -indifferentemente dal parlamento come

dal provveditore agli studi o di qualsivoglia funzionario (in quanto tale) in

grado di emettere atti di volontà riferibili allo Stato- una volta riacquistata

la dualità dei termini (Stato e popolo), si imponeva di recuperare anche la

rappresentanza dell’uno (o di un suo organo) nei confronti dell’altro. In

sostanza, Laband poteva permettersi di svelare l’artificio, la finzione della

rappresentanza, intesa come “situazione”, poiché, all’interno della sua

costruzione, essa giocava un ruolo marginale, giacché popolo e Stato

440 Cfr. supra § III.1, ove si è trattato dell’irrilevanza delle elezioni nel pensiero

degli Epigonen ed in particolare modo nella posizione di Hinrinchs ed Erdmann. Poiché il

cittadino, completandosi nello Stato, non può aver in capo pubblico una volontà distinta da

quella dello Stato, non si pone nemmeno il problema di trasmettere la volontà del primo

agli organi del secondo. Anzi, avendo la medesima volontà e gli stessi interessi (che,

quindi, da quella non si distinguono), cittadino e Stato costituiscono un unico centro di

imputazione di volontà e di interessi, cioè una sola parte giuridica. Come le elezioni sono

inutili, così il carattere rappresentativo è accordato –per definizione- a tutti gli organi dello

Stato in quanto tali.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

288

apparivano già concettualmente riuniti nell’identità di volontà, tanto da

rendere superflua qualsivoglia procedura per trasmettere gli intenti del

primo verso il secondo. Non così i suoi successori, poiché una volta

spezzata l’Einheit di cittadino e Stato, riconosciuta autonomia soggettiva

pubblica tra i due termini, la costruzione della rappresentanza ereditata

dalla Rivoluzione francese non può più essere spesa. In più, l’esplicita

dichiarazione della rappresentanza come finzione (o della finzione della

rappresentanza) pregiudica anche la teoria che abbiamo chiamato “degli

specchi”, poiché, una volta smascherata, la finzione perde ogni efficacia

operativa, giacché una finzione esplica la sua utilità solo a patto che (e

fino al momento in cui) vi sia la convinzione che all’apparenza

rappresentata vi sottostia la sostanza.441

Siffatta costruzione, in vero più

sociologica che giuridica, ricorda il meccanismo dell’obbedienza per

autosuggestione propria del realismo scandinavo,442

cioè l’obbedienza alle

norme nella inconsapevole convinzione che esse siano doverose: in questo

senso, ci pare, tutte le norme avrebbero il valore della (e si ridurrebbero

alla) consuetudine, cioè alla ripetizione di comportamenti uniti alla opinio

iuris ac necessitatis della loro doverosità. Così il rappresentante si pone ed

agisce come tale, diremmo quasi, sulla presupposizione di detta sua

qualifica, insita nei sudditi. In questo senso, dunque, le elezioni non

appaiono più necessarie, poiché sostituite dalla convinzione di essere o

avere un rappresentante e di riconoscerlo in qualcuno, elemento

essenziale, poiché il convincimento contrario non può trovare rimedio

nemmeno in un’elezione plebiscitaria, insuscettibile di dare legittimazione

“sostanziale” oltre o contro il sentimento dei “rappresentati”.

Ci si potrebbe chiedere se e quale ruolo competa al diritto in siffatta

prospettiva.

441 Cfr. F. TODESCAN, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio juris, Padova,

1979, specialmente p. 210 e ss.

442 Per la costruzione del pensiero di Hägerström, Ross ed Olivecrona, cfr. il

ponderoso saggio di E. PATTARO, Lineamenti per una teoria del diritto, Bologna, 1985,

IDEM, Introduzione al corso di filosofia del diritto, Bologna, 1987-90. Per la particolare

prospettiva della virtualità nel realismo scandinavo cfr. F. GENTILE, Ordinamento

giuridico, controllo o/e comunicazione? Tra virtualità e realtà, in appendice a U.

PAGALLO, Testi e contesti dell’ordinamento giuridico, II ed., Padova, 1999, specificamente

p. 230-1, ora in edizione autonoma Ordinamento giuridico. Tra virtualità e realtà, Padova,

2000, pag. 35-36.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

289

La domanda trova un’esplicita risposta nell’assegnazione di una

funzione servente al diritto, inteso quale strumento per consentire la

competizione politica, vista come il luogo delle decisioni libere. Ecco che

allora la rappresentanza politica, di per sé, non garantisce che la decisione

politica sia conforme ai desideri dei rappresentati, limitandosi, tutt’al più,

a consentire l’espressione di tali desideri.443

Non di meno, alla rappresentanza e, più in generale, alla politica

viene collegata l’idea di competizione come momento ritenuto fisiologico

per la conquista del potere, fine ultimo dell’una e dell’altro. In altri

termini, la politica sarebbe il luogo, quasi agone, secondo regole

predefinite e comunemente accettate, per la conquista del potere da parte

della minoranza o per la sua detenzione da parte della maggioranza.444

Ecco che per questa via, viene reintrodotto lo stretto legame tra elezione e

rappresentanza, poiché solo la totale libertà di scelta (anche nel rifiuto di

farsi rappresentare) può consentire la competizione nella quale Rescigno

(come altri, cfr. infra § III.3.) vede l’essenza della politica. Vero è che in

questa prospettiva i “rappresentati”, anzi, gli elettori, costituiscono lo

spessore di forza dell’eletto, ma non sono rappresentati che in misura

ridotta ed occasionale, complice l’impotenza di incidere in modo adeguato

sull’eletto, almeno fino alle elezioni successive, seppure, medio tempore,

443 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 552.

L’assunto, in sé stesso, ci trova pienamente concordi, condividendo la conclusione cui si è

giunti supra al § II.2, ricostruendo la struttura del mandato limitativo, proposta da

Talleyrand, ove si chiarisce che compito del rappresentante non è né quello di imporre

delle istruzioni non negoziabili, né quello di gestire l’affare secondo il proprio arbitrio,

bensì quello di far concorrere gli intendimenti dei rappresentati alla formazione della

volontà generale, limite del proprio potere e criterio per commisurare la sua responsabilità.

Tuttavia, il senso dell’affermazione di Rescigno deve essere circoscritto dalla definizione

di politica che viene resa subito dopo, come riportata nel testo.

444 “Quello però che resta costante, non appena si ammetta la rappresentanza

politica, è la tendenza necessaria di ciascun rappresentante (e insieme con lui dei suoi

rappresentati) alla conquista del potere politico (e cioè il potere di decidere in modo

vincolante per tutti entro un determinato territorio). Il problema dunque diventa come

disciplinare questa concorrenza nella conquista del potere politico in modo tale che

qualcuno lo ottenga e possa esercitarlo senza scatenare la guerra civile”. Così G. U.

RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 553. La stessa funzione del

diritto viene tematizzata nella tecnica del controllo sociale, cioè nell’anestesia dei conflitti

tra gli individui, non nella loro risoluzione per permettere la comunicazione tra i singoli.

Per queste opposte prospettive, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II

ed., Milano, 1984, p. 33.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

290

quest’ultimo mantenga il potere ed anche al momento delle elezioni possa

ottenere la rielezione, mercé l’assopimento del corpo elettorale o il suo

controllo da parte di un gruppo di pressione. In sostanza, dopo aver

svuotato il rappresentato del suo ruolo, si sente la necessità di individuare

un terzo, estraneo, quindi, al rapporto rappresentativo, che giudichi, per

così dire, della correttezza della funzione rappresentativa svolta

dall’eletto; non rinvenendo siffatto soggetto, se ne è dedotta la non

giuridicità della rappresentanza in ambito pubblico. Come si è già avuto

modo di ricordare supra, l’impasse è conseguenza del progressivo

integrale svuotamento del ruolo del rappresentato, al fine di ricondurre

l’eletto nell’ambito dell’unicità, dell’assolutezza, del non dipendere

(nemmeno concettualmente) da nessun altro, cioè nel luogo proprio della

sovranità, ma in tal modo sfigurando irrimediabilmente la struttura

essenzialmente dualistica propria della rappresentanza.

Per questa via, dunque, con un inversione logica, gli elettori si

riconoscono di volta in volta rappresentati da questo o quel eletto, ed anzi,

è il rappresentante ad instillare nei rappresentati le loro volontà od

interessi, sicché i desideri dei rappresentati nascono in quanto formulati

dal rappresentante. E si finisce così col riconoscere espressamente che “il

rappresentante in un certo senso non rappresenta nulla, perché prima della

formulazione non esiste nulla da rappresentare; il rappresentante fa

esistere la rappresentazione.”445

In sostanza, l’azione dell’eletto si spinge

all’interno dell’elettore, instillandogli le volontà o gli interessi opportuni.

La tesi della rappresentanza politica come “situazione” del solo

rappresentante dimostra qui tutta la sua drammaticità, mutandosi in

“sostituzione” del rappresentato. Infatti, in un primo tempo, viene sciolto

il legame tra rappresentato e rappresentante, svincolando il secondo dalla

volontà, dagli interessi del primo e, comunque, ponendolo al riparo da un

suo giudizio di responsabilità; reciso così il cordone ombelicale, poiché, in

fondo, il rappresentante deve la propria esistenza al rappresentato, in un

secondo momento l’eletto si pone come l’unico, secondo i canoni della

geometria legale, cioè come sovrano. Ma non solo: in un secondo tempo,

con un movimento discendente, è lo stesso “rappresentante” che plasma il

445 Cfr. G. U. RESCIGNO, Alcune note sulla rappresentanza politica, cit., p. 555. Per

questa via ci si spinge ad affermare un ulteriore ruolo del “rappresentante” che, quale

demiurgo, è destinato a “far emergere alla coscienza dei rappresentati ciò che forse

oscuramente era già al loro interno, ma che essi, prima che il rappresentante lo dicesse,

non avevano mai detto o pensato” (ibidem).

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

291

“rappresentato” a sua immagine e secondo i suoi propri interessi per

quello che è stato definito l’agone della lotta politica per la conquista del

potere, al quale concorre, è superfluo ormai dirlo, il solo eletto, usando

degli elettori come di un proprio strumento. Con un paradosso, troncato il

dualismo che vedeva il rappresentante responsabile verso il rappresentato,

secondo una tradizione bimillenaria che dalle antiche diete giunge fino al

giuramento della Pallacorda, ne viene creato uno nuovo, che mira a porre

gli elettori nella disponibilità degli eletti, sfociando nella pratica del

commercio di voti, per il quale nel XVIII secolo le assemblee di

Westminster avevano creato un apposito ufficio.446

Dal diritto ad essere

rappresentati si passa così al dovere di essere elettori; e non è un caso, in

questa prospettiva che l’eredità rivoluzionaria abbia condotto al dovere di

votare,447

parafrasando il noto passo del Ginevrino ove, trattando di coloro

che non intendessero recarsi in assemblea, affermava “li si costringerà ad

essere liberi”.

Non si può pertanto concludere che il diritto sia estraneo nemmeno

a siffatta concezione di “rappresentanza politica”, atteso il rilevante

numero di istituti che regolano il fenomeno: i diritti di libertà di

associazione e di manifestazione del pensiero, la disciplina elettorale, lo

stesso divieto di mandato imperativo; sicché, conseguentemente, il diritto,

e proprio il diritto positivo, crea, distrugge, modifica, configura e tutela il

rapporto (o il non - rapporto) tra eletto ed elettore. Né appare risolutivo

l’argomento portato da Rescigno, per il quale siffatti istituti giuridici si

limiterebbero a permettere e non impongono al “rapporto” di nascere. Un

tanto accade anche per l’applicazione della rappresentanza nel diritto

privato (l’unica ritenuta “giuridica” dalla tesi in esame), ove la disciplina

codicistica permette, ma non impone, la concreta attuazione dell’istituto:

ciò dipende dalla volontà delle parti (o dalla legge, nei casi previsti). Che,

poi, la rappresentanza politica sorga, nei suoi aspetti sociologici, a

prescindere dalla presenza di una regolamentazione giuridica, è

circostanza che riguarda, ancora una volta, la maggior parte degli istituti,

446 Si confronti l’aneddoto riportato supra alla nota n. 176.

447 Com’è noto, solo recentemente sono state abrogate le ultime conseguenze

amministrative dell’astensione dalle urne, che colpivano quei cittadini che esprimevano la

propria “preferenza” politica non recandosi nemmeno a votare. La dottrina non sembra

essersi occupata in modo approfondito delle diverse implicazioni giuridiche - politiche

connesse alla differenza tra scheda bianca e mancata votazione nelle elezioni, attratta forse

dalla maggiore rilevanza che la distinzione esercita in sede referendaria.

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APPLICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA NELL’AMBITO PUBBLICO

292

dacché, con Tullio Ascarelli, il diritto viene a regolare quanto la realtà si è

già incaricata di creare.448

Ma si tratta, allora, di mutare radicalmente

prospettiva per guardare al diritto ed allo Stato. E, per limitarci alla nostra

ricerca, si potrebbe cominciare da un vaglio critico della “situazione”, cioè

di quel “diritto” dell’eletto a rappresentare nel quale sembra concludersi

tutta la “rappresentanza politica” modernamente intesa.

448 Cfr. il puntuale studio di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione

giuridica tra positivismo ed idealismo, Napoli, 1999, che analizzando la teoria delle lacune

dell’ordinamento tematizzata dall’insigne studioso di diritto commerciale, denuncia le

aporie conseguenti al dogma della completezza dell’ordinamento.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

293

4.2 Diritto dell’eletto a rappresentare e diritto ad agire

PREMESSA: TEORIA DEL “LIBERO MANDATO PARLAMENTARE” COME DIRITTO SOGGETTIVO

DELL’ELETTO: LIMITI E CRITICA – DISTINZIONE DEL DIRITTO DELL’ELETTO AD AGIRE DAL

DIRITTO A RAPPRESENTARE – CORRELATIVA POSIZIONE GIURIDICA SOGGETTIVA DEL DOVERE

DELL’ELETTO DI RAPPRESENTARE – RISCONTRO: IL PROBLEMA DELLE VARIANTI AL P.R.G. ED

INCOMPATIBILITÀ DEI CONSIGLIERI COMUNALI NEI RECENTI ORIENTAMENTI

GIURISPRUDENZIALI – SOLUZIONI PROSPETTATE DALLA PRATICA ED OSSERVAZIONI CRITICHE:

LA RICHIESTA PREVENTIVA DI NOMINA DEL COMMISSARIO AD ACTA - INAMMISSIBILITÀ DI UNA

VALUTAZIONE EX ANTE DA PARTE DELL’ORGANO SOSTITUENDO – SEGUE: LA

“PARCELLIZZAZIONE” DELLA VARIANTE - CONTRASTO CON LA NATURA GENERALE

DELL’ATTO PROGRAMMATORIO – SEGUE: LA DELIBERAZIONE IN SECONDA CONVOCAZIONE –

L’ADOZIONE DELL’ATTO DA PARTE DI QUATTRO CONSIGLIERI – RAPPORTI CON LA NOMINA

DEL COMMISSARIO AD ACTA – SPUNTI RICOSTRUTTIVI – ESPERIBILITÀ DI AZIONI A TUTELA

DEL DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO - DIFFICOLTÀ

NELL’INDIVIDUAZIONE DELLE RELATIVE GARANZIE E RINVIO.

Anche alla luce di quanto sopra esaminato, si potrebbe essere

indotti a ritenere che il problema della situazione giuridica soggettiva

dell’eletto possa darsi per risolto con l’introduzione nel diritto positivo del

divieto di mandato imperativo, recepito, spesso in forma tralatizia, da

pressoché tutte le carte costituzionali. Invero, è solo tale preciso disposto

che impedisce qualsivoglia interferenza sul deputato da parte dei suoi

elettori, ne garantisce l’indipendenza e, quindi, la posizione all’interno

dell’assemblea, sciogliendolo dal legame genetico con chi l’ha scelto, una

volta che le procedure elettive (o di nomina) si siano concluse, ma così

stravolgendo l’intima struttura dualista propria della rappresentanza.

Peraltro, la necessità di tornare sull'argomento, pur in linea con le

posizioni dominanti, indica la difficoltà concettuale sottesa alla

rappresentanza nel diritto pubblico, che ne impone un ripensamento. In

questo senso sembra muoversi Nicolò Zanon,449

individuando la nascita

del "libero mandato" in due teorie contrapposte.

Da un lato, la teoria storica o continuista sostiene che si giunge a

tale costruzione per lungo travaglio le cui radici affonderebbero nell'idea

medioevale di rappresentanza e il riferimento d'obbligo è a Otto von

Gierke.450

Secondo questa prospettiva, in Francia avrebbero influito

449 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991.

450 Della teoria della rappresentanza corporativa di Otto von Gierke si è già detto e,

in parte si avrà ancora modo di dire in prosieguo. Merita in vece di essere segnalata qui,

per l’assonanza concettuale l’idea di body politic, tematizzata da Burke, su cui si rimanda

al serrato studio di D. PANIZZA, Il concetto di “body politic” in Burke: i fondamenti

dell’organicismo moderno, in “Filosofia politica”, 1993, p. 415-445.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

294

anticipazioni degli inglesi che già con Locke e Burke avevano enucleato

l'istituto. La teoria giuridica o non continuista (chiamata dall’autore

“discontinuista”), al contrario, sostiene che il divieto di mandato

imperativo dovrebbe ritenersi il corollario dei principi rivoluzionari in

tema di sovranità e rappresentanza della nazione intera. L'autore riconosce

che entrambe le teorie prese singolarmente nella loro radicalità non sono

esaustive. Propone di conseguenza al lettore di considerare la cosa da più

"punti di vista".451

Dal punto di vista della storia parlamentare, l'istituto sarebbe il

frutto della ricerca di efficienza di un organo avente funzioni

essenzialmente deliberanti. Nel concreto svolgersi delle procedure

parlamentari, il collegio non potrebbe tollerare gli ostruzionismi e le

pratiche dilatorie che il sistema del mandato imperativo comporta. E,

d'altro canto, la necessità pratica del compromesso, preludio inevitabile

alla decisione finale, si opporrebbe alla sopravvivenza della

rappresentanza vincolata. In tale prospettiva è conveniente rilevare come

l'Assemblea nazionale costituente non intese vietare la pratica del

mandato imperativo, ma ne sancì l'inefficacia verso l'Assemblea stessa per

evitare pericolosi ostruzionismi (cfr. supra al § II.2).

Dal punto di vista “di una sociologia politica” il divieto di mandato

imperativo sarebbe il segno distintivo di un nuovo ceto politico, di una

vera e propria classe politica, che intenderebbe prendersi una decisiva

indipendenza nei confronti della società civile. I rappresentanti cioè

dovrebbero esprimere le loro opinioni, non quelle degli elettori. Essi in

realtà non rappresentano nessuno se non sé stessi e pretendono di

riprodurre nei dibattiti parlamentari la loro volontà individuale, tentando

più volte di contrabbandarla -aggiungiamo noi- per quella nazionale. Il

divieto di mandato imperativo sarebbe quasi la formula politica di questo

nuovo superbo ceto dominante. Una visione che si vuole forse introduttiva

delle concezioni liberali ottocentesche circa la separazione (solamente

concettuale, cfr. supra § II.3.) tra Stato e società.

Da un punto di vista di una teoria complessiva della società, il

divieto di mandato imperativo sarebbe il prodotto di una concezione

individualista, meccanica ed egualitaria: una concezione della democrazia

in opposizione a quella essenzialmente organica dell'Ancien Regime:

“rappresentanza è rappresentanza di ciò che è comune a tutti in una

451 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 74.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

295

società teoricamente livellata”.452

L'autore non manca tuttavia di ricordare

come l'idea di una rappresentanza politica generale di tutti i cittadini, e

non di gruppi o di singole parti separate del corpo sociale, coesista con la

realtà di un’assai limitata capacità integratrice dello Stato liberale: i diritti

politici (il diritto di voto) continuano a spettare ad un ristretto numero di

cittadini.

Da un punto di vista di una “osservazione realista, e quindi di una

scelta politica” il divieto di mandato imperativo sarebbe l'espressione

giuridica del nuovo rapporto tra gli interessi sociali e la loro

rappresentabilità. Ad una società dinamica, cioè, dovrebbe corrispondere

un metodo di rappresentanza che ammetta discrezionalità, per adattarsi a

frequenti mutamenti. Il rappresentante può essere al più “responsivo”,

secondo la terminologia anglosassone. In sintesi: il divieto di mandato

imperativo sarebbe una forma di garanzia nel mutamento sociale,

attraverso la libera interpretazione che il corpo legislativo può fare della

dinamica degli interessi. Se ci è consentito, potremmo dire che si tratta di

una sorta di amministratore delegato di una grande società di capitali ad

azionariato diffuso, che deve godere di mano libera nella gestione degli

affari, senza essere impedito dall’assemblea (verso la quale, comunque,

almeno l’amministratore pur certamente risponde).

Dal punto di vista di una teoria costituzionale il divieto di mandato

imperativo contribuirebbe a disegnare la struttura del governo

rappresentativo.453

Tuttavia per Zanon, occorrerebbe circoscriverne

l'ambito ad un'esperienza storicamente delimitata, sostanzialmente quella

dei parlamenti ottocenteschi e delle relative forme di governo. La

composizione e la struttura dei parlamenti, nonché la ristrettezza del

suffragio, mostrano un tipo di rappresentanza autoritaria ed un circuito

rappresentativo che non conosce ancora né partiti politici, né altri

strumenti di controllo democratico. La teoria della sovranità nazionale,

nata per precisi scopi politici, verrebbe ipostatizzata dalla dottrina

successiva quale fondamento logico del divieto del mandato imperativo.

Grazie all'immagine del rappresentante della nazione la borghesia

452 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 86-7. Tutto ciò richiama la

sfera di Sieyès, costruita sull’eguaglianza ed equidistanza dei soggetti, resi uguali, quindi

numerabili e fungibili. Cfr. supra note 207 e 209.

453 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 88. O meglio, non

rappresentativo.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

296

potrebbe operare lo scambio tra i propri interessi e quelli generali,

autoponendosi come classe generale.

La vera novità tuttavia sarebbe costituita dalla introduzione dei

partiti, rivestiti di dignità costituzionale dalla nostra carta: alla discussione

ottocentesca si contrappone la radicalità propria dell'ideologia partitica e

partigiana. Tutto ciò porta con sé una ferrea disciplina di gruppo: un

mandato imperativo tra partito ed eletto nelle sue liste, di cui la pratica

delle dimissioni in bianco non sarebbe che l'ultima manifestazione.

Alla luce di queste considerazioni, viene proposta la più originale

interpretazione dell'art. 67 cost.454

Il divieto di mandato imperativo

dovrebbe considerarsi un dovere ed un diritto del parlamentare. Come

dovere, poiché l'attività parlamentare, libera da influenze di natura

particolaristica, costituirebbe la condizione per il funzionamento per il

sistema rappresentativo prescritto dalla Costituzione, respingendo

tendenze neocorporative ad esso contrarie. Come diritto, per non subire

condizionamenti ai propri voleri, per esempio da discipline di partito

rigorose. Diritto costituzionalmente fondato, ma a differenza di altri, per

Zanon, in certi casi estremi tutelabile anche sollevando conflitto di

attribuzione di poteri. Sicché, potremmo dedurre, una qualsiasi

innovazione in questo campo deve importare la prudenza che si addice

all'importanza di un istituto nella configurazione di un regime. La

conclusione tratta è che il divieto di mandato imperativo non deriva dalla

circostanza che il parlamentare rappresenta la "Nazione, intesa

quest'ultima come forma di unità politica presupposta a priori nel popolo".

Al contrario sarebbe l'attività rappresentativa libera da mandati a

contribuire, per la sua parte alla realizzazione dell'unità politica che non

esisterebbe come dato a priori, ma sarebbe solo il risultato di un processo

di integrazione.

Due osservazioni si impongono subito.

In primo luogo, per questa via, si sancisce l’assoluta “situazione”

dell’eletto, secondo la terminologia usata sopra, e si esce dalla

rappresentanza, quale riconosciuto (parrebbe anche da Zanon) sinolo di

“situazione” e “rapporto”. Si passa, altresì, dalla rappresentanza popolare

a quella assembleare, già teorizzata da Sieyès, affermando che la nazione

è nell’assemblea, è l’assemblea. Di più, il divieto di mandato imperativo

diviene un dovere per il deputato, poiché la presenza e l’opera partigiana

dell’eletto veicola “la forte probabilità che il suo comportamento risulti

454 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 288 e ss..

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

297

illecito anche penalmente”455

se si pone in contrasto con il disposto di

rango costituzionale che vuole il deputato come rappresentante della

nazione, secondo un’interpretazione della norma che assicura al deputato

piena indipendenza da influenze esterne, mentre gli impone di spogliarsi

di ogni particolarismo, di ogni interesse settoriale che potrebbe corrugare

la liscia superficie della sfera. Tuttavia, in verità, la tutela è a senso unico

ed è in favore dell’eletto, giacché egli potrà protestare il suo diritto

all’indipendenza nei confronti di chi volesse vincolarlo a volontà esterne

alla sua (magari quelle degli elettori), ma, parimenti, potrà rispondere

sdegnato di star seguendo la propria coscienza a chi lo ammonisse di non

lasciarsi condizionare, magari finanziariamente, da gruppi di pressione. E

si tratterebbe di un convincimento psicologico non accertabile da alcun

giudice

Peraltro, la skepsi viene rafforzata e si fornisce anche uno strumento

giuridico a guardia della distinzione tra “paese reale” e “paese legale”, per

scongiurare spiacevoli intromissioni, una volta che il potere siasi

costituito, eliminando anche il ruolo dei partiti, risolvendo la

degenerazione della loro fisiologica funzione di mediatori, semplicemente

neutralizzandone ogni possibilità di intervento, salvo l’espulsione dal

gruppo e la mancata ricandidatura, che si è già detto, peraltro, essere

sanzione pressoché inconsistente, soprattutto ove il “trasformismo”

consenta la trasmigrazione verso un altro partito, ovvero l’accoglienza in

altre liste. Si propone di tornare così d’amblé al parlamentarismo senza

partiti (ammesso che ce ne sia mai stato uno o che possa esservi).

Sotto diverso profilo, ed è la seconda osservazione, affermando che

“è l’attività rappresentativa libera da mandati a contribuire, per la sua

parte, alla realizzazione dell’unità politica, che non esiste come dato a

455 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 293. La rilevanza penalistica

della costruzione viene solo accennata ma non sviluppata dall’autore. Tuttavia, la

concezione del divieto di mandato imperativo come un diritto, ma, soprattutto, come un

dovere per il deputato, connesso “al proprio ufficio”, potrebbe far pensare che integri la

fattispecie prevista e punita dal vigente articolo 319 del codice penale colui che ha indotto

questo particolare tipo di pubblico ufficiale a commettere un atto contrario al dovere del

proprio ufficio; con la conseguenza che la semplice adesione ad una specifica istanza

elettorale (aliena da più gravi conseguenze) corroborata da qualche utilità, produrrebbe le

condizioni previste dalla norma incriminatrice speciale. La sola posizione del problema

rileva le aporie conseguenti alla concezione del divieto di mandato imperativo come

dovere, svelando un altro profilo dello stridente contrasto logico tra divieto di mandato

imperativo e rappresentanza.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

298

priori, ma può solo essere il risultato di un processo di integrazione”456

si

subordina alla forma di regime l’elemento aggregante la comunità, ovvero

gli si concede il potere di influire sull’esistenza stessa della comunità.

In questo senso, viene riproposta, con una particolare variante, la

tesi di Rousseau, esaminata sopra, ove comunità può esservi solo in

presenza di un regime democratico diretto, poiché è a tal condizione,

ovvero dalla partecipazione immediata di tutti i consociati all’assemblea,

che opera il meccanismo di riconoscimento della propria volontà nella

volontà generale la quale, invero, già prima di Sieyès, si svela essere la

volontà della maggioranza. Avendo adottando la democrazia diretta, cioè

il consenso di tutti i consociati alla formazione della legge, il Ginevrino

ritiene di aver risolto il problema dell’aggregazione della comunità

politica, in quanto si viene ad elidere la distinzione tra governanti e

governati, poiché obbedendo alla legge si obbedisce alla propria volontà.

La variante che ci viene proposta dall’autore -variante invero più

inquietante e meno raffinata- consisterebbe nel ruolo quasi paideutico

dell’assemblea, con funzioni di ricucire le pulsioni settarie e mantenere

l’unità nazionale, nel tenere insieme più soggetti altrimenti destinati a

soffocare nel particolarismo.

In sostanza, oltre a veder garantita la propria sovranità, contro

chicchessia (sotto la minaccia di sanzione penale, persino nei confronti di

quei propri componenti incrostati dalla ricerca di collegamenti fiduciari

con frazioni del corpo elettorale), con un singolare processo di inversione

è il “paese legale” ad assumersi il compito di modellare su di sé il “paese

reale”; con un rovesciamento dei ruoli, non è l’immagine che somiglia alla

realtà, ma è l’immagine a plasmare la realtà sulla propria figura. Non si

tratta più di un collegio che media, dialetticamente o, almeno,

algebricamente le diverse esigenze, quanto di un organo che, avulso da

ogni intromissione problematica dell’esperienza, mira a dirigerla, con i

propri atti di volontà.

In questi termini, così intesa la rappresentanza, la situazione

giuridica soggettiva attiva, il diritto ad essere rappresentante, si traduce

456 N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 347-8, ma anche p. 323 e ss.,

dove sembra di voler riconoscere tale posizione negli scritti di H. HELLER e E. W.

BÖCKENFÖRDE. Per la distinzione tra comunità, classicamente intesa come insieme di

persone aggregate nella tensione verso il bene comune, e regime, inteso come forma di

organizzazione della comunità, nonché per le aporie prodotte dalle teoria, come quella

rousseauiana, che fanno del regime l’elemento aggregante la comunità, cfr. F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 137.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

299

nella garanzia della propria unicità, recidendo l’alterità, ovvero quella

caratteristica che, prima di essere propria della rappresentanza, è propria

del diritto.

Parimenti, per converso, la situazione giuridica soggettiva passiva,

il dovere di rappresentare, anziché essere speculare al diritto dell’elettore

ad essere rappresentato, si conclude nel suo opposto, ovvero nel dovere

dell’eletto di rendersi impermeabile ad ogni influsso esterno, sotto la

minaccia di una sanzione addirittura di rilevanza penale.

Emerge così la reale portata della costruzione che si sta criticando,

ove si appalesa che il “diritto” ed il “dovere” che vengono letti nel

disposto dell’art. 67 della Costituzione, lungi dal costituire due distinte

situazioni giuridiche soggettive, si rivelano integrare il medesimo precetto

nei confronti dell’eletto, ora nella formulazione positiva, ora nella

formulazione negativa, ma sempre nel perseguimento di un obiettivo che è

al di fuori di lui, imponendo cioè l’assenza di ogni interferenza (per il suo

tramite) nell’assemblea; scopo perseguito con l’assistenza di una sanzione

per un comportamento che, ci viene detto a chiare lettere, risulti “illecito

anche penalmente”.

Le osservazioni fin qui raccolte debbono essere raccolte alla fine di

questo lavoro, ove si cercherà di delineare le situazioni giuridiche

soggettive di rappresentante e di rappresentato. Per il momento occorre

occupare la nostra attenzione su di un aspetto collegato che non viene

trattato dall’autore de Il libero mandato parlamentare.

In fatti, l’indagine attorno al diritto dell’eletto a rappresentare e ad

agire non può dirsi compiuta se non si guarda anche al problema

dell’astensione del rappresentante, profilo che introduce l’ulteriore

questione del rapporto tra maggioranza e minoranza, sulla quale saremo

traghettati verso il paragrafo successivo. A quale condizione l’eletto ha il

diritto di rappresentare e quando e perché tale diritto (perché di un diritto

soggettivo tecnicamente si tratta) deve cedere il passo ad altre aspettative?

Il banco di prova per saggiare questo aspetto può essere dato da una

questione che negli ultimi tempi sembra riproporsi all’attenzione di teorici

e pratici del diritto amministrativo: il problema dell’incompatibilità dei

consiglieri comunali con particolare riguardo alle procedure di variante

dello strumento urbanistico generale.

La questione, invero mai sopita,457

che supera i confini del diritto

urbanistico per involvere gli spinosi aspetti in tema di rappresentanza che

457 La dottrina più recente sembra non essersi particolarmente interessata al

problema. Oltre ai contributi ancora fondamentali di L. GALATERIA, voce Astensione (dir.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

300

qui precipuamente interessano, risulta acuita da una recente rigorosa

pronuncia della quarta sezione del Consiglio di Stato, ove si sancisce che,

nel procedimento di adozione del piano regolatore generale, l’obbligo per

il consigliere comunale di astenersi dal prendere decisioni su questioni cui

potrebbe essere direttamente o indirettamente interessato è assoluto e non

conosce eccezioni, né ammette distinzioni, sicché la violazione della

regola dell’astensione obbligatoria comporta l’invalidità della

manifestazione di volontà che l’amministratore interessato ha concorso a

formare, a prescindere dai vantaggi o dagli svantaggi che abbia ricevuto e

dalla legittimità o illegittimità del procedimento seguito.458

Per onor del

vero, lo stesso collegio di Palazzo Spada, poco più di un anno prima,

aveva negato l’obbligo di astensione in conseguenza della semplice

allegazione dell’esistenza di interessi configgenti, ancorando

l’applicazione della norma che statuisce detto obbligo alla prova concreta

cost. e amm.), in “Enciclopedia del Diritto Giuffré”, vol. III, Milano, 1958, p. 939; G. B.

VERBARI, voce Organi collegiali, in op. ult. cit., vol. XXXI, Milano, 1981, p. 79; V.

CAIANIELLO, voce Astensione e ricusazione nel procedimento e nel processo

amministrativo, in “Enciclopedia Giuridica Treccani”, vol. III, Roma, 1988; A. M.

SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 588, segnaliamo R.

CACCIN, In tema di obbligo di astensione e di interesse privato in atti di ufficio, in “Nuova

rassegna”, 1979, p. 303; I. CACCIAVILLANI, Obbligo di astensione nell’adozione di

strumenti urbanistici comunali e delitto di interesse privato in atti d’ufficio, in

“Giurisprudenza di merito”, 1984, II, p. 1141, su cui amplius infra; G. PIFFERI, Adozione di

strumenti urbanistici e partecipazione di consiglieri interessati, in “Rivista

amministrativa”, 1984, III, p. 253; A. COMPAGNONE, Aspetti della complessa vita degli

organi collegiali: il ruolo degli “astenuti”, in “Nuova rassegna”, 1986, p. 1631; V.

GIUSEPPONE – O. CALABRESI, Astensione negli organi collegiali amministrativi?, in

“T.A.R.”, 1989, II, 32; M. OCCHIENA, Un Comune “deus ex machina” di una lite

proprietaria tra cittadini: indagine giurisprudenziale sull’astensione obbligatoria, in

“Giurisprudenza italiana”, 1994, III, p. 176; IDEM, Adozione di piano regolatore generale e

obbligo assoluto di astensione per i consiglieri interessati, in “Rivista giuridica

dell’edilizia”, 1994, I, p. 1036, nota a C. d. S. sez. IV, 23 maggio 1994, n. 437 su cui

amplius infra; D. RODELLA, Adozione del piano regolatore generale ed obbligo di

astensione dei consiglieri interessati, in “Nuova rassegna”, 1996, p. 2065; cfr., altresì, G.

SORGE, Problemi relativi alla struttura ed al funzionamento del Consiglio comunale dopo

la L. 25 marzo 1983, n. 81, in “I Tribunali amministrativi regionali”, 1996, II, p. 845.

Sintetico sul punto N. ASSINI – PL. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997,

p. 265. Tace, invece, GC. MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997, 167-

169, pur, notoriamente, pressoché completo.

458 Così C.d.S., sez. IV, 1 settembre 1997, n. 937, che si può leggere in “Rivista

giuridica dell’edilizia”, 1998, I, 78. La sezione riprende l’orientamento rigoroso già

manifestato con la sentenza n. 437/94 segnalata sopra.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

301

e specifica che l’atto generale sia stato emanato anche in considerazione

di tali personali e particolari interessi.459

Il tema è dato dalla duplicità di

interessi in capo al medesimo soggetto, seppure in veste diversa:

l’interesse degli elettori, cioè il consenso all’individuazione del bene

comune, e l’interesse privato del rappresentante uti singulus, dato dal

vantaggio o svantaggio a lui derivante di riflesso dall’argomento specifico

trattato.

Com’è noto, il fondamento normativo dell’obbligo di astensione

trova radice nell’art. 290 del Testo Unico della legge comunale e

provinciale, approvato con R.D. 4 febbraio 1915, n. 148, che dispone

l’obbligo dell’astensione dei consiglieri dalle deliberazioni, tra l’altro,

quando “si tratta di interesse proprio, o di interesse, liti o contabilità dei

loro congiunti od affini sino al quarto grado civile”. L’art. 279 del Testo

Unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. n. 3 marzo

1934, n. 383, riprende letteralmente il disposto, specificando che l’obbligo

dell’astensione scatta anche quando portatore dell’interesse configgente

sia il coniuge460

dell’amministratore – rappresentante ed aggiungendo

l’obbligo per il membro affetto da incompatibilità di allontanarsi dall’aula,

precisazione importante che, nel caso in esame, trancia di netto ogni

questione attorno alla distinzione tra quorum strutturale e funzionale,

qualificando giuridicamente assente il consigliere soggetto all’obbligo

dell’astensione.461

È appena il caso di rammentare che entrambe dette

norme sono state fatte esplicitamente salve, rispettivamente, dalle lettere

b) e c) dell’art. 64 della L. 8.6.1990, n. 142. Analoghe disposizioni si

459 Così C.d.S., sempre sez. IV, 11 giugno 1996, n. 795, che si può leggere ancora

in “Rivista giuridica dell’edilizia”, 1996, I, 950, oppure in “Foro amministrativo”, 1996,

1851.

La questione era stata prospettata all’adunanza plenaria del 9.3.1983, n. 1, che

aveva sancito l’illegittimità dell’adozione di un piano regolatore, impugnata dal

proprietario di terreni ai quali veniva tolta l’edificabilità, prevista nel precedente

programma di fabbricazione, poiché alla seduta del consiglio comunale avevano

partecipato consiglieri proprietari di terreni sui quali tale edificabilità veniva trasferita,

localizzando gli insediamenti residenziali ritenuti necessari per la soddisfazione del

fabbisogno edilizio. Cfr. “Foro Italiano”, 1983, III, 161.

460 Invero, la precisazione può apparire superflua, ove si consideri che la figura del

coniuge rientra certamente nella categoria degli affini entro il quarto grado.

461 Così L. GALATERIA, voce Astensione (dir. cost. e amm.), in “Enciclopedia del

Diritto Giuffré”, vol. III, Milano, 1958, p. 942.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

302

rinvengono per i consigli regionali e nei regolamenti delle camere,

consentendoci di ritagliare, quasi con un actio finium regundorum, la

situazione giuridica soggettiva del rappresentante.

Di primo acchito, si può osservare come tanto il tenore letterale

quanto la ratio della norma lascino propendere per un dovere di

astensione immediatamente collegato al thema decidendum quale posto

dall’ordine del giorno o ad esso conseguente, ove emerga un interesse

personale dell’amministratore, anche non patrimoniale, ma comunque

apprezzabile, senza poter valutare sull’utilità o meno che il consigliere

interessato possa trarre dal provvedimento. In questo senso, appare

maggiormente aderente al disposto normativo l’orientamento più rigoroso

del Consiglio di Stato, non potendosi condividere l’opinione meno

recente, che richiede la prova dell’effettiva emanazione dell’atto in

conseguenza dell’interesse. Infatti, se un tanto integra l’ipotesi prevista e

punita dall’art. 323 del codice penale, tradizionalmente il vizio di eccesso

di potere si concreta non solo con la prova che il potere attribuito dalla

norma sia stato effettivamente usato per fini diversi da quelli per i quali

era stato accordato, quanto già sulla sola possibilità che tale devianza siasi

verificata.462

In sostanza, conformemente a tale impostazione dogmatica

tradizionale, l’obbligo dell’astensione mira ad una tutela ex ante,

eliminando già prima della discussione (addirittura tramite l’obbligo

dell’allontanamento dall’aula) gli ostacoli alla tensione verso il bene

comune che deve caratterizzare la formazione della volontà generale, per

il tramite del consigliere - rappresentante.

Peraltro, il problema dell’incompatibilità dei consiglieri assume

particolare rilevanza in materia di pianificazione urbanistica, ove vengono

toccati direttamente o di riflesso interessi assai rilevanti per un’estesa

pluralità di soggetti. Da qui l’alto numero di astensioni dovuto all’incrocio

di parentele ed affinità che, nei comuni di piccole dimensioni o con una

presenza di ceppi famigliari consolidati, riflettono molto spesso una

concentrazione immobiliare in nuclei ristretti.

A superamento di siffatto ostacolo, l’esperienza ha proposto tre

diversi rimedi.

Il primo e più diffuso consiste nell’invocazione da parte dello stesso

consiglio comunale dei poteri sostituivi di regione e provincia, chiedendo

la nomina di un commissario ad acta che adotti i provvedimenti che il

462 Cfr., e pluribus, A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli,

1989, p. 698.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

303

consiglio non è, o non ritiene, in grado di prendere. La soluzione trova

fondamento normativo nell’art. 8, sesto comma, della legge urbanistica

fondamentale del 1942, ove prevede l’intervento del Presidente la Giunta

regionale affinché nomini “un commissario per la designazione dei

progettisti, ovvero per l’adozione del piano regolatore generale o per gli

ulteriori adempimenti necessari per la presentazione del piano stesso

all’Amministrazione regionale”. Il principio viene ripreso dalla

legislazione regionale in materia, così, l’art. 8 della legge regionale

siciliana n. 65/81, oppure l’art. 69 della legge regionale veneta n. 61/85.

In altri termini, la costruzione giuridica in esame propone un

inversione logica e temporale, per cui, anziché attendere l’inerzia

dell’amministrazione locale per la designazione del commissario, è

quest’ultima che ne richiede la nomina, proclamandosi incapace ad

adempiere gli obblighi di legge, invocando l’intervento del potere

sostitutivo affinché il commissario adotti lo strumento urbanistico o quella

sua variante che il consiglio si dichiara non in grado di assumere, stante

l’alto numero di suoi componenti interessati alla questione e, quindi,

soggetti al dovere di astensione.

La soluzione, come anticipato, risulta assai diffusa nella pratica ed è

stata anche autorevolmente avvallata dal Consiglio di Stato, ma non per

questo va meno esente da critiche.463

Sotto il profilo più strettamente positivo, si potrebbe obiettare che la

nomina di un commissario ad acta è prevista dalla legge solo in caso di

accertata inerzia in relazione ad “atti o adempimenti cui è espressamente

obbligato”.464

Tali sono sicuramente l’adozione del P.R.G., ai sensi della

463 Con ampia ed articolata sentenza n. 437 del 23 maggio 1994 (che si può leggere

in “Foro Italiano”, 1995, III, 495), in fattispecie ove i consiglieri comunali versavano in

situazione di incompatibilità in quanto intestatari di terreni ricompresi nel piano regolatore,

la IV sezione del Consiglio di Stato ha ribadito come presupposto dell’obbligo di

astensione, cui sono soggetti i consiglieri comunali in relazione alle delibere cui siano

direttamente o indirettamente interessati, sia il coinvolgimento di un interesse del

consigliere nella questione oggetto della delibera, indipendentemente dai vantaggi o dagli

svantaggi che in concreto ne possano a lui derivare. Peraltro, continua il collegio di

Palazzo Spada, la circostanza che nei piccoli paesi i rapporti di parentela o affinità fra

amministratori ed amministrati costituiscano fenomeno ricorrente ed inevitabile non

esclude, ma rende ancora più pressante, l’obbligo di affidare ad un commissario ad acta,

indicato dalla regione, la predisposizione dei piani di disciplina del territorio, laddove

l’organo consiliare competente non sia in grado di esprimere una maggioranza non

inquinata da interessi personali o familiari.

464 Così, testualmente, per esempio, l’art. 69 della L.R.V. n. 61/85.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

304

L. n. 1150/42465

e di quelle varianti generali di adeguamento agli

strumenti sovraordinati che, per la gerarchia della pianificazione

urbanistica, ben possono ritenersi come atti dovuti. Ne resterebbero

escluse, per esempio, le altre varianti generali e le varianti parziali,

previste rispettivamente dall’art. 49 e dall’art. 50 della L.R.V. n. 61/85,466

465 Le sezioni siciliane del Consiglio di Stato, con sentenza 22 maggio 1990, n. 160

(in “Consiglio di Stato”, 1990, I, 900, s. m.) affermano che l’adozione del piano regolatore

generale costituisce un obbligo del comune, non del sindaco o della giunta o del consiglio

comunale; precisando come la circostanza che il relativo inadempimento sia imputabile

maggiormente ad un organo del comune piuttosto che ad un altro non fa venir meno

l’inadempienza dell’ente considerato nella sua obbiettiva unitarietà e giustifica l’intervento

sostitutivo dell’assessorato a mezzo di un commissario ad acta. Per ulteriori osservazioni

su questa pronuncia, cfr. infra nel testo, nonché nota n. 481.

Indiretta conferma circa la permanenza nel nostro ordinamento della doverosità per

il comune di munirsi di piano regolatore generale si può trarre anche dall’art. 14 della L. n.

109/94, come modificata dalla L. n. 415/98 (“Merloni ter”), ove, il comma ottavo, priva di

qualsivoglia finanziamento per pubblici appalti quei comuni che non essendosi dotati di

strumento urbanistico generale non provvedano entro un anno dall’entrata in vigore della

legge stessa.

466 “Art. 49 -(Varianti generali).

Le varianti del Piano Regolatore Generale sono generali sia quando conseguono a

una modifica del Piano Territoriale Provinciale sia quando la comportano.

Nel primo caso il procedimento di adozione e approvazione è quello stabilito per il

Piano originario. Nel secondo caso la variante, quando sia adottata dal Comune ai sensi

dell'art. 42 e abbia ottenuto il parere favorevole della Provincia, è approvata dal Consiglio

Regionale come variante al Piano Territoriale Provinciale ai sensi dell'art. 37. La stessa è

automaticamente recepita nel Piano Regolatore Generale e nel Piano Territoriale

Provinciale secondo i contenuti dell'approvazione regionale.

In ogni caso non è richiesta l'adozione del progetto preliminare.

Art. 50 - Varianti parziali.

1. Le varianti del piano regolatore generale diverse da quelle dell'articolo

precedente sono parziali.

2. Le varianti generali e parziali indicano nella relazione tecnica gli obiettivi da

perseguire e devono contenere l'aggiornamento dello stato di fatto, la verifica dei rapporti e

limiti di dimensionamento e lo stato di attuazione del piano.

3. Le varianti parziali diverse da quelle elencate ai commi seguenti sono adottate e

approvate con lo stesso procedimento del piano originario, escludendo in ogni caso

l'adozione del progetto preliminare.

4. Sono adottate e approvate dal comune con la procedura prevista ai commi 6 e 7

le varianti parziali che interessano:

a) l'individuazione delle zone di degrado di cui all'articolo 27 della legge 5 agosto

1978, n. 457, e dei perimetri dei piani urbanistici attuativi nonché le modifiche al tipo di

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

305

strumento urbanistico attuativo previsto dal piano regolatore generale purché tali

modifiche rimangano all'interno di ciascuna delle categorie di cui all'articolo 11, comma 1,

numeri 1 e 2;

(si omettono le ipotesi da b a m)

6. Le varianti parziali di cui al comma 4 sono adottate dal consiglio comunale ed

entro cinque giorni sono depositate a disposizione del pubblico per dieci giorni presso la

segreteria del comune e della provincia; dell'avvenuto deposito è data notizia mediante

avviso pubblicato all'albo del comune e della provincia e mediante l'affissione di manifesti,

nonché attraverso altre eventuali forme di pubblicità deliberate dal comune. Nei successivi

venti giorni chiunque può presentare osservazioni alla variante adottata.

7. Il consiglio comunale entro trenta giorni dalla scadenza del termine stabilito per

la presentazione delle osservazioni, approva la variante apportando le eventuali modifiche

conseguenti all'accoglimento delle osservazioni pertinenti e la trasmette alla Regione per la

pubblicazione.

8. La variante approvata acquista efficacia trascorsi quindici giorni dalla

pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto.

9. I comuni dotati di strumento urbanistico generale adeguato alle leggi regionali

31 maggio 1980, n. 80 e 5 marzo 1985, n. 24, nonché ai rapporti e ai limiti di

dimensionamento di cui agli articoli 22 e 25, adottano ed approvano, con la procedura

prevista ai commi 10, 11, 12 e 13, le varianti parziali che:

a) prevedono ampliamenti finalizzati esclusivamente al completamento delle zone

territoriali omogenee esistenti a destinazione residenziale, ovvero modifiche ai parametri

urbanistici delle zone stesse secondo gli indirizzi di cui all'articolo 120 corrispondenti ad

un numero di abitanti teorici, calcolati sui residenti insediati e rilevati alla data di adozione

dello strumento urbanistico generale, come di seguito indicato:

1) non superiore al cinque per cento per i comuni con popolazione fino a 3.000

abitanti

2) non superiore al quattro per cento per i comuni con popolazione compresa tra i

3.001 e i 5.000 abitanti;

3) non superiore al tre per cento per i comuni con popolazione compresa tra i 5.001

e i 10.000 abitanti;

4) non superiore al due per cento per i comuni con popolazione compresa tra i

10.001 e i 15.000 abitanti;

5) non superiore all'uno per cento per i comuni con popolazione compresa tra i

15.001 e i 50.000 abitanti;

6) non superiore al 0,5 per cento per gli altri comuni.

In tali casi deve essere previsto il conseguente adeguamento della dotazione di aree

per servizi;

b) prevedono ampliamenti delle superfici territoriali esistenti e incrementi agli

indici di edificabilità nelle zone a destinazione produttiva, commerciale, direzionale e

turistico ricettiva in misura non superiore al due per cento, delle aree rilevate alla data di

adozione dello strumento urbanistico generale, purché detti ampliamenti non comportino

nuovi accessi alla viabilità esistente e comunque secondo gli indirizzi di cui all'articolo

120;

c) determinano l'adeguamento del piano regolatore generale alle previsioni degli

strumenti urbanistici di livello superiore.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

306

che, dunque, non potrebbero essere adottate da un commissario ad acta, in

quanto questi non sarebbe nemmeno nominabile riguardo ad atti cui l’ente

non sia “espressamente obbligato”. Quest’argomento, tuttavia, ci sembra

provi troppo, poiché in comuni piccoli o con forti ceppi famigliari non

sarebbe possibile procedere ad alcuna pianificazione urbanistica, non

potendosi adottare che le varianti dovute, con evidente inattività dell’ente.

Peraltro, gli atti dovuti, proprio in quanto tali, superano il problema che ci

occupa, cioè quello dell’obbligo di astensione per interesse privato dei

consiglieri comunali, giacché in tali casi la formazione della volontà

dell’ente è già predeterminata nei suoi contenuti dalla legge, sicché in

rapporto a provvedimenti a contenuto strettamente vincolato o

predeterminato, quali le varianti di mero recepimento di atti sovraordinati,

non si pone alcun problema di astensione per interesse personale, giacché

la volontà consiliare non può minimamente incidere sul contenuto di

10. Le varianti parziali di cui al comma 9 sono adottate e pubblicate con la

procedura prevista al comma 6.

11. Il consiglio comunale entro trenta giorni dalla scadenza del termine stabilito

per la presentazione delle osservazioni, si pronuncia sulla variante confermandola o

apportando le modifiche conseguenti all'accoglimento delle osservazioni pertinenti e,

senza necessità di procedere alla ripubblicazione degli atti, trasmette la variante in Regione

per l'acquisizione del parere previsto al comma 12.

12. Il dirigente responsabile della struttura regionale competente, entro il termine

perentorio di sessanta giorni dal ricevimento della variante e accertata la sussistenza dei

requisiti di cui al comma 9, esprime un parere relativamente ai punti 1, 3, 4, 5 e 6

dell'articolo 45, nonché sulla pertinenza delle osservazioni accolte e sulla congruenza della

variante rispetto agli atti di indirizzo previsti dall'articolo 120. Trascorso detto termine

senza che il dirigente si sia espresso, il consiglio comunale procede all'approvazione della

variante prescindendo dal parere.

13. Il consiglio comunale approva la variante urbanistica in conformità al parere

del dirigente responsabile della struttura regionale competente, ovvero formula, entro

sessanta giorni dal ricevimento del parere, opposizione alla Giunta regionale che, nei

successivi novanta giorni, decide definitivamente, approvando o restituendo la variante.

14. La variante approvata, acquista efficacia trascorsi quindici giorni dalla

pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto. (si omettono i commi 15 e

16)”

La lunga citazione (pur con i tagli evidenziati) vuol sottolineare l’attribuzione

dell’attività programmatoria nella disponibilità giuridica della comunità locale, in regime

di diarchia con la regione, per alcune fattispecie, ma in piena autonomia, per altre. Se per

la determinazione in queste materie -importanti, ma non essenziali- vengono valutate la

situazioni giuridiche soggettive del rappresentante e del rappresentato, prevedendo

opportuni (per quanto tecnicamente discutibili) rimedi alle situazioni di incompatibilità,

appare davvero singolare il regime di irresponsabilità dei rappresentanti che acquista

vieppiù maggior ampiezza mano a mano che si sale nell’importanza delle assemblee per

gli interessi che vi vengono trattati

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

307

questi atti. La questione deve essere mantenuta, dunque, all’interno della

categoria degli atti a contenuto non vincolato, ove si esplica la

discrezionalità dell’organo e, in quest’ambito, distinguendo quelli che

sono dovuti da quelli alla cui assunzione l’organo non è obbligato da

precisa disposizione di legge. Escludendo aprioristicamente la nomina del

commissario per tutte le varianti non strettamente “dovute”, non potendosi

svolgere alcuna attività di pianificazione urbanistica, cioè un’autentica

attività di programmazione, che di per sé comporta delle scelte

discrezionali, si perverrebbe comunque alla paralisi di una delle funzioni

(forse la più importante) dell’ente locale. Ed in tal senso, questa seconda

tipologia di atti, ancorché discrezionali, potrebbe essere ritenuta anch’essa

come afferente alla categoria degli “atti dovuti”, in quanto atti che non

possono essere pretermessi, pena il venire meno di uno dei precisi compiti

commessi all’amministrazione comunale dalla legge.467

Sotto altro profilo,

poi, a ben guardare la categoria degli atti dovuti non costituisce un

numerus clausus; sicché la determinazione ultima spetta sempre

all’organo o all’ente che deve nominare il commissario, per cui, con un

approccio pragmatico, se la regione o la provincia nomina il commissario

ad acta, si deve ritenere che vi sia stata una valutazione sulla sua necessità

o, quantomeno, sulla sua opportunità; seppure un tale approccio rimette,

in definitiva, al soggetto deputato alla nomina del commissario l’assoluta

discrezionalità nell’esercizio del potere sostitutivo, ponendo il sostituendo

in una sorta di regime di tutela. La questione, dunque, deve essere ripresa

nella conclusione di questo lavoro.

Sulla scorta di quest’ultima annotazione, sotto il profilo più

squisitamente teorico generale e con riguardo alla teoria della

rappresentanza, si propongono ulteriori osservazioni problematiche.

Da un lato ci si deve chiedere se spetti allo stesso organo

sostituendo la valutazione della propria inidoneità o incapacità

all’adozione dell’atto per il quale viene richiesta la nomina del

commissario, potendosi osservare che l’esercizio dei poteri sostitutivi è

condizionato all’inattività, rectius, alla mancata adozione di un dato

provvedimento in un termine previsto dalla legge o assegnato da un altro

organo. In verità, sembra più congruo e sicuramente più aderente al testo

467 Si è perfettamente consapevoli che siffatto modus procedendi, se portato alle

sue conseguenze, scardinerebbe la tradizionale categoria degli atti dovuti, giacché

finirebbe per farvi rientrare pressoché ogni atto, in quanto esercizio di un potere commesso

per il perseguimento di un determinato compito.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

308

della legge il giudizio del sostituto piuttosto che quello del sostituito,

purché conseguente all’accertata impossibilità di funzionamento entro un

dato termine, prima del decorso del quale il consiglio comunale è ancora

titolare del potere di agire, purgando, per così dire, la mora, e, altresì,

portatore di un dovere di agire, in adempimento delle sue funzioni. Inoltre,

a voler essere rigorosi, nel caso in esame, il consiglio comunale, come non

è in grado di pronunciarsi in ordine alla pianificazione urbanistica,

parimenti non dovrebbe essere in grado di pronunciarsi neppure sulla sua

attitudine o meno a statuire sul punto specifico; sicché l’obbligo

dell’astensione dovrebbe essere totale, impedendo l’intervento del

consiglio su qualsivoglia determinazione teleologicamente connessa con

l’adozione della variante “interessata”. Infatti, così come i consiglieri

toccati da interesse personale debbono astenersi dal concorrere a formare

la volontà dell’organo (e, quindi, dell’ente) attorno alla soluzione

urbanistica prospettata, ugualmente dovrebbero astenersi da una votazione

intorno alla (in)capacità propria dell’organo e che, per conseguenza,

stabilisca una diversa procedura per quella stessa pianificazione

urbanistica: non è men vero che l’interesse privato può estrinsecarsi anche

nel sottrarre al confronto dialettico tra maggioranza e minoranza la

determinazione “interessata”, specie quando, in casi di maggioranze non

particolarmente ampie, le posizioni potrebbero rovesciarsi in conseguenza

di doveri di astensione. Anzi, non appare eccessivo affermare in che in tali

casi, abdicando al proprio ruolo ed alle proprie responsabilità, la

maggioranza “espropria” il diritto della minoranza ad esercitare quel

controllo che le è fisiologico. A ben guardare, infatti, la richiesta di

nomina preventiva del commissario ad acta da parte dello stesso consiglio

comunale si concreta, in sostanza, nella dichiarazione unilaterale della

maggioranza (interessata) sull’impossibilità di funzionamento dell’organo,

a prescindere dal numero di consiglieri effettivamente coinvolti, che

potrebbe anche essere minimo o, comunque, non tale da provocare la

paralisi dell’organo: proprio per questo, supra si è insistito che solo il

decorso del tempo e la scadenza del termine a provvedere giustifica

l’esercizio dei poteri sostitutivi, trattandosi di un chiaro esempio di

rilevanza giuridica del fatto.468

468 È scontato che anche tale più rigorosa costruzione non è immune da abusi,

laddove lo scadere inutilmente del termine può essere artatamente provocato proprio al

fine d’integrare la condizione prevista dalla legge per la nomina del commissario ad acta.

Occorrerebbe, dunque, che la nomina del commissario ad acta fosse preceduta da un

opportuno accertamento attorno all’idoneità dei tentativi compiuti da parte dell’organo

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

309

Non di meno, un volta che il commissario sia stato comunque

nominato, si danno due ipotesi. L’organo straordinario potrebbe limitarsi

ad approvare la variante eventualmente predisposta dall’amministrazione

comunale, prima di dichiararsi “incapace” di procedere all’adozione, ed

allora verrebbe aggirata la norma sull’incompatibilità, poiché lo stesso

risultato verrebbe raggiunto sostituendo un organo ad un altro in relazione

all’atto finale del procedimento amministrativo (l’adozione da parte del

consiglio), una volta che questo sia oramai pervenuto alla sua conclusione

in conformità e secondo l’impronta impressagli dall’amministrazione, che

si limiterebbe solamente ad un’astensione formale (in tutta la sua

interezza, abbiamo visto, sia degli incompatibili che dei “compatibili”),

avendo già concorso ad impartire le scelte volute. In alternativa, il

commissario potrebbe sindacare la soluzione predisposta

dall’amministrazione, riservandosi di farla propria o di apportarvi

modifiche, oppure, ma è ipotesi di scuola, riformulando l’intero progetto

ex novo, giacché difficilmente un organo straordinario e temporaneo

intenderà assumere l’atto di programmazione fondamentale, seppure

normativamente non sia minimamente legato agli orientamenti di

principio eventualmente adottati dal consiglio.469

In tal ultimo caso, poi,

c’è il rischio di svilire il procedimento complesso (binario) della variante

al piano regolatore generale, che prevede un’adozione ed

un’approvazione: qualora anche la prima sia frutto di un organo

straordinario nominato dalla regione, il meccanismo dualista

necessariamente si inceppa.470

Né può considerarsi risolutiva sostituendo al fine di non incorrere nell’inadempimento. Si veda, ad esempio, la pronuncia

del T.A.R. Lazio, sezione I, 6 luglio 1985, n. 836, in “Foro Amministrativo”, 1986, 881,

con sintetica nota di G. SIRIANNI, ove viene riconosciuto che la regione nomina

legittimamente il commissario per l’adozione di un piano regolatore, a mente dell’art. 9

della L. n. 1150/42, allorché il consiglio comunale, seppure convocato come prescritto,

non abbia fatto fronte agli adempimenti relativi nel termine ex lege di trenta giorni, non

bastando a sanare l’inerzia il semplice conferimento dell’incarico al progettista per la

redazione tecnica del piano stesso, quando nel termine di cui sopra non si sia anche

provveduto all’adozione dello stesso strumento urbanistico.

469 Correttamente, la giurisprudenza ha riconosciuto che l’indicazione lasciata dal

consiglio comunale al commissario, mediante l’approvazione di criteri di massima da

seguire nel piano regolatore, non sia per nulla vincolante nei suoi confronti. Cfr. la

decisione del T.A.R. Calabria, sez. Catanzaro, del 6 novembre 1991, n. 706, che si può

leggere in “Foro Amministrativo”, 1992, 2793.

470 Cfr. anche infra alle note n. 481 e 483. Di diverso avviso sembra il T.A.R.

Sicilia, sezione I, Catania, che con pronuncia n. 839, resa lo 11 luglio 1989 (la sola

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

310

l’osservazione che il commissario, pur nominato dalla regione, agisce in

sostituzione del consiglio ed in veste del consiglio, cioè come organo del

comune e non come organo della regione, con i poteri del consiglio

comunale. Questa è la tesi assolutamente prevalente, ripresa anche dal

Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, con la

sentenza 160/90, che si è citata supra in nota, ove afferma che il

commissario ad acta di un comune è un organo straordinario che imputa

all’ente la propria attività anche nell’ipotesi in cui sia nominato

dall’autorità regionale. Non si riesce a capire perché, dunque, da tale

affermazione nella stessa massima venga dedotto che, in forza di tale

premessa, “il comune ha legittimazione ad impugnare il provvedimento di

adozione del piano regolatore adottato dal commissario”. Ci pare che, in

forza del rapporto organico (anche se non di servizio), se la volontà del

commissario ad acta è la volontà dell’ente, non sia data posizione di

alterità sostanziale e, segnatamente, processuale tra commissario e

consiglio in ordine agli atti adottati dal primo in sostituzione del

secondo.471

In più, non si vede come il consiglio possa deliberare in ordine

all’impugnazione dell’adozione del P.R.G. da parte del commissario,

atteso che una tale pronuncia richiederebbe una considerazione sul merito

delle scelte urbanistiche accolte dall’organo straordinario, valutazione che

dovrebbe essere preclusa al consiglio proprio per l’incompatibilità dei

suoi membri, che ha imposto la nomina del commissario. Quand’anche si

volesse osservare che, in caso di deliberazione per l’impugnazione, la

cognizione del consiglio si limita solo ad aspetti di legittimità e non,

quindi, a considerazioni di merito, unico luogo ove si concreta il rischio di

interesse personale e si manifesta l’incompatibilità, non di meno, si deve

rammentare che ogni allegazione del vizio di eccesso di potere per

incongruità dell’iter logico seguito, produce necessariamente una

valutazione sul contenuto dell’atto e sulla consequenzialità tra gli scopi

massima è in “Foro Amministrativo” 1991, 176) afferma che il commissario ad actus ha il

potere di assumere le deliberazioni di competenza del consiglio comunale in materia di

adozione del piano regolatore generale, con la sola preclusione in ordine alle

controdeduzioni alle osservazioni dei privati; l’assessore regionale del territorio e ambiente

conserva, invece, il potere di approvazione del predetto piano senza tuttavia poter

introdurre modificazioni sostanziali ai relativi criteri di impostazione.

471 Sul punto cfr. amplius infra § III.3, ove si approfondisce la figura dell’interesse

legittimo, in distinzione dal diritto soggettivo, nella sua derivazione dall’elaborazione della

Destra hegeliana.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

311

(scelte di fondo) e i mezzi per attuarli; sicché ben difficilmente il consiglio

potrebbe svolgere una discussione ed adottare un atto di volontà senza

involgere aspetti che comportino l’incompatibilità dei propri membri. In

altri termini, per deliberare l’impugnazione della deliberazione promossa

dal commissario, il consiglio sarebbe comunque chiamato a conoscere il

merito del provvedimento (anche solo per valutarne un vizio di stretta

legittimità), riproponendo così quella situazione d’incompatibilità che era

alla radice della nomina del commissario ad acta. Infine, anche la mera

allegazione di vizi di stretta legittimità concreta il dovere di astensione,

atteso che anche il tentativo di caducazione del provvedimento in sede

giurisdizionale può comportare un “interesse personale” per alcuni

consiglieri.

Comunque, per quanto attiene ai profili di rappresentanza, il

commissario, ancorché venga qualificato organo del comune, è pur

sempre nominato dalla regione e non eletto dai cittadini del comune: può

ancora dirsi rappresentante della popolazione, atteso che a questa (tramite

i consiglieri - rappresentanti) spetta il potere di definire la pianificazione

urbanistica?472

L’obiezione non è oziosa, laddove l’adozione da parte di

un “non rappresentante” può produrre una deresponsabilizzazione del

consiglio o della giunta nel dare esecuzione ad un provvedimento

programmatorio che non è loro immediato prodotto. Inoltre, sviluppando

quanto si è detto supra, l’azione del commissario, anche inteso come

organo del comune, spoglia non solo le minoranze, ma ogni consigliere

che non sia incompatibile, del suo apporto, del suo concorso all’adozione

dell’atto, inficiando il meccanismo dialettico tra maggioranza ed

opposizione, assicurando l’integrità del “pacchetto” opportunamente

predisposto prima di invocarne la nomina ed evitando, altresì, la

formazione di maggioranze trasversali. Un tale procedimento, in quanto

mira a sottrarre alla discussione e, quindi, alla competenza del consiglio

l’adozione di un provvedimento commessogli dalla legge, potrebbe essere

fatto validamente oggetto di impugnazione da parte dei consiglieri non

affetti da incompatibilità (sia della maggioranza che della minoranza),

sull’assunto che non ricorrono gli estremi previsti per l’esercizio dei poteri

472 Sul punto, ancora fondamentale M. P. CHITI, Partecipazione popolare e

pubblica amministrazione, Pisa, 1977, specialmente p. 96 e ss. Si confrontino, altresì, le

deduzioni del T.A.R. Sicilia, n. 839/89, citata alla nota n. 470, ove esclude che il

commissario possa procedere all’accoglimento o alle controdeduzioni sulle osservazioni

presentate dai privati.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

312

sostitutivi o, comunque, che non si è proceduto alla loro verifica in

concreto.473

Il che impone, per altra via, di ricercare attentamente le

condizioni di nomina del commissario ad acta.

Il secondo sistema utilizzato per superare l’ostacolo

dell’incompatibilità dei consiglieri consiste nel frazionare il progetto

urbanistico in tante parti quanti sono i consiglieri incompatibili e, quindi,

procedere all’adozione delle singole varianti, con l’astensione, di volta in

volta, del consigliere incompatibile.474

Questo procedimento si ritiene abbia il vantaggio di por meglio al

riparo il consigliere incompatibile da responsabilità di ordine penale,

giacché la pura e semplice astensione nel singolo caso non richiede, come

nell’ipotesi trattata precedentemente, prese di posizione su atti prodromici

e, quindi, finalisticamente collegati.475

Se, formalmente, tale meccanismo

non incide sul normale funzionamento del consiglio, non di meno svilisce

la natura programmatoria dell’atto, impedendo, altresì, la formazione di

una volontà precisa dell’ente, nel senso di volontà aderente ad una corretta

rappresentazione della realtà ed alle sue conseguenze.

Infatti, la frammentazione del provvedimento da adottare sfigura la

programmazione urbanistica, trasformandola da atto generale in

disposizione puntuale e concreta, impedendo la ricostruzione del disegno

473 Per fortuna, la migliore giurisprudenza non sembra dare più credito alla

ritorsione con la quale veniva colpito il consigliere che impugnava un provvedimento

dell’organo o dell’ente di afferenza, sull’assunto che in tal modo si concretava una

condizione successiva di ineleggibilità (la pendenza giudiziaria nei confronti dell’ente),

che avrebbe dovuto portare alla decadenza del consigliere – ricorrente.

474 La tesi è stata autorevolmente sostenuta da I. CACCIAVILLANI, Obbligo di

astensione nell’adozione di strumenti urbanistici comunali e delitto di interesse privato in

atti d’ufficio, in “Giurisprudenza di merito”, 1984, II, p. 1141, che ne individua i limiti

entro i quali può trovare applicazione, con particolare riguardo ai profili di diritto penale.

Pur non riconoscendola pienamente soddisfacente ed in attesa di un invocato chiarimento

dell’Adunanza plenaria, sembra sostanzialmente aderirvi M. OCCHIENA, Adozione di piano

regolatore generale e obbligo assoluto di astensione per i consiglieri interessati, in

“Rivista giuridica dell’edilizia”, 1994, I, p. 1036, nota a C. d. S. sez. IV, 23 maggio 1994,

n. 437. Si limita a riportare la contrarietà della giurisprudenza a tale soluzione N. ASSINI –

PL. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 1997, p. 265.

475 Sebbene è pur vero che l’artata singola astensione reciproca possa apparire

come indice di collaborazione tra consiglieri nell’identico disegno, al fine di eludere la

norma sull’astensione per incompatibilità, riproponendo quei profili penalistici che si

volevano evitare.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

313

originario.476

Di più; le singole varianti, nella loro puntualità potrebbero

presentarsi come legittime ed opportune, mentre il disegno unitario che vi

è sotteso, risultante dalla loro approvazione, potrebbe dimostrarsi o

illegittimo o inopportuno. In questo modo, infatti, la regione non sarebbe

in grado di valutare l’intera scelta programmatoria del comune, né di

esercitare puntualmente il suo ruolo di controllo, efficacemente aggirato

dal disegno dissimulato. A mero titolo d’esempio, si pensi ad una

violazione dei dimensionamenti perpetrata tramite una serie successiva di

varianti parziali, tutte di per sé condivisibili: verosimilmente il sindacato

repressivo regionale potrebbe intervenire solo nel momento di valutare

quel provvedimento che scopre il disegno, magari superando i limiti di

legge nella proporzione tra le diverse destinazioni. In ogni caso, un tanto

non potrebbe inficiare le varianti, pur teleologicamente collegate, che

siano già state approvate, salvo, ovviamente, l’intervento del giudice

penale, laddove ne ricorressero i presupposti.

Altresì, siffatta procedura, come si è detto, solo formalmente

rispetta la struttura del collegio ed il suo ruolo rappresentativo, in quanto

viene presentata ai consiglieri non la vera proposta che si intende

sottoporre all’organo, bensì un aliquid novi, atteso che in questo caso la

somma delle parti non equivale al tutto, ovvero, fuor di metafora, la

somma delle varianti non corrisponde al disegno programmatorio generale

ad esse sotteso;477

non tanto per quanto attiene agli effetti, ché, anzi, questi

sono stati raggiunti, bensì per quanto riguarda la rispondenza di quegli

effetti ad un reale volontà dell'ente, che non può essersi convenientemente

formata, in assenza di una precisa rappresentazione della realtà. In altre

476 Non è il caso di riprendere l’articolata questione intorno alla natura del piano

regolatore generale, inteso come atto regolamentare a contenuto essenzialmente normativo,

oppure come provvedimento, a contenuto più dispositivo. Sul punto, si rinvia al

fondamentale contributo di LE. MAZZAROLLI, I piani regolatori urbanistici nella teoria

generale della pianificazione, Padova, 1966, specialmente p. 405 e ss.; più recentemente,

oltre alle voci delle enciclopedie ed ai manuali di GC. MENGOLI, di G. ORSONI, di F.

SPANTIGATI, cfr. M. PALLOTTINO, Problemi ed aspetti del piano regolatore generale, in

“T.A.R.”, 1984, II, p. 215.

477 In altri termini, la fattispecie all’esame può essere paragonata ai raggruppamenti

di disposizioni normative in un articolo di centinaia di commi, da votare nella sua

interezza, oppure in quei provvedimenti aventi forma di legge, ma privi dei caratteri della

generalità ed astrattezza, per assumere quelli della puntualità e concretezza più acconci al

potere esecutivo che non al legislativo; l’esperienza giuridica si è incaricata di fornire

esempi di ambo i tipi.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

314

parole, secondo i termini tradizionali della teoria generale del diritto, non

essendoci stata la completa rappresentazione della realtà (mercé la

parcellizzazione del provvedimento, sostanzialmente diverso dalla sua

unità), non può dirsi esservi stata nemmeno la rappresentazione degli

effetti, occultati dalla presentazione “a rate” della proposta, dacché se il

progetto fosse stato presentato nella sua interezza, la valutazione

veramente complessiva sarebbe stata senza dubbio diversa e, magari,

avrebbe portato ad un risultato differente; certo è che l’iter di formazione

della volontà sarebbe stato un altro, quantomeno per l’astensione

(simultanea) di tutti i consiglieri affetti da incompatibilità. Il che dimostra,

per altra via, per quanto ce ne fosse ancora bisogno, come il regolamento

del collegio, la procedura (la forma, se si vuole), incida sulla sostanza

degli atti. Ora, se appare un dato acquisito che laddove l’obbligo di

astensione sussista, la sua violazione è causa di illegittimità dell’atto che

sia stato assunto con la partecipazione al voto del consigliere che

dall’obbligo in questione era gravato, ci si deve chiedere quale sorte debba

toccare all’atto dissimulato comunque assunto, venuto ad esistenza con il

concorso della volontà di coloro che avrebbero dovuto astenersi, se esso

fosse stato presentato in forma palese, nella sua interezza, manifestando

gli effetti completi della sua adozione. Orbene, la dogmatica tradizionale

ci insegna che se l’atto dissimulato (qualora consapevolmente voluto, ma

già di tale circostanza v’è ragione di dubitare nel nostro caso) è lecito,

esso ha prevalenza sull’atto simulato. Non così se concreta un atto in

frode alla legge.478

È evidente che se la variante fosse stata presentata

nella sua interezza si sarebbe concretata l’incompatibilità simultanea di

tutti i consiglieri interessati, con la conseguenza di alterare la maggioranza

e, magari, di arrivare all’impossibilità di funzionamento dell’assemblea.

Qualora si vinca la prova di resistenza, si deve concludere che l’atto

dissimulato sarebbe caduto sotto la sanzione della norma sulla

incompatibilità e, quindi, sarebbe illegittimo; ed il problema si sposta

dunque sulla prova della contrarietà dell’iter alle disposizioni

dell’ordinamento.

Il terzo sistema per far fronte all’astensione per incompatibilità dei

consiglieri comunali consiste nella previa individuazione dei componenti

478 Peraltro, a nostro avviso, nell’esempio riportato nel testo, la violazione è

triplice: interessando sia il carattere generale e programmatorio che debbono rivestire le

varianti allo strumento urbanistico (non a caso denominato) generale, sia la verifica da

parte della regione, sia l’obbligo di astensione.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

315

tenuti all’astensione, provvedendo, in eventualità di carenza di quorum

strutturale del consiglio comunale, ad una seconda convocazione, ove il

consiglio può deliberare con un numero ridotto di componenti. Si deve

ricordare, infatti, che l’ancor vigente art. 127 del già citato R.D. 4 febbraio

1915, n. 148 dispone che i consigli comunali non possono deliberare se

non interviene la metà del numero dei consiglieri assegnati al comune;

però, alla seconda convocazione, che avrà luogo in altro giorno, le

deliberazioni sono valide purché intervengano almeno quattro membri. Di

primo acchito può sembrare infelice la soluzione di far commettere alla

volontà di quattro persone (e, quindi, alla maggioranza di tre) l’adozione

degli atti fondamentali di pianificazione urbanistica.479

Non di meno, si

consideri che nei comuni maggiori il numero dei consiglieri “compatibili”

sarà verosimilmente ben superiore al minimo di legge, mentre nei comuni

minori si tratta di un quorum proporzionalmente non irrilevante in

confronto al numero di consiglieri assegnati all’ente; ed è proprio in questi

ultimi comuni che si concreta più facilmente il fenomeno

dell’incompatibilità. Certo, de jure condendo, sarebbe più opportuno

prevedere il quorum della seconda convocazione non in cifre assolute, ma

con un numero proporzionale ai consiglieri assegnati all’ente.

È evidente che in caso di fallimento del secondo tentativo non resta

che ricorrere alla nomina del commissario ad acta. 480

Tuttavia, la

differenza con la prima soluzione esaminata sopra non è meramente

formale. Infatti, solo in quest’ultimo caso viene rispettata la struttura

rappresentativa del consiglio e la nomina del commissario risulta ancorata

ad un più oggettivo riscontro di impossibilità di funzionamento

479 Giudica irrisorio il numero dei consiglieri per il quorum della seconda

convocazione e critica il mantenimento in vigore della norma da parte dell’art. 64, comma

1, lett. b) della L. n. 142/90 P. VIPIANA, commento all’art. 31, in C. MIGNONE – P. VIPIANA

– P.M. VIPIANA, Commento alla legge sulle autonomie locali, Torino, 1993, p. 347. Come

si precisa nel testo, la questione assume diversi aspetti secondo il caso concreto, nella

varietà dei quasi ottomila comuni d’Italia. Seppure è da auspicarsi un riferimento non in

termini assoluti, ma proporzionali, che sarebbe anche più confacente al carattere

rappresentativo dell’organo; aspirazione comunque tradita dalla L. n. 265/99.

480 La prima sezione del T.A.R. Veneto, con sentenza n. 900 del 19 maggio 1997,

ha statuito che un comune non possa chiedere alla provincia la nomina del commissario ad

acta senza prima aver esperito il tentativo di procedere all’adozione in seconda

convocazione ai sensi dell’art. 127 del R.D. n. 148 del 4 febbraio 1915.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

316

dell’organo fisiologicamente deputato all’assolvimento

dell’incombenza.481

481 Nella precitata sentenza n. 900/97, il T.A.R. Veneto riconosce la natura di

extrema ratio alla nomina del commissario, che, quale “organo monocratico straordinario”,

indubbiamente (ma inevitabilmente) altera i rapporti di rappresentanza dell’organo

collegiale, seppure, con acutezza, è lo stesso collegio a precisare che “la questione non

involge affatto i principi che regolano i rapporti di rappresentanza politica e la dialettica tra

la pluralità di interessi di cui sono portatori i singoli componenti il collegio politico. Anzi è

vero il contrario perché, se non è possibile raggiungere il quorum necessario in prima

convocazione, a maggior ragione se la causa va ricercata nella incompatibilità di alcuni

consiglieri, la cui partecipazione alla seduta determinerebbe altrimenti l’invalidità della

deliberazione, e se non fosse possibile nemmeno ricorrere alla seconda convocazione,

allora l’unica soluzione resterebbe la nomina di un commissario ad actus. Ma in

quest’ultima ipotesi la variante urbanistica non sarebbe più affidata alla volontà del

collegio (pur col quorum ridotto), ma alla decisione di un organo monocratico

straordinario” (con sottolineatura nostra). La pronuncia, peraltro, non prende posizione

sulla vexata quaestio indicata supra nel testo, in ordine all’alterità tra i due organi e sulla

legittimazione del consiglio a promuovere giudizio avverso il provvedimento del

commissario.

Il tema è stato invece affrontato dalla seconda sezione del T.A.R. Bari, ove

argomenta diffusamente che il commissario non deve intendersi come organo, neppure

straordinario, dell’amministrazione attiva, né come organo di controllo, bensì dev’essere

visto quale organo del giudice dell’ottemperanza, sia che venga scelto direttamente dal

collegio giudicante, sia che venga individuato “per interposta persona”, sicché avverso il

suo operato è ammissibile il reclamo secondo le forme di ottemperanza del giudicato, per

verificarne la conformità alla pronuncia giudiziale (così T.A.R. Bari, Sezione II, n. 861 del

17.11.1998, Pres. Corasaniti, Est. Spagnoletti, in “T.A.R.”, 1999, n. 3, p. 1108).

La tesi, invero suggestiva, rafforza la posizione del giudice nel controllo

dell’esecuzione del giudicato o della cautela (anche prima dell’inoppugnabilità

dell’ordinanza cautelare), ampliando anche i rimedi esperibili dal ricorrente di fronte alla

protervia dell’amministrazione soccombente (magari in fase cautelare) nel dare attuazione

ai disposti del giudice. Non di meno una costruzione siffatta apre seri dubbi in ordine al

principio di divisione dei poteri ed alla legittimazione dell’amministrazione soccombente

di ricorrere avverso l’operato del commissario ad actum. Infatti, per la tradizionale

definizione di “organo” contrapposto ad “ente”, secondo l’esposizione resa nel testo (cfr.

supra II.3.5), la configurazione del commissario quale organo del collegio conduce

irreversibilmente verso il riconoscimento della volontà del collegio, tramite il suo organo,

a fondamento dell’atto amministrativo attivo emanato in conseguenza della pronuncia

giurisdizionale, sia essa cautelare o definitiva. E ben si può ripetere, allora, secondo

l’intuizione della dottrina d’oltralpe, che juger de l’administration c’est administrer.

Peraltro, se il commissario ad actum non viene qualificato come organo, neppure

temporaneo e straordinario, dell’amministrazione attiva, per essere rappresentato come

organo del giudice, acquista un argomento a proprio favore la posizione che ammette la

legittimazione dell’amministrazione a ricorrere avverso l’atto compiuto dal commissario.

In questo caso, infatti, il commissario non esprime la volontà dell’ente, del quale non

sarebbe organo; sicché sarebbe superata la contraddizione evidenziata supra nel testo e alla

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

317

Infatti, anche quelle posizioni esaminate sopra che tematizzano il

diritto ad essere rappresentante come situazione giuridica soggettiva

attiva, processualmente tutelabile,482

non possono non riconoscere

nell’interesse privato dell’eletto un ostacolo giuridico all’esercizio di quel

diritto e, per converso, un deficit temporale di rappresentanza rispetto a

quegli elettori che tale consigliere hanno scelto; circostanza –si badi bene–

che si verifica pur sempre secondo un’eventualità prevista ed accettata.

Anzi, solo la prova dell’impossibilità di deliberare tanto in prima, quanto

in seconda convocazione, denotando l’inattitudine del collegio a statuire

sul punto, concreta in realtà una sottrazione oggettiva ex post della materia

specifica all’attribuzione dell’organo, secondo la tesi tradizionale per la

quale la sostituzione darebbe luogo al formarsi di una competenza

straordinaria, a lato di una competenza ordinaria, ponendo un rapporto tra

organi caratterizzato dall’alternatività della loro competenza,

relativamente ad una branca di attività o limitatamente ad alcuni o ad un

solo affare, pertinente al fascio di attribuzioni fisiologicamente commesse

al sostituito. Per quanto nel caso di sostituzione parziale, qual è quella in

esame, si deve rilevare che posizioni meno recenti abbiano sostenuto che

il commissario non divenga organo dell’ente presso il quale è inviato, ma

sia organo dello Stato (o della regione) e suo rappresentante,

sull’osservazione che in caso di sostituzione parziale la funzione

commissariale si esaurisce nel compimento di uno o più atti del sostituito

ed un tanto impedirebbe “che il commissario stesso assuma la

configurazione strutturale di elemento dell’ente minore”, ritenendo non

sufficiente allo scopo l’istituzione di un singolo rapporto, occorrendo

invece che si stabilisca una serie continua e varia di rapporti tra l’ente e

nota n. 465. Non di meno, per questa via, si viene a fornire un mezzo all’amministrazione

inadempiente proprio per affrancarsi dal provvedimento impostole dal commissario. Per

parte nostra riteniamo che seppure orami dottrina e giurisprudenza sono concordi

nell’ammettere legittimazione processuale di un organo nei confronti dei provvedimenti di

un altro organo, tale posizione di alterità sostanziale e processuale non possa darsi tra

organo sostituto e organo sostituito; sicché, come già detto, il consiglio non può agire nei

confronti del commissario, in quanto la volontà di quest’ultimo tiene luogo della volontà

del primo, cioè la volontà del commissario è la volontà del consiglio.

482 Cfr. N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della

Costituzione, Milano, 1991, p. 288 e ss., ove, come si è detto, viene affermata la possibilità

di tutela del divieto di mandato imperativo, come diritto a rappresentare, sollevando

conflitto di attribuzione di poteri. Il diritto ad essere rappresentante si estende anche ai

membri delle assemblee elettive diverse dal Parlamento nazionale.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

318

l’ufficio che agisce in sua vece.483

Come si è già detto, in accordo al

consolidato orientamento giurisprudenziale, ci pare che la configurazione

del commissario come organo straordinario dell’ente produca

l’imputazione degli atti (e non dei meri effetti materiali) all’ente stesso.

Se, tuttavia, la sostituzione non produce una sottrazione sia pure

temporanea delle attribuzioni conferite all’ente, parrebbe logico

concludere che il commissario ad acta sia da qualificare, anziché quale

organo straordinario dell’ente, come titolare straordinario dell’organo, in

luogo del titolare ordinario delegittimato in ragione dell’incompatibilità.484

Quest’ultima tesi dà conto anche delle questioni di rappresentanza

politica. Per questa via, infatti, anche la minoranza non viene espropriata

del suo ruolo fisiologico di controllo, dacché la declinazione di

competenza a favore del commissario non è frutto di una determinazione

precostituita, bensì dell’oggettivamente riscontrabile insufficienza di

consiglieri atti al voto, che esclude di per sé ogni fisiologica dialettica

all’interno del consiglio.

La conseguenza che se ne può trarre è che in tal caso, a differenza

di quanto visto sopra, non sembra sussistere in capo ai consiglieri alcuna

legittimazione ad agire avverso la deliberazione (se esistente) che,

prendendo atto degli esiti negativi della prima e seconda convocazione,

sollecitasse la nomina dell'organo straordinario, con il solo fine, dunque,

di stimolare la regione o la provincia ad usare un potere per il cui esercizio

si è verificata comunque la condizione prevista dalla legge. Per converso,

la deliberazione consigliare che richiede l’intervento della regione o della

provincia, nell’esercizio dei poteri sostitutivi, sarà legittima solo ove

dimostri l’inefficacia dei tentativi effettivamente svolti per procedere

483 Così L. TUMIATI – G. BERTI, voce Commissario e commissione straordinaria, in

“Enciclopedia del Diritto Giuffré”, vol. VII, Milano, 1960, p. 842 e ss., specialmente p.

846. Siffatta costruzione, peraltro, darebbe conto della legittimazione al ricorso del

consiglio nei confronti del provvedimento adottato dal commissario in sua vece, sostenuta

dal Consiglio di Giustizia nella pronuncia, citata supra alla n 15. Critico sul punto,

proponendo una terza soluzione, F. BENVENUTI, I controlli sostitutivi nei confronti del

Comuni e l’ordinamento regionale, in “Rivista Amministrativa”, 1956, p. 241, affermando

che anche nell’ipotesi di sostituzione parziale l’organo sostituente non agisce in forza di

una competenza sua propria, sostenendo che l’attività di controllo sugli atti possa

svilupparsi in senso surrogatorio o modificativo degli atti controllati; seppur resta da

vedere se nel caso all’esame può parlarsi (e in che termini) di posizione di controllo della

regione nei confronti dei comuni.

484 Cfr. G. SIRIANNI, nota a T.A.R. Lazio, 6 luglio 1985, cit.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

319

all’adozione del provvedimento di programmazione urbanistica da parte

del consiglio.

Si può allora concludere che il diritto ad agire ed a rappresentare

debba cedere di fronte a quelle circostanze ove il suo esercizio

pregiudicherebbe il diritto degli elettori ad essere rappresentati. Questa e

non altra, ci sembra, debba essere considerata la ratio dell’astensione,

intesa come la momentanea inidoneità dell’eletto al compito che gli è

stato affidato, circostanza che comporta la rinunzia del proprio potere ad

agire, dimostrando, per quanto ce ne fosse bisogno, la circoscrizione di

quest’ultimo (quasi un actio finium regundorum) in ragione del diritto

degli elettori ad essere rappresentati. E questo aspetto, ci pare, accomuna

maggioranza e minoranza, giacché il dovere di astensione non conosce

distinzioni di ruoli.

Ma come si qualifica a parte objecti, cioè nei confronti degli

elettori, la violazione del dovere di astensione (ovviamente a prescindere

dall’illegittimità dell’atto confezionato in violazione del dovere di

astensione? Se infatti il dovere di astensione, come limite al diritto ad

essere rappresentante, trova fondamento nel diritto degli elettori ad essere

rappresentati, la violazione del primo non può che costituire un vulnus del

secondo, con due riflessioni. Da un lato, viene così svelandosi quello che

sarà il tema dell’ultimo paragrafo di questo lavoro, cioè la correlazione

sinallagmatica che si costituisce tra le situazioni di diritto – dovere a

rappresentare e diritto ad essere rappresentati, come conseguenza della

scoperta struttura dualistica della rappresentanza, che, come ripetuto a

sazietà, richiede l’esistenza di un rappresentante e di un rappresentato.

Dall’altro, si impone di verificare se e quale tutela sia accordata

all’elettore, venendo così a circoscrivere la sua posizione giuridica

soggettiva anche in relazione alle azioni esperibili o agli altri mezzi di

tutela delle proprie posizioni. Sotto quest’ultimo aspetto si potrebbe subito

dire che un primo strumento di tutela dell’eletto è dato dall’azione degli

altri rappresentanti: la denuncia dell’incompatibilità potrebbe provenire

dai colleghi che, rilevandola, sollevano la questione in assemblea. Si

tratterebbe di un mezzo indiretto, cioè dell’azione degli elettori a tutela del

proprio “diritto” ad essere rappresentati per il tramite di altri

rappresentanti. Tuttavia questa soluzione si espone alle stesse critiche che

verranno mosse alla tesi esaminata nel paragrafo successivo, che identifica

la caratteristica della rappresentanza politica nella dialettica tra

maggioranza ed opposizione. La soluzione infatti si presenta labile, poiché

prevede la tutela del rappresentato per il mezzo dell’opera di un eletto per

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

320

il quale, magari, il tutelando non ha votato, sicché egli si troverebbe nella

singolare posizione di dover essere “rappresentato”, per far valere le sue

ragioni nei confronti del proprio rappresentante, da chi non ha “scelto”.

Sotto il profilo pratico, poi, la tutela è accordata e si fonda sulla sola

coscienza della minoranza nel rilevare e denunciare la violazione. Ma,

com’è noto, la minoranza potrebbe non essere così sensibile al suo ruolo o

abdicarvi per convenienze. Si potrebbe teorizzare allora la sussistenza di

un interesse proprio dell’elettore in quanto tale alla regolarità della

procedura nelle deliberazioni del collegio rappresentativo. Tuttavia, allo

stato, siffatto rimedio si concreta in un ricorso al giudice amministrativo

per far valere un interesse legittimo, inteso non solo quale interesse al

rispetto della mera legalità, cioè delle procedure deliberative come

determinate dalla legge, bensì con l’ulteriore elemento, visto come

interesse al ricorso e condizione dell’azione, costituito dal vantaggio

apprezzabile, attuale e concreto che deriva al ricorrente dalla rettificazione

del vizio lamentato. Secondo questa prospettiva, dunque, potrebbero

denunciare la violazione del dovere di astensione solo quei rappresentati

che siano nel contempo portatori di un interesse attuale e concreto,

traducentesi in un beneficio apprezzabile, per l’annullamento dell’atto

prodotto dalla deliberazione nella quale si è verificata la violazione

dell’obbligo di astensione. Sicché questo tipo di rimedio sarebbe

consentito solo a quei rappresentati che siano lesi in modo ulteriore e

qualificato dalla mancata astensione del loro rappresentante. Per converso,

non si può far a meno di osservare come simile tutela sia accordata anche

a coloro che siano immediatamente danneggiati dal provvedimento frutto

della deliberazione presa senza l’astensione dei consiglieri incompatibili,

pur se non rivestono la qualifica di “rappresentati”. Per continuare

nell’esempio fatto sopra, legittimati al ricorso saranno anche coloro che,

pur non facendo parte del corpo elettorale, abbiano in quel dato territorio

delle proprietà che vengono svilite dalla variante allo strumento

urbanistico illegittimamente adottata per violazione del dovere di

astensione. Sicché viene da osservare come, in realtà, la tutela sia

accordata al singolo non tanto come “rappresentato”, bensì, nel nostro

esempio, in quanto proprietario o, più in generale, in quanto portatore di

un diverso interesse leso non dalla mancata astensione in quanto tale,

bensì dal provvedimento che ne è stato il prodotto. In altri termini, si deve

concludere che, allo stato, la tutela alle ragioni dei rappresentati è

accordata solo in modo assai debole e del tutto riflesso, sia mediante

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

321

l’intervento di un altro rappresentante, sia mediante la coincidenza in capo

al rappresentato di altre posizioni autonomamente tutelate.

Per parte nostra, altrove485

avevamo avanzato l’ipotesi che la stessa

violazione dell’obbligo di astensione fosse lesione non solo del mero

generico interesse al rispetto della legalità, ma costituisse di per sé

violazione di un interesse meritevole di tutela, direttamente tutelabile con

azione autonoma esercitabile da qualsiasi elettore, sull’argomento per cui

la disposizione legislativa che impone l’obbligo di astensione e di

allontanamento dall’aula dei consiglieri interessati sia posta in favore

(anche) del corpo elettorale, con possibilità di ricorso quindi, senza

necessità di ulteriori condizioni all’esercizio dell’azione. In altri termini,

per questa via si poteva affermare l’esistenza quantomeno di un interesse

legittimo ad essere rappresentati, esercitabile nei confronti dei

rappresentati, seppur nelle assemblee degli enti minori e limitatamente

alla violazione dell’obbligo di astensione. Rimandando quest’aspetto al

paragrafo successivo, occorre però subito dire che le cose sembrano

destinate a complicarsi alquanto, visto il recente intervento del legislatore

proprio in subjecta materia.

In fatti, con legge n. 265 del 3 agosto 1999, intitolata Disposizioni

in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche

alla legge 8 giugno 1990, n., 142,486

si è voluto, tra l’altro disciplinare lo

status degli amministratori locali, come recita il capo III. Più in

particolare l’articolo 19, rubricato condizione giuridica degli

amministratori, dopo aver ribadito pedissequamente il dovere di

astensione già contenuto nel R.D. n. 148/15, precisa che tale obbligo non

si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali piani

urbanistici, se non nei casi i in cui sussista “una correlazione immediata e

diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi

dell’amministratore” o di parenti o affini fino al quarto grado. Il comma si

completa con il divieto di esercitare professione in materia edilizia

pubblica e privata nel territorio di pertinenza, per gli esponenti della

giunta con deleghe in materia urbanistica, edilizia e di appalti. Il secondo

comma, che più ci interessa, dispone che in caso di piani urbanistici, ove

la “correlazione immediata e diretta” di cui al comma 1 sia stata

485 Nella Rivista edita sotto gli auspici della Regione del Veneto, “Il diritto della

Regione ”, n. 1-2, 1999, p. 135 e ss.

486 Pubblicata in G.U. n. 186 del 6 agosto 1999 (supplemento ordinario).

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

322

dimostrata con sentenza passata in giudicato, le parti di strumento

urbanistico che costituivano oggetto della correlazione sono annullate e

sostituite mediante nuova variante urbanistica parziale. Durante

l’accertamento di tale stato di correlazione immediata e diretta tra il

contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di

parenti o affini “è sospesa la validità” (efficacia?) delle relative

disposizioni del piano urbanistico. L’articolato meccanismo si traduce in

sostanza in un’abdicazione del ruolo normativo in favore del mutevole

metro giurisprudenziale (si ricordi il sarcastico humor inglese sul piede

del Lord Cancelliere, assunto come fonte dell’Equity), mercé la vaghezza

della dicitura “correlazione immediata e diretta”, che demanda alla

valutazione del caso singolo da parte del giudice -con probabili disparità

di trattamento- la circoscrizione del dovere di astensione, secondo una

formula di definizione a contrariis, non esaustiva, ma sempre integrabile,

propria di una tecnica legislativa cui siamo ormai abituati.487

A prescindere comunque dalle incongruenze del testo normativo e

dai problemi sistematici, segnatamente processuali, che ne conseguiranno,

un aspetto appare interessante per le tesi che avevamo proposto e che, per

qualche verso, ci sembrano sostenere anche il maldestro intervento del

legislatore, oppure –quantomeno- consentirne una lettura più lineare. Si

potrebbe leggere l’azione popolare come strumento più efficace per

colpire la commistione di interessi concretatasi in capo al consigliere che,

pur dovendolo, non si sia astenuto; oppure, il rapporto processuale tra le

parti -consigliere e quivis de populo del comune- potrebbe leggersi come

tutela di qualcosa, di un aspetto sostanziale sottostante che lega le parti.

Nell’azione popolare crediamo di poter vedere un riconoscimento

autonomo del bene giuridico dato dal rapporto tra rappresentante e

rappresentato. Si tratterebbe, in sostanza di un’azione diretta a porre

rimedio alla violazione del rapporto di fedeltà tra eletto ed elettore, che si

è incrinato nel momento in cui il primo, di fronte ad una situazione di

incompatibilità, non ha declinato il proprio diritto a rappresentare in

considerazione della propria (momentanea) inidoneità ad adempiere

all’obbligo di rappresentare, nei confronti, cioè, del diritto dell’elettore ad

487 Questa ed altre osservazioni nelle acute note di commento prima facie di F.

VOLPE, Strumenti urbanistici, incompatibilità degli amministratori e tutela giurisdizionale.

(A proposito dell’art. 19 della recente legge sugli enti locali), in “Rivista di Urbanistica”,

1999, p. 489 e ss., il quale, con la consueta precisione, solleva il problemi dell’attribuzione

di giurisdizione, della legittimazione all’azione, della natura della sentenza, dei rapporti tra

questa ed atto amministrativo, nonché dei relativi corollari.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

323

essere rappresentato. A questa conclusione si può arrivare in forza di

almeno due argomenti. Non crediamo di poter vedere nell’azione popolare

un mero strumento per consentire il perseguimento dell’ordine pubblico

per due ragioni: da un lato, nessuna sanzione viene irrogata al consigliere

che abbia violato l’obbligo di astensione, lasciando dunque la questione

all’interno del rapporto fra i due, senza intromissione dall’altro per la

tutela di un interesse “pubblico” assistito dalla sanzione; dall’altro, la

limitazione dello jus actionis accordato solo agli iscritti presso le liste

elettorali comunali, con esclusione di chi abbia subito la lesione di un

proprio diritto soggettivo od interesse legittimo, vanifica la possibilità di

“delazione”, escludendovi quei soggetti che possono essere più sensibili

perché direttamente toccati, e circoscrive l’azione solo all’interno di

coloro che sono “rappresentati” dal consiglio. È evidente che se l’azione

popolare fosse stata concepita come strumento per rendere più efficace

l’azione repressiva non vi sarebbe stata regione di escludervi i soggetti

direttamente o indirettamente lesi non iscritti nelle liste elettorali del

comune, giacché in tal modo si sminuisce molto l’operatività del sistema

repressivo, lasciando insomma la questione dell’astensione nelle mani

delle “parti” del rapporto: rappresentati e rappresentanti. Sotto altro

profilo, con questa azione non si colpisce l’atto se non di riflesso. Infatti, i

proprietari non iscritti potranno far valere l’azione ordinaria sulla

legittimità dell’atto; altri, quindi (abbiano votato o meno), agiscono per

violazione del rapporto; si tratta di due beni giuridici diversi e del

riconoscimento, a fianco della legittimità degli atti, della rilevanza per

l’ordinamento della regolarità dei rapporti.

Possiamo così raccogliere un ulteriore tassello, che dovrà trovare

sistemazione alla fine di questo lavoro, riconducendo la violazione del

dovere (obbligo) di astensione del consigliere incompatibile nel novero

delle fattispecie di violazione degli obblighi del rappresentante nei

confronti dei rappresentati (elettori). Per questa via, in caso di violazione,

si deve ammettere la legittimazione attiva di ogni membro del collegio

elettorale, o del corpo elettorale per gli enti minori –a prescindere dal

verificare per chi egli abbia effettivamente votato ed anche nel caso che

non si sia recato alle urne- in quanto risulta comunque rappresentato dal

consigliere (o deputato) non astenuto. In altri termini, il fondamento

dell’interesse ad agire consiste nell’utilità che trae il rappresentato alla

rinnovazione della votazione (che magari potrà portare allo stesso risultato

anche con l’astensione dell’incompatibile violatore), giustificata dal solo

fatto della violazione dell’obbligo di fedeltà del rappresentante,

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

324

manifestatosi concretamente nel mancato rispetto dell’obbligo giuridico

all’astensione. Per questa via, crediamo, si risolve anche il problema della

tutela dei proprietari di aree non iscritti nelle liste elettorali del comune (o

del collegio): questi ultimi sono legittimati al ricorso secondo le regole

generali di cui all’art. 100 c.p.c. e, quindi, solo quando possano affermare

un interesse attuale e concreto che si traduca in un beneficio. Per

continuare nell’esempio fatto sopra, fra tutti i proprietari non elettori

saranno legittimati solo coloro che dallo strumento subiscano una lesione

giuridicamente apprezzabile (area edificabile trasformata in verde

pubblico) dei loro beni. Sicché, in conclusione, gli elettori agiscono per

violazione (non del mandato, ma) del rapporto rappresentativo, i non

elettori in conseguenza della lesione delle loro situazioni giuridiche

soggettive che, con le recenti novelle, può comportare anche il

risarcimento per il danno subito.488

Non osta alla costruzione proposta la

circostanza che in entrambi i casi (elettori o non elettori) il ricorso si

diriga nei confronti dell’ente che abbia emanato l’atto prodotto con il

contributo del consigliere astenendo e non contro quest’ultimo, cioè chi

abbia direttamente violato il dovere di astensione. Infatti, ci pare, il

rapporto fiduciario che riteniamo di individuare tra elettore ed eletto non

risulta incompatibile con il rapporto organico che si viene a costituire tra il

consigliere e l’ente di afferenza alla formazione della cui volontà egli

concorre. La questione si spiega con il carattere oggettivo della

giurisdizione, fino a poco tempo fa assolutamente dominante nella

dottrina processuale amministrativa ed ancor oggi fornita di ottimi

argomenti, non ostante le critiche mossele.489

Inoltre, questa soluzione è

488 Com’è noto, il D.Lgs. n. 80 del 31.3.1998, dopo aver devoluto alla giurisdizione

del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi (33) e di

urbanistica ed edilizia (34), al primo comma dell’art. 35 dispone che nelle materie devolute

alla sua giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo dispone, anche attraverso la

reintegrazione forma specifica il risarcimento del danno ingiusto. Con tempismo

encomiabile, a poco più di un anno dall’entrata in vigore della novella, la Suprema Corte

di Cassazione, con la nota sentenza n. 500/99, invertendo il proprio orientamento

consolidato, ha addirittura ampliato la portata della norma, sancendo la risarcibilità anche

di figure giuridiche soggettive ulteriori al solo diritto soggettivo. Sul punto confronta le

ancora attuali osservazioni di Enrico Guicciardi nei contributi citati alla nota n. 525 e 535.

489 Per le diverse prospettive, cosiddette oggettiva e soggettiva, sulla giurisdizione

degli interessi legittimi, cfr. infra al § successivo. Nel caso concreto giova puntualizzare

che l’azione giurisdizionale mira a censurare la violazione del divieto di astensione

mediante l’annullamento dell’atto viziato, contro il quale si dirige in via diretta,

instaurando un giudizio sugli atti, più che sui rapporti. E proprio questo, secondo quanto si

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

325

sostenuta anche da un argomento a contrariis, giacché un’interpretazione

diversa della legge comporterebbe conseguenze inaccettabili. Non ci pare

comunque possibile leggere la novella legislativa in esame nel senso che

l’azione elettorale con essa introdotta assorba quella generale sugli atti,

ponendosi come unico rimedio per la violazione del dovere di astensione;

in questo caso i proprietari non residenti sarebbero senza tutela ed alla

mercé della valutazione circa la convenienza all’azione da parte dei

rappresentati, con urgenti profili di incostituzionalità. Infatti, in quanto

non residenti i proprietari non potrebbero agire con il rimedio disciplinato

dalla L n. 265/99, se poi questa dovesse intendersi come l’unica

ammissibile l’atto amministrativo illegittimo, confezionato in violazione

del divieto di astensione per incompatibilità e non impugnato da un

elettore, esplicherebbe tutti i suoi effetti dannosi nei confronti dei

proprietari non residenti che non avrebbero rimedio contro l’atto, con

urgenti problemi di costituzionalità in rapporto all’articolo 113 della

Carta.

Dai riscontri effettuati “sul campo” (ed otre a quello

dell’incompatibilità altri esempi potrebbero rinvenirsi) ci sembra trovare

consolidamento la nostra costruzione che riconosce l’esistenza di

situazioni giuridiche soggettive che collegano sinallagmaticamente

rappresentante e rappresentato in un rapporto di fedeltà, garantito

dall’azione a tutela (quantomeno) di un interesse legittimo ad essere

rappresentati. Seppure detta posizione, frutto dei risultati conseguiti fino a

questo momento del nostro percorso, debba ancora misurarsi con il

vigente divieto di mandato imperativo, vero nodo problematico della

nostra indagine.

A parer nostro non vi può essere confusione tra interesse alla

fedeltà del rappresentante e mandato imperativo. La distinzione che

appariva chiara a Talleyrand, come si è visto sopra, si svela pensando che

altro è l’indicazione di un mandato imperativo, un’istruzione vincolante

da sostenere in assemblea ad ogni costo, altro è il dovere di votare al di

fuori del proprio interesse personale, cioè il mantenere le condizioni per

essere rappresentante. In questo caso il rapporto discendente tra eletto ed

elettore non può essere inficiato dal divieto di mandato imperativo,

giacché non si tratta di istruzioni del secondo verso il primo; semmai,

nella singola ipotesi, è l’eletto che si colloca in una posizione di

dirà subito nel testo, può essere considerato uno degli esempi nei quali la concezione

oggettiva della giurisdizione amministrativa (sugli atti e non sui rapporti) accorda una

tutela più ampia di quella configurabile con la concezione soggettiva.

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DIRITTO DELL’ELETTO A RAPPRESENTARE E DIRITTO AD AGIRE

326

incompatibilità generale con i doveri (e poteri) che si è assunto nel

momento dell’elezione. La distinzione appena esposta è stata data in

negativo e potrebbe risultare più sfumata, tuttavia, se si tentasse di

costruire in positivo il rapporto ascendente tra elettore ed eletto, ove, cioè,

si cerchi di individuare qual è il concorso del primo nella determinazione

della volontà assembleare, se, cioè, vi sia un quid pluris oltre alla scelta

del candidato, che trasformi il rapporto da elettore – eletto in quello di

rappresentato – rappresentante. Si tratta dell’introduzione del mandato

limitativo, dell’indicazione cioè degli intendimenti propri dei rappresentati

che gli eletti si impegnano a far concorrere nella formazione della volontà

generale.

È il problema del “diritto” dell’elettore ad essere rappresentato.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

327

4.3 Diritto dell’elettore ad essere rappresentato

PREMESSA: CORRELAZIONE TRA FUNZIONE RAPPRESENTATIVA ED ESERCIZIO DEL POTERE –

CORRELAZIONE (ULTERIORE) TRA RAPPRESENTANZA E SOVRANITÀ - DISTINZIONE TRA

RAPPRESENTANZA POPOLARE E RAPPRESENTANZA NAZIONALE – CORRELAZIONE TRA

FUNZIONE RAPPRESENTATIVA E CONTROLLO SULL’ESERCIZIO DEL POTERE - LA MINORANZA

COME GARANZIA DI RAPPRESENTANZA: LIMITI E CRITICA – RAPPORTI TRA RAPPRESENTANZA,

CORPORAZIONE, SINDACATO DI VOTO – DISTINZIONE TRA RAPPRESENTANZA E NEGOTIORUM

GESTIO – DISTINZIONE TRA SOVRANITÀ E POTESTÀ DI IMPERIO (HERRSCHAFT) - CENTRALITÀ

DELL’INDAGINE SUELLE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE DI RAPPRESENTATO E

RAPPRESENTANTE: CONCETTI TRADIZIONALI E PRINCIPI RICOSTRUTTIVI – POSSIBILITÀ DI

CONCEPIRE LA RAPPRESENTANZA COME INTERESSE LEGITTIMO: ENUCLEAZIONE DELLA

POSIZIONE DELL’INTERESSE LEGITTIMO IN DEDUZIONE DEI PRINCIPI TEMATIZZATI DAGLI

EPIGONEN – POSSIBILITÀ DI CONCEPIRE LA RAPPRESENTANZA COME DIRITTO SOGGETTIVO: CONCEZIONE DEL DIRITTO SOGGETTIVO COME SPAZIO DI SIGNORIA DELLA VOLONTÀ DEL

TITOLARE E CORRELATIVA DEFINIZIONE DEL DOVERE COME LUOGO DELLA SOGGEZIONE:

LORO DERIVAZIONE DALLA STRUTTURA DELLA SOVRANITÀ – POSSIBILITÀ DI CONCEPIRE LA

RAPPRESENTANZA COME FACOLTÀ: LO SPAZIO GIURIDICAMENTE VUOTO E LE LACUNE

DELL’ORDINAMENTO – INCOMPATIBILITÀ DELLA STRUTTURA MONISTA DELLA SOVRANITÀ

CON LA STRUTTURA DUALISTA DELLA RAPPRESENTANZA – CONSEGUENTE INCOMPATIBILITÀ

DELLE TRADIZIONALI DEFINIZIONI DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE, MUTUATE

SULLA SOVRANITÀ, CON L’ESERCIZIO DELLA RAPPRESENTANZA – PARTICOLARE RILEVANZA

PER LA TEORIA DEI DIRITTI PUBBLICI SOGGETTIVI – CONCLUSIONE: PRINCIPI RICOSTRUTTIVI E

PROPOSTE.

“Dunque, la democrazia rappresentativa (che è la “democrazia dei

moderni”: le due nozioni coincidono) si propone di assicurare e di

istituzionalizzare due prestazioni: l’esercizio del potere e l’esercizio

dell’opposizione. In ciò consistono la sua importanza e la sua superiorità

rispetto agli altri regimi politici, i quali invece lavorano, con tutte le

differenze empiricamente accertabili, sull’unico versante del potere.

Tuttavia proprio questa duplicità di prestazioni è uno dei segni della

natura ambivalente della democrazia rappresentativa.”490

In questo tratto,

secondo Domenico Fisichella, sarebbe da ricercarsi la caratteristica

precipua della rappresentanza politica e dei regimi che su di essa si

fondano. In altri termini, a differenza di ogni altra forma di reggimento del

potere, nella rappresentanza politica troverebbero spazio tanto gli aspetti

attivi del comando, quanto gli aspetti propositivi e di controllo affidati

all’opposizione.

490 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, Roma – Bari, 1996, p. VII; il

saggio, con l’aggiunta di una prefazione, ripropone l’introduzione alla raccolta di scritti

curata dallo stesso La rappresentanza politica, Milano, 1983, da cui è attinto anche in

precedenza.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

328

Peraltro, in questa prospettiva, viene subito da osservare che lo

spazio accordato all’opposizione, la sua sola presenza, costituisce anche

ulteriore legittimazione del potere stesso. Si potrebbe quasi sostenere la

necessità dell’opposizione, quale alternativa che non ha avuto la forza di

realizzarsi, o che, comunque, non è stata scelta, e che si pone come

avversario da vincere, momento dialettico dell’antitesi che deve essere

superato (o riassorbito, come avremo modo di vedere) nella sintesi.

Ecco, allora, che siffatta caratteristica, cioè la necessaria

compresenza di potere ed opposizione, produce quella “natura

ambivalente” della rappresentanza dimostrata dalla benevolenza, ovvero

dalla aperta ostilità con la quale è stata considerata da pensatori di opposte

ideologie, da Lenin al teorico della monarchia Maurras, e che può forse

trovare radice nella plena potestas di matrice medioevale, originariamente

intesa come condizione imposta dal sovrano per trattare con i

rappresentanti del popolo.491

Si tratta di un rovesciamento alquanto

singolare della concezione originaria, che vede il principe medioevale

pretendere i pieni poteri dai deputati con i quali deve trattare, per

assicurarsi che i patti sottoscritti saranno rispettati, mentre la modernità

vedrà nel mandato la legittimazione dei rappresentanti del popolo per

imporre al principe la propria volontà. E non si può dire che il mutamento

sia conseguenza dell’acquisita consapevolezza della sovranità popolare,

giacché nella tradizione medioevale era forte la costruzione del principe

come delegato del popolo, legame che tenderà ad essere reciso con

l’assolutismo, nell’organico disegno di soppressione delle diete e degli

altri organismi di consultazione regia, intesi come incrostazione di un

periodo buio; la cronologia degli Stati Generali di Francia ne costituisce

un esempio emblematico, da Filippo il Bello a Luigi XVI. Ed è indicativo,

ai nostri fini, che fin dalla prospettiva medioevale il principe, richiedendo

491 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. 3, 8 e 9.

Maurras la considerava un errore, peraltro in Francia circoscritto all’imprudenza del solo

Luigi XVIII. Lenin la vedeva con favore, ma –crediamo- nel solo momento del potere

costituente, in cui l’agitatore politico si trovava nella stessa posizione di Sieyès: nel

momento in cui la rivoluzione si è istituzionalizzata anch’egli, come i suoi successori,

assume un atteggiamento contrario alla rappresentanza o, meglio, sostenitore di una

rappresentanza fittizia, di cui l’esperienza del PCUS è dimostrazione precisa.

Contrariamente a Fisichella, quindi, si potrebbe ritenere che la rappresentanza sia invocata

per acquisire il potere (era anche quanto cercava di fare l’ultimo Luigi, quando rientrava in

Francia nei bagagli dell’esercito inglese), mentre sia fermamente respinta da chi l’abbia

ottenuto.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

329

la verifica dei poteri, abbia trattato i deputati come degli ambasciatori di

un paese straniero, ai quali preliminarmente si chiede di mostrare delle

credenziali, legittimazione e limite del loro potere, concorrendo a creare

quel dualismo tra potere ed opposizione sive maggioranza e minoranza nel

quale Fisichella rinviene la caratteristica della rappresentanza, e che

preme fin d’ora avvisare non dover essere confuso con il dualismo tra

eikòn e fàntasma dal quale ha preso le mosse questa indagine.

Pertanto, la diarchia, più che il dualismo, è alla radice delle

difficoltà della rappresentanza e porta Fisichella a concludere che “da

quando esiste la rappresentanza politica (modernamente intesa, cioè nella

veste di democrazia rappresentativa), si parla di crisi della rappresentanza

politica (…). In breve: la democrazia dei moderni è caratterizzata da

un’ambiguità di fondo circa il problema della sovranità politica, e tale

ambiguità si riverbera inevitabilmente sul ruolo della rappresentanza

politica”.492

Per le osservazioni che si intendono svolgere in prosieguo preme

mettere fin da subito in evidenza la correlazione proposta tra

rappresentanza politica e democrazia rappresentativa, intese addirittura

come sinonimi. In verità, può essere opportuno mantenere

concettualmente distinti l’istituto della rappresentanza dalla forma di

regime data dalla democrazia rappresentativa, sull’assunto

(apparentemente condiviso dallo stesso Fisichella, come si vedrà) che

l’istituto giuridico trova applicazione anche al di fuori di tale forma di

regime. Infatti, la correlazione (il sinonimo) tra rappresentanza politica e

democrazia rappresentativa trasporta inconsapevolmente sull’istituto le

difficoltà proprie della forma di regime, che nella prospettiva della

modernità sono immediatamente connesse all’esercizio della sovranità,

ipotecando la riflessione sulla struttura della rappresentanza con i

problemi connessi alla sua applicazione nell’esercizio del potere, in una

prospettiva che sul concetto di unicità trova il suo fondamento.

Per questa via, Fisichella introduce nel dibattito sulla

rappresentanza “due fondamentali concezioni della sovranità politica: da

una parte l’idea della sovranità nazionale, la quale ha il suo puntuale

referente istituzionale nella rappresentanza politica, talché è quest’ultima

l’autentico sovrano, di diritto e di fatto (pur se non va trascurato che fino

al 1791 il Re è anch’egli rappresentante della Nazione, insieme al Corpo

492 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. VIII e

X.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

330

legislativo), dall’altra parte l’idea della sovranità popolare, e in questo

secondo caso non la rappresentanza politica, ma il popolo nella sua

immediatezza è e rimane il sovrano, fermo restando che popolo è

l’universalità dei cittadini francesi, e che la cittadinanza politica non può

essere (o può non essere) requisito di tutti gli individui”.493

In sostanza, ci

pare, la tesi ripropone la distinzione tra la forma di governo della Francia

del 1791 e quella del 1793, cioè tra nazione di Sieyès e il popolo di

Robespierre, secondo quanto si è avuto modo di esaminare sopra al §

II.2.2. Tuttavia, ci pare, in tale prospettiva non si risolve il problema,

poiché si tratta sempre di individuare un “unico” sovrano. Non tanto il

riferimento al popolo o all’assemblea appare risolutivo, quanto la

circostanza della contrapposizione tra struttura dualista della

rappresentanza e struttura monista della sovranità. L’impasse è

conseguenza della correlazione tesa dall’autore tra rappresentanza politica

e democrazia rappresentativa, tra l’istituto giuridico e la forma politica di

regime, assorbendo l’uno nelle aporie dell’altro.

In questo modo, nella tensione tra maggioranza ed opposizione,

nella giustificazione del potere, il rapporto tra eletto ed elettore, la

“rispondenza” del primo verso il secondo troverebbe soluzione

sull’osservazione che empiricamente l’elettore non sarà sempre

rappresentato, così come non sarà mai sempre non rappresentato, poiché

di volta in volta egli potrà riconoscersi ora nelle posizioni del

“rappresentante” che egli ha eletto, ora nelle posizioni di altro deputato,

magari dell’opposizione. Tuttavia, come si intuisce, si tratta di un calcolo

probabilistico che se ha valenza politologica non consente riflessione

giuridica o di stretto rigore logico – filosofico: da un lato il rappresentato

493 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., rispettivamente p. XIII. A

questo proposito, l’Autore fa notare che la teoria di Edmund Burke sulla “rappresentanza

virtuale” sarebbe stata già anticipata dalle posizioni di Edward Coke: cfr. op. ult. cit., p.

10. In questo senso, per altra via, andrebbe allora sottolineato il concetto di prescrizione

che lega Hobbes a Burke: laddove il primo afferma che nella natura vi sono molte

prescrizioni, intendendo qualcosa di precedente la volontà sovrana, il secondo afferma con

forza che l’intera costituzione è una prescrizione. Sul concetto di prescrizione in Burke, il

rinvio d’obbligo è a P. LUCAS, On Edmund Burke’s Doctrine of Prescription; or on Appeal

from the New to the Old Lawyers, in “Historical Journal”, XI (1968), 1, p 35 e ss. Le

conseguenze distruttive dell’esame critico “senza pregiudizi” delle istituzioni

costituzionali, sono messe bene in evidenza da W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen

zur Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p. 551. Peraltro

verso, sull’incoerenza della posizione di Burke, cfr. Ch. MÜLLER, Das imperative und freie

Mandat, Leiden, 1966, p. 26.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

331

non può fare affidamento sulla parte opposta per essere rappresentato,

dall’altra, il rappresentante non può esimersi dai suoi compiti affermando

che il rappresentato aveva trovato tutela presso i suoi avversari. Infine tale

ragionamento presuppone, come coscientemente sembra fare Fisichella,

che vi sia una maggioranza ed un’opposizione, ovvero una competizione,

che viene così a costituire l’architrave dichiarato della sua costruzione; ma

un tanto, anche rimanendo al livello di osservazione empirica della

scienza politica non sembra reggere, atteso che lo stesso autore riconosce

le frequenti solidarietà tra maggioranza ed opposizione che annichiliscono

la competizione: e sono questi i casi in cui concretamente il difetto di

rappresentanza invoca una tutela giuridica puntuale e concreta.

Le premesse della costruzione all’esame conducono il suo autore

verso sbocchi obbligati: “in conclusione, la democrazia dei moderni vive

sotto la spinta, almeno potenziale, di tre premesse dottrinali che possono

diventare radicalmente alternative: sovranità nazionale, sovranità

popolare, rifiuto della sovranità. Anche a trascurare l’ipotesi che pure le

prime due visioni (la sovranità nazionale che distribuisce una porzione di

sovranità tra centinaia di rappresentanti, o la sovranità popolare che la

diffonde tra tutti i cittadini nella loro aperta non finità) vivano la

tentazione a sboccare, seppure per vie diverse rispetto al cammino

“pluralista”, nella dissoluzione per sparpagliamento del principio sovrano,

il punto da richiamare è questo. Quando la democrazia dei moderni riesce

di fatto ad esercitare un controllo sulla realtà sociale, una condizione di

sovranità trova modo di esprimersi nella concretezza dell’esperienza

storica, e nella effettività le istituzioni rappresentative sono l’autentico

sovrano di tale forma politica, almeno rispetto alla sovranità popolare ed

al sovrano popolo”.494

In buona sostanza le istituzioni “rappresentative”,

intendendo con queste quegli organi dell’ordinamento che per le

procedure della loro formazione, per la qualità personale di chi le incarna

o per altre circostanze, sono ritenuti costituire lo specchio della comunità,

494 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XVII. In questo senso,

l’autore sintetizza che “la rappresentanza [si pone] come Giano Bifronte ma in realtà

Trifronte: sovranità nazionale, sovranità popolare, pluralismo potenzialmente acefalo”; cfr.

op. ult. cit., p. XIX. Questo terzo elemento veniva già stigmatizzato da Burke, almeno

secondo l’interpretazione di D. STERNBERGER, A Controversy of the Late Eighteenth

Century Concerning Representation, in “Social Research”, 1971, p. 593, cui rispondeva

indirettamente Paine, affermando che nessuno può avere il diritto di governare “fino alla

fine dei tempi” e sostenendo l’innata libertà soggettiva. Sul punto, cfr. G. CLAEYS, Thomas

Paine. Social and Political Thought, Boston (Mass.), 1989, p. 105.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

332

esse costituiscono il vero sovrano, cioè la volontà ultima che nulla riceve

dagli altri e che non dipende se non dalla propria capacità di imporsi. In

questi termini, la costruzione all’esame si svela come la compiuta

tematizzazione della teoria dell’interpretazione, già descritta supra al §

I.3.1., cioè la presunzione iuris et de iure della corrispondenza delle

determinazioni del deputato alle volontà o agli interessi (non vale qui

distinguere) dell’elettore. Non è dunque un caso che lo stesso Fisichella

riporti la nota e provocatoria citazione di Eulau, per la quale il governo

rappresentativo può funzionare del tutto indipendentemente dalle elezioni,

sebbene solo in presenza di certe condizioni;495

seppure siffatta

affermazione potrebbe essere letta anche come presa d’atto

dell’autonomia della rappresentanza dal momento elettorale, nel senso che

il concetto di rappresentanza non dipende dal meccanismo di votazione

prescelto, secondo una suggestione proposta supra al § I.2. Tuttavia, la

conclusione che ne viene tratta è un'altra.

Infatti, la costruzione che stiamo vagliando si pone il problema

della partecipazione del rappresentato come condizione (essenziale?) per

il dualismo rappresentativo. In questo, tra l’altro, crediamo stia la

differenza della rappresentanza dalla negotiorum gestio costituita

dall’agire di un soggetto nell’interesse di un altro, momentaneamente

incapace di provvedere ai suoi interessi. Com’è noto, il gestor è tenuto

semplicemente a prevedere l’utiliter coeptum, cioè la convinzione fondata

dell’utilità per il gerito, secondo un giudizio prognostico; un tanto è

sufficiente perché il gerito sia tenuto a far propria l’attività (ancorché

tradottasi in un danno) espletata dal gestor. La partecipazione del

“rappresentato” non è richiesta, se non per prendere atto,

insindacabilmente (nei limiti, appunto, della previsione dell’utiliter

coeptum), di quanto espletato in suo nome da un altro soggetto.

Forse la proposta di Fisichella può essere considerata come

appartenente a questo secondo profilo, ove conclude che “se per

partecipazione si intende che attraverso l’elezione il popolo sia in grado di

assicurarsi rappresentanti che danno “risposta” e che “rispondano” al

demos in chiave di rapporto di mandato, sappiamo che tale ipotesi è falsa

495 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 19. Come si è visto

sopra, anche Rescigno e Zanon ritengono che le elezioni non siano necessarie o,

comunque, non condizionanti la rappresentanza politica. Da parte nostra, se abbiamo

distinto il concetto di rappresentanza dai sistemi elettorali, riteniamo che il momento della

scelta (a prescindere dalla procedura, purché non contraria al dualismo rappresentativo) sia

ineludibile.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

333

per molte ragioni, connesse alle caratteristiche degli elettorati di massa,

dei meccanismi funzionali dell’istituzione rappresentativa e dei problemi

affrontati dai rappresentanti. Ecco, dunque, cosa è “impossibile”. Se,

invece, per partecipazione si intende che il popolo è esso stesso parte di un

processo di competizione tra attori politici, e se l’elezione è un modo di

intervenire nel processo competitivo, dando luogo ad una conta dalla

quale dipende l’esclusione o inclusione dei candidati nell’organismo

rappresentativo, allora si può convenire che una misura di responsabilità –

vuoi indipendente vuoi dipendente – è certo connessa al momento

elettorale. Non solo. È l’aspettativa di tale momento periodicamente

ricorrente che per i rappresentanti costituisce stimolo ad assumere

atteggiamenti di disponibilità responsiva nelle fasi inter-elettorali”.496

Non di meno, a distanza di tredici anni dall’esposizione di queste

tesi, occorre dare atto all’autore di aver colto come “dal punto di vista

genetico l’equivoco sul principio di sovranità interferisce negativamente

sulla vicenda complessiva della democrazia rappresentativa, dando altresì

luogo a pesanti ricadute disfunzionali sul piano operativo”.497

496 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 38-39. Come si vede,

questa posizione riprende quanto tematizzato da Hanna Pitkin e già esaminato supra in

fine al § I.2.2. Già in quella sede si sono espresse le nostre perplessità sulla definizione di

“disponibilità responsiva” che pervade gli eletti in prossimità delle scadenze. Se con tale

formula si intende un giudizio di responsabilità, non possiamo che essere concordi; se

invece, come sembra, si tratta di un’astratta disponibilità a rispondere alle esigenze o alle

domande degli elettori, non vi scorgiamo altro che una tecnica di cattura del consenso che

ha in Gorgia il primo adepto.

497 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XX. Peraltro, alla

sovranità come fonte di aporie in materia di rappresentanza, l’autore affianca altre

concause che contribuirebbero ad aggravarne lo stato di crisi. Da un lato la “democrazia

elettronica” -che per il momento sembra concentrarsi in manifestazioni come il “popolo

dei telefax”, piuttosto che in manifestazioni di consenso o dissenso tramite Internet– mina

alla radice l’idea stessa di rappresentanza, per il solo fatto di consentire una partecipazione

più attiva dei governati, anche se non necessariamente più informata, posata e ragionata.

Sotto altro profilo e quasi in direzione opposta, contro la rappresentanza militano pulsioni

economiche e divisione del lavoro che tendono a dedicare meno tempo alla politica,

relegandola a ruoli di professionismo congenitamente antitetico alla rappresentanza. Infine,

viene indicata nella ricerca della felicità privata anziché nella diuturna cura dell’interesse

pubblico un’ulteriore ragione di disaffezione alla rappresentanza, ma, più radicalmente, ci

pare che questa sia la causa prima della crisi della politica, come paradossalmente

riconosceva anche Rousseau all’inizio del capitolo XVI del Contrat social, che si è visto

supra al § II.1.1. Peraltro, un’analisi opposta potrebbe osservare come il disinteresse alla

rappresentanza sia conseguenza di un benessere diffuso che renda indifferente il momento

di scelta dei governanti; e questa potrebbe essere una chiave di lettura del ricorrente

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

334

Riconosciuta, anche dal nostro autore, nella sovranità la ragione

delle difficoltà della rappresentanza, acuita dall’indebita correlazione, da

lui stesso proposta, tra rappresentanza politica e democrazia

rappresentativa, occorre verificare se le aporie riscontrate siano il frutto

del binomio rappresentanza – sovranità, ovvero se si diano in ogni caso

ove la rappresentanza viene a contatto con qualsivoglia forma di esercizio

del potere, se, cioè, il dualismo rappresentativo sia comunque

compromesso dal momento necessariamente imperativo connesso con

l’operatività della norma. In tale seconda ipotesi -cioè se struttura

dualistica della rappresentanza ed esercizio del potere non possono

accordarsi- la nostra indagine non potrebbe approdare ad alcun risultato

propositivo, dovendo riconoscere la necessaria “finzione” della

rappresentanza, secondo l’icastico giudizio di Kelsen. Peraltro, una prima

risposta rassicurante ci soccorre fin d’ora, ove l’identità strutturale della

rappresentanza, nel riconosciuto dualismo, non esclude il momento

imperativo per quanto attiene l’ambito di applicazione al diritto privato. Si

potrebbe allora già affermare sillogisticamente che se nel diritto privato la

rappresentanza non contrasta con l’esercizio del potere (conseguente alla

costrizione prodotta dall’attuazione di un diritto soggettivo), attesa

l’identità di struttura, anche applicata al campo pubblico, la

rappresentanza non dovrebbe contrastare con l’esercizio del potere.

In verità, l’aporia del rapporto tra rappresentanza e potere politico si

annida nelle pieghe della confusione tra sovranità e potestà di imperio,

locuzione con la quale traduco il termine tedesco Herrschaft, frutto

dell’elaborazione (ancora una volta!) della giuspubblicistica tedesca, ma

le cui radici, questa volta, affondano molto più indietro nel tempo. In

ossequio all’elaborazione della dottrina dello Stato sviluppatasi nella

Francia del XVI secolo, la sovranità, come abbiamo ripetuto a sazietà, è il

luogo dell’unicità, dell’incapacità a riconoscere altri fuori da sé stessi, il

luogo del puro volere che ha come limite solo il proprio potere, quel

superiorem non recognoscere che ancora racchiude in sé la molteplicità di

locuzioni con le quali si è tentato di imbrigliare le diverse sfumature di un

concetto per definizione ab solutus. Al contrario, la potestà di imperio

astensionismo nelle elezioni statunitensi. Come si vede, dunque, il momento “elettronico”

della democrazia può consentire letture opposte, tutte scientificamente legittime. Per i

profili teoretici circa la rilevanza dell’approccio tecnologico – informatico al diritto, cfr. le

stringenti deduzioni proposte da B. MONTANARI, Itinerario di filosofia del diritto, II ed.,

Padova, 1999, specialmente p. 94 e ss.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

335

consiste nella soggezione dei consociati non ad un potere cieco ed

arbitrario, bensì alla traduzione in effetti di quella che è la norma

giuridica. In altri termini, la potestà di imperio è l’attributo proprio

dell’amministrazione nel momento in cui organizza uomini e cose nel

perseguimento dei fini individuati dalle norme; norme non da essa

individuate, bensì alle quali la stessa amministrazione è sottoposta.

L’individuazione delle norme è propria dell’attività di governo, che

fisiologicamente dovrebbe riconoscere i fini aggreganti la comunità

politica verso il bene comune. Il paradigma si regge sulla distinzione tra

funzione di governo, che orienta la comunità verso i fini che le sono

propri, tesi al perseguimento del bene comune, ed il ruolo

dell’amministrazione che organizza uomini e cose nel perseguimento di

quei fini. L’attività di governo, così intesa, si traduce in norme; quella

dell’amministrazione nella loro esecuzione.498

Si tratta delle due fasi della

“politicità” e della “positività” dell’ordinamento. Nel momento fisiologico

la distinzione tra le due attività scongiura l’arbitrarietà della sovranità,

qualora le norme siano frutto di un procedimento dialettico di

riconoscimento del bene comune proprio della comunità. Nel momento

patologico, come ammoniva lo Stagirita, la confusione tra i ruoli crea il

dispotismo di un’amministrazione che non svolge più il ruolo strumentale

che le è proprio, ma si arroga il potere di determinare da sé stessa i fini da

perseguire, alimentandosene. Esula dall’economia di questo lavoro

l’indagine se negli ordinamenti contemporanei l’amministrazione sia

titolare di potestà d’imperio o se non partecipi della sovranità. Basti

concludere che la rappresentanza non contrasta con la potestà di imperio

nell’attuazione delle norme riconosciute come aggreganti la comunità

dall’assemblea dei rappresentanti. In altri termini, come già si è avuto

modo di dire, il dualismo rappresentativo concorre all’attività di governo,

498 Per la precisa analisi dei concetti di governo ed amministrazione, nei loro

fondamenti teoretici, nonché per le conseguenze dispotiche della loro confusione, cfr. la

nota successiva. Pur se la soggezione alla legge è considerata caratteristica propria

dell’amministrazione dalla dottrina, non di meno le recenti riforme, veicolando

un’interpretazione forzata e riduttiva del concetto di autonomia, sembrano veicolare l’idea

di un’amministrazione che determini da sé stessa i propri fini. Per la varietà di idee del

ruolo dell’amministrazione nel meccanismo dello Stato, si confrontino i contributi di G.

BALLADORE PALLIERI, Dottrina dello Stato, Padova, 1958, p. 269, che sembra riprendere il

classico studio di G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte, II ed.,

Tübingen, 1919; nonché, recentemente, le suggestive proposte della dottrina tedesca

avanzate da W. SELB, Die verwaltungsgerichtliche Feststellungsklage, Berlin, p. 54 e ss.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

336

contribuendone a mantenere l’esercizio fisiologico, tramite l’intrinseca

struttura dualistica che veicola il procedimento dialettico dell’indagine del

“diverso” e “comune”.499

In forma più esplicita, la rappresentanza, nella

sua struttura dualistica quale sintesi di rappresentante e rappresentato,

esclude l’unicità della sovranità; altresì, proprio perché si regge sul

confronto tra rappresentante e rappresentato, predilige il paradigma

dialettico, del procedimento per identità e differenza, impraticabile nella

prospettiva dell’unicità; infine, a mente della distinzione tra attività di

governo e ruolo dell’amministrazione, la rappresentanza, accedendo al

primo momento, non è in contrasto con l’esercizio del potere, non tanto

perché quest’ultimo si attua in un momento successivo, quanto perché la

soggezione al potere dell’ordinamento da parte dei consociati trova la sua

ragion d’essere nel perseguimento del bene comune, che è stato distillato

in norma dai consociati tramite il confronto operato dai propri

rappresentanti; norma alla quale è sottoposta anche l’amministrazione che

esercita, nel caso concreto, il potere.

Ritenuto di aver risolta così la compatibilità della rappresentanza

con l’esercizio del potere, che attiene, seppure non esaurisce, il lato attivo

del rappresentare, nel momento di concorrere alla formazione della

volontà generale, tradotta in norme, resta da esaminare il rapporto che

lega rappresentante a rappresentato, cioè il secondo momento della

struttura dualistica, alla quale si deve l’inconciliabilità tra rappresentanza

e sovranità. Per tale profilo, la proposta di Fisichella è già stata anticipata:

si tratta di sostituirlo con la competizione tra maggioranza e minoranza.

“Sottolineo nell’opera qui riprodotta che, metodologicamente, la

questione della responsabilità politica va affrontata per la democrazia dei

moderni nel nesso con il processo competitivo. Questo per quel che

riguarda l’an: in altri termini, se responsabilità, e indirettamente

responsività emergono, ciò avviene nel contesto competitivo. È qui che, in

chiave sistemica, va individuato e affrontato per la rappresentanza politica

democratica il problema della rappresentanza e non altrove”.500

499 La lucida esposizione della dialettica governo / amministrazione e comunità /

regime, in riproposizione di una teoria che affonda le sue radici nella tradizione classica

platonico aristotelica, si deve a F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed.

Milano, 1984, p. 121 e ss., 137 e ss.

500 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XXIX. Di diverso

avviso sembra invece il corposo saggio di W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen zur

Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p.452 e ss.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

337

Da un indagine attorno alle principali funzioni tradizionalmente

espletate dalla rappresentanza politica, l’autore ritiene lecito ricavare che

non ne esista una sola esclusiva della rappresentanza politica, cioè non

adempiuta da altre strutture sia pure in modi diversi, e che non esista una

sola funzione che sia infungibile, cioè tale da non poter essere cancellata o

surrogata senza che il sistema democratico cessi di essere e di operare in

quanto tale. In effetti così può dirsi delle funzioni finora enumerate dalla

dottrina, cioè informativa, pedagogica, di socializzazione, elettiva, di

articolazione degli interesse, di partecipazione e di comunicazione. “C’è

però una funzione, ed una sola, che è infungibile ed è esclusiva della

rappresentanza politica democratica”.501

E sarebbe il controllo connesso

alla, e frutto della, competizione, giacché, “la rappresentanza politica

comprende l’opposizione (espressa dalla competizione) per tutto il

periodo della propria esistenza, ed è in quanto ciò avviene che il controllo

politico democratico ha titolo e modo per realizzarsi. In breve, l’unica

funzione esclusiva ed infungibile della rappresentanza politica

democratica è quel controllo politico assicurato dalla presenza

nell’organismo rappresentativo di una maggioranza e di una opposizione

elette su basi competitive”.502

Come si è già avuto modo di anticipare, tutto il discorso di

Fisichella si regge sul controllo dell’avversario: non è il rappresentante

che è responsabile in sé, ma l’avversario ne costituisce la coscienza

critica, “denunciandolo”. Per questa via, si perviene alla

strumentalizzazione dell’opposizione, intesa non come alternativa

propositiva nei confronti della maggioranza, ma come mero delatore

presso gli elettori; questi poi, dovrebbero essere tutelati grazie alla

vigilanza di quei candidati per i quali non hanno votato, dei quali si

troverebbero, loro malgrado, ad essere “temporanei rappresentati”,

secondo quanto si è visto nei due paragrafi precedenti. Inoltre,

sviluppando questa posizione alle sue estreme conseguenze, si perviene

all’assoluta mancanza di responsabilità e/o responsività nel momento in

cui cessa l’antagonismo, anche per mere ragioni di opportunità politica; e

non occorre richiamare episodi recenti per i quali sono stati coniati nomi

501 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 47.

502 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 48.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

338

nuovi, spesso sconci, per fenomeni noti che hanno in Agostino Depretis il,

finora, insuperato maestro.503

E se questi sono i limiti connessi all’an della responsabilità, urgenti

problemi sorgono per la definizione del quantum.

“Circa il quantum di responsabilità, poi, numerosi fattori

intervengono a muovere la bilancia verso il più o verso il meno. In breve,

la competizione è condizione necessaria ma non sufficiente di

responsabilità democratica.

Orbene, oggi quella che altrove chiamo la “sfida della competizione

manipolata” sta assumendo una incidenza crescente, che tende a ridurre

progressivamente il quantum della responsabilità possibile, abbassandola

a livelli di modestia assai inquietante. E dato il nesso tra competizione,

responsabilità e controllo, si capisce che più aumenta la manipolazione

della competizione, più si riduce lo spazio del controllo e quindi più si

vanifica la funzione che costituisce l’essenza della rappresentanza

politica”.504

In altri termini, la funzione di controllo, caratteristica della

rappresentanza e garanzia che l’elettore si possa riconoscere rappresentato

di volta in volta da qualcuno degli eletti, dipende dalla competizione che

si innesca tra le diverse parti politiche; tuttavia, oltre alla evanescenza

della distinzione dei ruoli, che si è denunciata sopra, è lo stesso autore a

dover riconoscere il rischio di incalzanti tentativi di manipolare

dall’esterno la competizione, riducendone se non vanificandone la portata,

compromettendo così, per simmetrica conseguenza, il ruolo della

rappresentanza politica, come da lui edificata, che si manifesta allo

spettatore gravemente affievolita nella sua figura. Questa ci sembra la

riprova che nel paradigma di Fisichella l’an dipende dal quantum. Tutto

ciò, oltre a costituire un errore logico, si rivela un errore operativo, se

503 Per un taglio particolare nella ricostruzione della figura e della prassi dallo

stesso introdotta, compiendosi un secolo dalla sua pubblicazione, si rinvia al raro volume

di G. ARANGIO–RUIZ, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Firenze, 1898, ristampa a

cura di L. CARLASSARE (della quale si veda l’introduzione, specialmente p. xii, ove si

richiama il problema della “responsabilità”, centrale in questa indagine), Napoli, 1985,

p.338 e ss., da accompagnarsi con i saggi contenuti nel volume a cura di P.L. BALLINI, Idee

di rappresentanza e sistemi elettorali in Italia tra Otto e Novecento, Atti della terza

giornata di studio “Luigi Luzzatti” per la storia dell’Italia contemporanea (Venezia, Istituto

Veneto di Scienze Lettere ed arti, 17 novembre 1995), Venezia, 1997.

504 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. XXX.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

339

tramite la competizione si perviene ad incidere sulla funzione che si

dichiara essere l’essenza della rappresentanza. Meglio allora ricercare la

soluzione muovendo dalla struttura fisiologica della rappresentanza,

deducendone i corollari; meglio trovare la responsabilità non nella

dialettica parlamentare delle fluttuanti maggioranze e minoranze, ma nel

rappresentante in sé stesso, a prescindere dagli avversari.

Il ragionamento vale anche per la corporazione, dall’autore

asseritamente ritenuta non garantista perché non pluralista, perché priva di

competizione interna, considerata, come si è visto, il carattere proprio

della rappresentanza. In sostanza, il ruolo delle professioni richiederebbe

un peso non par tête, ma par ordre, ovviamente aumentando gli ordini

secondo le diverse articolazioni di una società più complessa, fino ad un

numero non facilmente determinabile e, quindi, poco funzionale. Non di

meno, Fisichella trova difficoltà nel criterio di rappresentanza sia

all’interno della singola corporazione, ove si ripropongono, quanto meno,

i problemi del maggioritario, ma, soprattutto, del peso da dare alle singole

corporazioni, se sempre lo stesso o diverso di votazione in votazione, a

seconda della diversa materia in votazione, riportando così la sovranità a

colui che decide il peso della singola corporazione in quella tal votazione.

In altri termini, interpretiamo, il carattere non competitivo della

corporazione -che per sua definizione mira a comporre le diversità al suo

interno indirizzandole verso l’interesse comune che ne costituisce

l’elemento aggregante ed il carattere distintivo dalle altre corporazioni- si

pone come limite alla sua valenza politica, ponendo la questione in

termini di apparente alternativa, dacché o la dialettica tra maggioranza e

minoranza si ripropone tra le corporazioni, quali singoli riuniti in

assemblea, ovvero occorre determinare quale corporazione debba

prevalere nel singolo caso, ratione materiae; ma, come nella prima ipotesi

si ritorna al punto di partenza, così nella seconda eventualità il problema

si sposta all’individuazione del terzo che giudichi di volta in volta in

ordine alla competenza propria della singola corporazione e cioè, se si

vuol ben vedere, all’individuazione del sovrano.

“Se, perciò, il principio maggioritario è la regola essenziale in virtù

della quale il conflitto diventa competizione pacifica, esso ha peraltro

bisogno – in uno scenario a meccanica interattiva – di una garanzia

istituzionale di fondo per esprimersi propriamente e coerentemente, e tale

garanzia è costituita da quel particolare tipo di controllo politico che

rinvia alla rappresentanza politica come organismo espresso da una

campagna elettorale competitiva che investe e coinvolge la nazione in

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

340

quanto tale”.505

In buona sostanza, a quanto è dato vedere, l’essenza della

rappresentanza politica, pur rettamente riconosciuta nella responsabilità,

viene trasportata nella competizione tra maggioranza e minoranza e, più

specificamente, nella campagna elettorale. Nella tesi in esame, dunque,

come si legge a chiare lettere, l’assicurazione della responsabilità politica

sarebbe ancorata dunque alla correttezza della campagna elettorale.

“Ecco, allora, la differenza fondamentale tra questa [la

rappresentanza politica] e la rappresentanza corporativa: la seconda non è

attrezzata istituzionalmente e quindi non è idonea ad esercitare il controllo

politico cui quella è preposta”.506

Se con questo, come sembra, Fisichella vuol dire che la

rappresentanza della corporazione ha più la funzione di far conoscere che

di decidere, siamo d’accordo; già meno nella variante testuale per la quale

“la rappresentanza corporativa è essenzialmente finalizzata al controllo

tecnico, di competenza e di efficienza, invece che al controllo politico. Ma

questa obiezione non elimina e non soddisfa il seguente interrogativo:

quali garanzie esistono di svolgere liberamente ed autonomamente la

funzione di controllo tecnico, in assenza di un controllo politico che limiti

istituzionalmente il potere e possa chiamarlo a rispondere delle sue

prevaricazioni?”507

In limine osserviamo che l’aspetto tecnico delle corporazione non

esclude la sua attitudine a pervenire a delle decisioni “politiche”, cioè non

scientifiche o tecnocratiche, pur con le cautele necessarie per preservarci

505 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 58. Si dimostra scettico

all’idea di poter istituire un serio confronto dialettico o anche un effettivo e consaputo

confronto in campagna elettorale, il già ricordato W. LEISNER, Demokratie. Betrachtungen

zur Entwicklung einer gefährdeten Staatsform, Berlin. 1998, specialmente p. 392, ove

viene coniata l’espressione di Medienstaat, con riferimento polemico al décalage del

Rechtsstaat.

506 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 59. La tesi, come si è

già fatto notare, presuppone che il controllo si abbia solo grazie alla vigilanza reciproca dei

contendenti politici; sicché la corporazione, in quanto sintesi e componimento delle

diverse peculiarità verso una tensione comune non sarebbe foriera di controllo alcuno. Sul

punto sia consentito rinviare all’impegnativo saggio di B. SCHOFER, Das

Relativismusproblem in der neueren Wissenssoziologie. Wissenschaftsphilosophische

Ausgangspunkte und wissenssoziologische Lösungsansätze, Berlin, 1999, p. 227.

507 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 59-60.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

341

dal sogno di Saint – Simon.508

Ma proprio per questo non si può restare ad

un livello di sostituzione di un organo decisionale ad un altro, bensì

spingersi alla struttura della rappresentanza, nella corretta individuazione

dei due aspetti costitutivi, la situazione del rappresentante ed il suo

rapporto con il rappresentato.

Oltre alle difficoltà che si sono poste in evidenza sopra, Fisichella

stesso riconosce il limite del controllo introdotto dalla competizione: “E

allora il controllo stesso diventa a sua volta “oggetto” di equilibrio, più

che “soggetto” e induttore di equilibrio, diventa fattore il cui esercizio

esige ed impone equilibri variamente articolati, sul piano istituzionale e

sul piano etico. Non ci si può nascondere che in questo difficile gioco di

equilibri e di controlli il rischio per il sistema rappresentativo è quello

dell’avvitamento su sé stesso, fino all’estrema conseguenza, accaduta

ormai più volte, della fuoriuscita dal contesto democratico. Ma è anche

vero che altre esperienze rappresentative hanno saputo evitare un tale esito

traumatico, riuscendo a superare molte prove, non di rado assai pesanti ed

onerose”.509

In realtà, ci pare, la struttura necessariamente dualistica della

rappresentanza, come enucleata nella prima parte di questo lavoro, così

come ha richiesto di verificarne la compatibilità degli strumenti attuativi,

per non tentare di applicare un istituto o introdurre nell’esperienza una

costruzione mediante uno strumento con essa incompatibile (quale il

divieto di mandato imperativo), altresì comporta necessariamente di

rivedere le situazioni giuridiche soggettive di rappresentante e

508 Per le illusioni e disillusioni del conte socialista ante litteram, cfr. F. GENTILE,

Dalla concezione illuministica alla concezione storicistica della vita sociale. Saggio sul

concetto di società nel pensiero di C. H. de Saint-Simon, Padova, 1960, poi ripreso

nell’ormai raro IDEM, Che cosa ha “veramente” detto Saint-Simon, Roma, 1973,

specialmente p. 108, ove l’utopismo tecnocratico viene seguito nella sua parabola che

porterà il suo artefice a riflettere sul cristianesimo sociale. Per l’influsso del pronipote del

celebre testimone del regno di Luigi XIV sul pensiero italiano, cfr. IDEM, Saint-Simon in

Italia. Emozioni e risonanze sansimoniane nell’Ottocento italiano, Napoli, 1969

(tradizione del saggio Emotions et résonnances saintsimoniennes en Italie au XIXe siècle,

apparso nella rivista “Economies et sociétés”), che, muovendo dalla corrispondenza tra

Gino Capponi e Raffaello Lambruschini, ripercorre il tentativo italiano di coniugare il

sansimonismo con la tradizione cattolica, purgandolo dall’eresia, sull’onda

dell’entusiasmo del vento d’oltralpe.

509 Cfr. D. FISICHELLA, La rappresentanza politica, cit., p. 63.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

342

rappresentato, ricostruite in logica conseguenza da quanto emerso in sede

generale.

Le difficoltà incontrate dalla dottrina, della quale le tre tesi sopra

esaminate –di Rescigno, Zanon e Fisichella- non costituiscono che le

elaborazioni più recenti, nel circoscrivere le situazioni giuridiche

soggettive di rappresentante e rappresentato si annidano proprio nella

tradizionale costruzione che vede nel diritto soggettivo l’ambito della

radicale libertà, la supremazia, l’assoluta signoria della volontà del

titolare. Nel contempo, la corrispondente figura del dovere appare

plasmata sulla obbligatoria necessità, sulla completa soggezione ad una

volontà esterna, sia essa quella dello Stato, ovvero quella di un altro

privato, titolare della posizione attiva, che gli è stata sempre e comunque

assegnata dallo Stato, direttamente o indirettamente, mediante un apposito

atto di volontà, derivante dalla sovranità (o dal suo esercizio se non dalla

titolarità formale, recentemente attribuita al popolo), nella forma di un atto

avente forza di legge, di una sentenza o di un provvedimento

amministrativo.

Quali figure convengono allora al rappresentante ed al

rappresentato? V’è un diritto a rappresentare e ad essere rappresentati

politicamente? V’è un mero interesse al funzionamento dell’assemblea o

alla “regolarità” delle procedure elettorali che si distingue dal tradizionale

rispetto della legge? Ad alcune domande si è già anticipata una risposta

nei paragrafi che precedono e che saranno utili in questo momento, ove

finalmente la questione può essere affrontata, giacché costituisce il nodo

centrale della nostra ricerca.

Si impone, dunque, un’indagine, seppure limitata ai fini che qui

interessano, sulle figure dell’interesse legittimo, del diritto soggettivo e

del dovere. E conviene prendere le mosse da quella identità di volontà tra

cittadino e Stato con la quale ci siamo congedati dagli Epigonen.

Tra i molteplici aspetti particolari, conseguenza e frutto delle

concezioni teoriche più generali, sopra esaminate al § II.3, emblematico

appare il problema dello jus actionis del singolo nei confronti dello Stato,

tutt'oggi manifestato da difficoltà giurisprudenziali,510

denotando un

510 Emblematico il problema della risarcibilità del danno per violazione di interessi

legittimi, particolarmente rilevante in materia urbanistico-edilizia, ove la giurisprudenza

procede su articolati percorsi in assenza di un apposito intervento legislativo, parzialmente

giunto solo, com’è noto, con gli art. 34 e 35 del D.Lgs. n. 80/98; fra le tante pronunzie, cfr.

Cass. S.U. 1.3.1989, n. 1137, in "Giust. Civ. Mass.", 1989, 305; Cass. S.U. 7.5.1981, in

"Giust. Civ.", 1981, 2254; Cass. Civ. I sez., 15.5.1986, n. 3169, in "Foro It.", 1986, I,

3022, con nota di G. BARONE. In dottrina, cfr. per tutti: E. FOLLIERI, Risarcimento dei

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

343

sotteso nodo concettuale non risolto che discende dai problematici

Grundbegriffe di sovranità, potestà di imperio (Herrschaft) e

rappresentanza necessaria.

In questo senso, nel nostro esame delle situazioni giuridiche

soggettive, può essere indicativo ricostruire la nascita e lo svilupparsi

della categoria dell'interesse legittimo in relazione al diritto soggettivo

nella giuspubblicistica tedesca511

agli inizi di questo secolo, che tanto

danni per lesione di interessi legittimi, Chieti, 1984; più recentemente, ma sempre prima

della “storica” sentenza della S.U. della Cassazione, n. 500/99, cfr. M. CAFAGNO, La tutela

risarcitoria degli interessi legittimi: fini pubblici e reazioni di mercato, Milano, 1996; al

tema è stato dedicato anche il 43° convegno di Varenna: Risarcibilità dei danni da lesione

di interessi legittimi. Atti del 43. Convegno di studi dell’amministrazione promosso

dall’Amministrazione provinciale di Lecco, Milano, 1998. Per la situazione in Francia, cfr.

J.M. WOEHRLING, La réforme du contentieux administratif, in "Dir. Proc. Amm.", 1995, n.

4 , p. 842 e ss. Per il superamento della tradizionale distinzione tra interesse legittimo e

diritto soggettivo, di ritenuta rilevanza costituzionale, che dovrebbe in questo senso essere

riformata, pur in esplicitazione degli stessi principi, cfr. recentemente A. PAJNO, Le norme

costituzionali sulla giustizia amministrativa, in "Dir. Proc. Amm.", 1994, n. 3, p. 419 e ss.,

specialmente p. 448 e ss., ove si propone una divisione di competenza tra giudice

amministrativo e giudice civile fondata su una distinzione di materia, combinata con un

criterio soggettivo, quale la presenza in giudizio di una Pubblica Amministrazione,

procedendo tuttavia ad una necessaria riorganizzazione anche per la fase cautelare, estesa

ai rapporti più che ai meri atti amministrativi.

511 Com'è noto, nella Germania del dopoguerra il problema ha avuto soluzione

legislativa già con legge 1.4.1960, recentemente novellata con l. 17.12.1990, su cui cfr. P.

BADURA, La recente novella della legge tedesca sul processo amministrativo: un passo

verso una più efficace tutela giurisdizionale del privato?, in "Dir. Proc. Amm.", 1992, n. 1,

p. 31 e ss, ma specialmente p. 40. Per un esaustivo panorama del problema nell'esperienza

tedesca tra diritto soggettivo e tutela di interessi individuali, cfr. recentemente E. SCHMIDT

ASSMANN, I limiti del sindacato dei Tribunali Amministrativi, in "Dir. Proc. Amm.", 1995,

n. 4, p. 683 e ss., ma specialmente p. 692, ove si indica l'interpretazione estensiva alla

tutela degli interessi del singolo in forza dell'art. 19, quarto comma, della Carta

fondamentale della Repubblica Federale Tedesca. Per un’attenta ricostruzione della figura

del diritto pubblico soggettivo in Germania, con allora audaci proposte di nuovo

inquadramento dogmatico, che hanno poi trovato seguito nella dottrina e nella

giurisprudenza italiane, cfr. W. HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968,

specialmente V Teil, Das subjektive öffentliche Recht im Verwaltungsprozeß.

L'enucleazione della figura dell'interesse legittimo da parte della dottrina italiana

ottocentesca, con notevoli rimandi alla scienza giuridica dei paesi limitrofi, è stata fatta

recentemente oggetto di corposo studio da B. SORDI, Giustizia ed amministrazione

nell'Italia liberale, la formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985, alla

cui densa bibliografia si rimanda, aggiungendovi solo quanto più recentemente apparso o

di prettamente interessante il dibattito germanico che qui maggiormente rileva.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

344

influsso ha avuto in ogni ambito nello sviluppo della scienza giuridica

italiana, riscoprendone le radici teoriche su cui si è innestata.

A tal proposito, come si è già detto, non è peregrino, a nostro

avviso, ricercare il collegamento della giuspubblicistica tedesca tra XIX e

XX secolo coll'elaborazione della Destra hegeliana,512

più che un

fondamento diretto dei maestri del diritto pubblico tedesco

nell'insegnamento del Filosofo berlinese, per quel singolare nesso,

confortato da una corrispondenza quasi letterale nei rispettivi scritti, che

lega il pensiero di alcuni allievi di Hegel con i pionieri del diritto pubblico

tedesco attorno agli Hauptprobleme del diritto e dello Stato. I singoli

passaggi logici che cercheremo di ricostruire sono i seguenti: 1)

recepimento della conclusione della triade hegeliana per cui il cittadino

non può che realizzarsi nello Stato; 2) identità di Geist tra cittadino e Stato

in campo pubblico; 3) conseguente equivalenza degli interessi del singolo

con la sua volontà; 4) equivalenza della volontà del singolo con quella

dello Stato in campo pubblico; 5) impossibilità di configurare alterità tra

cittadino e Stato in campo pubblico; 6) cittadino e Stato costituiscono

giuridicamente un’unica parte sostanziale, cioè un solo centro di

imputazione di volontà ed interessi; 7) assenza di posizioni

sinallagmatiche di diritto e dovere tra cittadino e Stato in campo pubblico;

8) conseguente assenza di jus actionis del primo nei confronti del

secondo; 9) l’errore degli organi dello Stato nell’attuazione della legge

(precipitato del Volksgeist) non può costituire violazione di un diritto del

cittadino; 10) interesse del cittadino a por rimedia all’errore; 11)

attribuzione del potere di stimolare la rettificazione in capo a quel

cittadino che subisce uno svantaggio dalla violazione perpetrata; 12)

enucleazione dell’interesse legittimo come conseguenza dell’identità di

volontà tra cittadino e Stato; 13) difficoltà di tale situazione giuridica

soggettiva unitaria a cogliere le esigenze logiche della rappresentanza

nella sua struttura dualista.

Come si è già detto, il punto di riferimento potrebbe essere

individuato nei §§ 258 e 260 (e, per certi versi, nel 311) della Filosofia del

diritto, laddove, già nelle note di Gans,513

ma ancor più nell'opera

512 Sul pensiero degli Epigonen, cfr. supra, § II.3.1.

513 Per il ruolo di Gans nell'interpretazione della filosofia del diritto del Maestro,

cfr. M. RIEDEL, Eduard Gans als Schüler Hegels. Zur politischen Auslegung der

Rechtsphilosophie, in "Rivista di Filosofia", 1977, n. 7,8,9, pp. 234 e ss.; nonché M. H.

HOFFEIMER, Eduard Gans and the Hegelian Philosophy of Law, Dordrecht, Boston,

London, 1995, p. 15 e ss.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

345

interpretativa-apologetica di Rosenkranz e, soprattutto, nella

sistematizzazione delle Philosophische Vorlesungen über den Staat che

Erdmann avesse tenuto ad Halle nel 1851, trova conforto l'assunto per cui,

nell'ambito del diritto pubblico, il cittadino non può avere alcuna volontà

né alcun interesse diverso da quello dello Stato, poiché è in quest'ultimo

che egli trova la sua Aufhebung, essendovi, secondo le parole dell'autore

hegeliano, "chimicamente compenetrato",514

consentendo ai colleghi

giuristi, come si dirà, di negare l’alterità tra cittadino e Stato,

riconducendoli ad un’unica parte sostanziale e processuale, ad un unico

centro di imputazione di volontà ed interessi.

Si è già notato come, proprio l'anno prima dell'ingresso di Gerber

nel dibattito, Erdmann, tiene ad Halle il proprio corso muovendo dalla

dimostrazione dell'assunto "Lo Stato come supremo organismo etico", in

cui -fra l'altro- negando la prospettiva individualistica propria

dell'illuminismo francese (e della Rivoluzione) sostiene la necessaria,

storicamente ineludibile compenetrazione (diretta) di singolo e Stato.

Dalla pretesa identità di volontà tra cittadino e Stato viene dedotta

l'attività del Parlamento, come inventore, nel senso di scopritore, cioè

come unico interprete autorizzato del Volksgeist, specificando che

l'eventuale trasformazione in legge positiva di quanto, per fretta o per

errore, non doveva essere riconosciuto come Volksgeist, troverà

un'opportuna autocorrezione nell'opera dello stesso legislatore, per cui,

con un assonanza platonica, l'organismo malato non muta la sua identità,

"il tronco immutabile delle sue istituzioni", per il solo fatto di subire delle

cure.

La semplificazione dell'autore di Halle sui momenti dello Spirito

oggettivo, svincolato dallo Spirito assoluto, fornisce ai colleghi

giuspubblicisti un'interessante costruzione logica del concetto di Stato,

apparentemente stringente, anche per il suo riferimento all'opera del

Filosofo di Berlino, seppur essa, ormai divelta dalle radici che l'avevano

generata, si reggeva su di un asserto non più criticamente verificato. Tale

assunto, come si è detto, è la necessaria compenetrazione di cittadino e

Stato, da cui la loro identità di volontà, che consente, con quel particolare

meccanismo descritto nel capitolo precedente, la formazione della legge,

intesa come reperimento e cristallizzazione del Volksgeist. E in questo

senso occorre ricordare la precisazione di Lorenz von Stein -che abbiamo

514 Il riferimento alla chimica non è casuale, cfr. supra nota n. 300.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

346

già incontrato in veste di salace censore dell’opera di Savigny sulla

necessaria interpretazione estensiva del termine legge, comprensivo tanto

della fattispecie universale ed astratta, quanto della particolare e concreta,

sull'osservazione che né la legge né l'ordinanza di per sé sole sono la

manifestazione piena e sincera della volontà dello Stato, poiché “È

impossibile vivere in uno Stato soltanto secondo le leggi, o di esser

governato soltanto dalle leggi. La vera vita politica appare anzi

nell'incessante integrarsi della legge coll'esecuzione di essa, e

quest'integrazione si esprime col mutuo organico rapporto della legge

coll'ordinanza o regolamento”.515

Avendo semplificato la triade dialettica, tolto il medio della società

civile e dimenticata la famiglia, si inceppava però irrimediabilmente il

meccanismo del Maestro, con la conseguenza che il cittadino, non

volendo, non potendo avere in campo pubblico volontà diversa da quella

dello Stato, con questo forma una Einheit, cosicché con Laband, cittadino

e Stato giuridicamente costituiscono una parte sola, un solo centro di

imputazione di volontà e di interessi. In materia pubblica, tra essi non può

esservi alterità e, vedremo, si dichiarerà conseguentemente non potersi

dare tra gli stessi alcun rapporto giuridico soggettivo di diritto-dovere, da

cui la difficoltà di ammettere lo jus actionis del primo nei confronti del

secondo, inteso quale strumento per far valere un "diritto" che non sembra

risiedere da nessuna parte. Seppure, come si è detto, Gerber ricorda che

spetta al popolo la verifica della conformità della legge al Volksgeist.

Quanto abbiamo appena esposto cade, l'Einheit si spezza, ammettendo che

vi sia un'entità popolo diversa da quella rappresentata dallo Stato, capace

di manifestarsi in modo giuridicamente rilevante, esternando atti di

volontà. Se si prevede il caso di un ricorso diretto al popolo per sanare un

atto dello Stato, si riconosce in esso il fondamento della potestà legislativa

primaria, secondo la terminologia di Jellinek che, incaricandosi di

515 Cfr, L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht (1865), citato da R.

von GNEIST, Der Rechtsstaat und die Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin,

1879, rist. Darmstadt, 1958, p, 354, n. 65, che rileva la contraddizione di questa dichiarata

commistione tra le fonti e gli atti amministrativi con quanto altrove sostenuto con vigore

dallo stesso von Stein, affermando che il contrasto fra la legge ed il decreto è di

competenza dei tribunali ordinari, quello fra ordinanza ed il decreto è di competenza delle

autorità amministrative. Se compenetrazione organica c'è, deduce l'autore prussiano, non

può esservi contrasto. In questo modo, i tradizionali vizi degli atti amministrativi, e

segnatamente la violazione di legge, dovrebbero essere risolti al pari delle incongruenze

dei testi legislativi, tramite un'interpretazione sistematica.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

347

capovolgere la costruzione labandiana, indicherà nel popolo l'organo

primario dello Stato, pur circoscrivendone subito la competenza.516

Anche

le stesse espressioni testuali di Gerber sopra citate ricordano molto la

ratihabitio del mandante.517

In altri termini, viene prospettata l'evenienza di fattispecie in cui

quello che lo Stato ha rinvenuto come costume del popolo ed ha

trasformato in legge (e, conseguentemente, in regolamento e ordinanza),

deve essere verificato nella sua rispondenza al vero dal popolo stesso. Ma

ben si vede come in questo caso il popolo non appaia sussunto

necessariamente nello Stato, secondo l'idea pseudo hegeliana che regge

tutta l'opera dell'autore prussiano. Al contrario, nella testé prospettata

ipotesi di "sanatoria" (e per il solo fatto di prospettarla) il popolo è

concepito in posizione di alterità dallo Stato, quasi si trattasse di due parti

distinte: lo Stato rappresentante ed il popolo rappresentato, che è chiamato

a ratificare l'opera del rappresentante.

L'assunto non è privo di contraddizioni. In questa prospettiva, ci si

potrebbe chiedere come debba considerarsi la legge od il provvedimento

(logicamente identici, cfr. nota 515), che non recepiscano correttamente il

Volksgeist. In forza dei principi esposti, in attesa del corretto reperimento

dello spirito del popolo, dovranno essere considerati invalidi o addirittura

inesistenti? In realtà, il problema appare ridimensionato ove si consideri

che il singolo non ha la facoltà di interpretare il Volksgeist, operazione che

è monopolio dello Stato o, apparentemente, del popolo, nella variante di

Gerber. Il cittadino che ritenga il provvedimento non conforme allo spirito

del popolo e quindi al pubblico bene, può solamente eccitare gli organi

dello Stato ad eseguire un'altra interpretazione, ma non certo a fornirla

egli stesso o a disattendere l'atto. La questione si sposta così ad indagare

quale debba essere la sorte degli effetti prodotti medio tempore dagli atti

annullati; ma non sembra che quest'aspetto sia stato indagato oltre la

frettolosa risposta per cui l'atto rinnovato deve rimuovere altresì gli effetti

516 Infatti, sul punto Jellinek, riconoscendo ineludibile il fondamento del Volksgeist

nel popolo stesso, assicura tuttavia il monopolio della sua interpretazione allo Stato,

rectius agli altri organi dello Stato, circoscrivendo la competenza del popolo, quale

"organo di legislazione primaria" nei termini ricordati supra al § II.3.4.

517 Si confronti quanto osservato supra al § II.3.2., in relazione al passo di Gerber,

citato alla nota n. 369.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

348

dannosi per i singoli, senza con ciò guardare le situazioni giuridiche

soggettive favorevoli dei privati che riposano sugli atti viziati.

Conseguentemente, l'impossibilità per lo straniero di promuovere

ricorso deriva dalla mancanza di titolarità dei diritti derivanti dalla

cittadinanza, ma anche e soprattutto, dalla sua non intelligenza del

Volksgeist. In questo v'è concordanza tra i tradizionali criteri di

conferimento della cittadinanza, il sangue e la naturalizzazione, con

l'ingresso nella comunità, nel Volk, secondo la definizione, tra gli altri, di

Erdmann e di Gerber:518

Se in Gerber si poteva ancora rinvenire una traccia di dualismo,

costituito dalla riconosciuta esistenza di un rappresentato e di un

rappresentante, un popolo di fronte allo Stato, Laband è perentorio quando

afferma che "Das gesamte deutsche Volk hat keine vom Deutschen

Reiche verschiedene und ihm gegenüber selbstäntige Persönlichkeit, ist

kein Rechtssubjekt und hat juristich keinen Willen”519

Lo stesso Jellinek, già per molti versi in aperta polemica, quando

non in antitesi con il collega di Strasburgo, su questo punto non sembra

avere una posizione sostanzialmente diversa, ma anzi accoglie la

distinzione, già precedente a Laband, tra le leggi che costituiscono in capo

al cittadino un ampliamento della propria sfera giuridica soggettiva, da

quelle leggi che trattando dell'organizzazione dello Stato non incidono nel

patrimonio del singolo se non conferendogli un interesse al rispetto della

legalità.520

518 Cfr. supra, alle note n. 309 e 347.

519 P. LABAND, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, cfr. nota n. 426.

Per la diversa applicazione del medesimo principio che si andava consolidando in

Austria in quegli stessi anni, cfr. E. HOLTMANN, "Sozialpartenschaft" und "sociale Frage".

Korporatistische Tradition in Österreich: Der Ständige Beirat des Arbaitßtatistischen

Amtes als Beispiel paritätischer Intereßenvertretung in der Späthabsburgerzeit, in "Der

Staat", 1988, p. 233 e ss.

520 La distinzione tra legge in senso materiale e legge in senso sostanziale, trova

giustificazione proprio nell'assunto che in campo pubblico cittadino e Stato non possono

che avere la medesima volontà; per cui, trattandosi di un unica parte, le leggi prettamente

pubblicistiche di organizzazione dell'amministrazione statale non sono attributive di diritti

dell'uno nei confronti dell'altro. Cfr. G. JELLINEK, Gesetz und Verordnung, Freiburg, 1887

(rist. Aalen, 1964), p. 240.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

349

Ulteriori conseguenze di una siffatta correlazione non tarderanno ad

essere tratte dai primi allievi di Laband521

nel settore del diritto

processuale amministrativo, ove la hegeliana pretesa identità di volontà ed

interessi tra cittadino e Stato nel campo del diritto pubblico consente ad

alcuni di dedurre dall'assenza di alterità anche la difficoltà nell'ammettere

lo jus actionis del primo nei confronti del secondo o, comunque, ove

ammesso, ne viene sottolineato il carattere speciale, eccezione alla regola

generale della tutela degli "interessi individuali" da parte della stessa

amministrazione. In ogni caso proprio dalla semplificazione della Destra

hegeliana sembra derivare la distinzione, nelle conseguenze dell'attività

amministrativa, tra "violazione del diritto" e "pregiudizio di un interesse

individuale".522

Peraltro, anche i critici della tradizionale dottrina

labandiana sembrano restare impigliati nell'equiparazione dei

Philosophen, laddove affermano che la stessa pronuncia giurisdizionale

amministrativa è un atto di amministrazione e, quindi, per definizione

sorretta dal perseguimento di quell'interesse pubblico rettamente

interpretato (solo) dallo Stato.523

In questo senso, tuttavia, già Rudolf von

521 Ma cfr. già L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht (1865), rist.

della II ed. Frankfurt (a. M.), 1958; R. von GNEIST, Staatsverwaltung und

Selbstverwaltung, Berlin, 1869; IDEM, Der Rechtsstaat, Berlin, 1872; ed il compendio del

proprio pensiero all'indomani dello Zollverein, IDEM, Der Rechtsstaat und die

Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, con la

parziale trad. it. di Isacco Artom, in "Biblioteca di scienze politiche", diretta da A.

Brunialti, vol. VII, Torino, 1891, p. 1111-1335.

522 Cfr. O. MAYER, Le droit administratif allemand, nella traduzione e

ampliamento francese (Paris, 1903-1906, vol. I. p. 190, n. 2; p. 194, n. 5, nonché p. 207 e

ss., ma specialmente p. 210, n. 6), che per stessa ammissione dell'autore-traduttore (cfr.

préface de l'édition française, p. XV), "pour une partie de on exposé sur la nature des

droits publics subjectif et sur la force de la chose jugée en matière administrative, il

n'exixte point d'original allemand".

523 Cfr. op. ult. loc. cit. Ad analoga conclusione, ma con argomentazioni diverse,

giungerà anche Guicciardi, affermando che tutela giurisdizionale e autotutela debbono

essere considerate coincidenti, avendo identico scopo ed oggetto: cfr. infra, nota n. 525.

Per lo sviluppo e il ruolo dell'alterità in tutt'altra prospettiva nel successivo

ingresso nel dibattito di Carl Schmitt, cfr. M.S. BARBERI, Presenza e alterità. Tre figure

della rappresentazione politica in Carl Schmitt, in "Il Politico", 1989, p. 291 e ss.

Per radici diverse, ma connesse, dell'idea di Einheit nel periodo in storico in

esame, cfr. H. DREITZEL, Monarchiebegriffe in der Fürstengesellschaft. Semantik und

Theorie der Einherrschaft in Deutschland von Reform bis zum Vormärz, 2 voll., Köln,

1991; nonché, sotto altro profilo, M. WIENFORT, Ländliche Rechtverfassung in den

deutschen Staaten 1800 bis 1855, in "Der Staat", 1994, p. 207 e ss.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

350

Gneist aveva ipotecato la possibilità di ogni diversa soluzione quando, in

perfetta deduzione dal principio hegeliano, aveva concepito il ricorso del

privato avverso i provvedimenti dello Stato in ambito pubblico al pari di

una querela penale. In entrambi i casi, secondo l'autore prussiano, si

chiede allo Stato di attivarsi per ripristinare la giustizia, nella corretta

interpretazione del Volksgeist, come nella rettificazione delle conseguenze

del reato. Ma in entrambi i casi non vi è propriamente azione dell'uno nei

confronti dell'altro, specificando che il carattere giuridico accordato a tale

interesse è ben diverso da quello accordato al "diritto individuale". Con

sillogistica precisione, “Si tratta quindi di un diritto obbiettivo, che, anche

senza istanza delle parti, deve essere esercitato per il bene pubblico. In

conseguenza tutti i controlli politici sono destinati a tutela tanto dei privati

come di tutta la società. Se nel contenzioso circa questo ordinamento si

accorda udienza alla parti, si discute in contraddittorio con esse, e si

ammette la prova, ciò avviene come nel diritto penale per guarentire che

la legge sia eseguita secondo il suo senso. Si accorda un carattere

giuridico all'interesse delle parti ma in modo distinto da quello che si fa

quando il diritto individuale è il solo, speciale oggetto della tutela

giuridica. Il diritto delle parti e, quindi, nella sfera amministrativa,

secondario: è un diritto di querela che non fa parte dei diritti individuali,

come la proprietà la famiglia etc. Bensì è una derivazione del diritto

pubblico e la parte v'ha un ufficio formale analogo a quello che ha nei

processi penali”.524

Per ulteriore conseguenza si nega che le norme di

524 Così nella sintetica trad. it. di Isacco Artom, in "Biblioteca di scienze politiche",

diretta da A. Brunialti, vol. VII, Torino, 1891, cit., p. 1294-5, con sottolineature nostre.

Cfr. R. von GNEIST, Der Rechtsstaat und die Verwaltungsgerichte in Deutschland,

II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, cit., p. 270-1: "Es handelt sich im eine

Verwaltungsrecht also um eine objective Rechtsordnung, welche auch unabhängig von

Parteianträgen um des öffentlichen Rechts und Wohles willen zu handhaben ist.

Folgeweise sind alle Controllen der Staatsverwaltung gleichzeitig zum Schutz der

Gesamtheit wie des Einzelnen bestimmt. Wenn in bestrittenen Fragen dieser Ordnung den

Untertanen rechtliches Gehör gewährt, contradictorisch verhandelt und Beweis

aufgenommen wird, so geschieht es (wie im Strafprozess) zur Sicherung einer

sinngemäßen Ausführung der Gesetze. Man erkennt das Interesse der Beteiligten als einen

Rechtsspruch an, aber in anderer Weise als da, wo der Rechtsschutz des Individualrechts

nächster Zweck und Gegenstand der obrigkeitlichen Tätigkeit ist.

Das Parteirecht erscheint daher in diesem Gebiet nur als ein sekundäres, aus dem

öffentlichen Recht abgeleitetes, analog wie die formelle Parteistellung des Anklägers und

Angeklagten im Strafverfahren sich Sekundär dem absoluten Gebote der Sinngemäßen

Anwendung des Strafgesetzes unterordnet. -Jene Beschwerderechte sind Keine

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

351

organizzazione facciano sorgere alcun diritto soggettivo in capo ai

cittadini, per cui la loro violazione (che può concretarsi solo da parte dello

Stato) non può comportare in capo al singolo alcuna pretesa di

risarcimento, ma al massimo il potere dovere di eccitare l'amministrazione

a correggere la propria falsa rappresentazione del Volksgeist. Ed in questa

prospettiva, come si è detto, si era posta la questione se la giurisdizione

amministrativa si distinguesse in qualcosa dall'autotutela. Il problema è

giunto in eredità anche alla dottrina italiana, ed è stato affrontato da Silvio

Spaventa, che sinteticamente aveva appuntato: “L'interesse pubblico,

protetto dalla legge, è che la legge non sia violata. Il ricorso è contro

l'amministrazione. Il ricorso sostiene la violazione della legge e domanda

l'annullamento dell'atto; l'amministrazione sostiene che la legge non è

stata violata e chiede che l'atto sia mantenuto. L'interesse che l'individuo e

l'amministrazione hanno nell'osservanza della legge è identico. Se

l'amministrazione riconosce che la legge è violata, ha l'obbligo,

indipendentemente dal ricorso, di correggere la violenza. Quest'obbligo è

fondato sul suo interesse, sull'interesse pubblico. L'interesse individuale,

dunque, che chiede la correzione, è rapporto alla legge un interesse

pubblico, e non un interesse particolare e opposto al pubblico, che la legge

volle proteggere. Qual’è questo interesse? È un interesse pubblico, del

quale l'individuo o il corpo morale sia partecipe, o un interesse privato,

particolare, non connesso con altri, riferibile a lui solo, opposto

all'interesse dell'amministrazione?" 525

Selbständigen Individualrechte, wie Eigentum und Familienrecht, welche um des

Individuums willen anerkannt werden". Le sottolineature sono nostre.

Richiama l'influenza della tradizione inglese nella produzione scientifica e quindi

nella posizione teorica dell'autore prussiano B. SORDI, op. cit. p. 91 e 93, che tuttavia

sottolinea come per von Gneist la specialità del giudice amministrativo non trovi

particolari ragioni nella tecnicità della controversia, ma nella ratio stessa dell'istituto,

riassumendone così l'intuizione fondamentale per cui "se non si devono proteggere diritti

privati, se non si deve risolvere un conflitto di parti, ma realizzare l'unità di giustizia ed

amministrazione, la linearità di un modello che rimane principalmente un modello di

organizzazione del potere legittimato nella superiore unità dello Stato, non può certo essere

il giudice ordinario il giudice competente per così delicate funzioni". Cfr. op. cit., p. 97; sul

punto cfr. anche G. ROEHRSSEN, Lo Stato di diritto secondo Rudolf von Gneist ovvero

dell'ideologia come reazione, in Materiali per una storia della cultura giuridica, VII

(1977), p. 25.

525 Così. S. SPAVENTA, Per l'inaugurazione della IV sezione del Consiglio di Stato,

ora in La giustizia nell'amministrazione, a cura di P. Alatri, Torino, 1949, p. 236, con

sottolineatura nostra. Sulla rilevanza e l’influenza di tale autore cfr. infra alla nota n. 536.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

352

In altri termini, secondo i padri del diritto pubblico tedesco occorre

distinguere quando lo Stato agisce jure privatorum e quando invece è

espressione di jus imperii. Nel primo caso, trattandosi di diritto privato, la

volontà del cittadino ha rilevanza distinta da quella dello Stato, dando

luogo a due distinti centri di imputazione di volontà, a due distinte "parti"

in senso propriamente giuridico e particolarmente processuale, con la

conseguenza che per le questioni inerenti una compravendita il singolo

può evocare in giudizio lo Stato. Per converso, in tema di corvée di

manutenzione stradale, trattandosi di diritto pubblico, secondo la

suggestione hegeliana, il cittadino non ha, non può avere una volontà

diversa da quella dello Stato nel quale, con le parole di Erdmann, è

chimicamente compenetrato. Ne consegue che i due costituiscono

giuridicamente una parte sola, una juristische Einheit, con le parole di

Laband, di talché tra essi non vi può essere alterità. Quindi non è

logicamente possibile nessuna posizione simmetrica di dovere-diritto

soggettivo e pertanto fra di essi, in questi casi, non è dato jus actionis,

secondo i canoni della dogmatica tradizionale.

Se tuttavia lo Stato, nel promulgare una legge o nell'adottare un

provvedimento amministrativo dovesse errare nel recepire il Volksgeist,

chi potrebbe correggerlo? Già Gerber, sull'insegnamento di Erdmann, si è

visto, era esplicito sul punto: solo il popolo, cioè colui che nel campo

pubblico ha la medesima volontà dello Stato, l'idem sentire et velle, potrà

fruttuosamente correggerlo. Ma fra tutto il gesamte deutsche Volk

principalmente interessato alla correzione, alla naturale rettificazione, con

Da identica posizione, ma per via argomentativa diversa, muoveva la stringente

consequenzialità logica di Guicciardi: "Posto invero che la repressione ad opera del

giudice amministrativo si effettua sugli stessi atti, per i medesimi vizi e con le stesse

finalità che potrebbe assumere la repressione in via amministrativa, e che quest'ultima

viene chiamata autotutela dell'amministrazione, come negare che anche la prima si attui

per tutelare l'interesse giuridico dell'amministrazione stessa?" cfr. E. GUICCIARDI, Concetti

tradizionali e principi ricostruttivi nella giustizia amministrativa, (Padova 1937), Torino,

1967, p. 1. Per le considerazioni sulla Methodenlehre che sostiene questo scritto, cfr.,

infra, alla nota n. 531. In conseguenza di tale posizione, deduzione del principio di stretta

legalità, il Maestro padovano ha sostenuto il dovere dell'amministrazione di procedere in

ogni caso all'annullamento dell'atto illegittimo, senza nulla concedere all'orientamento

giurisprudenziale già allora maggioritario, che prevedeva un giudizio (tecnico o di valore?)

nel bilanciamento tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e l'interesse al

mantenimento delle situazioni giuridiche soggettive pubbliche e private che sull'atto

illegittimo si erano consolidate. Cfr. E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova,

(1942) 1954, p. 90.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

353

le parole di Erdmann, può essere solo quel cittadino che più direttamente

sia stato colpito dall'errore. Proprio lui potrà ricorrere526

avverso il

provvedimento dello Stato che ha male interpretato il Volksgeist, seppure

necessariamente ancora una volta, si intende, spetta allo Stato stesso la

decisione ultima sulla reale portata dello Spirito del popolo. Tuttavia, per

opinione comune di questi autori, errare nell'interpretazione del Volksgeist

non costituisce violazione di un diritto del cittadino, come conseguenza

che le norme di organizzazione non sono attributive di diritti, tantomeno

suscettibili di risarcimento.

E così il cerchio si chiude: dalla pretesa identità di volontà di

cittadino e Stato in campo pubblico, frutto di una cattiva interpretazione

dell'opera hegeliana, si deduce che essi costituiscono una sola parte; un

solo centro di imputazione di volontà ed interessi, per cui non può esservi

alterità; non si danno posizioni simmetriche di diritto e dovere;

conseguentemente le norme di organizzazione non fanno sorgere in capo

al cittadino alcun diritto soggettivo, mentre la loro violazione da parte

dello Stato non dà azione di risarcimento, bensì solo ad una sorta di

reclamo per invocare il rispetto del Volksgeist; ma più rigorosamente,

siccome l'interpretazione del Volksgeist è attribuita necessariamente allo

Stato, l'azione si riduce ad una richiesta di riesame dell'interpretazione

dello stesso. In questa prospettiva, l'interesse a ricorrere è completamente

astratto: altro non è che un fattore di legittimazione all’azione,527

mentre la

giurisdizione amministrativa, qualora sia distinta dall'autotutela, non può

526 Nell’interpretazione restrittiva che del termine si perita di specificare Rudolf

von Gneist, cfr. supra, alla nota n. 524.

Conviene fin da subito anticipare l’apparente corrispondenza con la meno recente

dottrina italiana, p.es di E. BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi, Torino, 1911, p. 23

e ss., che però sulle suggestioni degli autori francesi, sembra temperare la natura oggettiva

della giurisdizione amministrativa, argomentando che la l. 20 marzo 1865, all. E., 3 e

all’all. F., art. 379, concedendo l’ammissione al ricorso dei soli interessati, implicitamente

dichiara che non tutti i cittadini debbono ritenersi egualmente interessati alla tutela della

norma che si pretende violata e che di conseguenza l’interesse “deve variare a seconda del

diverso rapporto in cui la norma si trova rispetto a determinate persone” (p. 25).

527 Il problema si è posto a S. SPAVENTA, op. cit., p. 235, ove afferma che

"l'interesse individuale offeso è solamente preso come motivo ed occasione per

l'amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti; ma non è l'oggetto proprio della

decisione, a cui tale riesame può metter capo". Quest'aspetto verrà compiutamente trattato

da G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, IV ed., Napoli, 1928, rist. 1965,

specialmente p. 358, ma anche p. 50 e 67, ove viene citato espressamente Laband.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

354

che aver natura oggettiva, vertendo sugli atti nella loro conformità al

pubblico bene.528

Tutto il meccanismo dogmatico, e segnatamente processuale, si

regge dunque sull'assunto per il quale "nel campo pubblico il cittadino non

possa avere volontà distinta da quella dello Stato poiché in esso trova la

sua Aufhebung". Assunto non dimostrato dai giuspubblicisti, ma

acriticamente recepito sulla convinzione tacita che trovi fondamento

nell'imponente e riverito sistema hegeliano.

Che tutto ciò sia in verità una palese forzatura e semplificazione de

"l'ingresso di dio nel mondo",529

appare talmente evidente da risultare

banale. Tuttavia, considerata l'autorevolezza degli interpreti, in

riferimento a quel periodo storico, tali rappresentazioni, per quanto

semplicistiche, non potevano che trovare, come riteniamo abbiano trovato,

accoglimento nei colleghi giuristi che, nello stesso periodo e -spesso-

528 Secondo le deduzioni di L. von STEIN, Verwaltungslehre und Verwaltungsrecht

(1865), rist. della II ed. Frankfurt (a. M.), 1958; R. von GNEIST, Der Rechtsstaat und die

Verwaltungsgerichte in Deutschland, II, Berlin, 1879, rist. Darmstadt, 1958, seppure O.

MAYER, Le droit administratif allemand, cit., le revochi in dubbio, almeno parzialmente.

Cfr. supra alle note n. 515 e 525.

529 Secondo la nota definizione dello Stato data da G.W.F. HEGEL, Grundlinien der

Philosophie des Rechts, 2. Auflage, Berlin, 1840, § 258, Zusatz.

La definizione iperbolica non deve trarre in inganno, come ci insegna già Adolfo

Ravà, tra l'altro collega di Donati, del giovane Guicciardi e primo maestro di Esposito

nell'Università patavina. Il riferimento non è solo alle tradizionali critiche rivolte allo Stato

etico hegeliano. Ravà infatti non rinuncia a mettere bene in evidenza le differenze tra la

struttura ed il posto occupato dallo Stato nella costruzione del Maestro di Berlino e

l'assoluta supremazia assegnatagli, p. es., da Giovanni Gentile, per cui se, nella costruzione

del primo, lo Stato è posto accanto alla famiglia e alla società civile, quale momento

culminate dello spirito oggettivo (cfr. G.W.F. HEGEL, Encyclopadie der philosophischen

Wissenschaften im Grundrisse, 3. Teil, 3. Abteilung, § 553 e ss.), ma comunque sottoposto

allo spirito assoluto, non ostanti le note affermazioni aforistiche con cui è descritto, tra cui

quella sopracitata, in Italia Giovanni Gentile si produce nell'esaltazione dello Stato, forse

come necessaria conseguenza del suo approccio attualistico - attivistico: cfr. A. RAVÀ

Diritto e Stato nella morale idealistica, Padova, 1950, p. XIV, nota 1. Come spiega il

filosofo romano, recuperando dichiaratamente l'insegnamento idealistico di Fichte, il

rapporto tra cittadino e Stato, anche nella versione di Hegel, è il rapporto della parte COL

tutto, ma non di una parte indistinta NEL tutto. Senza per questo condividere l'opinione di

N. TABARONI (La terza via neokantiana della gius-filosofia in Italia, Napoli, 1987, p. 41)

quando afferma che la differenza tra l'idealismo critico dei neokantiani (soprattutto nella

versione di Del Vecchio) e l'idealismo hegeliano sarebbe inferiore alle apparenze. Sul

punto sia consentito rinviare al nostro Adolfo Ravà. Tra tecnica del diritto ed etica dello

Stato, Napoli, 1998, p. 298 e 332.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

355

nelle stesse università, ricercavano un solido (ed autorevole) fondamento,

più simmetricamente logico che genuinamente filosofico, alla loro

costruzione, in un periodo di tempesta politica e concettuale, quale il

Nachmärz, non inferiore, per tali aspetti, alla Rivoluzione francese. Da

tutto ciò si evince come la costruzione di Otto von Gierke, respingendo il

monolitismo labandiano, ma al contrario recuperando l'articolazione

medioevale degli Stände, ponendo cioè un medio etico e non meramente

giuridico (o meglio non legale) tra cittadino e Stato, seppur con i dovuti

distinguo, paradossalmente si avvicini ad Hegel più di quanto non

facciano i suoi colleghi giuspubblicisti, alla cui autorità, attraverso la

rappresentazione dei suoi allievi, si richiamavano. Ma l'aspetto più

singolare è la considerazione che la c.d. "teoria degli organi", di cui tanto

si servirà la dottrina costituzionalistica del Reich, sarà riconosciuta trovare

il suo primo elaboratore sistematico proprio in Otto von Gierke.

Per altro verso, ancora una volta è la distinzione di Barrère de

Vieuzac che sembra sostenere i costituzionalisti del Reich, laddove la

rappresentanza nel diritto pubblico non ammette nel rappresentato

interessi diversi da quelli della collettività, così come interpretati dagli

organi a ciò preposti, a differenza -sembra di poter dedurre- da quanto

avviene nel privato, poiché è solo nel campo pubblico che il singolo, in

quanto cittadino, non può avere un interesse diverso da quello dello Stato.

Lo iatus sta nell'assumere il risultato delle semplificazioni degli Epigonen,

senza coglierne le premesse, la negazione dell'individuo rousseauiano, su

cui ancora si fonda il sistema di diritto privato e sulle cui spalle, tramite

Gerber, poggiano i giuspubblicisti tedeschi. In altri termini, l'assunto per

cui nel diritto pubblico il cittadino non può avere altra volontà che quella

dello Stato, colonna portante dei giuspubblicisti, è il risultato di una

premessa, la reazione all'atomismo illuminista, respinta dai

giuspubblicisti, e in questa prospettiva risulta contraddittorio per due

ragioni. Da un lato non può fondarsi sull'autorità di Savigny, poiché

costituisce un rovesciamento del suo pensiero, in quanto l'identità di

volontà tra legge e popolo riposa sulla premessa che la prima sia il

distillato storico del Geist del secondo; per cui, semmai, dovrebbe essere

il Parlamento a non avere alcuna volontà diversa dal popolo, giacché un

errore del primo nel cogliere il Volkgeist trasformando in legge ciò che

non gli corrisponde veramente, comporterà la necessaria abrogazione (di

fatto o diritto) di siffatta norma, e in questo senso concludono anche J.E.

Erdmann e H. Ahrens. Per altro verso, il medesimo assunto è

contraddittorio non solo perché presuppone un'eticità malamente mutuata

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

356

da quella hegeliana, ma soprattutto poiché a tale concezione del soggetto

viene affiancata, sia nell'ambito privato, ma anche dello stesso pubblico,

la concezione prettamente individualistica rousseauiana, propria della

dottrina privatistica, contro la quale aveva appuntato le sue critiche Georg

Friederich Wilhelm Hegel. Pur facendo proprio il superamento del singolo

nello Stato, anzi, ponendo questo assunto come architrave della propria

costruzione, questi autori, pescando con disinvoltura da una parte e

dall’altra, mantengono fermo il pregiudizio individualistico originario,

anche quando il cittadino è nello Stato. E tutto ciò dimostra, per quanto ce

ne fosse ancora bisogno, la distanza di siffatta posizione dal pensiero del

Maestro di Berlino. Sotto questo profilo il problema trascende l'economia

di questo lavoro, poiché l'indagine, sviluppata ulteriormente, potrebbe

giungere a dimostrare più in generale il debito hegeliano della prima

giuspubblicistica tedesca, per cui, se fino ad ora la critica ai padri del

diritto pubblico del Reich è avvenuta all'interno della disciplina

costituzionalistica, seppure con alcuni tentativi di riferimento

metodologico alla topica e alla retorica,530

potrebbe ora allargarsi ad un

ambito più vasto, di pura Teoria Generale del Diritto, evidenziando da un

lato le aporie proprie delle semplificazioni operate dagli Epigonen sul

pensiero del Filosofo di Berlino, dall'altro dimostrando soprattutto

l'incompatibilità tra il metodo adottato dagli Juristen con le premesse

recepite dai colleghi filosofi: premesse che, per quanto snaturate, erano

pur sempre i risultati delle concezioni e del metodo di Hegel.

Tuttavia, per quanto l'influenza in Italia della scienza giuridica

tedesca in generale a cavallo del secolo sia un tratto riconosciuto, e per

quanto l'assonanza delle costruzioni appena esposte sembri accordarsi con

la distinzione tra norme di azione e norme di relazione, così come

compiuta dalla dottrina nazionale più sottile, appare affrettato trarre la

conclusione di una mera recezione letterale, quasi traduzione dal tedesco,

530 Recentemente, cfr. p. es. il corposo e denso saggio di K.A. SCHACHTSCHNEIDER,

Res publica res populi. Grundelgung einer Allgemeinen Republiklehre, Berlin, 1994, p.

541 e ss. e ancora p. 664 e ss; nonché H. BUCHHEIM, Wie der Staat existiert, in "Der Staat",

1988, p. 1 e ss. In verità spunti di ripensamento erano già apparsi nel poco conosciuto

volume di Henke, nella sua ricostruzione della figura dogmatica del diritto pubblico

soggettivo, anche attraverso un confronto con la meno recente giurisprudenza

amministrativa, cfr. W. HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968,

specialmente II Teil, § 14, Öffentliche Rechte gegen die Verwaltung in der älteren

Rechtsprechung, pp. 62-71.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

357

operata dai nostri pionieri del diritto amministrativo e del diritto

processuale amministrativo in particolare.

Infatti, sebbene i volumi tedeschi da cui abbiano citato siano, anche

fisicamente, proprio gli stessi compulsati da Donato Donati, Carlo

Esposito, ma soprattutto Enrico Guicciardi, sarebbe azzardato dedurne un

debito del Maestro padovano che trascenda la normale ricerca e confronto

analitico con la dottrina straniera.531

Se da un lato l’Autore rappresenta la giurisdizione amministrativa

come obbiettiva, non per questo presuppone l’identità di volontà tra

cittadino e Stato; slegando così le proposizioni che per i colleghi

d’oltralpe stavano come premessa a conseguenza. A questo proposito due

sono state riconosciute le peculiarità della costruzione di Guicciardi.532

Sotto un primo profilo la prevalenza dell’interesse pubblico sul

privato, della collettività sul singolo, può avere rilevanza nel momento

politico, di individuazione del bene della comunità, cioè di confezione

della legge,533

ma una volta che questa sia promulgata, sono egualmente

531 La continuità che lega il Maestro padovano con la dottrina germanica e

segnatamente con la pandettistica è stato ampiamente riconosciuto da M.S. GIANNINI,

Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in "Riv. dir. proc.", 1963, p. 527 e ss. In

verità, il debito, più che di contenuti, ci pare di metodo nella progressiva, chiara e

logicamente stringente deduzione dai principi, soprattutto se paragonato ad altri autori,

quali Mantellini e Ranelletti: si pensi, p. es., alla negazione della scientificità, dal punto di

vista dogmatico della stessa situazione giuridica soggettiva dell'interesse occasionalmente

protetto dimostrata in E. GUICCIARDI, Concetti tradizionali e principi ricostruttivi nella

giustizia amministrativa, (Padova 1937), Torino, 1967, p. 4 e ss. Il valore di questo scritto

trascende l'ambito puntuale del suo oggetto, assumendo rilevanza per la Methodenlehre

proposta, sulla scia della migliore tradizione germanica cui Guicciardi aveva direttamente

attinto (di nobile famiglia valtellinese, dall'impegnativo motto soccumbat virtuti fraus, era

figlio di Giuseppe e Maria Tobler, di madre lingua tedesca), richiamando l'attenzione sul

metodo di identità e differenza, alla luce dei principi di non contraddizione e del terzo

escluso. È interessante notare come la riproposizione, da parte di Guicciardi, di questi

canoni del procedimento conoscitivo, che, ricordiamolo, vantano origini nella Grecia

classica, riprenda in pieno la tradizione della metodologia giuridica. Cfr. supra, § I.1.

532 Cfr. LE. MAZZAROLLI, Presentazione a E. GUICCIARDI, La giustizia

amministrativa, ristampa della prima edizione (1942), Padova, 1994, p. VII.

533 Sul senso e la portata, tanto di contenuto quanto di metodo, della politica, intesa

in linea con la tradizione classica, nonché per la distinzione tra “governo” e

“amministrazione”, inteso l’uno quale ricerca ed indirizzo della comunità verso il proprio

bene e, l’altra, quale organizzazione di uomini e cose nel perseguimento dei fini

individuati dal governo, evidenziando altresì le aporie conseguente alla confusione dei

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

358

sottoposti ad essa cittadino e Stato-Amministrazione; con la conseguenza

che la prevalenza dell’interesse pubblico eventualmente si ridurrebbe ad

un mero canone ermeneutico e, come tale, fungibile.

Sotto un secondo profilo, si è osservato come mantenere la

giurisdizione sugli atti ed individuare la legittimazione su un elemento

non sostanziale (l’interesse) produca il risultato di ampliare la facoltà dei

singoli di eccitare gli organi di giustizia amministrativa anche in quelle

fattispecie nelle quali “le norme che si assumono violate non risultino

considerare neppure in via del tutto indiretta la loro sfera di interessi”;534

seppure in tal modo si esclude la risarcibilità per violazione degli interessi

legittimi, concepiti, appunto, come res facti.535

Pur riconoscendo la centralità nel dibattito attuale di questo secondo

aspetto, tuttavia sul primo, che ne pare il presupposto, preme richiamare

l’attenzione in accordo con i fini propostici.

Spezzando infatti la giuridica Einheit, sciogliendo il legame che

vedeva costretti cittadino e Stato in un’unica parte sostanziale e

processuale, riconoscendo cioè che tra di essi vi sia alterità di interessi e di

volontà, si può ammettere che, per fattispecie specifiche, virtualmente essi

abbiano, anche in campo pubblico, interessi e volontà distinti, quando non

addirittura configgenti o contrapposti; pur nella soggezione alla medesima

legge che entrambi li regola.

Ed è in fondo il tentativo di recuperare il delicato equilibrio

hegeliano, quell’Aufhebung dello Spirito Oggettivo che alla morte del

Maestro di Berlino sembrava essersi irrimediabilmente perduto. ruoli, cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 121 e

ss. Cfr. altresì infra alla nota n. 539.

534 Così LE. MAZZAROLLI, op. ult. cit., p. VIII. Cfr. altresì infra, alla nota n. 543.

535 L’intricato problema, che trascende l’economia di questo lavoro, era stato fatto

oggetto di acuta riflessione da parte del nobile valtellinese: E. GUICCIARDI, Risarcibilità da

interessi legittimi, in “Giur. It.”, 1963, che riprende IDEM Risarcibilità di interessi

legittimi? Tentativo di impostazione del problema... da parte di un suo negatore, in Atti del

Convegno Nazionale sul risarcimento del danno patrimoniale derivato da lesione di

interessi legittimi, (Napoli, 27-29. ottobre 1963) Milano, 1965, p.217-226. La risarcibilità

della lesione degli interessi legittimi, limitatamente agli atti, provvedimenti e

comportamenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica – edilizia di appalti

ecc., è stata positivamente introdotta dall’art. 35 del D.Lgs. n. 31 marzo 1998, n. 80.

Peraltro, a riprova di quanto viene detto nel testo, il solo momento positivo non ha risolto,

semmai acuito, il problema teorico – pratico della natura formale o sostanziale degli

interessi legittimi.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

359

Non si può quindi accomunare semplicisticamente la posizione

dell’Autore padovano con le elaborazioni che gli Juristen operano sugli

enunciati degli Epigonen, ma la sua radice teorica deve essere ricercata

altrove.

Occorre infatti fare riferimento alla figura e all'opera di Silvio

Spaventa, che più di ogni altro ha influito sulla dottrina successiva,

specificando come il giurista abruzzese avesse maturato le proprie

posizioni, peraltro assai note, in deduzione rigorosa del proprio approccio

all'opera di Hegel, a differenza dei giuspubblicisti tedeschi, avvenuto

direttamente sull'opera del Maestro di Berlino, poi personalmente

rimeditata anche nel confronto continuo con il fratello Bertrando; e questa

sola osservazione serve per ridimensionare l'ipotesi che le contraddizioni

logiche degli Epigonen siano immediatamente giunte alla dottrina

processual amministrativa italiana della prima metà di questo secolo.536

536 Seppure Teresa Serra ci informa documentalmente dei contatti di Bertrando

Spaventa con gli hegeliani di destra, di cui fanno fede i numerosi rinvii a Hinrinchs,

Gabler, Schaller, oltre che a Rosenkranz, Michelet e Kuno Fischer sparsi nell’opera

spaventiana. Emblematico l’esempio dei manoscritti del 1865 sulla Fenomenologia (in B.

SPAVENTA, Scritti inediti e rari (1840-1880), a cura di D. D’Orsi, Padova, 1966), ove il

testo risulta pieno di note ed aggiunte che rinviano con precisione alle opere dei maggiori

hegeliani di destra, dimostrandone una conoscenza diretta. Meno citati i rappresentanti

della sinistra, dei quali si percepisce la conoscenza indiretta, forse per il tramite di

Michelet, al quale rinvia per distinzione tra destra e sinistra. Infine, viene osservato che per

quanto Spaventa si accosti più alla destra che alla sinistra, legge gli autori di destra con

attitudini apertamente progressiste e in termini che sono di sinistra. Così T. SERRA,

Bertrando Spaventa. Etica e politica, Roma, 1974, p. 37-38, in nota.

Le opere principali del giurista abruzzese, tra cui il famoso mai tenuto Discorso

per l'inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato (13.3.1890) sono raccolte in S.

SPAVENTA, La giustizia nell'amministrazione, a cura di Paolo Alatri, Torino, 1949.

Tuttavia, per comprendere la formazione filosofica del Nostro, occorre fare riferimento

agli studi giovanili raccolti in S. SPAVENTA, Dal 1848 al 1861, a cura di B. CROCE, II^ ed.,

Bari, 1923.

Per la ricostruzione del pensiero di Silvio Spaventa, quale teorico generale del

diritto ed amministrativista, nonché per il ruolo da lui svolto nello sviluppo della scienza

dell'amministrazione, cfr. F. FILOMUSI GUELFI, Lezioni e saggi di filosofia del diritto,

Milano, 1949; nonché G. CAPOGRASSI, Il ritorno di Silvio Spaventa, in Opere, VI, Milano,

1959, p. 19 e ss. Più recentemente, cfr. M. NIGRO, Silvio Spaventa e la giustizia

amministrativa come problema politico, in "Riv. trim. dir. pub.", 1970, p. 715; nonché

IDEM, Silvio Spaventa e lo Stato di diritto, in "Foro it.", 1989, V., p. 122; nonché il corposo

e denso saggio di N. DI MODUGNO, Silvio Spaventa e la giurisdizione amministrativa in un

discorso mai pronunciato, in "Dir Proc. Amm.", 1991, n. 3, pp. 375-482.

Oltre che in Salandra, il riferimento all’autore abruzzese appare principalmente in

F. D’ALESSIO, Le parti nel giudizio amministrativo, Roma, 1915; nonché in E. GUICCIARDI,

La giustizia amministrativa, Padova, (1942), III ed. 1954, specialmente p. 67 ove

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

360

Proprio il ripensamento critico dell'opera di Hegel, sfociante

tuttavia nella sostanziale adesione alle tesi fondamentali, da un lato

comporta la logicamente stringente deduzione del carattere c.d. obbiettivo

della giurisdizione amministrativa. Per quanto infatti recentemente si sia

inteso ricercare nell'opera del giurista abruzzese spunti per una diversa

soluzione,537

ne viene comunque riconosciuta la prospettiva idealistica con

la correlazione di interesse pubblico ed interesse del singolo.538

Dall'altro, quando Silvio Spaventa, sulla scia del fratello Bertrando,

sembra riconoscere il senso del dovere, l'attitudine a rispettare la regola

propria in ogni uomo in quanto essere ragionevole, logon èkon al modo

dello Stagirita,539

ammette l'alterità dei soggetti ed evita ad un tempo la

semplificazione degli Epigonen. La difficoltà della posizione di Hegel,

ripresa nell'idealismo di Spaventa risiede proprio in questo: nel concepire

che l'interesse del singolo e dello Stato tendenzialmente coincidano,

tuttavia non perché il primo sia annichilito nel secondo, ma proprio perché testualmente si afferma che "tale giurisdizione trova la sua ragion d'essere diretta ed

immediata nella tutela dell'interesse pubblico e nella necessità di assicurare la conformità

ad esso degli atti dell'Amministrazione", con esplicito rinvio in nota a Silvio Spaventa.

537 Cfr. N. DI MODUGNO, op. cit., ma sul punto specialmente p. 451 e ss.

538 "Ma è l'Universale (Stato, governo, diritto) il mezzo in cui gli individui e la loro

soddisfazione hanno e mantengono le loro piene realtà e mediazioni e consistenza". Così S.

SPAVENTA, Dal 1848 al 1861, cit., p. 193, con l'annotazione del curatore B. Croce, che ci

ricorda come tale passo provenga dall'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio

di Hegel. Al proposito, con il consueto acume, G. CAPOGRASSI (op. cit., p. 19) precisa che

questa correlazione singolo-Stato non impedisce a Spaventa di mantenere il primo distinto

nei confronti del secondo.

Peraltro, la difficoltà concettuale di mantenere i due termini in delicato equilibrio,

introdotta nel dibattito giuridico da Silvio Spaventa, emerge prepotente nelle opere degli

autori di poco a lui successivi, tra cui E. BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi,

Torino, 1911, p. 21 e ss., ove pur ammettendo che “l’interesse collettivo comprende

necessariamente l’interesse dei singoli”, non ritiene sia “lecito giungere alla conseguenza

ad ogni individuo possa consentirsi di far valere uti singulus e come suoi propri, gli

interessi che concernono quella comunità di cui è parte”, seppure subito dopo dissente

dall’”eccessivo rigore” delle deduzioni degli autori tedeschi in tema di giurisdizione di

diritto obbiettivo.

539 S. SPAVENTA, op. ult. cit., p. 192-3. Per il significato ed il ruolo della regolarità

come attitudine non convenzionale del soggetto al rispetto delle regole, pur nel loro

mutare, nonché per la collaterale idea di autonomia, quale attitudine a darsi delle regole ed

a rispettarle, in linea con la tradizione classica di Platone ed Aristotele, cfr. F. GENTILE,

Intelligenza politica e ragion di stato, II ed., Milano, 1984, p. 33 e ss.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

361

il cittadino è il vero soggetto, libero in quanto dotato di propria volontà

all'interno di un ordinamento cui appartiene, cioè, con Hegel, l'essenza

dell'autocoscienza. È in fondo la quadratura del cerchio e non c'è da

stupirsi della difficoltà del periodare del Maestro di Berlino, né di quello

del giovane Spaventa che tentava di riordinare le proprie idee.540

540 Conviene richiamare l’esposizione del problema nel § 260 dei lineamenti di

Filosofia del Diritto di Hegel, cioè il passo da cui muove die ganze Geschichte della Destra

hegeliana: "Lo Stato è la realtà della libertà concreta; ma la libertà concreta consiste nel

fatto che l’individualità personale, e gli interessi particolari di essa, hanno tanto il loro

pieno sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della

società civile) quanto, in parte, si mutano, da sé stessi, nell'interesse della generalità, e in

parte, con sapere e volontà, riconoscono il medesimo, cioè in quanto loro particolare

spirito sostanziale, e sono atti al medesimo, in quanto loro scopo finale; così che né

l'universale ha valore ed è compiuto senza l'interesse, il sapere e il volere particolare, né gli

individui vivono come persone private semplicemente per quest'ultimo, e, senza che

vogliano, in pari tempo, nel e per l'universale, e abbiano un'attività cosciente di questo

fine. Il principio degli Stati moderni ha quest'immensa forza e profondità: lasciare che il

principio della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della particolarità

personale, e, insieme, riportarlo all'unità sostanziale, e, così, mantenere questa in esso

medesimo". Cfr. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del diritto, trad. it. di F.

MESSINEO, Bari, 1913, rist. 1974, p. 246. In questo senso, guardando al singolo passo e

dimenticando il sistema generale, si può comprendere l’interpretazione datane dagli

Epigonen.

Dal canto suo, il Giurista abruzzese, rimeditando l'insegnamento hegeliano

scriveva: "La libertà vera è obbiettiva e subbiettiva nel tempo stesso: voglio dire che essa

deve aver contenuto la ragione obbiettiva e per forma la subbiettività dello spirito. Io sono

libero se voglio fare ciò che è ragionevole:

- io devo fare la legge, e devo volere la legge. La legge deve essere la mia volontà.

Gli astri si muovono secondo una legge razionale: non sono liberi. Per dirsi libero l'uomo

deve volere la legge: questo è il lato della soggettività.

- Ora, nello Stato, questo principio della soggettività della libertà come ha da aver

luogo? Lo Stato è la libertà: in esso cioè la libertà obiettiva (il ragionevole della libertà)

giunge alla sua verità: e parimenti della libertà soggettiva. Ma la libertà soggettiva, come

coscienza, non ha la sua verità che nella rappresentazione: la sua verità nello Stato è,

dunque, che vi sia rappresentata. Di qui il principio della rappresentazione" E ancora: "Se

io fo ciò che devo senza volerlo, io non sono neppure libero. Se io non voglio il mio

dovere, esso rimarrà esterno a me: non è la mia essenza, e non può essere la mia libertà: io

non mi riconosco in esso, esso è autorità, non libertà". Cfr. S. SPAVENTA, Dal 1848 al

1861, lettere, scritti e documenti, pubblicati da B. CROCE, II ed., Bari, 1923, p. 191e ss;

ove lo stesso autorevole curatore avvisa che proprio negli anni 1955-57 Spaventa

intraprese la traduzione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Cit. entrambe in N. DI

MODUGNO, Silvio Spaventa e la giurisdizione amministrativa in un discorso mai

pronunciato, in "Dir Proc. Amm.", 1991, n. 3, rispettivamente p. 393 e 396.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

362

Ed è verosimilmente per queste ragioni che, nella variante italiana

della prima giustificazione teorica dell'interesse legittimo, dalla

concezione di Stato accolta, si sviluppa la duplice logica conseguenza che

la giustizia amministrativa riguarda i provvedimenti, nella loro conformità

al pubblico bene;541

ma anche -a differenza della tradizione germanica-

che il cittadino è dotato di capacità giuridica di diritto pubblico.542

541 "In questa giurisdizione non si tratta di definire controversie nascenti dalla

collisione di diritti individuali e omogenei, ma di conoscere solamente, se il diritto

obiettivo sia stato osservato.

Ciò può servire mediatamente anche all'interesse dell'individuo, ma non ne è

l'immediata conseguenza. Il diritto obiettivo qui si realizza in sé e proprio conto, senza che

ne nasca in ogni singolo caso un diritto soggettivo, o, se può nascerne, non è qui la sede

dove possa farsi valere. L'interesse individuale offeso è solamente preso come motivo e

occasione per l'amministrazione stessa per il riesame dei suoi atti; ma non è l'oggetto

proprio della decisione, a cui tale riesame può metter capo.” Così S. SPAVENTA, Per

l'inaugurazione, cit. p. 235. Il passo continua con questa interessante deduzione: "Il

contenuto della decisione può essere duplice, com'è duplice il diritto d'ispezione delle

autorità superiori sulle inferiori: può essere la conferma o la revoca dell'atto impugnato, o

la emanazione di un atto nuovo in luogo di quello di cui si chiede la riforma" (ibidem); e

ben si può dire che in questo caso juger de l'Administration c'est administrer. Sul punto

rimando a N. DI MODUGNO, op. cit., p. 422-3. cfr. altresì le successive pagine 426 e ss,

nonché 458 e ss. per le indicative deduzioni che l'autore trae da tale affermazione di

Spaventa.

542 Così anche L. IANNOTTA, Motivi del ricorso e tipologia degli interessi nel

processo amministrativo, I, 1989, p. 28, n. 11. Cfr. altresì le anticipatrici intuizioni di W.

HENKE, Das subjektive öffentliche Recht, Tübingen, 1968, specialmente §2, Actio und

Anspruch, p. 4, nonché V Teil, Das subjektive öffentliche Recht im Verwaltungsprozeß, §

21, dal significativo titolo Verwaltungsgerichtsberkeit ohne subjekive öffentliche Rechte, p.

141 e ss.

La primogenitura dell'opera di Hegel per lo studio della scienza

dell'amministrazione, con le conseguenze logiche che si sono illustrate, è riconosciuta

anche da un Autore segnatamente aderente, quando non iniziatore, dell'orientamento c.d.

"soggettivo": cfr. M. NIGRO, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e

trasformazioni dell'amministrazione, in "Dir. Proc. Amm.", 1989, n. 1, p.7, n. 3. Peraltro,

lo stesso Autore aveva lucidamente dedotto le distinte posizioni di Rudolf von Gneist in

Germania e di S. Spaventa in Italia, dal diverso approccio con l'imponente costruzione

hegeliana, seppure -come esposto nel testo-, per quanto riguarda von Gneist il riferimento

debba essere ricercato non direttamente nel confronto dell'autore prussiano con il testo di

Hegel, ma attraverso la rappresentazione e semplificazione datane dalla Destra hegeliana.

Cfr. M. NIGRO, Silvio Spaventa e lo Stato di diritto, cit., tuttavia le differenze tra von

Gneist e Spaventa erano già state messe in evidenza da F. FILOMUSI GUELFI, Enciclopedia

giuridica, Napoli, 1907, p. 553, IDEM, Silvio Spaventa, Lanciano,1894. In senso opposto,

tesse la similitudine tra von Gneist e Spaventa, B. SORDI, Giustizia ed amministrazione

nell'Italia liberale, la formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985, p. 209

e ss.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

363

Ed è proprio questo secondo aspetto -ben presente nel sistema di

Hegel, ma lasciato in ombra dagli interpreti- ad aprire la porta allo

svilupparsi della dottrina del processo amministrativo come processo di

parti, costituendone la chiave di volta.543

Per la verità, nella stessa prospettiva, non dissimile dalla figura

dell’interesse legittimo è anche la posizione del diritto soggettivo perfetto.

Non può essere un caso, infatti, che una delle opere sistematiche

sull’argomento, ritenute allora come oggi di importanza capitale, cioè il

volume di Thon sulla norma giuridica ed il diritto soggettivo, si apra con

una citazione di Hegel, posta quasi a fondamento dell’intera costruzione.

Scrive l’autore di Rostock: “Seit Hegel ist es üblich, das Recht im

objectiven Sinne als den allgemeinen Willen zu bestimmen”.544

Ed in

perfetta conseguenza hegeliana viene dedotta la figura del diritto

soggettivo dal diritto oggettivo. È già stato fatto osservare, infatti, come –

unico caso in tutta la sua opera- sia data distinzione tipografica

all’affermazione per la quale “das gesammte Recht einer Gemeinschaft ist

nichts als ein Complex von Imperativen”,545

sicché la violazione di alcuni

543 Per l'enucleazione del concetto di parte nel processo amministrativo, in

deduzione dai principi generali del diritto pubblico, cfr. F. BENVENUTI, Parte (Dir. Amm.),

in "Enciclopedia del Diritto Giuffré", vol. XXXI, Milano, 1981, p. 962 e ss; nonché IDEM,

La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986. Per alcune puntuali considerazioni

sull’evoluzione, non priva di contraddizioni, dalla natura oggettiva alla soggettiva della

giurisdizione amministrativa, con riferimento anche a conseguenti aspetti pratici, cfr. LE.

MAZZAROLLI, Profili evolutivi della tutela giurisdizionale amministrativa, in “Dir e Soc.”,

1990, p. 3 e ss.; IDEM, Notificazione alle Amministrazioni statali dei ricorsi al giudice

amministrativo e rilevanza della distinzione tra giudizi sugli atti e giudizi sui rapporti, in

“Dir. proc. amm.”, 1992, p. 435.

544 Cfr. A. THON, Rechtsnorm und subjectives Recht. Untersuchungen zur

allgemeinen Rechtslehre, Weimar, 1878, p. 1. “Da Hegel in avanti si definisce

comunemente il diritto oggettivo come la volontà generale”. In modo logicamente corretto

l’autore richiama anche con precisione bibliografica G. W. F. HEGEL, Philosophie des

Rechts, § 82 Zusatz, avvertendo di voler lasciare impregiudicata la questione se la volontà

generale profetata di Hegel sia l’autentica volontà della comunità. Da parte nostra, per

quanto si è visto supra riteniamo di poter sciogliere il dubbio in senso positivo, ritenendo il

diritto obbiettivo nient’altro che la cristallizzazione del Volksgeist.

545 “L’intero diritto di una società non è altro che un complesso di imperativi”.

Così A. THON, Rechtsnorm und subjectives Recht, cit., p. 8, con grassetto nel testo. Lo

speciale sistema di co-attività delineato da Thon trova forse la sua radice teoretica in K.

BINDING, Die Normen, vol I, Leipzig, 1872. Cfr. altresì A. RAVÀ, Il diritto come norma

tecnica, Cagliari, 1911, p.71.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

364

costituisce sovente la condizione di ciò che da altri viene comandato,

attesa la loro stretta connessione. E pur nella prospettiva imperativistica,

che già emerge e di cui si dirà, non risulta una negazione del fondamento

hegeliano il riferimento alla socialità del diritto, con la precisa

affermazione che una norma deve ritenersi giuridica per il solo fatto di

essere considerata obbligatoria per il reciproco contegno dei consociati,

con la conseguenza che lo Stato non può essere ritenuto il solo creatore

del diritto.546

Tuttavia l’aspetto più interessante è dato dalla definizione

“in negativo” del diritto soggettivo -che aveva fatto dire a Binding che i

diritti soggettivi di Thon non sono diritti-547

ove il nostro afferma che il

diritto soggettivo sorge in capo al soggetto tutelato dalla norma, in base ad

una disposizione del diritto oggettivo, in forza della quale, in caso di

trasgressione delle norme stesse, viene assicurato al titolare un mezzo,

cioè la pretesa, allo scopo di realizzare ciò che era stato comandato o

rimuovere ciò che era stato vietato.548

In questo senso, l’essenza del diritto

soggettivo sarebbe nella pretesa ed è già stata messa bene in evidenza

l’assonanza con la proposizione hegeliana del diritto come negazione

della negazione, cioè come strumento per ristabilire l’ordine che era stato

turbato con la violazione del diritto oggettivo,549

così come la pena è la

negazione della negazione, cioè del delitto che aveva negato il precetto.

Tuttavia, il punto essenziale ci sembra un altro: la circostanza che il diritto

soggettivo nasca dal diritto oggettivo, che sia stato definito come il volere

della comunità, il Volksgeist; ed è importante, allora, precisare che il

diritto oggettivo non è monopolio dello Stato. In altri termini, dalle

premesse poste si può evincere che le situazioni giuridiche soggettive

attive del singolo non sono a lui ottriate dallo Stato, procedendo anche da

altre realtà, se si vuole dagli Stände che Gierke550

aveva profetato, e gli

546 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 345 e ss.

547 Nella “Kritische Virteljahrsschrift”, 1879, p. 564 e ss.

548 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 218.

549 Cfr. A. LEVI, Introduzione alla trad. it. di A. THON, Rechtsnorm cit., Padova,

1939, p. XLVII, ove parimenti viene negato un riferimento di Thon alla dottrina

pessimistica di Schopenhauer.

550 Sulla rappresentanza nel Medioevo, per il particolare ruolo che ha avuto nella

trattazione, occorre ricordare nuovamente l'interessante ricostruzione di O. von GIERKE, J.

Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, trad. it.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

365

sono accordate per un certo scopo connesso alla comunità, non certo come

uno spazio ritagliato sul modello dell’unicità, come il luogo, cioè, ove

l’unico ritorna ad essere sovrano, ad esplicare tutta la sua individualità.

Non di meno, tutte queste suggestioni debbono fare i conti con

l’intero disegno di Thon e con le posizioni dottrinali, allora ed ancora

dominanti, dell’imperativismo giuridico, cui, per la verità, nemmeno il

professore di Jena si affranca. Infatti, oltre alla citazione che dipinge il

diritto come complesso di imperativi, evidenziata con carattere grassetto

dallo stesso autore, nella prefazione al proprio lavoro,

programmaticamente si dichiara l’intento di sottoporre ad un rinnovato

esame il concetto di diritto soggettivo. Muovendo infatti, come si è visto,

dal presupposto (latamente hegeliano) che il diritto di una società sia

interamente costituito dalle sue norme, occorre individuare il momento nel

quale una parte del tutto (il diritto oggettivo) diventi patrimonio del

singolo (il diritto soggettivo). Occorre dunque, per il nostro autore,

prendere le mosse dalla norma, per coglierne l’essenza (l’imperatività) e

le conseguenze della sua trasgressione. Un tanto passa per la soluzione del

problema di chi sia il destinatario delle norme: la circostanza che esse si

dirigano anche nei confronti degli incapaci assicura che la violazione da

parte loro garantisce il risarcimento del danno a chi di riflesso è tutelato

da quelle norme.

Come si vede, non solo gli interessi legittimi, ma anche i diritti

soggettivi, in questa prospettiva, sono accordati al singolo come tutela

riflessa per la violazione delle norme statali, secondo quella definizione in

negativo, vista sopra, che portava Binding a sostenere che i diritti

soggettivi prospettati dal suo antico compagno di studi sono “non diritti”.

Spetta a noi ricercare se le difficoltà ad inquadrare un “diritto”

dell’elettore ad essere rappresentato derivino anche dalla particolare

costruzione del diritto pubblico soggettivo.

In sillogistica deduzione del suo carattere riflesso si perviene alla

quadripartizione del diritto soggettivo, inteso come aspettativa di

pretese,551

come tutela delle norme,552

come godimento dei beni protetti

Torino, 1975, ma già anticipato in Das deutsche Genossenschaftsrecht, Darmstad, 1868

(cfr. altresì, IDEM, Die Grundbegriffe des Staatsrecht, Tübingen, 1915), dove viene ripresa

la teoria federalistica e corporativa propria dell'Althusius per riproporre, in anticipo su

Santi Romano e Hauriou, la teoria pluralista della società, costituita da corporazioni che si

intrecciano e si raccordano, gli Stände, Gemeinde, Genossenschaften.

551 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., specialmente p. 108, ove si tratta dei diritti

pubblici e privati, modulando i primi sulla struttura assoluta dei secondi. L’idea di un

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

366

dalle norme,553

come facoltà, cioè come posse giuridico, liceità, di cui

ampiamente si dirà in seguito,554

seppure alla prima definizione il

prosieguo degli studi riserverà la maggior fortuna. A questa, infatti, si

deve l’incrinatura del dogma tradizionale che vede nel diritto reale lo

schema del diritto soggettivo, inteso come immediata signoria sulla cosa.

E, per quanto inaspettatamente, è qui che si può trovare un elemento utile

per il seguito della nostra indagine. Il diritto di proprietà, come ius

escludendi omnes alios non significa che all’acquisto del diritto derivi

immediatamente il possesso del bene, che è, appunto, res facti

manifestantesi come un potere effettivo sulla cosa. Non sarebbe dunque

l’acquisto del diritto reale a dipendere da un rapporto immediato con la

cosa; all’opposto, quest’ultimo dovrebbe essere conseguenza e

diritto pubblico obbligatorio farà molta fatica ad affermarsi, dovendo confrontarsi con

l’idea di sovranità dello Stato. Infatti, una situazione giuridica attiva del cittadino di

carattere obbligatorio nei confronti dello Stato produrrebbe una soggezione di quest’ultimo

al primo, del tutto alla parte (secondo la prospettiva geometrica che qui si manifesta)

costituirebbe una capitis deminutio inaccettabile della sovranità statale. Parimenti, risulta

di difficile configurazione anche un diritto obbligatorio a favore dello Stato, che vede

impegnato nei suoi confronti il privato: anche in questo caso il soddisfacimento della

pretesa dello Stato passa attraverso l’adempimento del cittadino, secondo quella che si

suole chiamare la collaborazione del debitore nelle obbligazioni: anche in questo caso la

sovranità dello Stato ne risente, poiché il suo soddisfacimento passa per l’opera (spontaneo

o coatta) di un altro soggetto. Proprio per questa ragione i diritti soggettivi pubblici

tendono a configurarsi originariamente come diritti assoluti, cioè luogo di signoria

dell’unico, sia esso lo Stato, sia esso l’individuo, accomunati nella loro pretesa unicità.

552 Cfr., e pluribus, E. R. BIERLING, Juristische Prinzipienlehre, 3 Voll, Freiburg

und Leipzig, 1894-98, vol I (1894), p. 145 e ss.

553 Cfr. la nota affermazione che vede il diritto come “eine von der Rechtsordnung

verliehene Willensmacht oder Willensherrschaft, proposta da B. WINDSCHEID, Lehrbuch

des Pandektenrechts (1962-70), VIII ed., I vol., Freiburg, 1900, p. 131.

554 Ancora B. WINDSCHEID, Pandekten. In antitesi a questa costruzione, escludono

che i giuristi romani conoscessero la categoria dei diritti soggettivi, affermando il carattere

moderno del concetto M. VILLEY, L’idée du droit subjectif et les systèmes juridiques

romains, in “Revue d’historie du droit” (?), 1946 – 47, p. 201 e ss.; B. ALBANESE, Appunti

su alcuni aspetti della storia del diritto soggettivo, in “Studi in onore di Arturo Carlo

Jemolo”, IV, Milano, 1963, p. 3 e ss.; R. ORESTANO, Azione, diritti soggettivi, persone

giuridiche, Bologna, 1978; IDEM, Verso l’unità della conoscenza giuridica, in “Rivista

trimestrale di diritto pubblico”, 1984, p. 635.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

367

contrassegno d’ogni diritto reale.555

Ciò che fonda il diritto è dunque il

riconoscimento altrui, per il tramite dell’ordinamento giuridico. Per

converso, il dovere, anche nella concezione imperativistica è un momento

dello stesso concetto di comando normativo, sicché si definisce dovere la

situazione giuridica soggettiva del destinatario dei comandi, sia delle

norme primarie (che hanno per destinatari tutti i soggetti di diritto, anche

gli incapaci), sia le norme dette secondarie, che hanno per destinatari i

funzionari pubblici, concretando in capo ad essi, appunto, il dovere

d’ufficio, per il perseguimento, con altri mezzi, dello scopo che non è

stato raggiunto dalle norme primarie. Il dovere giuridico è dunque

correlativo e speculare al diritto, sicché l’essere destinatari di un dovere o

essere titolari di un diritto descrive dei concetti paralleli.556

Il parallelismo

conduce l’attenzione sul rapporto giuridico, cioè sulla necessaria

collaborazione (spontanea o meno) di almeno due soggetti per il

riconoscimento del diritto. Ecco allora che la vera caratteristica del diritto

soggettivo si ridurrebbe alla pretesa, definita come la forza prestata

dall’ordinamento giuridico di porre la condizione preliminare per l’entrata

in vigore degli imperativi che impongano a determinati organi statuali di

ordinare la prestazione di un rimedio giudiziario, cioè di un procedimento

contro gli obbligati al fine di produrre o ripristinare la situazione, al

raggiungimento o mantenimento della quale era preposto l’imperativo

trasgredito.557

Quando il riferimento non è più al dominium ma alla

proprietas, pur permanendo l’idea della realità nel suo collegamento con

555 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., specialmente p. 301, ove l’autore svolge tutta

una serie di esempi a dimostrazione della scissione tra diritto e potere che induce a

ricercare l’essenza del primo non tanto sul secondo, quanto piuttosto sul riconoscimento

accordato dall’ordinamento, cui consegue la tutela.

556 Cfr. C. MAIORCA, voce Diritto soggettivo, in “Enciclopedia Giuridica

Treccani”.

557 Cfr. A. THON, Rechtsnorm cit., p. 228. Lo stesso autore non si nasconde le

obiezioni alla sua costruzione: la vita quotidiana mostra che chi viene leso dall’illiceità non

sempre riesce a far valere, nemmeno davanti l’autorità giudiziaria, il suo buon diritto; così

come chi non ha diritto, può trovare aiuto presso il giudice. Un tanto potrebbe faro

concludere –sostiene il nostro- che diritto e tutela giudiziaria non stiano in intima

connessione. Per questo, in realtà, la pretesa consiste “unicamente nella potestà di dar la

sveglia agli imperativi che comandano al giudice di prestare assistenza giudiziaria. Se a

questo comando da parte del giudice non è stato dato seguito, ciò non muta nulla del fatto

che il comando pur tuttavia è stato emanato” (sic!); cfr. op. cit., p. 229. Cfr. anche la

traduzione italiana s.n. (ma, A. LEVI), Padova, 1939, p. 224-5.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

368

l’assolutezza della difesa, si introduce l’idea di quel momento ulteriore

della difesa che è l’intervento coercitivo degli organi pubblici, senza i

quali l’esercizio dell’actio potrebbe essere mero flatus vocis. Qui, allora,

gli elementi della definizione del diritto soggettivo sono, da un lato,

l’interesse del privato, che non solo chiede, ma in prospettiva ottiene

protezione; e, dall’altro lato, l’intervento protettivo, inteso come momento

autonomo che può intervenire o meno. In questo modo si coglie appieno

la definizione di Rudolf von Jhering, che si concreta su questa

concatenazione: accogliendo la riunificazione di foro interno e foro

esterno, tanto crudelmente separati da Kant, il professore di Gottinga

afferma che la lotta per il diritto è, in primo luogo, un dovere della

persona verso sé stessa, poiché con il suo diritto difende le condizioni

etiche della sua vita, giacché l’onore e la proprietà non sono di meno della

vita ed al di sopra del materiale, nel diritto v’è un valore ideale, che

costituisce il valore del Diritto.558

Tuttavia, ed è quanto più interessa ai

nostri fini, la lotta per il diritto costituisce anche dovere verso la comunità

(Gemeinwesen). Dacché il diritto astratto (il diritto oggettivo) dipende dal

concreto (il diritto soggettivo) quanto il secondo dal primo. Sicché, chi

agisce per difendere il proprio diritto, agisce per difendere il Diritto:

l’esercizio dell’azione sarebbe l’occasione per por rimedio al turbamento

concretatosi. Di più, difendendo il proprio diritto, il singolo difende

l’ordinamento della vita socievole e coopera, in fondo, all’attuazione

dell’idea di Diritto, cioè al diritto ideale; anzi, l’autore si spinge fino ad

affermare che lo stesso spirito dell’egoismo si mostra compreso di tale

verità e la conservazione del diritto fa la forza dello Stato.559

Di fronte a

558 Cfr. R. VON JHERING, Der Kampf um’s Recht, Wien, 1873, specialmente p. 42 –

68, ove viene tematizzata la rilevanza etica del diritto soggettivo, tranne nei casi di

violazione puramente materiale, stigmatizzando il calcolo nell’esercizio dell’azione in

dipendenza di motivi economici, che possono ottundere l’affermarsi della giustizia.

559 Cfr. R. VON JHERING, Der Kampf um’s Recht, cit., 69 e ss.; 90 e ss. In tutta

l’opera si rinviene il continuo riferimento all’idealismo, all’utilità del singolo connessa a

quella del tutto, al beneficio che può derivare al diritto pubblico dalla precisa attuazione

del diritto privato; il cittadino è strumento per l’affermarsi dello Stato: in tanto gli sono

accordate situazioni giuridiche soggettive in quanto queste siano funzionali ai bisogni dello

Stato. Sul punto, cfr., si vis, il mio Adolfo Ravà. Fra tecnica del diritto ed etica dello Stato,

Napoli, 1998, p. 335 e ss. In questo senso si comprende anche il significato dei quelle

costruzioni che prevedono un dovere di comportamento come responsabilità verso sé

stessi. La formula della responsabilità verso sé stessi (“Verschulden gegen sich selbst”) si

trova per la prima volta, a quanto ci risulta, in E. ZITELMANN, Allgemeine Teil, Leipzig,

1901, p. 152. N. IRTI (Due saggi sul dovere giuridico. Obbligo – Onere, Napoli, 1973, p.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

369

tali affermazioni, sottolineare le assonanze hegeliane appare invero

superfluo. Tale posizione che vede il diritto come interesse protetto, non si

sostituirebbe né sarebbe in contraddizione con la definizione di

Windscheid dedotta dalla struttura dell’actio in rem.560

In questo senso è

stato notato che la definizione in termini di tutela sposta il punto di

preminenza dal soggetto che chiede la tutela, alla norma che offre la

tutela, avviando così le premesse per la concezione normativa

imperativistica ed alla conseguente definizione del diritto soggettivo come

un riflesso ed in un certo senso come un prodotto della norma di tutela,

seppure un prodotto sprovvisto di autonomia definitoria.561

Ed in effetti,

per le osservazioni poste nei paragrafi precedenti, i germi di questa

95, nota) avverte che la prima ricezione in Italia di siffatto principio può rinvenirsi in G.

MESSINA, Contributo alla dottrina della confessione (1902), ora in Scritti giuridici, vol.

III, Milano, 1948, p. 27, nonché IDEM, La simulazione assoluta (1907), in op. ult. cit., vol.

V, Milano, 1948, p. 82-83.

560 Cfr. B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, trad. It. di C. Fado e P.E. Bensa,

Torino, 1902, I, 1, 172 e ss.

561 Così, testualmente, C. MAIORCA, voce Diritto soggettivo, in “Enciclopedia

giuridica Treccani”, cit., p. 3. Peraltro l’autore ha l’accortezza di avvisare subito che a ben

considerare l’ottica e l’idea della res publica, che egli disinvoltamente equipara all’idea

moderna di Stato, prenderebbe il posto della Civitas e della familia, della gens e della

tribus, che richiama piuttosto l’idea di comunità (aristotelicamente intesa, crediamo), che

nel diritto è matrice diretta in una perfetta correlazione – identificazione. Cosicché se è

dato conciliare e commisurare la giuridicità all’idea ed alla realtà della “comunità”, in uno

con il riferimento all’idea di ciò che si denomina Stato, vi sarebbe ancora posto per una

definizione della giuridicità, come qualificazione teoricamente distinta da politicità; e, con

ciò, ad una qualificazione del diritto soggettivo, sia pur restando nei termini e nel quadro

del discorso dogmatico. In questo senso sarebbe accettabile la definizione di Rudolf von

Jhering, che parlava –si è visto- di diritto come interesse protetto, ma solo in quanto calata

nel Geist des römisches Rechts (ibidem). La tesi non convince. Per quanto sia lecito tessere

un parallelo (come pur è stato anche autorevolmente fatto) tra Aristotele ed Hegel, da un

lato bisogna osservare, come si è detto, che la radice dei giuspubblicisti in esame in esame

affonda più nell’esegesi semplificata degli allievi che non alla conoscenza del Maestro

(salva, forse, le citazioni dirette all’opera del Filosofo di Berlino da parte di Thon),

dall’altro, comunque, crediamo che (limitatamente all’aspetto giuridico politico che qui

interessa) il filo tra lo Stagirita e il Filosofo dell’idealismo si spezzi nel momento in cui

l’Aufhebung dello Stato assorba in sé la pluralità degli èndoxa della koinonìa. Per una

panoramica ragionata sui nessi tra i due Filosofi, con particolare riguardo al momento della

logica, e del sillogismo in modo speciale, cfr. S. FUSELLI, Forme del sillogismo e modelli

di razionalità in Hegel. Preliminari allo studio della concezione hegeliana della

mediazione giudiziale, Trento, 2000, pag. 82, nota 69.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

370

costruzione si trovano tutti nella presupposizione di identità di volontà tra

cittadino e Stato, con la conseguente irrilevanza di un momento

autenticamente rappresentativo. Sicché, a ben vedere, la differenza tra

diritti soggettivi ed interessi legittimi potrebbe dirsi meramente

quantitativa.562

Queste le premesse concettuali sottese al dibattito sulla libertà, o

meglio, alla configurazione giuridico-formale della libertà, che agitava la

dottrina tedesca e che sfociò in un primo momento nella concezione della

libertà come diritto riflesso, successivamente in quella della libertà come

diritto pubblico soggettivo.

Più in generale, il senso della «questione» posta dalla categoria dei

diritti pubblici subbiettivi è stato ben espresso, sullo scadere del XIX

secolo, da Santi Romano che l’ha compendiato nella seguente domanda:

“nella sfera del diritto pubblico è possibile che esistano dei diritti

subbiettivi, pertinenti ad altre persone che non siano lo Stato ?”563

Le risposte, come vedremo, furono diverse, ma si può rilevare,

almeno all’inizio, una tendenziale inclinazione a negare, o quanto meno,

ad ammettere in termini ristretti, tale categoria: insomma, anche i diritti

soggettivi pubblici (come in Francia i diritti di libertà) «lottarono» per

affermarsi.

Sotto il profilo concettuale, abbiamo visto, le difficoltà

all’ammissione di diritti soggettivi pubblici dei singoli nei confronti dello

Stato derivavano direttamente dalla concezione volontaristica del diritto

ed imperativistica dello Stato, all’epoca largamente predominanti nella

dottrina tedesca: infatti, concepito il diritto essenzialmente come volontà,

e posto il problema in termini di contrapposizione tra la volontà dello

Stato e la volontà del singolo necessariamente soccombente alla prima, se

si configura l’ipotesi di un diritto nei confronti dello Stato, la risposta,

562 E non è un caso che la dottrina parli tradizionalmente di “diritti affievoliti” per

descrivere la minor tutela offerta ad una situazione giuridica soggettiva che diviene minus

quam plena, oppure di “diritti in attesa di espansione”, per indicare le posizioni che

necessitano di un quid pluris per assurgere a “pretese” nel senso indicato nel testo. Cfr. M.

CAFAGNO, La tutela risarcitoria degli interessi legittimi: fini pubblici e reazioni di

mercato, Milano, 1996; nonché L. IANNOTTA, Atti non autoritativi ed interessi legittimi,

Napoli, 1984.

563 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi. Nozioni sistematiche,

Milano, 1897 (Estratto da Primo trattato completo di diritto di diritto amministrativo

italiano, a cura di V. E. ORLANDO, Milano, 1900, vol. I, p. 2.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

371

nell’ambito del diritto pubblico, non poteva che essere negativa.564

Se lo

Stato è la fonte del diritto, se esso è dotato di un potere sovrano, allora

esso non può tollerare situazioni giuridiche individuali per esso

svantaggiose, in quanto, altrimenti, ne risulterebbe menomata e, con ciò

stesso negata, la sua sovranità.

Ed, infatti, la neonata dottrina pubblicistica tedesca mentre non

mancò di rivestire, sul modello privatistico, lo Stato di personalità

giuridica, anzi facendo della personalità giuridica dello Stato il

fondamento del diritto pubblico (nonché, in definitiva di tutto il diritto),

dimostrò non poche remore ad ammettere una titolarità di situazioni

giuridiche soggettive di vantaggio in capo ai singoli nei confronti dello

Stato: non erano, si badi bene, i diritti soggettivi pubblici dello Stato ad

essere messi in discussione, ma i diritti soggettivi pubblici dei singoli.

Il rifiuto più radicale della categoria fu espresso da Bornhak, il più

autorevole trattatista del diritto pubblico prussiano, il quale arrivò a

proporre di abolire la stessa categoria dei diritti pubblici soggettivi; più

moderata, invece, la posizione del massimo trattatista del diritto pubblico

imperiale germanico, Laband, il quale ammise la categoria, ma configurò,

in capo ai cittadini, tassativamente (solo) tre diritti soggettivi pubblici: il

diritto del cittadino ad essere protetto all’esterno, il diritto del cittadino ad

essere protetto all’interno, il diritto di partecipare alla vita politica,

seppure, come si vede, più che di tre “diritti”, si tratta di tre categorie

generali, attinenti ai diritti civili e politici, speculari (anche) a quelli che

sono i compiti di benessere della pubblica amministrazione.

Anticipiamo fin d’ora che la posizione di Gerber in ordine alla

ammissibilità o meno di diritti soggettivi pubblici è da sempre

controversa, non essendo facile stabilire se egli abbia inteso negare in

tutto o in parte la categoria, ma nel complesso può dirsi, aderendo in ciò al

giudizio di Romano,565

che egli l’ammetta (tanto in capo allo Stato, quanto

in capo ai sudditi) seppur in limiti ristretti.

Come si è detto, Gerber concepisce lo Stato, politicamente, come

un organismo,566

una collettività nazionale unitaria, e, giuridicamente,

565Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p. 8: “non deve

confondersi la negazione di alcuni diritti pubblici, con la negazione di tutti questi”.

566 Abbiamo già accennato ad una evoluzione, nel pensiero di Gerber, nel modo di

concepire lo stato: inizialmente egli rifiuta la concezione dello stato-persona giuridica (sul

modello romanistico) introdotta nella dottrina tedesca da Albrecht, asserendo che

l’accoglimento di essa comporta un ritorno al diritto privato, nel senso che l’intero diritto

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

372

come un’unità di volontà: sotto il profilo giuridico, quindi, lo Stato si

configura, e non può che configurarsi, come «unità di volontà» dal

momento che giuridicamente non esistono altro che rapporti di volontà.567

Questi rapporti (di volontà), in cui consistono essenzialmente i

diritti soggettivi, si atteggiano però in maniera diversa nel diritto privato e

nel diritto pubblico: mentre nel diritto privato si tratta di rapporti di

volontà tra soggetti posti su un piano di parità giuridica, implicanti facoltà

liberamente disponibili dai singoli (agere licere), il diritto pubblico si

caratterizza per una relazione di sovra (Stato)–sotto (individuo)

ordinazione tra i soggetti del rapporto giuridico, per cui di fronte al

fondamentale diritto di dominio (Herrschftsrecht) dello Stato si pongono i

diritti soggettivi pubblici dei singoli, i quali, però, non spettano al singolo

in quanto tale, ma solo in quanto membro della collettività o della persona

fisica investiti di una particolare funzione pubblica,568

per cui tali diritti

pubblico viene costruito e concepito (esattamente come il diritto privato) quale sistema di

relazioni intersoggettive, di rapporti tra lo Stato-persona e i sudditi, tra lo Stato e il

monarca medesimo; suggerisce di far riferimento al concetto di organismo morale,

concetto che sa cogliere e mettere in luce la peculiarità del diritto pubblico, perché colloca

lo Stato su un piano superiore a quello di parte di un normale negozio giuridico; sul punto

cfr. M. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, cit., p.200.

Aggiungiamo, e sottolineiamo, che questo concetto di organismo, che Gerber pone a

fondamento del diritto pubblico, è “tutt’altro che un concetto giuridico (..), esso appartiene

alla teoria generale della politica e dell’etica”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit.,

p.43. Successivamente anche Gerber metterà la concezione dello Stato-persona a

fondamento del sistema di diritto pubblico da lui costruito, riconoscendo che “la

concezione dello Stato come persona è il presupposto di ogni costruzione del diritto

pubblico”; e ancora, “nella personalità dello Stato è il punto di partenza e centrale del

diritto, richiamandosi ad essa si ritrova la possibilità e la direttiva di un sistema scientifico,

di un sistema, cioè, dominato da un pensiero unitario”; cfr. C. F. GERBER, Grundzüge eines

Systems des deutschen Staatsrechts, Leipzig, 1865, rispettivamente p.2 nota (1) e p.3.

567 Lampante, in queste affermazioni preliminari di Gerber, la sua adesione alla

concezione volontaristica: tutto il diritto, quello oggettivo e quello soggettivo, quello

statale (la legge) e quello privato (il contratto è legge per i privati), sono essenzialmente ed

immancabilmente manifestazioni di volontà. Aggiungiamo l’osservazione che la

giovanissima scienza del diritto pubblico utilizzava per l’elaborazione degli istituti di

diritto pubblico schemi concettuali e categorie privatistiche: lo stesso Gerber opera in tal

senso, anzi affermando esplicitamente che “il diritto privato serve da impalcatura alla

costruzione di tutto l’edificio del diritto pubblico”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico,

cit., p.43.

568 Questa affermazione ci consente di rilevare come nell’ambito delle dottrine sui

diritti pubblici subbiettivi venga in considerazione non l’uomo come l’unico dell’ipotetico

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

373

risultano sottratti alla libera disponibilità del singolo e vanno esercitati

esclusivamente secondo la destinazione e per la funzione oggettiva per cui

sono stati riconosciuti.569

In questa costruzione i diritti soggettivi privati e i diritti soggettivi

pubblici appaiono essere realtà sostanzialmente diverse: nel diritto

pubblico i cittadini sono oggetto del dominio dello Stato, si trovano in una

situazione di soggezione (pati), e anche i diritti soggettivi pubblici

risultano essere nient’altro (o poco più) che «diritti funzionali» attraverso

cui si svolge l’originaria capacità giuridica dello Stato, quasi

un’articolazione interna della sua potestà di dominio.

Alla base della teoria dei diritti soggettivi pubblici sviluppata da

Gerber sta la convinzione che ogni situazione soggettiva del singolo, tanto

di dovere quanto di diritto, deriva dallo Stato: essa è ammissibile solo se e

nei limiti in cui lo Stato la concede.

Per quel che riguarda specificatamente i diritti pubblici essi

“trovano (tutti) il loro fondamento, il loro contenuto, il loro fine

nell’organismo statale, nel quale deve realizzarsi la volontà nazionale nel

suo tendere al compimento della vita collettiva”;570

il loro possesso si

fonda sulla qualità di membro attivo dell’organismo statale.

I vari diritti soggettivi pubblici vengono da Gerber distinti,

classificati e analizzati su base soggettiva, vale a dire con riferimento ai

soggetti portatori di tali diritti. Essi risultano così suddivisi:571

a) diritti del

monarca (persona concreta in cui prende corpo la superiore persona

statale); b) diritti dei pubblici funzionari; c) diritti dei sudditi.

Non può rimanere inosservata l’utilizzazione di quest’ultimo

termine, sudditi, per indicare gli individui in contrapposizione allo Stato:

trattasi, infatti, di una qualificazione che, oltre a giustificarsi in

riferimento alla forma di governo vigente in Germania (la monarchia,

stato di natura del giusnaturalismo moderno, quanto piuttosto l’uomo calato

nell’organizzazione della comunità statuale, ossia il cittadino.

569 Il diritto (soggettivo) pubblico presenta, secondo Gerber, due caratteristiche

generali: la prima è che tali diritti non rientrano nella sfera di volontà del singolo e sono

sottratti alla illimitata disposizione di questi; la seconda è che essi comportano, per il

titolare, non solo determinate facoltà, ma anche determinati obblighi.

570 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p. 43

571 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.44.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

374

appunto), ben esprime i rapporti intercorrenti tra lo Stato e gli individui

che lo compongono. È bene, preliminarmente, precisare due punti: il

primo è che i diritti che vengono qui in considerazione sono soltanto i

diritti (soggettivi) pubblici del monarca, ossia tutti e soltanto i diritti che

spettano al Re non in quanto persona umana, ma in quanto membro

supremo dell’organismo statale;572

il secondo è che il potere statale

acquista carattere giuridico, afferma Gerber, soltanto “in virtù del

riferimento alla personalità del popolo rappresentata nel Re”:573

il Re,

infatti, quando agisce non come individuo umano ma come monarca,

agisce con la coscienza che il popolo trova in lui la sua personalità, e,

quindi, come membro supremo dell’organismo. Ne segue che tutti i diritti

dell’organismo statale vanno necessariamente riferiti alla persona del

reggente:574

I diritti soggettivi pubblici del Re sono: il diritto di emanare le

leggi, il diritto all'obbedienza dei suoi comandi e delle sue disposizioni, il

diritto di esercitare la sovranità sopra il territorio dello Stato, il diritto di

rappresentare lo Stato all'estero.

Questi diritti sono diritti propri del Re, nel senso che egli ne è il

titolare e li esercita in nome proprio.575

572 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.47: “ a questo riguardo s’intende da

sé che in questa indagine non viene in considerazione il Re nel diritto privato. Il Re non è

semplicemente Re, ma è anche un individuo umano; questa qualità non è assorbita da

quella. Il campo del diritto cui il Re appartiene come individuo, è il generale diritto

privato..”.

573 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.47; torna qui il concetto di

organismo che "costituisce il punto di partenza per la costruzione del sistema di diritto

pubblico" (così C. F. GERBER, op. ult. cit., p.21). Si tratta di un concetto "tutt'altro che

giuridico", ma che riesce a cogliere la peculiarità dello stato, il quale è sì un fatto giuridico,

ma anche sociale e morale; non solo, esso permette anche di salvare la posizione di

superiorità che spetta allo stato all'interno di questo organismo.

574 La titolarità delle situazioni giuridiche soggettive pertinenti allo stato spetta,

quindi, al monarca; unica eccezione a tale principio in materia fiscale: "allo Stato non è

riconosciuta personalità giuridica se non nella sua qualità di fisco"; cfr. C. F: GERBER,

Diritto pubblico, cit, p.47.

575 L'affermazione vale, precisa lo stesso giurista, soltanto nell'ambito di una

costituzione monarchica, anzi costituisce la peculiarità di tale forma di governo;

nell'ambito di un regime diverso, ad esempio in una Repubblica il Presidente esercita i

diritti pubblici non in nome proprio, bensì in nome altrui. Cfr. C. F. GERBER, Diritto

pubblico, cit.., p.55.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

375

Nell’ambito dell’organismo statale i funzionari e gli impiegati dello

Stato, per parte loro, svolgono un ruolo specifico, quello di “esercitare i

diritti del potere statale che confluiscono nelle facoltà del capo supremo

dello Stato, sostituendo quest’ultimo”:576

essi sono gli organi esecutivi del

monarca.

Da questa premessa deriva che il diritto all’obbedienza ed al

riconoscimento delle disposizioni e degli ordini dei funzionari non si basa

sul loro proprio diritto, ma è il diritto del monarca.

Nell’ambito del diritto pubblico ai funzionari spetta, come loro

diritto specifico ed indipendente, solo il diritto di rappresentanza;577

essendo tutti gli altri diritti del monarca, diritti che essi esercitano in

qualità di suoi organi esecutivi.

Tutti gli altri diritti dei funzionari (come la pretesa allo stipendio,

alla pensione) rientrano, invece, nella sfera dei puri diritti privati.

I sudditi sono i “soggetti dominati dal Re”:578

essi sono subordinati

al suo volere costituzionale e perciò obbligati all’obbedienza e alla fedeltà

verso di lui. Ma, aggiunge Gerber, la sottomissione dei sudditi al monarca

non è illimitata: essa, a differenza del rapporto di dominio di diritto

privato (in cui il sottoposto al dominio è interamente abbandonato alla

volontà altrui), è sempre limitata, in quanto s’intende che i sudditi sono

sottomessi non alla volontà (personale) del monarca, bensì alla volontà

statuale e poiché lo Stato non assorbe l’intera vita sociale degli uomini, ne

risulta che una parte, più o meno ampia, della vita dei sudditi rimane al di

fuori dell’orbita statale.

Questa sottomissione di diritto pubblico, inoltre, deve intendersi

propriamente come “partecipazione alla comunità organica nella vita

statale”:579

essa, si aggiunge, “diventa ricca di effetti benefici e fecondi di

ogni bene, ed è condizione di libero sviluppo e progresso morale”.580

576 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.61.

577 Peraltro questo unico diritto non è, afferma Gerber, “originario ed

originalmente di diritto pubblico”; cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p. 61.

578 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.65

579 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.65: anche sotto questo profilo,

quindi, la sottomissione di diritto pubblico si differenzia da quella di diritto privato.

580 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.66; a tale affermazione farà

riferimento il Romano nel valutare la versione gerberiana della dottrina dei diritti

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

376

Si arriva, in questo modo, al punto che più ci interessa: all’interno

di una siffatta costruzione che posto hanno, possono avere le libertà degli

individui? Si possono configurare veri e propri diritti dei sudditi nei

confronti dello Stato? Si pone il problema, giuridico e politico, di definire

e “sistemare” quelli che Gerber chiama, con significativa espressione, “i

cosiddetti diritti civili”.581

Come in precedenza ricordato, la costruzione teorica dei diritti

soggettivi pubblici si prestava ad essere utilizzata per una ri-definizione

dei rapporti tra lo Stato e il singolo, per stabilire un equilibrio tra le due

opposte esigenze della libertà dei singoli e della supremazia dello Stato.

La soluzione proposta da Gerber riguardo alla definizione dei diritti

civili e politici non può certo dirsi cristallina, ma occorre considerare che

nel sistema da lui costruito, in cui i diritti pubblici soggettivi consistevano

o “in una relazione organica fra una persona fisica e il suo ufficio oppure

nella forma di manifestazione dell’autorità pubblica verso i sudditi”,582

non c’era posto alcuno per posizioni giuridiche attive riassuntive di libertà

del cittadino verso lo Stato.

I «cosiddetti» (precisa Gerber) diritti civili e politici trovano la loro

fonte, la loro radice genetica in effetti riflessi delle norme che limitano le

competenze statali,583

cioè a dire che le libertà nascono giuridicamente da

soggettivi pubblici sostanzialmente come una reazione alle teoriche dei diritti naturali,; cfr.

S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.7.

581 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.67: significativo è, infatti, che lo

stesso Gerber non s’arrischi neppure a denominarli semplicemente diritti, in quanto risulta

evidente la ritrosia, o quanto meno la cautela, dell’autore ad includere nella categoria diritti

soggettivi pubblici le libertà.

582Così riassume l’essenza e la portata, nell’ambito della costruzione in esame, dei

diritti soggettivi pubblici pertinenti ai funzionari ed ai sudditi; cfr. A. BALDASSARRE,

Diritti pubblici soggettivi, in “Enciclopedia Giuridica Treccani”, vol. IV, Roma, 1989, p.3.

583 La soluzione proposta da Gerber, secondo il quale le libertà (dei cittadini,

rectius, sudditi) non costituiscono veri e propri diritti soggettivi, risolvendosi in (puri)

effetti riflessi del diritto oggettivo, verrà criticata – circa quarant’anni più tardi - da G.

Jellinek, il quale ebbe a giudicarla “un grossolano approccio” al problema delle libertà

civili: in polemica con le precedenti teorie, il giurista di Heidelberg opporrà l’osservazione

che da norme limitative di competenze statali, ovvero, da norme attributive di funzioni

pubbliche, non possono scaturire diritti soggettivi in capo ai cittadini. Vedremo più avanti

come da questa critica muova poi Jellinek, il quale staccandosi dalla tendenza, più volte

sottolineata, della giuspubblicistica tedesca a negare la categoria dei diritti pubblici

soggettivi (tra cui, in primis, i diritti di libertà) riporta le libertà allo status negativo.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

377

un effetto (un fatto, un risultato) non da un diritto posto sullo stesso piano

o, tanto meno, prima del potere e della volontà dello Stato.

Conseguenza immediata, ed importantissima sul piano pratico, di

tale impostazione è la non azionabilità584

di tali situazioni soggettive: non

avendo a loro (diretta) tutela alcuna azione le libertà dei cittadini non

possono qualificarsi (veri e propri) diritti soggettivi.

La soluzione proposta da Gerber piacque a molta parte della

dottrina giuspubblicistica (soprattutto) tedesca, la quale distinse a lungo il

diritto soggettivo pubblico dal diritto riflesso (Reflexrecht): a quest’ultimo

era riportata l’ipotesi di disposizioni legislative contenenti norme di diritto

obiettivo non rivolte ai cittadini, i quali, quindi, ne potevano trarre

vantaggio solo indirettamente, come puro effetto riflesso dell’applicazione

della legge.

Configurati, quindi, tali cd. diritti come meri effetti, la loro

titolarità, il loro svolgimento e il loro ambito risultava essere rimesso alle

decisioni dell’autorità pubblica nel libero esercizio delle sue competenze;

i diritti civili nella costruzione gerberiana, insomma, altro non

rappresenterebbero se non la pretesa dei cittadini verso lo Stato a veder

riconosciuto un certo spazio di diritto privato a loro favore. Ma poiché,

come abbiamo visto, si trattava di pretesa non azionabile in realtà questa

definizione si risolveva nel mero riconoscimento dell’esistenza di uno

spazio vuoto, si potrebbe dire di «irrilevanza giuridica», in cui i privati

possono liberamente disporre delle proprie facoltà.

In questa prospettiva si riesce a cogliere il senso esatto delle parole

del Gerber quando afferma che “il significato generale dei cosiddetti

diritti civili e politici può trovarsi solo in qualcosa di negativo, e cioè nel

fatto che lo Stato nel suo dominio ed assoggettamento dell’individuo si

Anticipiamo soltanto che, secondo Jellinek, perché si possa parlare di diritto soggettivo

occorre che lo Stato attribuisca con le sue leggi un potere positivo al singolo, potere

specificatamente diretto a far valere a proprio vantaggio determinate situazioni (status).

Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, Tübingen 1892, trad. it.

Milano,1912, p. 77.

584 Per questo, cioè per aver configurato come diritti (seppur “cosiddetti”) posizioni

non comportanti alcuna pretesa giuridica verso la supposta controparte, Gerber fu

attaccato: in risposta alle critiche ricevute nelle opere più tarde egli precisò che siffatti

cosiddetti diritti costituiscono posizioni soggettive solo in parte giuridiche, mentre più in

generale esse sono puri “effetti riflessi”. Essi, quindi, sarebbero solo in parte veri e propri

diritti soggettivi ( di cui, peraltro, rimane indefinito il contenuto) rimanendo per in maggior

misura, come si è detto, effetti riflessi di norme di diritto obbiettivo.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

378

mantiene entro limiti suoi naturali, lasciando libera, fuori della sua cerchia

ed influenza, quella parte della persona umana la quale non può

assoggettarsi all’azione coercitiva della volontà generale; (…) essi sono

diritti al riconoscimento del lato libero, non statale, della personalità”.585

È

una concezione tutta «negativa» della libertà, per lo meno sotto il profilo

giuridico.

Possiamo anticipare qualche osservazione critica: abbiamo visto

come Gerber risolva la questione delle libertà individuali configurandole

come effetti riflessi di norme di diritto oggettivo. Questo significa che, pur

trattandosi di situazioni soggettive di vantaggio, esse non possono

qualificarsi propriamente diritti soggettivi dal momento che esse non sono

azionabili. E la loro non azionabilità deriva semplicemente dal fatto che

non esiste alcuna norma che attribuisca un potere di azione al titolare di

detta situazione soggettiva. Esistono, invece, norme di diritto obbiettivo

volte a regolare l’attività dello Stato, determinandone le competenze ed

attribuendo funzioni: tali norme comportano una autolimitazione dello

Stato.

Questa teoria giuridica della libertà, libertà che viene riguardata

dalla prospettiva del tutto (cioè dello Stato), non è altro che “la teoria dei

limiti giuridici che i poteri pubblici pongono a se stessi”:586

è il risvolto

soggettivo dei limiti legali delle competenze statali.

È chiaro, però, che in questo modo si nega la specificità della

libertà come diritto fondamentale dell’uomo.

In una simile concezione il cittadino – osserva Ruffini - “si trova

come tracciata tutto intorno da codesta operazione autolimitatrice una

cerchia, ove egli può a sua volta autodeterminarsi, cioè muoversi e agire a

suo piacimento, manifestando quella credenza religiosa che più gli piace,

valendosi della stampa come meglio gli pare, associandosi con chi crede e

per i fini leciti che sarà per proporsi, e così via”.587

585 Cfr. C. F. GERBER, Diritto pubblico, cit., p.67; peraltro, aggiunge Gerber, la

portata negativa di tali diritti per i sudditi si trasforma nella determinazione positiva “dei

limiti del potere del monarca dal punto di vista dei sudditi”.

586 Cfr. A. BALDASSARRE., Libertà (problemi generali), in “ Enciclopedia Giuridica

Treccani ”, Roma, 1990, vol. XIX, p.5.

587 Cfr. F. RUFFINI, Diritti di libertà, II ed., Firenze, 1946, p.115. Un’osservazione

(forse superflua): gli esempi riportati da Ruffini non sono, chiaramente, scelti a caso. Essi

mirano a rendere evidenti le conseguenze che dall’applicazione della categoria dei diritti

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

379

Ma in tale cerchia, può ben osservarsi, il cittadino può fare

un’infinità di altre cose, anche passeggiare o sposarsi: le libertà

individuali, che pur si vorrebbero diritti soggettivi (anche se imperfetti),

rimangono confuse ed indeterminate nell’ambito di ciò che è

genericamente permesso.588

Quale che sia la «tenuta concettuale» della categoria dei diritti

riflessi, può osservarsi che la libertà (diritto soggettivo o effetto riflesso

del diritto oggettivo che sia) di cui si discorre è ancora, e solo, la libertà

negativa. E ciò ben si comprende se si considera l’ottica (imperativistica)

in cui ci sta muovendo: non esistono diritti soggettivi dei singoli, ma

esiste solo il diritto (oggettivo e sovrano) dello Stato, il quale può,

valutando le condizioni dei tempi e le aspirazioni dei sudditi, limitare la

propria sfera (virtualmente illimitata) del suo diritto sovrano. I diritti

soggettivi deriverebbero da questa “graziosa concessione”589

dello Stato

che si autolimita. Ma è chiaro che come (graziosamente) concede lo Stato

può anche (graziosamente) revocare.

In ordine alla teoria gerberiana dei diritti soggettivi pubblici

Romano osserva innanzitutto che, per comprenderne al meglio il

significato, occorre considerare il «clima culturale» in cui essa nasceva.

L’enucleazione della categoria dei diritti pubblici soggettivi maturò,

infatti, nell’ambito di una reazione contro le dottrine del diritto naturale

che in Germania fu particolarmente potente e diffusa. “Noi non crediamo

d’ingannarci – scrive Romano – dicendo che essa intese dimostrare

appunto il contrario di ciò che (...) le teoriche di diritto naturale

sostenevano: come, cioè, non sia vero che gli individui abbiano diritti

riflessi deriverebbero ai tradizionali diritti soggettivi di libertà (di religione, di stampa, di

associazione).

588 Sarà, poi, Santi Romano a distinguere nell’ambito del lecito le libertà cd.

materiali (attinenti all’indifferente giuridico) dalle libertà giuridiche (attinenti ad attività

giuridicamente rilevanti): cfr. S. ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale,

Milano, 1947, p. 114 e p.119. Precisiamo, fin d’ora, che per il nostro giurista le libertà

costituiscono diritti soggettivi pubblici veri e propri.

589Al riguardo osserva Ruffini che i cittadini tedeschi, alla luce della costruzione di

Gerber, non godono di un vero diritto subbiettivo alla libertà di coscienza, di stampa, di

associazione, o così via, ma possono credere in ciò che vogliono, associarsi come meglio

credono ecc. solo perché lo Stato, “bontà sua”, si astiene dal fare ciò che un tempo faceva,

ossia dal porre limitazioni all’esercizio di tali loro naturali libertà. Cfr. F. RUFFINI, Diritti

di libertà, cit., p.114.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

380

propri, primitivi, autonomi e che lo Stato invece abbia quei diritti che essi

gli hanno graziosamente concesso, ma sia vero l’opposto”.590

Ed, infatti, la costruzione risulta adesso rovesciata: punto di

partenza della dottrina del diritto naturale era la libertà originaria e

sconfinata dell’individuo che poi, per effetto dannoso del sorgere dello

Stato, veniva compressa e limitata; punto di partenza è, ora, il rapporto di

sudditanza dal quale scaturiscono, come suoi effetti benefici, i diritti

pubblici dei cittadini.591

Questi, quindi, i presupposti: per quanto riguarda più

specificatamente la presa di posizione di Gerber in ordine alla titolarità in

capo ai singoli di situazione giuridiche soggettive di vantaggio nei

confronti dello Stato, Romano afferma che, in generale, non sembra che il

giurista tedesco "neghi al cittadino qualunque diritto in senso

subbiettivo".592

A sostegno di tale affermazione il nostro giurista riporta alcuni

passi dell'autore tedesco che appaiono in tal senso particolarmente

significativi: "lo Stato con la soggezione e per mezzo di essa conferisce

contemporaneamente una quantità di diritti importantissimi, i civici e

specialmente i politici che, in certo qual modo, hanno carattere di

reciprocità (..) e ciò perché la soggezione in uno Stato libero e ben

ordinato non ha alcun altro scopo ed alcun altro effetto che quello di

procurare un'esistenza dotata di diritti civili e politici".593

In base a queste considerazioni Romano propone di interpretare

l'espressione «Reflexrechte» non nel senso che il Gerber abbia voluto

distinguere (e perciò contrapporre) i diritti riflessi ai diritti subbiettivi, ma

nel senso che con tale qualificazione egli abbia voluto sottolineare la

genesi di tali diritti, i quali quindi sono veri e propri diritti soggettivi dei

cittadini, ma non naturali ed originari, bensì riflessi, derivati dal diritto di

sovranità dello Stato.

Tuttavia, aggiunge il Nostro, nell'opera di Gerber si ritrovano,

indubbiamente, anche dei passi di carattere oscuro, nei quali sembra che

590 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.6.

591 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 6-7.

592 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 7.

593 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 7.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

381

venga negata l'esistenza della categoria dei diritti pubblici soggettivi; ma,

si avverte, non bisogna mai dimenticare il carattere polemico dello scritto.

In conclusione sembra più esatto ritenere che "da queste ambiguità,

se non direttamente dalla teorica del Gerber, prese le mosse quella dottrina

che, più o meno recisamente, con più o meno scarse concessioni, è

arrivata alla conclusione che al cittadino non spettano diritti pubblici nel

senso subbiettivo".594

Per altro verso, come si è detto, Jellinek pone a fondamento della

sua indagine il principio per cui il diritto non può essere compreso se non

come rapporto tra soggetti:595

le relazioni dell’uomo con gli altri uomini e

con le cose del mondo esterno, relazioni che costituiscono i rapporti della

vita degli uomini, in quanto riconosciute e regolate dall’ordinamento

giuridico, vengono qualificate come rapporti giuridici. L’affermazione

che il diritto, qualunque diritto, in quanto rapporto giuridico, è possibile

soltanto tra soggetti di diritto, l'affermazione cioè del carattere,

essenzialmente e necessariamente, relazionale del diritto, porta a

riconoscere, anche nel diritto pubblico, l’esistenza di soggetti di diritto

altri rispetto allo Stato: “se lo Stato ha dei diritti pubblici sopra i sui

sudditi, ciò significa che riconosce loro, quali membri della comunità del

popolo, una capacità giuridica di diritto pubblico, dalla quale scaturiscono

pretese giuridiche di fronte allo Stato”.596

L’autore sottolinea l’importanza del riconoscimento dell’esistenza

di diritti pubblici soggettivi non solo per la configurabilità del diritto

pubblico, ma anche per la possibilità e l’esistenza stessa del diritto

594 Cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p 8.

595 Cfr. G. JELLINEK, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.11 “Un

individuo assolutamente isolato non è concepibile come investito di diritti. Anche lo Stato,

in conseguenza, non può avere diritti, se non in quanto lo si pensi come contrapposto ad

altre persone. Un rapporto di dominazione di fatto diventa rapporto giuridico solamente se

entrambi i membri, dominante e dominato, si come investiti di diritti e doveri reciproci.”

L’autore esemplifica questo concetto facendo riferimento al rapporto padrone-schiavo,

rapporto che poteva dirsi giuridico soltanto rispetto ai terzi (come qualunque rapporto tra

una persona e una cosa), mentre rispetto allo schiavo, il potere del padrone era un potere di

fatto.

596 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.12: “Dal

riconoscere l’esistenza di diritti pubblici di coloro che fanno parte dello Stato, dipende

pertanto l’esistenza del diritto pubblico in generale. Un ordinamento giuridico che

attribuisca diritti a una persona soltanto è impossibile”.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

382

privato, affermando, testualmente, che “senza diritto pubblico non è

possibile il diritto privato”:597

la ragione di ciò, ben si comprende se si

considera che il riconoscimento, la garanzia, l’attuazione di qualunque

diritto non può prescindere da un’organizzazione statale di difesa,

operante secondo norme giuridiche (di diritto pubblico, naturalmente).

Torna, chiaramente, qui un motivo ricorrente nella dogmatica tedesca del

secolo scorso, vale a dire la priorità e la superiorità temporale e

concettuale del diritto pubblico rispetto al diritto privato: per questa via si

giunge a configurare il diritto privato come facente parte dello stesso

diritto pubblico, più precisamente, come quella parte del diritto pubblico

volto a disciplinare i rapporti (giuridici) tra privati.

Si può notare, inoltre, in tale affermazione una presa di posizione,

di fronte al rapporto diritto soggettivo/diritto oggettivo, inversa, ribaltata,

rovesciata rispetto a quella fatta propria dalle dottrine (francesi) del diritto

naturale: non più diritti soggettivi che esistono prima e indipendentemente

(in certi casi anche contro ) dallo Stato, ma diritti soggettivi creati,

riconosciuti, protetti in maggiore o minore misura, dal diritto oggettivo.598

Il passo riportato all’inizio del paragrafo consente, infine, un’ultima

osservazione: Jellinek parla (ancora) di «sudditi», non di cittadini. La

scelta terminologica probabilmente non è casuale, sicuramente non è priva

di significato, in quanto ben dice, anche sul piano lessicale, la superiorità

dello Stato sull’individuo.

A questo punto si tratta di conciliare la giuridicità dello Stato con la

sua sovranità: infatti, come può lo Stato apparire soggetto del diritto,

limitato dal diritto, sottoposto dal diritto, quando il diritto è opera dello

Stato, quando è lo Stato che crea il diritto? Jellinek supera l’impasse

attraverso il concetto di «autolimitazione», intesa come una sorta di

597 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.12. Possiamo

osservare, al riguardo, che il rapporto tra diritto privato e diritto pubblico è, qui, opposto,

rovesciato rispetto a quello indicato dal Gerber: il «padre riconosciuto del diritto del diritto

pubblico tedesco» affermava ancora che il diritto pubblico presuppone il diritto privato,

che quello non può esistere senza questo. Ed infatti Gerber «costruisce» il diritto pubblico

con le categorie concettuali del diritto privato, le quali vengono a costituire l’impalcatura

di tutto l’edificio del diritto pubblico (l’immagine è dello stesso Gerber); cfr. C. F.

GERBER, Diritto pubblico cit., p.43. Contro questa utilizzazione di strumenti privatistici

insorgerà, in particolare, qualche anno più tardi Otto von Gierke.

598 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema dei diritti pubblici subbiettivi, cit., p.10 “Concepire

il diritto come qualcosa di originario, che derivi soltanto da sé medesimo la sua autorità e il

suo valore, importa nient’altro che scambiare il fatto col diritto”.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

383

promessa di diritto pubblico: “non vi è nulla di contraddittorio

nell’asserire l’esistenza di impegni assunti unilateralmente dal soggetto

interessato”.599

Questa (necessaria) «auto-limitazione» dello Stato si

configura quale premessa e condizione imprescindibile della sua stessa

possibilità giuridica e della possibilità dell’intero fenomeno giuridico.600

Il

rapporto tra lo Stato e il cittadino, infatti, è giuridico in quanto rapporto

tra soggetti di diritto, ma questi soggetti non si trovano in una posizione di

parità (come, invece, tipicamente avviene nel diritto privato), perché uno

(lo Stato) fonda e determina la soggettività giuridica degli altri (i cittadini)

attraverso un atto di autolimitazione. In tal modo si salva (o si crede di

salvare) sia la sovranità dello Stato, sia la sua (giuridica) limitazione.

Tuttavia il paragone con la promessa di diritto privato non regge,601

perché

mentre questa è davvero vincolante in quanto c’è una forza esterna (lo

Stato, appunto) che, all’occorrenza ne garantisce l’adempimento, la

promessa prestata dallo Stato non vincola affatto, non essendoci nessuna

autorità o forza esterna in grado di costringere lo Stato a rispettarla. A

meno che non si voglia riconoscere l’esistenza di qualcosa d’altro e di

superiore rispetto allo Stato: ma allora verrebbe negata la sovranità dello

Stato, e con ciò stesso lo Stato, essendo la sovranità (intesa come

supremazia) un carattere essenziale dello Stato moderno.

Constata l’insufficienza e l’unilateralità delle principali teorie

esaminate sopra relative alla natura del diritto soggettivo, il giurista di

Heidelberg suggerisce, per comprendere appieno la realtà in cui tale

diritto consiste, di concepire in generale il diritto soggettivo come

un’entità costituita di due elementi, uno materiale ed uno formale.

599 Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit. p.368.

600 Nell’asserzione della necessaria autolimitazione dello stato viene indicato il

fondamento di quella «ambiguità sostanziale di fondo» che spesso si «rimprovera» al

giurista di Heidelberg, del quale si sottolinea “l’irrisolta tensione tra l’ideale liberale e la

pretesa di incapsularlo in categorie giuridiche che, (..), erano e sono ideologicamente

intrise di autoritarismo”; con il concetto di autolimitazione, infatti, si pone da un lato lo

Stato-persona come soggetto e autore delle manifestazioni di volontà da cui scaturisce

tutto il diritto e, dall’altro, si condiziona la giuridicità dello Stato alle limitazioni che egli

stesso crea con la sua volontà; cfr. sul punto le osservazioni di A. BALDASSARRE, I diritti

pubblici soggettivi, cit., p.5.

601 In tal senso cfr. G. BALLADORE PALLIERI, La dottrina dello stato, Padova, 1958,

p.60.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

384

Quanto all’elemento materiale è facile osservare, infatti, che le cose

che sono oggetto del diritto sono quelle che servono a realizzare scopi

individuali considerati necessari ovvero semplicemente riconosciuti

dall’ordinamento giuridico: queste “cose” sono qualificate beni.

Ora, ciò che obbiettivamente costituisce un bene, soggettivamente

diventa interesse: l’interesse, in altre parole, è l’apprezzamento soggettivo

di ciò che per i fini dell’uomo costituisce un bene.602

Si aggiunge che tutto

lo scopo del diritto consiste nella tutela dei beni o degli interessi.

Ma per l’esistenza del diritto soggettivo non è sufficiente che un

bene o un interesse sia protetto dall’ordinamento giuridico: occorre,

altresì, che tale bene o interesse sia posto in rapporto con una volontà,603

essendo la volontà il mezzo necessario per trasformare una cosa in bene o

interesse. È il riconoscimento giuridico della potestà di volere rivolta ad

un interesse che produce l’individualizzazione del diritto, riferendolo a

una persona determinata.

Tali considerazioni preliminari permettono a Jellinek di definire (in

generale) il diritto subbiettivo come “la potestà di volere che ha l’uomo,

riconosciuta e protetta dall’ordinamento giuridico, in quanto sia rivolta a

un bene o ad un interesse”.604

Questa definizione pone in evidenza

entrambi gli elementi costitutivi del diritto soggettivo, tanto l’elemento

formale (la potestà di volere), quanto l’elemento materiale (il bene o

l’interesse).

602 Il giurista austriaco, dopo aver definito l’interesse come “l’apprezzamento

subbiettivo di ciò che, per i fini dell’uomo costituisce un bene” , si affretta a precisare che

rilevante, e decisivo, non è l’apprezzamento individuale, ma quello generale: “perché un

bene dia luogo a un interesse, non basta però l’apprezzamento individuale, ma occorre che

un bene sia considerato come tale dall’apprezzamento medio, che risulta dallo stesso

ordinamento giuridico”; cfr. G. JELLINEK, Il sistema, p.47. Si ritrova in questa

osservazione, chiaramente, l’eco della concezione dello stato dominante nella dottrina

tedesca del secolo scorso, secondo la quale lo stato è la fonte e l’interprete necessario del

diritto: esso crea il diritto nel senso traduce in termini giuridici, in norme, lo spirito

popolare. Determinante, in tale senso, l’apporto della Scuola storica.

603 G. JELLINEK, Il sistema, p.48: ”il bene, o l’interesse protetto dal diritto diventa

tale, soltanto perché è posto in rapporto con la volontà umana”.

604 G. JELLINEK, Il sistema, p.49; il testo così prosegue:” soltanto il riconoscimento

giuridico della potestà di volere rivolta ad un bene o ad un interesse può produrre quella

individualizzazione del diritto, quella sua connessione con una determinata persona, che

formano uno dei criteri essenziali del diritto subbiettivo”.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

385

Alla definizione concettuale, Jellinek, fa seguire due osservazioni

importanti. Con la prima precisa che non è necessario che la persona cui

appartiene la volontà rivolta verso l’interesse, sia la stessa cui l’interesse

torna a vantaggio, vale a dire che se per l’esistenza del diritto soggettivo

non si può prescindere da una volontà, ciò non significa che deve trattarsi

necessariamente della volontà dell’interessato.605

Con la seconda sottolinea che ci sono interessi individuali protetti

dall’ordinamento anche a prescindere dal riconoscimento, ovvero, dal

riferimento a una volontà individuale; in tal caso abbiamo un interesse

tutelato giuridicamente, ma non un diritto soggettivo:606

“soltanto se la

volontà individuale è riconosciuta come decisiva per l’esistenza e per

l’estensione dell’interesse, questo si trasforma in un diritto pubblico

subbiettivo”.607

Siamo giunti, a questo punto, al «cuore» della costruzione dello

Jellinek: la fondamentale distinzione tra licere e posse, che è quanto

interessa precipuamente ai fini che ci siamo proposti per la nostra ricerca.

L’indagine del giurista austriaco prosegue con l’osservazione che le

azioni umane si distinguono fondamentalmente in azioni giuridicamente

rilevanti e in azioni giuridicamente irrilevanti: mentre queste ultime non

vengono in considerazione (si tratta con tutta evidenza delle azioni di cui

il diritti si disinteressa), le prime assumono rilievo giuridico in due modi

diversi , e si parla in un caso di «agere licere», nell’altro di «agere

posse». Il licere giuridico è costituito dal complesso delle facoltà già

esistenti per natura, a cui è attribuita dall’ordinamento rilevanza giuridica;

ma l’ordinamento giuridico può non solo riconoscere, attribuendo

605 Il rilievo di tale precisazione si coglie con particolare, anche se non esclusivo,

riferimento alla situazione degli incapaci (naturalisticamente) di volere, dei quali si salva,

in questo modo, la possibilità di essere titolari di diritti soggettivi. Anche il Romano che,

come vedremo, aderisce alla definizione proposta da Jellinek (sia pur soltanto per il diritto

soggettivo privato), ebbe ad osservare espressamente che “la persona il cui interesse viene

riconosciuto può non coincidere con quella che vuole, come nel caso degli incapaci, delle

persone giuridiche e perciò anche dello Stato”; cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti

pubblici subbiettivi, cit., p.15.

606 G. JELLINEK, Il sistema, cit., p.49: “un interesse è tutelato giuridicamente dal

diritto obbiettivo, anche quando esso non riconosca alcuna potestà di volere individuale.

Ogni misura che tende a tutelare l’interesse generale, tutela necessariamente una somma in

blocco di singoli interessi individuali, senza creare con ciò diritti subbiettivi”.

607 G. JELLINEK, op. cit., p.49.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

386

rilevanza giuridica, facoltà «naturali» dell’individuo, bensì anche

concedere, attribuire all’individuo qualcosa che egli non possiede per

natura, facoltà in senso lato che non esistono in rerum natura. In altre

parole, può concedere al singolo la facoltà di pretendere che alcune delle

di lui azioni siano riconosciute come fatti/atti giuridici (ad es. contratto,

testamento) e che, come tali siano suscettibili di tutela (giuridica). Licere e

posse sono tra loro diversi sotto molteplici aspetti:608

oltre a riferirsi a

facoltà differenti – semplicemente riconosciute e permesse quelle relative

al licere, create e concesse quelle relative al posse -, essi si pongono su

piani diversi. Infatti, mentre ciò che è giuridicamente lecito si riferisce a

rapporti tra una persona ed un’altra ed attiene alla sfera di libertà naturale

del singolo, ciò che è giuridicamente possibile si riferisce “a rapporti tra

un tutto che crea il diritto e le unità comprese in questo tutto”,609

quindi,

primariamente ai rapporti tra lo Stato ed il singolo. Licere e posse, però,

sono tra loro strettamente connessi, anche se in modo diverso: mentre ogni

licere presuppone un posse, al contrario un posse può esistere senza un

licere. Infatti ci sono vari casi in cui l’ordinamento giuridico concede una

potestà, cioè crea una determinata possibilità di agire, ma non permette,

cioè ne vieta l’esercizio. Non solo, l’indicato rapporto tra licere e posse si

riflette anche nella diversa realtà propria dei diritti soggettivi privati e dei

diritti soggettivi pubblici, i quali pur dotati di una stessa struttura

(interesse tutelato dall’ordinamento mediante il riferimento ad una

volontà) si distinguono sia in base ad un criterio formale, sia in base ad un

criterio materiale. La distinzione formale concerne proprio la distinzione

tra licere ed posse: mentre i diritti soggettivi privati consistono in un

agere licere, cioè attengono alle manifestazioni della facoltà naturale dei

608 La differenza tra ciò che è giuridicamente lecito (agere licere) e ciò che è

giuridicamente possibile (agere posse) ben si coglie, suggerisce Jellinek, se si guarda alle

conseguenze di un’eventuale trasgressione di un licere ovvero di un posse: mentre la non

osservanza di un divieto relativo ad un non licere e possibile e produce un’azione contraria

alla legge, la non osservanza, invece, di un non posse è impossibile (giuridicamente) e non

produce nulla. In altre parole, essendo la potestà giuridica qualcosa di artificiale, una

creazione dell’ordinamento giuridico, che viene concessa dallo Stato all’individuo e che lo

rende capace di compiere atti che “naturalmente” (cioè al di fuori di una concessione

statale) non avrebbe la possibilità di compiere, un eventuale azione contraria a un non

posse semplicemente non esisterebbe giuridicamente: noi diremmo, sarebbe un atto

giuridicamente nullo. Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., pp.51-52.

609 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema, cit., p. 54: “ciò che è lecito, lo è rispetto ad una

persona, ciò che diventa giuridicamente possibile, lo diventa rispetto allo Stato”.

Page 387: IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA3 INDICE PREMESSA p. 1 .I. STRUTTURA ED APPLICAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA .I.1. Posizione del problema e questioni di metodo INDIVIDUAZIONE DEL PROBLEMA

SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

387

singoli, ma presuppongono necessariamente un agere posse, consistente in

una pretesa giuridica (di diritto pubblico) al riconoscimento e alla tutela

statale, i diritti soggettivi pubblici, invece, non concernono alcuna facoltà

naturale dell’individuo, ma hanno per contenuto esclusivamente un posse,

che poi altro non è se non la capacità, concessa, di attivare a proprio

vantaggio le norme giuridiche.

La distinzione materiale riguarda, invece, i motivi per cui

l’interesse individuale viene protetto; lo stesso autore sottolinea come la

distinzione attenga solo ai motivi della tutela, non all’interesse in sé, il

quale è sempre, tanto nel diritto soggettivo privato quanto nel diritto

soggettivo pubblico, un interesse individuale.610

Premesso che la tutela giuridica di ogni interesse individuale è

possibile solo se, ed in quanto, lo richieda l’interesse generale, per cui

“non esiste alcun interesse giuridico individuale che non abbia rapporto

con un interesse generale”,611

il diritto soggettivo privato si caratterizza

per la circostanza che l’interesse individuale è costituito prevalentemente

da scopi individuali, laddove nel diritto soggettivo pubblico l’interesse

individuale è riconosciuto prevalentemente nell’interesse generale.

Concludendo: la capacità, meglio, la possibilità giuridica di

pretendere riconoscimento e tutela giuridica, costituisce, per così dire,

l’anima del diritto soggettivo, essendo presupposta nel diritto soggettivo

610 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.58: la specificità del diritto soggettivo

pubblico, si spiega, “non può consistere nella natura dell’interesse, poiché il diritto

individuale deve necessariamente avere per contenuto un interesse individuale. Piuttosto

deve essere ricercata nei motivi che hanno indotto l’ordinamento giuridico a riconoscere

l’interesse individuale”: Peraltro, lo stesso Jellinek riconosce che questo criterio, a

differenza del criterio formale, è in sé indeterminato e quindi, “la linea di confine materiale

(tra diritto soggettivo privato e diritto soggettivo pubblico) non si può sempre tracciare con

sicurezza”. Op ult cit., p.59. L’indeterminatezza del criterio scelto, quello della prevalenza,

verrà apertamente criticato, tra gli altri, da Romano: cfr. S. ROMANO, La teoria dei diritti

pubblici subbiettivi cit., p.20.

611 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.58: la coesistenza, si aggiunge, di un

interesse individuale e di un interesse generale in ogni diritto soggettivo è fuori

discussione; solo può variare, anche sensibilmente, il grado di questo rapporto.

Aggiungiamo una precisazione: la prevalenza s’intende riferita ai motivi della tutela, non

all’interesse in sé (individuale ovvero generale): nell’ambito di una concezione come

quella dello Jellinek, infatti, l’interesse individuale non può mai prevalere sull’interesse

generale.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

388

privato612

e costituendo il contenuto esclusivo del diritto soggettivo

pubblico.613

Ebbene, spiega Jellinek, questa potestà deriva unicamente dallo

Stato. E aggiunge: “il posse è identico con la giuridica capacità. Esso

denota le singole direzioni secondo le quali la capacità giuridica può

manifestarsi. L’insieme dei posse costituisce la personalità”.614

Il giurista austriaco parla testualmente di capacità giuridica, ma tale

espressione va intesa, nell’ambito della sua costruzione teorica, in senso

ampio, comprensivo non solo (e non tanto) di quella che tecnicamente

viene indicata come capacità giuridica, cioè “l’attitudine ad essere titolare

di diritti e di doveri”,615

ma anche (e soprattutto) di quella che

tecnicamente viene indicata come capacità di agire, cioè “l’attitudine a

compiere manifestazioni di volontà giuridicamente rilevanti”,616

ossia a

compiere atti giuridici.

Nel linguaggio di Jellinek il termine persona (o personalità) è usato

come sinonimo di capacità giuridica: “personalità o persona è la capacità

di poter essere titolari di diritti, in una parola la capacità giuridica”.617

Trattasi di una realtà che non fa parte del mondo naturale, per usare

le parole dell’autore “essa non risulta mai da natura, non è soprattutto un

612 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.56: “..i diritti privati sono sempre connessi

con una pretesa giuridica (Anspruch) di diritto pubblico al riconoscimento giuridico e alla

tutela, così che in essi il licere e il posse si trovano sempre congiunti”.

613 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.57: “il diritto pubblico subbiettivo, dal punto

di vista formale, consiste pertanto in pretese giuridiche (Ansprüchen), le quali derivano

dalle qualificazioni concrete della personalità”.

614 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.57.

615 Fra le molte formulazioni di questo tradizionale principio, ci è cara quella di A.

TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, XXX ed., Padova, 1992, p.68, che

riconosce così il debito giusnaturalista della sua formazione con Adolfo Ravà, prima, e con

Francesco Carnelutti, poi.

616 Cfr. A. TRABUCCHI, op. cit., p.68.

617 Oggi, per lo più, la dottrina distingue concettualmente la personalità giuridica

dalla capacità giuridica: la personalità (come sinonimo di soggettività) è l’astratta idoneità

a diventare titolare di rapporti: è la titolarità potenziale di una serie indeterminata di

rapporti. La capacità giuridica è la misura di tale idoneità che definisce i contorni della

personalità. Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, XXX ed., Padova, 1992, p.62,

nota 1.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

389

essere, ma un rapporto che intercede fra un subbietto ed altri subbietti e

l’ordinamento giuridico: la personalità è conferita sempre dal diritto”.618

E aggiunge: “non esiste perciò una personalità naturale, ma soltanto una

personalità giuridica (…) la persona è una relazione astratta, che esiste

soltanto psicologicamente”.619

Il carattere essenzialmente artificiale e

derivato della personalità giuridica, e la conseguente discendenza dallo

Stato della qualificazione e del riconoscimento della soggettività giuridica

di qualsiasi entità «altra» rispetto ad esso, ben si coglie in questo passo:

“soltanto come membro dello Stato…l’uomo è in generale soggetto

(Träger) di diritti. Ciò significa niente altro che partecipare alla tutela

giuridica. Un essere vivente è elevato alla condizione di persona, di

soggetto di diritti innanzitutto pel fatto che lo Stato attribuisce ad esso la

capacità di richiedere efficacemente la tutela giuridica statale. È lo Stato,

quindi, quello che crea la personalità.”620

618 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.31. A dimostrazione ed esemplificazione

dell’asserzione appena fatta, il giurista ricorda la situazione giuridica dello schiavo:

“riconoscere apertamente l’uomo quale subbietto di diritto è un postulato etico affermato

dal progresso dei secoli. Tuttavia la storia ci ammaestra purtroppo, che è possibile un

ordinamento giuridico, il quale non realizzi il postulato su espresso. Lo schiavo aveva la

capacità naturale di volere, ma non la capacità giuridica, ossia egli non poteva mettere in

movimento, nel suo interesse, le norme dell’ordinamento giuridico, che proteggono

l’individuo; imperocchè quest’ultima capacità, per la sua essenza, è artificiale, cioè a dire

che non risulta da un processo organico di natura, ma dall’opera cosciente degli uomini”; e

ancora: “lo schiavo, prima che lo Stato lo avesse liberato o gli avesse attribuito la limitata

capacità di disporre del suo peculio, non era nemmeno persona, nemmeno nel senso che

possedesse siffatta qualità come a lui inerente, indipendentemente dal riconoscimento dello

Stato. Naturalmente egli era riconosciuto come uomo. Questo però non importava che egli

fosse subbietto di diritti ma soltanto subbietto di doveri. Dalla qualità di uomo,

storicamente e logicamente risulta come conseguenza necessaria soltanto il dovere, non il

diritto verso lo Stato.” Cfr, Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.93. S’intende che quanto

affermato per lo schiavo dell’antica Roma vale anche per il cittadino della Germania o di

qualsivoglia Stato: l’uomo non ha diritti se non quelli che gli attribuisce lo Stato.

619 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.31. Si vede qui, al di là della ricercata

iperbole estrema, il carattere di relazione proprio del diritto, momento non superabile,

nemmeno quando la personalità è attribuita con atto sovrano dallo Stato.

620 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.92. Come si è già avuto di osservare,

affermazioni consimili rinvenibili in tutta l’opera dell’insigne giuspubblicista, rivelano la

(forse inconsapevole) propensione per il momento processuale che viene così a prevalere

su quello sostanziale: in tanto un diritto è in quanto ne sia garantito l’esercizio; e siccome

l’esercizio del diritto è monopolio dello Stato, l’esistenza stessa del diritto è concessione

dello Stato, in tanto attribuita ai singoli in quanto conforme con le finalità pubbliche dello

Stato stesso. Non è azzardato, a nostro parere, rinvenire qui un’assonanza (dovuta alla

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

390

Queste le premesse che portano Jellinek ad asserire che “la

personalità (giuridica) individuale non è il fondamento, bensì il risultato

della società giuridica”.621

L’affermazione, peraltro, è perfettamente coerente con quel

concetto di autolimitazione che abbiamo visto costituire il fondamento

dell’intero sistema costruito dallo Jellinek: è dall’autolimitazione che

nasce la personalità giuridica dello Stato ed, insieme ad essa (dato il

carattere relazionale del diritto), quella dei soggetti «altri» rispetto allo

Stato; è dall’autolimitazione che deriva il diritto obbiettivo, perché lo

Stato, oltre a creare (giuridicamente s’intende) i soggetti, detta le norme

del loro agire;622

è dall’autolimitazione che derivano i diritti soggettivi,

perché ogni diritto soggettivo presuppone una norma (di diritto obiettivo)

che attribuisca al titolare una pretesa al riconoscimento o alla tutela.

La teoria dei diritti pubblici di Georg Jellinek ha rappresentato, per

circa mezzo secolo, la concezione comunemente accettata tanto in

Germania, quanto in Francia e in Italia.

Giurista raffinato e di grande cultura elaborò un sistema in cui

trovano posto i principi del tradizionale statalismo autoritario tedesco, ma

in cui fanno il loro ingresso anche principi nuovi, liberali.623

tradizionale formazione romanistica di questi autori) con il sistema edittale del pretore

romano, che creava le figure di diritto sostanziale, concedendo o negando l’azione nelle

fattispecie dichiarate all’inizio del suo mandato, poi cristallizzate.

621 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.32; osserviamo che i termini risultano

ribaltati rispetto al postulato giusnaturalistico, secondo cui «in principio» c’è l’individuo

con i suoi diritti, con la sua personalità, (sorta di patrimonio giuridico innato); lo stato

viene creato dopo proprio sul fondamento e a tutela di tale personalità. In tal senso cfr. V.

E. ORLANDO, Diritto pubblico generale. Scritti vari coordinati in sistema, Milano, 1940,

p.281.

622 Due punti mi sembra di dover sottolineare: il primo è che il diritto obiettivo

deriva sempre e tutto dallo stato; il secondo che il diritto soggettivo riposa su una norma di

diritto obiettivo, e quindi, è anch’esso una creazione dello stato. Condivide entrambe

queste affermazioni Orlando, che però le giustifica senza ricorrere al concetto di

autolimitazione; per ulteriori approfondimenti cfr. V. E. ORLANDO, Diritto pubblico cit.,

p.281.

623 Le novità apportate sul piano dottrinale, da un lato testimoniano, dall’altro

danno il loro contributo a importanti trasformazioni sia sul piano socio-politico, sia sul

piano giuridico-costituzionale; vale la pena ricordare, per quanto appena affermato, che la

prima edizione de I diritti pubblici soggettivi di G. Jellinek è del 1892, la seconda del

1905; in ordine alle menzionate trasformazioni, invece, si possono ricordare: nel 1871 la

concessione del suffragio universale maschile, seguita qualche anno più tardi dal

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

391

I rapporti di diritto pubblico, che sono quelli che intercorrono tra lo

Stato persona titolare della potestà giuridica suprema da un lato, e altro

soggetto di diritto dall’altro, possono dar luogo a situazioni giuridiche

(Zustande) diverse, situazioni giuridiche che Jellinek denomina status:

“una gamma varia e complessa che parte dalla esclusione della personalità

dell’individuo laddove egli, suddito dello Stato, sia interamente sottoposto

al suo sovrano potere, e poi di tale personalità segna, attraverso posizioni

ulteriori e grado a grado più favorevoli, la progressiva piena

affermazione”.624

Nella maggior parte dei casi, spiega Jellinek, sono

rapporti di subordinazione dei cittadini alla volontà superiore dello Stato,

trovandosi quelli in una situazione giuridica di dovere nei confronti di

questo: per i cittadini, quindi, la situazione giuridica generale nei rapporti

di diritto pubblico è lo status subiectionis. Ma possono darsi anche

situazioni giuridiche diverse.

Così Jellinek parla di status libertatis con riferimento alla

situazione giuridica di libertà di azione (naturale) dei cittadini, cioè allo

spazio di libera azione che essi, in quanto sottratti ai precetti imperativi

dello Stato, hanno. Si tratta, evidentemente, di una libertà che ha carattere

negativo e residuale: essa, in sé, non ha rilievo giuridico, ma l’assume se e

nella misura in cui viene ad interessare sfere giuridiche altrui.625

riconoscimento di una serie di “diritti sociali” per i lavoratori e gli impiegati, e soprattutto

–per la sua importanza sul piano della tutela delle libertà individuali- il riconoscimento

legislativo del diritto dei cittadini di ricorrere al giudice amministrativo contro i

comportamenti illegali della pubblica amministrazione immediatamente lesivi delle libertà

dei singoli.

624 Cfr. E. CASETTA, Diritti pubblici subbiettivi in “Enciclopedia del Diritto

Giuffré”, vol. XII, Roma, 1964, p.794, nonché, dello stesso Autore, l’ottimo Manuale di

diritto amministrativo, Milano, 1999, specialmente, p. 279 e ss.; cfr. altresì il classico P.

VIRGA, Diritto amministrativo, vol. II, V ed., Milano, 1999, p. 170.

625 F. PIERANDREI, I diritti subbiettivi pubblici nell’evoluzione della dottrina

germanica, Torino, 1940, p. 127, dove riporta queste parole di Jellinek: “lo status libertatis

comprende un complesso di azioni che, in sé, sono giuridicamente irrilevanti, di cui le

libertà costituzionali sono alcune, ma non le sole, manifestazioni….Il diritto che a tale

status corrisponde è quello di poter agire autonomamente senza essere impedito dagli

organi statali. L’individuo non deve venire costretto ad alcuna prestazione contraria alla

legge, ed in conseguenza ha la pretesa derivante dal riconoscimento della sua libertà, di

ottenere che le autorità si astengano dall’impartigli ordini non conforme alla norma

suddetta e di esigere che siffatti ordini vengano, ove occorra, annullati”. E lo stesso

Jellinek afferma che la libertà “niente altro è che l’esenzione da costrizioni illegali”: cfr.

Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.115.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

392

Ulteriore e possibile situazione giuridica è quella denominata status

civitatis, la quale si viene a creare quando lo Stato concede ai cittadini

posizioni attive nei suoi confronti, in virtù delle quali in capo ai cittadini si

hanno situazioni giuridiche di vantaggio o beneficio, cui corrispondono

determinati obblighi dello Stato: ciò significa che in questo tipo di

rapporto pubblico i cittadini hanno diritto a determinate prestazioni da

parte dello Stato.

Infine, considerato che lo Stato-persona per poter agire

giuridicamente, non può non servirsi di persone fisiche, cui affida il

concreto esercizio delle sue competenze, l’ultima situazione giuridica è

quella in cui si trovano i cittadini che partecipano attivamente all’esercizio

delle funzioni statali: questo è lo status activae civitatis.

È bene chiarire che questi status non sono di per sé diritti

soggettivi: essi, infatti, hanno una valenza oggettiva, nel senso che

indicano le posizioni giuridiche generali in cui possono trovarsi i soggetti

giuridici che entrano in rapporto con lo Stato. Ciò che trasforma queste

situazioni (oggettive) giuridicamente rilevanti in diritti soggettivi è la

previsione legislativa di una pretesa del cittadino (che in uno di tali status

si trovi) nei confronti dello Stato al fine di far valere la tutela giuridica di

determinati beni collegati ai vari status.626

In questa prospettiva il carattere fondamentale del diritto soggettivo

è la capacità di agire giudizialmente: l’essenza del diritto soggettivo, sia

privato che pubblico, sta tutta in questo posse. Considerato che questo

posse consiste in una potestà creata e concessa dallo Stato, si deve anche

riconoscere che il diritto soggettivo è sempre una concessione dello Stato.

Affermata la pretesa del cittadino contro lo Stato, si tratta ora di

stabilire verso quali organi dello Stato-persona questa pretesa possa essere

avanzata.

Al riguardo Jellinek condivide la tesi, che fu già di Laband, secondo

cui i diritti soggettivi pubblici dei cittadini si fanno valere (soltanto)

contro lo Stato-amministrazione. Alla base di questa soluzione sta una

626 Cfr. G. JELLINEK, Il sistema cit., p.96:”Per il fatto di appartenere allo Stato, di

essere membro di esso, l’individuo è qualificato sotto diversi aspetti. I possibili rapporti

nei quali esso può trovarsi con lo Stato lo mettono in una serie di condizioni

giuridicamente rilevanti. Le pretese giuridiche che risultano da siffatte condizioni, sono ciò

che si designa col nome di diritti pubblici subbiettivi (il corsivo è dell’autore). I diritti

pubblici subbiettivi consistono, perciò, esclusivamente in pretese giuridiche (Ansprüche),

che risultano direttamente da condizioni giuridiche (Zustande)”.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

393

particolare concezione delle funzioni statali,627

per cui, mentre la

legislazione e la giurisdizione rappresentano la sfera del giudizio,

l’amministrazione rappresenta la sfera dell’azione. Se ne inferisce che

rapporti giuridici e posizioni giuridiche attive possono aversi soltanto tra

soggetti che agiscono e, quindi, tra i privati e la pubblica

amministrazione.628

Se confrontata con le precedenti classificazioni, quella proposta da

Jellinek si caratterizza per essere basata su un criterio prettamente

oggettivo (gli status),629

ma quanto al contenuto i diritti soggettivi pubblici

di Jellinek sono gli stessi già enunciati da Gerber e Laband. Con

un'aggiunta importante, però: i diritti di libertà.

Analizziamo il contenuto dei diritti pubblici di libertà: essendo

connessi con lo status negativo, essi ineriscono a quella sfera individuale

di irrilevanza giuridica che risulta, in via residuale, dalla limitazione delle

competenze statali. In quest'ambito il singolo è naturalmente, non

giuridicamente libero. Essendo a priori escluso l'intervento dello Stato

(che solo crea il diritto) viene altresì esclusa la possibilità di situazioni

giuridiche soggettive.630

Esistono solo le facoltà naturali del soggetto, non

diritti: perché queste facoltà naturali si trasformino in situazioni giuridiche

soggettive, precisamente in diritti, occorre che intervenga lo Stato,

attribuendo, con una norma di diritto obbiettivo il potere (giuridico) di

agire giudiziariamente.

Se ne inferisce che il cittadino ha un diritto di libertà solo se ha (in

virtù di un'attribuzione statale) il potere di esperire un'azione

627 La concezione cui si fa riferimento nel testo era stata elaborata da Laband e

viene espressamente condivisa da Jellinek. Cfr. supra, § II.3.3 e II.3.4.

628 In una simile concezione i diritti pubblici soggettivi appaiono nascere e vivere

nell’ambito dei rapporti, e degli eventuali conflitti, tra privati e pubblica amministrazione

per il riconoscimento o la tutela della rispettiva libertà di azione; cfr. in tal senso A.

BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi cit., p.6.

629 Gerber, invece, aveva distinto i diritti soggettivi pubblici sulla base di un

criterio soggettivo (monarca, funzionari, sudditi) e Laband si era avvalso di un criterio

misto (diritti dello Stato: all'ubbidienza e alla fedeltà; diritti dei cittadini: alla protezione

all'interno, alla protezione all'estero, alla partecipazione alla vita costituzionale dello

Stato).

630 Fin qui la posizione di Jellinek è perfettamente uguale a quella di Gerber, per il

quale, abbiamo visto, la libertà si configura giuridicamente più come un effetto riflesso che

come vero e proprio diritto soggettivo.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

394

giudiziaria:631

l'azione non è più strumentale , ma costitutiva. Sembra,

infatti, potersi affermare che in tale prospettiva non è il potere di azione

che nasce dal diritto, ma il diritto che nasce dal un potere di azione.

Consideriamo, ora, la peculiarità, o se si vuole, la specificità dei

diritti pubblici di libertà. "Dal punto di vista del diritto pubblico la libertà

individuale (..) non si presenta né nella sua limitazione per un effetto di un

dovere, né nel suo rapporto con una facoltà; qui si tratta piuttosto della

possibilità astratta di intraprendere certe categorie di azioni, la quale, in

forza dello status negativo, non ha importanza giuridica di fronte allo

Stato. Nella stessa maniera in cui al diritto reale corrisponde il dovere

puramente negativo da parte delle persone, che eventualmente si trovino

in rapporto con colui che ne è investito, di non recargli molestia, così allo

status negativo corrisponde l'analogo dovere da parte di tutte le autorità le

quali vengano a trovarsi in rapporto con l'individuo. Esso è uno status

assoluto".

Questo passo ci permettere si sottolineare come per Jellinek i diritti

di libertà non solo non sono effetti riflessi ("la libertà nel diritto pubblico

non si presenta né nella sua limitazione per effetto di un dovere"), ma non

neppure diritti soggettivi privati ("..né nel suo rapporto con una facoltà").

Lo stesso passo ci permette anche un'altra osservazione: per Gerber

i diritti soggettivi privati e i diritti soggettivi pubblici costituivano due

entità concettuali completamente distinte; per Jellinek la distinzione, pur

ponendosi,632

non è più così netta. Gli uni e gli altri derivano unicamente

da una norma di diritto obbiettivo, il che è a dire dallo Stato: alla base di

ogni diritto soggettivo, attenga esso al diritto privato ovvero al diritto

pubblico, vi è sempre una potestà (consistente, come si ricorderà, nella

capacità di richiedere efficacemente tutela giuridica), la quale deriva da

una qualificazione della personalità.

Il limite della costruzione di Jellinek è insito nell’impostazione

concettuale del rapporto cittadino – Stato. Partendo dalla premessa che

631 A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi cit., p.6: "in altre parole, l'actio,

che, secondo la comune dottrina processualistica, è qualcosa di strumentale rispetto a una

posizione giuridica sostanziale, è da Jellinek identificata con la posizione stessa per la cui

tutela giurisdizionale è prevista. (..) il principio per cui l'azione nasce in quanto si ha un

diritto viene rovesciato nel suo opposto".

632 Abbiamo visto, infatti, come il giurista di Heidelberg distingua i diritti

soggettivi privati e i diritti soggettivi pubblici sia sotto il profilo formale sia sotto il profilo

materiale.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

395

l’unica e suprema volontà, nel campo del diritto pubblico, è quella statale,

e che il singolo è titolare di diritti, solo in quanto a lui concessi da questa,

il potere “di mettere in movimento norme giuridiche nell’interesse

individuale”, cioè il diritto pubblico subbiettivo (söR), è considerato

meramente eventuale, dato che spetta allo Stato decidere se conferirlo al

singolo o meno.633

Fondatore della teoria classica del söR è Othmar Bühler, che,

nell’opera Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der

deutschen Verwaltungsrechtssprechung,634

formula la prima definizione di

söR, rimasta a lungo indiscussa: “Subjektives öffentliches Recht ist

diejenige rechtliche Stellung des Untertanen zum Staat, in der er auf

Grund eines Rechtsgeschäft oder eines zwingenden, zum Schutz seiner

Individualinteressen erlassenen Rechtssatzes , auf den er sich der

Verwaltung gegenüber soll berufen können, vom Staat etwas verlangen

kann oder ihm gegenüber etwas tun darf ”.635

Il söR, dunque, designa il potere giuridico, attribuito al singolo da

norme di diritto pubblico, di perseguire i propri interessi, con l’aiuto

dell’ordinamento. La definizione di söR, fornita da Bühler, tuttavia, non

delinea soltanto il concetto dell’istituto, bensì individua anche i tre

presupposti necessari per la sua esistenza:636

1) “Zwingender Rechtssatz”: Una norma giuridica coercitiva di

diritto pubblico (o un negozio), che obblighi l’Amministrazione ad un

determinato fare, permettere, non fare; norma ,dunque, che escluda la

libera determinazione della Pubblica Amministrazione.

633 Con l’entrata in vigore della Costituzione tedesca, l’art. 19, IV comma,

attribuisce, in via generale, il potere di rivolgersi ad un giudice, in caso di lesione di un

söR. Il problema, attualmente, si è spostato sullo stabilire quali siano le norme di diritto

pubblico, che attribuiscono un söR al cittadino.

634 Cfr. O. BÜHLER, Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der

deutschen Verwaltungsrechtssprechung, Berlin - Stuttgart - Leipzig 1914.

635 Op. ult. cit., p. 7; propongo la seguente traduzione: “Il diritto soggettivo

pubblico è quella posizione giuridica del suddito nei confronti dello Stato, per cui il

suddito stesso, sulla base di un negozio giuridico o di una norma obbligatoria, emanata per

la protezione di un suo interesse individuale, ai quali egli nei confronti della pubblica

amministrazione, deve potersi richiamare, può pretendere qualcosa dallo Stato o può

permettersi di far qualcosa di fronte ad esso”.

636 H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin, 1998, p. 244;

P.M. HUBER, Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., Heidelberg, 1997, p. 111.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

396

2) “Schutznorm”: Lo scopo di questa norma deve consistere anche

nel soddisfacimento dell’interesse individuale, non solo, dunque, nella

realizzazione di quello pubblico.

3) “Verliehene Rechtsmacht”: La norma deve attribuire

all’interessato anche il potere di agire, in caso di violazione della stessa.

Il primo presupposto, (Zwingender Rechtssatz), sottolinea, con

chiarezza, la dipendenza del söR dal diritto oggettivo (rectius,

ordinamento giuridico). Ricollegandosi ai suoi predecessori, Bühler

riafferma il principio, per cui un söR sussiste in capo al singolo solo in

quanto attribuitogli dallo Stato, e non certo in quanto posizione

simmetrica ad un obbligo, previsto per la P. A., da una norma

pubblicistica.

Nel primo requisito, inoltre, si esclude che un söR possa essere

contenuto in una norma, che preveda per la P. A. un comportamento di

tipo discrezionale: il singolo, in questo caso, non può pretendere che la P.

A. eserciti tale discrezionalità.637

Il secondo presupposto (Schutznorm) rappresenta il tratto distintivo

dell’istituto, dal quale si è sviluppata l’ancora attuale “teoria della norma

di protezione” (die Schutznormtheorie).638

Affinché possa parlarsi di söR,

l’obbligo per la P. A., contenuto nella norma di diritto pubblico, deve

essere previsto dal legislatore, non solo in vista del perseguimento

dell’interesse della collettività, bensì anche al fine di tutelare la persona

del privato. In questo modo s’intende rivalutare la figura del singolo, che

non più mero Objekt del potere statale, assurge al ruolo di Rechtssubjekt,

titolare d’interessi considerati meritevoli di tutela da parte

dell’ordinamento giuridico; in questa prospettiva, ad una prima analisi,

non sembra che lo Stato escluda l’autonomia del soggetto, bensì sembra

637 In realtà, alla base di ogni forma di discrezionalità, c’è anche il dovere per la P.

A. di esercitarla; inoltre non può trattarsi di un esercizio arbitrario. Il fatto, quindi, che il

potere discrezionale non venga esercitato da una P. A., quando la legge lo preveda, o sia

male esercitato, può giustificare la pretesa, da parte del cittadino, che la legalità sia

rispettata. Tutto questo è stato recepito dall’attuale dottrina tedesca, facendo risultare

superfluo il primo presupposto, contenuto nella definizione di Bühler. Si confronti, in

particolare, H. MAURER, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed., München, 1997, pp. 158-

159; nonché A.M. SANDULLI, Diritto amministrativo, cit., vol. 1, pp. 592-597.

638 Cfr. il classico U. BATTIS, Allgemeines Verwaltungsrecht, Heidelberg 1985, p.

74; altresì l’autorevole ed assai diffuso, H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X

ed., München, 1994, p. 564.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

397

che la indirizzi verso la costituzione di se stesso, accogliendo in sé

l’individualità e personalità dei sudditi.

In realtà, anche per Bühler, continua ad essere valida la distinzione

fondamentale tra diritto privato e pubblico, operata dai suoi predecessori:

Nell’ambito del diritto privato, gli interessi individuali sono sullo stesso

piano, ed ognuno può liberamente perseguire i propri; nell’ambito del

diritto pubblico, invece, l’interesse pubblico prevale su quello dei privati,

e, affinché il singolo possa “mettere in movimento norme giuridiche

nell’interesse individuale”, è indispensabile che il legislatore riconosca,

come degno di tutela, tale suo interesse. L’esercizio di un söR da parte del

singolo non è, dunque, libero, bensì vincolato alla circostanza che possa

giovare anche alla collettività. Non più in netta evidenza, ma comunque

sempre presente, rimane la concezione pseudo-hegeliana di

compenetrazione tra cittadino e Stato.

L’ultimo presupposto della definizione di Bühler, (Verliehene

Rechtsmacht), consiste nell’espresso conferimento al singolo, (contenuto

nella norma pubblicistica), del potere giuridico, (legittimazione

all’azione), di adire un giudice, in caso di lesione da parte della P.A. del

söR, avvenuta in violazione della norma medesima. Questo elemento, già

riconosciuto da Jellinek, rappresenta un tratto distintivo della costruzione

di Bühler, rispetto a quella gerberiana, che escludeva l’azionabilità di

norme pubblicistiche, in favore dei singoli. Il requisito della Verliehene

Rechtsmacht risulta, dunque, indispensabile al fine di distinguere i söRe

dai Rechtsreflexe di matrice gerberiana.

Per quanto si possa affermare, infine, che anche i diritti

fondamentali (Grundrechte) dell’individuo mirino alla tutela di interessi

individuali, e quindi siano anch’essi söRe, secondo Bühler possono essere

norme di protezione (Schutznormen), in senso stretto, soltanto le

disposizioni di legge, che disciplinano il comportamento della P.A. I

Grundrechte sono considerati, piuttosto, quali principi direttivi, che il

legislatore deve osservare nella produzione di norme giuridiche.639

La

struttura del söR, enunciata nella definizione di Bühler, riprende, infatti,

quella della pretesa (Anspruch) di tipo privatistico, che si evince dal § 194

639 Cfr. O. BÜHLER, Die subjektiven öffentlichen Rechte und ihr Schutz in der

deutschen Verwaltungsrechtssprechung, cit., p. 155. Questa concezione continua a

prevalere anche nell’attuale dottrina. Cfr. A. BLEKMANN, Die Klagebefugnis im

verwaltungsgerichtlichen Anfechtungsverfahren, in “Verwaltungsblätter für Baden -

Württemberg ”, 1985, pp. 361-365.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

398

del BGB,640

e non si adatta a quella dei Grundrechte; di conseguenza, la

volontà del legislatore continua a rivestire un ruolo decisivo

nell’attribuzione di söRe ai singoli.

Al tempo in cui Bühler scriveva, la distinzione tra söRe e

Rechtsreflexe trovava, in realtà, la sua giustificazione nella mancanza di

una norma di carattere generale che consentisse al cittadino di far valere i

propri diritti verso lo Stato, attribuendogli la legittimazione ad agire

(Klagebefugnis), in tutti i casi in cui avesse subito una lesione illegittima

da parte della P.A.. Con l’entrata in vigore della Legge Costituzionale

tedesca (Grundgesetz) nel 1945, invece, venne introdotta la clausola

generale della Rechtsweggarantie, contenuta nell’Art. 19, IV comma.

Questa norma riconosce al singolo la legittimazione ad agire dinanzi ad un

giudice, in caso di qualsiasi lesione antigiuridica dei propri diritti, operata

dallo Stato.641

Fu Otto Bachof, dunque, negli anni Cinquanta, a sottolineare

l’inutilità del terzo requisito della definizione di söR, fornita da Bühler,

dato che la Rechtsmacht veniva già attribuita al Bürger, in via generale,

dalla suddetta norma costituzionale.

Per Bachof, il söR consiste nella “einer Person verliehene

Willensmacht zur Befriedigung des Eigeninteresses oder eines ihr durch

die Rechtsordnung ausdrücklich zur Wahrnehmung im eigenen Namen

übertragenen Interesses”.642

Requisito essenziale per l’esistenza di un söR diventa, dunque, il

carattere di Schutznorm, che la disposizione di diritto pubblico deve

rivestire: La ratio di questa disposizione dovrà consistere sia nella tutela

dell’interesse pubblico, sia di quello privato. In seguito all’entrata in

640 Nel BGB (Bürgerliches Gesetzbuch, il Codice Civile tedesco), al § 194, I

comma, nel disciplinare la prescrizione, viene fornita una definizione di Anspruch: “Das

Recht, von einem anderen ein Tun oder ein Unterlassen zu verlangen (Anspruch),

unterliegt der Verjärung”. Che si può tradurre: “Il diritto di pretendere da un altro un fare

od un non fare (pretesa), è sottoposto a prescrizione”.

641 Cfr. H. MAURER, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed., München, 1997, p.

117; nonché H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X ed., München, 1994, p. 323.

642 O. BACHOF, Reflexwirkungen und subjektive Rechte im öffentlichen Recht, in

“Gedächtnisschrift für Walter Jellinek”, 1955, pp. 287-300. Propongo la seguente

traduzione: “Potestà di volere attribuita ad una persona per il soddisfacimento dei propri

interessi o di un interesse a lei trasferito espressamente dall’ordinamento giuridico,

affinché sia realizzato in nome proprio”.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

399

vigore della GG, inoltre, i Grundrechte acquistano un’efficacia superiore

rispetto alle altre fonti giuridiche: Il legislatore è tenuto a concedere söRe

ai cittadini non in modo arbitrario, bensì ottemperando ai principi

costituzionali, così come aveva già anticipato Bühler.

In realtà, di regola, spetta al legislatore l’attribuzione di söRe al

Bürger, ed i Grundrechte hanno solo il ruolo di direttiva; ultimamente,

però, in via eccezionale, è stato possibile un richiamo diretto ai

Grundrechte, in qualità di söRe, nei casi in cui il legislatore non abbia

garantito con legge interessi individuali, considerati degni di tutela

costituzionale.643

Tutto questo è significativo della sottesa concezione

autoritativa al rapporto Bürger - Staat, ancora oggi presente nel diritto

amministrativo della Repubblica federale di Germania.

Nel 1924 Otto Mayer affermava: “Verfassungsrecht vergeht,

Verwaltungsrecht besteht”,644

per quanto, infatti, il diritto amministrativo

dipenda dal diritto costituzionale, e ne sia la realizzazione sul piano

positivo, fornendo concrete soluzioni alle modificazioni della realtà

sociale accolte nella Costituzione, relativamente alla figura del söR,

invece, sembra trovare conferma quanto asseriva Mayer.

Il söR è un istituto fondamentale sia del diritto costituzionale, sia di

quello amministrativo, e, dunque, punto di connessione dei due distinti

ambiti giuridici; ad una prima riflessione, però, sembra che l’evoluzione

in senso democratico della visione del rapporto Bürger - Staat,

sviluppatasi sul piano costituzionale, non si sia verificata, invece, su

quello amministrativo, in particolare riguardo ai söRe.

Con l’entrata in vigore della GG, i Grundrechte, (diritti soggettivi

pubblici per eccellenza), sono stati riconosciuti come situazioni giuridiche

soggettive, proprie di ogni Bürger in quanto tale, inviolabili ed

inalienabili, e lo Staat è stato sottoposto alla GG stessa; dal punto di vista

del diritto amministrativo, invece, il Bürger viene ancora considerato in

posizione subordinata e di dipendenza rispetto allo Staat - Verwaltung,

come dimostra il fatto che la definizione attuale di söR, non si discosta

minimamente da quelle di Jellinek e Bühler, che , ricordiamo, si avvalsero

643 Cfr. la decisione del 16 giugno 1969 del Tribunale Amministrativo Federale

(Bundesverwaltungsgericht), che si può leggere nella sua interezza in

“Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 32, p. 173.

644 Cfr. O. MAYER, Deutsches Verwaltungsrecht, III ed. Leipzig 1924, vol. 1,

introduzione; che può essere reso: “Il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo

resta”.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

400

delle stesse premesse teoriche dei giuristi, che nel secolo scorso subirono

la suggestione dei Rechtshegelianer. L’unica differenza, infatti, tra le

definizioni dell’istituto, di ieri e di oggi, consiste nell’aver sostituito il

sostantivo Untertan con quello più moderno di Bürger.645

Ad una più attenta analisi, in realtà, è da notare che l’esigenza di

pervenire ad una modificazione concettuale del rapporto tra cittadino e

Stato, anche nell’ambito del diritto amministrativo, si è manifestata,

recentemente, proprio sul piano della pratica, portando, da un lato, il

legislatore ad aumentare in misura considerevole le fattispecie normative,

attributive di söRe, da un altro, la giurisprudenza a ideare istituti

d’interpretazione delle norme stesse, da ultimo la dottrina a formulare

proposte di nuovo inquadramento concettuale dell’istituto, al fine di

superare i limiti delle vecchie concezioni organicistico - autoritative.

Con l’introduzione della Rechtsweggarantie dell’Art. 19, IV

comma, GG e la sua traduzione sul piano del diritto positivo nel § 42, II

comma, VwGO,646

viene meno, dunque, il terzo requisito della definizione

classica di söR, assumendo rilievo, invece, il carattere di Schutznorm che

deve avere una disposizione di diritto pubblico, affinché possa essere

azionata dal singolo per la tutela di un proprio interesse, in virtù della

Klagbefugnis647

contenuta, appunto, nel § 42, II comma, VwGO.

645 Si confrontino le definizioni di Jellinek e Bühler, con quelle fornite dalla più

recente dottrina: “Das söR ist demnach – aus der Sicht des Bürgers – die dem Einzelnen

kraft öffentlichen Rechts verliehene Rechtsmacht, vom Staat zur Verfolgung eigener

Interessen ein bestimmtes Verhalten verlangen zu können.” Traduco così: “Il diritto

soggettivo pubblico è dunque - dal punto di vista del cittadino- il potere giuridico,

attribuito al singolo in forza del diritto pubblico, di poter pretendere dallo Stato un

comportamento determinato, al fine del perseguimento dei propri interessi”; H. MAURER,

All. Verw., cit., p. 149; così anche E. FORSTHOFF, Lehrbuch des Verwaltungsrecht

Allgemeiner Teil, X ed., München, 1973, vol. 1, p.186; R. SCHWEICKHARDT, Allgemeines

Verwaltungsrecht, VI ed., Stuttgart, 1991, p. 100; H.J. DRIEHAUS – R. PIETZNER,

Einfürung in das Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., München, 1992, p. 47; K. SUPLIE,

Allgemeines Verwaltungsrecht, Herford, 1992, p. 151; E. EYERMANN – L. FRÖHLER,

Verwaltungsordunungsgericht. Kommentar, II ed., München, 1998, p. 267.

646 Abbreviazione di Verwaltungsgerichtsordnung (Legge di giustizia

amministrativa) del 1.4.1960, novellata il 17.12.1990.

647 Per un’esposizione sui vari tipi di Klage previsti dall’ordinamento tedesco, a

tutela delle situazioni soggettive di carattere pubblicistico vedi N. ACHTERBERG, Die

Klagbefugnis-eine entbehrliche Sachurteilsvoraussetzung?, in “Deutsches

Verwaltungsblatt”, 1981, pp. 278-283.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

401

Una norma può essere “di protezione” solo quando tuteli, accanto

all’interesse pubblico, anche un interesse privato. Dato che, il più delle

volte, il legislatore non indica espressamente quale sia la ratio di una

disposizione normativa pubblicistica, spetterà all’interprete, in particolare

al giudice (Richter), stabilire se la norma alla quale l’attore (Kläger) si

richiama, (in seguito ad una lesione subita da parte di una P.A.), sia

indirizzata, o meno, anche alla tutela dell’interesse individuale di questi,

conferendogli, così, la titolarità di un söR.648

A partire dagli anni Cinquanta la figura del söR si è, dunque,

trasformata in un problema d’interpretazione (Auslegungsproblem).

L’oggetto dell’interpretazione è costituito dal carattere di Schutznorm, che

deve possedere la disposizione pubblicistica, potenzialmente attributiva di

un söR al Bürger; per questo motivo, l’insieme delle proposte elaborate649

da dottrina e giurisprudenza, al fine di individuare se sussista o meno tale

caratteristica, ha preso il nome di “Teoria della norma di protezione”

(Schutznormtheorie).

La dottrina non è, ancora oggi, unanime, riguardo a quale criterio, o

somma di criteri,650

ci si debba riferire, per individuare se sussista, o

meno, un söR, in capo ad un soggetto.

Tutto questo comporta che, nell’ambito di un processo, il Richter è

libero di richiamarsi all’uno o all’altro autore, assumendo, dunque, un

ruolo significativo, (e quasi prevalente, rispetto a quello del legislatore),

648 Si confronti U. BATTIS, Allgemeines Verwaltungsrecht, Heidelberg 1985, p. 74;

nonché H.J. WOLFF – O. BACHOF, Verwaltungsrecht I, X ed., München, 1994, p. 564; ed in

fine, H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin, 1998, p. 244.

649 Si veda H. BAUER, Geschichtliche Grundlagen der Lehre vom subjektiven

öffentlichen Recht, Berlin, 1986, p. 140-143; IDEM, Subjektive öffentliche Rechte des

Staates. Zugleich ein Beitrag zur Lehre vom subjektiven öffentlichen Recht, in “Deutsches

Verwaltungsblatt”, 1986, pp. 208-219, nonché IDEM, Altes und Neues zur

Schutznormtheorie, in “Archiv des öffentlichen Rechts”, vol. CXIII (1988), pp. 583-631.

650 Ci riferiamo al tradizionale canone interpretativo, noto anche alla dottrina

italiana, che si basa: 1) sul tenore letterale della norma (Wortlaut); 2) sul contesto in cui la

norma si trova (Systematik); 3) sul criterio storico (Entstehungsgeschichte) e 4) sulla ratio

(Schutzzweck). Si veda H.U. ERICHSEN, Allgemeines Verwaltungsrecht, XI ed, Berlin,

1998, p. 251; P.M. HUBER, Allgemeines Verwaltungsrecht, II ed., Heidelberg, 1997, p.

111-113. Relativamente alla letteratura italiana, si veda anche L. PALADIN, Le fonti del

diritto italiano, Bologna, 1996, pp. 97-119; M. BERTOLISSI - R. MENEGHELLI, Lezioni di

diritto pubblico generale, Torino, 1996, pp. 94-104; L. CARLASSARE, Conversazioni sulla

Costituzione, Padova, 1996, pp. 110-114.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

402

nello stabilire il grado di tutela, da conferire al singolo, nel caso

concreto.651

Il Kläger, si troverà, dunque, in uno stato di completa

incertezza, non potendo prevedere le sorti del processo.

La posizione del Richter, inoltre, sembra non essere conforme al

principio democratico della “separazione dei poteri”: Il giudice del caso

concreto, infatti, nel bilanciamento degli interessi in gioco, fa le veci del

legislatore, tutte le volte in cui quest’ultimo non fornisce indicazioni

precise sulla natura della ratio di una norma pubblicistica.

Questa problematica non investe solo quei soggetti di diritto, che

sono diretti destinatari (Adressaten) di un atto amministrativo

antigiuridico (Rechtswidrige Verwaltungsakt), bensì anche quei soggetti

terzi (Dritte), rispetto al rapporto giuridico destinatario- P.A., a cui l’atto

medesimo non è indirizzato. In tutti i casi, quindi, in cui il rapporto

giuridico, che intercorre tra Bürger e Staat, non sia di tipo bilaterale

(zweiseitige Verhältnis), cioè tra due soggetti, bensì trilaterale

(Dreieckverhältnis),652

o plurilaterale, in caso di più soggetti coinvolti, si è

cercato, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, di estendere la tutela

soggettiva giurisdizionale anche a questi soggetti terzi. Essi saranno

titolari di un söR, ogniqualvolta la norma violata dalla P.A. abbia ad

oggetto anche il perseguimento del loro interesse individuale, oltre a

quello pubblico, valendo, dunque, anche per loro la Schutznormtheorie.653

651 Alcuni autori, con preoccupazione giungono a descrivere il fenomeno come un

“Irrgarten des Richterrechts” (“giardino degli errori del diritto giudiziale”); vedi R.

BREUER, Baurechtlicher Nachbarschutz, in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1983, pp. 431-

440; così anche W. KREBS, Subjektiver Rechtsschutz und objektive Rechtskontrolle, in

“System des verwaltungsgerichtlichen Rechtsschützes, Festschrift für Christian - Friedrich

Menger zum 70. Geburtstag”, 1985, pp.191-210, specialmente p. 206; K. REDEKER, Das

baurechtliche Gebot der Rücksichtnahme(I), in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1984, pp.

870-874.

652 Si tratta, per esempio, del rapporto tra cittadino avvantaggiato da un

provvedimento amministrativo, Stato, e cittadino svantaggiato dallo stesso provvedimento

(begünstigter Bürger/Staat/belasteter Bürger). Confronta su questo punto M. BOTHE, Die

Entscheidungen zwischen öffentlich-rechtlich geschützten Positionen Privater durch

Verwaltung und Gerichte, in “Juristen Zeitung”, 1975, pp. 399-406; ma già G. FROMM,

Verwaltungsakte mit Doppelwirkung, in “Der Staat”, 1964, pp. 26-54.

653 Secondo il Bundesverwaltungsgericht “…bei der Anfechtung von

Verwaltungsakten mit Drittwirkung der belastete Dritte nur die Verletzung solcher

rechtliche Vorschriften geltend machen könne, die nicht nur dem allgemeinen öffentlichen

Interesse, sondern auch seinen besonderen Belägen zu dienen bestimmt seien”, in

“Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 53, pp. 30-63; propongo la seguente

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

403

Questa attenzione rivolta ai Dritte, del rapporto pubblicistico tra

Bürger e Verwaltung, testimonia l’esigenza di estendere la tutela

soggettiva dei cittadini, di fronte allo Stato, sempre ad un numero

maggiore di fattispecie, cercando, in questo modo, di aggirare il

monopolio che il Legislatore ancora oggi detiene sul potere di

“concedere” söRe ai singoli.

Ulteriore e significativo passo avanti, in questo senso, si è avuto, tra

gli anni Cinquanta e Sessanta, attraverso l’elaborazione della “Teoria del

Destinatario” (Adressatentheorie), da parte della dottrina, e in particolare,

della giurisprudenza del BverwG.654

La Adressatentheorie distingue tra i

casi in cui il Kläger sia, o meno, Adressat dell’atto amministrativo

illegittimo, che egli intenda fare annullare, in quanto antigiuridico e lesivo

di un suo interesse particolare (§ 42, II comma e § 113 VwGO). Si

sostiene, infatti, che il Kläger, in qualità di Adressat, sia titolare, in via di

principio, della pretesa che l’atto medesimo sia conforme alla legge

(Anspruch auf Rechtmäßigkeit), sulla base dell’Art. 2, I comma, GG:

“Jeder hat das Recht auf die freie Entfaltung seiner Persönlichkeit, soweit

er nicht die Rechte anderer verletzt und nicht gegen die

verfassungsmäßige Ordnung oder Sittengesetz verstößt”.655

La P.A., considerata soggetto di diritto e sottoposta anch’essa

all’ordinamento giuridico, in base all’Art. 2, I comma, GG, non può agire

in violazione della legge e ledendo gli interessi dei cittadini, perché ciò

sarebbe contrario ai principi costituzionali; il cittadino, dunque, che

traduzione: “…nel caso di annullamento di atti amministrativi con effetti verso il terzo

danneggiato, questi può far valere la lesione solo di quelle norme giuridiche, che intendono

giovare, non solo all’interesse pubblico generale, bensì anche i suoi particolari affari”. Per

quanto riguarda il parere contrario di applicare la Schutznormtheorie anche ai rapporti

trilaterali vedi A. BLANKENGEL, Klagefähige Rechtspositionen im Umweltrecht. Vom

subjektiven Recht eines Individuums zum Recht eines individualisierten Subjekt, in “Der

Staat”, 1990, pp.1-26.

654 Si veda la decisione in “Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 6, pp.

32-41 del 16.1.1957; nonché R. BERNHARDT, Zur Anfechtung von Verwaltungsakten durch

Dritte, in “Juristen Zeitung”, 1963, pp. 302-308; R. SCHMIDT, Der Rechtsschutz des

Konkurrenten im Verwaltungsprozess, in “Neue Juristische Wochenschrift”, 1967, pp.

1635-1639; M. ZULEEG, Hat das subjektive Öffentliche Recht noch eine

Daseinsberechtigung?, in “Deutsches Verwaltungsblatt”, 1976, pp. 509-515.

655 “Ognuno ha il diritto al libero sviluppo della propria personalità, fino al punto,

(però), di non ledere i diritti degli altri e di non andare contro l’Ordinamento costituzionale

o le consuetudini”.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

404

decida di convocare in giudizio una P.A., potrà pretendere l’annullamento

di un atto amministrativo antigiuridico, emesso nei suoi confronti e a suo

svantaggio, denunciandolo quale attacco (Eingriff) dello Stato -

Amministrazione alla sua sfera di libertà. L’Art. 2, I comma, GG, così

interpretato, sancisce in via generale il principio di libertà del Bürger, di

fronte a qualsiasi costrizione antigiuridica statale. Il BverwGE riconosce

in questo articolo costituzionale la garanzia “eines letzten unantastbaren

Bereiches menschlicher Freiheit, der der Einwirkung der gesamten

öffentlichen Gewalt entzogen ist”,656

richiamandosi direttamente a tale

articolo, il singolo può vantare il diritto fondamentale (grundrechtliche

Anspruch) di non subire un pregiudizio a causa del potere statale, che non

trovi giustificazione nella Costituzione.

In conclusione, il destinatario di un atto illegittimo, sulla base

dell’Art. 2, I comma, GG, è legittimato ad agire in giudizio, contro la P.A.

che l’ha emesso, indipendentemente dal fatto che l’illegittimità dell’atto

risieda nella violazione di una norma di diritto pubblico, che sia diretta

alla tutela di un suo interesse, o di quello di un altro soggetto, o della

collettività in generale: Per lo Adressat non vale più la

Schutznormtheorie.657

La Adressatentheorie, condivisa attualmente dall’opinione

dominante (herrschende Meinung), è di grande significato sul piano

teorico, perché rappresenta la risposta, maturata sul piano della pratica,

all’esigenza di abbandonare l’ormai inadeguata concezione della

compenetrazione tra cittadino e Stato, di suggestione pseudo hegeliana; la

figura del cittadino è innalzata dal ruolo passivo di Untertan a quello

attivo di Bürger, cioè soggetto di diritto, che riveste un ruolo di rilievo

nella società. Per quanto riguarda il rapporto cittadino - Stato, la

prospettiva nel considerare i due soggetti risulta completamente

modificata, rispetto a quella dei padri fondatori del diritto pubblico,

perché, ora, il primo viene considerato alla pari del secondo e, non

656 Propongo la seguente traduzione: La garanzia “di un ultimo inviolato ambito di

libertà umana, sottratto all’influenza del potere pubblico nel suo complesso”; l’originale si

può leggere in “Bundesverwaltungsgerichtsentscheidungen”, vol. 6, p. 41.

657 Confronta l’analisi critica di M. HOFFMANN, Der Abwehranspruch gegen

rechtswidrige hochzeitliche Realakte, Berlin, 1969, pp. 61-70.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

405

essendo più in questo sussunto, può controllarne l’agire da una posizione

distinta, pur sempre all’interno dell’ordinamento giuridico.658

L’indagine potrebbe proseguire ancora a lungo; tuttavia, per i nostri

scopi, è sufficiente mettere in evidenza come la stessa concezione

imperativistica del diritto (cioè quella concezione che professa l’essenza

del diritto nell’imperativo della volontà), nei sui tratti più raffinati, fondi

l’essenza del diritto soggettivo non sulla potestas del titolare sulla cosa,

ma sul riconoscimento altrui del proprio diritto sulla cosa, che si manifesta

nell’aspettativa di comportamenti, positivi o negativi, da parte degli altri

consociati o degli organi dello Stato, eccitabili, eventualmente, mediante

la pretesa. Si tratta, ci pare, di quel carattere noto come “alterità” del

diritto che, se può essere anche inteso come coesistenza degli arbitri, al

modo di Kant, non di meno veicola la fuoriuscita dalla prospettiva

dell’unicità ancora tematizzata da Windscheid.

Anche qualora si ammetta che oltre queste due figure, interesse e

diritto (dovere), vi sia il luogo della facoltà, intesa come agere licere

secondo le costruzioni dello spazio giuridicamente vuoto o della norma

generale esclusiva proposta da Zitelmann, non è men vero che tale spazio

e circoscritto ancora una volta da una norma dello Stato, ovvero ancora

una volta in forza di una manifestazione della sovranità.

Infatti, all’idea di monopolio del diritto da parte dello Stato, si lega

inscindibilmente il dogma della sua completezza: l’ordinamento giuridico

dello Stato è considerato completo o meglio deve ritenersi come se fosse

completo e il diritto statale idoneo a disciplinare ogni caso possibile.

Altrimenti, se si ammettesse l’esistenza di fonti extrastatuali, si

introdurrebbe la possibilità di un diritto concorrente,659

non più

658 Per König: “Insoweit wird also der Grundsatz der Gesetzmäßigkeit der

Verwaltung durch das Grundrecht, (l’Art. 2, I comma, GG), subjektiviert”; che così

traduco: “Perciò, dunque, il principio della conformità alla legge dell’Amministrazione

viene soggettivato attraverso il diritto fondamentale, (l’Art. 2, I comma, GG)”; S. KÖNIG,

Drittschtz. Der Rechtsschutz Drittbetroffener gegen Bau- und Anlagengenhmigungen im

öffentlichen Baurecht, Immissionschutsrecht und Atomrecht, Berlin, 1993, pp. 33-35; si

veda anche W. KREBS, Subjektiver Rechtsschutz und objektive Rechtskontrolle, in “System

des verwaltungsgerichtlichen Rechtsschützes, Festschrift für Christian - Friedrich Menger

zum 70. Geburtstag”, 1985, pp.191-210.

659 Ma ciò significherebbe, osserva Bobbio, “rompere il monopolio della

produzione giuridica statale. Ed è per questo che l’affermazione del dogma della

completezza va di pari passo con la monopolizzazione del diritto da parte dello Stato”. Cfr.

N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p.133.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

406

espressione della volontà del Sovrano,660

contravvenendo al principio

fondamentale del positivismo giuridico.

È noto che se si concepisce il diritto come atto di volontà sovrana,

esclusivamente statuale e, di conseguenza, l’ordinamento giuridico come

completo, si deve escludere l’esistenza stessa della lacuna, intesa quale

mancanza, nell’ordinamento giuridico positivo (l’unico cui si possa fare

riferimento), di una norma idonea a disciplinare un determinato caso

sottoposto all’interprete.

In realtà, si è riconosciuta l’impossibilità per qualsiasi legislatore di

prevedere e regolare tutti i casi che la multiforme esperienza si incarica di

procurare. In quest’ottica, sul piano operativo, laddove il giudice abbia per

legge il dovere di decidere,661

e l’obbligo di far ciò, applicando al caso una

norma dell’ordinamento (anche il giudice infatti è completamente

soggetto all’atto di volontà del Sovrano-legislatore), il dogma della

completezza può reggere, perché dinanzi alla lacuna che pur si apre,

contravvenendo a qualsiasi affermazione di principio (secondo Ascarelli,

è la realtà che, con un crescendo mozartiano, “bussa” alle porte del

diritto!), si può “fingere” che questa non sia una reale mancanza di norma,

che le lacune pertanto siano inesistenti, poiché dev’essere sempre

possibile risolvere il caso, ed applicando una norma dell’ordinamento

positivo.

Com’è noto, a tal fine, si ricorre all’analogia (analogia legis) e ai

principii generali del diritto (analogia iuris)662

alla ricerca di una volontà

660 Con la formazione degli Stati assoluti, il concetto stesso di diritto comune a

Stati diversi entra in crisi, mentre si irrobustisce l’idea del diritto come legge emanata dal

singolo Stato. Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p.

26. È interessante notare come, in parallelo con l’integrazione europea, da un lato, la

centralità del dato positivo sembri sospingersi verso un rinnovato jus commune, dall’altro,

al di là del diritto positivo, emerge una nuova lex mercatoria. Per quest’ultimo aspetto, cfr.

L. FRANZESE, Contratto negozio e lex mercatoria tra autonomia ed eteronomia, in “Riv.

dir. civ.”, 1997, parte I, p. 771 e ss.

661 Capostipite degli ordinamenti fondati sul dogma della completezza è quello

francese, in cui l’art. 4 del Code Napoléon dispone: “il giudice che ricuserà di giudicare,

sotto pretesto del silenzio, dell’oscurità, od insufficienza della legge, potrà essere

processato come colpevole di denegata giustizia”.

662 Il ricorso ai principi generali del diritto si pone, in quest’ottica, come assai

problematico, poiché la maggior parte di essi è inespressa; manca, insomma, per

definizione, una disposizione o espressione normativa dalla quale possa ricavarsi la norma

da applicare alla fattispecie concreta. Per un’individuazione di quali possano essere i

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

407

legislativa non espressa, ma, si dice, facilmente ricavabile dal sistema, una

volontà presunta, implicita. Può essa essere allora considerata veramente

atto di volontà?

Tutto ciò ci impone la distinzione tra volontà presupposta e volontà

presunta.

La prima delle due qualificazioni del termine volontà indica ciò che

si deve ammettere come precedente ad altro e come sua condizione, ciò

che è posto a fondamento ipotetico deduttivo di un ragionamento, di

un’argomentazione: trattasi della convenzione663

da cui procede il

ragionamento scientifico.

principi generali, si veda R. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, a cura di

A. SCIALOJA e G. BRANCA, Bologna-Roma, p. 282. Ci sono principi espressi

positivamente, per es. quello che dice che la capacità giuridica è regola nel nostro

ordinamento. Talvolta, e qui nascono le difficoltà predette, si elevano a principi taluni

concetti inespressi che in realtà trascendono il sistema legislativo (si veda il principio

dell’indebito arricchimento nella vigenza del codice del 1865), quasi si potrebbe dire per la

loro eccessiva evidenza nel quadro di una tradizione giuridica e di un tipo di civiltà. In altri

casi si tratta di concetti di pura logica come quando si cita il principio nemo plus iuris in

alium transferre potest quam ipse habet.

Sull’argomento, si veda N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p.

179-184, in particolare si sofferma sulla differenza tra principi generali espressi o non

espressi, dopo averne constatata la natura normativa.

Per il dibattito sull’analogia legis e iuris, si vedano: B. BRUGI, L’analogia di diritto

e il cosiddetto giudice legislatore, in “Dir. Comm.”, 1916, I, p. 262-75; G. DEL VECCHIO,

Sui principi generali del diritto, in “Archivio Giuridico”, LXXXV, 1921, p. 33-90, ora in

Studi sul diritto, vol. I, Milano 1958, p. 207-270; V. MICELI, I principi generali di diritto,

in “Riv. Dir. Civ.”, 1923, p. 23-42; V. RAGUSA, L’araba fenice, ovvero dei principi

generali del diritto, Roma, 1924; M. ROTONDI, Equità e principi generali del diritto, in

“Riv. dir. civ.”, 1924, p. 266-275; N. BOBBIO, L’analogia nella logica del diritto, Torino,

1938; E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in “Riv. dir. comm.”,

1940, I, p. 217-223; M. S. GIANNINI, L’analogia giuridica in “Jus”, 1941, p. 516-549,

1942, 35-75. Per il dibattito successivo, cfr. E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione,

2 voll., Milano (1955), ed. postuma 1990; N. BOBBIO, Analogia, in Novissimo Digesto

Italiano, Torino, 1957, p. 601; A.G. CONTE, Ricerche in tema di interpretazione analogica,

Pavia, 1957; L. CAIANI, Analogia. b) Teoria generale, in “Enc. dir.”, II, Milano, 1958, p.

348; N. BOBBIO, Principi generali di diritto, in “Novissimo Digesto Italiano”, XIII,

Torino, 1966, p. 887 ss.; F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in “Enc. Giur.

Treccani”, Roma, 1991, vol. XXIV. Cfr., altresì, supra note 165 e 166.

663 “Con il principio di convenzionalità perde valore il classico argomento di

Kirchmann contro la scientificità della giurisprudenza. Se è possibile, infatti, una scienza

rigorosa che parte da una proposizione qualsiasi scelta come premessa, è possibile allora

una scienza che assume come premessa le proposizioni del legislatore”. Cfr. A. BARATTA,

Il positivismo e il neopositivismo, in “Atti dell’XI Congresso nazionale della Società

Italiana di Filosofia giuridica e politica”, Milano, 1977, p. 52.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

408

La seconda qualificazione del termine volontà, che ci fornisce

l’aggettivo presunta, indica invece ciò che si ritiene esistere dai più in

base ad indizi più o meno validi. Appare, quindi, chiaro che la volontà

presunta non sia pensata come una convenzione, che è posta per un fine

operativo, ma come una realtà esistente, anche se provata indirettamente,

tramite appunto una presunzione. Ma in tal modo ci si pone al di fuori del

procedimento scientifico e, per non subire critiche radicali, si dovrebbe

dimostrare che l’esistenza di detta volontà è reale, come si è presunto. Ci

si è infatti serviti di una presunzione iuris tantum, cioè relativa, che si

espone alle critiche di chi, ponendosi in una prospettiva an-ipotetica,

possa arrivare a contraddire la presunzione, dimostrandone il contrario. È

chiaro dunque come quest’ultima non sia da sola sufficiente per la prova

dell’esistenza della volontà, perché all’attacco mosso da più parti sarà

necessario ricorrere ad una prova, non solamente indiretta, qual è la

presunzione, ma diretta del fatto ignoto, ovvero della volontà del

legislatore, che ci si era limitati solo a presumere, per giungere infine a

dimostrare che tale volontà esiste.

Alla volontà reale si ricorre qualora la norma espressa risulti essere

nel caso specifico oscura o poco chiara, pur nella certezza che l’intenzione

del legislatore abbia regolato effettivamente tale rapporto. La volontà

presunta corrisponde, invece, alla finzione di rappresentare la logica del

legislatore nell’eventualità che abbia omesso di regolare un fatto in via

esplicita. Una volontà implicita si riconosce attraverso l’analogia e i

principi generali dell’ordinamento, stabilendo così la norma che il

legislatore avrebbe imposto se avesse previsto il caso. Ci si è posti il

problema se la cosiddetta volontà presunta sia veramente tale, una volontà

esistente (ma allora, come si è detto, v’è bisogno di una prova ulteriore

per salvare la completezza del sistema da una possibile prova contraria),

oppure sia una volontà presupposta dagli esegeti del codice. Il rinvio a

strumenti quali l’analogia ed i principi generali di diritto non renderebbero

che vano il concetto di completezza,664

poiché solo formalmente si

Si ha l’abbandono, proprio da parte dei neopositivisti, del vecchio concetto della

apoditticità dei postulati, con cui si fa riferimento ad una dimostrazione fondata

sull’apodissi, che in Aristotele indica la dimostrazione logica di una conclusione sulla base

di premesse certamente vere. È ad una teoria apodittica che ci riferiremo, quando diremo

che la premessa volontaristica è presunta come vera. In questo caso vale la critica con cui

Kirchmann contesta il carattere scientifico della giurisprudenza. Cfr. op. ult. cit., p. 27-28.

664 Per altro verso, si può notare come proprio grazie a tali strumenti interpretativi,

sapientemente usati dall’interprete, l’ordinamento giuridico possa completarsi. Si veda in

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

409

qualificherebbe unicamente legale l’ordinamento, mentre in realtà

sostanziale sarebbe il potere del giudice quale unico arbitro di tali canoni

interpretativi.

Tuttavia, si è individuata un’altra strada, diversa appunto da quella

tradizionale, cui sopra si è fatto riferimento, attraverso la quale si arriva

ugualmente alla completezza dell’ordinamento giuridico positivo e alla

corrispondente665

negazione della reale consistenza delle lacune, sempre

però in una prospettiva volontaristica del diritto. Si è sostenuto che nel

sistema sia implicita una norma di chiusura, configurata come risalente

alla volontà del legislatore, il cui contenuto può variare dalla negazione

(Zitelmann), per i casi non previsti, dei limiti posti dalle norme espresse,

alla positiva (Donati) affermazione della liceità di tutti i comportamenti

non vietati e non obbligatori.666

Ma anche qui ci si pone la domanda di

come possa esserci una dichiarazione di volontà implicita.

Si deve vedere inoltre se questa seconda soluzione (quella cioè

della norma generale) sia diversa da quella tradizionale: in entrambi i casi,

infatti, si fa riferimento ad una “presunta” volontà del legislatore. Ed

proposito la tesi di T. ASCARELLI, Il problema delle lacune e l’art.3 disp. prel. nel diritto

privato (appunto critico), Modena, 1925. Per un profilo critico del pensiero di questo

autore, cfr. il brillante saggio di F. CASA, Tullio Ascarelli. Dell’interpretazione tra

idealismo e positivismo, Napoli, 1999.

665 Scrive Bobbio che “poiché la mancanza di una norma si chiama di solito

lacuna, completezza significa mancanza di lacune”. Cfr. N. BOBBIO, Teoria

dell’ordinamento giuridico, cit., p. 125.

666 Per questi aspetti, cfr. la teoria della norma generale esclusiva in E. ZITELMANN,

Lücken im Recht, Leipzig, 1903, p. 17 e ss., la cui tesi sarà ripresa in Italia con originali

varianti da D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910.

Cfr. altresì, K. BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie, Leipzig, 1892, le cui tesi

saranno riprese in Italia da S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Pisa, 1917-18, p. I, p.

190, nonché IDEM, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena,

1925, ora in Scritti minori, I, Milano, 1950, p. 371 e ss; ma si veda anche A. SOLMI, Sulle

lacune dell’ordinamento giuridico, in “Riv. dir. comm.”, 1910, p. 492; A. ASQUINI, La

natura dei fatti come fonte del diritto, Modena, 1921, p. 10. Per le critiche a tali

concezioni, cfr. A. LEVI, Contributi ad una teoria filosofica dell’ordine giuridico, Genova,

1914, p. 383; F. FERRARA, Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 225, nota 1;

G. BRUNETTI, Il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924, p.27;

M. ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, p. 34; E. BETTI, Metodica e

didattica secondo E. Zitelmann, in “Riv. Int. Fil. Dir.”, 1925, p. 49 ss.; Id., Teoria generale

dell’interpretazione (1955), II ed., Milano, 1990, p. 839, nota n. 2. Cfr., altresì, A.

FRANCO, Problema della coerenza e della completezza dell’ordinamento, Torino, 1988.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

410

allora, la volontà è presunta o presupposta? Se presupposta si tratta di

convenzione e bene quidem; se presunta, si riesce veramente a superare

ogni prova contraria e a salvare la prospettiva volontaristica del diritto

nella misura in cui si dia dimostrazione non indiretta di siffatta volontà del

legislatore.

Comunque, si può osservare, il riferimento ad una volontà implicita

appare, nella concezione del diritto come volontà del legislatore, quasi una

necessità. Modugno,667

a questo proposito, obbietta giustamente che

l’ordinamento giuridico non può essere considerato necessariamente

completo solo perché lo dev’essere. Non si può, secondo quest’autore,

scambiare la realtà esistente con l’obbiettivo da realizzare, non si può

confondere il Sein con il Sollen, anche se quest’ultimo rappresenta lo

stimolo, la molla per la realizzazione, se mai questa sia possibile, del Sein,

senza per questo aderire in toto alla legge di Hume.

Il secondo modo per negare l’esistenza delle lacune, cui sopra si è

accennato, è venuto sostenendosi in Italia da alcuni autori, in primis da

Donato Donati,668

proprio nell’Università di Padova soprattutto, per

reazione a quelle medesime correnti antipositivistiche, avverso le quali

anche Adolfo Ravà ha lanciato in suoi strali.669

Oscar Bülow, nel volume “Legge ed ufficio del giudice”, sostiene

che la legge non produce diritto bensì lo prepara.670

La sentenza del

667 Cfr. F. MODUGNO, Appunti per una teoria generale del diritto, Torino, 1988, p.

207 ss.

668 Cfr. D. DONATI, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, cit. Nello

stesso senso, P. L. PEDRALI-NOY, I vuoti del diritto, Bologna, 1911.

669 Ci riferiamo con questa dizione ad una vasta ed eterogenea corrente di pensiero

giuridico, risalente alla fine del secolo scorso, sviluppatasi in Europa, e non solo in

Europa. Essa si presenta come una rivolta contro il formalismo, una reazione contro il

feticismo legislativo e contro il dogma della completezza. Meglio sarebbe parlare non di

corrente al singolare, ma di una serie di correnti antipositivistiche che vanno dalla

giurisprudenza sociologica di Ehrlich alla Scuola del diritto libero di Kantorowicz,

dall’école scientifique du droit di Gény, alla giurisprudenza degli interessi di Heck. Cfr. N.

BOBBIO, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano cit., p. 419 e segg.

670 “La legge non è in grado di produrre immediatamente diritto; essa è «soltanto

una preparazione, un tentativo per la realizzazione di un ordinamento giuridico». Ogni

controversia giuridica «pone in essere un problema giuridico peculiare, per il quale la

legge non fornisce ancora in maniera esauriente la soluzione appropriata, che... neanche è

possibile dedurre con l’assoluta sicurezza di una conclusione logicamente vincolante dalle

disposizioni legislative»”. È certo che in von Bülow non troviamo un mero soggettivismo

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

411

giudice ne è la reale espressione, tanto che la vantata equipollenza tra

legge e diritto scompare, rilevando altresì la fallibilità dell’ordinamento in

parallelo ad un’inevitabile, quanto necessaria funzione creatrice del

giudice in sede interpretativa della norma.671

Parimenti, com’è noto, si sviluppa in Francia, in netta

contrapposizione alla scuola dell’Esegesi, la Scuola Scientifica il cui

nome sottolinea lo scarto teorico dalla tradizione precedente. Gény,

caposcuola della nuova tendenza, elabora per primo, nel 1899, in

“Méthode et sources en droit privé positif”,672

il concetto di libera ricerca

del diritto, preludendo alla stessa nascita del movimento del diritto

libero.673

Indicativo, ai nostri fini, richiamare come due anni prima della

pubblicazione del saggio di Adolfo Ravà su Il diritto come norma tecnica,

del 1911, Degni osservasse che nella teoria di Gény, si muove dal

principio che il diritto debba soddisfare, innanzitutto, alle necessità della

vita sociale (ecco la connessione tra diritto e realtà, che vedremo sostenuta

da Ascarelli). Affermato questo principio, se ne devono ammettere tutte le

conseguenze (non come farebbe invece Gény), e la volontà del legislatore,

per quanto chiara nel regolamento di taluni rapporti ed istituti giuridici,

non può essere mantenuta, quando si rivela inadeguata alle esigenze del

loro ordinamento. Affermare che la legge debba essere interpretata, come

ogni altro atto della volontà umana, sempre nello stesso senso, cioè quello

che ad essa ha attribuito il suo autore, senza tener conto delle circostanze

nella ricerca della norma da parte del giudice, come invece in Kantorowicz: “ogni sentenza

giudiziaria è una prestazione creatrice, guidata dalla conoscenza”. Cfr. K. LARENZ, Storia

del metodo della scienza giuridica, trad. it., Milano, 1966, p. 82-83.

671 Cfr. O. BÜLOW, Gesetz und Richteramt, Leipzig, 1885, p. 28 e segg. Addirittura

von Bülow afferma che anche là dove esiste una norma, essa dà solo una direttiva generica

per l’effettivo regolamento della controversia.

672 Nella sua opera, Gény “contrapponeva alla pedissequa esegesi dei testi

legislativi la libre recherche scientifique, attraverso la quale il giurista avrebbe dovuto

ricavare la regola giuridica direttamente dal diritto vivente nei rapporti sociali. «Il diritto è

cosa troppo complessa e mobile -scriveva Gény- perché un individuo o un’assemblea ,

ancorché investiti di autorità sovrana, possano pretendere di fissarne d’un sol colpo i

precetti in modo da soddisfare a tutte le esigenze della vita giuridica»”. Cfr. N. BOBBIO,

Teoria dell’ordinamento cit., p. 140.

673 Larenz ci informa che “l’espressione «dottrina del diritto libero» risale ad una

conferenza di Eugen Ehrlich dell’anno 1903”. Cfr. K. LARENZ, Storia del metodo della

scienza giuridica cit., p. 83.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

412

posteriori che ne hanno potuto modificare la portata e gli scopi, significa

disconoscere la fecondità del principio, che si pone a base del sistema,

significa negare l’evoluzione del diritto nell’ordinamento di quei rapporti

su cui si è fermata la volontà del legislatore.674

Si tratta, dunque, della critica che Degni muove a Gény, ove, da un

lato lascia nel dominio della legge ciò che deriva da essa, rispettando,

perciò, l’intenzione del legislatore (diritto come volontà), dall’altro,

rigettando la finzione che la legge debba in sé contenere la disciplina di

tutti i rapporti, e combattendo l’abuso delle astrazioni logiche, riconosce,

accanto alla legge, altre fonti parallele di diritto che, nascendo

spontaneamente dalla natura delle cose, debbano regolare, per sé stesse,

tutte le nuove manifestazioni della vita sociale.

Si è visto, quindi, come Gény certo consideri la legge atto di

volontà del legislatore, per lo meno laddove essa dispone precisamente.

Eppure quest’autore accetta anche il principio che il diritto debba

soddisfare alle necessità della vita sociale. Si è posta in luce, quindi, la

stridente contraddizione che deriva nella sua teoria dall’accettazione di

quel principio e contemporaneamente dell’assoluto rispetto, laddove

espressa, della volontà del legislatore.

E da osservare comunque che, ove non provveda il legislatore,

sovviene la volontà dell’interprete, ma si tratta di interprete legittimato, il

giudice, e pertanto la sua volontà è legge solo perché “autorizzata”: non si

esce, dunque, con la critica di Gény al legalismo e formalismo, dalla

concezione positivistica.

Per non cadere in contraddizione, nota Degni, bisognerebbe

ritenere, come non stentano a fare altri all’interno della corrente, che

l’intenzione di chi ha formato la legge non può essere che un elemento

dell’interpretazione di questa, la quale, non derivando dalla volontà di un

individuo o di un gruppo, ma essendo l’espressione del diritto, che il

legislatore riconosce e non crea, si separa dalla volontà di chi l’ha

emanata (il quale non è colui che l’ha creata), per vivere di una vita

propria. E così la sua applicazione, piuttosto che essere dominata in modo

inflessibile da quella volontà, dev’essere sempre corrispondente a tutte le

condizioni della vita sociale che agiscono e reagiscono sulla vita del

diritto, non può cristallizzarsi nelle formule legislative, ma deve elaborarsi

nella dinamica del diritto. Questo principio è così forte che finisce per

imporsi allo stesso Gény, il quale non può non riconoscere che, in qualche

674 Cfr. F. DEGNI, L’interpretazione della legge, Napoli, 1909, p. 207.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

413

caso, l’interpretazione della legge debba variare col tempo della sua

applicazione, quando, cioè: “i rapporti sociali, le circostanze economiche

che hanno determinato la legge, che ne sono state, anzi, le condizioni,

siano venute a mancare o a trasformarsi.... giacché trovandosi la

prescrizione iniziale della legge, condizionata da certi elementi essenziali,

si può dire che questi elementi stessi ne limitano necessariamente l’effetto

nel senso che, la regola, tale, qual è stata voluta e formulata, resti

inapplicabile a uno stato di cose, assolutamente differente da quello che il

legislatore aveva in vista.”675

Evidentemente, Gény, per rimanere coerente

al principio informatore del suo metodo, è stato condotto a questa

affermazione, la quale, in verità, pare, come giustamente ha osservato il

Degni, inconciliabile coll’altro principio, secondo cui l’intenzione del

legislatore dovrebbe sempre essere rispettata. Per meglio riassumere la

posizione di quest’autore, si ricordi che egli si pone dallo stesso punto di

vista del metodo giuridico tradizionale, ma se ne allontana

sostanzialmente in ciò, che, mentre quello, coi mezzi che gli forniscono la

logica interna e gli elementi esteriori, che hanno influito sulla formazione

delle leggi, ed avvalendosi del sistema delle costruzioni giuridiche, mira a

ricercare la volontà del legislatore, anche nell’ordinamento di quei

rapporti che, in realtà, eccedono tale volontà, questo Autore, invece, si

ferma alla volontà concreta e reale che la legge racchiude. L’interprete,

insomma, deve inchinarsi ad essa, ma, quando si tratta di rapporti che

effettivamente il legislatore non ha contemplati, s’impone la necessità di

riconoscere nell’interprete un’attività più larga che, indipendentemente

dalla legge, che, a questo riguardo, non esiste, gli permetta di

determinarne l’ordinamento giuridico, di ricercare qual è il nuovo diritto e

dichiararlo. Accanto alla legge scritta, e in sostituzione di essa, perciò,

egli ammette altre fonti di diritto positivo.

Si ricordi la posizione di Gény, che se riconosce la necessità che il

diritto debba soddisfare alle esigenze della vita sociale, d’altro canto vuole

il rispetto assoluto della volontà della legge che definisce una volontà che

emana da un uomo o da un gruppo di uomini condensata in una

formula.676

675 Cfr. F. GÉNY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris,

1900, p. 238-239, n. 99.

676 Cfr. F. GÉNY, Méthode d’interprétation en droit privé positif cit., p. 230, n. 98.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

414

Nel mondo germanico, ed è il centro nodale di questo sviluppo

critico, si articola un insieme di opinioni tutte dirette al superamento del

formalismo giuridico.

Ehrlich, considerato il padre della sociologia giuridica,677

afferma

infatti che “si rileva essere falso quanto dai più si crede: che istituti sociali

come il matrimonio, la famiglia, la corporazione, il possesso, i contratti, la

successione, siano stati introdotti se non mediante norme giuridiche. Con

le leggi non si creano che istituti statali”.678

Questo “perché la società è

più antica delle norme giuridiche”.679

677 “Nell’ambito più vasto della sociologia, si formò una corrente di sociologia

giuridica, di cui Ehrlich è uno dei rappresentanti più autorevoli: il programma della

sociologia giuridica fu all’inizio principalmente quello di mostrare che il diritto era un

fenomeno sociale, e che pertanto la pretesa dei giuristi ortodossi di fare del diritto un

prodotto dello Stato era infondata, e conduceva a varie assurdità, come quella di credere

alla completezza del diritto codificato. I rapporti tra scuola del diritto libero e sociologia

giuridica sono molto stretti […]. Se il diritto era un prodotto della società e non soltanto

dello Stato, il giudice e il giurista dallo studio della società […] dovevano ricavare le

regole giuridiche adeguate ai nuovi bisogni, e non dalle regole morte e cristallizzate dei

codici. Il diritto libero, in altre parole, traeva le conseguenze non solo dalla lezione dei fatti

(constatazione dell’inadeguatezza del diritto statuale), ma anche dalla nuova

consapevolezza, che lo sviluppo delle scienze sociali andava diffondendo, dell’importanza

delle forze sociali latenti nell’interno della struttura, solo apparentemente granitica, dello

Stato”. Cfr. N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p. 139. Il tutto contribuì a

combattere il monopolio giuridico dello Stato, e, con questo, il dogma della completezza.

678 Cfr. E. EHRLICH, La sociologia del diritto, in “RIFD”, 1922, p. 104. Il

riferimento ad un prius giuridico, anteriore al momento di diritto positivo professato

dall’autore non deve trarre in inganno. Pur negando efficacia costitutiva al momento

positivo, il limite dell’indagine sociologica si manifesta nella professata acritica

descrizione della realtà, con ricerca delle sue cause, secondo i canoni del metodo

scientifico: ammesso che sia possibile la valutazione della realtà sociale da un asettico

punto di vista, che garantisca l’osservatore della nitidezza dell’immagine, come

dell’asetticità della visione.

679 Cfr. E. EHRLICH, La sociologia del diritto cit., p. 98. L’autore, peraltro, non

indaga il rapporto tra società e norme giuridiche, che –secondo le premesse poste-

dovrebbe prospettarsi come realtà e buona immagine. La buona norma, allora, è come la

buona immagine della comunità, rappresentando l’orientamento della stessa al bene,

creando così un parallelo tra l’eikòn di cui abbiamo ampiamente parlato ed il ruolo della

prescrizione giuridica come strumento della comunità per il perseguimento dei propri fini.

Nella prospettiva sociologica, invece, la produzione normativa è vista come momento di

un più ampio processo deterministico tra premessa e conseguenza.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

415

Egli avoca quindi alla società la fonte stessa della necessità della

regolamentazione giuridica, la quale non deve così essere limitata a quella

statale ma eterointegrata per porre fine all’equazione diritto/legge dello

Stato. È interessante notare come Ehrlich mantenga, nonostante il

riconoscimento della naturale creazione da parte della società delle

proprie regole, una struttura moderna dello Stato, non scevra da influssi

idealistici, poiché sembra ammettere l’esistenza di due sistemi paralleli: lo

Stato e la Società, seppure non compie il passaggio successivo:

considerare lo Stato una comunità sociale. Ciò comporta che mai potrà

essere reputata valida, se pure in sostanza efficace nel tessuto sociale, una

fonte che non promani dallo Stato stesso.

Si potrebbe enucleare un ulteriore concetto di lacuna, facendo

riferimento al caso in cui la norma di legge esista, preveda una data

fattispecie, ma tale norma sia incompiuta in qualche suo elemento. Il

termine lacuna avrebbe qui un significato diverso, perché non

indicherebbe la mancanza di una norma di legge, reale o apparente che

sia, ma, pur nell’esistenza della norma, una sua incapacità di regolare

interamente la fattispecie concreta; quindi lacuna laddove pur ci sia una

regolamentazione.680

Si tratta, si potrebbe affermare, di lacuna per incompiutezza della

volontà legislativa che pur regola il caso: siamo sempre allora nell’ambito

di una teoria volontaristica del diritto, più precisamente nell’ottica

positivistica, con la conseguente accettazione di entrambi i dogmi cui

nella stessa si fa riferimento. Si ritiene, per questo, non solo che la lacuna

possa essere colmabile, ma che, in effetti, non sia nemmeno una vera

lacuna, in quanto esiste sempre, basta trovarla, una presunta e implicita

volontà legislativa, che completa quella esistente.

Si può ritenere, altrimenti, che la lacuna parziale sia “reale”, cioè la

sua esistenza non sia percepita come problematica, e, quindi, essa risulti

colmabile con l’intervento dell’interprete, che collabora col legislatore,

nel riconoscimento di ciò che è. In questa prospettiva non si ha bisogno

della finzione per coprire quello che in verità fa l’interprete, il quale

680 Tale caso è prospettato da Zitelmann, inferendo così la suggestione

dell’incapacità del legislatore, che pone norme incapaci di regolare l’intera fattispecie;

considerazione più pericolosa –in ambito positivista- dell’affermazione della presenza di

lacune: passi un legislatore che non fa le norme, ma non può passare un legislatore che

legifera male. Sul punto contra Donati. Cfr. supra.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

416

riconosce una norma già esistente, perché “è” nella realtà, senza necessità

di una volontà legislativa, che la ponga.

In definitiva, quindi, ci sono due significati di lacuna, lacuna

assoluta e lacuna parziale; entrambe, a seconda della concezione che si

accoglie, possono rivelarsi apparenti o reali e si hanno così diversi modi di

procedere.

Considerando, poi, l’astrattezza della norma giuridica, suo carattere

peculiare e necessario, si può giungere a porsi il problema se sempre la

norma sia incapace, senza una qualche mediazione demiurgica, di

raggiungere la concretezza della fattispecie.681

Ogni norma di legge si

pone allora come lacunosa, proprio per la sua astrattezza.

Si può quindi concludere che, in questa prospettiva, anche la lacuna

del diritto è un atto di sovranità, che lo stesso agere licere è un atto di

volontà sovrana che si astiene dal regolare la fattispecie e lascia al jeau

delle volontà la soluzione del caso. Non v’è dubbio, dunque, che

pressoché tutte le figure di situazione giuridica soggettiva siano state

modellate sull’unicità, le si voglia intendere come spazio giuridicamente

vuoto (lacune), luogo dell’individualità, oppure ambito di estrinsecazione

della personalità – volontà (diritti – potestà) oppure luogo della

soggezione alla volontà altrui (doveri – obblighi).

Peraltro, come si ha avuto modo di evidenziare fin dall’inizio, per

quanto nel corso della storia del pensiero la sovranità abbia con continuità

inesausta tentato di appropriarsi della rappresentanza, ammantandosene in

un processo mimetico teso a dissimulare l’esercizio del potere,682

non di

meno, così come il dualismo rappresentativo non può essere costretto

nelle maglie dell’unicità sovrana, altrettanto – ci pare- la rappresentanza

681 In effetti, osserva Caiani, “l’interprete deve muovere da un oggetto certo ma

astratto, che discende dal carattere stesso di tipicità della norma, per riaverne alla fine

qualcosa di meno certo indubbiamente, ma assai più concreto, e come tale molto più

efficiente per il compito che egli deve svolgere”, inquadrare cioè per quanto possibile

esattamente, e pertanto equamente, le situazioni concrete dell’esperienza. Cfr. L. CAIANI, I

giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, II ed., 1954, p. 169-170. Cfr.,

altresì, il classico contributo di J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel

processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.

682 Per questi aspetti, cfr. M. MANZIN, La natura (del potere) ama nascondersi, in

F. Cavalla (a cura di) Cultura Moderna e Interpretazione Classica, Padova, 1997, p. 85 e

ss., specialmente p. 105, ove viene richiamata e criticata l’osservazione di Bertrand Russel,

che afferma la mutevolezza del potere solo nelle sue manifestazioni, stando esso alla

società, quanto l’energia alla massa.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

417

non può essere messa convenientemente in atto mediante strumenti o

figure giuridiche che sulla sovranità (cioè sull’unicità) siano fondate.

Ne consegue che il diritto a rappresentare non può essere

considerato il luogo della signoria della volontà del suo titolare, ovvero

del rappresentante. Non si tratta di diritti assoluti,683

ma di posizioni che

trovano nella correlativa situazione del rappresentato il loro limite. Non

per questo si può applicare semplicisticamente lo schema dei rapporti

obbligatori, ove la posizione attiva trova il suo limite nella posizione

passiva, oppure, secondo altre costruzioni, in un fascio di rapporti che

legano le parti in posizione alternativa di attività a passività, per cui i

diritti dell’uno nei confronti dell’altro sono limitati (e definiti) dai doveri

che lo stesso primo ha nei confronti del secondo. Infatti, il diritto

dell’eletto a rappresentare trova il suo limite non nel dovere dell’elettore a

farsi rappresentare, bensì nel diritto di quest’ultimo ad essere

rappresentato, cui corrisponde il dovere dell’eletto a rappresentare.

Inoltre, l’intreccio diventa vieppiù articolato, laddove si consideri

che lo stesso eletto partecipa della duplice veste di autore e destinatario

dell’attività dell’assemblea (anch’essa, peraltro, soggetta al prodotto della

683 Anche i diritti assoluti hanno i limiti dell’ordinamento (divieto di atti

emulativi), di talché nemmeno la proprietà è il luogo assoluto dell’individualità, al modo

dell’ipotetico originario stato di natura. Senza entrare in concezioni di significato

vagamente sociale della proprietà privata, recentemente introdotte anche ai massimi gradi

dell’ordinamento giuridico positivo, non si può che riconoscere una progressiva

circoscrizione della posizione giuridica soggettiva del proprietario che, da originario

titolare dello ius utendi et abutendi, si trova limitato allo ius utendi e nemmeno nella sua

interezza. Per questi aspetti, tra i moltissimi contributi in materia, ci limitiamo a segnalare

sotto il profilo della filosofia politica, G. GERIN, Il diritto di proprietà nel quadro della

Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 1989; per un’analisi della portata dei

principi costituzionali in materia e per i presupposti teorici che li sostengono, cfr. A.

GENTILI, Impresa proprietà e credito: art. 41, 45, 47, Milano, 1989, terzo volume

dell’opera I rapporti economici nella Costituzione: rassegna di 40 anni di giurisprudenza

sul titolo III., 4 vol. Milano, 1987 – 90; per il ruolo della proprietà negli equilibri della

democrazia, un esame critico delle teoria professata da Locke, cfr. C. K. ROLWEY,

Property rights and limits of democracy, Aldershot, 1993; per le prospettive del diritto di

proprietà, sempre più svuotato delle caratteristiche proprie del diritto reale per essere

attratto nell’ambito delle obbligazioni, cfr. le fondate previsioni di D. WEIMER, The

political economy of property rights: institutional change and credibility in the reform of

centrally planned economies, Cambridge, 1997. È più che lecito, quindi, ed in parte è già

attuata, una trasformazione del diritto di proprietà dai diritti assoluti ai diritti relativi, con

la conseguente perdita (già denunciata) di questa figura come paradigma del diritto

soggettivo, che partecipa sempre di più del profilo dell’alterità, cioè della collaborazione

tra i singoli.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

418

sua volontà, seppure non vincolata neppure alla logica interna e, quindi,

“autorizzata” a contraddirsi.

Se dunque l’esercizio della rappresentanza non può accompagnarsi

con e non può essere veicolato da strumenti mutuati sulla struttura

dell’unicità, ne consegue che anche le figure giuridiche soggettive di cui

sono titolari rappresentante e rappresentato debbono essere compatibili

con la struttura di cui sono serventi ed in tal senso debbono essere

rivisitate.

Un tanto, peraltro, com’è intuitivo, supera la portata di uno studio

sulla rappresentanza per approdare ad un’indagine sulle figure

fondamentali della teoria generale del diritto, involvendo anche il rapporto

tra il singolo e l’ordinamento giuridico, toccando, cioè quei Grunbegriffe

dei quali si è parlato supra al § I.1.; ma si è già visto poche pagine sopra

come anche la concezione imperativista del diritto pervenga a riconoscere

l’alterità come fondamento del diritto.

Tornando al punto, affinché sia salvaguardata tanto la situazione del

rappresentante quanto il rapporto con il rappresentato occorre costruire sia

il diritto a rappresentare, sia il diritto ad essere rappresentati al di fuori

dello schema dato dalle premesse teoriche della sovranità, ovvero

dell’unicità. Il diritto del rappresentante non può essere il luogo della

signoria assoluta della sua volontà. Per superare l’impasse, può essere

d’aiuto la concezione di “autonomia” classicamente intesa, ovvero la

capacità di darsi delle regole e di rispettarle, sostituendo la libertà

soggettiva, il luogo dell’arbitrio dell’individualità, con la responsabilità.684

Lungi dal costituire una sorta di “spazio” concesso dal sovrano

all’insopprimibile sregolatezza dell’individuo, il diritto soggettivo diviene

strumento del singolo per concorrere all’orientamento della comunità.

684 Per le aporie sottese a siffatta prospettiva, conseguente allo spostamento della

riflessione dal macrocosmo al microcosmo, propria della modernità, ma con radici nella

presunzione protagorea, cfr. D. CASTELLANO, La libertà soggettiva, Napoli, 1984,

specialmente p. 87 e ss; nonché IDEM, La razionalità della politica, Napoli, 1993, su cui

infra; ed, infine, IDEM, L’ordine della politica, Napoli, 1997, p. 69. Anche N. IRTI, Società

civile, Milano, 1992, p. 21, riconoscendo la centralità e l’importanza dell’autonomia

sembra aderire a questa impostazione, seppure ritiene di trovarne la radice nel “mite”

Locke, in quel celebre passo del pensatore inglese ove si afferma che la libertà, lungi

dall’essere licenza, anche quando non dipende dalla volontà altrui, deve svolgersi entro i

limiti della legge di natura. Peraltro, con l’ambiguità del termine “natura”, che nelle opere

del medico di Oxon vale ora come stato di natura, luogo della violenza dalla quale si esce

solo tramite il contratto sociale, che ci traghetta verso lo stato civile, ora come fysis, nel

senso classico della tradizione platonico - aristotelica.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

419

Così come il dovere non è soggezione all’altrui arbitrio, bensì

adempimento responsabile della propria permanenza alla comunità, se si

vuole, voluntas ius suum cuique tribuere.685

Per converso, il diritto

oggettivo, anziché costituire lo strumento per la coesistenza degli arbitri,

al modo di Kant, si pone come il mezzo (medium) per l’edificazione della

comunità. E ciò sia per i diritti pubblici soggettivi, che legano cittadino e

Stato, come per quelli privati (sempre ammesso che tale distinzione sia

scientificamente conveniente): un principio di prova può essere rinvenuto

nel divieto degli atti emulativi.686

Si precisa, per quanto possa apparire superfluo, che in tale

prospettiva non vi è un fine superiore dello Stato, per il perseguimento del

quale i singoli cittadini sono meri strumenti. Si prescinde, cioè, da una

concezione che in tanto attribuisce ai cittadini dei diritti soggettivi, in

quanto siano funzionali al perseguimento dei fini dello Stato, secondo uno

schema già visto.687

Al contrario, si ritiene che il divisamento dei singoli,

685 D. 1,1,10 (Ulpianus I regularum) in V. ARANGIO-RUIZ – A. GUARINO,

Breviarum iuris romani, VI ed., Milano, 1983, p. 445.

686 Il divieto di atti emulativi, seppure nella sua formulazione negativa, impone la

necessità di un esercizio del diritto soggettivo in conformità ai fini ritenuti conformi

dall’ordinamento. Infatti, impedendo di avvalersi del proprio diritto al solo scopo di

nuocere agli altri, si rafforza il carattere sociale anche dei diritti assoluti, che

tradizionalmente vengono ritagliati sull’idea di unicità. Si innesta qui il problema

dell’abuso del diritto, cioè del cattivo uso di un potere in sé lecito, figura dogmatica di non

facile definizione, seppure immediatamente percepibile, che rischia sempre la confusione

con l’illecito puro e semplice: Per questi aspetti, oltre ai già citati studi di Jellinek e Jhering

si rinvia ai contributi di M. BARTOSEK, Sul concetto di atto emulativo specialmente nel

diritto romano, in “Atti del congresso di diritto romano e di storia del diritto (1948)”,

Milano, 1951, p. 189 e ss.; M. BESSONE, Proprietà “egoista”, abuso del diritto e poteri del

giudice, in “Foro italiano”, 1974, IV p. 142-4; G. ALPA, Come fare cose con principi, in

“La nuova giurisprudenza civile commentata”, 1992, II, p. 383-416; M.C. TRAVERSO,

L’abuso del diritto, nella stessa Rivista, p. 297-317; nonché la densa monografia di G.

LEVI, L’abuso del diritto, Milano, 1993; si occupa del problema anche M. LA TORRE,

Disavventure del diritto soggettivo. Una vicenda storica, Milano, 1996, che prende in

considerazione l’influsso dell’hegelismo nella costruzione delle situazioni giuridiche

soggettive.

687 Cfr. si vis il nostro Adolfo Ravà. Tra tecnica del diritto ed etica dello Stato,

Napoli, 1998, ove la concezione dello Stato etico di quest’Autore (che si era formato come

giurista e come filosofo nella Germania del primo Novecento) prevede l’attribuzione di

diritti soggettivi ai singoli come mezzo per la tensione verso lo Stato etico; sicché l’abuso

del diritto soggettivo da parte del privato si configura al pari di un eccesso di potere da

parte della P.A., cioè nell’uso diverso da quello per il quale il diritto (ed il potere) era stato

attribuito.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

420

“autonomamente” orientato, nella specifica diversità propria di ognuno,

concorre dialetticamente all’orientamento della comunità, riportando la

politica (intesa come disciplina del diritto e dell’ordinamento giuridico)

nell’ambito della filosofia pratica, ove l’aveva già allocata Aristotele e

dalla quale la modernità l’aveva tanto crudelmente divelta, applicando le

maglie delle teoretica alla varietà della pratica. Seppure questa

considerazione non autorizza a relegare il momento giuridico – politico

nell’ambito del soggettivismo, come è pure stato detto, ponendo

nell’indeterminatezza delle opinioni tutto quello che non è passibile di

scientificità, ritenuta, quindi, l’unica forma di oggettività.688

688 Sull’appartenenza della politica alla filosofia pratica nella costruzione dello

Stagirita, cfr. per tutti, E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Roma - Bari, 1989; P.

AUBENQUE, La prudence chez Aristote, Parigi, 1993; G.F. ZANETTI, La nozione di giustizia

in Aristotele, Bologna, 1993, nonché, recentemente, l’ottimo T. IRWIN, I principi di

Aristotele, trad. it., Milano, 1996.

Com’è noto, la difficoltà evidenziata nel testo sorge quale conseguenza di

un’alternativa mal posta: il sapere scientifico è oggettivo, ogni sapere scientifico non è

oggettivo, quindi non è certo, quindi non è propriamente sapere. L’aporia di fondo è già

stata denunciata ampiamente svelando la natura convenzionale del sapere scientifico che,

per scelta, non mira alla conoscenza dell’essere: cfr. F. GENTILE, Intelligenza politica e

ragion di Stato, II ed., Milano, 1984, e pluribus p. 187 e ss. L’aspetto singolare, tuttavia,

che dimostra il radicamento del pregiudizio, è percepibile nella riflessione anche dei più

attenti studiosi di Aristotele, ove la pur corretta qualificazione del diritto fuori dall’ambito

teoretico, per collocarlo nella filosofia pratica produce l’idea che la natura non tecnica del

diritto lo ponga alla mercé delle opinioni, nell’indeterminatezza della soggettività. Al

contrario, pur nella consapevolezza della fisiologia “imprecisione” delle discipline

giuridiche, la tecnicità insita nella sua struttura, come mezzo per un fine, unita alla

valutazione politica nell’individuazione dei fini, esclude l’assoluta opinabilità in

quest’ambito, richiamando più che altrove la necessità della “prudenza regia”

raccomandata da Platone, così come la tensione teoretica che deve pervadere il momento

pratico ed il momento poietico del filosofare secondo Aristotele. Per la negazione

dell’aspetto tecnico del diritto, cfr. E. BERTI, L’unità del sapere in Aristotele, Padova,

1965, p. 178 e ss.; IDEM, La razionalità pratica. Moldelli e problemi, Genova, 1989. Sotto

altro profilo, lo stesso autore richiama l’attenzione della dottrina continentale e

d’oltreoceano nel mantenere distinte le due anime della filosofia pratica in Aristotele, la

fònesis alla portata di ogni persona, e la filosofia pratica nel senso proprio del termine, cioè

il momento “scientifico” dell’arte di governo: cfr. E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari,

1992, specialmente p. 229. Per altro verso cfr. IDEM, Ragione scientifica e ragione

filosofica nel pensiero moderno, Padova, 1977, che riprende i temi esposti da M. GENTILE,

Umanesimo e tecnica, Milano, 1943.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

421

Tutto ciò, per quanto attiene soprattutto al profilo dei diritti pubblici

soggettivi, ci pare, lungi dal riproporre una sorta di Stato etico, potrebbe

concorrere ad edificare un’etica dello Stato.

Delimitate così le figure giuridiche soggettive, occorre ora

verificare se ed in che misura esse consentano il superamento delle aporie

emerse nell’applicazione della rappresentanza.

Quand’anche si ridimensionasse la figura tradizionale del diritto

soggettivo, potandolo degli arbusti cresciuti sul terreno dell’idea di

unicità, se pure il diritto ad essere rappresentante non è più il luogo della

signoria della volontà dell’eletto, ciò non di meno non si garantisce di per

sé l’elettore ad essere rappresentato.

Il dualismo congenito alla rappresentanza si manifesta ove al diritto

dell’eletto a rappresentare si affianca il diritto dell’elettore ad essere

rappresentato, inteso non come luogo della signoria del volere di

quest’ultimo nell’imporre i propri arbitri come limiti invalicabili per la

discussione assembleare, quanto nella consapevolezza del concorrere

all’orientamento della comunità verso quel bene comune, che se è proprio

di ciascuno non è esclusivo di alcuno.

Operativamente l’obbiettivo si può realizzare non tanto tramite il

conferimento da parte dell’elettore all’eletto dei propri orientamenti, in

forma diretta, bensì in forma invertita, ovvero nell’adesione dell’elettore,

attraverso l’operazione di voto, alla “proposta contrattuale” del candidato,

resa nei termini non della “coazione”, ma nei termini della possibilità

d’azione. Come si vede, trattasi di una sorta di mandato limitativo, già

vagheggiato da Talleyrand, cui dovrebbe essere affiancata una forma di

Aberuffungsrecht, per sostituire quell’eletto che si ritenga sia venuto meno

alle condizioni per le quali era stato scelto ed inviato come rappresentante.

Si tratterebbe di un’azione popolare cui legittimati sono tutti gli iscritti

nelle liste elettorali, senza distinguere tra chi ha votato per il

rappresentante di cui si tratta, anzi, senza distinguere neppure tra chi

aveva partecipato o meno all’elezione. Tutto ciò, lungi dal ridurre il

deputato da rappresentante della nazione a mandatario del collegio

elettorale, consente la concezione del collegio, del bagliaggio, come parte

di un tutto, “ayant le droit de concourir à la volonté générale”. Così, come

per convenzione ed a meri fini di praticità si è diviso il corpo elettorale

assegnando a diversi collegi il compito di indicare i rappresentanti della

nazione, altrettanto agli stessi collegi deve essere attribuito il diritto di

sindacare l’operato di quegli stessi rappresentanti della nazione. Non ci

deve essere ragione di temere il particolarismo paventato da Sieyès

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

422

nell’attribuire al collegio elettorale il potere di controllo sui rappresentanti

della nazione che sono stati eletti in quella data circoscrizione, poiché

come sono e restano rappresentanti della nazione anche se eletti da una

parte della nazione, permangono rappresentanti dell’intera nazione anche

se il sindacato sul loro operato è affidato (vorremmo dire demandato,

delegato) ad una parte della nazione, dacché come il potere di eleggere i

rappresentanti non trasforma il collegio in un corpo separato della nazione

-secondo la preoccupazione di parte dell’Assemblea nazionale- così il

revocare i rappresentati eletti non eleva il bagliaggio ad un tutto a sé

stante. E soprattutto, non bisogna dimenticare che anche la funzione

rappresentativa, come ogni potere pubblico, dev’essere esercitata in

funzione dello scopo per la quale è stata accordata. Ed anch’essa, proprio

come ogni potere pubblico, deve trovare la sua ampiezza nella misura

della responsabilità, dacché l’esercizio di un potere scevro da ogni

responsabilità è peculiare solo di colui che nulla riceve dagli altri e non

dipende che dalla propria spada. Di più. Ci pare che il principio di

responsabilità trovi cittadinanza nell’ordinamento giuridico positivo,

quale principio fondamentale, “principio politico”, secondo la

terminologia degli studiosi di diritto costituzionale. Tuttavia, la sua

valenza non si esaurisce qui, nel solo momento positivo. Infatti, al

principio di responsabilità è stata riconosciuta una propria valenza morale,

non ostante l’apparente contraddittorietà di una responsabilità verso sé

stessi.689

Più propriamente se ne potrebbe dare una valenza etica,

muovendo dall’alterità che è connessa alla responsabilità, ove un soggetto

è responsabile nei confronti di un altro, con un dualismo che, non occorre

nemmeno più dirlo, richiama la struttura fondamentale della

rappresentanza quale si è venuta disvelando nel progredire della nostra

689 Come si è ricordato supra, alla nota n. 559, la formula precisa della

responsabilità (giuridica) verso sé stessi (“Verschulden gegen sich selbst”) si trova per la

prima volta, a quanto ci risulta, in E. ZITELMANN, Allgemeine Teil, Leipzig, 1901, p. 152.

Peraltro, la pandettistica e la dogmatica, nella lenta e faticosa enucleazione della figura del

negozio giuridico avevano già messo in evidenza in modo più o meno esplicito la necessità

del principio di responsabilità come fondamento nella struttura dell’obbligazione giuridica.

La tesi, tutt’altro che peregrina, nella sua versione di origine germanica, si deve

verosimilmente a C. ROEVER, Über die Bedeutung des Willens bei Willenserklärungen,

Rostock, 1874, che formula la compiuta elaborazione di una teoria dell’affidamento nella

stessa città e negli stessi anni ove teneva il suo magistero August Thon. Cfr. anche K.

BINDING, Die Normen und ihre Übertretung, Leipzig (1877), 1914 – 1919, vol. III (1918),

specialmente p. 279 e ss. Cfr., altresì, E. ZITELMANN, Irrtum und Rechtgeschäft, Leipzig,

1879.

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

423

indagine. Più propriamente, il principio di responsabilità dev’essere

considerato giuridico, nel senso che esso si pone come condizione

costitutiva (essenziale) e funzionale (operativa), nel senso che ne consente

il funzionamento, dell’ordinamento giuridico, imprescindibile solo che si

pensi come ogni situazione giuridica soggettiva, come la partecipazione

attiva di ogni consociato, si fondi sul principio di responsabilità, cioè sulla

capacità di rispondere dei propri atti, secondo l’attitudine alla promessa,

già riconosciuta come caratteristica propria del “bipede implume”

nell’antica Grecia. Con la conseguenza che chi nega il principio di

responsabilità riduce necessariamente l’esperienza giuridica a pura

forza.690

Possiamo allora riassumere la posizione come segue.

La riconosciuta dualità strutturale della rappresentanza si

contrappone alla struttura monista della sovranità, programmaticamente

fondata sulla categoria moderna691

dell’unicità. Siffatta contrapposizione,

prima che giuridica, è di ordine logico ed appare insuperabile. Di qui le

difficoltà degli istituti giuridici che, nel corso della storia, hanno tentato di

porre insieme i due termini, cioè di conficcare il dualismo dell’una nel

monismo dell’altra. Dev’essere così respinto il mandato imperativo, che si

concreta in un assoluto rapporto, cioè nella sola (unica) rilevanza del

rappresentato, come avviene nel contrattualismo rousseauiano e in tutte le

costruzioni che su questo schema direttamente o indirettamente si

fondano. Parimenti dev’essere respinto il divieto di mandato imperativo,

690 In questo senso, il principio di responsabilità altro non è che una manifestazione

del concetto di autonomia classicamente inteso, di cui si è fatto abbondante cenno nel

testo, cioè nella capacità di darsi delle regole e di rispettarle. Su questo caposaldo poggia

tutto l’evolversi della giuridicità, a partire dalla fondamentale struttura della sponsio

forgiata dagli antichi romani, poi articolatasi nella molteplicità delle figure giuridiche

nominate ed innominate con le quali si misurano tutti i giuristi (anche) pratici, figure

sempre e comunque riconducibili alla sponsio. E non è men vero che il principio di

responsabilità non si manifesta solo nei contratti consensuali, che sono immediatamente

espressione della sponsio, poiché anche nelle sempre più rare ipotesi di contratti reali

l’elemento della fides si dimostra espressione di responsabilità, in sostanza di autonomia.

691 È ben vero che l’unicità, come categoria logico concettuale, ha origini giudaico

cristiane, seppure non si deve dimenticare la riflessione greca classica attorno all’atomo,

all’indivisibile, come fondamento dell’essere. Tuttavia, è con la rinascenza che il concetto

acquista una valenza giuridico politica ben precisa, anzi un ruolo chiave nell’edificazione

dell’ordinamento giuridico secondo un novum organon.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

424

che si concreta nell’assoluta situazione, cioè nella rilevanza del solo

(unico) rappresentante, funzionale tanto alla costruzione illuminista –

contrattualista di Sieyès quanto alla prospettiva organicista dello Stato

etico, spesso ereditata negli ordinamenti liberal democratici, pur nel

mutamento di prospettiva teorica originaria. Entrambe, negando ora il

rappresentante ora il rappresentato, negano la rappresentanza, poiché

negano la responsabilità, fondamento (e limite) del potere di agire

giuridicamente per (in nome e per conto di) un altro soggetto. Allo stesso

modo non può essere accolta la concezione della rappresentanza come

lotta per il raggiungimento del potere, secondo una visione che vede nel

vincitore la sintesi anche del perdente,692

o riduce il concetto alla

meccanicistica tensione tra maggioranza e minoranza, secondo una

suggestione che dagli allievi di Hegel sembra colpire anche l’agire

comunicativo di Hannah Arendt. Così come insoddisfacente risulta il

tentativo di ridurre il problema della rappresentanza alla scelta del sistema

elettorale.

Di più. La contrapposizione strutturale tra dualismo rappresentativo

e monismo sovrano si ripercuote anche sulle figure che sull’unicità sono

fondate. In questo senso sono parimenti d’ostacolo i paradigmi tanto del

diritto soggettivo come signoria della volontà, luogo dell’assolutezza

dell’individuo, quanto del dovere specularmente inteso al modo della

soggezione ad una volontà altrui:693

essi non possono esprimere

692 Secondo uno schema elaborato da Rousseau, ma viziato in radice dalla pretesa

eguaglianza dei cittadini – votanti, come si è detto supra al § II.1.1, seppure il Ginevrino

aveva avuto l’accortezza di respingere il sistema rappresentativo, sostenendo la necessità

della democrazia diretta. Seppure l’egualitarismo rousseauiano non deve essere confuso

con la libertà e l’eguaglianza nel diritto di voto, come garanzia della rappresentanza

politica, di cui tratta esaustivamente l’ottimo studio di M. GOBBO, La propaganda politica

nell’ordinamento costituzionale. Esperienza italiana e profili comparatistici, Padova,

1997, p. 145 e ss.

693 Com’è noto, il procedimento astraente nell’affinamento concettuale del diritto

soggettivo ha prodotto il progressivo affrancamento della situazione giuridica soggettiva

attiva nei confronti del diritto di proprietà, che ha costituito l’origine e, per lungo tempo, il

modello del diritto soggettivo: cfr supra, nota n. 683. All’opposto, la speculare situazione

di dovere passa da un fondamentale pati, da un dovere di astenersi dal turbare il diritto

altrui, sopportarne eventualmente il peso come limitazione di un proprio diritto (la servitù

ne costituisce il più classico degli esempi) ad un facere, ad un obbligo di attivarsi

concretamente per consentire il godimento del diritto altrui che, quindi, da situazione di

dominio, si trasforma in un aspettativa di comportamenti dell’obbligato, ma anche degli

organi dello Stato affinché, opportunamente eccitati, pongano anch’essi in essere quei

comportamenti che si aspetta il titolare del diritto soggettivo, al fine di ottenere

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SITUAZIONI GIURIDICE SOGGETTIVE E RAPPRESENTANZA

425

degnamente i momenti della rappresentanza, essendo funzionali ad una

concezione dell’ordinamento improntata sull’unicità. Occorre dunque

rivedere le figure giuridiche soggettive del diritto, come negazione della

libertà soggettiva e del dovere, come luogo della responsabilità, entrambi

funzionali al bene comune. Così applicate al rappresentato ed al

rappresentante, fanno sorgere un mandato limitativo, fondato sul

consenso, manifestato nel voto, su di una “proposta contrattuale” avanzata

dal candidato, cui si affianca un diritto di recall, quale strumento di

controllo e di effettiva misura della responsabilità. In altri termini,

contrariamente alla visione premoderna, ove il contenuto del mandato era

confezionato dagli elettori, candidandosi alle elezioni l’aspirante

rappresentante formula una proposta contrattuale agli elettori del proprio

collegio; accordandogli il proprio voto, gli elettori aderiscono alla sua

proposta contrattuale, instaurando il rapporto rappresentativo e

determinando l’oggetto del sindacato di responsabilità. Per la definizione

di collegio, come parte del tutto, la rappresentanza è sempre nazionale,

seppure come per l’elezione si articola il corpo elettorale in più

circoscrizioni, allo stesso modo l’esercizio dell’Aberuffungsrecht è

demandata allo stesso collegio ove è stato ottenuto il consenso.

Tuttavia, anche in questa prospettiva, un’ulteriore questione si

pone: quid iuris, quando il candidato trovi il consenso su di un programma

tale da consentirgli ogni più ampio margine di manovra? Può ritenersi il

“contratto” nullo per indeterminatezza dell’oggetto? Ed in tal caso, non

sarebbe il “giudice” di tale fattispecie un nuovo sovrano? Ancora una

volta verrebbe da ripetere con Rousseau, che ogni popolo ha il governo

che si merita, ma più radicalmente, con il Signore di La Brède, che vulgus

vult decipi. Viene da chiedersi se l’equivoco non stia proprio nel concetto

di sovranità, quand’anche risieda nel popolo o nella nazione, sicché è

proprio quest’ostacolo a dover essere rimosso (il che non vuol dire

spazzare via dal panorama giuridico la potestà di imperio che con la

sovranità non dev’essere confusa, com’è stato detto più volte). Senza

dubbio si deve osservare come lo stesso principio della sovranità

popolare, non a caso elevata a dogma, si sia svelato in una vera e propria

finzione, consentendo l’esercizio del potere da parte di chi, al di fuori

della titolarità formale, si ponga come unico interprete di un sovrano che

non c’è da alcuna parte.

coattivamente l’effetto di quel comportamento non espletato spontaneamente

dall’obbligato originario, comportamento che diviene così il contenuto del dovere e la cui

aspettativa costituisce il relativo diritto.

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DIRITTO DELL’ELETTORE AD ESSERE RAPPRESENTATO

426

Ad ogni modo, a noi preme aver dimostrato che non c’è alcun

valido ostacolo teorico al controllo dell’elettore sull’eletto; anzi, che è

logicamente corretto e politicamente opportuno il contrario, poiché tale

controllo è fisiologico alla struttura rappresentativa: si tratta ora di

individuare concretamente i mezzi più idonei a questi fini.

Questo trascende il nostro impegno, rientrando nella tèkne e nei

suoi cultori. Ad ogni modo, per noi è sufficiente ritenere di aver

individuato nel divieto di mandato imperativo la negazione –logica, prima

che giuridica- di ogni forma possibile di rappresentanza e la necessità di

un legame –anche giuridico, oltreché logico- tra eletto ed elettore,

condizione perché divengano rappresentante e rappresentato.

Quod erat demonstrandum.

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427

CONCLUSIONE

A chi volesse svolgere una spassionata indagine, la rappresentanza

si dimostrerà con una struttura, logica prima che giuridica, prettamente

dualista, data, cioè, dalla necessaria presenza di un rappresentato e di un

rappresentante e di un rapporto che li lega. Proprio per questo essa

intimamente mal si concilia con la struttura dello Stato moderno, che è

stato edificato sull’elemento della sovranità, categoria plasmata

sull’unicità, cioè sull’impossibilità di riconoscere altro da sé, ovvero la

negazione del dualismo dialettico. Sicché, anche da un punto di vista

meramente operativo (riscontrabile nel Parlamento nazionale non meno

che negli organi collegiali degli Enti territoriali), la diversità strutturale si

traduce in una difficoltà di applicazione dell’istituto rappresentativo

all’interno di un contesto che gli è radicalmente alieno.

Per converso, la ricerca di trasformare del proprio potere in diritto,

a mo’ di giustificazione, spinge il sovrano verso un processo mimetico di

assorbimento nella propria unicità della struttura essenzialmente dualista

della rappresentanza. Al tentativo del sovrano di ammantarsi della

qualifica di rappresentante di coloro che gli sono sottoposti per legittimare

il proprio dominio, tiene seguito il progressivo svilimento della posizione

dei rappresentati che finiscono quasi per essere edulcorati nelle spire del

potere. E in questa prospettiva l’introduzione positiva del divieto di

mandato imperativo altro non è che la compiuta cesura del cordone

ombelicale con cui l’Assemblea nazionale, affrancandosi da coloro che

l’hanno generata, calpestando le istruzioni dei propri elettori, raggiunge la

sovranità, nulla dovendo più agli altri e non dipendendo che dalla propria

capacità di imporsi. Così come, meno di duecento anni prima, l’affermarsi

dell’assolutismo aveva soffocato la pluralità dei ceti e delle articolazioni

corporative proprie della feudalità.

A nostro avviso, dunque, la difficoltà si annida nel tentare di

conficcare la struttura dualistica della rappresentanza nelle maglie della

pretesa unicità dello Stato moderno. Sicché ogni tentativo giuridico

positivo di far coesistere il dualismo rappresentativo con l’unicità

dell’assemblea sovrana è destinato a fallire, giacché il sovrano, in quanto

tale, può “rappresentare” qualcuno a patto di non dovergli rendere conto

di nulla, cioè di non rappresentarlo.

Non resta allora che rinvenire il dualismo perduto, recuperando la

responsabilità degli eletti verso gli elettori, quel rapporto che è proprio di

ogni struttura rappresentativa, ma anche giuridica in generale.

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428

Dall’indagine attorno alla rappresentanza che abbiamo condotto

sono emerse anche altre considerazioni. Da un lato l’istituto è apparso

veramente centrale nella dottrina dello Stato, dall’altro questa sua

riconosciuta rilevanza ne ha comportato l’introduzione nelle maggiori

costruzioni teoriche e la traduzione pratica in tutte le carte fondamentali.

Da tutto ciò è derivata una diversità di definizioni di rappresentanza, tale

da renderne difficile la ricostruzione nei suoi elementi essenziali.

Molto prima che Bluntschli definisse la rappresentanza come

istituto essenziale per il diritto pubblico, già i teorici medioevali dello

Stato ne avevano intuito l’importanza come giustificazione del potere

sovrano, che poteva risultare più giuridicamente fondato se fatto derivare

da un contratto che lo istituiva rappresentante dei governati. Certo, come

si è detto, la categoria monista della sovranità mal si conciliava con la

struttura dualistica della rappresentanza: se il rappresentante deve

riconoscere un rappresentato in nome del quale agire e al quale

rispondere, un atto che lo ha reso tale, non è più assoluto, non è più unico,

non è più sovrano. Tale è la difficoltà di Sieyès, il quale, dopo aver

affermato il primato del potere costituente sul costituito, è costretto a

riconoscere rilevanza giuridica solo alla voce dell’Assemblea, sostituendo,

in realtà, ai “duecentomila privilegiati” contro cui aveva lanciato il suo

pamphlet,694

non i quaranta milioni di cittadini, ma le poche centinaia di

“rappresentanti” del Terzo stato.

Tutto ciò comporta la distinzione tra rappresentanza di diritto

privato, che permane fedele alla tradizione dualista propria della

giurisprudenza romana, e rappresentanza di diritto pubblico. Quest’ultima,

però, abbiamo visto, assume tante forme quante sono le posizioni delle

singole teorie o costruzioni che la ospitano, talché una definizione di

rappresentanza di diritto pubblico non appare possibile. La manifestazione

più evidente di questa difficoltà è l’aggettivo “politica” che,

invariabilmente dalla metà di questo secolo, accompagna il sostantivo

rappresentanza, quasi nel tentativo di ricomprenderne e giustificarne i

multiformi aspetti.

694 Cfr. supra II.4. Nel pamphlet “Che cos’è il Terzo Stato?” del gennaio 1789,

l’Abate individuava il fondamento del diritto nel volere della Nazione, a prescindere da

ogni forma positiva; al contrario nel luglio dello stesso anno, discutendosi del mandato

imperativo, Sieyès affermava, con violenza, che la Nazione aveva un solo voeu: quello

dell’Assemblea nazionale.

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429

Tuttavia sarebbe semplicistico e riduttivo identificare la causa della

distinzione, della summa divisio tra rappresentanza di diritto privato e

rappresentanza di diritto pubblico, nell’ipotesi contrattualistica dello

Stato. Abbiamo visto, infatti, come agli stessi esiti pervengano anche quei

pensatori e giuristi che tale ipotesi fortemente avversano. Crediamo di

poter dedurre che il divieto di mandato imperativo, l’irresponsabilità di

colui che si continua a chiamare rappresentante, da un lato è funzionale

alla Nazione di Sieyès, dall’altro alla teoria dello Stato degli Epigonen e

di tutti coloro che su di essi mediatamente o immediatamente si

fondano.695

Tutto ciò trova forse una ragione nella permanenza del

medesimo carattere nelle due diverse costruzioni dello Stato: la sovranità.

Non tanto nel suo aspetto autoritativo, di obbedienza necessaria alle

comuni regole della convivenza, cioè in quell’aspetto della sovranità che è

ormai assurto nella ricerca costituzionalistica alla dignità concettuale

espressa dal termine potestà di imperio, traduzione del concetto che la

giuspubblicistica tedesca già prima aveva racchiuso nel termine

Herrschaft, 696

quanto piuttosto nel suo aspetto originario, di paludamento

dell’unicità come categoria della modernità: il superiorem non

recognoscens che annulla la pluralità degli éndoxa, importando nella

filosofia pratica quella che era la caratteristica delle teoretica, sostituendo

le opinioni notevoli con l’asserzione certa. L’equilibrio dualistico del

dubbio cartesiano è in questo senso la fine dell’essere e l’inizio del volere.

La necessità di mascherare il potere sovrano sotto la veste di

rappresentante dei governati, risponde all’esigenza di far credere agli

695 Ancora su queste posizioni sembra posta la dottrina italiana anche più recente.

Oltre alla monografia specifica di N. ZANON, Il libero mandato parlamentare, Milano,

1991, già ricordata al § II.2, si confrontino i principali testi di istituzioni di diritto pubblico

e costituzionale.

Le aporie a cui conduce il divieto di mandato imperativo, si estendono anche alla

struttura interna dei partiti politici, dei sindacati e, in generale, di tutte le associazioni

regolate dal Codice Civile agli artt. 36 e ss. di rilevanti dimensioni, nei rapporti tra gli

organi direttivi e gli associati. Problemi analoghi si sono posti per la rappresentanza alle

assemblee di società commerciali, ove, pur nei limiti dell’ordine del giorno, l’impossibilità

di dare istruzioni esaustive al mandatario, impone di lasciargli quell’ambito di

discrezionalità, di “situazione”, che lo rende effettivamente rappresentante.

696 Come si è già avvisato, non si deve confondere la sovranità con la potestà di

imperio, termine con cui traduciamo il concetto di Herrschaft elaborato dalla dottrina

tedesca. La critica al concetto di sovranità, lungi dal vagheggiare un individuo anarcoide

(che, anzi, è proprio all’origine di quel concetto), non intacca la potestà di imperio

connessa al momento di positività dell’ordinamento. Il punto è stato trattato al § III.3.

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uomini di obbedire a sé stessi. In questo ancora una volta emerge la

radicale consequenzialità di Rousseau che a questo scopo elabora la sua

costruzione senza dover misurarsi con le aporie che comporta conficcare

la struttura dualistica della rappresentanza, l’esistenza distinta di

rappresentante e rappresentato, nel monismo, nell’unicità che caratterizza

il sovrano. E seguendo questa strada ci si trova necessariamente costretti a

ripetere con Laband e con Kelsen che la rappresentanza è una finzione.

Chi sostiene l’indefettibilità del mandato imperativo o, comunque, la

necessaria irresponsabilità degli eletti nei confronti degli elettori, anche

motivando con ragioni pragmatiche in ordine alla difficoltà di esercitare

un controllo sui primi da parte dei secondi, deve comunque misurarsi con

i presupposti teorici che, per quanto obliati, sono alle basi di siffatta,

diffusa, convinzione.

Bisogna allora uscire dall’alternativa capziosa tra mandato

imperativo e suo divieto, quali uniche manifestazioni della

rappresentanza. In effetti queste posizioni hanno in comune l’identica

matrice nell’individualismo, con una struttura improntata all’unicità, per

cui l’unico sovrano ammesso è ora il mandante, ora l’assemblea dei

mandatari che hanno gettato al vento le propri istruzioni. Occorre uscire

dalla prospettiva moderna, riconoscendo il carattere partecipativo ed

eminentemente dualista della struttura rappresentativa e su questo

ricostruire gli istituti giuridici.

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INDICE DEI NOMI

ACCARINO B., 7, 61, 143.

ACHTENBERG N., 394.

AGOSTINO D’IPPONA (SAN), 186,

190.

AHRENS A., 18, 209, 210-1, 214-

5, 234, 349.

ALAMBERT J.B. LE ROND DE,

107.

ALATRI P., 99, 149, 345, 353.

ALBANESE B., 360.

ALBRECHT E., 365.

ALIGHIERI D., 55.

ALPA G., 413.

ALTHUSIUS J., 6, 14, 74, 110,

152, 243, 358, 359.

ALTHUSSER L., 144.

AMATO G., 10-1.

AMLETO, 256.

AMSELEK P., 25.

ANCONA E., 199.

ANDERSEN H.C., 277.

APPELT W., 19.

AQUARONE A., 58, 88-9, 99.

ARANGIO RUIZ G., 332.

ARANGIO RUIZ V., 152, 413.

ARENDT H., 29, 40, 236, 418.

ARGIS B. DE, 108.

ARISTOTELE, 16, 21, 29, 52, 54,

84, 101, 177, 184, 240, 245, 271,

329, 354, 363, 402, 414.

ARTOM I., 343.

ARU T., 67.

ASCARELLI T., 240, 286, 400,

403, 405.

ASCOLI M., 403.

ASQUINI A., 403.

ASSINI N., 294, 306.

AUBENQUE P., 414.

AUSTRIA DI (VON ABSBURG) A.,

89.

AVERSANO A., 65.

AYUSO TORRES M., 62.

BACHMANN C.F., 163, 170.

BACHOF O., 390, 392, 395.

BACON (DA VERULAMIO) F., 84.

BADURA P., 337.

BAECHELER J., 155.

BAGOLINI L., 177.

BALBONI E., 11.

BALDASSARRE A., 225, 370, 372,

377, 387, 388.

BALLADORE PALLIERI G., 75,

263-4, 329, 377.

BALLINI P.L., 332.

BARATTA A., 401.

BARBERA A., 9, 11, 20.

BARBERA M., 10.

BARBERI M.S., 13, 343.

BARBERIS M., 14, 137.

BARONE G., 336.

BARTOLE S., 12.

BARTOLO DA SASSOFERRATO,

111.

BARTOSEK M., 413.

BASTID P., 137.

BATIFFOL P., 25.

BATTAGLIA F., 177, 253.

BATTIS U., 390, 395.

BAUER H., 395.

BECCHI P., 162, 164.

BEIME K. VON, 19.

BELLINAZZI P., 38.

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432

BENDIX R., 17.

BENEDICKT M., 154.

BENSA P.E., 363.

BENTHAM J., 147.

BENVENUTI F., 312, 357.

BERGBOHM K., 403.

BERGSTRASSER L., 18.

BERKELEY, G., 31, 33-4.

BERNHARDT R., 397.

BERTI E., 16, 21, 25, 29, 52, 414.

BERTI G., 312.

BERTOLISSI M., 151, 395.

BERTRANDO DI CHARTRES, 159.

BESELER G. VON 252.

BESSONE M., 413.

BETTI E., 207, 401, 403.

BETTINELLI E., 15.

BHOM A., 19.

BIANCA C.M., 67.

BIAUZAT G. DE, 133.

BIERLING E.R., 25, 206, 360.

BINDING K., 357-9, 416.

BISMARCK O. VON, 177.

BLAKSTONE W., 7,

BLANKENGEL A., 397.

BLEI F., 126.

BLEKMANN A., 391.

BLUMENBERG H., 256.

BLUNTSCHLI J.K., 163, 183, 216-

7, 218-9, 224, 228, 234, 246, 422.

BOBBIO N., 17, 22, 73, 110, 158,

399, 401, 403-5, 408.

BODIN J., 72, 92, 129, 191, 245.

BÖHLER D., 26.

BÖKENFÖRDE E.W., 13, 19, 292.

BONAPARTE N., 106, 192.

BONAUDI E., 347, 354.

BONIFACIO VIII, 89.

BORDOLI R., 6.

BORKENAU F., 201.

BOSL K, 19.

BOTHE M., 396.

BOTTIN F., 72.

BOUCHETTE J.B.N., 124.

BRANCA G., 67, 401.

BRAUN F., 201.

BRECCIA F., 65.

BRUGI B., 401.

BRUNETTI G., 25, 403.

BRUNIALTI A., 343.

BRUNNER O., 12, 19.

BUCHHEIM H., 350.

BUFFON G.L. LECLERC DE, 156.

BÜHLER O., 389, 390-4.

BÜLOW O., 404-5.

BURKE E., 40, 42, 48, 58, 70, 99,

102, 107, 116, 118-9, 142-3, 287-

8, 322, 325.

CACCIAVILLANI I., 294, 306.

CACCIN R., 294.

CADART J., 12.

CAFAGNO M., 337, 364.

CAIANI L., 401, 410.

CAIANIELLO V., 294.

CALABRESI O., 294.

CALANDRA P., 11.

CALISSE C., 65

CAPOGRASSI G., 13, 16, 353-4.

CAPOTOSTI P.A., 9.

CAPPONI G., 335.

CAPPUCCI PL., 155.

CARACCIOLO A., 50.

CARCASSONNE E., 145.

CARELLI R., 9.

CARINI C., 10-3, 137, 141.

CARLASSARE L., 332, 395.

CARLO VII (DI FRANCIA), 89.

CARLO VIII (DI FRANCIA), 89.

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433

CARNELUTTI F., 382.

CARRÉ DE MALBERG R., 7, 103,

146, 149, 151-2, 242, 250-2, 264.

CARTESIO R., 279.

CASA F., 240, 286, 403.

CASETTA E., 385.

CASINI P., 108.

CASSIRER E., 16-7, 46.

CASTELLANO D., 191, 412.

CASTELOT D., 106.

CASTIGNONE S., 221.

CAVALLA F., 27, 410.

CEDRONI L., 10, 137.

CERRETI C., 238.

CERRI A., 10.

CESA C., 158, 161-2, 170-2, 175,

177-9, 183-4, 186-7, 189, 191,

193, 195, 201.

CESARE C.G., 43.

CHAPMANN J.W., 143.

CHELI E., 11, 212.

CHEVALIER J.J., 93.

CHIMENTI C., 10.

CHIOVENDA G., 347.

CHITI M.P., 305.

CIAURRO L., 13, 31.

CICÉ CH. DE, 136.

CICERONE M.T., 43.

CIESZKOWSKY F., 174.

CLAEYS G., 325.

CLERMONT – TONNERE S. DE,

124, 136.

COACCIOLI – PERLETTI A, 66.

COCHIN A., 89, 90-1, 94-5, 98,

139, 154-7.

COKE E., 324.

COLOMBO P., 11.

COMPAGNONE A., 294.

COMTE A., 60, 189, 245.

CONDILLAC É. BONNOT DE, 156.

CONDORCET M.J.A.N. CARITAT

DE, 97.

CONTE A.G., 401.

CONZE W., 19.

CORASANITI A., 8, 20.

CORASANITI S., 310.

CORDINI G., 10.

COSSUTTA M., 93.

COTTA M., 9.

COTTURRI G., 9.

CRIFO G., 207.

CRISAFULLI V., 9, 254, 259, 260-

1, 263-5, 267, 269.

CROSA E., 111, 238, 254-6, 270.

CUSANO N., 5, 110, 129, 215.

D’AGOSTINO G., 12.

D’ALESSIO F., 353.

D’HONDT J., 162.

D’ONOFRIO F., 9.

D’ORSI D., 353.

DAHL, R.A., 16, 147, 151.

DAL PRÀ M., 143.

DANDURAND, P., 18.

DE CRÈVŒUR R., 125, 135.

DE FRANCESCO G.M., 256, 259.

DE FRANCISCI P., 207.

DE LORENZO G., 38.

DE MARTINO F., 152.

DE SIMONE G., 12.

DECHEND H VON, 256.

DEGNI F., 405-7.

DEL GIUDICE P., 210.

DEL VECCHIO G., 348, 401.

DELEUZE J., 6.

DERRIDA J., 26.

DI CIOLO V., 9.

DI MODUGNO N., 353-6.

DI NUOSCIO E., 10.

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434

DIAZ F., 143.

DIDEROT D., 107-8, 117, 170.

DILLIER J., 18.

DONATI D., 263, 266, 348, 351,

403-4, 409.

DOSSETTI G., 257.

DREITZEL H., 343.

DRHAT M., 18.

DRIEHAUS H.J., 394.

DROETTO A., 6.

DUGUIT L., 7, 144, 242, 251-2.

DUQUESNOY D., 125, 135-6.

DUSO G., 13, 22, 43, 45, 51, 162.

DUVERGER M., 16, 80.

DWORKIN R., 21.

EDOARDO I (D’INGHILTERRA),

107.

EHRLICH E., 404-5, 408-9.

EISENMANN CH., 25.

EISERMANN, G., 48.

ELIA L., 11, 13.

ELLUL J., 19, 88, 91-2, 96.

ENRICO II (DI FRANCIA), 89.

ENRICO IV (DI FRANCIA), 89.

ERACLITO, 192.

ERCOLE F., 111.

ERDMANN J.E., 7, 48-9, 56, 62,

74, 161, 178, 182-4, 187, 189,

190, 192, 193, 200-1, 203, 207,

210, 219, 223, 229, 234, 236,

249, 251, 281, 339, 342, 346-7,

349.

ERICHSEN H.U., 389, 395.

ESIODO 256.

ESMEIN P., 141, 242.

ESPOSITO C., 9, 266, 348, 351.

ESSER J., 410.

EULAU H., 17, 326.

EYERMANN E., 394.

FADO C., 363.

FALZEA A., 207.

FARALLI C., 221.

FARINACCIO P., 103.

FERRAJOLI L., 236.

FERRARA F., 403.

FERRERO G., 153.

FICHTE J.G., 7, 13, 235, 348.

FILIPPO IV (DI FRANCIA) “IL

BELLO”, 89, 322.

FILMER R., 7, 35, 111.

FILOMUSI GUELFI F., 353, 356.

FIORAVANTI M., 27, 75, 208,

220, 228, 233, 235, 243, 257-8,

366.

FISCHER K, 163-4, 353.

FISICHELLA D., 9, 13, 17, 20, 42,

76, 269, 321-7, 330-6.

FOLLIERI E., 336.

FORSTHOFF, E., 394.

FORTUNA S., 9.

FOSTER J., 33.

FRAENKEL E., 17, 18, 48.

FRALIN R., 117.

FRANCESCO I (DI FRANCIA), 89.

FRANCO A., 403.

FRANZESE L., 55, 400.

FREITAG H.O., 141.

FRETEAU C. DE, 124.

FRIED C.R., 19.

FRIEDERICH C.J., 18, 137.

FRÖHLER L., 394.

FROMM G., 396.

FROSINI V., 21.

FURET F., 14, 94, 97-8, 125.

FUSARO C., 10.

FUSELLI S., 363.

FUSELLI S., 363.

G. DE SEMO, 67.

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435

GABLER G.A., 353.

GADAMER H.G., 29, 40, 46.

GALATERIA L., 293, 295.

GALGANO F., 57, 121.

GALIZIA M., 14.

GALLI G., 7, 9, 15, 50-1.

GALLICET CAVALLI C., 6.

GAMBINO S., 11.

GANS E., 7, 42, 57, 71, 73, 162-4,

167-8, 196, 198-9, 213, 236, 275,

338.

GAZZONI F., 57.

GEHLEN A., 187.

GENTILE F., 15, 20, 54-5, 61-2,

72, 100-1, 104, 110, 113, 149,

154-5, 157-8, 225, 227, 259, 262,

269, 282-3, 292, 330, 335, 352,

354, 414.

GENTILE G., 38, 348.

GENTILE M., 21, 23, 25-6, 31,

414.

GENTILI A., 411.

GÉNY F., 25, 404-7.

GERBER C.F. VON, 6, 7, 27, 48,

50, 163, 178, 183, 192, 203, 219,

220-229, 230-4, 237, 239, 243-4,

251, 339, 340-2, 246, 349, 365-9,

370-6, 387-8, 391.

GERIN G., 411.

GEULINCX A., 279.

GIACON C., 111.

GIANCOTTI BOSCHERINI E., 6.

GIANFORMAGGIO L., 19.

GIANNINI M.S., 351, 401.

GIBSON S.B., 154.

GIERKE O. VON, 6, 18, 74, 75,

110, 152, 163, 243, 250, 252,

253, 261, 263, 287, 349, 358,

376.

GIULIANI E.M., 10.

GIUSEPPONE V., 294.

GLUM F., 45.

GNEIST R. VON, 340, 343-5, 347-

8, 356.

GOBBO M., 418.

GOUBERT P., 143.

GRASSERIE R. DE LA, 135.

GRASSO, P.G., 18, 158.

GREGO M., 137.

GRIMM D., 19.

GRISOLIA M.C., 11.

GROSSI P., 14, 192.

GROTHUYSEN B., 134, 143.

GROZIO U., 155, 191.

GUERRIERI S., 257.

GUICCIARDI E., 318, 343, 346,

348, 351-3.

GUICCIARDI G., 351.

GUSY CH., 48.

GUZZO A., 33.

HABERMAS J., 17, 139.

HÄGERSTRÖM A., 221, 282.

HALEVI R., 125.

HALLER B., 20.

HARRIS I, 111.

HARRIS SACKS D., 12.

HARTMANN V., 17.

HÄTTICH H., 43.

HAURIOU M., 6, 53, 152, 261,

359.

HAYM R., 170.

HECK PH., 404.

HECKER J., 20.

HEGEL G.F.W., 44-5, 48-9, 74,

77-8, 85, 110, 114, 158, 161-9,

170-9, 180-3, 185, 189, 190-1,

193, 196, 199, 200-1, 206-7, 209,

211, 213-4, 218, 25-7, 239, 243,

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436

245, 249, 251, 253, 267, 338,

348-9, 350, 352-7, 363, 418.

HELLER H., 47-8, 152, 292.

HENKE W., 337, 350, 356.

HENRICH D., 162.

HINRINCHS H.F.W., 163, 281,

353.

HINTZE O., 18.

HOBBES TH., 7, 13-4, 20, 49, 50,

56, 62, 84, 110-1, 115, 129, 173,

187, 324.

HOFFEIMER M.H., 162, 168, 338.

HOFFMAN PH. T., 12.

HOFFMANN M., 398.

HOFMANN H., 17, 20, 22, 31, 32,

109.

HOHENZOLLERN (famiglia), 174.

HOLBACH P.H.D. DE, 108-9, 111,

112, 114-9, 120-1, 201, 216.

HOLTMANN E., 342.

HORSTMANN R.P., 162.

HUBER H., 18.

HUBER P.M., 389, 395.

HÜGLIN TH., 14.

HUME D., 31, 34-6, 143, 279,

404.

HYDITE F.A. VON DER, 19.

IANNOTTA L., 356, 364.

IENSEE J., 11, 13.

ILTING K.H., 29, 162, 196.

IRTI N., 362, 412.

IRWIN T., 414.

IUSTINIANUS, 70.

JACOBSON R., 154.

JAEGER H.,18.

JAHR G., 21, 26.

JAUCURT L., 108.

JAUME L., 14.

JAYNES J., 256.

JELLINEK G., 6, 7, 27, 42, 48,

163, 219, 230, 235, 239, 241-9,

250-2, 259, 260-3, 265, 281, 329,

340-2, 370-1, 375-9, 380-8, 391-

4, 413.

JELLINEK W., 242, 244, 392.

JEMOLO A.C., 360.

JESSOP TH. E., 33.

JHERING R. VON, 220, 223, 362-

3, 413.

JONAS H., 29.

JOUVENEL B. DE, 118.

KAISER J.H., 16, 48.

KANT I., 13, 36, 37, 38, 74, 155,

163, 173, 178, 191, 242, 362,

399, 413.

KANTOROWICZ E., 6, 173, 404-5.

KARPS, P.D., 17.

KELSEN H., 15, 17, 19, 26-7, 48,

52-3, 74, 147, 151-2, 238, 266,

278, 281, 328, 424.

KIM J., 200.

KIRCHHEIMER O, 48.

KIRCHHOF P., 11, 13.

KIRCHMANN J.H. VON, 401.

KLÜVER J., 21.

KOCH C., 18.

KOENIGSBERGER G., 145.

KÖNIG S., 399.

KOSELLECK R., 18, 19, 77, 145.

KRAMNICK I., 143.

KREBS W., 396, 399.

L’ÉVÊQUE P., 256.

LA PIRA G., 257.

LA ROCHEFOUCAULD F.A.F. DE,

133.

LA TORRE M., 413.

LABAND P., 6, 7, 27, 75, 152,

163, 178, 182-3, 193, 207, 219,

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437

230-1, 233-5, 237-9, 240-5, 248,

250-1, 260-1, 266-7, 271, 278,

281, 340-3, 346-7, 349, 365, 386-

7, 424.

LACLOS P.A.F. CHODERLOS DE,

155.

LALLY – TOLLENDAL G.T., 124,

134, 217.

LAMBRUSCHINI R., 335.

LAMENNAIS F.R. DE, 87.

LANCHESTER F., 9, 10-1.

LANDSBERG E., 25, 206.

LANDSHUT S., 16.

LANGUET H., 111.

LARENZ K., 25, 161, 183, 187,

206, 405.

LARRÈRE C., 141.

LEIBHOLZ G., 13, 16, 20, 23, 28,

31, 33, 43, 44, 46-9, 51-2, 54,

130, 147, 152, 166.

LEIBNIZ G.W., 14, 38.

LEISNER W., 324, 330, 334.

LENIN V.I. UL’JANOV, 149, 322.

LEVI A., 358, 361, 403.

LEVI G., 413.

LOCKE J., 7, 14, 31, 33-5, 109,

110-1, 187, 288, 411-2.

LOEWENSTEIN K., 18, 125, 132.

LOMBARDI G., 207.

LOMBARDI VALLAURI L., 400.

LONG G., 9, 11.

LOSURDO G., 162, 164.

LOUGH J., 108, 117.

LOUSSE É., 94.

LÖWITH K., 161.

LOYSEAU H., 92.

LÜBBE H., 74, 148, 161, 170,

174-5, 177, 179, 183-6, 188, 191-

2, 195, 201.

LUCAS P., 324.

LUCCHINI P.L., 219.

LUCE A.A., 33.

LUCIANI M., 10.

LUCIFERO D’APRIGLIANO F.,

258.

LUCIFERO D’APRIGLIANO G.,

258.

LUCIFREDI R., 238.

LUHMANN N., 249.

LUIGI XII (DI FRANCIA), 89.

LUIGI XIII (DI FRANCIA), 87.

LUIGI XIV (DI FRANCIA), 89, 92,

268, 335.

LUIGI XV (DI FRANCIA), 92, 93.

LUIGI XVI (DI FRANCIA), 89,

130, 196, 279, 322.

LUIGI XVIII (DI FRANCIA), 113,

322.

LUNDSTEDT W., 221.

LURASCHI G., 207.

LUYNES CH. D’ALBERT DE, 72.

LUZZATTI L., 332.

MABLY G. BONNOT DE, 15, 143.

MACHIAVELLI N., 6.

MADELIN L., 126.

MAIHOFER W., 21, 26.

MAIORCA C., 361, 363.

MAIRAN D. DE, 279.

MAITLAND F.W., 6.

MALEBRANCHE N., 279.

MANIN B., 94.

MANTEL W., 17.

MANTELLINI G., 351.

MANTINI PL., 294, 306.

MANTL W., 13.

MANZELLA A., 11.

MANZIN M., 410.

MARGHIERI A., 18, 210, 214.

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438

MARINI G., 158, 164, 196,

MARONGIU A., 18.

MARRAMAO G., 13, 201.

MARSILIO DA PADOVA, 5, 55, 72,

84, 129, 215.

MARTINES T., 46.

MARX K., 78,173.

MASSARI O., 10

MATASSI E., 162, 169.

MATTEUCCI N., 59, 60, 77, 116,

210.

MAURER H., 390, 392, 394.

MAURRAS CH., 322.

MAURY J.S., 146.

MAYER O., 7, 343, 348, 393.

MAZZANTI PEPE F., 15, 143.

MAZZARELLI C., 272.

MAZZAROLLI LE., 307, 351-2,

357.

MCILWAIN E. CH., 77, 116.

MCINTYRE A., 29.

MEDICI M. DE, 89.

MELANTONE F. SCHWARZERD,

111.

MENEGELLI R., 26, 207, 395.

MENGER C.F., 396, 399.

MENGHI C., 162.

MENGOLI GC., 294, 307.

MERCADANTE F., 13, 87.

MERLO M., 5.

MESSINA G., 363.

MESSINEO F. (JUN), 57,

MESSINEO F. (SEN), 164, 355.

MESTRE A., 16.

MEUTER G., 47.

MEYER H., 19.

MEZZADRA S., 75,

MICELI V., 401.

MICHELET C.L., 163, 174-8, 204,

353.

MICHOUD C., 252.

MIGLIO G., 9, 11, 118.

MIGNONE C., 309.

MILL J.S., 116.

MIRABEAU G.H. DE, 136, 146,

218.

MODUGNO F., 401, 404.

MOHL R. VON, 7, 18, 163, 207-9,

216-7, 224, 253.

MOLA G., 11.

MOMMSEN TH., 152.

MONTANARI B., 17, 74, 328.

MONTESQUIEU ET LA BRÈDE,

CH. L. DE SECONDAT DE, 7, 10,

14, 100, 103, 109, 111, 113, 120,

144-5, 147-8, 153, 156, 165, 236,

246, 258, 419.

MORNET D., 143.

MORO A., 257.

MORTATI C., 14, 238, 262.

MOSCHELLA G., 11.

MOSÉ, 6.

MOUNIER J.J., 142.

MÜLLER CH., 19, 324.

MÜLLER F., 18, 25-6, 206.

NICOLLIER B., 111.

NIETZSCHE F., 161.

NIGRO M., 353, 356.

NOCILLA D., 13, 31, 39, 46.

NORBERG K., 12.

OCCAM G., 5, 72.

OCCHIENA M., 294, 306.

OFFIDANI A.M., 238.

OLDRINI G., 162, 170, 174, 179,

184, 189.

OLIVECRONA K.H.K., 282.

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439

OLRANDO V.E., 227, 244, 259,

260, 364, 384.

OMAGGIO V., 129.

ONIDA V., 11.

OPITZ P.J., 21.

OPPENHEIM H.B., 48, 74, 163.

ORANGE G. DE, 111.

ORECCHIA R., 27.

ORNAGHI L., 20.

ORSETANO R., 360.

ORSONI G., 307.

ORWELL G., 176.

OZOUF M., 94, 97-8.

PAGALLO U., 84, 155, 157, 259,

282.

PAGANO R., 9.

PAINE TH., 325.

PAINO A., 337.

PALADIN, L., 8, 11, 395.

PALLOTTINO M., 307.

PANIZZA D., 287.

PANUNZIO S., 177.

PANUNZIO S.P., 11, 212.

PARISI V.E., 20.

PARMENIDE, 53.

PASQUINO G., 10-1.

PASQUINO P., 9, 14, 152.

PASTORE A., 279.

PATTARO E., 221, 282.

PAULSON S.L., 26.

PAWLIK M., 21.

PEDRALI – NOY P.L., 404.

PEGORARO L., 11.

PEIRCE C.S., 37.

PENNOCK J.R., 143.

PETTY W., 107.

PFITZER A., 18.

PIERANDREI F., 18, 242, 385.

PIETRANTONI A., 225.

PIETROBON V., 63.

PIETZNER R., 394.

PIFFERI G., 294.

PIOVANI P., 27.

PIRETTI M.S., 10.

PITKIN H.F., 17, 39, 42, 44, 58,

63, 75-6, 132, 152, 327.

PLATONE, 2, 31, 37, 39, 40, 46,

83, 85, 129, 271, 280, 354, 414.

PODLECH A., 17.

POT F., 18, 89, 118, 129, 152.

PRINS A., 18, 73, 145.

PROSPERETTI U., 238.

PROSPERO M., 116.

PROUST J., 117.

PUFENDORF S., 191,

PUGLIATTI S., 57.

PUNZO L., 177.

QUADRI R., 401.

QUARITSCH H., 17.

RAGOTZKY H., 108-9.

RAGUSA V. 401.

RANELLETTI O., 238, 257-8, 266,

351.

RAUSCH H.H., 16-8, 43, 45.

RAVÀ A., 6, 111, 178, 221, 266,

348, 357, 362, 382, 404-5, 413.

REALE G., 83, 272.

REDEKER K., 396.

REDSLOB R., 18.

REICHARDT R., 137.

REID J.PH., 13, 58, 70.

REINCKE O., 18.

RESCIGNO G.U., 11, 22, 136,

271-9, 283-5, 326, 336.

RHINOW R.A., 17.

RICCAMBONI G., 11.

RICHELIEU A.J. DU PLESSIS DE,

89, 101.

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440

RIDOLA P., 9, 14-5, 269.

RIEDEL M., 29, 338.

RITTER J., 29.

RIZZI L., 15, 19.

ROBESPIERRE M.F.I. DE, 151,

264, 324.

ROBINSON H., 33.

RODELLA D., 294.

ROEHRSSEN G., 345.

ROELS J., 17, 108, 141.

ROEVER C., 416.

ROLWEY C.K., 411.

ROMANO A.A., 8, 20, 22.

ROMANO S., 6, 75, 226, 227, 228,

259, 261, 359, 364, 369, 370,

373, 374, 375, 379, 381, 384,

403.

RONCHETTI E., 143.

ROSENKRANZ K.F., 48, 74, 161,

163, 169, 170-1, 173-4, 170, 180,

190, 201, 207, 218, 134, 236,

239, 251, 339, 353.

ROSS A., 282.

ROSSI P., 84.

RÖSSLER C., 48, 74, 163, 164.

ROTONDI M., 401.

ROTTECK C., 152.

ROUSSEAU J.J., 7, 15-9, 56, 73,

82, 88, 94-6, 98-9, 100-8, 118-9,

129, 131, 138, 142, 144, 147-9,

150, 156, 169, 173, 181, 218,

236-7, 245, 262, 285, 292, 327,

418-9, 424.

ROUX A., 12.

RUFFILLI R., 9.

RUFFINI E., 19.

RUFFINI F., 226, 372-3.

RUPPERT K., 48.

RUSSEL B., 410.

RUSSEL M.J., 18.

S. FERRARI, 67.

SABBADINI R., 92.

SAINT-SIMON C. H. DE

ROUVROY DE, 335.

SAITTA A., 133, 136, 142.

SALANDRA A., 353.

SANDULLI A.M. 294, 296, 390.

SANIT-JUST L. DE, 145.

SANTILLANA G. DE, 256.

SANTORO PASSARELLI F., 63.

SAUER W., 18, 25, 206.

SAVI – LOPEZ P., 38.

SAVIGNY C.F. VON, 25, 48, 83,

196-8, 204, 206, 221, 237, 340,

349.

SCALONE A., 14, 47-8, 147.

SCERBO A., 253.

SCHACHTSCHNEIDER K.A., 13,

49, 350.

SCHALLER J., 353.

SCHEFOLD D., 12.

SCHIERA P., 9, 75.

SCHMIDT ASSMANN E., 337.

SCHMIDT R., 397.

SCHMITT C., 13, 15-6, 23, 27, 45,

47-9, 50, 51, 54, 82, 266, 343.

SCHMITT E., 19, 115, 137.

SCHNEIDER H.P., 12.

SCHNUR R., 242.

SCHOFER B., 332.

SCHOPNEHAUER A., 38, 169,

358.

SCHRAMM H., 115.

SCHUMPETER J.A., 147.

SCHÜTTEMEYER S. 11.

SCHWEICKHARDT R., 394.

SCIACCA E., 15.

SCIALOJA A., 67, 401.

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441

SELB W., 329.

SELBY – BIGGE L.A., 34, 36.

SENSINI A., 9.

SHAFTESBURY A.A. COOPER DI,

157.

SIEP L., 162.

SIEYÈS J.E., 10, 14, 39, 49, 50,

64, 71, 75, 84-5, 87, 103, 115,

119, 120, 127, 130-1, 133-, 135-

9, 140-1, 143-9, 150-1, 153, 157,

158, 176, 182, 207, 213, 215,

217-8, 229, 235, 247-9, 250, 252,

254, 269, 281, 289, 290, 292,

322, 324, 415, 418, 422-3.

SIMMEL G., 48, 51.

SIMONNET H., 18.

SIRIANNI G., 303, 312.

SLAPNICA H., 12.

SMEND R., 47-8.

SNELL B., 256.

SOBUL A., 145.

SOLMI A., 403.

SORDI B., 337, 345, 356.

SORGE G., 294.

SORGI, G., 13.

SOULE C., 89.

SPADARO, A., 9.

SPAGNOLETTI L., 310.

SPANTIGATI F., 307.

SPAVENTA B., 353-4.

SPAVENTA S., 345, 347, 353-6.

SPENCER H., 245.

SPINOZA B., 6, 38, 170, 279.

SPIRITO U., 177.

SRTORI G., 11, 15, 63.

ST. ETIENNE R. DE, 152.

STEIGER H., 12.

STEIN L. VON, 163, 178, 204,

206, 237, 253, 339, 340, 343,

348.

STEINBERG H.J., 48.

STERNBERGER D., 17, 325.

STINTZING R., 25, 206.

STRATE L., 154.

STRAUSS D.F., 161.

STRAUSS L, 29.

SUHR D., 19.

SUPLIE K., 394.

TABARONI N., 348.

TAINE H.A., 99.

TALLEYRAND – PERIGORD CH.

M. DE, 70, 106, 125-8, 130-6,

142, 144, 146, 158, 240, 277,

283, 319, 415.

TALMON J.L., 16.

TARELLO G., 197, 221.

TEETETO, 39.

TEGG TH., 33.

TENTONI L., 10.

TERESI F., 10.

TERNEYRE, P., 12.

TESSITORE F., 27.

THAISEN U., 11.

THIBAUT A.F.J., 206, 237.

THOMA R., 13.

THOMASIUS C., 191.

THOMPSON E., 18.

THON A., 221, 357-9, 361, 363,

416.

TOBLER M., 351.

TODESCAN F., 282.

TOGLIATTI P., 257.

TOMMASI C., 38.

TOSATO E., 254, 259, 265-9, 270.

TOSI R., 11.

TOYNBEE A.J., 256.

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442

TRABUCCHI A., 57, 121, 382.

TRACY D. DE, 113.

TRAVERSO M.C., 413.

TREVES R., 26.

TSATSOS D.TH, 12.

TUMIATI L., 312.

ULPH O., 89.

ULPIANUS, 67, 413.

VALMONT, VISCONTE DE 155.

VATTEL E. DE, 245.

VATTIMO G., 40.

VERBARI G.B., 294.

VERNANT J.P., 256.

VIEUZAC B. DE, 134-5, 148, 153,

218, 349.

VIGNAUX P., 73.

VILLENEUVE DE P., 142-3.

VILLEY M., 25, 360.

VINCENTI U., 27.

VIOLANTE P., 17, 114, 116, 118-

9, 132, 135, 141.

VIOLLET A., 92.

VIPIANA P., 309.

VIPIANA P.M., 309.

VIRGA P., 238, 385.

VIRGILIO, 189.

VOEGELIN E, 5, 6, 13, 16, 21, 29,

23, 51, 52, 53, 54, 56, 80.

VOEGELS A., 18.

VOLLAND S., 117.

VOLPE F., 72, 263, 316.

VOLPE G. DELLA, 78.

VOLPI M., 9.

VOLTAIRE J.M.A., 156.

WAECHTER K., 13, 47.

WALPOLE R., 143.

WALTHER C., 12.

WEBER A, 12.

WEBER M. 48.

WEIMER D., 411.

WEISS E., 108.

WENZEL H., 109.

WESTFALEN R. GRAF VON, 12.

WIENFORT M., 343.

WINDSCHEID B., 360, 363, 399.

WITTGENSTEIN L., 280.

WOEHRLING J.M., 337.

WOLF H.J., 18, 390, 392, 395.

WOLFF C., 191, 245.

ZACHER E., 26.

ZANETTI C.F., 414.

ZANETTI, G., 51.

ZANON N., 14, 146, 287-9, 290-

2, 311, 326, 336, 423.

ZANUSO F., 97.

ZAPPATA R., 65.

ZAPPERI R., 136, 146, 218.

ZITELMANN E., 63, 362, 399,

403, 409, 416.

ZOLO D., 15, 147.

ZULEEG M., 397.

ZWEIG E., 18, 141.