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CORSO AGGIORNAMENTO TREPIDÒ CLERO 20 – 21 – 21 SETTEMBRE 2004 ARMANDO MATTEO Il postmoderno spiegato ai parroci

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CORSO AGGIORNAMENTO TREPIDÒ CLERO

20 – 21 – 21 SETTEMBRE 2004

ARMANDO MATTEO

Il postmoderno spiegato ai

parroci

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Il postmoderno spiegato ai parroci

INDICE*

1) Filosofia e Pastorale: che ci azzecca?

2) L’avvento della mentalità postmoderna

3) L’insostenibile leggerezza dell’io. Società, affetti, etica e politica nella

postmodernità

4) La religione postmoderna

5) Il futuro del cristianesimo/1: la parola ai filosofi

6) Il futuro del cristianesimo/2: la parola alla teologia

* Nelle pagine che seguono ho sistemato al meglio gli appunti da me utilizzati per gli incontri tenuti durante il corso di aggiornamento per il clero dell’Arcidiocesi di Crotone-S. Severina, svoltosi presso il Villaggio Palumbo (Crotonei), dal 20 al 22 settembre 2004. Desidero ringraziare S. E. Mons. Andrea Mugione e il prof. don Fortunato Morrone per l’invito e la stima dimostrata. I testi qui riportati non possono, tuttavia, in alcun modo lasciar intuire il clima di intensa cordialità ed amicizia che si è realizzato durante i giorni del corso, arricchiti dalle puntuali e nitide omelie dell’Arcivescovo. Un grato saluto a coloro che vi hanno partecipato,

A. M. ([email protected]).

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Il postmoderno spiegato ai parroci /1

FILOSOFIA E PASTORALE: CHE CI AZZECCA?

1. Introduzione

Il titolo di questi nostri incontri è il seguente: «il postmoderno spiegato ai parroci».

E penso che in prima battuta l’accostamento dei due termini – postmoderno e parroci –

possa suonare quanto meno strano se non addirittura bizzarro. Infatti, che cosa c’entrano i

parroci con la filosofia? Oppure che ci azzecca la filosofia con la pastorale? Qualcuno dei

presenti potrebbe legittimamente protestare di aver studiato già abbastanza filosofia ai

tempi del Seminario, e pertanto potrebbe chiedere la ragione ed il senso di questo

supplemento. Del resto, poiché a me capita di registrare che, quando un parroco parla dei

teologi o della teologia, spesso mostra di coltivare l’idea che la teologia sia una cosa

astratta, riesco solo ad immaginare che cosa non possa evocare nella vostra testa la parola

filosofia. Si tratta, allora, di una provocazione? In un certo senso, sì; perché in questi

incontri ci eserciteremo molto nella scienza filosofica. Il termine “postmoderno” (insieme a

“postmodernità” e “mentalità postmoderna”) è, infatti, la parola-chiave della riflessione

filosofica contemporanea. È, anzi, la categoria filosofica dell’oggi. Ma a che cosa si

riferisce questa parola? Ci risparmiamo tutto il dibattito che da più di venticinque anni

sostanzia la discussione tra i filosofi sulla legittimità di questo termine, sulla sua

trasparenza semantica e così via. Esso, però, mantiene a mio avviso una funzione precisa e

preziosa, che permette di sorvolare sui suoi pur evidenti limiti. Tale funzione viene

egregiamente esposta da G. Angelini: il termine postmoderno

«indica un trend caratteristico delle trasformazioni antropologico culturali, che conosce

nella stagione recente il mondo occidentale».

Pertanto, questa parola mantiene

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«indubbie ragioni di pertinenza quando sia usato per descrivere il mutamento dei modi

di sentire, di giudicare e di agire che sono di fatto caratteristici delle società

occidentali»1.

Non esiste, insomma, nessun altra parola che al pari della parola postmoderno sia

più appropriata per definire il nostro presente, la nostra mentalità, la nostra prospettiva sulla

vita. Qualcosa, allora, del matrimonio che qui si intende celebrare tra filosofia e pastorale,

forse inizia ad essere meno oscuro.

Ma avverto già un’altra possibile obiezione: perché spiegare proprio ai parroci

questa categoria filosofica? Non era sufficiente dire “il postmoderno spiegato ai cristiani”,

oppure semplicemente “spiegato a i preti”? Perché tirare in ballo proprio la figura del

parroco? La risposta è subito detta: la chiesa attuale, in modo particolare quella che si trova

in Italia, sta cercando di rivitalizzare la sua presenza nel territorio attraverso la realtà della

parrocchia. Quali sono, ora, le ragioni di questa nuova scommessa sulla parrocchia? Non si

poteva puntare tutto sui movimenti ecclesiali, che negli ultimi quarant’anni hanno

conosciuto un inedito splendore? Dal punto di vista teologico, la scelta della parrocchia è

una scelta evangelicamente indiscutibile. La fede si dà sempre in una storia concreta, in

fedeltà al principio dell’incarnazione. Se, come a ragione scrive Sequeri,

«Nazaret non è un esperimento provvisorio del Figlio, è uno stile definitivo di Dio»2;

a maggior ragione Nazaret deve essere lo stile della chiesa. Inoltre, accanto e dentro

questa ragione di diritto, ve ne sono altre di fatto ben più cogenti.

I nostri vescovi si sono accorti che la cinghia di trasmissione3 della fede tra

parrocchia e famiglia, tra parrocchia e scuola, tra parrocchia e piazza, ebbene quella cinghia

di trasmissione non funziona più come prima (o non funziona affatto, in qualche caso

sempre meno raro). E non funziona più come prima non solo per la scarsa partecipazione

alla vita della chiesa, ma anche per il fatto che la vita della gente, non più ispirata ai criteri

evangelici di senso, spesso rotola via disperata e delusa. Piace citare un brano dell’ultima

Nota pastorale dei vescovi italiani, intitolata Il volto missionario delle nostre parrocchie in

un mondo che cambia:

«Da tempo la vita non è più circoscritta, fisicamente e idealmente, dalla parrocchia; è

raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi

il campanile che svetta sulle case è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza. 1 G. ANGELINI, La fede e la figura della coscienza, in ID. (ed.), La religione postmoderna, Glossa, Milano 2003, 220.2 P. SEQUERI, Sensibili allo Spirito, Glossa, Milano 2001, X.3 Questa formidabile immagine è di E. SALMANN, Presenza di Spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero, Padova 2000, 5.

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Non a caso si è parlato di fine della “civiltà parrocchiale”, del venire meno della

parrocchia come centro della vita sociale e religiosa. Noi riteniamo che la parrocchia

non è avviata al tramonto; ma è evidente l’esigenza di ridefinirla in rapporto ai

mutamenti, se si vuole che non resti ai margini della vita della gente»4.

Aggiungiamo di nostro che la rivitalizzazione della parrocchia è richiesta anche dal

desiderio evangelico che la gente non continui a restare ai margini della vita.

Per rispondere a tali urgenze, i vescovi hanno scritto che bisogna riscoprire il volto

missionario delle nostre parrocchie. La parrocchia torna così al centro dell’attenzione della

vita ecclesiale.

A mio avviso, tuttavia, guardando bene la nostra realtà ecclesiale italiana, ciò che in

verità torna al centro è la figura del parroco. Ciascuno di noi sa bene, dalla sua esperienza,

che il volto delle nostre parrocchie dipende dalle belle o brutte facce di noi parroci (o di

vicari parrocchiali, come nel mio caso). Non senza ragione F. G. Brambilla, che di questi

argomenti è esperto, ha scritto, a commento della Nota dei vescovi sulla parrocchia:

«La riforma della parrocchia passa in larga parte ancora per la ripresa di una nuova

coscienza ministeriale del prete»5.

È un’espressione che non ha bisogno di molti commenti: è proprio la ripresa di

questa nuova coscienza ministeriale che può servire da volano per quell’auspicata nuova

rivitalizzazione delle parrocchie. Ora, chiediamoci, qual è il ministero del parroco? Di chi e

di cosa si prende cura un parroco? Dove gioca il suo ruolo insostituibile? Penso che la

risposta sia riposta proprio nella sua capacità di far ben funzionare quella cinghia di

trasmissione tra vangelo e vita, tra divino e umano, tra chiesa e piazza, tra oratorio e scuola,

che da tempo ha iniziato ad incepparsi. I vescovi piuttosto francamente hanno richiamato la

tesi della fine della “civiltà parrocchiale”.

Ebbene – e qui si inserisce il proprium di questi nostri incontri - quali sono (o sono

state) le ragioni di una tale difficoltà a procedere? Cosa non funziona più come prima? Che

cosa ci è successo? La risposta a queste domande non è semplice e l’obiettivo di

individuare queste ragioni mi sembra prioritario, un’urgenza non negoziabile nell’attuale

contesto storico della chiesa. Bisogna capire perché qualcosa non funziona più. La sfida di

questi nostri incontri si gioca a questo livello.

Tuttavia, prima di avventurarci alla ricerca delle ragioni che mortificano la nostra

azione pastorale, mi sembra opportuno, anzi necessario, insieme con voi, registrare 4 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il volto missionario delle nostre parrocchie in un mondo che cambia , (30 maggio 2004), n. 2 (il testo è reperibile sul sito della CEI: chiesacattolica.it).5 F. G. BRAMBILLA, Essere parroci oggi, in Rivista del Clero Italiano 84 (2004) 488.

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effettivamente quell’inceppamento di cui abbiamo detto. È una crisi reale quella che

attraversa le nostre parrocchie oppure è una lettura non fedele della realtà? Al riguardo,

certo, avremmo potuto limitarci a leggere i tanti passaggi della Nota dei vescovi sulla

parrocchia, ma è mio desiderio registrare quelle difficoltà nella concretezza della vita, al

fuoco vivo dell’esperienza; nel nostro caso, nell’esperienza di un parroco e della sua

parrocchia.

In altri termini, vista dal nostro punto di vista di parroci e di vicari parrocchiali, (non

quello dei vescovi), come sta oggi la chiesa? Come sta la gente che viene in chiesa e come

sta quella che in chiesa non viene? Questa prospettiva-parroco è necessaria, per dare un

maggiore spessore di concretezza al nostro discorso. Per attuarla, ho scelto di mettermi

all’ascolto di un parroco, che ha appena pubblicato un suo intenso e brillante Diario. Il

collega si chiama don Angelo Busetto ed è parroco di Chioggia, il libro si intitola Vita da

prete. Un parroco si racconta6.

2. Una giornata in sagrestia

Le pagine di don Angelo Busetto sono delle istantanee scattate sulla vita della

chiesa e sulla vita della gente a partire dalla sua visuale di parroco. La sua è una visione

molto equilibrata, ma molto realistica della realtà. Allora vediamo alcune di queste foto.

Da dove iniziamo? Direi di iniziare dai bambini. Ecco cosa ci dice don Angelo

Busetto dell’incontro dei bambini di prima elementare:

«Cominciamo, dunque: “Bambini, preghiamo insieme la Madonna con una Ave Maria”.

Mi accorgo che molte bocche rimangono chiuse e molti bimbi mi guardano con occhi

incerti: loro non sanno l’Ave Maria» (143).

Che qualche bambino non conosca l’Ave Maria, non è cosa molto grave, tuttavia è

da immaginare che qualcosa della fede cristiana l’abbiano già sentita a casa, o no? Altra

foto:

«“Dove abita Gesù?” Una bimbetta risponde. “sulle nuvole”. “perché Gesù abita sulle

nuvole?”. “Perché Gesù è in cielo”. Replico con un’altra domanda: “E allora noi come

possiamo incontrarlo?”. “Quando moriamo – risponde timida ma sicura – andiamo

anche noi in cielo”. In questo dialogo, la prima volta che incontro i bambini di prima

elementare per l’avvio del catechismo, si concentra tutta la semplicità dei bambini, ma

6 Àncora, 2004. È meglio dichiarare subito che le non molte citazioni che noi attingiamo da questo libro non sono in grado di onorarne tutta la bellezza; per questo ne consigliamo vivamente la lettura integrale. La lettura che ne offriamo di seguito è legata strettamente al nostro tema. Le citazioni che seguono derivano tutte da questo libro, il numero di pagina è messo tra parentesi.

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anche tutta l’astrattezza della loro prima educazione cristiana, dove rischia di svanire il

contenuto stesso della fede. I genitori che ancora in qualche modo parlano di fede, e gli

educatori di scuola materna, non avendo più esperienza di un Gesù presente nella loro

vita, non trovano di meglio che indicare il cielo» (176).

E siamo due a zero! Certo i bambini di oggi non sapranno l’Ave Maria e dove abita

Gesù, ma adesso con il nostro catechismo, ci pensiamo noi. Ed ecco un’altra bella foto di

gruppo con signore:

«Queste mamme, che si sono messe in pista per avviare il catechismo dei figli in

seconda elementare, sono tipi incontentabili. Eravamo già partiti con il preavviso dato

alla fine del mese di settembre: “il catechismo dei vostri ragazzi sarà mercoledì dalle

16.30 alle 17.30”. Adesso che stiamo per partire, l’orario proposto non va più bene.

Rilancio la palla proponendo il giovedì. Non va bene. Propongo di separare le tre sezioni

della stessa classe, mettendo due al mercoledì e una al giovedì, e lasciando libera la

scelta del giorno. Non va bene ancora, perché la separazione delle classi in giorni diversi

non giova ai bambini… » (93).

In ogni modo non bisogna scoraggiarsi più del dovuto e c’è da sperare che,

crescendo, questi bambini potranno più liberamente scegliere di frequentare la vita della

parrocchia. Foto di incontro con giovani:

«Una sera i giovani vengono in dodici su undici personalmente invitati: uno s’è

aggregato all’ultimo momento; un’altra sera, di un altro gruppetto invitato per un’altra

circostanza non viene nessuno. Si viene sottoposti a una doccia scozzese: bellissimo e

lieto il primo incontro, deserto il secondo. Se l’umore dovesse seguire gli eventi, con

relativi successi e insuccessi, la vita del prete sarebbe avviata al disastro psicologico»

(77).

Ah, l’umore dei giovani! Chi di noi non ne è mai stato vittima? A questo punto,

sarebbe meglio attendere che i nostri giovani crescano, mettano a posto le faccende del loro

cuoricino e poi se ne potrà parlare, di fede. Foto di incontro con fidanzati:

«L’impressionante distanza dalla fede che si constata nei fidanzati che vengono a

frequentare i famosi “corsi” e, insieme, la generale fragilità dei giovani, inconcludenti

nelle decisioni e incapaci di reggere l’urto della vita, induce molti “operatori pastorali”

ad affermare, quasi come gli ateniesi di fronte a san Paolo nella grande piazza

dell’areopàgo: “Lasciamo stare Gesù Cristo e la sua resurrezione; ne parleremo un’altra

volta”» (177).

Dopo il fidanzamento, il matrimonio; al riguardo il nostro Don Angelo Busetto ci

passa la foto di un collega (e chi di noi non gliene potrebbe offrire altre dieci?):

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«“Sto per arrendermi: avanti con la cantante, con le Ave Marie cantate, con il

sentimento. Chi la tiene orami l’ondata che monta con la celebrazione dei matrimoni? Il

fotografo che traffica davanti e indietro, i fiori che intralciano il cammino da tutti i lati,

il vestito della sposa e delle invitate, che non sai da quale parte castigare, perché da ogni

lato, in alto e in basso, a destra e a sinistra, sopra e sotto scopre e copre…”» (140).

In ogni caso, e noi ci siamo arresi all’evidenza, il giorno del matrimonio è unico

(unico?) e quindi non bisogna farci troppo caso. Vediamo, invece, una giovane coppia, che,

appena sposata, si è trasferita in un’altra città.

«Domando se conoscono il parroco, se frequentano la nuova chiesa. “Purtroppo no –

dicono – ma preghiamo ogni giorno. La nostra chiesa è rimasta questa; quando andiamo

a Messa, veniamo qui”. Non li vedo da molto tempo e realizzo in un lampo quanto

precaria è la vita di fede di una giovane coppia e quant’è problematico l’inserimento in

una nuova comunità» (94).

Nel momento della nascita di una nuova famiglia – proprio in quel momento di

massima fragilità della separazione dal grembo delle famiglie di origine e dell’instaurazione

di nuove relazioni – spesso si cambia città, e l’inserimento nella parrocchia di arrivo non è

scontato. Ma torniamo alla parrocchia di Chioggia, e poiché per nostra fortuna Don Angelo

Busetto non soffre della sindrome di Polifemo, quella per la quale chi ne soffre vede solo in

un senso e sempre quello negativo, le pagine del Diario che stiamo leggendo ci offrono

sprazzi di luce e di gioia intensa. La luce e la gioia sono la fede viva di molti che

frequentano la chiesa: i giovani che tornano dai campi-scuola, la famiglie che si ritrovano

dopo la preghiera nella sagrestia a condividere una pizza, i catechisti entusiasti del loro

lavoro che cercano sussidi sempre più intelligenti ed adatti ai loro ragazzi, interi palazzi che

pregano il rosario dinanzi alla statua della madonna, il senso di responsabilità di coloro che

lavorano con il parroco e altre belle pagine della storia della salvezza che continua

nell’oggi7. Ma il parroco sa che la sua missione è verso tutti. Quanti saranno quelli che si

avvicinano davvero al Signore? Il dieci, il venti per cento? E con gli altri, che bisogna fare?

Ad iniziare da quelli che hanno una fede fredda, così bene fotografati dal nostro don

Angelo:7 Don Angelo Busetto sa bene che non ovunque questo si realizza, anche a proposito dei membri del consiglio pastorale parrocchiale, e ci riporta questa forte testimonianza di un suo amico prete: «“Non so più dove è andato a finire il mio Consiglio Pastorale. Quando ci raduniamo mancano sempre troppe persone, alcune senza alcun preavviso; quelle presenti restano troppo mute o non si coinvolgono abbastanza; altre volte invece si problematizza troppo, senza giungere a conclusioni operative. Oppure si decide anche, ma senza avere gambe per camminare. Di anno in anno poi, le persone mutano prospettiva: alcune scivolano fuori dal cono di luce della parrocchia, prese da vari problemi o preoccupazioni, altre emergono con maggior dedizione e interesse; qualcuno, soprattutto tra i più giovani, cambia condizione di vita: l’università, il matrimonio. Tutto sommato, viviamo una situazione piuttosto bloccata”» (32-33).

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«Un istinto di coerenza li spinge ad essere fedeli a regole liturgiche, morali,

comportamentali, per non soccombere al rimorso della coscienza. Vengono a Messa –

anche se per leggerezza a volte la tralasciano – e stanno rifilati sugli ultimi banchi

attendendo pazientemente che finisca, soddisfatti di adempiere fedelmente l’obbligo.

Rimangono sul filo del rasoio del non fare peccati sfacciatamente gravi; avvertono il

cristianesimo come un peso, una costrizione, un “qualcosa di meno”, al quale vedono

costretta la vita. Se ne andrebbero via definitivamente, se un minimo di scrupolo o di

convenienze non li trattenesse ancora… » (43-44).

Riflettendo, però, il parroco resta comunque una figura importante, insostituibile

almeno in alcuni momenti e per tutti: pensiamo ai funerali. Don Angelo Busetto, tuttavia,

ha avuto qualche esperienza un po’ incresciosa:

«Qualche giorno dopo [il funerale] incrocio in strada un familiare, e mentre lo avvicino

quello mi rimbrotta senza indugio: “Non siamo stati contenti del funerale”. “Perché?”.

“Lei non è venuto giù dall’altare a darci la pace”. È vero. Ho deciso da tempo di non

scendere dall’altare alla Messa del funerale per offrire il gesto di pace ai familiari; avevo

constatato il pericolo di un eccesso di emotività da parte mia o da parte loro; altre volte

mi era parso un gesto formale o teatrale; inoltre vedevo sempre il rischio di “saltare”

qualche persona che poi se ne sarebbe risentito… Tento di spiegarlo – credo senza

successo – al mio interlocutore. Quali strade percorre il dolore e quali esigenze o pretese

mette in azione?» (110).

E la visita al cimitero di Chioggia offre lo spunto per una riflessione significativa:

«Qui invece, anche nei settori comuni e, per così dire, popolari, fioriscono tutt’intorno

varie tombe di marmo, disordinate e fantasiose: un cippo, un triangolo, un rombo, una

vela, uno sghimbescio, un rettangolo e tutte le figure geometriche più fantasiose e

inutili. […e poi Don Busetto si domanda:] Chissà perché la gente adesso va in cerca di

marmi di tutti i colori e di tutte le forme, e non mette più la croce sulle tombe?» (112).

Visto che siamo usciti dalla chiesa, guardiamo il mondo fuori dalla chiesa con gli

occhi di un parroco. Tra le tante foto di don Angelo, ne scelgo alcune: quella dei ragazzi,

dei giovani, della famiglia, della coppia, delle motivazioni fondamentali della vita:

I ragazzi:

«Certo, il problema affettivo è un bel guazzabuglio per questi ragazzi che crescono in

fretta. Li vedi turbati, distratti, chiusi. Si buttano a pesce nel rapporto con la ragazzina o

il giovanotto, sicuri di avere incontrato l’amore definitivo; si allontanano dalla

compagnia giustificandosi con mille alibi, oppure vi stanno ancora dentro erigendo una

corazza che impedisce di fare i conti con la proposta incontrata; sempre in cerca l’uno

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dell’altra, i due non si sganciano mai: timidezza nel paragonarsi con altri, gelosia che

cattura, o morbosità che consuma? Potrà emergere un fascino più grande a far fiorire un

amore senza inganno?» (130).

I giovani:

«I giovani consumano subito tutta la vita che hanno a disposizione, non sanno

risparmiare per il futuro, spendono quello che guadagnano in viaggi, divertimenti,

macchine, aggeggi e vestiti all’ultima moda. Portano a casa oggettini dai paesi esotici, o

mandano cartoline che i benevoli genitori appendono bene in vista nella vetrinetta della

cucina. Vivono insieme con la fidanzata come fossero già sposati; qualcuno ha avuto già

dalla famiglia l’appartamento per andare a vivere da solo o con la ragazza, in attesa della

improbabile decisione di sposarsi. Giorno per giorno la vita si consuma senza attendere

e preparare il futuro. C’è solo il presente: l’attimo fuggente ha fatto scuola. Il tempo è

acqua gettata dentro un cesto, che non viene trattenuta e scivola via; non viene raccolta

dentro canali che irrigano il terreno e portano frutto e poi vengono riuniti nell’alveo del

fiume, e sono condotti all’eternità, dentro il cuore di Dio» (72).

La coppia:

«Qualcuno si è presentato all’inizio del turbamento, spaventato dalla crisi venuta a

sorprenderlo con una inaudita freddezza verso il coniuge o con un imprevisto nuovo

innamoramento; qualche altro s’è fatto vivo a separazione avvenuta» (94).

La famiglia:

«Oggi molto spesso anche la donna lavora, magari solo occasionalmente; oggi i figli

sono oggetto di un assillante “cura intensiva” da parte dei genitori: un solo figlio può

valerne dieci o almeno tre, come occupazione di tempo e di affetto; i figli permangono

in casa assai oltre l’età giovanile, trattenuti dalla paura di lanciarsi al largo per formare

essi stessi una famiglia…

La casa è al centro di tanti drammi: appare quasi il luogo più pericoloso, sia per gli

incidenti domestici, sia per i vari delitti… E allora, quale speranza per la famiglia?» (89-

90).

Le motivazioni fondamentali della vita:

«Ma la promessa di far soldi continua ad essere una calamita irresistibile. E così si vive

in tono minore, nel continuo inseguimento di piccoli e grandi miraggi. Una vita fatta di

speranze fragili, di attese futili, ingannando se stessi e i familiari. A volte si scivola nella

tragedia. Ho visto qualche famiglia rompersi miseramente perché lui era sempre fuori

casa a giocare dilapidando di mese in mese lo stipendio. Ho visto qualche coniuge

angosciato mettersi a ricercare l’altro coniuge nelle varie zone della città, di locale in

locale. Piccoli vizi che succhiano l’anima. Vite dilapidate un poco al giorno. Di fronte a

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fatti così, mi accade sempre di pensare a come tanti spazi di tempo, tante energie di

cuore, di testa, di membra vive, potrebbero essere impegnate per la carità, per la

missione, per mille servizi piccoli e grandi; ne nascerebbe una variegata cooperazione,

una multiforme banca del tempo libero che arriverebbe a sollevare il livello di umanità

di questo nostro mondo, e anche la felicità del cuore umano si dilaterebbe…» (103).

3. Fenomenologia del vissuto di un parroco postmoderno

Facciamo una sintesi delle impressioni che hanno suscitato nel nostro cuore le

pagine nitide di don Angelo Busetto. Penso che la prima esperienza che oggi tocca fare al

parroco è quella della “sorpresa”: qualcosa non funziona più come prima. Poche cose,

troppe poche, funzionano bene. È inutile negarcelo, qualcosa si è sfilacciato: quella famosa

cinghia di trasmissione non funziona più. Dentro e fuori la chiesa. Il parroco, infatti, non si

interessa solo della vita della parrocchia intesa in senso stretto; egli si interessa di tutta la

vita dei suoi parrocchiani. Egli ha cura che la bellezza e la grazia del vangelo pervadano la

mente ed il cuore dei suoi parrocchiani, perché è interessato alla loro felice riuscita anche

sul livello umano. Egli si cura del vangelo perché si cura dell’umano. Ma proprio su questo

livello la constatazione è tutt’altro che positiva: ed è così che nel cuore del parroco si

imprime una grande ferita. Questa è la seconda esperienza forte del parroco postmoderno.

Noi abbiamo tanto da dire e da dare: non siamo proprio noi i famosi vasi di cui parla S.

Paolo, preziosi per il contenuto in essi riversato? Eppure quale difficoltà a far travasare la

grazia nei cuori! Registrare, impotenti, tanti fallimenti extra ed intra ecclesiali ci marca

dentro: ecco la ferita.

Ma non ci si può fermare qui. La terza intensa esperienza del parroco postmoderno

sono le domande. Il libro di don Angelo Busetto è pieno di domande: che fare? da dove

(ri-)cominciare? Come comunicare la presenza viva di Gesù? Come aiutare chi è in

difficoltà? Ma ancora di più c’è da chiedersi: che cosa è successo? Perché è successo

questo che ci capita di registrare? È necessario portare sino in fondo proprio queste due

ultime domande per poter sperare di dare risposta alle prime.

Qui si pone la sfida del futuro: nel gioco tra la nostra ferita e le nostre domande, tra

l’incassare i colpi della fine della civiltà parrocchiale e l’istanza di una parrocchia

missionaria.

Ma a questo punto torna la domanda con cui abbiamo iniziato quest’incontro. E la

domanda è: in tutto questo che ci azzecca la filosofia?

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4. L’aiuto della filosofia

Ebbene questo nostro discorso incrocia la filosofia, perché quest’ultima ha

formulato, con la categoria della postmodernità, una tesi intorno all’umano che a noi

parroci non può non interessare. La cura dell’umano è, come già visto, il cuore della

coscienza ministeriale del parroco. La stessa famosa espressione di sant’Ireneo, per la quale

“Vivens homo, gloria Dei”, potrebbe servire a ribadire che è proprio la cura della vita,

l’attenzione alla qualità dell’umano che si esplica intorno a lui che specifica la coscienza

ministeriale del parroco. Se questo è vero, come potremmo restare indifferenti alla filosofia,

quando essa ci dice che oggi assistiamo agli effetti di una metamorfosi culturale

dell’umano? Una tale metamorfosi si chiama mentalità postmoderna. Siamo, cioè,

all’indomani di un cambiamento radicale dei modi di sentire, di giudicare e di agire

dell’uomo occidentale, che modifica per intero la nostra visione classico-moderna

dell’uomo, della famiglia, dell’etica, della società e della religione. Va aggiunto, inoltre,

che non si è trattato solo di un cambiamento profondo, ma anche di un cambiamento

veloce. Basti qui un solo esempio: Giuseppe Verdi, che a suo tempo era la star

internazionale della musica, è morto nel 1901, mentre Vasco Rossi è nato nel 1952, quindi

solo 51 anni separano questi due musicisti, ma quanti secoli separano la canzone Come stai

e il Va’ pensiero?

La scommessa di questi nostri incontri è tutta qui: il futuro della parrocchia passa

per quell’invocato rinnovamento della coscienza ministeriale del parroco, il rinnovamento

della coscienza ministeriale del parroco necessita di una partecipata attenzione alle

dinamiche culturali in atto. Come afferma A. Staglianò, bisogna fondare la parrocchia del

futuro e il futuro della parrocchia sul quarto pilastro della cultura. Non solo annuncio,

liturgia e carità, ma anche cultura:

«Lavorare su un quarto pilastro, quello della cultura, non significa “far accademia”

(magari anche un poco e un pò meglio, perché no). E’ invece ripresa dell’annuncio del

kerigma che, in società post-cristiane, impone un discernimento critico circa le forme

dello spirito umano che lo invocano e lo consentono: da qui l’importanza di trovare le

parole adeguate nelle quali far risuonare il Vangelo come salvezza per l’esistenza,

predicando un Dio interessato alla vita dell’uomo (un Dio per gli uomini, fino all’amore

crocifisso)»8.

8 A. STAGLIANÒ, Pensare la fede. Cristianesimo e formazione teologica in un mondo che cambia, Città Nuova, Roma 2004, 101.

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Che cosa faremo nei prossimi incontri? Ci prenderemo una pausa: una pausa di

riflessione. Ci sia concessa un’ultima citazione di M. Ende, autore de La storia infinita:

«Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un

attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci»9.

Consentire alle nostre anime di raggiungerci, questo vorrebbe essere l’obiettivo dei

nostri incontri. Così forse saremo parroci non solo sorpresi, feriti e messi in discussione dal

cambiamento postmoderno dell’umano, ma parroci presenti al proprio presente, parroci così

appassionati della sorte dell’umano loro affidato che si rendono, in questo scenario

stupendo della sila calabrese, perfino disponibili a tornare a scuola di filosofia!

9 Il brano è ripresto da G. RAVASI, Mattutino in Avvenire, 7 luglio 2004, 1. Mons. Mugione ci ha rivelato che in realtà questa espressione è dovuta agli Indiani di America.

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Il postmoderno spiegato ai parroci /2

L’AVVENTO DELLA MENTALITÀ POSTMODERNA

1. I “luoghi” della crisi e della nascita

Quando parliamo di avvento della mentalità postmoderna, non dobbiamo pensare ad

una frattura istantanea con la precedente stagione culturale della modernità, quanto

piuttosto ad una serie di avanzamenti sempre più radicali rispetto ad essa. La postmodernità

nasce proprio da un processo ed un percorso di distanziamento dalla modernità, sulla via

aperta dalla promessa di riuscire sino in fondo in questa impresa. Questo giustifica un

riferimento sintetico all’identità culturale della modernità. Sebbene oggi gli studiosi ci

invitino a non leggere in modo troppo univoco la modernità10, è possibile rintracciare alcuni

caratteri ben definiti di essa. La modernità è quel periodo culturale che inizia con Cartesio

(1596-1650) e trova il suo culmine nell’idealismo tedesco. Elemento centrale della

modernità è il primato assegnato al soggetto, alla sua capacità di conoscere e di organizzare

in modo razionale il mondo. A partire dai secoli XVI e XVII, distrutta l’immagine

medioevale di un cosmo teocentrico, cui contribuì non poco la rottura protestante di Lutero,

l’uomo prende il posto di Dio e diventa il grande architetto della progressiva ed

inarrestabile emancipazione dell’intera umanità.

Su e contro questo sfondo accade che tra la metà dell’ottocento e la prima metà del

novecento, si sviluppino una serie di pensieri, di trasformazioni sociali, di cambiamenti di

costume che segneranno il passaggio dalla modernità alla postmodernità, che si consuma

pienamente solo nella svolta degli anni ottanta del novecento. Per ragioni di chiarezza

distinguiamo tre grandi “luoghi” di maturazione della crisi della modernità e dell’originarsi

della postmodernità11.

10 Informatissimo e dettagliato il quadro offerto da C. DOTOLO, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, Las, Roma 1999, 35-158.11 Questa distinzione ha un intento chiarificatore: alcuni eventi cui si farà riferimento accadono simultaneamente.

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1.1. La crisi della ragione

Il primo “luogo” è quello della crisi della ragione, cioè della messa in discussione

della sua capacità di offrire un quadro complessivo di orientamento per il sapere, l’agire e

l’esercizio della libertà dell’uomo. Come si manifesta questa crisi? Dobbiamo distinguere

due tipi di crisi: la crisi della ragione storica e quella della ragione scientifica. Per quanto

riguarda la prima, si tratta, all’inizio del XX secolo, di un sentimento generale di sfiducia

nei riguardi del progresso indefinito promesso dalla cultura e dalle scienze moderne. È il

periodo della corsa agli armamenti e poi della prima guerra mondiale. Gli uomini iniziano a

chiedersi, soprattutto dopo la guerra del 1915-18, se questo era il grande progresso atteso e

a cui si erano sacrificate tante energie nei secoli precedenti12.

Questo sentimento di sfiducia nell’uomo e nelle capacità della sua ragione venne

magistralmente registrato e con largo anticipo rispetto alla sua diffusione generale

soprattutto dai grandi scrittori di inizio secolo: il nome di R. Musil e del suo romanzo

L’uomo senza qualità restano un riferimento obbligato.

Accanto a questa constatazione empirica del fallimento delle aspirazioni al

progresso da parte dell’uomo, va ricordato che ad incrinare la fiducia nella ragione

provvide anche l’avvento imperioso delle scienze umane – sociologia, etnologia,

antropologia – che imposero il riconoscimento del condizionamento culturale sull’agire

umano. Cosa avrà pensato il soggetto moderno, quello che nasce con l’“io penso dunque

sono”, quando Darwin gli rivelò che discendeva da una scimmia? E come sottovalutare

l’arrivo e l’impatto della psicologia su una tale autoconsapevolezza moderna - quella

psicologia di stampo freudiano che pone al centro la tesi per la quale l’agire dell’uomo

cosciente è largamente debitore di motivi inconsci, difficilmente controllabili con i sistemi

di razionalità finora conosciuti? Al primo posto, quindi, non siede più la ragione con le sue

ragioni.

Parallelamente a questa crisi della razionalità classica, dobbiamo registrare

l’emergere di un nuovo modello di pensiero, incarnato dalla filosofia del dialogo di Buber,

dalla fenomenologia di Husserl, dalle movenze del romanzo di Kafka. Sono tutti

rappresentanti di un pensiero ebraico, che avrà un peso decisivo nella definizione della

razionalità postmoderna. In modo insuperabile offre al riguardo un’illuminazione E.

Salmann: 12 Immaginiamo cosa accadde – su questo livello della crisi della ragione storica - dopo il secondo conflitto mondiale e la presa di coscienza pubblica della tragedia dell’olocausto. Chi potrebbe oggi più parlare ingenuamente di progresso dell’umanità, di speranza per un mondo migliore, di una razionalità che conduce sempre e comunque al bene di tutti?

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«Già il fatto che un tale pensiero diventa preponderante, mentre era stato a lungo

considerato come finito e relegato alla tradizione precristiana, dovette essere uno

stimolo per la decostruzione sia della modernità cristiana che per quella laica. Senza di

esso non ci sarebbe potuto essere il cambiamento dello sguardo (tutto viene visto

spostato al punto di vista della vittima, non al punto di vista del vincitore), e della logica

(il primato del nulla – senza alcuna conciliazione dialettica), il primato della distanza

(senza l’attenuante di una differenza che unifica), dell’altro (rispetto all’io), della

giustizia (rispetto alla verità), della descrizione (rispetto alla definizione), dell’intuizione

e del dinamismo (Bergson e Freud) rispetto alla stabilità, dell’ospitalità accogliente

rispetto ad ogni superamento, in una parola il pensiero postmoderno»13.

Abbiamo detto che è possibile individuare una seconda crisi della ragione: quella

della ragione scientifica. Il Novecento si apre mettendo in discussione la fisica e la

matematica classiche, cioè i saperi-guida della ragione moderna (cf Cartesio e Kant con i

loro progetti di assegnare un protocollo di scientificità alla filosofia). Innanzitutto la teoria

della relatività di Einstein (anch’egli ebreo) impedisce di intendere il tempo e lo spazio

come unità assolute, poiché – questo è il cuore della teoria - è sempre necessario tenere

conto del punto di vista dell’osservatore. Questo non solo manda in soffitta la fisica di

Newton, ma segna la fine di qualsiasi concetto di oggettività. Chiarifica bene il dato U.

Galimberti:

«Nella microfisica, dove la scienza è possibile solo grazie alla perfezione degli

strumenti messi a disposizione dalla tecnica, l'oggettiva posizione della particella

subatomica è indeterminabile, in quanto le condizioni tecniche dell'osservabilità alterano

lo star-di-contro, e quindi l'oggettività dell'osservato. La domanda: che cos'è la natura si

converte nella domanda: che cos'è la conoscenza. L'oggettività non riesce a costituirsi o,

se è concettualmente precostituita, si dissolve, perché il livello d'esperienza è anteriore

al differenziarsi di soggetto e oggetto. Se, come dice il principio di indeterminazione di

Heisenberg, per “vedere” una particella subatomica occorre illuminarla, e

l'illuminazione, cozzando contro la particella, la devia, ciò che si “vede” non è la

posizione della particella, ma la collisione che ne deriva e che non consente di stabilire

la posizione della particella prima della collisione del raggio luminoso richiesto per

osservarla. In questo modo, la posizione della particella è un inosservabile, perché

osservabile è la collisione della particella con le condizioni dell'osservabilità»14.

13 E. SALMANN, Der geteilte Logos. Zum offenen Prozeß von neuzeitlichem Denken und Theologie, Benedictina, Roma 1992, 423-424.14 U. GALIMBERTI, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Marietti, Torino 1975, 135.

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Come parroci, non dovremmo mai dimenticare che un tale tesi dell’impossibilità

dell’oggettività è il primo dogma cui vengono iniziati i medici, gli ingegneri, i professori di

fisica e di matematica, che frequentano le nostre chiese. Immaginate quanta fatica comporti

per costoro comprendere l’affermazione cattolica che l’embrione fin dal primo momento

del suo concepimento è oggettivamente un essere umano.

Non va, poi, passato sotto silenzio il teorema di incompletezza di Gödel e la logica

intuizionistica di Brouwer che stroncano sul nascere l’ideale dell’autofondazione del sapere

matematico (il riferimento è a B. Russell): i numeri sono prodotti della mente umana. E

possiamo dimenticare l’avvento delle geometrie non-euclidee?

Cosa comporta tutto questo per la ragione e per le sue pretese? Ecco una diagnosi

classica del risultato complessivo di queste crisi della ragione:

«Il ricorso alle grandi narrazioni è escluso; non si sarebbe più in grado di ricorrere né

alla dialettica dello Spirito né all’emancipazione dell’umanità per la validazione del

discorso scientifico postmoderno. Ma, l’abbiamo appena visto, la “piccola narrazione”

resta la forma per eccellenza dell’invenzione immaginativa, innanzitutto nella

scienza»15.

L’uomo postmoderno attribuisce validità solo ai piccoli e parziali discorsi ed una

tale situazione, da una parte, conduce alla paradossale situazione di alcuni atenei

statunitensi, nei quali sono sorte delle riviste che traducono i risultati di un gruppo di

ricercatori in un linguaggio comprensibile ai ricercatori di altri settori: anche il linguaggio

tecnico (quello dei numeri e delle formule) diventa iperspecialistico; dall’altra, sulle ceneri

della ragione classica avanza con insistenza una forma ermeneutica di ragione, che si

dispone all’interpretazione, in modo meno dogmatico e più aperta alle possibili variazioni

dell’esperienza. Quest’ultima però risulta troppo spesso inevitabilmente incapace di porre

un punto d’arresto alla sua azione di interpretazione. In questo senso, Derrida può affermare

che fuori del testo, cioè fuori da un’interpretazione, non c’è nulla.

1.2. L’avvento della tecnica

Il secondo “luogo” del processo verso la postmodernità è dato dall’avvento in

grande stile della tecnica. Il cambiamento decisivo sta nel fatto che, a partire da un certo

momento16, la tecnica non è più un mezzo a disposizione dell’uomo, ma diviene l’ambiente

15 J-F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979), 110.16 Ad avviso di Galimberti la data di nascita di questo cambiamento è il nazismo: «L’esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio per l’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità di

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entro il quale l’uomo definisce le coordinate della sua esistenza. Galimberti, recentemente,

ha analizzato proprio questo cambiamento. A suo avviso, infatti,

«finché la tecnica a disposizione dell’uomo era appena sufficiente per raggiungere quei

fini in cui si esprimeva la soddisfazione dei bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il

cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta

quantitativamente, al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine,

allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la

rappresentazione, la ricerca e l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma è la cresciuta

disponibilità tecnica a porre qualsivoglia fine che per suo tramite può essere

raggiunto»17.

L’apparato tecnico, cioè, avrebbe smesso di rispondere ai bisogni dell’umanità e

avrebbe intrapreso una corsa senza soste verso il proprio autoperfezionamento assoluto,

cioè sciolto dal riferimento alle necessità degli esseri umani. Per cui già oggi la tecnica,

tramite l’economia e l’economia tramite la pubblicità, non risponde più ai nostri bisogni,

ma ne sollecita la nascita di nuovi (e assolutamente non necessari) ai quali risponde con i

suoi ultimi ritrovati. L’esempio tipico di bisogno indotto potrebbe essere la videochiamata.

Tutti siamo d’accordo che l’uso del telefono è utile, tutti siamo altrettanto d’accordo che

anche il cellulare esplica egregiamente il suo compito, ma era proprio necessario vedersi

mentre si comunica a distanza? La pubblicità, che la è lunga mano della tecnica, dovrà

convincerci proprio di questo. Noi compreremo i videotelefonini e l’apparato tecnico

disporrà di maggiore denaro da destinare al proprio perfezionamento e così di seguito.

Attraverso questo riorientamento del desiderio verso oggetti non essenziali all’uomo,

attraverso la sottomissione dell’economia e conseguentemente della politica alle proprie

esigenze (e poi a seguire dell’etica e della cultura), l’ascesa al dominio della tecnica è

totale.

La tecnica si insinua inoltre in modo pervasivo nella nostra società attraverso

l’altissima burocratizzazione della vita civile: tutto viene formalizzato e ridefinito

attraverso procedure logicamente più efficienti. Anche il nostro modo di lavorare viene

ridisegnato secondo questa logica di efficienza e di competitività, ma con notevoli effetti di

contraccolpo sulla nostra sensibilità.

un’organizzazione, per la quale “sterminare” aveva il semplice significato di “lavorare”, può essere assunto come quell’evento che segna l’atto di nascita dell’età della tecnica» (Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, 47).17 GALIMBERTI, Psiche e techne , 339.

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Un settore particolare è costitutivo poi dalle comunicazioni sociali, grazie alle quali

siamo in grado in tempo reale di conoscere moltissime notizie, ma decisamente più di

quelle che siamo in grado di elaborare o semplicemente di sopportare. E cosa dire della rete

Internet, a cui in genere ci si avvicina con grandi speranze? Il suo esagerato uso produce un

senso di disorientamento molto forte: e ben presto chi naviga si accorge di non essere lui al

timone del suo computer… (sono già state registrate le prime patologie di dipendenza da

Internet).

Bisogna, poi, coniugare l’avvento della tecnica con il boom economico degli anni

’70 ed ’80 del ventesimo secolo. Mediamente oggi un cittadino della classe media

dell’occidente si può permettere un tenore di vita mai sperimentato prima, con la continua

tentazione di vivere sempre al di sopra delle proprie possibilità. Questo vale anche per noi

parroci: non dovremmo mai dimenticare che il troppo benessere ci può far letteralmente

girare la testa.

Certo, in voi potrebbe sorgere questa legittima domanda: ma tutto questo cosa

c’entra con la parrocchia? Per scoprire il nesso, prestiamo ascolto ad Angelini:

«La grande mobilità locale del singolo, che si accompagna alla diffusione generalizzata

dell’automobile e della locomozione in genere, ha il potere di produrre un netto distacco

del singolo dal sistema dei rapporti locali, e quindi anche della tradizione orale,

realizzata attraverso il rapporto delle generazioni. La fine del mondo cattolico – per dire

subito del riflesso pastorale più cospicuo – è significativamente legata all’avvento del

fine settimana fuori sede.

Nello stesso senso, e in forma ancor più efficace, opera la diffusione dei nuovi mezzi di

comunicazione a distanza, sempre più rapidi e generalizzati; della televisione in specie;

essa mette il singolo in rapporto di contiguità con un mondo diverso da quello legato al

territorio e alla prossimità biografica. Sorprende sempre da capo constatare quanto gli

apprezzamenti sintetici del singolo a proposito della propria situazione esistenziale

dipenda dai messaggi del telegiornale.

La lievitazione della ricchezza, poi, e quindi la moltiplicazione delle possibilità di

consumo, opera nel senso di conferire alle scelte del singolo nel tempo libero la qualità

di consumo, di fruizione cioè di una possibilità esistenziale la quale, in prima battuta, è

apprezzata in forma soltanto immaginaria, attraverso la considerazione cioè

dell’immagine corrispondente.

Per altro lato, la sofisticazione dei processi di divisione sociale del lavoro, legati al

progresso tecnologico e alla connessa complicazione della regolazione burocratica,

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genera una complessità di rapporti sociali – tipicamente, di quelli professionali – che li

rende sempre meno idonei a valere quali rapporti identificanti»18.

Ci avviciniamo all’ultima tappa del percorso che porta dalla modernità alla

postmodernità. Si tratta dell’annuncio della morte di Dio.

1.3. La morte di Dio

Era il 1882, quando Nietzsche scrive il famoso paragrafo 125 de La gaia scienza.

«Cerco Dio, cerco Dio», grida il folle e poi dice: «Noi l’abbiamo ucciso!»19.

Quell’annuncio non è una proclamazione di ateismo da parte di Nietzsche, piuttosto è la

pubblica denuncia che l’uomo occidentale non crede più alla metafisica, alla verità, agli

ideali, ai valori. Lo stesso Nietzsche, nel 1886, specifica:

«Il più importante degli eventi recenti, che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è

divenuta inattendibile, già getta le sue prime ombre sull’Europa».

Limpido il commento di Heidegger:

«Ma è altrettanto certo, e da tener presente fin d’ora, che le espressioni “Dio” e “Dio

cristiano” sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo sovrasensibile in

generale. “Dio” è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali. Questo

mondo del sovrasensibile vale da Platone – o, meglio, dalla tarda interpretazione greca e

da quella cristiana della filosofia platonica - come il mondo vero, l’autenticamente reale.

In opposizione ad esso, il mondo sensibile è semplicemente il mondo di qua, il mondo

mutevole, apparente e irreale. Il mondo di qua è la valle di lacrime, contrapposta

all’eterna beatitudine ultraterrena. Se intendiamo, come ancora fa Kant, il mondo 18 G. ANGELINI, Introduzione, ID., La religione postmoderna, 14-1519 Vale la pena leggere per intero questo testo: Citazione da Hedigger 196 e seguente«Non avete mai sentito parlare di quell’uomo pazzo che, in pieno mattino, accesa una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza posa: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro grande ilarità. Uno disse: “L’hai forse perduto?”, e altri: “S’è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?”. Così gridavano, ridendo fra di loro... L’uomo pazzo corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: “Che ne è di Dio? Io ve lo dirò. Noi l’abbiamo ucciso – io e voi! Noi siamo i suoi assassini! Ma come abbiamo potuto farlo? Come potevamo bere il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontano da ogni sole? Non continuiamo a precipitare: e indietro e dai lati e in avanti? C’è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno? Non sentiamo nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo l’odore della putrefazione di Dio? Eppure gli Dei stanno decomponendosi! Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come troveremo pace, noi più assassini di ogni assassino? Ciò che vi era di più sacro e di più potente, il padrone del mondo, ha perso tutto il suo sangue sotto i nostri coltelli. Chi ci monderà di questo sangue? Con quale acqua potremo rendercene puri? Quale festa sacrificale, quale rito purificatore dovremo istituire? La grandezza di questa cosa non è forse troppo grande per noi? Non dovremmo diventare Dei noi stessi per esserne all’altezza? Mai ci fu fatto più grande, e chiunque nascerà dopo di noi apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa”» (F. NIETZSCHE , La gaia scienza, in Opere di F. Nietzsche, Adelphi, Milano 1977, 163-164).

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sensibile come mondo fisico nel senso più ampio, il mondo sovrasensibile diverrà il

mondo metafisico.

Così l’espressione “Dio è morto” significa che il mondo ultrasensibile è senza forza

reale, non dispensa vita alcuna. La metafisica, cioè – per Nietzsche – la filosofia

occidentale intesa come platonismo, è alla fine»20.

Nietzsche, quindi, si limita a registrare proprio questa sfiducia dell’uomo (non-più-

moderno) nei confronti della disposizione gerarchica della realtà (mondo sensibile e mondo

sovrasensibile), della verità e dei valori. L’uomo non-più-moderno ha smesso di credere in

un Dio. E non crede più neanche alla ragione ed al suo ideale di un progresso intrastorico

destinato a rendere emancipata dai suoi limiti l’intera umanità.

Nietzsche registra con profondo intuito e con largo anticipo rispetto alla sua

realizzazione totale quella che a piena ragione Natoli definisce una secolarizzazione della

secolarizzazione:

«Se la prima [quella che porta dal medioevo alla modernità] è stata una secolarizzazione

della salvezza, quella contemporanea [che porta dalla modernità alla postmodernità] è

una secolarizzazione dalla salvezza. La prima aveva reso immanente il trascendente,

mantenendone in qualche modo il modello: dalla salvezza dal tempo, alla salvezza nel

tempo. Il grande progetto umano di conquista del futuro, l’uomo al posto di Dio. La

secolarizzazione della secolarizzazione dissolve l’idea stessa di salvezza, intesa come

fede in una salvezza incondizionata ed assoluta. Gli stessi progetti umani sviluppano

dentro di sé troppe controfinalità per poter confidare ancora in essi, coltivare

presunzioni di onnipotenza. Gli uomini - intendo gli uomini medi – oggi non sentono

più bisogno di essere salvati, se non nel senso di migliorare comparativamente le proprie

condizioni di vita»21.

È in questo contesto che si spiega anche la riscoperta contemporaneo del fascino del

mondo greco, del genio del paganesimo, di una vita ricca di soddisfazioni terrene,

immediate, segnate da uno spirito dionisiaco, di un contatto diretto con il sacro politeistico,

impersonale, anonimo, vicino alla religione/sapienza orientale: pensate allo stesso

Nietzsche, ad Hölderlin, ad Hesse, a tutta la seconda speculazione di Heidegger sul tema

del sacro. E come dimenticare le nostre discoteche, le follie del sabato sera, la cura

minuziosa del proprio corpo? Ovunque sorgono discoteche con nomi greci (panta rei) e

centri estetici intitolati Tempi della bellezza.

20 M. HEIDEGGER , La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in ID. , Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 19973 (ed. or. 1950), 191-246: qui 198.21 S. NATOLI, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999, 119.

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Tutte le istanze, che fioriscono in seguito all’annuncio della morte di Dio,

troveranno la loro grande confluenza nella rivoluzione socio-culturale del 1968, segnata dal

sogno della democrazia, della liberalizzazione dei costumi, e dell’espressione delle

singolarità.

Prima di passare, ora, alle svolte che definiscono la mentalità postmoderna, vi

ricordo che le grandi arti (musica, pittura, architettura) accompagnano e anzi spesso

anticipano questi momenti di mutazione, di scoperta delle ambiguità della modernità e di

apertura sulla postmodernità. La vicenda personale di Picasso è al riguardo altamente

emblematica.

2. Le svolte della mentalità postmoderna

Per definire ora a grandi linee la mentalità postmoderna, cioè lo stile di essere, di

pensare, di agire dell’oggi, possiamo aiutarci identificando tre grandi svolte rispetto al

passato22.

2.1. Svolta e mentalità antiideologica

La prima svolta è quella antiideologica, che può essere così sintetizzata: «non esiste

la verità, e questo è vero». Si tratta di un’evidente contraddizione, che viene assunta tuttavia

come tale: siamo nei paraggi del cosiddetto pensiero debole di G. Vattimo (cui di seguito

faremo riferimento). Tale prospettiva filosofica sembra quella che meglio interpreta questa

svolta: l’uomo contemporaneo ha definitivamente rinunciato alla pretesa di trovare una

verità. La verità divide. Oggi si cerca invece unione, compagnia. Per questo tutti possono

avere ragione, purché nessuno pretenda di essere nella verità. Tutti possono dire cose

interessanti, purché nessuno pretenda di essere l’unico a dirle. Anche la religione ha diritto

di asilo nel mondo postmoderno, anche i preti, purché non pretendano di presentare un Dio

monolitico, unico. C’è posto solo per una divinità che faccia da sfondo alle vicende

dell’uomo e che abbia tratti materni (vedremo poi meglio questo aspetto).

Ognuno diventa così consapevole che anche nel partito contrario al suo c’è più di un

granello di verità e di conseguenza si è troppo fiacchi per creare opposizioni vere. Le nostre

esperienze di confronto con chi ci è diverso sono vissute alla luce dell’ideale democratico e

del pacifismo. I nostri nervi sono troppo tesi e troppo molli per scontrarci davvero: ed è per

22 Debbo l’intero spunto per questa impostazione a E. SALMANN, Contro Severino. Incanto e incubo del credere, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996, 311-321.

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questo che la lotta avviene attraverso i mass media (repliche, repliche di repliche e così

via).

Dal nostro peculiare punto di vista, non dovremmo farci prendere ancora una volta

dalla sindrome di Polifemo e cogliere solo gli aspetti negativi di questa svolta. Il

cristianesimo si è sempre fatto paladino della forza del dialogo contro ogni tentativo di

benedire il dialogo della forza. Il cristianesimo ha al cuore l’annuncio della pace e del

rispetto di tutti. Certo, ed è qui il nocciolo duro della sfida del futuro, il cristianesimo sa che

la rinuncia alla verità non è la condizione migliore per un esercizio autentico della nostra

libertà e di un sincero incontro con l’altro. Ma tutto questo deve essere riproposto in modo

innovativo, evitando la scorciatoia di quelli che fanno finta di non vedere che il mondo in

cui siamo chiamati ad annunciare il vangelo è davvero cambiato.

2.2. Svolta antiaristotelica

La seconda svolta è quella antiaristotelica, il cui principio base è “tutto in rete, tutto

in relazione”. È l’aspetto più pervasivo della tecnica nella nostra mentalità. Poiché per

l’apparato tecnico non esistono sostanze fisse, immutabili, allora tutto può diventare tutto.

L’uomo postmoderno, di conseguenza, non riconosce più alcun elemento di stabilità alle

singole cose della realtà (le sostanze), ma considera tutto in relazione ed assegna il valore ai

diversi elementi del reale a secondo del tipo di relazione che instaurano con gli altri

elementi del sistema cui appartengono. Il valore non si riconosce a ciò che è, ma allo scopo

per cui una cosa serve.

Questo vale anche per il mondo degli umani: ciascuno di noi diventa una funzione e

vive in funzione di qualcosa o di qualcuno. Lentamente assistiamo alla messa in opera della

riscrittura della nozione di individuo (originariamente, colui che non-divide, colui che

custodisce per sé ed in sé uno spazio di interiorità, da cui attingere la sua identità e la sua

energia): la verità della persona, nel mutato scenario culturale, non è data più dalla sua

identità (indivisa), ma dalle sue relazioni. L’uomo non ha più relazioni, l’uomo è le sue

relazioni: in esse, per esse e con esse vive e si perde.

La tecnica, poi, con il primato della relazione, intacca moltissimo anche la vita

sociale. Il primo indice di un tale processo è la perdita dei ruoli fissi e definiti socialmente:

pensiamo alla famiglia (cosa significa oggi essere madre, padre, figlio, marito, moglie?

Ogni coppia decide per sé, all’interno delle sue relazioni; cosa significa oggi essere

professore, preside, bidello? E per il nostro caso, cosa significa essere prete, parroco, suora,

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vescovo? Non raramente verifichiamo in qualche confratello la perdita di quel riferimento

all’oggettività del ministero, con i suoi obblighi ed i suoi ritmi, che è una vera àncora di

salvezza, nel nostro mondo fluidificato).

In questo clima, non hanno più un peso maggiore le strutture forti (famiglia,

comunità parrocchiale, partito politico), ma le strutture mobili (coppie di fatto, cammini

spirituali, movimenti politici). L’uomo stesso perde il suo valore autonomo e diventa parte

di un sistema ed ottiene riconoscimento solo in quanto parte di un sistema.

Anche qui non saremo certo noi a disconoscere la positività di questa svolta rispetto

all’antropologia cartesiana e leibniziana (quella del dualismo corpo-anima e quella delle

monadi senza finestre), ma siamo pronti a pagare l’alto prezzo che comporta tutto ciò?

2.3. Svolta antiplatonica

La terza svolta è quella antiplatonica, la cui parola d’ordine è: “tutto è qui”; si tratta

di quella parola d’ordine che ogni giorno la pubblicità ricorda alle nostre menti e ai nostri

cuori. Per la razionalità economica, infatti, non ci sono altri mondi oltre questo o dietro di

questo, tutto è a disposizione, tutto è qui, pronto per essere consumato. L’uomo

postmoderno, di conseguenza, riduce l’orizzonte delle sue attese, limita il suo sguardo al

dato, al presente, all’immediato, al sentito; non riconosce più valore al valore del “sovra”

(personale, storico ecc.).

E così, noi parroci, comprendiamo perché per i nostri fedeli non c’è più alcun

paradiso da attendere e alcun inferno da temere. L’eterno è nell’attimo, il tutto è nella parte.

Qui e ora. E nient’altro. Non c’è una scelta contro o pro Dio. Semplicemente non c’è Dio. Il

regno della metafisica dei valori, degli assoluti, dell’immobile e dell’eterno rappresenta un

vecchio ricordo del piccolo mondo antico preconciliare, pre-“Canale5”, dal quale l’uomo

contemporaneo ha semplicemente preso congedo. Tutto può eccitarci, ma solo per qualche

giorno. Siamo nel regno del fastfood e del fastdrink, del fastlive. Si è appiattita la verticale

del desiderio umano.

Questo aspetto è quello che ci allarma di più, specialmente quando vediamo la vita

dei nostri parrocchiani ingarbugliarsi dietro scelte che, concedendosi maggior tempo,

sarebbero state gestite con più buon senso (acquisti spropositati, rapporti sessuali non

protetti, gioco d’azzardo, velocità eccessiva nella guida).

Da questo punto di vista la gente oggi non ha bisogno di fede, ha bisogno di buon

senso, e grazie a Dio il vangelo è carico di buon (e bello) senso. Per questo troviamo tante

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persone che vengono da noi con mille quesiti che apparentemente non hanno nulla a che

fare con la vita parrocchiale dei sacramenti e delle celebrazioni, ma hanno a che fare con

con quello stress che li assedia giorno e notte, perché non vogliono perdere l’occasione

giusta.

Anche nei confronti di questa incredibile sete di godimento che assale i nostri fedeli,

la nostra reazione non deve essere motivata da risentimento: la gioia del presente è inscritta

nel codice essenziale del messaggio di Gesù; si tratta di trovare il giusto equilibrio tra i

nostri bisogni e i nostri desideri. Tema sul quale tra poco ritorneremo.

3. Sacramenti dell’iniziazione postmoderna

Forse ora cominciamo ad avvertire come tutto questo cambia (ha cambiato) la vita

religiosa della nostra gente. Queste svolte, radicate in quel cammino che la civiltà ha

percorso negli ultimi centocinquanta anni, dovrebbero iniziare a rendere conto di

quell’effetto “sorpresa” che il parroco riceve, quando riflette su ciò che capita nella vita

della gente e nella vita della sua parrocchia.

Ma come entra nel quotidiano questa mentalità? La mentalità postmoderna viene

appresa, trasmessa, oserei dire in modo quasi sacramentale, attraverso l’accesso dei più

piccoli a tre “luoghi” strategici, dove si apprende l’umano postmoderno: la città, lo stadio, il

centro commerciale.

Nella fase moderna della civiltà noi avevamo una città costruita intorno alla

cattedrale: questo dava un senso al proprio cammino; in questa fase della storia le regole

della socialità si apprendevano a scuola, che era il momento iniziatico dell’apprezzamento

della differenza; infine c’erano le vetrine, con pochi oggetti e di difficile acquisto: la vetrina

era un vero e proprio luogo di gestazione del desiderio.

Oggi l’esperienza della città postmoderna (caoticamente costruita sulla base di

quella moderna, dopo la seconda guerra mondiale) è l’esperienza di un luogo senza centro

ovvero di un luogo policentrico: tutto può iniziare e tutto può finire da qualsiasi luogo (non

dimentichiamo l’entusiasmo dei nostri adolescenti per le gite scolastiche, che spesso li

portano nelle grandi città); in secondo luogo, le istruzioni per la relazione con l’altro

vengono apprese nello stadio di calcio: o siamo per la stessa squadra o siamo nemici; ed

infine all’esperienza della vetrina si sostituisce quella del centro commerciale, luogo nel

quale il desiderio non può crescere: è tutto qui o un po’ più sopra o un po’ più in giù o un

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po’ più a destra. Il desiderio ha invece bisogno di tempi di differerimento e di

differenziazione per verificare la propria autenticità.

4. Le stigmate della postmodernità

È necessario ora riflettere su un punto conclusivo di rilievo. Partiamo da questa

domanda: quali sono, in sintesi, i punti di orientamento della mentalità postmoderna? Sono,

a mio avviso, tre: primato della prospettiva, primato della relazione, primato della

sensibilità.

Ne abbiamo già visto prima i contenuti (non ci sono punti fissi, non esiste

un’identità fuori dalla relazione, si decide in base a ciò che si sente), ora va preso coscienza

di un altro fattore e cioè che una vita segnata da questi primati non è così semplice da

vivere come potrebbe apparire a molti. A proposito di questi tre primati non a caso parlo di

stigmate della postmodernità. Ovvero di feritorie di luce che sono anche ferite. Certo, è

vero che l’esistenza umana ora si presenta più affascinante, poliedrica, sinfonica,

policroma; e soprattutto libera, anzi liberissima, sottratta come si vuole ad ogni istanza di

determinazione intersoggettiva di verità e di bontà, ma tutto questo ha un prezzo alto da

pagare. Possiamo riscontrare ciò in alcuni effetti di contrasto tra i diversi aspetti della

mentalità postmoderna. Pensiamo al primato della corporeità (grande ricettore di

sensazioni), della prestanza fisica. È una cosa bella l’unità psicosomatica, riscoperta dopo

secoli e secoli di dualismo tra corpo e spirito. Ma la cura del corpo diventa spesso una

prigione e, se non viene vissuta con buon senso, diventa fonte di perenne insoddisfazione.

Oppure pensiamo ai dibattiti televisivi: è bello il rispetto dell’opinione dell’altro, dopo anni

di pensieri unici, ma vanno rispettati propri tutti i pensieri (anche quelli cretini)?

Aspetti positivi e negativi si intrecciano. Niente di umano è di per sé neutro o solo

buono o solo cattivo. Ma qualcosa resta di sicuro. L’umano è cambiato!

5. Appendice

Vorrei chiudere in leggerezza, e perciò propongo la lettura di un decalogo della

mentalità postmoderna stilato da M. Gallagher:

Non adorare la ragione

Non credere nella storia

Non sperare nel progresso

Non raccontare meta-storie

Non concentrarti sull’io

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Non tormentarti sui valori

Non confidare nelle istituzioni

Non perdere tempo a pensare a Dio

Non vivere solo per produrre

Non cercare l’uniformità23.

23 Cf M. P. GALLAGHER, Fede e cultura. Un rapporto cruciale e conflittuale, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1999, 124-129. È un testo che ogni parroco dovrebbe leggere.

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Il postmoderno spiegato ai parroci /3

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’IO.

SOCIETÀ, AFFETTI, ETICA E POLITICA NELLA POSTMODERNITÀ

1. L’identikit dell’io

Vorrei prendere l’avvio di questo nostro incontro dal testo di una canzone, molto

suggestiva di Giorgio Gaber:

Io sono un uomo nuovotalmente nuovo che è da tempoche non sono neanche più fascistasono sensibile e altruista orientalistae in passato sono statoun po’ sessantottistada qualche tempo ambientalistaqualche anno fa nell’euforia mi son sentitocome un po’ tutti socialista.Io sono un uomo nuovoper carità, lo dico in senso letteralesono progressistaal tempo stesso liberistaantirazzistae sono molto buonosono animalistanon sono più assistenzialistae ultimamente sono un po’ controcorrentesono federalista.

L’avvento della mentalità postmoderna segna, infatti, la nascita di un “uomo

nuovo”, che sperimenta inedite modalità di presenza al suo tessuto vitale quotidiano. C’è

una nuova presenza dell’uomo nel mondo. Le svolte della postmodernità, pertanto, ci

rimodellano in modo profondo, a partire da quella cosa così piccola ma così essenziale che

chiamiamo “io”.

Prima di delineare i lineamenti di questa trasfigurazione, mi sia concessa

un’osservazione generale. Ogni qualvolta, oggi, tentiamo di fare su noi stessi quello che gli

antichi chiamavano “l’esame di coscienza”, cioè una sincera autointerrogazione delle

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tensioni più profonde che abitano il nostro cuore, dobbiamo con schiettezza riconoscere che

sempre con crescente difficoltà riusciamo ad utilizzare il pronome “io”. Chi sono? Cosa

voglio? Spesso, imbarazzati, ci troviamo costretti a chiederci: “chi sono, veramente?”,

“cosa voglio, veramente”? E ciò vale anche per gli altri, ai quali non di rado, dopo aver

ricevuta una generica rassicurazione alla nostra domanda “come stai?”, chiediamo: “come

stai, veramente?” E come non pensare a quei momenti in cui, per afferrare il nostro indeciso

interlocutore, gli chiediamo con spregiudicato tono cosa egli voglia veramente? L’aggiunta

di un tale avverbio – veramente – tradisce impudicamente la realtà che di noi diamo agli

altri almeno due o più versioni. È come se – è un’espressione che rubo a E. Salmann– il

nostro “io” si fosse trasformato in un piccolo parlamento, in cui hanno posto le tante voci

che abitano la nostra anima. Non rivestiamo più un’identità forte ed unitaria, ma siamo uno,

due, centomila… E possiamo utilizzare tante maschere quanto sono i nostri interlocutori,

ma chi è “io”?

Passiamo allora a considerare proprio le trasformazioni subite dal nostro “io”, cioè

dalla nostra identità di soggetto, nella svolta postmoderna. A tal fine chiediamo la mano ad

un esperto e penso al compianto prof. Ferdinando Dogana, già ordinario di psicologia

dell’Università Cattolica di Milano. Qualche mese prima di morire, sulla rivista Psicologia

contemporanea, è apparso un suo interessantissimo articolo dal seguente suggestivo titolo:

L’Io lieve della postmodernità. Narcisismo, inautenticità e frammentazione della

personalità postmoderna24. Vale la pena leggere subito un passaggio di questo articolo:

«L’Io postmoderno […] è quello di un Narciso ripiegato su se stesso, individualista,

disimpegnato, desiderante e consumista. Sostenitore e vittima del “Sii te stesso”, l’Io

postmoderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura della diversità, quanto da quella

dell’omologazione. È un Io “lieve”, senza progettualità e tensioni, che gioca con la

propria immagine indossando maschere e rischiando la frammentazione dell’identità»25.

Ciò che preme sottolineare è il fatto che i referenti di tale descrizione non sono

persone affette da particolari patologie, ma qui ci si sta riferendo all’occidentale medio del

pianeta terra alle soglie del terzo millennio dell’era cristiana. Quali sono dunque i tratti

emergenti della personalità postmoderna, ovvero quali cioè i tratti emergenti della nostra

personalità? Innanzitutto il Narcisismo, che va inteso, scrive Dogana, come «una

disposizione composta di un miscuglio di passività, apatia, debolezza, dipendenza ed

eterodirezione, edonismo spicciolo, ripiegamento sul privato e sul presente, anzi 24 F. DOGANA, «L’Io lieve della postmodernità», in Psicologia contemporanea, n. 173, settembre-ottobre 2002, 4-10.25 DOGANA, «L’Io lieve», 5.

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sull’immediato»26. Dalla combinazione di questi elementi viene fuori un io caratterizzato da

una forte precarietà (alimentata anche dalla nuova dinamica del mercato del lavoro) e da

una certa qual leggerezza. Il secondo tratto della personalità postmoderna è, secondo

Dogana, quello dell’inautenticità. Tale termine non va considerato nella sua valenza

morale, quanto piuttosto quale risultato della duplice spinta che ogni individuo oggi riceve:

da una parte la tensione all’esaltazione della singolarità e quindi all’individuazione e

personalizzazione dell’esistenza (l’imperativo “Sii te stesso”), dall’altra la spinta e la

cultura dell’omologazione, provocata dal processo di globalizzazione:

«Il mondo postmoderno è quello della “globalizzazione”, dove le radici culturali

profonde, i valori, gli usi e i costumi tradizionali tendono a scomparire sotto l'urto di

forze che impongono stili di vita totalmente uniformati, dalla lingua alla cultura, dalle

consuetudini alle scelte quotidiane, dalle produzioni industriali ai consumi»27.

Da tutto ciò deriva una terza caratteristica della personalità postmoderna: la

frammentarietà. Prima abbiamo usato la metafora del parlamento in cui hanno posto e voce,

diritto di voto e diritto di veto, tutte le parti della nostra anima, ecco ora un’ultima citazione

del Prof. Dogana:

«Quello che si sta facendo strada è un Io frammentato, una soggettività priva di un unico

centro unificatore e composta di una costellazione, più o meno ampia, di “Io

sottoindividuali”, tutti relativamente autonomi, tutti fondamentalmente “lievi”»28.

E qui risuona una parola chiave: la leggerezza. Tutti oggi cerchiamo i prodotti light:

anche i cibi più calorici (che cioè fanno ingrassare), li si vuole light (cioè che non facciano

ingrassare). E corrispondentemente a questa leggerezza dell’Io, si espande la massa

corporea. Non è un fenomeno isolato il crescente aumento della popolazione mondiale in

sovrappeso (niente nella vita dell’umano è isolato): alla sempre maggiore leggerezza dell’io

fa da contraccolpo l’obesità quale disperato tentativo di restare a terra, di mantenere un

contatto con la realtà.

Come parroci dovremmo sempre aver presente queste caratteristiche fondamentali

della personalità postmoderna, ogni volta che incontriamo la nostra gente, ogni volta che

prestiamo loro il nostro ascolto e cerchiamo di offrire loro un nostro consiglio. Ovviamente

ciò vale anche per noi, soprattutto per quelle volte in cui ci capita, purtroppo sempre meno

26 DOGANA, «L’Io lieve», 7. 27 DOGANA, «L’Io lieve», 9. Si tratta della non sempre felice combinazione del primato della prospettiva con quello della relazione. Evangelicamente potremmo tradurre tutto ciò, parafrasando Gesù quando dice che non si possono avere due padroni: l’io e gli altri.28 DOGANA, «L’Io lieve», 10.

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di frequente, di incontrare noi stessi, di fare il punto delle nostre ragioni di gloria oppure di

curare le ferite dei nostri fallimenti.

Tutte le spinte della cultura postmoderna, alle quali ordinariamente nessuno si

sottrae (pensate all’invasività dei mass-media, all’organizzazione e mobilità della vita

sociale), hanno quindi come risultato un progressivo indebolimento del nostro “io”. La

distanza da Cartesio, dall’uomo dalle idee chiare e distinte, su questo punto è assolutamente

evidente. Ho detto e sottolineato l’avverbio ordinariamente: il cristiano non può pensare

che l’opera della grazia agisca in lui in modo immunizzante rispetto alle dinamiche qui

descritte. La riuscita di una vita degna dell’uomo è sempre il frutto combinato del dono

della grazia, a tutti promesso e a tutti accessibile, e della nostra disponibilità alla

conversione: una conversione che, per noi parroci, può iniziare dallo spegnere il televisore,

dalla rinuncia a cambiare auto o cellulare, quando sono ancora in perfetto funzionamento,

dall’evitare passeggiate sui lungomari estivi pieni di corpi leggermente rivestiti, dalla

sobrietà nel vestire, nel mangiare… Ricordate S. Paolo: tutto ci è lecito, nella libertà dei

figli di Dio, ma non tutto fa bene.

2. Gli eredi del pellegrino moderno

Se questa è la nuova condizione dell’io, l’approccio del soggetto postmoderno alla

sua esistenza (cioè al mistero e all’avventura della sua vita) si propone con aggiornata

modalità rispetto all’io moderno. Bauman ha analizzato con fine analisi il modo in cui la

progettualità esistenziale degli individui postmoderni è radicalmente cambiata rispetto a

quelli moderni. Cerco di riassumere, con qualche citazione, il suo pensiero. Mentre questi

ultimi, i moderni, concepivano la vita da pellegrini, noi ci avventuriamo sui sentieri della

nostra esistenza in qualità di vagabondi, di turisti e di giocatori. Vale la pena leggere una

pagina sui pellegrini, così che il contrasto con i suoi eredi sarà di per sé sufficientemente

illuminante.

«Per il pellegrino, per l’uomo moderno, questo significava all’atto pratico che egli

poteva e doveva scegliere il suo punto di arrivo abbastanza giovane e confidare, certo

che la linea retta dell’intera vita davanti a lui non si sarebbe piegata, deviata o arrotolata,

né sarebbe arrivata ad un punto morto o tornata indietro. Il differimento della

gratificazione, insieme alla frustrazione momentanea che comportava, forniva l’energia

e lo zelo necessari alla costruzione dell’identità, ammettendo però che questa fosse

accoppiata con la fede nella linearità e nella cumulatività del tempo. La migliore

strategia della vita come pellegrinaggio, della vita intesa come “costruzione d’identità”,

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era quella di “salvare per il futuro”, ma salvare per il futuro aveva senso come strategia

solo se si poteva essere sicuri che il futuro avrebbe ripagato i risparmi con gli interessi, e

che il buono raggiunto non sarebbe stato tolto, e che i risparmi non si sarebbero svalutati

prima della data di distribuzione degli interessi o non sarebbero stati giudicati moneta

svalutata; che ciò che oggi era visto come capitale sarebbe stato considerato così anche

domani e dopodomani. I pellegrini avevano un punto fermo nella solidità del mondo in

cui camminavano; in un tipo di mondo in cui si può raccontare la vita come una storia

continua, una storia che “fa senso”, una storia secondo la quale ciascun evento è effetto

dell’evento precedente e causa di quello successivo, ogni età uno stadio posto lungo una

strada che mira alla pienezza del raggiungimento. Il mondo dei pellegrini – i costruttori

di identità – deve essere ordinato, determinato, prevedibili, assicurato; ma soprattutto,

deve essere un mondo nel quale le impronte sono impresse per sempre, in modo che le

tracce e i documenti dei viaggi passati siano preservati e tenuti stretti. Un mondo in cui

il viaggiare può davvero diventare un pellegrinaggio. Un mondo ospitale verso i

pellegrini»29.

La mentalità postmoderna ha tolto di mezzo le condizioni per poter concepire la

propria vita come un pellegrinaggio: non esiste più fiducia nella storia ed il mondo

circostante non offre più un’immagine fissa di sé. Chi saranno, allora, gli eredi del

pellegrino? Eccoli: sono i vagabondi, i turisti ed i giocatori. Ovviamente si tratta di

metafore ben colorite, ma efficacemente studiate per illustrare la tipologia di rapporto del

soggetto postmoderno con la sua vita.

Leggiamo un pensiero di Bauman per ciascuna delle tre figure:

Vagabondo: «Adesso sono rimasti pochi luoghi “organizzati”. I residenti “sistemati per

sempre” si svegliano e si accorgono che i posti (luoghi fisici, posti nella società e nella

vita) ai quali appartengono, o non esistono più o non sono più accoglienti; le strade linde

diventano minacciose, le fabbriche scompaiono insieme ai posti di lavoro, le abilità di

ciascuno non interessano più a nessuno, il sapere si trasforma in ignoranza, l’esperienza

professionale diventa un inconveniente, le sicure reti di relazioni si disfano e si sfanno in

putride rovine. Ora il vagabondo è tale non per la sua riluttanza o difficoltà a sistemarsi,

ma per la scarsità di luoghi organizzati»30.

Turista: «Lo scopo è una nuova esperienza; il turista è un ricercatore di esperienza

cosciente e sistematico, di un’esperienza di differenza, e di novità – dal momento che le

gioie di ciò che è familiare si logorano e cessano di attrarre. I turisti vogliono

immergersi nell’elemento strano e bizzarro (una sensazione piacevole, una sensazione

29 Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, Mulino, Bologna 1999, 34-35.30 BAUMAN, La società, 43

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che solletica e ringiovanisce, come il lasciarsi schiaffeggiare dalle onde marine) – alla

condizione, però, che non si appiccichi alla pelle e possa essere scrollato via non appena

lo si desidera. Scelgono gli elementi in cui gettarsi in base a quanto particolari, ma

anche innocui, essi sono; i rifugi preferiti dai turisti si possono riconoscere grazie alla

loro vistosa, ostentata (se diligentemente preparata) stranezza, ma anche dalla

profusione di cuscini di sicurezza e di uscite di sicurezza ben segnalate»31.

Giocatore: «Nel confronto tra il giocatore e il mondo non esistono leggi né vi è

mancanza di leggi, né ordine né caos. Vi sono solo le mosse – più o meno intelligenti,

perspicaci o ingannevoli, di grande intuito o errate. Il punto è indovinare le mosse

dell’avversario e anticiparle, prevenirle o impedirle – essere sempre “una mossa avanti”.

Le regole che il giocatore può seguire non possono essere altro che regole a naso;

istruzioni euristiche, non algoritmiche. Il mondo del giocatore è il mondo del rischio,

dell’intuizione, del prendere precauzioni»32.

Va sottolineato che il tipo di interazione con il reale espresso da questi tre modelli è

normativo per tutte le esperienze significative del soggetto postmoderno, dal

comportamento quotidiano (lavoro, famiglia, parrocchia) a quello straordinario (scelta della

facoltà universitaria, matrimonio, senso della morte).

La ricerca di modelli alternativi non è per nulla semplice e sicuramente è impegno

che richiede il suo prezzo.

Va da sé che, in prima battuta, il soggetto postmoderno si senta - rispetto al

pellegrino moderno - più libero (non vincolato a ruoli prestabiliti), si avverte più leggero

(non gravato da norme piovute dal cielo), si stima legittimato a pensare e a fare qualsiasi

cosa desideri ed addirittura ottiene rispetto per qualsiasi cosa dica e se viene attaccato,

riceve il conforto di tutti, grazie alle aberranti applicazioni del principio del “politicamente

corretto”. Ma dovrebbe risultare altrettanto ovvio, almeno a noi parroci, che nessun

cambiamento nella storia dell’umano è senza prezzo. La nuova condizione dell’umano

postmoderno, infatti, viene ottenuta al prezzo di un altissimo senso di insicurezza e di una

diffusa depressività. L’insicurezza di sé, degli altri, delle linee evolutive della storia, è

registrabile dall’aumento vertiginoso della spesa investita in per assicurazioni, in medicine,

ed in sistemi di allarmi. La depressività si manifesta in molti modi (anche con forme

patologiche: bulimia, anoressia), ma, a dire il vero, sta diventando è una sorta di

31 BAUMAN, La società, 44.32 BAUMAN, La società, 47.

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atteggiamento fondamentale, dovuto per lo più alla troppa esposizione di noi stessi a questo

mondo che sempre più impudicamente ci si fa avanti, ci seduce, ci attira e ci maltratta33.

Avendo poca consistenza in se stesso, il soggetto postmoderno è spesso in balia dei

suoi umori, ostaggio delle sue paturnie, metereopatico anonimo (basta un po’ di pioggia

perché riunioni parrocchiali ben preparate vengano disertate!). Molte nostre decisioni

trovano la loro giustificazione solo in ciò che si sente, con enormi conseguenze. Su questo

terreno il cristianesimo ha una parola seria da dire: senza la fatica del desiderio, non si crea

nulla di significativo nella propria esistenza. La libertà è da sempre attraversata dal

desiderio di rintracciare una sua giustizia e quindi di per sé non evita l’incrocio con la

verità, anche quando la verità fa male (e che cosa non dire di quella felice massima cristiana

che invitava a fuggire le occasioni prossime di peccato?).

3. La società liquida

Facciamo ora un passo avanti e chiediamoci quale tipo di società possa mai venire

fuori dalle premesse che sinora abbiamo esplicitato. La caratteristica più immediata della

società postmoderna è sicuramente la sua mobilità e flessibilità: mobilità e flessibilità nei

movimenti, mobilità nel reperire ciò che manca; mobilità nell’offerta e nella fruizione dei

servizi. Tutto ciò accade grazie all’utilizzo massiccio delle tecnologia e con il relativo

aumento del tasso di burocratizzazione. La tecnica alimenta le procedure standard sempre

meglio definite. Il primo effetto sul soggetto umano di questo ricorso imponente alla

tecnologia, per sbrigare le nostre faccende, è la “spersonalizzazione” del lavoro e dei

rapporti sociali legati alla prestazione ed offerta di servizi.

Ma cosa comporta questa spersonalizzazione? Vediamo subito.

Innanzitutto, oggi chiunque può fare tutto. Questo risulta deprimente: un vescovo

vale un altro, un parroco vale un altro: ed io? Quale è la mia particolarità, se il sistema non

ha bisogno di me, se è sufficiente che un altro al mio posto schiacci il tasto F4 per mandare

avanti la macchina? Questo contesto spiega anche la reazione adolescenziale di chi

iperpersonalizza tutto ciò che fa o che è, nel modo di vestire, di parlare ed anche di

celebrare. Una reazione che a lungo andare, comunque, risulta inefficace.

In secondo luogo, nella nostra società, l’utente può di chiedere al sistema solo la

prestazione del servizio; a colui che lo serve, egli non deve chiedere comprensione o altro 33 Alternative sono sempre possibili, ma non ci sono automatismi. Su questi temi mi vedo costretto, felicemente costretto, a rinviare ad un testo non tradotto in italiano di E. Salmann, uno dei pochi che sa cogliere le infinite contraddizioni ed eterogenesi dei fini della libertà postmoderna: Zwischenzeit. Postmoderne Gedanken zum Christsein heute, Schnell, Warendorf 2004.

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per la sua situazione umana (pensate a come si è trasformato il rapporto medico-paziente

negli ultimi venti anni: ti danno le medicine via telefono oppure con una e-mail).

Efficacemente scrive Sgalambro:

«L’uomo al di qua di uno sportello e quello al di là si intendono a meraviglia, sebbene

non s’incontrano mai. Due persone separati dal vetro dell’ufficio si capiscono

perfettamente»34.

Si accede così ad una socialità dominata da rapporti freddi. E proprio noi parroci

avvertiamo molto questo aspetto e per questo raramente, se non c’è di mezzo qualche

amicizia, disbrighiamo da noi stessi quelle pratiche (parrocchiali e personali) che

comportano contatti con uffici pubblici od amministrazioni locali.

Ma ciò che più dolorosamente dobbiamo registrare, come avverte da anni Sequeri, è

il fatto che un tale tipo di convivenza civile viene meno ad un compito importante che è

quello della mediazione sociale dell’identità. Io desidero di essere qualcuno perché vedo

altri che già sono quello che io vorrei essere ed avverto che essi ricevono stima ed

apprezzamento per il loro modo di essere; di seguito il mio desiderio si conferma perché,

quando dico e inizio ad essere ciò che desidero, altri mi approvano o mi criticano. Nella

società postmoderna, a causa di un lavoro sempre più proceduralmente definito (docenti

impegnati sin dal primo giorno di scuola a stendere relazioni, programmazioni, verifiche in

itinere), a causa dell’ispessimento burocratico della società (ti puoi immatricolare

all’università da un computer e non incontri nessuno che approvi o meno la tua scelta) ed a

causa della legge del “politicamente corretto” (che ci impedisce di dire a qualcuno: tu non

sei portato, tu sei portato poco per una tale disciplina), vengono meno i modelli; in essa

sopravvivono solo i funzionari, i quali sono intercambiabili, senza volto: numeri e sigle.

Pensate a quando chiamate al telefono un taxi: non ti dicono viene il signor tal dei tali, ma

viene “Palermo 30” oppure quando telefonate ad una compagnia telefonica e chi vi

risponde dice: “le risponde l’operatore vattelaapesca!”.

Ma così la crescita del desiderio, ciò che di più umano c’è nell’uomo, viene

impedita: senza modelli, restano solo “opportunità”, “occasioni” per tutti e quindi per

nessuno. Viene meno l’interesse, cioè ciò che sta tra di noi: inter-esse. Come dare torto a

Bauman, quando definisce la nostra come una società liquida?

34 M. SGALAMBRO, La morte del sole, Adelphi, Milano 1982, 200.

36

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4. Affetti senza effetto

Questa riflessione sulla società postmoderna è importante per comprendere le

evoluzioni a cui è soggetta la sfera dell’interiorità degli uomini e delle donne di oggi, a cui

noi come parroci siamo oltremodo interessati: parliamo degli affetti, dell’etica ed infine

della religione. Di cosa altro ci dovremmo occupare?

Col termine affetti intendo i legami che liberamente e per amore gli umani stringono

tra di loro. Ci si mette insieme, come oggi si ama dire, non per dovere o per far fronte a

qualche necessità, ma per amore. Le donne non si sposano più per sistemarsi, in quanto in

larga misura hanno un buon lavoro oppure le famiglie di origine possono economicamente

provvedere a loro. Il matrimonio è allora una scelta di amore, come anche la scelta di

mettere al mondo dei figli non accade per caso ed anche la corrispondenza all’amore dei

genitori è non un obbligo, un dovere.

Eppure che cosa tocca registrare, a noi parroci? Registriamo l’aumento vertiginoso

dei divorzi e delle celebrazioni civili del matrimonio (che nell’immaginario collettivo

esprime la percezione della fragilità del legame che in questo modo viene ufficializzata);

non contiamo più il numero dei e delle single, e soprattutto, ci siamo rassegnati

all’inevitabilità delle incomprensioni nella sfera familiare: incomprensioni che sfociano non

raramente in tragici epiloghi: il Ministero degli Interni ha rivelato che nel 2003 su 10

omicidi 6 erano stati “omicidi intrafamiliari”! Perché accade tutto questo?

Accade perché la sfera degli affetti, nel mondo postmoderno, è attraversata da due

correnti che ne pregiudicano l’alto profilo spirituale in ordine alla realizzazione

dell’umanità dell’uomo. La tesi che efficacemente descrive una tale situazione di fatto è

così sintetizzabile: l’uomo postmoderno vive ordinariamente i suoi affetti o alla luce del

primato dell’erotizzazione oppure all’ombra del disincanto dell’amore. Non sempre questi

due elementi si danno insieme, ma si danno sempre.

Il primo aspetto – il primato dell’erotizzazione dell’amore – è stato a lungo studiato

dal teologo Sequeri, il quale incisivamente annota:

«Allo stesso modo, lo svilimento burocratico della convivenza nella città moderna esalta

il valore compensatorio del sentimento d’amore in una misura ossessiva. Nella realtà

esso viene sostituito dalla sua mimica erotica e dalla sua metamorfosi estetica. Non ci

sono però spostamenti e sublimazioni: il disagio della civiltà incoraggia la regressione

pura e semplice alla interpretazione del rapporto erotico come scenario virtuale di ogni

relazione possibile dell’umano»35.

35 SEQUERI, Sensibili allo spirito, 17.

37

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Alla difficoltà della convivenza civile, altamente burocratizzata, intimamente

spersonalizzata, corrisponde l’ideale di una convivenza familiare automaticamente felice,

dove tutto fila liscio, senza problemi, senza la necessità di mettere in atto tutta quella fatica

che già ci è richiesta dalla vita fuori della porta di casa. In fondo l’attesa che anima i nostri

rapporti interpersonali è che almeno nella sfera dell’amore (e dell’amicizia) tutto proceda

senza necessarie mediazioni, così come si accende l’elemento erotico, quando funziona. Per

questo troviamo mariti e mogli che giocano agli eterni fidanzati, genitori che più che amare

i loro figli sono innamorati di loro (basterebbe pensare alla difficoltà che incontrano quando

si tratta di svezzarli alla responsabilità personale). E così dinanzi ai problemi si inizia a

sperare in automatismi, in miracoli notturni (pensate all’incredibile diffusione di oroscopi,

all’aumento della richiesta di consulenza psicologica: è più facile pensare a cause inconsce

che ammettere la propria immaturità). Ebbene il cristianesimo ci insegna che nella vita

dello spirito nulla è automatico, tutto nasce dall’intreccio della grazia e della nostra

disponibilità alla conversione.

Accanto a questo primo modo di vivere gli affetti, c’è l’altra modalità: quella del

disincanto dell’amore. È come se la parola “amore” avesse perso tutta la sua magia.

Bauman ha analizzato bene questo aspetto, mettendo in evidenza che i costi legati alla

nascita e al mantenimento di un legame affettivo duraturo nel tempo appaiono all’uomo

postmoderno sproporzionati rispetto ai guadagni che quel legame offre, senza dimenticare

che si tratta pur sempre di un legame, che al nostro vagabondo-turista-giocatore crea non

poche perplessità. Ecco allora che il posto dell’amore è preso dalla convivenza. Vale la

pena ascoltare Bauman:

«Ecco perché la convivenza (“aspettiamo e vediamo se funziona e dove ci porta”)

acquisisce l’attrattiva che manca ai legami di affinità. I suoi intenti sono modesti, non si

fanno giuramenti e le dichiarazioni, semmai pronunciate, non sono mai solenni; non si

stringono pastoie e non si legano mani. Quasi sempre, non ci sono testimoni né alti

plenipotenziari a consacrare l’unione. Chiedi di meno, ti accontenti di meno, e quindi

l’ipoteca da pagare è minore e anche la sua durata atterrisce di meno. Sulla

“convivenza” non viene gettata nessuna ombra nera di una futura consanguineità,

anelata o paventata che sia. La convivenza è a causa di, non al fine di. Tutte le opzioni

restano aperte, non si consente ad azioni passate di ridurle»36.

Di fronte ad una tale situazione viene da chiederci quale futuro è sperabile per le

nostre famiglie: quelle famiglie sulle quali come chiesa vogliamo scommettere molto, per

36 Z. BAUMAN, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2004, 42.

38

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un annuncio del vangelo convincente e capillare. Su questo versante come parroci

dobbiamo, insieme alle famiglie delle nostre parrocchie, ripartire dall’Abc, ripartire

dall’arte d’amare37.

5. Etica minima

Passiamo ora a considerare gli effetti della mentalità postmoderna sull’etica. Qual è

il tipo di etica compatibile con questa mentalità? Le riflessioni sin qui condotte ci portano

ad affermare che l’etica postmoderna è un’etica che si fonda sull’autonomia di scelta e sulla

libertà di coscienza. Di per sé entrambe –autonomia della scelta e libertà di coscienza -

sono realtà sacrosante, anche da una prospettiva cristiana. Ogni nostra azione deve

esprimere ciò che siamo e lo deve esprimere in libertà. Il problema sorge quando si prende

coscienza che il soggetto postmoderno, chiamato ad esercitare la sua scelta etica, viene

lasciato solo a se stesso, alla deriva della sua volontà o meglio alla deriva della sua

sensibilità. Accade, infatti, che il livello pubblico del riferimento condiviso a valori e

norme, quello che dovrebbe decidere del senso del fare degno dell’uomo, è venuto a

mancare. Coglie nel segno Sequeri, quando afferma:

«Politicamente, la gestione dell’etico è sempre più orientata a garantire, nell’ambito di

una allargata nozione di tolleranza civile, il pluralistico incremento delle differenze. Ciò

avviene formalizzando il diritto all’autodeterminazione etica da parte del singolo e

rimuovendo le condizioni della sua legittimazione nella sfera pubblica. L’effetto di

codice è che il tempo e lo spazio destinati alla provvista di senso per l’umano-che-è-

comune si trova di fatto delegittimato in termini di scopo e di rilevanza. Le decisioni di

senso sono per definizioni, nella sfera pubblica, razionalmente indecidibili e socialmente

discriminatorie. La pressione che in tal modo si esercita nei confronti del singolo,

formalmente indirizzato verso un’etica della autonomia, ma di fatto abbandonato dalle

37 È un compito urgente, sul quale aveva insistito già E. Fromm, come ricorda sempre Bauman: «Nel bellissimo libretto L’arte di amare, Erich Fromm sottolinea che, in una cultura in cui le qualità della “vera umiltà, del coraggio, della fede e della disciplina” sono rare, “il raggiungimento della capacità di amare è destinato a restare un risultato raro”. Afferma quindi che tale rarità è la morte della società in cui viviamo. Se “il capitalismo moderno ha bisogno di uomini […] che consumino sempre di più”, se “oggi la felicità dell’uomo consiste nel ‘divertirsi’”, se “il mondo è un unico grande oggetto per il nostro appetito, una grossa mela, una grossa bottiglia, una grossa mammella” e noi siamo “i poppanti, gli eterni trepidanti, gli speranzosi… e gli eterni delusi”, allora, “sebbene ognuno cerchi di essere il più vicino possibile agli altri, ciascuno rimane completamente solo, pervaso dal profondo senso di insicurezza, ansia e colpa che scaturisce sempre quando la distanza tra gli uomini è insormontabile» (Z. BAUMAN, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, 72. Le citazioni tra virgolette sono di Fromm).

39

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istituzioni per quanto riguarda la legittimazione sociale della sua giustizia, è

insostenibile»38.

E, allora, quali saranno gli effetti di tale situazione sul soggetto postmoderno?

Sempre Sequeri li indica con precisione:

«Di nuovo, il singolo è indotto a sviluppare, nella dimensione individuale e interiore

della soggettività personale, meccanismi di flessibile adattamento a una pluralità sempre

più eclettica e provvisoria di riferimenti simbolici e di criteri etici dell’agire. Dovendo

provvedere da sé, il singolo realizza una sorta di incorporazione del moderno principio

della tolleranza al livello della coscienza individuale del senso: di fatto non più

governabile con il criterio di una univoca identificazione religiosa, sociale, culturale.

Anche perché appunto tali domini appaiono rappresentati da opposizioni di parte:

formalmente rispettabili nella sfera privata, ma sostanzialmente improponibili nella sfera

pubblica»39.

Pur con un linguaggio difficile, il teologo milanese ci rende edotti sulla separazione

netta che si pone tra la sfera pubblica e quella privata nella questione etica ed ancor più

originariamente nella questione del senso dell’umano. L’uomo postmoderno è così

chiamato a prendere posizione non solo sulla singola azione da compiere, ma è costretto ad

invertarsi una costellazione di significati con cui assegnare un senso unificato al suo agire.

Un tale compito è insopportabile ed ineseguibile da parte del singolo. Qui si collega il

risveglio della ricerca del divino nella nostra epoca, come vedremo a breve.

6. La politica senz’anima

Solo una breve parola sulla politica, la grande assente del/dal mondo

contemporaneo. Infatti, la politica appare largamente latitante rispetto al suo compito

fondamentale che riguarda proprio quelle “istruzioni dell’umano”, per usare sempre

un’espressione di Sequeri, di cui oggi si avverte grande bisogno. Compito centrale della

politica è quello di rintracciare e fissare “gli ordinamenti interindividuali di senso”40: cioè il

senso dell’umano che è comune. L’etica pubblica invece si limita alla proclamazione del

rispetto pedissequo delle procedure, mentre la (gestione) politica si trasforma in mera

tecnica che vigila a garantire la funzionalità dei servizi e le condizioni di benessere, il cui

incremento resta l’unico suo ideale e luogo di confronto tra le diverse fazioni partitiche. La

politica perde così la sua anima e perde lo spazio per la cura della nostra anima rispetto

38 P. SEQUERI, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002, 30.39 SEQUERI, L’umano alla prova, 30-3140 SEQUERI, L’umano alla prova, 58.

40

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all’assalto della civiltà della tecnica alla grande tradizione umanistica occidentale. Bauman

a ragione dice: ricostruiamo l’agora41.

41 BAUMAN, Società, etica, politica, 142.

41

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Il postmoderno spiegato ai parroci /4

LA RELIGIONE POSTMODERNA

1. La rivincita di Dio. Le cause

Uno dei tratti più sorprendenti del nostro mondo è sicuramente il risveglio del

religioso. Dopo la catastrofica profezia dell’eclissi del sacro nella città moderna42, si può

senza dubbio parlare di una vera e propria rivincita di Dio. Non manca chi parla di una

“religione postmoderna”. Questo fenomeno merita molte attenzioni da parte di noi parroci,

perché il pericolo è quello dell’omologazione. Mi spiego subito. Noi siamo in cerca di

nuove modalità per rivitalizzare le nostre parrocchie, ora i Nuovi Movimenti Religiosi, in

cui si esprime in modo più evidente il ritrovato bisogno di sacro, sono molto forti ed allora

la tentazione di copiarne le movenze e lo stile potrà nel futuro prossimo diventare molto

seducente. In questo contesto l’opera di discernimento della chiesa sarà decisiva.

Prima sentiamo che cosa la filosofia ci dice circa le cause del sorgere di questo

rinnovato interesse per Dio. La risposta è piuttosto immediata: gli uomini cercano in Dio un

cireneo per la croce della loro libertà. Bauman è lineare ed essenziale quando scrive:

«Gli uomini e le donne postmoderni, volenti o nolenti, sono condannati a una continua

scelta, e l’arte dello scegliere si basa soprattutto sull’evitare il pericolo: quello di

lasciarsi sfuggire l’occasione buona, vuoi per non averla vista in tempo, vuoi per non

avere impiegato sufficiente zelo per afferrarla, vuoi perché ci è mancata la forza fisica e

spirituale per raggiungerla…La variante postmoderna dell’incertezza non genera il

bisogno delle visioni escatologiche nelle quali si è specializzata la religione, ma genera

piuttosto una crescente richiesta di consulenze esistenziali impartite da esperti nel sopire

o curare i problemi di identità. Gli uomini e le donne assillati dall’incertezza di tipo

postmoderno non vogliono predicatori che li ammoniscano sulle loro debolezze e

sull’insufficienza della ragione e della volontà umana. Cercano invece dei consiglieri

capaci di convincerli che a essi non manca niente di quanto occorre a una vita di

successo, e che indichino loro come trovarlo; che ridiano il coraggio agli smarriti

dimostrando che per ogni difetto esiste un rimedio e che i clienti/pazienti riusciranno a

42 Un riferimento per tutti è H. COX, La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968 (ed. or. 1965).

42

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realizzare tutto ciò che desiderano purché seguano i loro consigli e li mettano in pratica

con la dovuta serietà»43.

Il peso della scelta, l’assenza di criteri interindividuali di senso, lo sfaldamento della

tradizione cristiana e dell’umanesimo, implicano quella configurazione anoressica della

soggettualità postmoderna, che disperatamente aspanna in cerca di chi la possa aiutare e

proprio i Nuovi Movimenti Religiosi vestono i panni di quei “consiglieri capaci”, di cui

parla Bauman44. Una tale urgenza, relativa alla gestione della propria libertà, rende ragione

anche di un aspetto comune a queste nuove forme di religiosità che di per sé non si sarebbe

atteso e cioè della loro esplicita tendenza al fondamentalismo (tratto più moderno che

postmoderno). Sentiamo ancora Bauman:

«Esiste tuttavia una forma di religione postmoderna, generata dalle contraddizioni

interne della vita postmoderna e dal modo specificamente postmoderno in cui oggi si

manifestano l’insufficienza umana e la vanità del sogno di controllare il destino umano.

Tale forma è conosciuta sotto la definizione inglese di fondamentalismo, o in quella

francese di integrismo, e dimostra la propria dinamica ed espansiva presenza in tutte le

parti del mondo un tempo dominate dal cristianesimo, dall’islamismo e dal giudaismo.

[…] La vertiginosa e, per molti osservatori, sorprendente carriera del fondamentalismo

religioso non è tuttavia, al contrario di quanto si pensa, un rigurgito di slanci mistici

accanitamente osteggiati eppure non del tutto estirpati nei tempi moderni; non è una

manifestazione dell’eterna irrazionalità della natura umana refrattaria a tutti gli sforzi

illuministi, e non è neanche il sintomo di una fuga nel passato premoderno. Il

fondamentalismo è un fenomeno del tutto contemporaneo e postmoderno, che ha

assorbito, assimilato e posto al proprio servizio le riforme ‘razionalizzatrici’ e le

scoperte tecniche della modernità; lungi dal rifiutarle in blocco, esso cerca un modo di

goderne i frutti senza pagare l’alto prezzo che molti altri sembrano accettare,

giudicandolo inevitabile o non esorbitante. Il prezzo in questione, che il

fondamentalismo promette di abolire, sono le sofferenze dell’individuo condannato da

un lato alle pene della responsabilità per le proprie scelte e per le loro conseguenze,

dall’altro alla tortura di un’eterna incertezza sulla bontà della scelta e sull’eventualità di

essersi lasciato sfuggire o di non aver trascurato una scelta migliore. È difficile non dare

ragione a Gilles Kepel quando afferma che gli odierni movimenti fondamentalistici sono

‘per eccellenza’ figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica

e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione; le loro 43 Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, 216. La sottolineatura è mia.44 La ricerca del sacro risponde in certa misura anche al bisogno dell’uomo postmoderno di fuga dall’attuale cultura ipertecnologica avvertita come oppressiva (da qui derivano l’amore per film come Matrix, Il Signore degli Anelli, o il rinnovato interesse alla magia, cf. Henry Potter).

43

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grida e i loro lamenti incitano a ricercarne le origini, a rintracciarne la genealogia

inconfessata in questa fine secolo. Come il movimento operaio di ieri, così i movimenti

religiosi odierni hanno la particolare capacità di indicare le disfunzioni della società, che

classificano secondo le proprie categorie interpretative»45.

Va quindi subito registrato che la religione (o la religiosità) postmoderna è una

religione del bisogno. E mi sento subito spinto a proporre un primo discernimento critico. Il

cristianesimo non è una religione del bisogno: è una religione del desiderio. Al proposito

offro alla vostra meditazione una riflessione formidabile di Sequeri:

«La convinzione di Gesù è che nessun uomo, anche quando ha fame, desidera

semplicemente del pane; che nessun uomo, anche quando ha bisogno di riempire la sua

solitudine, desidera semplicemente un corpo caldo sul quale dormire; che nessun uomo,

anche quando sperimenta la desolazione della malattia, desidera semplicemente

sopravvivere. Gesù è profondamente convinto di questo. L’uomo desidera assai più di

ciò di cui ha bisogno»46.

Questo serve a mettere subito in chiaro che il cristianesimo si muove su un altro

registro rispetto a quello della risposta ai bisogni dell’uomo. Dio intercetta il nostro

desiderio e lo libera nelle sue potenzialità.

Torniamo ora alla religione postmoderna e per prima cosa diamo qualche numero:

nel mondo abbiamo 2200 Nuovi Movimenti Religiosi, dei quali ben 600 sono presenti in

Italia47; tra i Nuovi Movimenti Religiosi il più diffuso è il pentecostalismo protestante, che

registra nel mondo l’adesione di 400 milioni di adepti, in Italia abbiamo ben 300.000

pentecostali (più dei Testimoni di Geova)48.

2. Tipologie della ricerca postmoderna del sacro

Ma quali sono le tipologie di questi Nuovi Movimenti Religiosi? Mi sembra al

riguardo molto efficace l’analisi offerta da M. Aletti, che propone di distinguere tre registri

di ricerca del sacro nella postmodernità. Non si tratta di tipologie definite e senza possibilità

di contaminazioni, ma un tale schema risulta utile per avvicinarsi a questo fenomeno.

45 BAUMAN, Il disagio della postmodernità, 221-222.46 SEQUERI, Sensibili, 30. La sottolineatura è mia.47 Derivo queste notizie da M. ALETTI, Psicologia e nuove forme della religione, in G. ANGELINI, La religione postmoderna, 31. In ciò che segue faremo costante riferimento a questo prezioso contributo di Aletti. Per informazioni più dettagliate sui Nuovi Movimenti Religiosi si possono leggere i numerosi testi di M. Introvigne e le ricerche promosse del CESNUR (diretto sempre da Introvigne). Cf il sito: cesnur.org.48 Offre queste notizie ANGELINI, La fede e la figura, 193-194.

44

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2.1. Il registro intimistico-esoterico

È la sfera del New Age o anche Next Age. Per evitare l’astrattezza con la quale in

genere si parla di questo movimento religioso, propongo di leggere alcune sue tesi centrali

così come sono formulate da W. Bloom, uno dei suoi rappresentati, e così come vengono

riportate dal documento edito dal Pontificio Consiglio della Cultura e Pontificio Consiglio

per il Dialogo Interreligioso con titolo Gesù Cristo portatore dell’acqua viva:

Tutta la vita, tutta l’esistenza, è manifestazione dello Spirito, l’Inconoscibile, di

quella suprema coscienza chiamata con tanti diversi nomi in molte e differenti

culture.

Lo scopo e la dinamica di tutta l’esistenza è di manifestare appieno Amore,

Saggezza, Illuminazione.

Tutte le religioni sono espressione della stessa realtà interiore.

Tutta la vita, così come la percepiamo con i cinque sensi umani o con gli

strumenti scientifici, è soltanto il velo esterno della realtà causale, interiore e

invisibile.

Parimenti, gli esseri umani sono creature duplici con: 1) una personalità

temporanea esteriore e 2) un essere interiore pluridimensionale (anima o sé

superiore).

La personalità esteriore è limitata e tende all’amore.

Lo scopo dell’incarnazione dell’essere interiore è di condurre le vibrazioni della

personalità esteriore ad una risonanza d’amore.

Tutte le anime incarnate sono libere di scegliere il proprio cammino spirituale.

I nostri maestri spirituali sono coloro la cui anima è libera dal bisogno di

incarnarsi ed esprimono amore incondizionato, saggezza e illuminazione.

Alcuni di questi grandi esseri sono ben noti e hanno ispirato le religioni del

mondo. Alti invece non sono conosciuti e operano in maniera invisibile.

Tutta la vita, nelle sue differenti forme e nei suoi diversi stati, è energia

interdipendente e ciò include i nostri atti, sentimenti e pensieri. Collaboriamo

con lo Spirito e con queste energie alla creazione della nostra realtà.

Sebbene sostenuti dalla dinamica dell’amore cosmico, siamo tutti responsabili

della nostra condizione, del nostro ambiente e di tutta la vita.

Durante questo periodo di tempo, l’0evoluzione del pianeta e dell’umanità è

arrivata a un punto in cui viviamo un mutamento spirituale fondamentale nella

nostra coscienza individuale e collettiva. Per questo motivo parliamo di New

Age. Questa nuova coscienza è il risultato dell’incarnazione sempre più positiva

45

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di quelle che alcuni definiscono energie di amore cosmico. Questa nuova

coscienza si manifesta con una comprensione istintiva della sacralità di tutta

l’esistenza e, in particolare, della sua interdipendenza.

Questa nuova coscienza e questa nuova comprensione dell’interdipendenza

dinamica di tutta la vita indicano lo sviluppo di una cultura planetaria

completamente nuova49.

Se ora ci chiediamo quale molla spinge ad accostarsi a movimenti religiosi del tipo

New Age, scopriamo di aver a che fare con il bisogno di “fare esperienza”, come conferma

Aletti:

«La motivazione fornita dai soggetti, per questo frequente errabbondare, si richiama

spesso al diritto di “far esperienza”. […] Si tratta di esperimenti, ben lontani da quel

riferimento all’identità e della sua permanenza, alla sua storia e progettualità che sono

ambito e condizione di un’esperienza personale significativa»50.

E se ci chiediamo cosa vi cercano, la risposta è legata proprio al carattere esoterico

del New Age, cioè a quella ricerca di una sapienza universale ignota ordinariamente e che

viene svelata a pochi eletti; il tutto viene collegato con la speranza che un tale sapere possa

apportare un effettivo beneficio per la propria anima. Scrive Aletti:

«Tra i Nuovi Movimenti Religiosi una proposta abbastanza comune è quella di una sorta

di “sapienza psicologica”, in cui tende a risolversi la “sapienza religiosa”. La salvezza

viene indicata come risultato di un percorso personale di autorealizzazione; il rapporto

col divino si riduce al perseguimento di un benessere o insieme fisico, psichico,

spirituale»51.

Ci si accosta, quindi, ai Nuovi Movimenti Religiosi del tipo New Age per dare

risposta ai bisogni psicologici di identità, affettività, spontaneità, valorizzazione di sé…

Quei bisogni che restano scoperti nella nostra società postmoderna, vittima dell’aggressione

senza quartiere della cultura tecnologica. Si cercano profonde sensazioni di benessere anche

attraverso la musica e l’uso dell’incenso. Si fa così leva sui sentimenti. Qui, però, dal nostro

punto di vista, va operato un altro essenziale discernimento critico. Il cristianesimo non è

una religione del sentimento, il cristianesimo è una religione delle emozioni. Mentre il

sentimento si consuma in un movimento centripeto, l’emozione (ex-movere) indica un

esposizione del soggetto fuori di sé verso la realtà che lo circonda e che lo supera.

49 PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA-PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2003, 71-72.50 ALETTI, Psicologia e nuove forme, 3251 ALETTI, Psicologia e nuove forme, 34

46

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2.2. Il registro sociale

Ci si può accostare al sacro attraverso i Nuovi Movimenti Religiosi anche per

rispondere ad un bisogno di appartenenza, di far parte di un gruppo. Si tratta di un bisogno

di socialità che oggi non viene più assicurato dalla depressione burocratica della

cittadinanza postmoderna.

Scrive Aletti:

«[…] l’appartenenza e l’identificazione col gruppo sono spesso una scorciatoia alla

ricerca, alla strutturazione ed al rinforzo dell’identità personale e religiosa. E può essere

perseguito l’effetto securizzante offerto dall’adesione ad un gruppo a struttura settaria,

sostenuto da forte coesione interna e chiusura esterna […]»52.

Quei Nuovi Movimenti Religiosi, che rispondono maggiormente a questo registro

(pensate alla Chiesa dell’Unificazione di Moon o alla setta dei Raeliani), presentano una

forte ortodossia ed anche forme di culto molto strutturate. Altre caratteristiche comuni sono

una certa credulità ingenua dei loro adepti e il frequente ricorso a sofisticate tecnologie.

La maggiore disponibilità a credere ai miracoli rispetto all’epoca moderna, cosa che

interessa anche il cristianesimo, è ovviamente legata al crollo della razionalità moderna,

mentre l’alleanza siglata tra questi gruppi religiosi di nuova generazione e la rete Internet si

va facendo sempre più stabile: Internet diventa, infatti, luogo di devozione culturale, di

preghiera, di scambio di esperienze, di direzione spirituale, e alcuni vi celebrano anche

qualche sacramento.

2.3. Il registro intellettuale

Puntuale la descrizione di Aletti:

«Si tratta di una modalità osservabile soprattutto tra i ceti cosiddetti intellettuali […], i

quali, pur non sentendosi di aderire ad una specifica religione istituzionalizzata,

attribuiscono una posizione centrale alla spiritualità, al sacro, alla mistica»53.

Registriamo così una ricerca del sacro fortemente connotata sul versante

intellettualistico, che sfocia in una vera e propria gnosi. Coloro che ne stabiliscono le linee

fondamentali in genere combattono le dottrine metafisiche delle religione classica, e

prospettano una visione del divino piuttosto sfuocata a metà strada tra l’irraggiungibile e

l’irrazionale.

52 ALETTI, Psicologia e nuove forme, 36.53 ALETTI, Psicologia e nuove forme,40-41.

47

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3 .Le caratteristiche della religione postmoderna

Tre sono le caratteristiche principali della religione postmoderna:

1) Credenza senza appartenenza

2) Risposta ai bisogni

3) Indifferenza alla dimensione etica

La prima caratteristica è stata acutamente rilevata da Grace Davie e spesso la si cita

direttamente in inglese: “Believing without belonging”54 ed indica la mancanza di una

componente istituzionalizzata di questi Nuovi Movimenti Religiosi. La seconda e la terza

caratteristica esprimono il fatto centrale che quella da essi proposta è una religione del

bisogno, quindi legata all’individuo e che in genere appare disinteressata all’aspetto etico e

sociale del suo comportamento.

4. Un primo tentativo di valutazione

Come dinanzi ad un qualsiasi fenomeno recente, anche nel caso dei Nuovi

Movimenti Religiosi, una certa cautela è d’obbligo. Se il punto centrale della religione

postmoderna è una collusione tra la ricerca del sacro e la cura del sé, allora dobbiamo

ritenere che, sotto la visuale della psicologia, non appare illogico ammettere una continuità

tra ricerca del senso e risposta religiosa; la psicologia si limita a verificarne le forme

patologiche, che normalmente si annunciano nel passaggio dal Io credo in Dio all’Io credo

che Dio. Sotto la visuale della teologia, Sequeri invita a riconoscere la positività della

stagione presente, nella quale c’è più opposizione tra realizzazione di sé e offerta di

rivelazione, come invece affermava la modernità. Il problema autentico resta semmai quello

di propiziare un dibattito pubblico sull’umano, su ciò che è degno dell’uomo e quindi di

Dio, ovvero sulle qualità non negoziabili di una religione.

54 Cf G. DAVIE, Religion in Britain since 1945. Believing without Belonging, Blackwell, Oxford-Cambridge 1994.

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Il postmoderno spiegato ai parroci /5

IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO/1: LA PAROLA AI FILOSOFI

In questo incontro propongo di interrogarci sul futuro del cristianesimo di fronte alla

mentalità postmoderna, che abbiamo descritto negli incontri precedenti, a partire da una

prospettiva particolare. È quella dei filosofi. Si tratta di un esperimento di estraniazione:

dobbiamo cercare di vedere la nostra realtà ecclesiale ed il suo possibile sviluppo futuro

con uno sguardo dall’esterno. Concretamente vi propongo, in sintesi, i risultati di una mia

ricerca che è poi diventata un libro dal titolo Della fede dei laici55. Quel libro era partito

dalla constatazione che negli ultimi cinque-dieci anni numerosi filosofi italiani (e non solo)

avevano dedicato molto spazio al cristianesimo e me ne chiedevo la ragione. A questa

curiosità iniziale è subentrata la presa di coscienza che questi filosofi, senz’alcun intento

apologetico, affermano così interessanti sul cristianesimo e che era possibile istruire, grazie

alle loro opere, un tentativo di decifrazione del futuro del cristianesimo. Sempre in modo

conciso, ripropongo per voi lo schema del mio testo: ho individuato cinque grandi approcci

al cristianesimo e all’interno ho inserito di volta in volta tre filosofi che presentavano tesi

tra di loro avvicinabili. La ricerca ha avuto come punto di riferimento insostituibile il

confronto e la guida del prof. p. Elmar Salmann osb, con cui mi onoro di elaborare la mia

tesi di dottorato in teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoria in Roma.

Vediamo allora questi cinque grandi paradigmi di lettura del cristianesimo.

1. Il cristianesimo impossibile

Per i filosofi di questo primo gruppo, la contemplazione della verità dichiara l’intrinseca

impossibilità del cristianesimo.

Partiamo subito da U. Galimberti, che abbiamo già incontrato nel nostro percorso. Egli

non ha alcun dubbio, quando afferma:

55 Rubbettino 2001. Poiché in questo testo si trovano tutti i riferimenti bibliografici e le argomentazioni complete, mi limiterò in ciò che segue ad esprimere l’essenziale dell’interpretazione che del cristianesimo danno i filosofi chiamati in causa.

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«La religione morirà. Non è né un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto

che sta attendendo il suo compimento»56.

La ragione di questa affermazione sta nella presa di coscienza che la nostra civiltà sarà

sempre più monopolizzata dalla tecnica, la quale porterà all’inevitabile distruzione del

senso della storia. Nell’interpretazione di Galimberti, infatti, la religione cristiana vive del

suo rapporto fondamentale con la storia. Quest’ultima, però, come prodotto religioso, si dà

solo a partire dal fine ultimo a cui si è proiettati (la salvezza, appunto): fine ultimo che

determina la continuità storica con il presente ed il passato e stabilisce il senso dell’agire.

La tecnica, però,

«non si propone fini; ciò verso cui si muove non sono scopi, ma risultati delle sue

procedure, per cui se la coscienza dell’uomo occidentale è ancora persuasa della

continuità storica, il carattere afinalistico della tecnica ha tolto a questa continuità

qualsiasi orizzonte in cui reperire un senso. In questo modo la storia giunge alla propria

fine, che viene a coincidere con il suo dissolversi nel fluire insignificante del tempo»57.

Senza questo senso del tempo, la religione cristiana è destinata alla scomparsa.

Maestro di Galimberti è stato E. Severino, secondo il quale tutto la civiltà

occidentale è sostanziata da un peccato originale, dal quale non è riuscita a redimersi. Il

nome di questo peccato è la fede nel divenire:

«L’Occidente è il luogo in cui, nei modi più diversi e contrastanti, si pensa un identico

tratto essenziale e decisivo: che una cosa – uomini, animali, piante, stelle, pensieri,

sentimenti, giorno, notte, situazioni, eventi, forme, figure, sostanze, funzioni, ombre,

realtà, manufatti, illusioni – è ciò che può sciogliersi dal suo essere, ossia può essere

nulla quando ancora non è entrata o fatta entrare nell’essere e quando ritorna o è fatta

ritornare nel nulla. L’Occidente è il luogo dove questo pensiero diviene

progressivamente dominante e dove ogni aspetto della vita finisce con l’essere vissuto

conformemente ad esso»58.

Credere che l’essere possa trasformarsi in nulla o che dal nulla possa venire l’essere

è la grande illusione dell’occidente; in realtà ciò che è non può non essere mai ed in nessun

caso: è la grande lezione di Parmenide che deve essere tenuta presente come guida verso la

verità, la quale afferma l’eternità di ogni ente.

Secondo Severino, anche il cristianesimo fa sua la fede nel divenire e quindi è

contaminato nel profondo dall’errore. Vorrei poi rilevare un’altra cosa a proposito di

56 U. GALIMBERTI, «Nessun Dio ci può salvare», in Micromega (2/2000), pp. 187-198: qui 187. 57 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, 516.58 E. SEVERINO, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, 283-284.

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Severino: e cioè il fatto che egli, di tanto in tanto, sulla terza pagina del Corriere della Sera,

si diletta a mostrare l’interna impossibilità del cristianesimo, montando ad hoc

contraddizioni tra la teologia di Tommaso e certi brani della Scrittura. La summa di questi

giochi di prestigio è Pensieri sul cristianesimo.

Nel gruppo di coloro che affermano l’impossibilità del cristianesimo troviamo pure

M. Sgalambro, che è famoso non solo come filosofo ma anche come paroliere di F.

Battiato. Le sue idee si diffondono così in modo ampio: pensate che la l’album che contiene

la canzone La cura, il cui testo è stato da lui scritto, ha venduto un milione di copie. Cosa

dice Sgalambro? Per lui l’unica verità è la morte del sole, che può essere dedotta

dall’analisi del secondo principio della termodinamica, quello che stabilisce l’inevitabile

collassamento del sistema solare a causa dell’entropia, cioè della tendenza di ogni sistema

aperto a disperdere l’energia. Di fronte a questo destino di morte che attende ogni realtà

esistente, Sgalambro propone una teologia dell’empietà, che ha come presupposto il fatto

che sia proprio Dio l’artefice di un tale disastro:

«Dio, tutto ciò che è ‘altro’ lo uccide. Ille homicida erat ab initio. Si ritorna, dunque, ad

ogni costo, contro di noi, come se la grossissima fune a cui fummo legati sin dalla nascita

fosse tirata sempre più in fretta, e qualsiasi forza contrapponessimo non valesse a niente

perché chi o cosa ci tira, chi o cosa ci ‘aduna’ con un fischio è lo stesso ‘Essere’» 59.

Si capisce bene che il cristianesimo, che invece invita ad un atteggiamento di fiducia

nei confronti di Dio, venga dichiarato dal filosofo siciliano una terribile illusione: Dio è

contro l’uomo. Il cristianesimo offre solo bugie ed è pertanto una fede nella quale si

ritrovano, scrive Sgalambro,

«tutte le idee esemplari e ripugnanti di ogni religione. Esso è impastato della nostra

“merde”. Colui che si schiera dalla parte di Dio è l’uomo non umano, l’uomo “senza

valore”, la bestia feroce fornita di ragione come l’elefante di zanne, la belva umana. […]

Il cristianesimo è l’era animale dello spirito. Esso […] è la religione più animalesca che

si sia data una organizzazione concettuale»60.

Certo l’atteggiamento di costoro è un atteggiamento minoritario, ma che resta

presente in Italia e viene diffuso perché Severino e Galimberti scrivono regolarmente sul

Corriere e su Repubblica, mentre Sgalambro, pensate, va in tournée con Battiato. Qualcuno

potrebbe chiedersi cosa c’entri tutto questo con la nostra vita da parroci? Ebbene questi

filosofi formalizzano l’atteggiamento di molti nostri fedeli, quando, dinanzi al dolore o alla

59 M. SGALAMBRO, Dialogo teologico, Adelphi, Milano 1993, 42.60 M. SGALAMBRO, «Lettera sull’empietismo», in MicroMega (2/2000), 199-205, qui 202.

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morte, non riescono a trovare soluzioni e non riescono ad accettare la proposta della fede.

Chi di noi non ha sentito espressioni come le seguenti: “Perché Dio si è preso mio marito?”,

“Perché Dio si è preso mio figlio?”. L’invito è quindi ad una proposta del cristianesimo

maggiormente capace di trasmettere il senso del mistero. Alcune volte sento parlare qualche

parroco che piuttosto di mostrare di essere stato afferrato da Cristo sembra aver afferrato,

lui, una volta per tutte, Cristo! Dobbiamo confessare che il mistero di salvezza nel quale

siamo inseriti è più grande di noi.

2. Il cristianesimo potenziale

In questa sezione incontriamo alcuni intellettuali italiani che propongono come

essenziale per un autentico inveramento dell’uomo la sua tensione a superare i limiti

dell’esperienza o quanto meno ad avvicinarsi ad essi. Il cristianesimo resta qui possibilità

aperta, spazio e luogo di scambio. Iniziamo con la conoscenza di F. Rella. A suo avviso la

ragione non può non tenere conto della sua ombra, che è la realtà del mistero che circonda

ogni realtà. Proprio di questa zona si occupa quel “pensiero del confine” che Rella propone.

Un tale pensiero riesce a rintracciare una storia altra, diversa da quella del mito

illuministico di un progressivo inveramento della ragione:

«È la storia dei lampi di luce che hanno mostrato striature d’ombra sull’orizzonte dello

sguardo umano. È la storia dei tentativi di portare oltre lo sguardo queste zone d’ombra,

e di come, questi tentativi abbiano spesso scoperto coni d’ombra più fitti e più

impenetrabili. Questa storia ha dei personaggi, che compaiono sulla scena, e poi

spariscono dietro le quinte e ricompaiono ancora. È in tale movimento, che questa storia

tende a un significato più ampio e più profondo. Non certo quello di diventare la storia,

ma almeno di esserne come un alone d’ombra che l’accompagna»61.

In queste zone d’ombra Rella rintraccia una soglia, un possibile passaggio, un luogo

non-luogo dove un incontro con il divino è possibile, dove sta la radice del mistero

dell’uomo:

«Forse in questa scissione e in questa tensione, in questo limen, su questa soglia sta il

senso stesso dell’uomo e del divino. Ma allora dovremmo riconoscere che, al di là del

mistero dell’essere e del mistero del nulla, c’è per l’uomo un mistero che non lo sovrasta

e uccide, un mistero che è il suo mistero: uno spazio intermedio, una patria che non è

una patria, un’“assenza di luogo” in cui essere radicati»62.

61 F. RELLA, Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero, Feltrinelli, Milano 1994, 66.62 RELLA, Le soglie dell’ombra, 86.

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Su una frequenza simile si muove Roberta De Monticelli, secondo la quale la

questione più urgente della filosofia è quella dell’io, cioè del suo peso, di una sua possibile

configurazione segnata dall’autenticità. Oggi, registra la De Monticelli, il nostro io è

configurato piuttosto sul registro della mediocrità:

«Oggi percorriamo a volo la sapienza dei millenni, in edizioni tascabili. E spaziamo con

lo sguardo quasi fino ai confini dell’universo fisico. Eppure viviamo in un mondo

piccolissimo, piccolo quanto è corto il raggio di ciò che è a portata di mano, o il raggio

della nostra volontà. Non questa o quella personalità è mediocre, mediocre è in chiunque

l’io, questo manager dell’impresa privata o consociata della sopravvivenza, che porta

ovunque con sé la propria fame, la propria vanità e la propria morte»63.

Il problema diventa quello di come conquistare l’autenticità dell’io. In questo la De

Monticelli si fa discepola di Platone, di Agostino, di Plotino, di Michelstaedter e della

scuola fenomenologica. Ritiene, tuttavia, che il sapere filosofico non sia all’altezza di un

tale sapere, perché troppo oggettivo; è necessario individuare forme di razionalità meno

pretestuose e più aperte alla ricchezza del reale. Per questo tra le opere di questa pensatrice

troviamo un libretto di poesie intitolato Le preghiere di Ariele, nel quale il tema di fondo è

la ricerca dell’autenticità dell’io e il ruolo di Dio in questa ricerca.

Leggiamo due poesie. La prima poesia che propongo riprende il dialogo tra Ariele e

Dio, già tema di altre poesie, nelle quali però, nonostante la richiesta di Ariele, Dio, definito

come colui che non esiste, non risponde, non partecipa al dialogo. Il nostro Ariele, tuttavia,

non si lascia scoraggiare dal silenzio del suo inesistente interlocutore:

«Preghiera Quarta

Perdonami se insisto

ma non si può assuefarsi a consumar se stessi

pero del resto niente

se non come fai Tu che non esisti.

Ti sia come lo squillo telefonico

che chiede senza osare: chiama –

- questa insistenza. Chiama

tu, dammi un segno, oppure

un rovo da bruciare»64.

E Ariele, alla fine, ottiene una risposta. Ecco l’altra poesia:

63 R. DE MONTICELLI, La poesia è preghiera?, in C. M. MARTINI, La preghiera di chi non crede. VII Cattedra dei non credenti, Mondadori, Milano 1995, 65.64 R. DE MONTICELLI, Le preghiere di Ariele, Garzanti, Milano 1992, 14.

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«Preghiera Quinta

Grazie.

Di questa tua risposta concisa:

tuoi sono i fatti, nostre le parole.

Grazie:

di questa tua risposta breve e lieve

com’è ciò che accade.

Ti prego, non sorridere adesso

se ti chiedo perplessa: credi

solo perché le tue parole sono cose

e le cose finite –

- di mostrarmi così che non esisti?»65.

Ariele è invitato a far leva su se stesso ed in tal modo forse “toccherà” Dio. Dio, se

esiste, non si incontra sulla carta delle nostre argomentazioni. Dio, se esiste, non si lascia

raggiungere come un risultato terminale. Dio, se esiste, si sfiora quando si dispiega – grazie

a Lui – l’ala della nostra mente (questa è un’espressione di sapore fortemente agostiniano).

L’ultimo filosofo di questo secondo raggruppamento è un personaggio davvero

singolare. Si chiama A. Emo, il quale per tutta la sua esistenza ha tenuto un lungo diario

filosofico, ma non ne ha mai reso noto nulla in vita. A suo avviso la questione centrale della

filosofia è quella della conoscenza di se stessi. Un tale obiettivo è però realizzabile

unicamente attraverso il contatto con l’assoluto, al quale si può giungere solo mediante la

negazione:

«L’uomo desidera naturalmente pervenire alla coscienza dell’assoluto, cioè alla

coscienza di sé. Ora all’assoluto, alla divinità e a se stesso non può pervenire che

mediante la negazione, nell’attualità del suo negarsi che è la sua immortalità»66.

L’assoluto, del resto, non può essere pensato nè pura presenza né come pura

trascendenza rispetto al pensiero umano, ma deve essere pensato come un assoluto

negativo. La negazione di sé è la verità dell’assoluto, dice Emo. Ed in questo l’io e Dio si

incrociano:

«Io non sono io, io sono l’infinita diversità da me; io non sono io, io sono l’infinito

negarsi dell’infinito (dell’essere del tutto), così io solo l’altro, l’altro e l’infinito negarsi

che siamo. In questo principio sta la salvezza – l’infinito è l’infinito altro che noi siamo. 65 DE MONTICELLI, Le preghiere di Ariele, 17.66 A. EMO, Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, a cura di M. Donà-R. Gasparotti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, 76.

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Noi non siamo noi, siamo l’infinita diversità dell’altro e dall’altro. Noi siamo il negarsi

dell’infinito, che è attuale resurrezione; l’infinito altro è il solo medesimo – questo

significa essere l’atto del negarsi dell’infinito come l’unico essere. Il nostro fondamento

è il negarsi dell’infinito. Siamo nella salvezza quando siamo il sacrificio dell’infinito»67.

E, sempre secondo Emo, questa è la verità sostanziale del cristianesimo, che ha al

suo centro il dogma dell’incarnazione:

«L’essenza del Cristianesimo è l’identità tra l’individuo e l’assoluto, tra l’individuo e il

tutto, in quanto entrambi sono attualità della propria negazione, reali in quanto

negativi»68.

Un altro tema caro ad Emo è la contrapposizione tra il cattolicesimo ed il

cristianesimo, su cui vale la pena leggere questo brano:

«Il Cattolicesimo contiene una quantità enorme di valori morali, culturali e religiosi, che

sono nostro comune patrimonio; è il custode dell’antichissima tradizione mediterranea e

romana, è un interprete tradizionale millenario, imparziale e quindi infallibile del più

alto codice morale, è disciplinare e insieme umanistico, è mistico e insieme plastico, è

antico e moderno, è autoritario, gerarchico, intransigente e insieme democratico e

sociale: è vicino alle masse di cui interpreta il senso realistico: una cosa esso non

contiene più: il cristianesimo»69.

L’accusa principale rivolta al cattolicesimo è che esso è una religione attenta alle

masse e non invece al singolo individuo; esso, con i suoi dogmi, vuole tenere stretti a sé gli

individui e tenta anche di costringere nella sua teologia la stessa libertà di Dio, che invece

ha scelto la strada della debolezza, la strada dell’incarnazione:

«Il punto debole delle religioni è Dio. Esse vogliono imporre ed affermare e far

concepire l’inconoscibile, anzi addirittura dimostrarlo. Per ovvie ragioni, la

dimostrazione dell’esistenza di Dio è un deicidio. Qualunque tentativo di dimostrare

l’esistenza in genere è un deicidio. Dio è il punto debole di qualunque sistema, di

qualunque pensiero – ogni pensiero presuppone qualcosa di misterioso: l’origine e la

facoltà di pensare il soggetto: un presupposto che condiziona il pensiero e che il

pensiero non può pensare – e questo mistero che è presupposto dal pensiero, dalla

conoscenza e dalla coscienza è ciò che non si può pensare, né concepire, né possedere; è

il puro irrazionale, che crea la logica, ma è al di là di essa; è l’irrazionale che fonda la

razionalità, l’arbitrio che dona le leggi a cui soggiace - anche la logica dialettica, la

67 A. EMO, «“In principio era il Verbo, poi venne la conversazione” (inediti dai Quaderni 1964-1981, a cura di R. Gasparotti)», in Itinerari filosofici 3 (1993), pp. 149-159: qui p. 156.68 A. EMO, Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull’arte 1918-1981, a cura di M. Donà-R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 27.69 EMO, Le voci delle Muse, 50.

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potenza del negativo, la creazione mediante la negazione, è un appello all’irrazionale, al

punto debole del ragionamento, della legge, della religione»70.

Mi permetto anche qui una riflessione di taglio pastorale: questi filosofi ci invitato

ad una presentazione del cristianesimo più ricca di mistagogia. Il mistero che si è reso

visibile nell’evento di Nazaret chiede di essere presentando con maggiore delicatezza ed in

questo modo il cristianesimo non apparirà solo come un insieme di dottrine e di regole, ma

anche e soprattutto come esperienza della debolezza di Dio verso l’uomo.

3. Il cristianesimo finito

Il terzo paradigma che presento è quello del cristianesimo finito. L’aggettivo

“finito” deve essere inteso in due sensi: il primo è quello per il quale la secolarizzazione ha

vinto sul cristianesimo e quindi esso è finito; il secondo senso è un invito al cristianesimo a

ripensare la sua presenza nella storia come realtà limitata e ridotta.

Avviamo il discorso con M. Ruggenini. Egli dichiara che nei nostri giorni non

avvertiamo più il senso del divino proprio a causa del cristianesimo. Nella sua storia,

quest’ultimo ha talmente elevato la potenza di Dio e la sua distanza dalla finitezza del

mondo, da ammettere solo un Dio senza mondo. A tale gesto oggi fa da contraccolpo il

nostro mondo senza Dio. Il filosofo veneziano propone allora di riscoprire l’esperienza del

divino, oltre il cristianesimo, come esperienza del mistero dell’uomo, della sua finitezza,

che è tale proprio perché è sempre rinviata ad altro, a ciò che le manca. In tale contesto

emerge la figura del Dio dell’assenza. Ad avviso di Ruggenini, infatti, solo l’assenza è la

relazione possibile tra il divino e l’uomo. L’uomo può vivere la sua esistenza solo

nell’assenza del divino, che “mancando” gli apre sempre nuovi e mai definitivi spazi e

rinvii di esistenza. In questo modo il Dio dell’assenza

«non invade l’uomo con la positività senza difetto del suo essere tutto compiuto, a cui

nulla manca e nulla viene meno, ma lo lascia essere in quanto si ritrae e lo rispetta; gli

affida così la responsabilità di abitare la terra della sua assenza; in tal modo non lo

abbandona al nulla, ma gli affida il proprio essere, vale a dire il proprio mistero; il Dio

dell’assenza è infatti come Dio solo se il suo ritrarsi non lo precipita nell’oblio, ma si fa

ricordare come tale dall’uomo»71.

Un tale Dio dell’assenza non sarà, come il Dio del cristianesimo, un Dio senza

mondo, ma un Dio finito, «un Dio che non può essere senza l’uomo, come l’uomo non può

70 EMO, Le voci delle Muse, 15.71 M. RUGGENINI, Duemila anni e ancora nessun nuovo Dio!, in R. MANCINI (ed.), Cristianesimo in eredità. La filosofia di fronte alla fede, Cittadella editrice, Assisi 2000, 94-130:112.

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essere senza Dio; non il Dio che si fa riconoscere dalla sua onnipotenza, ma il Dio che

mette in gioco il suo essere – la sua alterità - in relazione alla possibilità di esistere a cui

chiama l’uomo»72.

Su queste premesse Ruggenini invita il cristianesimo ha ripensare in fondo la sua

teologia al fine di ritornare ad essere fedele alla terra, così come impone il tema

dell’incarnazione, ed indica anche alcune piste:

«Ma il Dio che si è rivelato in Cristo può essere Dio solo a patto di non contendere

nemmeno con gli altri dei, con le altre rivelazioni del divino. Se il Cristo viene da Dio,

non porta agli uomini una verità che abbia bisogno di trionfare d’ogni altra che sia stata

capace di illuminare l’esperienza della loro finitezza. La verità è divina non se scatena la

contesa metafisica per il primato e la signoria sulla terra, ma se accresce di luce ogni

luce che si sia accesa per gli uomini nelle tenebre»73.

Certo, non voglio entrare qui nel merito teologico della questione (nel mio libro si

possono trovare sviluppi in tal senso), ma mi sembra utile ribadire questa doppia fedeltà, a

cui il cristianesimo non può rinunciare: alla trascendenza del mistero santo e alla terra.

Nella linea del cristianesimo finito troviamo anche S. Natoli. A suo avviso il

cristianesimo è finito. È vero che ancora circolano vescovi, preti e suore ma sono un

anacronismo che la storia sta provvedendo a cancellare. La secolarizzazione ha vinto: lo

abbiamo già visto nel secondo incontro, l’uomo contemporaneo non ha più bisogno di

salvezza, cerca solo ed esclusivamente il benessere. Insomma come parroci, dice a noi

Natoli, non avrete più clienti.

Compito della filosofia, in questo mutato scenario culturale, diventa quello di

insegnare agli uomini il mestiere di vivere e per Natoli il ritorno alla sapienza pagana può

rivelarsi una fonte di insospettata utilità; da qui la sua proposta di un neopaganesimo.

Il neopaganesimo intende recuperare un rapporto diretto e immediato con i grandi

temi della vita: quello del dolore, della felicità, della morte, e li calibra sul metro

dell’equilibrio e della forza. Attraverso quest’opzione il soggetto ritrova la possibilità di

essere all’altezza della sua finitezza senza promesse di trascendenti salvezze: «Bisogna

apprendere a padroneggiarsi sia quando ci si realizza, sia quando si patisce: bisogna

divenire potenti sul proprio stesso dolore. E allora non ha più senso aspettarsi salvezze»74.

Da questa intuizione emerge la ricerca di uno stile di vita che esprima la conquista di una

72 Ibidem.73 M. RUGGENINI, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondadori, Milano 1997, 259-260.74 RUGGENINI, Il Dio assente, 120.

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misura, di un equilibrio con la realtà che ci circonda. In questo contesto viene meno allora

ogni discorso su una trascendenza di tipo cristiano e all’uomo non resta che dominare la

contingenza. Di Dio allora nessuna traccia, dopo la sua necrosi. Resta solo spazio ad

un’esperienza del divino quale mistero dell’esserci del mondo.

In modo interessante, tuttavia, Natoli recupera la figura di Gesù, non certo nella sua

realtà teandrica, ma come modello di pro-esistenza valido ancora oggi:

«[…] Gesù indica agli uomini una vita superiore, testimonia che è possibile quello che

in genere e per lo più sembra impossibile: trasformare l’amor sui, l’amore di sé, in dono.

In ciò nessuna autonegazione, meno che mai autodenigrazione: piuttosto la possibilità

inusuale, sì, ma in larga parte voluta e creduta, di una più piena ed alta realizzazione di

sé attraverso la circolarità dell’amore, amore per gli altri»75

Ultimo filosofo di questo gruppo è G. Vattimo. La sua opera Credere di credere ha

suscitato grande interesse ed in certo senso può essere indicato proprio come il punto di

svolta dell’interesse della filosofia verso la nostra religione. La tesi di Vattimo è precisa:

per far fronte ai grandi temi della vita, oggi non abbiamo altra e migliore risorsa che il

cristianesimo con il suo messaggio di un Dio d’amore che invita gli uomini alla reciproca

accoglienza. Un tale cristianesimo, però, viene incontrato dopo l’esperienza incancellabile

della secolarizzazione, cioè quel processo di purificazione delle immagini sacrali del divino

e delle istituzioni umane realizzatosi nella modernità. E, dice Vattimo, a guardare bene le

cose cristianesimo e secolarizzazione non stanno in opposizione. Infatti, con l’incarnazione

di Gesù si avvia un processo di kenosi del divino che, da una parte, denuncia ed abbatte le

immagini violente del sacro naturale, dall’altra, dichiarando che il vero nome di Dio è

quello dell’amore, si pone quale inizio di un’opera «di educazione dell’uomo al

superamento della originaria essenza violenta del sacro e della stessa vita sociale»76, che

ancora continua e agisce nel presente.

Si costituisce così, secondo Vattimo, un circolo “virtuoso” tra cristianesimo e

secolarizzazione-postmodernità. Noi oggi siamo così aperti, dialogici, comprensivi,

postmoderni perché siamo cristiani. E sin qui forse non avremmo molto da obiettare.

Vattimo, però, porta fino in fondo la sua riflessione e, da cultore dell’ermeneutica, propone

che a decidere del futuro del cristianesimo sia proprio il nostro oggi, secolarizzato e

postmoderno. Ecco da dove nasce la sua proposta di un cristianesimo non-religioso, senza

dogmi e senza morale.

75 RUGGENINI, Il Dio assente, 26.76 G. VATTIMO, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, 42.

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Il cristianesimo al quale punta Vattimo si costituisce quale «principio di

“insaporimento” dell’esistenza attraverso riferimenti di connessione, nessi di senso e di

relazione»77. Un cristianesimo da sviluppare come scelta di vita, come creazione di un gusto

estetico, di uno stile etico personale e di una forma riconoscibile di presenza nel mondo. Un

cristianesimo che disponga gli uomini a sperimentare nella loro vita la salvezza che

promette78.

Una breve riflessione pastorale. Un atteggiamento vicino a quello di Vattimo è

rinvenibile soprattutto nei nostri giovani, i quali spesso manifestano aperta insofferenza nei

confronti di un cristianesimo fatto di peccati e di confessioni, un cristianesimo del “no”

piuttosto che del “sì”, un cristianesimo che esalta talmente la castità da non essere più

visibile ad occhio nudo. Tale repellenza, pur non dovendo portarci a svendere le nostre cose

belle (amare, abbiamo visto, non è una realtà che si apprende così facilmente ed il sesso,

quando funziona, anche se ha il potere di surriscaldare i nostri ormoni non ha il potere di

riscaldare il cuore), dovrebbe essere per noi uno stimolo a presentare la proposta morale

cristiana in termini di concreatività e di crescita. Dobbiamo aiutare gli altri a scoprire il

fascino, lo charme, la gioia della parola evangelica: quel fascino, quello charme, quella

gioia, che un giorno hanno portato ciascuno di noi a lasciare padre, fratelli e barche, per

seguire il Signore Gesù.

4. Il cristianesimo gnostico

In questo quarto gruppo incontriamo pensatori forti che esercitano un dialogo

interso con la fede cristiana sul tema più scoperto della postmodernità e della stessa

modernità: e cioè sul legame della verità con la libertà. La domanda di fondo potrebbe

essere così formulata: quale verità non lede la libertà di colui che l’accoglie? Ovvero: è

possibile un’esperienza libera e liberante della verità?

Iniziamo da un filosofo italiano molto noto, Massimo Cacciari. A suo avviso la

teologia cristiana è tutta hegeliana. La verità di Dio, fin dal principio, scioglie il problema

della libertà dell’uomo: tutto è già predeterminato ed in attesa di sviluppo; all’uomo resta

solo la libertà di accogliere questa manifestazione storica della verità. In realtà, afferma

77 G. VATTIMO-P. SEQUERI-G. RUGGERI, Interrogazioni sul cristianesimo. Cosa possiamo ancora attenderci dal Vangelo?, Edizioni Lavoro-Editrice Esperienze, Roma – Fossano (Cn) 2000, p. 124.78 «La salvezza è anzitutto salvezza della vita: vivere senza sensi di colpa, tentando di stare attenti agli altri e a Dio, ascoltando la voce, i messaggi, gli appelli. […] Liberazione dal peccato è quindi liberazione anzitutto dall’angoscia della finitezza e, forse, anche dagli aspetti più angoscianti della finitezza in quanto mortalità» (VATTIMO- SEQUERI-RUGGERI, Interrogazioni sul cristianesimo, 96.98).

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Cacciari, la questione è più complessa: la verità non sta all’inizio, all’inizio sta la semplice

presenza del mondo e dell’uomo con la sua tragica libertà. La creazione non può essere a

suo avviso semplicemente decifrata sul registro della provvidenza previdente di Dio. È

piuttosto un arrischio di Dio. Di ciò che c’è non si dà alcuna necessità, solo libertà. La

verità sta alla fine, è appesa alla sommatoria di tutte le libertà.

In questo contesto Cacciari intercetta la rivelazione cristologica. Gesù, sulla croce,

non rivela la verità della libertà, cioè Dio come perfetto architetto del mondo, ma rivela la

libertà della verità, e cioè che Dio stesso è in gioco con la nostra libertà:

«Alla divina ignoranza dell’Inizio corrisponde la divina ignoranza della Fine. E qui

soltanto intuiamo, per enigma, il senso radicale della kenosi: svuotamento di Sé al punto

di affidare alla libertà della creatura la realizzazione della stessa promessa. Nella libertà

dell’uomo di accoglierlo o di rifiutarlo, è radicalmente in gioco lo stesso disegno divino,

già, certo compiutamente apparso nel Figlio»79.

In questo ambito si dà spazio solo per un cristianesimo agonico, capace di resistere

alla tentazione di chiudere i conti con la storia, sulla scorta della domanda di Gesù: “Ma il

Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Per questo

«La fede cristiana è, sì, certezza, ma certezza di un Annuncio che rimane

angosciosamente rivolto all’Inizio e alla Fine: un Annuncio che non risolve nella sua

Parola l’Inizio (ma la cui Parola è nell’Inizio), e che promette salvezza senza poterla

anticipare o pre-comprendere. È una fede che geme nell’attesa»80.

Cacciari sembra dire che nessuno sa, nemmeno Dio, se verità e libertà sono

destinate ad incontrarsi.

Mi rendo conto che il linguaggio e il pensiero di Cacciari sono difficili, ma come

non vedervi formalizzate quelle tante domande che noi parroci raccogliamo, del tipo: “Ma,

se Dio sa tutto, perché ha permesso la nascita di un bambino malato?” oppure “Se Dio sa

tutto, perché non impedisce ai terroristi di fare del male?”. Filosofia e vita non stanno poi

tanto lontano, chissà se si può dire la stessa cosa delle nostre omelie e delle nostre

catechesi?

Accanto a Cacciari, incontriamo V. Vitiello, il quale propone nei suoi scritti una

distinzione radicale tra cristianesimo storico, il nostro, e verità del cristianesimo di Gesù. Il

primo, cioè il nostro, quello della Chiesa, è il cristianesimo che ha fondato Paolo:

79 M. CACCIARI, Primo monologo filosofico. Colloquium salutis. Domande a Bruno Forte di Massimo Cacciari, in B. FORTE, Trinità per atei, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 149.80 CACCIARI, Primo monologo filosofico, 149.

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«Paolo congiunge quanto Cristo aveva diviso: Dio e mondo, interiorità ed esteriorità,

fede e legge. Paolo secolarizza il cristianesimo. Ne fa una forza storica. Una forza

creatrice di storia. E ciò con estrema, lucidissima consapevolezza. […] Il cristianesimo

storico, il cristianesimo istituito da Paolo è la religione, dunque della Legge fondata

sulla fede. La religione della parola tutta disvelata, la religione dell’Offenbarung» 81.

Paolo formalizza il cristianesimo come rivelazione completa della verità, come

religione che intende redimere il mondo dal dolore e, grazie alla promessa della

resurrezione, dalla morte.

A questa forma di cristianesimo Vitiello contrappone la verità del messaggio di

Cristo, che da duemila anni attende di essere pienamente compreso. La verità di Cristo è la

croce, la verità della croce è quella di un cristianesimo senza redenzione:

«Il grido dell’ora nona è la voce più vera del Figlio dell’uomo, la voce dell’abbandono,

della solitudine estrema, del deserto del mondo dal quale si è ritratto il Padre. La Trinità

dice questo ritrarsi non d’altri che del Padre. Che in quanto Padre si ritrae, si sottrae, si

nega al Figlio. Questa sottrazione del Padre al Figlio nel Figlio è l’estremo dolore della

finitezza – che è tale solo per l’esperienza dell’infinito assentarsi dell’infinito»82.

La verità rivelata da Gesù è la verità della finitezza: tutto ciò che è, è finito ed in

quanto tale soggetto alla possibilità della non-esistenza. Gesù mostra che Dio patisce lo

stesso destino dell’uomo: la finitezza, della quale dobbiamo diventare custodi.

Sulla croce percepiamo la verità nel suo assentarsi. Dio non può promettere nulla.

Siamo tragicamente, in quanto finiti, liberi. Vitiello crea così un strano gioco tra filosofia e

cristianesimo, che lo spinge nei lidi di una vera e propria gnosi.

In questo ambito del cristianesimo gnostico troviamo anche M. Vannini, uno dei più

fecondi studiosi di mistica dei nostri giorni. A suo avviso la vera filosofia è mistica, che va

intesa come «esperienza dell’Uno al vertice della ragione, e poi seguita nelle sue vicende

all’interno del mondo cristiano, fino ai nostri giorni»83.

Compito della filosofia-mistica è quello di propiziare un contatto con Dio nello

spirito umano, e proprio una tale possibilità è quella offerta dal cristianesimo. O Meglio dal

cristianesimo giovanneo, perché il cristianesimo attuale è figlio di S. Paolo che ha ridotto

l’esperienza salvifica della fede a mera dottrina, a gnosi. Allora bisogna, secondo Vannini,

tornare al vangelo di Giovanni ed in particolare al tema della generazione del Verbo:

81 V. VITIELLO, Deserto ethos abbandono. Contributo ad una topologia del religioso, in G. VATTIMO-J. DERRIDA (edd.), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, 158.82 V. VITIELLO, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari 1995, 67. 83 M. VANNINI, Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 2000, 441.

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«È chiaro che Giovanni vuole insistere su una doppia generazione: quella eterna del

cosmo in Dio per mezzo del Logos e quella che avviene nell’anima del credente che,

appunto, accoglie il Logos stesso nella sua umanità, ovvero nell’uomo Gesù riconosce

Dio […]. In quanto è generato da Dio, come figlio di Dio, ovvero come un altro Cristo,

nel credente si genera infatti il Logos (si forma il Cristo, come dice Paolo), che dunque,

è insieme generante e generato»84.

In questo modo nel spirito del credente si attua quell’unità tra Dio e uomo che porta

alla salvezza:

«Nello spirito, dove è scomparso l’io e il tu, tutto appare bello e compiuto, il presente

eterno. La fine dell’alienazione è anche fine dell’opposizione tempo-eternità: il negativo

è momento essenziale dello spirito, e allora la gioia è piena nella e per la finitezza»85.

Per questo tutto l’apparato ecclesiale di mediazione tra il soggetto umano e quello

divino, formato di dottrine e codici di comportamento, viene giudicato negativamente e di

intralcio alla salvezza da parte di Vannini.

Anche in questo caso il rilievo pastorale è immediato. Chi di noi non ha dovuto

ascoltare qualche fedele affermare di non aver bisogno di confessarsi, perché ci si confessa

da soli? Oppure qualcuno dire che la comunione non è poi così importante in quanto basta

la preghiera del cuore? Certo, dietro queste sollecitazioni non vogliamo sminuire

l’importanza della mediazione ecclesiale, che ci assicura l’autenticità e la verità del nostro

cammino di fede, ma esperienza di fede e appartenenza alla chiesa non coincidono. Lo

sperimentare di essere amati personalmente da Dio, l’assicurare il cuore dei nostri

parrocchiani che essi sono individualmente amati da Dio e non certo il riempire i banchi

delle nostre chiese, è lo scopo del nostra sollecitudine pastorale.

5. Il cristianesimo tragico

L’ultimo gruppo è quello del cristianesimo tragico. Secondo questi autori il

cristianesimo appare quale promettente alleato per un pensiero che non abbia timore di

confrontarsi con gli abissi della ragione. Vi suggerisco come lettura molto proficua quella

delle opere del filosofo L. Pareyson, maestro di grandi intellettuali di oggi (Eco, Vattimo,

Givone e altri). La sua vicenda personale (la lotta contro il fascismo, l’esperienza della

guerra, la malattia al fegato, la morte della figlia) lo hanno spinto a riflettere sui temi

cruciali dell’esperienza umana, come quelli della sofferenza, del dolore e della morte. A

84 VANNINI, Il volto del Dio nascosto, 103-104.85 M. VANNINI, Mistica e filosofia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996, 167.

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suo avvisto chiunque si avventuri su questi sentieri non può non incrociare la grande

produzione poetica e poi i grandi testi della religione; in particolare per Pareyson è proprio

la tradizione religiosa cristiana quella che permette di pensare sino in fondo (quindi

restando in una prospettiva filosofica) i temi abissali del male, della libertà dell’uomo

(come potenza di bene e di male) ed infine il valore della sofferenza umana. Fino alla sua

morte lavorò a questi temi, e molte sue intuizioni ci sono rimaste solo nella forma di

abbozzo: il testo maggiore resta la postuma Ontologia della libertà.

Tra le tesi più forti e stimolanti di Pareyson ne ricordo tre: la prima è quella del

“male in Dio”, tesi da lui stesso definita temeraria e con la quale egli cerca di rispondere

alla domanda sul da dove viene la potenza del male. Ascoltiamo la sua risposta:

«Si dirà giustamente che Dio è origine del male, in quanto lo istituisce come possibilità;

ma resta del tutto escluso ch’egli possa esserne considerato l’autore, in quanto non ne

produce la realtà. Chi compie questa infausta e malaugurata operazione è l’uomo.

L’uomo è il ridestatore e il realizzatore del male ch’era ormai vinto, e in questa impresa

rivela un’imprevedibile potenza ed un’energia insospettata. Ciò accade perché questa

sua attività così efficace è quella stessa della libertà, che in Dio invece ha realizzato il

bene vincendo il male»86.

È l’uomo colui che rende reale quella possibilità di male che affètta d’ambiguità la

libertà originaria di Dio, ma che in Dio resta appunto possibilità totalmente vinta, esclusa,

ma nondimeno evocata. Il male, allora, entra con l’agire dell’uomo nel mondo e con il male

il dolore e la sofferenza. Questa è la seconda tesi, cui segue subito la terza. Di fronte a

questa constatazione l’esperienza religiosa cristiana, infatti, afferma il valore redentivo

della sofferenza e del dolore, cioè la loro capacità di contrastare la forza e la diffusione del

male. La sofferenza, afferma il cristianesimo, ha il potere di espiare il male, di riportare la

negatività alla positività. Ma da dove le giunge un tale potere, si chiede il filosofo?

«Dal fatto che anche Dio soffre. Anzi, la sofferenza è propria di Dio: divinum est pati.

Dio vuole soffrire. A ciò lo prepara quel tanto di cenotico che inerisce alla creazione,

nella quale egli si è ritirato in sé, si è volontariamente limitato e ristretto per far posto

all’uomo e alla sua libertà. La libertà umana è cominciata con un consapevole e

volontario sacrificio da parte di Dio»87.

La compartecipazione di Dio alla sofferenza della sua creatura trova il suo acme

nell’evento dell’incarnazione, nel quale Dio in Cristo prende su di sé l’abisso di

disperazione e di sofferenza dell’umanità, provocata dal peccato, e lo porta sulla croce. Ma 86 L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, 270.87 PAREYSON, Ontologia della libertà, 477.

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con un tale gesto Cristo non solo mostra la forza redentrice del dolore, perché la sofferenza

è redenzione, ma soprattutto ricorda all’uomo la positività originaria di Dio come vittoria

sul male e sulla morte.

Come si vede vengono toccati vertici altissimi di speculazione e penso che nel cuore

di ciascuno di noi sono ritornate le immagini di tanti crocifissi che incontriamo lungo le

strade della nostra parrocchia: senza Cristo come incastonare, come affrontare, come

accompagnare l’evento di sofferenze innocenti e a volte lunghe e mortali?

Tra i discepoli di Pareyson ho nominato prima anche S. Givone, il quale ritiene che

la filosofia non possa mantenere le distanze dalla vita, ma a tal fine deve acquisire le vesti

di un pensiero tragico, un pensiero che non tenti di stringere nelle sue maglie il reale, ma

che cerchi di lasciar trasparire nelle sue pieghe la libertà e l’imprevedibilità del reale. Si

tratta di donare uno statuto simbolico al pensiero filosofico e quindi concretamente di

avvicinarlo all’esperienza dell’arte e della religione.

Su queste premesse, Givone ha scritto un libretto delizioso intitolato Eros/ethos, la

cui tesi centrale è che l’esistenza umana è attraversata da continue contraddizioni perché

affidata alla libertà di ciascuno, una libertà che è chiamata ad autenticarsi in responsabilità

verso tutti e verso la storia nella quale si è posti. In questo nucleo filosofia e cristianesimo

si toccano; difatti:

«Contenuto essenziale del cristianesimo è l’espiazione della colpa: l’essere diviene altro

da sé, non è più prigioniero di se stesso, apre al più profondo rivolgimento dal male al

bene in forza di un atto che scopre la libertà nel cuore della necessità. Cuore dell’essere.

E cuore dell’uomo»88.

Il cristianesimo contemporaneo ha, tuttavia, rileva Givone, rimosso da sé questo

sapere tragico e non è più in grado di pensare la seria verità dell’esistenza umana:

«Questo dice Kierkegaard: o la religione ritrova il tragico in sé e sé nel tragico (tuttavia

superandolo, nel senso della “più alta tragedia”) o diventa comica, disperatamente

comica»89.

Per questo in diverse occasioni Givone ha invitato i cristiani a riscoprire la forza del

tragico, legata alla decisione di Dio di affidare alla libertà degli uomini l’edificazione del

Regno. Il punto è molto delicato, perché si tratta di comprendere che la storia nella quale

noi viviamo non è una storia apparente, alla cui fine tutto si risolverà per il meglio, come

nella tradizione cinematografica statunitense: è storia di libertà quella in cui siamo

88 S. GIVONE, Eros/ethos, Einaudi, Torino 2000, 86. 89 S. GIVONE, Disincanto del mondo e pensiero tragico, il Saggiatore, Milano 1989, 144.

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collocati, tragicamente libera, perché le nostre mani non sono indirizzate sempre verso

l’albero del bene e della vita.

Quanti autori abbiamo incontrato, non è vero? Infine chiude la porta di questo

nostro penultimo incontro S. Quinzio, un cristiano sine glossa. Le sue pagine, scritte col

cuore e non solo con il cervello, meritano sempre tanta attenzione da parte nostra. Ha scritto

soprattutto per noi uomini di chiesa, chiedendoci di rendere a Dio ciò che è di Dio e alla sua

parola ciò che è della sua parola. La chiesa, dice Quinzio, per comodità ha un po’

annacquato il vino bello del vangelo, delle sue promesse e quindi della forza irrompente

dell’evento Cristo, nel quale Dio dichiara la sua prossimità all’uomo fino alla morte e fin

oltre la morte. Ma è difficile annunziare la risurrezzione, è difficile dire che questo mondo è

destinato a scomparire con tutti i suoi agi e le sue raffinate gioie, per questo nel corso dei

secoli la fede è diventata morale. Questo è il vero punto dolente:

«Dobbiamo dunque prendere atto dell’apostasia della Chiesa che elude lo scandalo della

fede, che lo stravolge più o meno consapevolmente in ciò che fede non è, che riduce a

etica la salvezza escatologica, e perciò ne fa un’opera ragionevolmente umana, anziché

riconoscere e attendere l’umanamente incredibile miracolo di Dio. L’apostasia della

Chiesa consiste nel porre se stessa come regno di Dio già in atto» 90.

Sono parole dure, ma dette da un cuore sincero, così come è sincero Quinzio

dichiara che la Chiesa, la quale ha il compito di annunciare la promessa della redenzione

finale del mondo, diventa il principale ostacolo alla realizzazione di una tale promessa. Il

suo atteggiamento di accomodamento nei confronti del mondo impedisce (trattiene) che la

forza del negativo esploda in tutta la sua potenza e quindi apra alla parusia finale. È questo

quel mysterium iniquitatis di cui è parola nella Scrittura: che cioè è la Chiesa ad impedire la

realizzazione delle promesse. Per questo allora a Pietro II (Quinzio)91 non resta che definire

solennemente il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo:

«La Chiesa di Cristo, che è il suo corpo (cfr. Ef 1, 23), deve seguire la sorte di Gesù

Cristo che ne è il capo (cfr. Ef. 1, 23), deve cioè seguirlo nella morte, e come lui essere

crocifissa nel mondo. Deve anch’essa morire nella storia per risuscitare poi come il suo

Signore ed entrare con Lui nella gloria del Padre. In questa morte culmina, e si consuma,

il mistero dell’iniquità che domina l’intera storia del mondo» 92.

90 S. QUINZIO, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano 1995, 84.91 Misterium Iniquitatis è infatti costruito su due encicliche che sarebbero state scritte dall’ultimo Papa, Pietro II, appunto: la prima reca il titolo Resurrectio mortuorum, la seconda Mysterium iniquitatis.92 QUINZIO, Mysterium iniquitatis, 86-87.

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Tra le opere di Quinzio merita di essere letta soprattutto La sconfitta di Dio, una

sorta di testamento spirituale. Si parte da una constatazione piuttosto amara:

«Le promesse procrastinate per millenni sono dunque, di per sé, delle promesse non

mantenute, delle promesse fallite. Resterebbero tali anche se dovessero compiersi in

questo istante, manterrebbero comunque al loro interno, anche se ne venisse cancellata

la consapevolezza, un abisso di delusione, di stanchezza.[…] Questa è certamente una

sconfitta dei credenti, una sconfitta della fede, ma è anzitutto una sconfitta di Dio […]. Il

fallimento della salvezza è il fallimento di Dio»93.

Poi Quinzio ricorda (a se stesso) che il volto biblico di Dio è quello della debolezza

e non della vittoria, dell’umiltà e non della (pre)potenza, un Dio che ha scelto di farsi

compagno della sua creatura, nel bene e nel male, nel diritto e nel rovescio della storia,

nella realizzazione e nel fallimento delle promesse. Dio chiede il nostro aiuto. La storia

umana, dall’incarnazione in poi, è diventata campo di battaglia della lotta di Dio per la Sua

e per la nostra salvezza. Sono sprazzi di luce in questa grande nostra notte dell’umanità,

iniziata l’undici settembre 2001. Chi di noi può osare una parola di speranza più forte del

terrore che ci è penetrato fin dentro le ossa? Chi può offrirci la sicurezza che la prossima

mano terroristica non si armerà proprio contro il nostro paese? E Dio, dove è in tutto

questo? I filosofi di questo incontro ci hanno regalato tante domande, ed una domanda ben

formulata vale più di mille risposte preconfezionate.

93 S. QUINZIO, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, 39.

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Il postmoderno spiegato ai parroci /6

IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO/2:

LA PAROLA DELLA TEOLOGIA

1. L’improponibilità storia del cristianesimo

In quest’ultimo incontro cerchiamo di interpretare la situazione generale del

cristianesimo di fronte alla mentalità postmoderna da una prospettiva teologica. Uno

sguardo realistico della nostra condizione ci impone di riconoscere che oggi la fede

cristiana è culturalmente improponibile. Le dinamiche della mentalità postmoderna

rendono impossibile l’esercizio della fede cristiana, così come lo è stato sinora.

Verifichiamo più da vicino questa affermazione

1.1. Cristiani senza chiesa

Nei nostri giorni, troviamo un numero sempre crescente di cristiani senza chiesa:

l’appartenenza alla chiesa non è vissuta più come il luogo dell’iniziazione al mistero

dell’esistenza. La chiesa, oggi, per molti cristiani, è un’istituzione come le altre, un corpus

di strutture, di regole, di funzioni e di funzionari. Non è più il luogo del senso: cosa

significa vivere, cosa significa morire, amare, lavorare viene appreso altrove oppure

ognuno decide da sé del senso della sua esistenza. C. Magris scrive:

«In Italia e anche in altri paesi folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e

grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le

chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio

religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura Cristiana e

Cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e dei passi

evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una

mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle

grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il

mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del

vivere»94.

94 C. MAGRIS, Quando scompare il senso religioso, in Corriere della Sera, 12.6.2004, 1.

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I cristiani, che sono ancora rimasti, apprendono altrove quella sintassi.

1.2 Cristiani senza metafisica

I cristiani, quelli che ancora frequentano, sono uomini e donne postmetafisici,

mentre il linguaggio ecclesiale parla ancora di trascendenza, di al di là, di eternità, di

metastorico, di valori, di ideali; realtà tutte dalle quali l’uomo postmoderno ha preso

definitivo congedo. Noi parroci, cioè, utilizziamo un codice linguistico, che i nostri

ascoltatori non comprendono più.

Noi parliamo di escatologia, loro pensano alla prossima estate (più in là il tempo

non va!). Noi parliamo di valori, loro pensano alla borsa di Milano. Noi parliamo di ideali,

loro pensano al cellulare tri-band, che prende anche sull’Everest. Noi parliamo di anime,

loro la cercano l’anima, vicino al cuore, peccato che poi si fermino a contemplare virili

petti muscolosi o candidi seni minuziosamente esposti… Noi parliamo di un senso della

vita che non coincide con i bisogni dell’uomo, loro pensano che ci siamo fumati un po’ di

erba prima dell’omelia.

Il licenziamento della metafisica da parte della mentalità postmoderna implica che

un buon 70% delle nostre omelie, catechesi, encicliche resti semplicemente incompreso,

inefficace, inaccessibile.

1.3. Cristiani senza sacrificio

I cristiani, che ancora frequentano, non si rendono più disponibili ad affrontare

alcuna fatica nell’ordine dello spirituale. Hanno perso il senso del sacrificio, cioè del

riconoscere la differenza qualitativa di alcune realtà all’interno dell’ordinamento

dell’umano. Ma senza la fatica non c’è vera umanità. Le dinamiche richieste per una libertà

matura, per il raggiungimento di una signoria sull’elemento istintuale del nostro animo, per

una felice sistemazione del proprio io, per un discernimento critico tra ciò per cui vale o

meno impegnare la propria vita, sono ignorate, rifiutate, bloccate, impedite.

Come poter annunziare, allora, che l’uomo desidera più di ciò di cui ha bisogno?

Oggi la parola d’ordine è: come funziona? Cioè come si risponde a questo bisogno? Una

tale risposta circa la funzionalità non soddisfa le domande vere del cuore dell’uomo. Il

cuore ha desideri, ha emozioni, ha slanci, reca il sigillo di Dio e perché tutto ciò possa

maturare (non semplicemente funzionare) è necessario fatica, attesa, sacrificio. La cultura

contestuale ha bandito dalla civile convivenza ogni forma di sacrificio, di differimento:

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tutto è qui, tutto è qui subito, tutto è qui subito per te! La pubblicità ha preso in ostaggio la

nostra possibilità di desiderare. E la nostra morale è null’altro che il tentativo di dare un

alloggio (ethos) a quei pellegrini che abitano nel nostro cuore e che si chiamano desideri.

L’imperialismo della razionalità economica inculca invece un nuovo comandamento: non

avrai altro dio che i tuoi bisogni, cioè quei bisogni che noi (tecnici e pubblicitari) stabiliamo

essere tuoi e per i quali, in cambio di poche decine… di migliaia di euro, noi provvediamo

soddisfacimento.

Sei solo? Un videotelefono. Sei impotente? Una pillola. Sei grasso? Due pillole. Sei

calvo? Tre pillole. Sei depresso? Quattro pillole.

2. La fine dell’era costantiniana del cristianesimo

E alla fine? Oggi «La fede cristiana non si intende più da sé»95.

Dobbiamo chiudere la baracca? Trovare una nuova occupazione? È finito il

cristianesimo? Certo, è finita l’era costantiniana del cristianesimo. Non si tratta di un tempo

cronologico, ma di un tempo “sociologico”, un tempo – scrive M. D. Chenu –

«nel quale, sotto l’influenza primaria degli atti di Costantino, si è sviluppata, e poi si è

fissata per secoli, un complesso mentale e istituzionale nelle strutture, nei

comportamenti e sin dentro la spiritualità della chiesa e tutto ciò non solo come un fatto,

ma come ideale»96.

Quali sono i contenuti di questa era costantiniana del cristianesimo? È possibile

indicarli rapidamente facendo riferimento a tre alleanze stipulate dalla chiesa nel corso dei

secoli: l’alleanza col diritto romano (Ecclesia vivit iure romano); l’alleanza con la

metafisica aristotelica-platonica; l’alleanza con il modello teologico amartiocentrico.

Poche annotazioni su ciascuna di queste tre alleanze. Sulla prima lucida è la visione

di Chenu:

«La romanità ha eliminato il messianismo semitico, e ha mantenuto la comunità

apostolica come insieme di “poteri”, ricevuti da Dio e sublimati nella regalità terrestre

del Cristo»97.

Da un tale gesto iniziale deriva la contaminazione tra potere spirituale e potere

temporale. E non va dimenticato che tra non molto dovremo fare i conti con la crisi

finanziaria delle nostre chiese.

95 SALMANN, Presenza di spirito, 7.96 M. D. CHENU, La fin de l’êre constantinienne, in AAVV, Un concile pour notre temps, Parigi 1961, 61.97 CHENU, La fin, 71

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Sulla seconda alleanza bisogna dire, insieme a Staglianò, che il cristianesimo ha un

contenuto dottrinale, ma non è una dottrina98. L’alleanza con la razionalità greca

(disincarnata) ha favorito, invece, una movenza tipicamente intellettualistica della

professione del credo. Lo slittamento dall’io credo in all’io credo che, sotto l’influenza

della mentalità greca, è molto facile: ma la seconda formula distrugge dal di dentro la teo-

logia cristiana, che è parola dell’uomo su Dio a partire da Dio.

La terza alleanza, quella con il modello teologico amartiocentrico, rende certo

plausibile il senso del sacrificio in croce del Figlio, ma si lascia sfuggire il cuore

incandescente del Nuovo Testamento: quell’istante di abissale libertà e pura donazione che

porta il Figlio sulla croce in nome del Padre e non a causa del Padre. A nessuno deve

essere risparmiato questo scandalo rispetto ad ogni tradizione del sacro. La salita in Cristo

sulla croce è l’unico momento storico in cui si è dato il cristianesimo in tutta la sua

pienezza e verità; dopo abbiamo solo tentativi di ripetere quel gesto99. Ed il senso di quel

gesto è questo: la libera adesione dell’altro al volto paterno di Dio può valere il dono della

mia vita usque ad sanguinem. Tentando di ripetere quel gesto, il cristianesimo diventa

fermento, sale, orizzonte, ricordo.

Ed allora? Dove siamo arrivati? Siamo arrivati, attraverso gli incontri precedenti, a

prendere coscienza del fatto che oggi, almeno nell’occidente, non sussistono più le

condizioni culturali che rendevano credibili i presupposti di queste tre alleanze. È finita

l’era costantiniana del cristianesimo, ovvero la cristianità. E dopo?

Riprendiamo il discorso da un’affermazione di Chenu:

«Ma cristianità non è Chiesa: distinzione delicata, certo, da applicare nelle suoi limiti

dottrinali e istituzionali, ma che è urgente tenere, in un mondo le cui dimensioni umane

superano dappertutto l’Occidente, in un mondo in cui la storia ci conduce fuori dalla

cristianizzazione di Costantino. Una cristianità non è la chiesa»100.

Lo Spirito, oggi, offre alla chiesa l’opportunità di cogliere la sempre possibile

divaricazione tra l’incarnazione storico-epocale del cristianesimo e le ulteriori possibilità di

essere altrimenti cristiani. Oggi: cioè nella, con e per la postmodernità l’incarnazione

continua. Amici, si ritorna a Nazaret!

3. La triplice sfida del futuro

98 Cf A. STAGLIANÒ, Vangelo e comunicazione. Radicare la fede nel nuovo millennio, EDB, Bologna 2001. 99 Cf SALMANN, Zwischenzeit, 96.100 CHENU, La fin, 77

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E vi si ritorna con il bagaglio di una triplice sfida in vista di altre alleanze che il

cristianesimo dovrà stipulare con la cultura contestuale, perché la bellezza del Vangelo

continui a curare l’umano postmoderno: cura come guarigione, cura come promozione.

Ecco le tre sfide che il tempo postmoderno pone davanti alla nostra intelligenza

teologica e davanti alla nostra passione pastorale: sfida della minoranza, sfida della mistica,

sfida della libertà. Anche in questo caso, per ogni sfida, mi limito a proporvi qualche

passaggio illuminato di Rahner e di Salmann e di apporvi brevi considerazioni.

3.1. La sfida della minoranza

Scrive in modo inequivoco K. Rahner:

«la spiritualità del futuro non sarà più sostenuta socialemente (…) da un ambiente

cristiano omogeneo; essa quindi dovrà vivere, in modo molto più chiaro di quanto non

sia avvenuto finora, in forza di una personale e diretta esperienza di Dio e del suo

Spirito. Oggi la fede cristiana – e così la spiritualità – vanno di continuo vissute in prima

persona: nella dimensione di un mondo secolarizzato, nella dimensione dell’ateismo,

nella sfera della razionalità tecnica (…). In tale situazione la personale responsabilità del

singolo nella sua decisione di fede è necessaria e richiesta in maniera molto più radicale

che in passato»101.

Concretamente si tratterà di coniugare sia la libera adesione dei fedeli e un numero

sufficiente di essi; sia la libertà nei confronti dello Stato e la necessità di avere un peso reale

nelle cose del mondo. In questo caso bisognerà evitare il rischio di ridurre il cristianesimo

ad una setta. La via d’uscita mi pare la riscoperta che siamo al servizio di qualcosa di più

grande della nostra affermazione storica, che siamo al servizio di un qualcosa che dal futuro

già ci chiama: il Regno del Padre. Che siamo minoranza è un dato di fatto, non una scelta.

La scelta è quella di registrare il fatto, in sé doloroso, e di disporsi a viverlo con dignità e

capacità di profezia.

Per questo sempre Rahner ha detto: “il cristiano del futuro o sarà un mistico o non

sarà”.

3.2. La sfida della mistica

La seconda sfida è la quella della mistica. Noi siamo sempre preceduti da Dio e a

Lui indirizzati. Il neopaganesimo postmoderno e la forte influenza culturale del pensiero

101 K. RAHNER, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in AAVV, Problemi e prospettive di spiritualità, Queriniana, Brescia, 437-438.

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ebraico ci riportano alle soglie del Nuovo Testamento. Cristo, il Dio-uomo, è dinanzi a noi,

non dietro di noi, 2004 anni fa. Ogni epoca cristiana trova il suo punto di svolta, il suo

snodo, il suo rinnovamento quando, umilmente, si mette ai piedi della grotta di Betlemme:

Dio è qui, è Emmanuele.

Scrive padre Salmann che solo

«Un cristianesimo più povero, mistico, umile risponderebbe a questa scoperta del volto

umano di Dio. Una tale fede non si imporrebbe con i mezzi del potere, delle definizioni

[…], bensì conoscerebbe e incoraggerebbe molte forme di avvio, saprebbe presentare il

cristianesimo come invito, come motivo, come possibilità di un vivere e pensare forte e

rilassato, convinto che ci sarebbero tanti paesaggi da intuire, da scoprire, da rivisitare, da

percorrere.

L’arcipelago della religione cristiana non va solo accettato per via della fede, ma c’è

prima, dentro e dopo tanto da vedere: esso è anche un fenomeno e un motivo culturale,

religioso, artistico, una ricchezza immensa di intuizioni, musiche, immagini, pratiche,

forme di vita sociale – di una plausibilità, bellezza, presenza, incisività enorme.

Se riuscissimo a cogliere il cristianesimo come fenomeno, come paesaggio, forse

sarebbe di nuovo più allettante, potremmo scoprirvi una grazia, una parola potente, una

comunione. Poi è un motivo musicale, una tonalità che tocca l’anima; motivo etico-

pratico che sprona la volontà all’impegno delle nostre forze e risorse; motivo

intellettuale e simbolico che invita a pensare, ricercare, inverare, interpretare. In tutto

questo, questa religione strana e forte si fa evento ermeneutico e simbolico, prassi

anonima, traccia e metafora di una vita compiuta e di un Dio che vuole accompagnare

questo cammino verso un vita vivibile. […]»102.

Di fatto si tratterà di mettere insieme la prossimità ai bisogni della gente ed il

risveglio del desiderio di Dio. Il rischio potrebbe essere quello di allontanarsi dalla storia e

di mettere in secondo piano la lotta per la giustizia, per i poveri. La via d’uscita resta una

rinnovata meditazione della prassi di Gesù per riuscire a fare eco alla sua convinzione che

l’uomo desidera assai più di ciò di cui ha bisogno.

3.3. La sfida della libertà

Veniamo così alla terza sfida: la sfida della libertà. La coscienza postmoderna è

libera, disperatamente libera, ma libera. Dobbiamo interiormente prenderne nota, quando

annunziamo le esigenze della sequela del Cristo. Quale etica potrebbe essere all’altezza

della libertà postmoderna?

102 SALMANN, Contro Severino, 317

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Scrive padre Salmann che dovremmo sviluppare

«[…] un’etica e attitudine non generica o prescrittiva ma fenomenologica e kairologica,

capace di situarsi nel momento con un tatto squisito e un senso acuto per scernere gli

spiriti; un’etica e atteggiamento non proibitivo, ma elevante, promovente, incoraggiante

che aiuterebbe a potenziare le proprie forze, il senso e la curiosità delle scoperte;

un’etica e un senso autocritico che saprebbe definire la limitatezza e il punto critico

della propria prospettiva, ove si ribalta e si ritorce contro se stesso. Un tale contegno

comporta una sincerità di fondo, sa confessare la gratitudine e la colpevolezza di fondo

che distinguono ogni essere. Sarà un’etica narrativa e drammatica, consapevole che ogni

bene, ogni conquista richiede una svolta, uno sforzo, cioè tante forme di conversione, di

tirocinio, di autosuperamento; e infine ci vorrà un occhio che sappia individuare il

carattere ambivalente, tragico e simbolico, inesauribile di ogni momento e fenomeno.

Ognuno è segnato dalle meraviglie e dalla sventura del destino, ognuno è passaggio di

una grazia, di una incombenza, di un compimento che non si è cercato, ma che dovrà

accettare e cui dovrà rispondere»103.

Concretamente dobbiamo sviluppare un’etica concreativa, in grado di coniugare

l’istanza della verità e della giustizia con quella della libertà.

Il rischio potrebbe essere quello del risentimento, di un rivolgersi alla libertà altri

facendo pesare il fatto di aver perso la nostra autorità, la nostra capacità di incutere terrore.

La via d’uscita è una rinnovata professione di fede nello Spirito Santo, capace di sbloccare

il cuore di ogni uomo e di ogni donna a quel desiderio di una verità giusta per la propria

vita.

Ritorniamo alla domanda da cui siamo partiti: quale cristianesimo per il futuro? E,

quindi, qual è la figura del parroco postmoderno? Non ci sono ricette, dobbiamo e possiamo

coltivare il desiderio di non risultare anacronistici rispetto ai nostri contemporanei.

È questa l’ora della seconda conversione. Ci siamo accostati allo spirito del nostro

tempo, ci siamo lasciati toccare e ferire da esso, gli abbiamo posto tutte le nostre domande e

le nostre obiezioni, ora

«Non si deve più vincere, perché si sa che si è al servizio di qualcosa, si è attraversati,

miracolati, spossati da qualcosa che non si può concepire. Si vive con le cose, non

contro le cose. Si deve poter sopportare se stessi e gli altri senza essere narcisisti o

idealisti, si debbono accettare i propri limiti senza diventare pigri, abbracciare il mondo

senza comprenderlo. S’impongono coerenza, armonia, perfino stringenza senza che si

103 SALMANN, Contro Severino, 318.

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tratti di princìpi e affermazioni. In questo senza c’è forse la libertà della grazia, la sua

piccola sovrabbondanza»104.

*

Dopo aver espresso il mio più sincero grazie per il vostro partecipato ascolto,

desidero congedarmi da voi con una preghiera.

Preghiera di un parroco postmoderno

Santissima Trinità, oggi tocca a me

portare l’annuncio della buona novella,

tocca a me prestare la voce ed il cuore al Vangelo della salvezza.

A te, Padre, chiedo che, incontrando gli anziani, possa sempre prendere coscienza che

il tuo Regno mi ha preceduto e non finirà con me.

A te, Figlio, chiedo che, parlando con gli adulti, riesca ad insegnare loro a mettere

insieme, come tu hai fatto, la prossimità ai bisogni propri e altrui e l’attenzione al

desiderio che il loro cuore nutre del Padre.

A te, Spirito Santo, chiedo che, lavorando con i bambini e i giovani, non scommetta

tutto sulla bellezza e la grazia della mia parola, ma piuttosto che io scommetta tutto me

stesso sulla Parola della bellezza e della grazia, Gesù, il vivente, colui che è, che viene e

che verrà.

Maranatha, Signore Gesù!

Maranatha, ancora oggi!

Maranatha, ancora qui!

Maranatha, ancora e sempre!

104 SALMANN, Presenza di Spirito, 98.

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