Il popolo di Israele nel tempo del libro dei Giudici · Le tribù sono in preda a una continua...

21
Capitolo 12 Il popolo di Israele nel tempo del libro dei Giudici 1. In mezzo alle nazioni del medio oriente antico 1.1. Il quadro storico del libro dei Giudici Il libro dei Giudici offre un quadro completamente diverso della situazione di Israele in Canaan rispetto a quello di Giosuè. La conquista dei territori assegnati alle dodici tribù, infat- ti, appare ancora molto parziale 1 . Anche in Gs 17,12-18, del resto, leggiamo che i figli di Giuseppe sono invitati a disboscare le montagne per abitarvi, dal momento che in pianura scorrazzano ancora da padroni i carri di ferro dei cananei 2 . Un’intera tribù, quella di Dan, dal proprio territorio, che doveva essere quello a ovest di Beniamino (Gs 19,30-48), viene respinta sulle montagne, prima dagli amorrei (Gdc 1,34-35) e poi dai filistei (Gdc 13-16), e sarà infine costretta ad emigrare a nord, insidiandosi a Lais (Lesem: Gs 19,47; Gdc 18). I cananei sono ancora numerosi da per tutto. Le tribù israelitiche appaiono isolate, spe- cialmente nel nord e nel centro, distanziate l’una dall’altra, arroccate sulle colline, mentre le pianure e le valli di comunicazione rimangono dominate dagli altri popoli meglio organizzati sotto i loro capi e dotati di un armamento più moderno (cfr. 1Sam 13,19-22). Ogni tribù lotta per conquistare, o riconquistare, il proprio territorio contro popolazioni di dentro e razziatori di fuori, spesso soverchianti per numero e per forza: cananei, hittiti, amorrei, perizziti, evei, gebusei, moabiti, amaleciti, ammoniti, madianiti, filistei, ecc. Conquista o riconquista, faticosa, lenta, attraversata da molti conflitti interni, continua- mente rimessa in questione dalle innumerevoli, ripetute, infedeltà del popolo al Signore, il quale lo mette nelle mani dei suoi nemici. Le tribù sono in preda a una continua anarchia, e YHWH, mediante il suo Spirito, suscita ogni volta per esse dei capi carismatici, i giudici – vindici e difensori -, che le liberino dalla mano dei nemici durante la loro vita: «lo Spirito (Vento) di YHWH fu su di lui» 3 . Sarà questo un ritornello del libro dei Giudici: 3,10; 11,29; 13,25; 14,6.19; 15.14. «Ma quando il giudice moriva, tornavano a corrompersi più dei loro padri, seguendo altri dèi per servirli e prostrarsi davanti a loro, non desistendo dalle loro pratiche e dalla loro condotta ostinata» (Gdc 2,19). Mentre nel libro di Giosuè le vittorie e le conquiste erano vistose, e la regola della guerra santa – lo sterminio o anatema – era applicata rigorosamente, come un atto di culto per il Si- 1 Nel primo capitolo dei Giudici è descritta questa situazione: alcune città sono state conquistate, specie nel sud: Gerusalemme (v. 18), Ebron (v, 10), Kiriat-Sefer (vv. 11-13), Zefat (v. 17), Gaza e Ascalon (v. 18) e Betel (vv. 23-25). Per ben 5 tribù (Manasse, Efraim, Zabulon, Aser e Nefatali) si parla di convivenza con i cananei (vv. 27- 33). Dan è respinta dagli amorrei sulle montagne e sarà costretta ai lavori forzati (vv. 34-35). 2 Cfr. pure Gs 13,1-7; Gdc 2,20-3,6. 3 Colui, però, che veramente «giudica i deboli, gli oppressi… e Israele» è YHWH. E’ lui il Giudice tra Israele e i suoi nemici (Gdc 11,27). I «giudici» sono, perciò, degli «uomini di Dio», suscitati dal Signore in circostanze critiche, nelle quali il suo popolo è venuto a trovarsi a causa dei suoi nemici, per organizzarne la difesa, per libe- rarlo vittoriosamente e amministrarlo rettamente per un certo tempo. I grandi giudici nel libro sono sei, contando insieme Debora e Baraq: Otniel, figlio di Kenaz (Gdc 3,7-11), Eud (Gdc 3,12-30), Baraq con Debora (Gdc 4,1- 5,31), Gedeone (Gdc 6,1-8,5; con la storia di Abimelech e di Iotam: 9,1-57), Iefte (Gdc 10,6-12,7) e Sansone (Gdc 13,1-16,31). Oltre ad essi, meritano una breve menzione altri sei «piccoli governatori» locali: Samgar (che non è nemmeno israelita: Gdc 3,31; 5,6), Tola (Gdc 10,1-2); Iair (Gdc 10,3-5), Ibsan (Gdc 12,8-10); Elon (Gdc 12,11-12) e Abdon (12,13-15).

Transcript of Il popolo di Israele nel tempo del libro dei Giudici · Le tribù sono in preda a una continua...

Capitolo 12

Il popolo di Israele nel tempo del libro dei Giudici

1. In mezzo alle nazioni del medio oriente antico 1.1. Il quadro storico del libro dei Giudici Il libro dei Giudici offre un quadro completamente diverso della situazione di Israele in

Canaan rispetto a quello di Giosuè. La conquista dei territori assegnati alle dodici tribù, infat-ti, appare ancora molto parziale1. Anche in Gs 17,12-18, del resto, leggiamo che i figli di Giuseppe sono invitati a disboscare le montagne per abitarvi, dal momento che in pianura scorrazzano ancora da padroni i carri di ferro dei cananei2.

Un’intera tribù, quella di Dan, dal proprio territorio, che doveva essere quello a ovest di Beniamino (Gs 19,30-48), viene respinta sulle montagne, prima dagli amorrei (Gdc 1,34-35) e poi dai filistei (Gdc 13-16), e sarà infine costretta ad emigrare a nord, insidiandosi a Lais (Lesem: Gs 19,47; Gdc 18).

I cananei sono ancora numerosi da per tutto. Le tribù israelitiche appaiono isolate, spe-cialmente nel nord e nel centro, distanziate l’una dall’altra, arroccate sulle colline, mentre le pianure e le valli di comunicazione rimangono dominate dagli altri popoli meglio organizzati sotto i loro capi e dotati di un armamento più moderno (cfr. 1Sam 13,19-22). Ogni tribù lotta per conquistare, o riconquistare, il proprio territorio contro popolazioni di dentro e razziatori di fuori, spesso soverchianti per numero e per forza: cananei, hittiti, amorrei, perizziti, evei, gebusei, moabiti, amaleciti, ammoniti, madianiti, filistei, ecc.

Conquista o riconquista, faticosa, lenta, attraversata da molti conflitti interni, continua-mente rimessa in questione dalle innumerevoli, ripetute, infedeltà del popolo al Signore, il quale lo mette nelle mani dei suoi nemici. Le tribù sono in preda a una continua anarchia, e YHWH, mediante il suo Spirito, suscita ogni volta per esse dei capi carismatici, i giudici – vindici e difensori -, che le liberino dalla mano dei nemici durante la loro vita: «lo Spirito (Vento) di YHWH fu su di lui»3. Sarà questo un ritornello del libro dei Giudici: 3,10; 11,29; 13,25; 14,6.19; 15.14.

«Ma quando il giudice moriva, tornavano a corrompersi più dei loro padri, seguendo altri dèi per servirli e prostrarsi davanti a loro, non desistendo dalle loro pratiche e dalla loro condotta ostinata» (Gdc 2,19).

Mentre nel libro di Giosuè le vittorie e le conquiste erano vistose, e la regola della guerra santa – lo sterminio o anatema – era applicata rigorosamente, come un atto di culto per il Si-

1 Nel primo capitolo dei Giudici è descritta questa situazione: alcune città sono state conquistate, specie nel sud: Gerusalemme (v. 18), Ebron (v, 10), Kiriat-Sefer (vv. 11-13), Zefat (v. 17), Gaza e Ascalon (v. 18) e Betel (vv. 23-25). Per ben 5 tribù (Manasse, Efraim, Zabulon, Aser e Nefatali) si parla di convivenza con i cananei (vv. 27-33). Dan è respinta dagli amorrei sulle montagne e sarà costretta ai lavori forzati (vv. 34-35). 2 Cfr. pure Gs 13,1-7; Gdc 2,20-3,6. 3 Colui, però, che veramente «giudica i deboli, gli oppressi… e Israele» è YHWH. E’ lui il Giudice tra Israele e i suoi nemici (Gdc 11,27). I «giudici» sono, perciò, degli «uomini di Dio», suscitati dal Signore in circostanze critiche, nelle quali il suo popolo è venuto a trovarsi a causa dei suoi nemici, per organizzarne la difesa, per libe-rarlo vittoriosamente e amministrarlo rettamente per un certo tempo. I grandi giudici nel libro sono sei, contando insieme Debora e Baraq: Otniel, figlio di Kenaz (Gdc 3,7-11), Eud (Gdc 3,12-30), Baraq con Debora (Gdc 4,1-5,31), Gedeone (Gdc 6,1-8,5; con la storia di Abimelech e di Iotam: 9,1-57), Iefte (Gdc 10,6-12,7) e Sansone (Gdc 13,1-16,31). Oltre ad essi, meritano una breve menzione altri sei «piccoli governatori» locali: Samgar (che non è nemmeno israelita: Gdc 3,31; 5,6), Tola (Gdc 10,1-2); Iair (Gdc 10,3-5), Ibsan (Gdc 12,8-10); Elon (Gdc 12,11-12) e Abdon (12,13-15).

2

gnore, nel libro dei Giudici viene detto più volte che le tribù israelitiche convivono con i po-poli vicini, spesso contaminandosi con la loro idolatria (Gdc 1,1-3,6).

Come mai questa diversità tra i due libri? Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe conoscere a quali eventi storici ciascuno

dei due libri intenda alludere. Parlano essi di una vera conquista, seguita da un insediamento, che sarebbe avvenuta nell’arco di due secoli (XIII-XII a.C.), come sembra a prima vista dalla lettura corsiva del testo biblico (suggerita anche da Gdc 1,1: «Dopo la morte di Giosuè…»)? Ma per due tempi così ravvicinati sembra assai strana, incomprensibile, una differenza socio-politico-cultuale-religiosa così marcata. Molto più probabilmente la differenza è data dalla diversa prospettiva dei due libri: teologica nel libro di Giosuè, che esalta scorribande a vere e proprie imprese militari intraprese a nome di YHWH; più crudemente realistica a livello sto-rico nel libro dei Giudici. Ci sembra quindi probabile che Israele è andato formandosi nel pa-ese molto lentamente, in tempi e con modalità differenti. Alcuni gruppi migrarono probabil-mente in Canaan provenendo dall’Egitto. Con essi altri, esistenti già nel paese, si identifica-rono lentamente e progressivamente sotto il nome d’«Israele», in virtù della coscienza riflessa di un destino comune, segnato da un’elezione e da un’alleanza particolare con il Dio YHWH. Dove è stato possibile, l’evoluzione dell’insediamento, distinto da quello di altre popolazioni, ma amalgamato finalmente con esse, si è svolto pacificamente. Dove, invece, esso ha incon-trato delle ostilità, si è imposto con conflitti armati, regolati secondo i costumi dei luoghi e del tempo.

1.2. Il compito di Israele in mezzo alle nazioni del Medio Oriente antico La storia e la geografia del libro dei Giudici, tanto ricche e drammatiche, non evidenziano

soltanto il singolarissimo destino del popolo di Dio, «straniero e pellegrino» in mezzo alle nazioni sulla terra, ma ne segnalano la situazione concreta in cui egli è chiamato ad assolvere la propria vocazione di promotore consapevole del vero universalismo del piano salvifico di Dio che, attraverso l’alleanza particolare con Abramo-Israele-Davide e Gesù, vuole benedire tutte le famiglie della terra (cf. Gen 12,1-3; ecc.). Egli non è solo il Dio nazionale di Israele (come il libro di Giosuè evidenzia), ma il Dio unico di tutta l’umanità (cf. Zc 8,20-23; ecc.).

La presenza di altri sulla terra che Dio dona a Israele frenano l’avidità di conquista del po-polo e la tentazione di appropriarsi gelosamente di tutto e di insuperbirsi. Un popolo che sia convinto di essere il popolo di Dio, scelto tra tutte le genti, e che viva una stagione di adole-scenza e di giovinezza, di auto-affermazione e di auto-realizzazione, di iniziativa creativa per conquistarsi un proprio posto al sole e una propria strada tra gli altri popoli, sarà inevitabil-mente tentato di autonomia pretenziosa e di «servirsi di Dio», facendo di Lui un mezzo per affermare il proprio potere; di pensare che Dio sia disponibile per farsi complice di tutto quanto il suo popolo (o la Chiesa) decida di fare; e mescolerà la religione alla propria politi-ca, la preghiera alle proprie battaglie e violenze, innalzerà insegne religiose sulle proprie bandiere, farà benedire le proprie armi, tradurrà in «fierezza di sé». La presenza di altri è un appello a Israele per capire che non solo la terra promessa è dono, ma anche coloro che la a-bitano insieme agli ebrei e prima di loro. Con essi Israele è chiamato a con-vivere nel mondo di Dio e a con-dividere il dono e la vocazione che gli ha dato. Questo vale anche per noi. Le grazie del Signore concesse a me non sono mai esclusive di altri; attraverso me, piuttosto, es-se sono destinate, prima o poi, a tutti, e tra tutti vanno fatte circolare. Dio mi dona, mi si do-na, perché io mi doni a mia volta. La mia cooperazione al dono di Dio consiste nel mio farmi dono per gli altri, dal momento che il mio Signore è pure il loro Dio. L’esistenza degli altri intorno a me, perciò, anche e soprattutto quando si fa competitiva, deve condurmi a scoprire sempre meglio la mia propria identità, i suoi limiti, e la vocazione, che mi è assegnata nei lo-ro confronti, e a confessare i miei peccati contro Dio e contro gli uomini, in una conquista che, più ancora che la conquista di un mio paese, sarà la conquista di me stesso.

3

La passione di Israele stretto da ogni parte e in guerra con le nazioni circostanti – come più tardi la passione del suo Messia (cf. At 4,24-30), ci rivelano quanto costoso e laborioso sia il disegno unificante del Dio Uno di fronte alla moltitudine agguerrita delle idolatrie (cf. Ml 1,1-11; Gv 17; ecc.).

1.3. La tentazione idolatrica L’idolatria, simboleggiata dalla moltitudine delle genti, e condannata irrimediabilmente al-

la distruzione, insieme a tutte le variegate empietà e ai molteplici peccati che da essa derivano (Rm 1,18-32; ecc.), è anche un’occasione per Israele (o una prova voluta da Dio stesso – co-me afferma Gdc 3,1.4) per crescere verso la adultità. Il contatto con gli altri popoli – con i lo-ro dèi - è un’opportunità per riscoprire e ricomprendere sempre meglio, e sempre di nuovo, chi sia JHWH (cf. Is 44,6-28; ecc), e che cosa voglia dire «invocare il nome del Signore».

Cerchiamo di capire la forza che l’idolatria avrà esercitato in Israele ora che quest’ultimo è diventato sedentario. L’israelita, diventato contadino, prende gusto alla terra che si fa lavora-re docilmente, rende i suoi frutti e promette stabile sicurezza, anche per la possibilità di ac-cumulare i beni che se ne traggono. Le case e i villaggi-città costruiti in collina e protetti da mura di cinta, come quelli dei cananei, si rivelano preferibili alle tende e agli accampamenti esposti alle intemperie e alle razzie dei predoni. Questi beni del contadino, le messi e i frutti dei campi, più vari e numerosi di quelli del pastore nomade, dipendono da una molteplicità di elementi: la diversa coltivabilità del terreno, la pioggia, il sole, la luna e gli astri, il succedersi delle stagioni, la varietà delle colture, ecc. Sul piano culturale e religioso, l’agricoltore sarà tentato di proiettare questa ricchezza di condizionamenti necessari alla sua sussistenza in un pantheon di divinità da ingraziarsi con una pluralità di culti, di sacrifici, di riti e di iniziazioni liturgiche o magiche (sincretismo). Si pensi poi anche alla sacralizzazione e divinizzazione del misterioso fascino della sessualità e della fecondità degli umani e degli animali, fino all’uso della prostituzione sacra. Le divinità cananee appaiono, di conseguenza, molto più ric-che e seducenti della «semplicità» monoteistica.

Di fronte a questi dei pagani – o eventualmente la cancellazione laicistica dal loro orizzon-te tipica di gran parte delle cultura del nostro tempo, che vuole dispensarci da ogni culto che non sia il proprio io e congedare o re-interpretare ogni norma di condotta morale – non sem-pre Israele saprà superare la tentazione. Tuttavia anche la caduta – e l’esperienza di essere abbandonati dal Signore alle mani dei popoli vicini - è motivo di crescita. Il «grido» che sale dai figli di Israele verso il Signore mostra una fede in lui che – rimasta sotto la cenere dell’idolatria – si risveglia e si rinnova.

Israele adotterà anche alcune strategie per non cadere nell’idolatria. Le stragi, gli stermini e gli anatemi (cf. Gdc 1,8.17; 21,11; ecc.) e le battaglie di Israele contro le nazioni idolatri-che, come pure l’esclusione di matrimoni misti con altre popolazioni, vanno compresi non tanto come «guerre sante di conquista» o «esaltazioni razziste», quanto come misure di una santa intransigenza monoteistica del popolo di Dio.

Il libro dei Giudici chiede di essere riletto a partire dall’Apocalisse. Gli oracoli profetici contro le nazioni idolatriche non sono meno severi contro l’idolatria, sempre ricorrente, di I-sraele e delle Chiese4.

2. Otniel, Eud, Debora, Barak e Giaele 2.1. Otniel ed Eud (Gdc 3,7-30) Già con i primi due giudici si inizia a notare i criteri con i quali Dio sceglie gli uomini che

4 Cf. Lv 26,14-38; Dt 28,15-68; Sal 79,58; Is 1,2-4,6; Ger 26,4-6; 44; ecc.

4

saranno suoi strumenti per liberare Israele, caduto nell’idolatria, dall’oppressione degli altri popoli. Sceglie, infatti Otniel, che è «il fratello minore di Caleb» (Gdc 3,9); e sceglie Eud che era mancino (cf. Gdc 3,15)! Eud, con strumenti semplici, cioè con il pugnale che portava sul fianco destro (perché si presume che normalmente solo il sinistro viene perquisito) e con molta astuzia, riuscirà ad uccidere Eglon, re di Moab, che aveva enormi risorse materiali. Da notare che il racconto non esprime alcun giudizio morale negativo sull’assassinio del re; ciò sempre per il fatto della lenta maturazione della morale in Israele.

2.2. Debora, Barak e Giaele (Gdc 4,1-5,31) Nei capp. 4 e 5 è raccontata una vittoria militare di portata strategica, nella pianura di Izre-

el, contro i cananei del nord del paese: novecento carri di ferro agli ordini di Sisara, di Aro-set-Goim – l’oppressore di Israele – contro gli israeliti (appartenenti alle tribù di Efaim, Be-niamino, Issacar, Machir [Manasse], Zabulon e Neftali: cf. Gdc 4,6; 5,13-14) riuniti sul Mon-te Tabor da Baraq, di Kades di Neftali. L’evento è così grande e glorioso che è celebrato due volte, in prosa (Gdc 4) e in poesia (canto di Debora e di Barak: Gdc 5).

In questa seconda versione si celebrano gli eroi del popolo del Signore, i valorosi capi di Israele, i comandanti di Manasse, di Zabulon, i principi di Issacar, i partigiani delle montagne e i volontari arruolatisi tra il popolo. Ma si cantano e si benedicono, sopra tutti gli altri, le «giustizie» di JHWH (Gdc 5,11), il quale è il vero giudice e vincitore e vindice delle sorti del suo popolo (Gdc 5,2-5.9-11.31; cf. 4,14-15).

Una tale vittoria di JHWH, però, è particolarmente strepitosa in quanto il Signore ha sapu-to e potuto umiliare il «re di tutto Canaan» servendosi di due donne: Debora e Giaele! Debo-ra, la «profetessa» del Dio liberatore e giudice per Israele, che siede sotto una palma tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim, è un’«ape» industriosa (come dice il suo nome), che con-voca Baraq e gli dà ordini da parte di JHWH. Alla richiesta di lui di accompagnarlo nella bat-taglia, Debora accetta e, dopo aver profetizzato che «non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna» (Gdc 4,9), si alza e va con lui conducendo alla battaglia le tribù del centro del paese (Gdc 4,4-10). Lo scontro bellico tra Israele e l’esercito cananeo di Hazor non è descritto, vi si allude soltanto in Gdc 5 attraverso le personificazioni dell’esercito cosmico di Dio, che si schiera per Israele. Le parole si fanno talora martellanti, tentando persino di imitare lo scalpitare degli zoccoli dei cavalli al galoppo (vv. 19-22).

L’altra donna è Giaele, moglie di Eber, il kenita (Gdc 4,17.21; 5,24), una straniera che, co-sciente o no, si fa segretamente e oggettivamente connivente della fede d’Israele. Essa riceve Sisara nella sua tenda e, violando la legge santa dell’ospitalità, lo massacra in modo orribile nel sonno con un picchetto nella tempia, maneggiando efficacemente un martello da fabbro. Il testo biblico non si attarda qui né su analisi psicologiche (cuore delicato di donna che gioi-sce dello spettacolo dello spasimo di Sisara che si contorce [kara’ ripetuto tre volte] e ricade finito «ai suoi piedi»!- Gdc 5,27), né della trasgressione dell’ospitalità (la morale, come più volte detto, è una lenta conquista). Ad esso interessa esclusivamente mettere in luce che Dio si serve della debolezza delle due donne. Ricordiamo che per la cultura maschilista medio-rientale risulta indubbiamente inattesa e stupefacente la figura di una donna che si alza a combattere i re di Canaan sulle acque travolgenti di Meghiddo. Le donne di Canaan, infatti, sono rimaste nelle case e, dietro le persiane, aspettano il ritorno dei loro guerrieri. E le figlie d’Israele non rappresentavano per i nemici – come leggiamo nel canto di Debora e Barak – se non un possibile bottino di guerra, oggetti sessuali a loro disposizione: «una ragazza (racham = utero), due ragazze (rachamatayim = due uteri) per ogni capo maschio» (Gdc 5,30).

L’insegnamento è dunque chiaro: là dove il Signore interviene, la sua potenza si manifesta pienamente nella debolezza (2Cor 12,9), perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi (2Cor 4,7). Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i

5

forti, perché nessuna carne possa gloriarsi davanti a Dio, perché, come sta scritto: «Chi si vanti si vanti nel Signore» (Ger 22,23)5.

Lungo tutta la storia d’Israele della Chiesa, le donne rappresentano la riserva privilegiata del Signore per rivelare la sua salvezza. E se in Debora e Giaele, la mano femminile di cui sa servirsi il Signore, appare ancora armata di un ferro guerresco, più tardi, in Giuditta, figlia di Merari e casta vedova di Manasse, recatasi inerme nel campo nemico, accompagnata sola-mente dalla sua ancella, il colpo della scimitarra che troncherà la testa di Oloferne, il coman-dante supremo dell’esercito di Assur, sarà reso possibile soprattutto dall’incanto della sua e-stasiante bellezza6. Il fascino femminile, totalmente disarmato, sarà il segreto del successo di Rut, la moabita, con Booz suo parente (Rt 2-3), e l’unica risorsa di Ester di fronte al re As-suero, il leone (Est 4,17r-s; 5,1-2). Come poi Hadassa-Ester trovò grazia agli occhi del re (Est 7,3), così sulla soglia nell’Ultima Alleanza, Maria, la vergine serva del Signore, promessa sposa di Giuseppe della casa di Davide, troverà pienezza di grazia presso Dio (Lc 1,26-30.38). Di lei, in un senso più pieno si ricanteranno le lodi di Ester, di Rut, di Giuditta, di De-bora e di Giaele.

«Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente» (Gdt 15,9).

3. Gedeone 3.1. Vocazione di Gedeone (Gdc 6,11-40) La strategia della «forza nella debolezza» si dispiega attraverso numerosi capisaldi del

racconto biblico. Oltre all’economia delle «grandi gesta di Dio per mano delle donne» - una lezione diretta soprattutto ai maschi -, c’è quella della povertà o, più esattamente, della suffi-cienza dei mezzi poveri e sproporzionati, del poco e del piccolo, per assicurare le vittorie del Signore e la riuscita dei suoi piani salvifici. Al contrario, il numero e una potenza umana so-vrabbondante risultano inservibili per realizzare i disegni divini di salvezza. Abbiamo già in-contrato più volte questa legge «economica» della redenzione, nei casi di fecondità delle donne «sterili» dei patriarchi, nell’elezione del figlio minore a preferenza del maggiore, nella scelta del fratello rigettato per procurare la salvezza di tutta la famiglia o, per esempio, nel racconto della conquista di Gerico. Sono tutti capitoli di graduale, delicatissima, iniziazione del popolo di Dio all’economia della croce e alla rivelazione della sua sapienza nascosta (cf. 1Cor 1,17-2,16).

La storia di Gedeone, il figlio più piccolo della casa di Ioas, abiezerita, che era la famiglia più povera di Manasse, che costituiva soltanto la metà della casa di Giuseppe, è una delle le-zioni più belle del corso di «economia divina» impartito dal Signore nella «facoltà di econo-mia politica di Israele» (Gdc 6,1-8,32).

La situazione è una di quelle a cui siamo abituati. Gli israeliti hanno fatto di nuovo ciò che è male agli occhi del Signore, cadendo in culti e pratiche idolatriche. Il Signore, allora, li ha messi per sette anni sotto la mano pesante dei nomadi madianiti, associati con gli amaleciti e con i figli dell’oriente (le tribù del deserto a est del Giordano). Le periodiche migrazioni o transumanze di questi nomadi, che il nostro libro presenta come devastanti razzie di predoni, numerosi come le cavallette e come la sabbia che è sul lido del mare (cf. Gdc 7,12), riducono in miseria gli agricoltori israeliti della bassa e dell’alta Galilea. Il racconto riguarda la parte orientale della pianura coltivata di Izreel e coinvolge le tribù di Manasse, di Neftali, di Aser, di Zabulon e di Issacar.

Gli israeliti gridano, allora, al Signore e «l’angelo di JHWH» (Gdc 6,11-12.20-22) - che è

5 Cf. 1Cor 1,27.39.31; 2Cor 10,17. 6 Cf. Gdc 8,7; 10,3-23; 11,20-23; 12,10-16; 16,5-9,22.

6

il Signore stesso (Gdc 6,14.16.22-24) - viene a sedere sotto il terebinto sacro di Ofra e saluta il piccolo Gedeone: «Il Signore è con te, uomo forte e valoroso!» (Gdc 6,12). La risposta di Gedeone è alquanto scettica circa la presenza del Signore in mezzo ai figli di Israele. Non c’è forse da dubitarne, come a Massa e a Meriba (cf. Es 17,7), se Gedeone è ridotto a battere il grano al chiuso, nel tino, per sottrarlo ai madianiti? Lo scetticismo di Gedeone, però, provoca una replica ancora più ironica da parte del Signore: «Va’ con questa tua forza (con cui stai battendo il grano) e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?» (Gdc 6,14). Gedeone non desiste dal presentare tutti i motivi che indurrebbero a obiettare alla missione che gli viene conferita (Gdc 6,15)7, ma la risposta del Signore taglia corto: «Io sarò con te e tu sconfiggerai i madianiti come se fossero un uomo solo» (Gdc 6,16; cf. 2,18). La teofania si conclude con la trasformazione di un pasto, preparato per debito di ospitalità, in un sacrificio di olocausto (Gdc 6,17-23).

L’erezione di un altare a JHWH da parte di colui o di colei che è stato scelto sigilla spesso l’accettazione del patto: qui Gedeone chiama l’altare «JHWH Shalom», un nome che apre la riattualizzazione di questa pagina a tutte le generazioni del popolo di Dio fino al giorno finale del «Messia-Gesù-Shalom» (Gdc 6,24; Ef 2,13-18; 6,158). Il culto prestato al Dio d’Israele, però, non può essere affiancato a quello di Baal (il dio cananeo della fertilità), a cui gli israe-liti di Ofra si sono prostituiti9. Perciò Gedeone – obbediente al comando divino – demolisce l’altare cananeo di Baal, taglia il palo sacro che gli stava accanto (simbolo della divinità femminile), e fa l’offerta del giovenco in olocausto al Signore. Il tutto non di giorno, ma di notte, «per paura dei suoi parenti e della gente della città» (v. 27). La difesa che Ioash (= do-no di JHWH), il padre di Gedeone, fa del figlio di fronte alla protesta cittadina è piena di sa-piente ironia: «Volete difendere voi la causa di Baal e venirgli in aiuto?» (v. 31). E, citando quanto prescritto in Dt 17,2-7 per il caso di culto idolatrico, che prevedeva la lapidazione, ag-giunge: «Chi vorrà difendere la sua causa sarà messo a morte prima di domattina; se è Dio, difenda da sé la sua causa…» (v. 31). L’umorismo continua anche nel doppio nome di Gede-one, che in quel giorno venne chiamato: «Ierub-Baal» (= «Baal si difenda da sè») (Gdc 6,25-32).

Prima di pacificare il paese dalle orde dei madianiti, degli amaleciti e dei figli dell’oriente, Gedeone - sia pur di notte - deve quindi compromettersi su di una faccenda di altari e di sacri-fici, e fare i conti con una lotta - quella tra JHWH e Baal, tra il culto di Dio e quello dell’idolo - che sta alla base della situazione in cui si trova Israele, assoggettato ai madianiti da sette anni (Gdc 6,1-10)10.

Lo Spirito del Signore riveste, poi, Gedeone, ed egli chiama alle armi gli abiezeriti, ma pu-re tutto Manasse e Aser, Zabulon e Neftali (Gdc 6,33-35; 7,23). Prima di mettersi in marcia contro il nemico, però, egli chiede al Signore un ultimo segno, una prova che convalidi la sua missione. Mosè aveva ottenuto due segni, quello del bastone trasformato in serpente e della mano divenuta lebbrosa (Es 4,1-9). Gedeone, invece, sceglie un unico segno ma con doppia prova: un vello di lana bagnato di rugiada sul terreno asciutto, e lo stesso vello asciutto sul terreno bagnato (Gdc 6,36-40).

3.2. La campagna militare di Gedeone (Gdc 7-8,21) Gedeone è accampato con trentaduemila uomini alla sorgente di Charod (= tremore, pau-

ra), sotto i monti di Gelboe. Troppe mani di uomini perché la vittoria che riporteranno possa essere attribuita alla mano del Signore!11. Siamo nella terra promessa, e non più nel deserto, 7 Cf. 1Sam 9,21; Ger 1,4-10. 8 Cf. anche Lc 1,79; 2,14.29; 10,5-6; 19,38.42; Lc 24,36; Gv 14,27; 16,33; 20,19.21.26; ecc. 9 Cf. Es 20,3: Dt 5,7; Os 13.4; ecc. 10 Cf. 2,1-5; 1Sam 10,17-19. 11 Cf. Es 14,13-14; Dt 8,17-18; 9,4-6; ecc.

7

dove il Signore faceva tutto, portava in braccio Israele (cf. Os 11,3-4), e la manna cadeva dal cielo. Il popolo di Dio deve far uso dei mezzi umani per farsi strada nel mondo. Attribuire, però, a sé la forza e la vittoria che solo il Signore concederà quando la sua mano deve ricorre-re alle armi, è la grande tentazione e il peccato di arroganza di Israele (cf. Am 6,13; ecc.). Bi-sognerà, allora, tradurre in termini guerreschi la lezione del deserto sui beni, che vanno inter-pretati come dono di Dio, e non quale preda della cupidigia dell’uomo. Se si deve far uso di mezzi umani, questi dovranno essere mezzi poveri, affinché il popolo di Dio non se ne garan-tisca autonomamente, ma riconosca che anche la propria forza è forza di Dio. C’è qui, in germe, tutta la teologia della grazia di Dio in rapporto alla libertà umana12.

Ventiduemila paurosi e «tremanti» (chared presso la fonte del tremore: Charod) vengono rispediti a casa (cf. Dt 20,1-9). I diecimila rimasti sono messi alla prova e fatti scendere all’acqua. Quelli che avessero bevuto dalla sorgente mettendosi in ginocchio, andavano ri-mandati. Essi non pensavano a difendersi da un eventuale nemico, che poteva sorprenderli al-le spalle. Si dovevano, invece, ritenere solo coloro che, ben guardandosi le spalle sul fianco, avessero bevuto l’acqua stando in piedi e portandosela alla bocca nel palmo della mano, lam-bendola come la lambisce il cane. Quelli che fecero così furono solo trecento, un numero del tutto sproporzionato al compito da realizzare!

«Allora il Signore disse a Gedeone: “Con questi trecento uomini che hanno lambito l’acqua, io vi salverò e metterò i madianiti nelle tue mani”» (Gdc 7,7).

Le armi nelle mani di questi trecento, inoltre, saranno trombe fatte di corni di ariete (cf. Gs 6,4-6.8.13; ecc.) e brocche vuote con dentro fiaccole. La povertà e l’inadeguatezza umoristi-ca dell’armatura è compensata dall’obbedienza alla parola del Signore. Il Signore non intende fare tutto; l’uomo deve fare, ma non strafare. La sua parte deve apparire totalmente spropor-zionata al risultato ottenuto, così che solo il Signore venga glorificato. La fede riporta vittoria quando fa uso degli strumenti più deboli. In linea con la medesima sapienza, Paolo dirà che ciò che poteva rappresentare per lui un guadagno, un motivo di auto-realizzazione mondana, l’ha considerato una perdita per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui (Fil 3,7-11). Come nelle donne sterili, come in Debora e Giaele, la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza umana13, negli uomini e donne umili, obbedienti e timorati di Dio.

Ancora un volta, di notte, il Signore parla a Gedeone e lo fa scendere segretamente nel campo nemico insieme a Pura, suo servo. Qui egli ascolta il racconto che un uomo dello sterminato accampamento madianita fa del suo sogno simbolico a un compagno: una pa-gnotta d’orzo (= gli agricoltori sedentari) rotolava nel campo di Madian e ne rovesciava la tenda (= i predoni nomadi) (v. 13). Il compagno interpreta la pagnotta come la spada di Ge-deone, figlio di Ioash, uomo di Israele, nelle cui mani Dio ha messo Madian e tutto l’ac-campamento (v. 14). Gedeone, udendo questo racconto, prende vigore, raccoglie i suoi tre-cento uomini e li divide in tre schiere disposte intorno al campo nemico, armati dei corni e delle brocche vuote con dentro le fiaccole. Al suono del corno di Gedeone, tutti suonano i lo-ro corni e spezzano le brocche, tenendo le fiaccole con la sinistra e con la destra i corni per suonare e, restando ciascuno fermo al proprio posto, emettono il grido di guerra: «La spada per JHWH e per Gedeone» (Gdc 7,20).

La realtà è che le loro mani sono troppo occupate per brandire una spada. Questa, infatti, è maneggiata dal Signore e dai suoi stessi nemici:

«Tutto il campo si mise a correre, a gridare, a fuggire. Mentre quelli suonavano le trecento trombe, JHWH fece volgere la spada di ciascuno contro il compagno, per tutto l’accampamento. L’esercito

12 Cf. Dt 8,1-9,6; Is 10,5-15; Ger 9,22-23; Os 2,10; Mc 4,26-29; Lc 12,22-34: 21,14-19; Gv 3,27; 15,1-5; 1Cor 3,4-4,7; ecc. 13 Cf. 1Cor 1,17-2,16; 2Cor 12,7-10.

8

fuggì fino a Bet-Sitta, a Zerera, fino alla riva di Abel-Mecola, sopra Tabbat (= ai guadi del Giorda-no nella regione di Bet-Shean)» (Gdc 7,21b-22).

L’unica spada con cui JHWH combatte contro i suoi nemici e contro i nemici del suo po-polo è quella con cui questi – opponendosi al Signore del cielo, della terra e della storia - si auto-distruggono.

Gedeone chiama a raccolta gli uomini di Efraim dalle loro montagne, perché scendano contro i madianiti e taglino loro i guadi sul Giordano. È così che due capi di Madian, Oreb (= il corvo) e Zeeb (il lupo), vengono presi e giustiziati e le loro teste sono portate a Gedeone (Gdc 7,9-25).

Il racconto di questa vittoria è molto simile a quella della presa di Gerico, al suono delle trombe (Gs 6,20). In certo modo, esso ricorda pure lo scacco e la seguente vittoria israelita davanti ad Ai, ambedue dovute a infedeltà e a fedeltà religiose, molto più che alla capacità guerresca dei combattenti (Gs 7,1-8,29)14.

La campagna di Gedeone continua oltre il Giordano per inseguire Zebach (= vittima) e Zalmunna (= ombra errante), due re di Madian. Questi vengono catturati e uccisi da Gedeone, il quale agisce come «vendicatore del sangue» (go’el ha-dam)15 di uomini del suo clan, uccisi dai due re madianiti in uno scontro precedente, presso il Monte Tabor.

3.3. La fine della vita di Gedeone e il ritorno all’idolatria (Gdc 8,22-32) Gedeone, quindi, vendicatosi su popolazioni infide, che si erano rifiutate di aiutare i suoi

uomini stanchi e affamati, rientra nella condizione normale di vita, torna a casa sua e rifiuta la regalità offerta a lui e ai suoi discendenti dagli abitanti della sua regione: «Io non regnerò su di voi né mio figlio regnerà; il Signore regnerà su di voi» (Gdc 8,23). Vediamo qui la gran-dezza di Gedeone: lottando contro i nemici del suo popolo, egli ha combattuto pure il com-promesso di questo con l’idolatria, che era la radice della sua sottomissione ai propri nemici. Ora egli, rifiutando l’offerta a regnare, non vuole in alcun modo offuscare colui che è il vero Re. E’ lui stesso che cammina alla testa del suo popolo attraverso la storia16.

Gedeone, poi, con i pendenti d’oro sottratti ai madianiti, fece un efod - cioè un memoriale, forse una veste cultuale, posto da lui in Ofra in onore di JHWH17 -, che però diventerà presto per gli israeliti una nuova occasione di magia e di idolatria, che segnerà la rovina sua e della sua casa.

In Gdc 8,33-35 si narra che gli israeliti tornarono monotonamente a prostituirsi ai Baal e presero Baal-Berit come loro dio (Gdc 8,33). Il baalismo naturalistico torna a insidiare lo ja-hwismo di Israele. Gli dèi dei cananei continuano a essere un inciampo per il popolo del Si-gnore (Gdc 2,3).

3.4. La rilettura tipologica di Isaia (VIII sec. a.C.) Il racconto della gesta di Gedeone contro Madian è stato riletto più volte nella storia

d’Israele. Nel 734 a.C. il re di Assiria, Tiglat-Pilezer III (745-727), conduce una campagna contro i

14 Anche in 2Cr 20,1-30 si racconta di una vittoria del Signore, ottenuta senza colpo ferire su di un’immensa moltitudine di moabiti, ammoniti e meuniti (o di «quelli delle montagne di Seir») nel deserto di Tekoa. L’esercito, con cui Giosafat, re di Giuda, marcerà contro i nemici sbarcati a En Ghedi, sarà in realtà un’orante processione liturgica di tutto il popolo, occupato unicamente a lodare il Signore e a credere e confidare in lui solo. Anche in quella occasione, agli occhi degli israeliti l’esercito nemico apparirà come un campo di cadaveri, senza alcun superstite. I nemici si sono distrutti a vicenda. 15 In Nm 35,9-21 il «redentore» (go’el) è incaricato della «vendetta» in caso di omicidio: deve ritrovare l’omicida e giustiziarlo. 16 Cfr. Gdc 4,14; 5,14; Es 13,21; Dt 1,30; 8,15; 20,4; 31,6,8; Sal 48,15; 106,9; 136,16; ecc. 17 Cf. Gdc 17,5; 18,14.17-18.20.

9

filistei devastando anche tutto il territorio di Neftali. Intanto Rezin, re di Aram (= Damasco), e Pekach, figlio di Romelia, re di Israele (= Samaria: 740-731), muovono guerra ad Acaz, re di Giuda (= Gerusalemme, 736-716), con l’intento di mettere sul suo trono il figlio di Tabeel e trascinare così il regno di Giuda in una coalizione contro il pericolo assiro. È la guerra detta «siro-efraimita», che giunge fin sotto le mura di Gerusalemme. Di questa guerra parla il pro-feta Isaia, ed è a proposito di essa che egli pronuncia la profezia di un segno di JHWH, un in-tervento liberatore significato dalla nascita di un Emmanu-el (= Dio con noi: Is 7,14; 8,8.10), un principe messianico provvidenziale, da identificarsi immediatamente forse con Ezechia, figlio di Acaz, un re giusto di Gerusalemme dal 716 al 68718.

Incurante delle ammonizioni di Isaia, Acaz chiede aiuto, allora, a Tiglat-Pilezer. Il re assi-ro occupa Damasco, ne deporta la popolazione, uccide Rezin, e strappa al regno d’Israele il Galaad e la Galilea, le cui popolazioni vengono deportate in Assiria (732). Comincia così la dolente storia delle deportazioni israelite. Anche Pekach, re di Samaria, viene ucciso da Osea, figlio di Ela, che diventa re al suo posto (731-722). In questo modo, tuttavia, Acaz si riduce a essere un vassallo dell’Assiria (cf. 2Re 15,27-16,20).

Le conseguenze della campagna assira, condotta «in aiuto del regno di Giuda», hanno ri-dotto il nord del paese d’Israele in una regione devastata dai combattimenti e impoverita dalle deportazioni. Isaia non si rassegna al carattere definitivo di queste umiliazioni, e intravede un futuro ritorno consolante e glorioso degli esiliati, che si mescola con le speranze connesse al presagio del bimbo in cui «Dio è con noi». Se in passato è stata umiliata la terra di Zabulon e la terra di Neftali, in futuro sarà resa gloriosa la via del mare, oltre il Giordano e la curva di Goim (= ghelil ha-goyim = il distretto delle nazioni = la Galilea).

Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda. Poiché il giogo che gli pesava e la sbarra sulle sue spalle, il bastone del suo aguzzino tu hai spezzato come nel giorno di Madian. Poiché ogni stivale militare nella mischia e ogni mantello macchiato di sangue sarà bruciato, sarà esca del fuoco. Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile. Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto (mishpat) e la giustizia (tzedaqah), ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti» (Is 8,23b-9,6).

La desolazione delle terre di Zabulon e di Neftali, che hanno visto i deportati partire verso il nord, richiamano alla mente del profeta «il giorno di Madian» nella pianura di Izreel, con l’improvviso brillare nella notte di trecento fiaccole emerse da brocche rotte. Grande luce che rifulge nelle tenebre sarà il ritorno dei deportati e degli esiliati, quando sarà spezzato il giogo sulle loro spalle e il bastone del loro aguzzino. Allora non si dovrà più battere il grano nel ti-no, ma la gioia della mietitura nei campi aperti sarà come quella del popolo che si divise il bottino delle vittorie di Gedeone (Gdc 8,24-26). Al fragore degli stivali degli oppressori suc-cede il vagito di un bimbo, «Principe di pace».

18 La profezia dell’Emmanuele, però, come tante altre, rimarrà aperta a rilettura ulteriori: cf. Is 7-8; Mi 5,2; Mt 1,23; Rm 8,31.

10

3.5. La rilettura tipologica di Matteo (I sec. d.C.) La rilettura tipologica della gesta di Gedeone non finisce qui. La discesa di Gesù da Naza-

ret (Mt 4,13; Lc 4,16) a Cafarnao, nel territorio di Zabulon e di Neftali, e l’inizio della sua predicazione messianica - dopo il battesimo, le tentazioni nel deserto, e una volta giuntagli la notizia dell’arresto di Giovanni il Battista - sono presentati dal Vangelo secondo Matteo con i termini dell’antica profezia di Isaia: come il levarsi di una grande luce nelle tenebre e nell’ombra di morte, in cui era immerso il popolo di quelle regioni (Mt 4,12-17). La citazione dei primi versetti di Is 8,23-9,1 suggerisce al lettore, come sempre, di «ricordare» l’intera pe-ricope, e dunque anche «il giorno di Madian» e la liberazione operata da Gedeone.

4. Abimelech (Gdc 9) L’autore deuteronomista di questo libro ha cosparso il suo racconto di semi antimonarchi-

ci. Uno lo abbiamo già intravisto nelle parole di Gedeone che rifiuta la regalità. E la storia di Abimelech, con l’apologo di Iotam (Gdc 9) è esemplare a questo proposito. Il redattore è consapevole che nel suo insieme la monarchia in Israele, partita con una richiesta dal basso (come la costruzione della torre di Babele)19 e secondo criteri umani20, non sarà nel suo in-sieme un’esperienza riuscita e, dopo una storia abbastanza tragica, durata alcuni secoli, co-noscerà una fine miserabile sia nel regno del nord sia in quello del sud.

Abimeleck è uno dei settanta figli di Gedeone che erano nati dalle molte mogli; questi era nato da una sua concubina di Sichem (Gdc 8,30-31). Non si tratta, dunque, di un israelita al 100%, ma di un meticcio. Sichem, nel centro del paese di Canaan, tra il Monte Ebal e il Mon-te Garizim, si trova al crocevia tra la strada che attraversa la Samaria, e congiunge il nord e il sud del paese, e quella che, salendo da est, dalla valle del Giordano raggiunge a ovest la costa mediterranea. Ci si ricorderà che, a Sichem, Giosuè aveva fatto rinnovare alle dodici tribù d’Israele l’alleanza con JHWH (Gs 24,1-28)21. Dopo la morte di Gedeone, un empio sincreti-smo cananeo-israelitico aveva fatto erigere a Sichem un tempio al «Baal dell’alleanza (= JHWH)» (Gdc 8,33-34: 9,4.46). La permanenza intrigante del baalismo sichemita tra i figli d’Israele avranno un grandissimo influsso nella storia del fallimento della monarchia israelita e in quella dello scisma, sia politico sia religioso, tra i due futuri regni di Samaria e di Geru-salemme22.

Il nome di Abimelekh, figlio di Ierub-Baal, contiene una certa ambiguità. Significa, infatti: «Mio padre-Dio è re». Ma di quale Dio si tratta, di JHWH o di Baal?

Di fatto, il regno di Abimelekh non sarà israelita, ma di tipo cananeo. Il meticcio viene e-letto dai signori di Sichem, ai quali è presentato dalla parentela di sua madre: «Ricordatevi che io sono vostro osso e vostra carne» (Gdc 9,2)23: un «golpe», dunque, di un clan sichemi-ta, a cui un compromesso con la tribù di Manasse, che si è affermata sgominando i predoni del deserto, conviene per assicurarsi un’egemonia, al centro del paese di Canaan, su tutta la federazione israelita. La storia di questo regno è altamente simbolica e significativa perché segnala quali pericoli il popolo di Dio va incontro quando vuole allinearsi con il costume de-gli altri popoli.

Abimelekh, con i suoi bravi mercenari, si reca a Ofra e massacra sopra la stessa pietra

19 Gli anziani d’Israele dicono a Samuele, a Rama: «Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5b; cf. v. 20; Dt 17,14). 20 Saul era «alto e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra gli israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1Sam 9,2; 10,23-24). 21 Cf. 8,30-35; Dt 11,29-30; 27,9-26. 22 Cf. Gs 17,12-13; 1Re 12; 2Cr 10; ecc. 23 Cf. Gen 2,23; 29,14; 2Sam 5,1; 19,13.

11

«settanta» suoi fratellastri (in realtà sessantanove), figli legittimi di Gedeone. Sgomberatasi così la via del potere egli rientra nel paese materno come un eroe, e si fa eleggere re di Si-chem (e di Manasse) presso la Quercia della Stele, un albero sacro venerato fin dai tempi an-tichi24.

L’usurpatore, però, non ha fatto i conti con Iotam, il figlio minore di Gedeone, che si era nascosto per scampare all’eccidio dei fratelli. Arrampicatosi sulla cima del Monte Garizim, Iotam tuona sulla città sottostante e canta ai signori di Sichem la sua favola sapienziale, che ha per protagonista lo ‘atad, l’albero che, dopo l’ulivo, il fico e la vite, viene unto re su tutti gli altri. I primi tre candidati - gli alberi più utili del paese - non hanno visto alcuna necessità di eleggere un re che vada ad «agitarsi» sopra agli altri alberi (ripetuto tre volte: Gdc 9,9.11.13). Alla fine, però, lo ‘atad tiene questo discorso alle altre piante:

«Se in verità ungete me re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dallo ‘atad e divori i cedri del Libano» (Gdc 9,15).

Secondo un’opinione comune l’‘atad designerebbe il roveto (lycium europaeum), con rami ricurvi come archi. Rabbi Tanchuma bar Abba (350-375 d.C.) nel Midrash Tanchuma dice che, come lo ‘atad è coperto da spine, così Abimelekh era coperto di azioni malvage25. In-dubbiamente, spine e rovi nel paese biblico rappresentano un ostacolo non piccolo alle coltu-re26. Essi simboleggiano gli uomini malvagi e ostili27 e l’insorgere di ogni rovina e sterilità28.

Questa spiegazione moraleggiante, tuttavia, non è sufficiente. Iotam, infatti, designava A-bimelekh, all’apice del suo potere, mediante un grande albero ombroso (il roveto, invece, è basso, quindi non da ombra), in apparenza più protettivo dell’olivo, del fico e della vite, dai frutti meno importanti dei loro (che per il loro pregio non lo inducessero a rinunciare alla re-galità), tanto combustibile da risultare minaccioso per tutti i vicini (il roveto, invece, brucia con grande difficoltà), e dotato di insidie nascoste e distruttive per coloro che, con cieca in-genuità, si rifugiassero sotto la sua ombra. Ora, sono queste le caratteristiche di un albero chiamato Ziziphus spina-christi, una pianta tropicale giunta in Israele dall’Africa, dalle radici profonde e molto estese, che si incontra in tutto il paese. In estate e nei primi giorni della sta-gione delle piogge, i suoi rami sono ricchi di fiori giallo-verdi molto odorosi, che attirano le api e favoriscono l’impollinazione. I suoi frutti sono come delle piccole mele (= rimin), che non vengono vendute sui mercati.

Per sé lo Ziziphus spina-christi cresce ampio e selvaggio, con un fogliame ammassato. È più grande di ogni altro albero da frutto che nasca in Israele, dove è possibile incontrare alcu-ni ‘atadim giganteschi. I rami di questo albero assicurano un’ombra ampia e riposante, spe-cialmente per chi d’estate lavori nei campi o sull’aia, o per un pastore con il suo gregge e, poichè sono ricchi di spine, possono essere utili per appendere oggetti. Si tratta, però, di un albero dannoso per gli alberi da frutta. Le sue vigorose radici si estendono in ampio cerchio e sopraffanno le radici degli altri alberi. Chi pianta un frutteto, deve sradicare ogni ‘atad nelle vicinanze, persino il più giovane alberello.

Una volta sradicato e seccato, poi, lo ‘atad brucia bene, genera molto calore e poco fumo. Si comprende quale pericolosità Iotam voglia denunciare in Abimelekh con le parole che questo albero regale rivolge agli altri alberi: quella di un incendio gigantesco che devasterà tutto Israele, dalle valli (ove cresce) alle colline e alle montagne (ove crescono maestosi i ce-dri):

«Godetevi Abimelekh ed egli si goda voi!... Esca da Abimelekh un fuoco che divori i signori di Si- 24 Cf. Gen 12,6; 35,4 Dt 11,30; Gs 24,26. 25 Cf. Parashat Wayyera’, 29. 26 Cf. Gen 3,17-19; Pr 24,30-34, Mc 4,7. 27 Cf. Nm 33,55; G5 23,12-13: 2Sam 23,6; Mi 7,4. 28 Is 7,23-25; 9,17; 32,12-14; Ger 4,3; 12,13; Mc 4,18-19; Eb 6,7-8.

12

chem e Bet-Millo; esca dai signori di Sichem e da Bet-Millo un fuoco che divori Abimelekh» (Gdc 9,19-20).

Un tale pericolo si era già verificato nella strage dei «settanta» fratellastri di Abimelekh e, dopo tre anni, segnerà la distruzione di Sichem e del suo popolo, il quale aveva aderito a un sollevamento di rivincita cananea (= degli uomini di Chamor, antico capostipite di Sichem29), guidato da Gaal, figlio di Ebed, contro Abimelekh. Questi uomini verranno fatti bruciare vivi dalle fiamme e soffocati dal fumo nel sotterraneo del tempio di El-Berit (Gdc 9,22-49). A sua volta, Abimelekh sarà colpito in testa dal pezzo superiore di una macina, gettatagli da una donna (!) durante l’attacco contro la torre fortificata di Tebes (= Tubas), e si farà uccidere dal suo scudiero, come Saul (1Sam 31,4; cf. Gdc 9,50-55).

«Quando gli israeliti videro che Abimelekh era morto, se ne andarono ciascuno a casa sua. Così Dio fece ricadere sopra Abimelekh il male che egli aveva fatto contro suo padre, uccidendo settan-ta suoi fratelli. Dio fece anche ricadere sul capo della gente di Sichem tutto il male che essa aveva fatto; così si avverò su di loro la maledizione di Iotam, figlio di lerub-Baal. Dopo Abimelekh sorse a salvare Israele Tola...» (Gdc 9,55-10,1).

Dio, dunque, non è stato assente in tutta questa vicenda, ma il suo Spirito si è servito, per fare giustizia, della protesta dei signori di Sichem contro il dispotismo del loro re (Gdc 9,23-24). E la prima fragile esperienza di monarchia è andata in fumo con il fuoco dello ‘atad. La conclusione tragica di questa storia anticipa la tragedia della monarchia in Israele. L’ibrida simbiosi tra israeliti e cananei, la corruzione del culto di JHWH con i culti di Baal e Ashera, l’arroganza dei re d’Israele e di Giuda - ispirata più spesso al dispotismo dei re cananei che all’obbedienza umile a JHWH e alla sua Torah -, l’insofferenza e la sopraffazione tra i figli dello stesso padre, condurranno finalmente alla rovina sia dei monarchi sia del popolo con la vicenda degli esili a Ninive e a Babilonia.

Una lezione, quella del regno effimero di Sichem, anche per la Chiese di Dio, subdola-mente tentata di sincretismi sempre nuovi tra lo spirito jahwistico di Gesù - che è lo Spirito Santo - e quello del prevalere del potere e del prestigio economico, sociale e politico, proprio del baalismo sichemita, che propone sempre «luoghi» alternativi di adorazione e di culto30.

5. Iefte (Gdc 10,6-12,7) L’introduzione alla storia di Iefte (Gdc 10,6-18) riprende quella generale del libro (Gdc

2,6-19). Questa volta, l’apostasia degli israeliti ha fatto sì che il Signore li abbia «venduti» (makhar) per diciotto anni nelle mani degli ammoniti (e dei filistei). Questi, oltre a oppri-mere gli israeliti insediati da tempo nella Transgiordania, in Galaad31, minacciano ora pure Efraim, Beniamino e Giuda, al di qua del Giordano. Gli israeliti gridano al Signore, mostran-do segni di sincera conversione, e «il fiato del Signore divenne più corto sulla sciagura di I-sraele». Allora viene fuori Iefte, il galaadita, uomo forte e valoroso, ma figlio di una prostitu-ta, e cacciato di casa dai suoi fratellastri perché bastardo, un uomo «non troppo per bene». Divenuto un bandito nel paese di Tob, egli viene ricercato, un giorno, dagli israeliti di Galaad come loro capo. Iefte si fa accompagnare dai loro anziani e si propone come condottiero su-premo nell’accampamento d’Israele a Mizpa di Galaad (= Iegar-Saaduta).

Prima della battaglia, Iefte fa un voto al Signore: in caso di vittoria, gli immolerà in olo-causto la persona che uscirà per prima dalle porte della sua casa per andargli incontro. E la prima persona che gli andrà incontro, con timpani e danze, sarà una fanciulla, la sua unica fi-

29 Cf. Gen 33,18-20; 34; Gs 24,32. 30 Cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13; Gv 4,16-24; ecc. 31 Cf. Nm 21,21-35; 32; Dt 3,12-20; Gs 12,1-6; 13,8-32.

13

glia. Abbiamo così la narrazione altamente drammatica del sacrificio umano di una figlia uni-ca, accettato in obbedienza al padre dalla vittima, la quale solo chiede di poter discendere per due mesi tra i monti, con le compagne, a piangere la sua verginità, la disgrazia, cioè, e il di-sonore di morire prematuramente senza discendenza. Trascorsi i due mesi, il padre, in obbe-dienza alla parola data al Signore, fece di lei ciò che aveva promesso con voto.

Questo racconto presenta l’unico caso di sacrificio umano, realmente effettuatosi, che non solo non sia condannato dalla Bibbia, ma che venga citato come un esempio eroico di fedeltà al voto emesso davanti al Signore, e ciò sia da parte del padre sia da parte della figlia sacrifi-cata. I sacrifici umani, specialmente di fanciulli, erano in abominio in Israele32. Il fatto, però, di venir praticati dalle «più evolute» popolazioni cananee e fenicie conferiva loro un certo fa-scino anche tra il popolo di Dio, specialmente sotto la pressione delle azioni guerresche33. Il caso di Chiel di Betel e dei suoi due figli invera una maledizione di Giosuè (Gs 6,26), e quel-lo dei sette figli di Saul consegnati ai gabaoniti è un rito religioso cananeo di espiazione, con-cesso da Davide a una popolazione pagana (2Sam 21,1-14). Simili riti comunque sono con-dannati severamente dai profeti34.

Il sacrificio che somiglia di più a quello della figlia di Iefte è quello di Isacco, l’unico fi-glio di Abramo. Con la differenza, però, che il padre pensa, in buona fede, che sia il Signore a richiederglielo, e soprattutto che la reale volontà del Signore, che non gradisce simili offerte, si manifesta con la sostituzione di un ariete al ragazzo (Ger 22,1-19).

Sul piano di una tensione tra «buona fede», «buona coscienza» soggettiva e vera fede, vera coscienza oggettiva - tra sincerità e verità -, dobbiamo insistere sulla necessaria distinzione tra il messaggio inteso dalla parola di Dio e la inevitabile mediazione della coscienza degli uomini che la interpretano e la riportano nella storia.

Qui la Bibbia, senza lodare esplicitamente il voto di Iefte e il suo adempimento, è discre-tamente testimone del primato assoluto che la coscienza d’Israele riconosce al timore del Si-gnore e alla fedeltà alla parola che gli sì è data. La lode che JHWH riserva ad Abramo per non avergli rifiutato il suo figlio unico (Gen 22,12.15-18) deve intendersi estesa, a maggior ragione, anche a Iefte, il galaadita bastardo, figlio di una prostituta, e padre di una fanciulla purissima, non solo nel corpo, ma specialmente nel cuore, dal momento che, senza esita-zione e in tutta semplicità, ella si sente obbligata dalla parola data al Signore dal padre a met-tere liberamente a disposizione la propria esistenza umanamente incompiuta (Gdc11,36).

Questo è tutto? O c’è qualche cosa di più, dato che la Bibbia insinua discretamente che e-siste una qualche relazione tra il voto fatto e compiuto da Iefte e la vittoria accordatagli dal Signore contro Ammon e anche contro i gelosi efraimiti? Forse solo una rilettura cristiana di questa storia ci può far intravedere in essa, come in trasparenza, il mistero di una «salvezza pasquale» legata, in qualche nascosta maniera, al sacrificio di un primogenito (bekhor) e di un figlio unico (yachid35). È un tema misterioso già adombrato dalla storia del sacrificio in-compiuto di Isacco; da quella della decima piaga di Egitto e della morte dei primogeniti degli egiziani36; dalla conseguente consacrazione al Signore, dal riscatto dei primogeniti e dal ruolo dei leviti in Israele, popolo primogenito del Signore37.

Non che al Signore sia gradito il sacrificio umano di un figlio o di una figlia, né che al Pa-dre sia gradita la croce del Figlio. È all’opera, però, nel nostro mondo un satanico mistero dell’iniquità (to mystèrion tès anomias), ben più crudele di Ammon. Solo il Signore Gesù

32 Cf. Es 13,11-16; 34,19-20; Lv 18,21; 20,1-5; Nm 3,11-13.40-51; 8,5-22; Dt 12,31; 18,9-12; 2Re 16,3; 21,6; 23,10. 33 Cf. 1Sam 14,24-45; 2Re 3,27. 34 Cf. Ger 7,31: 19,1-6: 32,34-35; Ez 16,20-21; Mi 6,6-8; Is 30,33. 35 Cf. Ger 6,26; Am 8,10; Zc 12,10. 36 Cf. Es 4,23; 11,4-7; 12,12-14.29-34; Sal 78,51; 105,36; 135,8; 136,10; Sap 18,6-19. 37 Cf. Es 4,22; 13,1-2.11-16; Ger 31,9; ecc.

14

può toglierlo di mezzo con il Soffio (= to pneuma) della sua bocca (cf. Is 11,4), quello che e-gli ha reso al Padre, esalandolo sulla croce (Lc 23,46; Gv 19,30). Con la sua risurrezione que-sto Soffio è divenuto una Spada (hê machaira tou pneumatos: Ef 6,17; cf. Os 6,5), con cui il Messia e Signore definitivamente annienterà l’Avversario con l’epifania della sua parusia (2Ts 2,7-10)38.

La piccola figlia di Iefte il bastardo, vergine ignara di tutto, la nipotina di una prostituta, che anticipa l’umile disponibilità di Miryam, la vergine di Nazaret, è stata coinvolta dall’economia misteriosa di quella divina sapienza nascosta e di quell’amore fino alla fine, che è giunta ad abbracciare persino la crocifissione del Signore della gloria (cf. Gv 13,1; 1Cor 2,6-10).

6. Sansone (Gdc 13-16) Con Sansone (che ha il sole, shemesh, nel suo nome) comincia la storia biblica della lotta

tra Israele e i filistei, quella lotta che indurrà gli israeliti a darsi un re. Il tempo della punizione inflitta dal Signore, il quale mette gli israeliti nelle mani dei fili-

stei, è di quarant’anni, un numero pieno (Gdc 13,1). Sansone, poi, giudicherà Israele per venti anni (Gdc 15,20; 16,31).

La storia biblica di questo giudice lo accompagna per quattro capitoli, dalla nascita alla morte. Anzi, comincia prima ancora della nascita, prevenendolo nel seno di sua madre, la moglie di Manoach (= riposo, come Noach, Noè), un uomo di Zorea appartenente a un clan della tribù di Dan, per la quale a Silo, dinanzi al Signore, era stato sorteggiato un territorio a ovest di quello di Beniamino, tra Efraim e Giuda39. Nella storia di Sansone, però, i daniti ap-paiono da tempo in una condizione di soggezione sotto i filistei (cf. Gdc 15,11).

«Un fanciullo nazireo per il Signore fin dal seno (materno)», sulla cui testa non dovrà mai passare rasoio: una qualità di questo «consacrato», che lo accompagna, non per un tempo limitato (cf. Nm 6,1-21), ma fino al giorno della sua morte (Gdc 13,5.7; 16,17).

Il lungo racconto dell’annunciazione della sua nascita, fatta prima alla madre, che è sterile, come le donne dei patriarchi (Gdc 13,3-7), e poi ad ambedue i genitori (Gdc 13,8-23), è uno dei più vicini alla storia della nascita di Samuele (1Sam 1), e a quelli dell’annunciazione della nascita di Giovanni il Battista (a Zaccaria: Lc 1,5-25), e della nascita di Gesù (a Maria: Lc 1,26-38). All’annuncio dell’angelo della nascita e della missione del nascituro, rispondono il timore e le questioni di coloro che lo hanno ricevuto; viene offerto un segno dell’autenticità divina dell’annuncio, a cui fa seguito l’accettazione fiduciosa della missione ricevuta (come in Gdc 6,17-24), e l’imposizione del nome al bambino, il quale cresce benedetto dal Signore.

Un intervento così preveniente del Signore mette in luce, ancora una volta e meglio ancora delle altre volte, il carattere puramente carismatico dell’investitura di Sansone da parte del Ruach turbinoso di JHWH, a Machane-Don (Gdc 13,25)40.

Quelli di Sansone sono giorni duri, non solo per i daniti, ma anche per gli israeliti delle tribù vicine, insediati sulle colline limitrofe. «In quel tempo i filistei dominavano Israele» (Gdc 14,4), ed essi costituivano un pericolo ben più serio dei minoritari gruppi cananei. Dalla pianura costiera, essi faranno delle scorrerie verso la montagna dell’interno, e tremila uomini di Giuda cercheranno di evitare lo scontro, disposti ad accettare, senza discutere, la loro su-premazia, e persino a collaborare con loro, mettendo nelle loro mani l’indomito danita gua-stafeste, ritiratosi nella caverna della rupe di Etam (Gdc 15,8b-14). Il fatto è che i filistei han-no riservato a sé il segreto e il monopolio della lavorazione del ferro, e quindi la produzione

38 Cf. Is 49,2; Sap 18,15; Lc 2,35: Eb 4,12-13; Ap 1,16; 2,12.16; 19,11-21; ecc. 39 Cf. Gs 15,33-47; 18,1-10; 19,40-49. 40 Cf. 14,6.19; 15,14.19.

15

di armi di ferro, spade e lance, è sottratta agli israeliti. «Allora non si trovava un fabbro in tut-to il paese d’Israele». Ciò conferisce ai filistei un indiscusso predominio sugli ebrei (cf. 1Sam 13,19-22).

La vita cittadina della regione costiera, inoltre, esercita un fascino sulla gente dei villaggi più primitivi delle colline. E anche le figlie dei filistei risultano più attraenti per il giovane «consacrato» di Zorea delle giovani contadine israelite. Così, girando per Timna - una locali-tà che ricorda la vicenda di Giuda e di Tamar (Gen 38,12-14)41 -, Sansone è colpito dalla bel-lezza di una ragazza filistea e, su due piedi, decide di sposarla. All’obiezione dei genitori, i quali preferirebbero che il figlio prendesse in moglie una figlia del proprio popolo42, il giova-ne risponde, dicendo al padre: «Prendimi quella, perché mi piace» (Gdc 14,3,7).

Colpisce l’impulsività di questo personaggio capriccioso ed estemporaneo, dotato di una forza leggendaria, che egli non sembra capace di gestire con saggezza. Non ha paura di un le-one, che gli viene incontro ruggendo mentre egli va a incontrare la fidanzata, lo squarcia con le sue mani e, più tardi, si nutre con il miele di uno sciame d’api che si era formato nella sua carcassa. Ingenuamente borioso, come sa esserlo un giovane tutto braccio e poca mente, San-sone, approfitta della sua forza fisica per vantarsene e fare lo smargiasso tra i compagni. «Gioca al lotto» con l’episodio del leone, e ne fa un indovinello con cui, per i sette giorni del banchetto nuziale, sfida trenta giovani invitati come amici dello sposo, mettendo in palio trenta tuniche e trenta mute di vesti. Non sa resistere, però - e questa debolezza gli sarà fatale - di fronte all’insistenza di una donna, e rivela la soluzione dell’indovinello alla sposa, che lo tradisce rivelandola ai figli del suo popolo. Per pagare la scommessa perduta, scende ad A-scalon, uccide trenta filistei e con le loro spoglie paga la scommessa. Poi, acceso d’ira e senza dir nulla, lascia la giovane sposa e ritorna per un certo tempo presso i suoi genitori, a Zorea.

Noi diremmo che Sansone si comporta come un «bullo di periferia», che non sa prendere nulla sul serio e gioca con le persone e con le cose, senza riuscire a fissarsi in un luogo. La sua forza eccezionale è rimasta confinata nei suoi capelli, senza che niente di essa sia mai en-trata nella sua testa, su cui non è mai passato rasoio.

Il suo cuore, però, è buono e, dopo qualche tempo, nei giorni della mietitura, egli si ripre-senta a Timna per visitare la moglie e portargli in dono un capretto. Il suocero, nel frattempo, credendo che la figlia fosse stata ripudiata dal giovane israelita, ha dato la ragazza in sposa a un compagno di Sansone, che gli aveva fatto da amico di nozze. E gli offre la sorella minore. Quella famiglia filistea, anche dopo il solenne banchetto nuziale, non è riuscita a prendere sul serio il giovane ebreo, forse non sapendo bene come trattarlo. Questi, però, acceso d’ira, gio-ca uno scherzo atroce ai filistei: lega centocinquanta fiaccole alle code di trecento volpi, ac-cende le fiaccole e lascia andare le volpi, bruciando così i loro campi di grano - covoni am-massati e spighe non ancora mietute -, e anche vigne e oliveti. Vendica, poi, con una strage di filistei l’incendio con cui questi gli hanno bruciato moglie e suocero, e si ritira nella caverna della rupe di Etam.

Qui, come si è visto, si lascia catturare e legare da tremila uomini di Giuda, preoccupati per le vendette che i dominatori filistei minacciano di fare sulle tribù israelite confinanti, ma, giunto a Lechi per essere consegnato al nemico, investito dallo Spirito del Signore, si libera, uccide mille incirconcisi con una mascella d’asino ancora fresca, e canta il macello fattone. Poi si disseta con l’acqua scaturita da una roccia spaccata per lui dal Signore43.

Sicuro della sua forza eccezionale Sansone circola fiducioso tra i vari villaggi israeliti e le «progredite» città filistee e, attratto come è dalle donne, scende a Gaza, vede una prostituta e va da lei. Sfugge poi a un agguato tesogli dai filistei alle porte della città, divellendone i bat-tenti con gli stipiti e la sbarra, e trasportandoli sul monte che guarda in direzione di Ebron. 41 Cf. Gs 15.10; 19,43. 42 Cf. Gen 24,2-4; 28,1-2. 43 Cf. Es 17,1-7; Nm 20,1-11.

16

L’ultima avventura di Sansone è ancora segnata dalla sua ingenuità e debolezza davanti a una donna, un’altra infida filistea della valle di Sorek, di nome Dalila, di cui egli si è innamo-rato sinceramente. Dopo un burlesco e ingenuo tira e molla con lei, che vuole strappargli il segreto dell’origine della sua forza straordinaria per farlo domare dai filistei, Sansone, per rassicurarla sul proprio amore per lei (Gdc 16,15), le «apre tutto il suo cuore» (Gdc 16,17-18) e le svela il segreto della sua forza, che risiede nei lunghi capelli intonsi, garanti della sua condizione di nazireo. Quest’ultima leggerezza è fatale a Sansone. Una volta rase le sette trecce del suo capo, il Signore si ritira da lui, e Dalila lo vende per denaro ai suoi nemici.

«I filistei lo presero e gli cavarono gli occhi; lo fecero scendere a Gaza e lo legarono con catene di rame. Egli dovette girare la macina nella prigione» (Gdc 16,21).

Il loro successo viene celebrato come un’impresa vittoriosa del loro dio Dagon44. Ma è di breve durata. Durante una festa in onore di Dagon, il povero cieco, che non ha mai smesso di essere un burlone, viene fatto uscire dalla prigione per fare il giocoliere. I capelli, però gli so-no ricresciuti e lo spingono a invocare umilmente il Signore per riavere, ancora per una volta, la sua forza di un tempo e vendicarsi dei filistei per i suoi occhi accecati. Appoggiandosi alle colonne della casa in cui si fa la festa, la fa rovinare addosso ai capi dei filistei e a tutto il po-polo che era dentro.

«Che io muoia insieme con i filistei! - fu il suo ultimo grido... Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti aveva uccisi in vita. Poi i suoi fratelli e tutta la casa di suo padre scesero e lo portarono via; risalirono e lo seppellirono tra Zorea ed Estaol nel sepolcro di Manoach suo pa-dre. Egli aveva giudicato Israele per venti anni» (Gdc 16,30-31).

Così, per l’ultima volta, Sansone «salva» Israele, con la sua morte. Questa storia, piena di elementi leggendari (i numeri mirabolanti degli uomini e delle vol-

pi) e magico-rituali (la consacrazione e la forza di Sansone riposta nei suoi capelli), è una sto-ria triste. Le prodezze solitarie di Sansone non compensano certo il popolo di Dio del giogo pesante della dominazione filistea. Rappresentano, piuttosto, un momentaneo fuoco d’artificio evasivo in una situazione di assoggettamento e di schiavitù. La storia diventa, così, una profezia della cattura dell’arca del Signore da parte dei filistei e del suo vittorioso itinera-rio attraverso il loro territorio (1Sam 4-7). Il comportamento dell’eroe di questi quattro capi-toli è caotico e imprevedibile, sembra che la sua forza fisica gli dia alla testa, e il livello di confusione della sua coscienza prepara anch’esso la descrizione dell’abisso morale che verrà raggiunto dall’orribile delitto di Gabaa e dalla guerra di tutte le tribù contro Beniamino (Gdc 19-21).

Il figlio di Manoach, però, non manca di un senso della giustizia (Gdc 15,3.11) e di gran-dezza di fede e di timore del Signore, specialmente nella sua fine. La sua «consacrazione» e appartenenza al Signore non è stata senza significato e senza frutto di fronte agli idolatri (cf. Am 2,11-12), anche se egli l’ha gestita spesso con tanta leggerezza. Un voto fatto al Signore segna seriamente e per sempre chi gli si è consacrato. E non c’è autorità umana o seduzione di donna o di uomo che possa renderlo vano. Una lezione ben seria anche per il nostro tempo, così fertile di tradimenti delle parole date.

Il vero protagonista della storia rimane però JHWH, il quale di tutti e di tutto sa servirsi li-beramente per salvare Israele (cf. Est 4,17b). Ad esempio il colpo di fulmine della ragazza di Timna «veniva dal Signore», così «che Sansone cercasse un’opportunità contro i filistei» che dominavano Israele (Gdc 14,4). La vera consolazione di questa pagina di tempi bui ci viene dalla rivelazione del permanere di tutte le realtà, le più grandi e le più piccole, nelle mani del Signore dell’alleanza e nel mistero del suo disegno salvifico su Israele e sulle nazioni. Una tale presenza permanente del Signore a tutta la storia non rappresenta, per sé, alcuna garanzia 44 Cf. Gs 15,19; 19,27.

17

per noi, e per il suo popolo particolare, di essere preservati da prove di ogni genere, servitù e accecamenti, e ancor meno dalle conseguenze delle nostre colpe. L’intervento di Dio nella nostra storia non si fraziona tanto in piccoli episodi quotidiani, che dipendono dai giochi delle nostre libertà, ma si manifesta nella sapienza trascendente con cui egli ci abbraccia, ci ac-compagna sempre e, finalmente, in sé ci assicura «riposo» (= manoach; cf. Gen 8,9; Lam 1,3).

7. Necessità di un re e di un santuario regale per una tribù senza terra (Gdc 17-18) I capitoli 17 e 18 del libro dei Giudici premono sulla necessità di avere un re anche in I-

sraele, e denunciano la sua mancanza specialmente a proposito di due esigenze vitali avvertite nelle tribù israelite: tra le montagne di Efraim si sente l’esigenza di istituire regolarmente l’esercizio di un legittimo culto sacerdotale (Gdc 17,4-6; cf. Dt 12,8-9), e nella tribù di Dan si fa acuto il problema di sfuggire al dominio filisteo e di trovare un territorio dove stabilirsi in pace (Gdc 18,1).

7.1. Un santuario domestico sulla montagna di Efraim Queste due esigenze sono evidenziate e collegate tra loro dalla storia di Mica (Mikhayehu

= chi è come JHWH?). Si parla di un grosso furto perpetrato da questo efraimita ai danni del-la madre, della restituzione del denaro e della consacrazione di una parte di esso alla costru-zione di due idoli da insediare nel santuario privato di questa famiglia, dell’investitura sacer-dotale data dal padre a uno dei suoi figli45, con tanto di efod e terafim46. C’è poi il levita giro-vago (Gdc 18,3; cf. Dt 18,6-8), che arriva da Betlemme, e che si ferma e viene stipendiato, come «padre e sacerdote», nella casa di Mica, il quale lo tratta «come un figlio» (Gdc 17,10-13).

Religiosità popolare ancestrale e devozione domestica «sincera e in buona fede», anche se eterodossa, inquinata da un sapore «cananeo»47, che il racconto biblico non sembra neanche condannare troppo severamente. Gesù stesso non temerà di farsi vedere in luoghi affollati da questo tipo di popolo devoto, non immune da una certa superstizione (cf. Gv 5,2-18).

7.2. Dan alla ricerca di una terra Il racconto della famiglia di Mica si incrocia con quello della migrazione della tribù di

Dan (Gdc 18). Questa tribù di frontiera, la stessa di Sansone, è testimone di un fatto teologi-camente importante e attuale anche ai nostri giorni. La sua vicenda smentisce la convinzione di un certo fondamentalismo ebraico, secondo cui la conquista del paese di Canaan e, comun-que, il «diritto» al suo possesso da parte degli israeliti sarebbero interi, totali ed esclusivi48. Si è già visto che il libro dei Giudici offre, a questo proposito, un punto di vista molto più sfu-mato e modesto di quello di Giosuè (cf. Gdc 1,1-3,6). La cosa, poi, è evidente nella specifica situazione critica della tribù di Dan. La parte del territorio assegnatole dal sorteggio, con cui Giosuè a Silo aveva spartito tra le tribù il paese conquistato, non le era mai effettivamente venuta in possesso (Gs 19,40-48).

«Gli amorrei respinsero i figli di Dan sulle montagne e non li lasciarono scendere nella pianura» (Gdc 1,34-35a).

Una condizione instabile di accampamento tra la pianura e la montagna, frequente di mol- 45 Cf. Es 2,45; 1Sam 7,1; 2Sam 8,18. 46 Cf. Gen 31,19-35; 1Sam 15,23; 19,13-16; 2Re 23,24; Ez 21,26; Os 3,4; Zc 10,2. 47 Cf. Es 20,4-5; Lv 19,4; 26,1; Dt 4,15-19; 5,8; 27,15; 1Sam 15,22-23; ecc. 48 Cf. Gs 13,1; 15,63; 17,11-23; Gdc 1,21-36; 2,20-3,6.

18

te tribù d’Israele nel paese di Canaan, durante il tempo dei giudici. Respinti dalle pianure e dalle vie di comunicazione dalle popolazioni cananee, spesso avverse e prevalenti a causa di un armamento più sofisticato49, gli israeliti sono costretti a ritirarsi sulle colline e sui monti, dove ci si difende meglio. In questo modo, però, essi sono disseminati, i collegamenti tra loro si fanno più difficili, la vita associata e l’organizzazione civile e religiosa nelle loro colonie rimane bloccata a un livello rudimentale ed esposta alle iniziative individuali dei carismatici di turno.

Nei giorni in cui Mica, sulle montagne di Efraim, aveva stabilito il suo ambiguo santuario domestico, la tribù dei daniti ancora

«cercava un territorio per stabilirvisi, perché fino a quei giorni non le era toccata nessuna eredità fra le tribù d’Israele» (Gdc 18,1).

Dal paese basso, la Shefelah di Zorea e di Estaol mandano dei valenti esploratori a esplo-rare il paese, come un tempo aveva fatto Mosè (Nm 13). Passando per la casa di Mica, in E-fraim, vengono rassicurati circa l’esito della loro impresa dall’oracolo del sacerdote di quella famiglia, il levita girovago venuto da Betlemme. Giunti a Lais (o Lesem: Gs 19,47), vicino alle sorgenti del Giordano, ai piedi dell’Ermon e sul confine di Bashan, gli esploratori sono colpiti dalla bontà e dalla ricchezza del paese, come pure dall’ordine e dalla tranquillità, in cui vivono i suoi abitanti. Questa città costituisce, dunque, una preda ideale per una tribù op-pressa da ogni parte e costretta a emigrare dal territorio assegnatole.

Si organizza allora un’operazione di vero e proprio brigantaggio violento. Seicento daniti ben armati, con bambini, bestiame e masserizie, partono da Zorea e da Estaol. Attraversando Giuda ed Efraim giungono alla casa di Mica. Lì rapinano i due idoli, l’efod e i terafim, e si portano via anche il sacerdote, proponendogli un esercizio del suo ufficio molto più presti-gioso e redditizio: «Il sacerdote gioì in cuor suo» (Gdc 18,20). Il povero Mica non provò nemmeno ad alzare la voce per reclamare il furto. A lui e ai suoi vicini, che avevano insegui-to quell’esercito di ladroni, non resta che subire la violenza da parte dei più forti e tornarsene a casa.

La rapina, però, è appena cominciata. Giunti a Lais, i daniti passano a fil di spada un popo-lo indifeso, che se ne stava tranquillo e sicuro e danno la città alle fiamme. Poi la ricostrui-scono, vi si insediano, e la chiamano Dan, ed essa diventa la città del confine nord della terra promessa effettivamente occupato da Israele (cf. Dt 34,1): da Dan a Bersabea50.

Così gli idoli domestici di Mica inaugurano quello che diventerà il santuario di Dan, «città religiosa d’Israele», uno dei due santuari del regno scismatico del nord (cf. 1Re 12,26-30). Esso verrà distrutto nel 734 da Tiglat-Pilezer, quando gli abitanti della città saranno deportati in Assiria (cf. 2Re 15,29). La continuità levitica del sacerdozio di Dan (difesa da Gdc 18,30-31 ) sarà interrotta da Geroboamo (1Re 12,31-33).

Il «bel colpo» di mano dei daniti contro i fratelli efraimiti, e ancor più la loro aggressione contro i pacifici sidoniti di Lais, rimangono obiettivamente una vergogna nella storia del co-stume in Israele. Una vergogna che non è riprovata dal racconto biblico, come invece lo sarà, per esempio, il delitto intra-israelitico di Gabaa (Gdc 19-21).

A questo punto della storia, l’evoluzione della coscienza morale del popolo di Dio in senso universalistico e oggettivo è ancora piuttosto arretrata e primitiva. Tutto è bene ciò che riesce bene, sembra dire la Bibbia, specialmente quando questo effetto, frutto di furberia, abilità e prepotenza, torna a vantaggio di Israele, di una sua autopromozione. I discorsi dei cinque e-sploratori e della banda danita sono rivoltanti per il loro cinismo: la scoperta di Lais appare loro come un vero «dono del Signore» (Gdc 18,9-10.14.19.23-25).

Il popolo di Dio si sente pienamente giustificato nel commettere ingiustizie ai danni degli 49 Cf. Gs 17,16-18; Gdc 1,19. 50 Cf. Gdc 20,1; 1Sam 3,20; 2Sam 3,10, 17,11; 24,2.15; 1Re 5,5; 1Cr 21,2; 2Cr 30,5.

19

«altri», persino quando questi non sono suoi nemici! Il Signore è partigiano, sta con noi, non con loro; tutto ci è permesso; tutto ciò che noi compiamo, viene legittimato e benedetto dal nostro Dio, perché è motivato dallo zelo per lui. Il nostro culto religioso, espresso dalla no-stra «arte sacra», più o meno goffa, come pure dai nostri efod, terafim e sacerdoti tirati avanti per i capelli, ci garantiscono che Dio è con noi, e che noi siamo con lui (cosa molto più dub-bia!). Un tipo di sensibilità «religiosa» di stampo «mafioso» che, anche quando fosse sincera, è ancora ben distante e deviata dalla vera fede, sarà denunciata specialmente dai profeti.

È vero, però, che il Signore dell’alleanza rimane fedele al popolo che ha scelto e sposa-to51. Con il suo Spirito Santo, che è lo Spirito dell’ultimo Messia (1Pt 1,10-12), egli accom-pagna da vicino i suoi figli e le sue figlie senza compiacenze ingiuste, ma lasciando che cia-scuno porti storicamente le responsabilità e le conseguenze delle proprie scelte e azioni, an-che peccaminose; li educa dinamicamente, anche attraverso le “maledizioni” nelle quali essi incorrono a causa delle proprie ingiustizie; si adatta alle tortuosità e sinuosità del corso inqui-nato delle loro coscienze; da vero padre e maestro, attende, pazientemente che essi vengano gradualmente e lentamente fuori dalle assimilazioni empie e idolatriche in cui si sono invi-schiati, e che si liberino dalle cattive compagnie alle quali si sono associati; non pretende che le generazioni umane facciano dei passi più lunghi delle loro gambe, che chi sale la scala di tutta verità ne salti i gradini, guida gli eventi anche più lontani alla purificazione e al raddriz-zamento del cammino (cf. Os 1-3; 11).

Queste lezioni di giustizia e di morale storiche possono e devono aiutarci a non giudicare, condannandole, le generazioni del passato, e gli uomini, le donne e le culture diverse dalle nostre; a non giudicarci gli uni gli altri, condannandoci in base a misure storicamente anacro-nistiche.

8. Il delitto di Gàbaa e la guerra contro Beniamino (Gdc 19-21) 8.1. Il delitto di Gàbaa (Gdc 19) E’ una storia molto truce: il delitto di Gàbaa sarà la causa di una guerra fratricida in Israe-

le. Un desiderio di riconciliazione coniugale conduce un levita a Betlemme che, dopo aver passato alcuni giorni in casa del padre della moglie, riparte verso Efraim. Di notte giunge a Gabaa di Beniamino, la futura capitale del re Saul.

8.1. Il delitto di Gàbaa (Gdc 19) L’unico che, a Gabaa, offre ospitalità e amicizia gioiosa alla coppia e al loro servo è un al-

tro uomo delle montagne di Efraim, che abita a Gabaa come forestiero. Gli inospitali benia-miniti, «uomini figli di Beliya’al» (= balordi delinquenti), però, si fanno vivi alla porta della casa, come aveva fatto tutto il popolo di Sodoma davanti alla casa di Lot: esplosioni notturne di omosessualità, che i racconti biblici attribuiscono al malcostume «cananeo» delle città (Gen 19,1-5). Si ricorre allora alle donne: anche se vergini, esse diventano facile merce di scambio offerta alle voglie e all’abuso sessuale dei maschi scatenati. La gravissima violazio-ne dell’ospitalità si unisce, così, allo scempio infame della concubina del levita commesso per tutta la notte fino allo spuntare dell’alba, fino a che la si trova morta, distesa all’ingresso della casa, con le mani sulla soglia.

Il racconto si fa drammatico. Il levita, uscito di casa, vede la donna e la chiama, invitando-la ad alzarsi e a partire immediatamente con lui. Ma essa non risponde. Il levita, allora, la ta-glia in dodici pezzi con un coltello, e li spedisce per tutto il territorio d’Israele con un mes-saggio rivolto a ogni uomo delle tribù:

51 Cf. Es 17,7; Dt 7,7-10; ecc.

20

«È forse mai accaduta una cosa simile da quando gli israeliti sono usciti dal paese di Egitto fino a oggi? Pensateci, consultatevi e decidete!» (Gdc 19,30).

Il profeta Osea ricorderà «i giorni di Gabaa», come giorni di incubo in Israele (Os 9,9; 10,9).

8.2. La battaglia contro Beniamino (Gdc 20) Da Dan a Bersabea un’assemblea di «tutto Israele» si raduna a Mizpa e, al racconto del le-

vita, viene deciso di chiedere alla tribù di Beniamino l’estradizione degli uomini iniqui di Gabaa per la loro punizione. Il rifiuto dei beniaminiti fa precipitare la situazione, ed è la guer-ra, che è descritta come una «guerra santa di vendetta», e che assume i caratteri di un anatema per estirpare il male in mezzo al popolo52. Si consulta il Signore a Betel e Giuda muove per primo (cf. Gdc 1,1-2). Beniamino, però, è una tribù di valorosi. I suoi uomini tengono testa a tutto Israele e danno filo da torcere ai loro fratelli, tanto che ne muoiono ventiduemila; e, po-co dopo, in un secondo attacco, ne vengono uccisi altri diciottomila. Una guerra fratricida è costosa per tutti. Il Signore viene consultato per due volte, ponendogli la drammatica doman-da: «Devo ancora continuare a combattere contro Beniamino mio fratello?» (Gdc 20,23.28). Entrambe le volte JHWY incoraggia la spedizione che deve fare giustizia. Ed è finalmente il Signore che sconfigge Beniamino davanti a Israele (Gdc 20,18.23.26-28.35), mentre tutti gli abitanti di Gabaa vengono passati a fil di spada (cf. le similitudini con il racconto delle batta-glie di Ai: Gs 7,2-8,29). Viene fatta strage di Beniamino (venticinquemila caduti, secondo Gdc 20,46) e le sue città vengono date alle fiamme; solo pochi superstiti prendono la via del deserto e si rifugiano presso la roccia di Rimmon.

Ancora una volta, quindi, la guerra contro Beniamino e la sua vittoria è attribuita alla vo-lontà e alla potenza di Dio, così come abbiamo visto nel libro di Giosuè. Attribuzione – come ormai ben sappiamo – dovuta alla buona coscienza di Israele. Ma la sincerità non coincide con la verità. Solo in Gesù Verità noi possiamo contemplare la più perfetta coincidenza, fi-nalmente reale, tra coscienza vera e coscienza buona, tra sincerità e verità. Solo dall’osservatorio assolutamente pulito della coscienza di Gesù, noi possiamo discernere ciò che era la purissima parola e volere di Dio.

8.3. I rimpianti degli Israeliti e le soluzioni escogitate per Beniamino (Gdc 21) Addolorata per questa strage fratricida, tutta la comunità del popolo d’Israele si riunisce

ancora a Betel in assemblea liturgica per decidere la sorte dei superstiti di una delle dodici tribù. E poiché a Mizpa tutti avevano giurato di non dare le loro figlie in moglie a un benia-minita, decidendo di annientare anche gli abitanti di Iabes di Galaad - i quali non si erano pre-sentati all’assemblea (qahal) di Mizpa (Gdc 20,2; 21,5.8) -, ne vengono risparmiate solo quattrocento ragazze vergini. Queste vengono offerte ai superstiti del «resto» di Beniamino arroccato a Rimmon (cf. Nm 31,1-18). Si spera così di riparare in qualche modo la breccia che il Signore ha aperto tra le tribù d’Israele (Gdc 21,15; cf. vv. 2-3.17).

Poichè, però, le vergini di Iabes non sono sufficienti per i beniaminiti rimasti, per non far sparire una tribù e, d’altra parte, per mantenere l’impegno preso, si organizza uno stratagem-ma pietoso. Durante un’annuale festa religiosa di vendemmia a Silo - che è a nord di Betel, a oriente della strada che va da Betel a Sichem (= la strada dei santuari) -, quando le ragazze vergini delle altre tribù usciranno per danzare in coro, i beniaminiti, appostati nelle vigne, po-tranno rapirne una per ciascuno. Le loro famiglie non faranno opposizione. Senza mancare al giuramento di non darle in moglie a Beniamino, esse le concederanno loro «come se fossero state prese prigioniere in battaglia».

52 Dt 13,6; cf. 1Cor 5,13.

21

Così fu salvata una tribù importante e vigorosa d’Israele: la tribù di Eud (Gdc 3,15). Be-niamino era, con Giuseppe, il figlio di Giacobbe e di Rachele53. La sua sopravvivenza è ne-cessaria, tra l’altro, perché da questa tribù dovrà uscire Saul, il quale proprio dopo aver salva-to gli abitanti di Iabes di Galaad dagli ammoniti, sarà acclamato primo re d’Israele (1Sam 11). In questo modo, la conclusione del libro dei Giudici introduce il primo libro di Samuele. Dopo parecchi secoli, poi, un altro Saul, prezioso per l’Israele di Dio, nascerà dalle vergini di Iabes o di Silo, a Tarso di Cilicia (cf. At 22,3; Fil 3,5).

53 Cf. Gen 35,16-20; 42,36-43,15; ecc.