Il Piano Esecutivo di Gestione come strumento di governo dell’Ente locale

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Antonio Pileggi IL PIANO ESECUTIVO DI GESTIONE COME STRUMENTO DI GOVERNO DELL’ENTE LOCALE Dalla programmazione al controllo della gestione e alla valutazione delle prestazioni dirigenziali

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Antonio Pileggi

Il PIano EsEcutIvo dI GEstIonE comE strumEnto dI GovErno dEll’EntE localE

dalla programmazione al controllo della gestione e alla valutazione delle prestazioni dirigenziali

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Antonio PileggiLaureato in Scienze dell’Amministrazione – laurea specialistica in Scienze delle Pubbliche amministrazioni –, è stato consigliere circoscrizionale, comunale e, più volte, assessore nel Comune di Pistoia.Già stato direttore generale del Comune di Pescia, dove ha anche ricoperto il ruolo di direttore dell’Istituzione “Socialità, cultura ed educazione”, ha ricoperto e ricopre cariche di amministratore in società di servizi, a maggioranza pubblica.Attualmente è di direttore dell’Innovazione e Sviluppo nella Cooperativa sociale “Incontro” con sede in Pistoia. È anche membro dello staff del sindaco del Comune di Monsummano.

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INDICE

Presentazione p. 5Alessandro Cosimi

nota introduttiva p. 7Carlo Paolini

Prefazione p. 9

1. considerazioni introduttive p. 111.1 la produttività nella pubblica amministrazione problema “nuovo”? p. 111.2 la produttività nella pubblica amministrazione “vecchio” problema p. 131.3 Gli Enti locali frontiera del cambiamento possibile p. 15

2. la legge delega 15/09 (“riforma Brunetta”) fra innovazioni e limiti p. 212.1 Il Piano delle performance p. 212.2 la valutazione delle performance p. 26

2.2.1 la difficoltà della valutazione p. 312.3 Il vero problema: un deficit di cultura “aziendale” p. 322.4 un maggiore cultura “aziendale” per una migliore produttività p. 34

2.4.1 Il piano di lavoro p. 392.4.2 Il benchmarking p. 412.4.3 Il budget p. 43

3. Il Piano Esecutivo di Gestione, “percorso” verso la produttività p. 453.1 Il PEG ovvero l’innovazione che c’è p. 453.2 costruire il PEG come processo virtuoso a partire

dal programma di mandato p. 493.3 alcune sottolineature sul programma di mandato p. 53

3.3.1 Il controllo strategico e il controllo di gestione p. 573.3.2 I “controllori” e la “fiducia” della politica p. 59

3.4 dal programma di mandato al bilancio, per un PEG più efficace p. 603.5 alcune conclusioni. la necessità di un assetto

organizzativo conseguente p. 61

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4. relazione previsionale e programmatica e Bilancio:due passaggi verso il PEG p. 634.1 la relazione previsionale e programmatica, fra forma e sostanza p. 634.2 Il Bilancio e l’esigenza di comunicazione

fra soggetto economico e titolari della gestione p. 694.3 l’esigenza di un bilancio economico-patrimoniale,

ma anche analitico p. 704.4 Il conto consuntivo come premessa per un bilancio credibile p. 74

4.4.1 controllo di gestione e rendicontazione: il “circuito” virtuoso p. 764.5 I “tempi” del bilancio p. 77

5. la gestione del PEG p. 815.1 alcune considerazioni sul senso e il ruolo del Piano

dettagliato degli obiettivi p. 815.2 come arrivare al PEG p. 835.3 caratteristiche di un PEG “incisivo” p. 855.4 centro di responsabilità e centro di costo p. 895.5 una piccola annotazione sulle insidie degli “atti di indirizzo p. 925.6 un’ipotesi di PEG p. 93

5.6.1 un PEG possibile in dieci punti p. 93

6. verificare il PEG per valutare i dirigenti (e i dipendenti) p. 1036.1 Il controllo di gestione condizione per una valutazione efficace p. 1036.2 nucleo di valutazione: chi e come p. 1076.3 Il procedimento di valutazione dei dirigenti p. 1106.4 la valutazione di fine mandato come condizione

per la conferma del dirigente p. 1166.5 dalla valutazione dei dirigenti a quella dei dipendenti.

spunti operativi p. 1186.6 annotazioni conclusive p. 121

Bibliografia p. 125

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Presentazione

Questa pubblicazione vede la luce in un periodo di intensa fibrillazione degli Enti locali italiani, Comuni in primis.Oserei dire che essa rappresenta bene esperienze e riflessioni su ciò che le norme ci hanno via via indicato sul nuovo Comune aziendalmente gestito, a fronte di una concreta realtà in cui i Comuni, ad oggi, non sono messi nelle concrete condizioni di redigere il proprio Bilancio preventivo per l’anno seguente.Una riforma degli Enti locali, partita con la “Bassanini” e sostanzialmente ribadita dal “Brunetta” senza particolari innovazioni se non, forse, nell’enfasi del suo annun-cio, che oggi si trova a fare letteralmente i conti con risorse drasticamente tagliate e quindi sostanzialmente già “predestinate” a livello centrale.Con questo voglio dire che gli strumenti attuali dell’autonomia dei Comuni, se non saranno corretti da misure che realizzino un vero federalismo fiscale, rischiano di rimanere architetture utili solo a scaricare sui territori la gestione della “scarsità”, per di più fortemente condizionata da altri livelli di Governo.Stiamo infatti assistendo al procedere di scelte politiche centrali che mirano, e otter-ranno molto presto, la riduzione della presenza del “pubblico” nel campo di innu-merevoli servizi sociali, culturali, di promozione e sviluppo economico, di parteci-pazione, di istruzione e via dicendo.Anche all’interno delle “macchine” pubbliche i margini di manovra per renderle sempre più efficienti e produttive si riducono drasticamente: i PEG si troveranno a rappresentare, oltre alla drastica riduzione delle risorse economiche, anche la ridu-zione del personale, il dimezzamento degli investimenti sulla formazione dei dipen-denti, il blocco per almeno tre anni del rinnovo dei contratti con conseguente blocco di incentivi di produttività e retribuzione di risultato.Queste ultime due voci ci riportano al PEG, e a quella sua funzione fondamentale di riferimento per valutare le performance dei dipendenti, per affermare che una va-lutazione senza un riconoscimento dei risultati raggiunti, positivi o meno che siano, rischia di non avere credibilità e quindi di non produrre alcuno stimolo al migliora-mento. Esattamente il contrario degli annunci brunettiani.Ma gli amministratori non sono tali solo in periodi sereni, la sfida dobbiamo affron-tarla con ancor più determinazione nelle situazioni di crisi: e allora abbiamo bisogno del PEG come strumento operativo centrale nell’organizzazione dell’Ente, in quanto articola le responsabilità politiche e gestionali a tutti i livelli.Sta a noi, donne e uomini prestati alla politica e pro tempore responsabili di governare i Comuni, delineare strategie e Programmi di mandato da realizzare. Da essi discen-

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de l’organizzazione e le persone che devono realizzarli, a partire dai dirigenti, così come la necessaria valutazione periodica dello stato di attuazione del Programma.Su di essi si misurano i risultati e le capacità dei dirigenti dell’Ente, risultati non solo “numerici” ma derivanti dalla realizzazione di obiettivi che hanno, in primo luogo, necessità di essere compresi e condivisi per essere raggiunti dal complesso della ”macchina” amministrativa.Anci Toscana intende offrire il proprio contributo alla modernizzazione dei Comuni anche con questa pubblicazione, che ben riassume esperienze e riflessioni dal “cuore” dei Comuni, chiamati nei prossimi anni a un forte cambiamento con il federalismo fiscale e con la Carta delle Autonomie locali. Molte sono le incognite e gli aspetti ancora da chiarire, certo è che i Comuni vivono questa fase con il disagio di chi si sente continuamente costretto a ribadire il proprio ruolo, così come riconosciuto dalla Costituzione, non di enti subordinati ma di pari dignità e rilevanza istituzionale con tutti gli altri.

Alessandro CosimiPresidente Anci Toscana

Sindaco di Livorno

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Nota introduttiva

In una fase di intensa ripresa di produzione di norme sul funzionamento della pub-blica amministrazione, che è una costante dei Governi che si sono succeduti nell’ar-co degli ultimi tre lustri, è molto importante che si possa contare su scritti che for-niscano agli operatori indicazioni concrete e pratiche perché nelle specifiche realtà degli enti locali prosegua l’opera di trasformazione e di miglioramento organizzativo e funzionale da parte degli amministratori e degli apparati con le rispettive dirigenze.L’ultima serie di riforme, con al centro la legge delega n. 15 e il relativo decreto legislativo delegato n. 150 del 2009 – che dovrebbero realizzare, nel quadro dell’am-bizioso disegno del Piano industriale della pubblica amministrazione del Ministro della Pa e dell’Innovazione, l’obiettivo del miglioramento sostanziale dell’efficienza e della qualità della nostra Amministrazione sulla strada dei migliori standard eu-ropei – confidano, come le precedenti, sulla forza e capacità realizzativa dei disegni prefigurati nelle norme quando, invece, dovrebbe essere chiaro che solo laddove gli attori principali del sistema (personale e dirigenza) si impadroniscano dello spirito delle riforme e dell’innovazione si potrà incidere effettivamente e efficacemente sulle tante e note criticità.Come lo stesso autore mette in evidenza, non si è certo carenti di normative, si è piuttosto deficitari negli investimenti su personale, mezzi e formazione affinché il nuovo diventi cultura del fare e si mettano in moto i circuiti virtuosi della emu-lazione delle migliori pratiche. Se con il “150” si punta all’efficienza e alla qualità lavorando su un ciclo della performance di ciascuna amministrazione misurabile e valutabile in modo che si premi l’impegno e il merito, esattamente nel testo si ricor-da che nell’ambito degli Enti locali già si disponeva da tempo di un corpus di dispo-sizioni che, non solo permettevano, bensì impegnavano strutture e amministratori a lavorare secondo tali criteri. Dunque, se anche non si poteva esserne soddisfatti, non sono le ulteriori norme a risolvere i problemi; molto più utili sono i lavori di approfondimento in funzione applicativa per gli operatori, come si fa, appunto, con questa pubblicazione.Il tema centrale del Piano Esecutivo di Gestione è affrontato nel quadro genera-le degli strumenti di pianificazione (le linee programmatiche di mandato tradotte nel piano generale di sviluppo) e di programmazione (la relazione previsionale e programmatica e il bilancio con i suoi allegati) individuando le linee di coerenza che devono collegare a tali strumenti la fase attuativa della gestione, che avrà le fasi intermedie di verifica e il resoconto attraverso i consuntivi. Gli atti di pianificazione e programmazione e quelli di gestione attuativa e di rendicontazione sono esaminati

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nel loro svolgersi dinamico sottolineando che “tutta l’attività dell’ente deve caratte-rizzarsi per la capacità di innovarsi e migliorare le proprie performance”. Quando, poi, si pone in rilievo l’essenzialità della cultura aziendalistica ci si riferi-sce alle metodologie volte a dare il giusto peso a tutti gli aspetti che consentano il perseguimento dell’efficienza con il miglior impiego delle risorse e si tengano così sotto controllo gli effetti economico patrimoniali. Adeguata attenzione è dedicata alla contabilità economica per centri di costo e a quella analitica, almeno per i servizi di maggior rilievo. Perché il ciclo pianificazione-programmazione-gestione-rendicontazione funzioni è necessario organizzare, in coerenza con la visione dina-mica di tale disegno, il controllo di gestione e quello strategico.Il controllo di gestione deve consentire prima di tutto alla dirigenza di poter eserci-tare al meglio le proprie responsabilità perché gli esiti del controllo possano retro-agire in azioni di correzione, aggiustamento e miglioramento del ciclo gestionale. Come ben argomentato e sviluppato dall’autore, necessariamente sarà anche la base per la valutazione dei dirigenti. Aspetto, quest’ultimo, su cui, come si sa, è in-tervenuto il d.lgs. n. 150, ancora tutto da sperimentare. L’organismo Indipendente di Valutazione sostituirà il Nucleo di valutazione ed è da approfondire quali mo-dificazioni, rispetto al vecchio Nucleo, si possano ipotizzare riguardo al necessario rapporto con il Sindaco e il Presidente della Provincia. Peraltro la questione del ruolo degli OIV In rapporto alla dirigenza e agli organi politici richiama uno degli aspetti più delicati costituito dalla relazione fra politica e dirigenza nell’ambito del noto e basilare principio della distinzione dei ruoli. Nello scritto non mancano riferimenti a tale aspetto prefigurando i corretti moduli relazionali dell’integrazi-ne nella fase formativa degli indirizzi programmatori e gestionali e della piena re-sponsabilità della dirigenza nella fase attuativa. Qui si può solo accennare che quel principio è ancora, ben lungi dall’essere realizzato e che bisognerà farne oggetto di una particolare attenzione.Un’impostazione dell’opera sorretta da un sicuro terreno scientifico con continue proiezioni pratico operative,come si è cercato di evidenziare, sarà di sicuro ausilio per organizzare al meglio le attività nei nostri enti.

Firenze, 18 ottobre 2010

Carlo PaoliniSegretario comunale

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Prefazione

Questa pubblicazione nasce dall’idea di rendere evidenti quanto siano forti, e in parte sottovalutate, le potenzialità del Piano Esecutivo di Gestione nel rendere più efficienti e produttivi gli Enti locali.

Nel concretizzare questa idea si è scelta la soluzione di impostare una sorta di vademecum operativo, con una significativa dotazione di riferimenti bibliografici, per chi voglia approfondire i diversi aspetti del problema.

Mentre era in corso lo svolgimento di questo lavoro, il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha aperto un intenso dibattito pubblico sull’esigenza di migliorare la produttività della pubblica amministrazione, utilizzando, fra gli altri, lo strumento della valorizzazione dei dipendenti meritevoli (poi molto depotenziato, ancorché in via provvisoria, dal recente dl 78/2010). Da questa discussione, che, spesso, è stato un monologo poco incline al confronto, è scaturito un corpus nor-mativo e giurisprudenziale, articolato nella legge delega 15/2009 e, poi, nel decreto legislativo 150/2009 (la cosiddetta “Riforma Brunetta”), nonché nelle Circolari mi-nisteriali, ma anche in alcune modifiche legislative sopraggiunte, nelle diverse prese di posizione della Corte dei Conti, fino ai recenti primi indirizzi della CIVIT (a tal proposito, merita segnalare come, nelle delibere n. 88 e n. 89 del giugno 2010, rie-cheggino numerosi dei concetti, che troveremo nelle pagine di questa pubblicazio-ne). La circostanza che, nelle more del nostro lavoro sul Piano Esecutivo di Gestione, uscissero i provvedimenti di riforma sopra indicati non poteva essere ignorata; perciò ci siamo misurati con le “innovazioni” introdotte. Ne è disceso un giudizio, che sarà meglio articolato nella trattazione seguente, ma che possiamo sintetizzare nella conclusione che, in verità, almeno per gli Enti locali, le “innovazioni” della “Riforma Brunetta” sono di rilievo contenuto, poiché la normativa esistente già mette a di-sposizione un’adeguata dotazione di strumenti per far meglio funzionare la pubblica amministrazione.

Da questa valutazione, di conseguenza, deriva la convinzione che gli Enti locali abbiano poco da adeguare – almeno in termini di sostanza dell’agire – alle disposi-zioni del decreto legislativo 150/09 e seguenti. La vera sfida, per Province e Comuni, è quella di sviluppare a pieno le potenzialità di ciò che hanno già a disposizione. Se, poi, la cosiddetta “Riforma Brunetta” aiuterà a maturare a pieno e meglio questa consapevolezza, sarà di certo un utile contributo.

La bulimia normativa e interpretativa – di cui scriveremo di seguito – tipica dei nostri governanti e legislatori, possono rendere questa pubblicazione non puntuale e, soprattutto, non aggiornata nei riferimenti di legge o regolamentari, ma ribadia-

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mo che il nostro scopo, al di là delle trasformazioni ovvero dei tentativi di aggiorna-mento (anche solo nominalistico), era ed è quello di evidenziare e valorizzare metodi e strumenti, per un governo più “aziendalistico” della pubblica amministrazione, che già sono disponibili, fornendo agli amministratori locali non un manuale delle nuove disposizioni, ma una guida, uno stimolo, una “traccia” di lavoro, nel loro sforzo quotidiano di rendere i nostri Enti locali più efficienti, a partire da un pieno ed efficace utilizzo del cosiddetto PEG.

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1. Considerazioni introduttive

1.1 La produttività della pubblica amministrazione problema “nuovo”?

Di produttività della pubblica amministrazione di discute ormai da qualche lu-stro. Ampia e anche di valore è la manualistica su concetti come efficienza, efficacia, economicità. I termini spesso si intrecciano e si articolano, sovrapponendo definizio-ni e metodi di verifica; possiamo parlare di una vera e propria letteratura sulla pro-duttività nella pubblica amministrazione. Nonostante tutto, però, la pubblica am-ministrazione, in Italia, appare ancora inefficiente, autoreferente, poco produttiva.

La prima parte del mandato del “Governo Berlusconi ter”, si è certamente ca-ratterizzata per un’intensa offensiva mediatica contro le distorsioni e le inefficienze della pubblica amministrazione.

Il Ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha reiteratamente affer-mato l’esigenza di recuperare produttività ed efficienza alla “macchina pubblica”, ribadendo anche l’obiettivo di penalizzare i dipendenti pubblici poco produttivi, premiando di contro i più efficienti: in questo contesto, quindi, sono state assunte iniziative contro l’assenteismo; sono state dichiarate da superare procedure di auto-matica progressione di carriere, legate esclusivamente all’anzianità di servizio; sono state potenziate le modalità per attivare controlli maggiori sulle compatibilità delle attività assentibili per i pubblici dipendenti. Interventi sul modo di funzionare del-le pubbliche amministrazioni sono stati introdotti dalla legge 244/07 (finanziaria 2008), dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008, che ha convertito il decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, arrivando così alla legge 4 marzo 2009 n. 15, ovvero la “De-lega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio Nazionale dell’Economia e del La-voro e alla Corte dei Conti”. Il titolo del provvedimento bene ne evidenzia gli scopi e l’ambizione di migliorare il funzionamento “delle” pubbliche amministrazioni.

Una coda ulteriore di provvedimenti, con gli stessi scopi efficientisti, c’è stata nel cosiddetto “Decreto anticrisi”, n. 78, del 1 luglio 2009, convertito con legge del 3 ago-sto 2009 n. 102 (“Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini”) e con la Legge 18 giugno 2009 n. 69, (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile”), non escludendo che ovviamente altri provvedimenti arriveranno nelle more della scrittura di questo testo.

Comunque il “cuore” del disegno riformatore, indicato con enfasi dal Ministro della Funzione Pubblica, Brunetta, è certamente la legge delega 15/09, che, appun-

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to, va a intervenire sistematicamente sul d.lgs. 165/01, il cosiddetto Testo Unico del Pubblico Impiego, peraltro abbondantemente e reiteratamente già modificato in tante sue parti, con particolare accanimento negli articoli 1, 6, 7, 19, 35, 55 e 36.

Per quanto riguarda il primo decreto attuativo (ovvero il d.lgs. 150 del 27 otto-bre 2009) non ha introdotto particolari novità, sviluppando concetti e indirizzi già abbozzati dalla legge delega e, soprattutto, dalle frequenti comunicazioni e dichia-razioni del Ministro.

Rinviando a un prossimo paragrafo l’analisi del provvedimento, intanto se ne ricapitolano gli elementi più caratterizzanti: “accentuazione delle competenze ge-stionali dei dirigenti, soprattutto in materia di gestione delle risorse umane e, di conseguenza, valorizzazione delle responsabilità, nonché definizione di un legame più stretto tra conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali”1, nell’obiettivo di far esercitare, agli organi gestionali, un ruolo più fortemente datoriale, a partire dalle scelte premianti i dipendenti più meritevoli.

In verità, la lettura attenta della cosiddetta “Riforma Brunetta” dimostra come la sostanza delle innovazioni sia piuttosto al di sotto delle affermazioni. Sinteticamente è stato affermato che “la riforma contiene più di un elemento di novità, ma lo sforzo maggiore è rivolto a indurre le singole amministrazioni a fare quello che fino ad ora non hanno fatto: dotarsi di un sistema di valutazione della qualità dei loro servizi e della produttività dei loro dipendenti. E far discendere da questi risultati la differen-ziazione dei compensi”2.

Se, tuttavia, la sostanza della legge 15/09 è davvero sintetizzabile nello “sforzo” di indurre le amministrazioni ad approntare strumenti per misurare la produttività del-le loro prestazioni, non si può oggettivamente parlare di innovazioni straordinarie, perché quello “sforzo” richiama un gap operativo, prima che una carenza normativa da colmare. Perciò appare corretto affermare, facendo riferimento alle regole e alle norme esistenti, che c’è uno scarto stridente fra le dichiarazioni riformatrici e il con-creto risultato legislativo.

Questo iato evidentemente trova origine dal fatto che – sia pure con contrad-dizioni e, soprattutto, non sempre con un approccio organico – gli strumenti per affermare una riforma “manageriale” del pubblico impiego ci sono già tutti o, per lo meno, erano in una condizione potenziale, che, per esprimersi, probabilmente aveva bisogno più di buone pratiche che di nuove regole.

Commentando il Testo Unico sul Pubblico Impiego (d.lgs. 165/01), è stato evi-denziato che “la direzione della gestione amministrativa è stata attribuita ai dirigenti,

1 G. Rambaudi, Dirigenti al restyling, in «Italia Oggi», Milano, 22 maggio 2009.2 C. Dell’Aringa, Un anno di governo: pubblica amministrazione, in «lavoce.info», 12 maggio 2009.

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sia per alleggerire gli organi di governo dalle incombenze meramente amministrati-ve, sia allo scopo di creare una burocrazia idonea a realizzare i programmi e i progetti formulati dagli organi politici”3.

Oltre all’enfasi, che l’ha accompagnata e l’accompagna, di veramente “nuovo” la legge 15/09 (con l’appendice operativa del d.lgs. 150/09) sembra avere davvero poco più di puntualizzazioni e approfondimenti per scopi e contenuti già presenti nel corpus normativo del pubblico impiego e, più in generale, della pubblica ammi-nistrazione.

1.2 Produttività nella pubblica amministrazione “vecchio problema”

Nello scorso decennio – verrebbe da dire secolo – è iniziata, per la pubblica amministrazione, una stagione nuova, caratterizzata da una forte accelerazione verso il cambiamento in senso efficientista e da una maggiore attenzione verso la quantità-qualità dei servizi forniti ai cittadini.

L’art. 97 della Costituzione stabilisce il principi di imparzialità e di buon anda-mento della pubblica amministrazione e la stagione delle riforme degli anni novan-ta (con al centro le cosiddette “leggi Bassanini” – legge 59/1997, legge 127/1997 – ovvero la anomala e irrituale riforma della Costituzione anticipata e attuata per leggi ordinarie) ha teso a dare corpo a quei precetti, traducendoli nei più moderni principi di trasparenza e qualità dei servizi, che non possono che tenersi e affermarsi congiuntamente.

Ci troviamo, comunque, di fronte a un cammino lungo e complesso, ancora non completato, che ha cercato e cerca di affermare un modello “aziendalistico” e, almeno in parte, manageriale della pubblica amministrazione. Si tratta di un model-lo sostanzialmente diverso da quello burocratico, che nacque con lo Stato liberale. Migliorare la qualità dei servizi erogati, pur nel rispetto dell’ordinamento giuridico, è la nuova bussola, in alternativa al legalismo fine a stesso. In altri termini si tratta – come spesso affermato – di passare dalla cultura dell’adempimento alla cultura del risultato, dalla procedura al procedimento.

Quanto rilevante e complesso sia stato e sia il cambiamento attivato negli anni novanta e nel primo lustro del XXI secolo, oltre alle già ricordate “leggi Bassanini”, lo testimoniano alcuni provvedimenti di grande rilievo e significato: la legge quadro sugli enti locali n. 142/90, la legge sul procedimento amministrativo n. 241/90, l’innova-zione della normativa sull’ordinamento del pubblico impiego (d.lgs. 29/93), la legge quadro sugli appalti pubblici (legge 109/94), le nuove norme sull’ordinamento con-

3 P. Virga, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Milano, Giuffrè, 2002, p. 33.

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tabile degli enti locali (d.lgs. 77/95), il Testo Unico sugli Enti Locali (d.lgs. 267/00), il Testo Unico sulla documentazione amministrativa (d.pr. 445/00), l’aggiornamento della normativa sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni (d.lgs. 165/01, che ha sostituito il d.lgs. 29/93), la legge di riforma costituzionale del titolo V (l.c. 3/01), la legge 131/01 (cosiddetta legge “la Loggia”), che ha cercato anche di correggere alcune distorsioni operative, introdotte proprio dalla legge di riforma costituzionale n. 3/01 (da molti giuristi indicata come una vera “sanatoria” di riforme e modifiche introdotte con legislazione ordinaria). Di un certo rilievo – almeno in termini di aspettative per il pubblico impiego – è stato il cosiddetto “Memorandum sul pubblico impiego”, sottoscritto nel gennaio 2007, fra il Ministro della Funzione Pubblica, Gianni Nicolais (dell’ultimo Governo Prodi) e i sindacati.

L’insieme di questi provvedimenti, pur fra limiti e ambiguità, ha cercato e cerca di rendere operativi – e in gran parte ci riesce – i dettati costituzionali di imparzia-lità, trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione, cercando di conciliare e far interagire, positivamente, la cultura della legalità con la cultura del risultato. Dentro questo quadro d’insieme, sono proprio gli Enti locali il laboratorio privilegiato, nel quale i legislatori hanno concentrato l’impegno di riforma della pubblica amministrazione. È stato ben evidenziato come una lettura attenta – in filigrana – dei tratti essenziali delle norme e dei provvedimenti dell’ultimo decennio del secolo e dei primi anni di quello nuovo documenta, con chiarezza, quel tentativo di sintesi attuativa, i cui tratti essenziali sono così sintetizzabili4:• distinzione fra politica e gestione;• elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia;• ampio decentramento di funzioni dal centro alla periferia (sussidiarietà verti-

cale);• significativa privatizzazione dei servizi (sussidiarietà orizzontale);• incentivazione delle forme associative e collaborative fra piccoli enti (unioni,

associazioni, consorzi);• semplificazione normativa (diffusione dei testi unici, ancorché troppo spesso

modificati);• semplificazione amministrativa (con l’impulso di autocertificazioni e autodi-

chiarazioni);• partecipazione del cittadino (giusto procedimento e diritto di accesso agli atti

amministrativi);• attenzione alle relazione con i cittadini-utenti (carte dei servizi, sportelli unici,

URP);

4 N. Falcone, P. Monea, M. Mordenti, Organizzazione e risorse umane negli Enti Locali, Rimini, Maggioli, 2005.

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• pubblicità effettiva degli atti, comunque nel rispetto del diritto alla riservatezza (privacy);

• attenzione alla funzionalità dei servizi (efficienza, efficacia, economicità);• innovazione tecnologica e messa in rete della pubblica amministrazione (carta

identità elettronica, indice nazionale anagrafi ecc.);• ampia flessibilità nella gestione delle risorse umane (con la contrattualizzazione

del rapporto di lavoro del dipendente pubblico);• incentivazione del merito, tentando di mutuare criteri e metodi dalle aziende

private, con l’obiettivo di dare maggiore qualità alle organizzazioni, alle presta-zioni e ai servizi erogati.

È in tutta evidenza che, dietro questo insieme di concetti e obiettivi, si scorgono altrettanti corollari dei principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento.

È di pari evidenza che, sia pur tra contraddizioni e con differenze anche rilevanti, in questi ultimi quindici anni, gli enti locali, più di altri soggetti pubblici, si sono misurati con l’esigenza di innovazione nei contenuti e nel modo di funzionare.

Del resto, probabilmente, non avrebbe potuto essere altrimenti, considerando che queste sono le istituzioni più vicine ai cittadini e, quindi, in qualche modo “co-strette” a rapportarsi con i nuovi bisogni e le nuove sensibilità, che la società della comunicazione e dell’informazione necessariamente ha prodotto e produce.

1.3 Gli Enti locali frontiera del cambiamento

Fra gli enti locali, per evidenti ragioni, i Comuni hanno costituito e costituiscono la frontiera più avanzata del cambiamento ovvero del bisogno di ammodernamento. Chi voglia misurarsi con l’esigenza di costruire efficaci metodi di verifica della pro-duttività nella pubblica amministrazione, certamente nei Comuni può trovare un ottimale luogo di riflessione e verifica, anche se, di contro, la condizione intermedia – quasi “sospesa” – delle Province ha consentito di introdurre significative modifiche nella gestione delle risorse umane e finanziarie, con cui è altrettanto utile rapportarsi.

Ragionando, perciò, di Enti locali, senza distinguere fra Comuni e Province, si evidenzia che già la strumentazione normativa, contenuta nel d.lgs. 267 del 18 agosto 2000 (ovvero il Testo Unico degli Enti Locali), ha in sé la forza e la puntua-lità per orientare gli amministratori e la dirigenza pubblica verso un’organizzazione aziendale tendente al risultato. Merita nuovamente sottolineare, ad adiuvandum, che il cosiddetto TUEL, a proposito della responsabilità dirigenziale ben chiarisce che questa “si configura come responsabilità gestionale, in quanto la valutazione è

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riferita all’andamento generale della gestione in cui il dirigente è preposto. Ai sensi dell’art. 107, comma 6, i dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi degli enti, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati di gestione. Il successivo comma 7 richiama invece i principi dell’art. 5, commi 1 e 2, del d.lgs. 286/99, secondo cui le pubbliche amministrazioni devono valutare le prestazioni dei propri dirigenti, nonché i comportamenti relativi allo svi-luppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate”5.

Una definizione così puntuale e impegnativa della dirigenza dell’Ente locale ha prodotto effetti, anche contraddittori se vogliamo, ma di certo in quei “luoghi istitu-zionali” si sono conseguentemente affermati significativi cambiamenti nel modo di rapportarsi con i cittadini, ferme restando le obiettive differenze fra le diverse realtà territoriali e socio-economiche.

Perciò, partendo dagli enti locali, possiamo intanto ribadire, avendolo sopra di-mostrato, che, in verità, alla pubblica amministrazione che vuole funzionare con efficacia, non mancano strumenti e norme, a cominciare dagli “attrezzi” per valoriz-zare la produttività. A tal proposito, vanno ricordate anche le regole introdotte dalla contrattazione collettiva, come l’art. 18 del Contratto Nazionale di Lavoro dei di-pendenti degli enti locali, sottoscritto in data 1 aprile 1999 e modificato dall’art. 37 di quello sottoscritto il 22 gennaio 2004, che, a proposito del salario accessorio, specifica che “i compensi destinati a incentivare la produttività e il miglioramento dei servizi devono essere corrisposti ai lavoratori interessati a conclusione del perio-dico processo di valutazione delle prestazioni e dei risultati, nonché in base al livello di conseguimento degli obiettivi predefiniti nel PEG o negli analoghi strumenti di programmazione degli enti”. Più che condizioni normative, per funzionare in modo produttivo, si può affermare che alla pubblica amministrazione sono man-cati risultati diffusi ovvero i risultati sono stati spesso al di sotto delle aspettative di cambiamento. Come è stato scritto da due economisti particolarmente attenti al funzionamento della pubblica amministrazione: “qualche tentativo è stato fatto per migliorare la qualità del lavoro pubblico. Ma sono tutti falliti […]. Si sono adottati schemi retributivi nei quali, in linea di principio, giocano un peso importante – vedi i contratti di lavoro degli enti locali, già evidenziati [ndr] – le componenti accessorie dirette a premiare incrementi di produttività. Sono stati introdotti un nuovo sistema di controlli interni ed esterni delle amministrazioni pubbliche e un nuovo status giuridico per i dirigenti. I risultati di queste innovazioni sono rimasti sulle carta”6. Quindi, per chi voglia davvero rendere più produttiva la pubblica amministrazione,

5 AA.VV., Il Testo Unico degli enti locali, commento al d.lgs. 267/2000, Napoli, Sistemi Editoriali “SE”, 2003, p. 190.6 T. Boeri, G. Pisauro, La via burocratica alla produttività, in «lavoce.info», 6 febbraio 2007.

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c’è la disponibilità di una “cassetta degli attrezzi” ben fornita; il problema forse è quello di attrezzi mal distribuiti, non ordinati, e di utilizzatori scarsamente formati all’uso.

Prima di inerpicarsi nella definizione di un possibile modo, perché la pubblica amministrazione possa”produrre di più e meglio” e verificare, poi, la propria capacità di raggiungere i risultati prefissi, occorre mettersi d’accordo sul termine produttività. Sposando il richiamo di Marco Aurelio alla semplicità, rifuggendo allora da spiegazio-ni particolarmente sofisticate, in linea di massima, possiamo definire produttiva una struttura che realizza gli obiettivi programmati, rispettando i tempi e valorizzando (mi-gliorandone le utilità) le risorse assegnate. Questa descrizione, nella sua genericità, può trovare una sua conferma nell’art. 37, comma 1, del già citato CCNL dei dipendenti delle autonomie locali, del 22 gennaio 2004, per il quale gli incentivi per il personale devono essere correlati “a effettivi incrementi della produttività e di miglioramento quali-quantitativo dei servizi da intendersi, per entrambi gli aspetti, come risultato ag-giuntivo apprezzabile rispetto al risultato atteso dalla normale prestazione lavorativa”.

Se, poi, vogliamo arrivare anche a una definizione di performance – termine ora particolarmente in voga – di una determinata struttura organizzativa, possiamo affermare che la produttività ne è la misura ovvero l’espressione cardinale. A questo punto del ragionamento che stiamo percorrendo, dopo alcune descrizioni forse un po’ troppo generiche o sommarie, diventa indispensabile fissare, con precisione, ter-mini fondamentali come efficienza, efficacia, economicità e produttività, che appar-tengono alla scienza aziendale e che, troppo spesso, trasferiti in ambiti diversi, come nella pubblica amministrazione, vengono trasformati o comunque rappresentati in modi non corretti.

Partendo dall’efficienza, possiamo definirla come “la capacità costante di ren-dimento e di rispondenza alle proprie funzioni: in termini sistemici, l’efficienza è il rapporto ‘ottimale’, tra gli input effettivi e gli output effettivi”7; più semplicemente, possiamo anche parlare di efficienza come del rapporto fra input e output.

La produttività, invece, si riferisce al concetto aziendale di rendimento di un fattore produttivo o di combinazioni fra più fattori, cioè “si intende come rapporto fra volume di output ottenuto e volume di fattore(i) impiegato(i) in un dato periodo di tempo”8. In altri termini, la condizione di produttività si verifica con la migliore combinazione possibile di input ovvero di fattori produttivi; attraverso strumenti e procedure consolidate, la produttività descrive gli elementi che influenzano i proces-si di produzione ed erogazione e che sono in grado di guidare i comportamenti verso

7 L. Marchi (a cura di), Introduzione all’Economia aziendale, V edizione, Torino, Giappichel-li, 2003, p. 402.8 Ivi, p. 375.

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l’ottimizzazione dei processi. “Il raggiungimento di un buon livello di produttività è condizionato sia dalla qualità delle risorse utilizzate, sia dalle modalità con cui i processi produttivi ed erogativi sono configurati”9. Più specificamente, la produtti-vità del lavoro è pari all’output totale diviso per gli input del lavoro; “la produttività del lavoro aumenta se la stessa quantità di input produce un output maggiore. La produttività del lavoro aumenta in seguito a miglioramenti della tecnologia, di qua-lifiche di manodopera o all’approfondimento di capitale”10.

L’efficacia, invece, fa riferimento alla “capacità di produrre l’effetto adeguato o conveniente in un singolo caso. In termini di funzionamento di un sistema, l’efficacia è il grado di rispondenza degli output effettivi agli output desiderati (prefissati)”11. Insomma, l’efficacia riguarda il grado di raggiungimento e di soddisfacimento degli obiettivi programmati.

L’economicità, in generale, si descrive come “la conformità ai principi dell’eco-nomia che in senso classico vuol significare la tendenza dell’uomo a realizzare il massimo risultato con i mezzi dati, o un dato risultato con il minimo dei mezzi. Condizione di economicità è, per un azienda, l’avvenuto perseguimento dell’equili-brio economico, equilibrio fra componenti negativi e positivi di reddito, assicurando remunerazioni “soddisfacenti” del lavoro e del capitale”12. Interessante ed efficace è come Farneti declina la condizione di economicità nelle pubbliche amministrazioni, specificando che la stessa si misura “dall’utilità che consegue dal produrre efficien-temente beni o servizi, che siano in grado di soddisfare efficacemente i bisogni degli utenti-consumatori”13.

Dopo esserci soffermati nel dettagliare i concetti di produttività, efficienza, ef-ficacia ed economicità, occorre aver sempre presente che la traduzione operativa degli stessi, dentro la pubblica amministrazione, non è operazione semplice, perché molte sono le differenze con le aziende private. “Per le aziende composte pubbliche le condizioni di economicità sono qualificate, oltre che dal soddisfacimento degli interessi dei prestatori di lavoro, dalla capacità di soddisfare direttamente (o di su-scitare le condizioni affinché siano soddisfatti) quei bisogni di cui una determinata popolazione “intende assumere la responsabilità collettivamente”. La funzione eco-nomica prima delle aziende pubbliche consiste nel soddisfacimento di quei bisogni che un determinato sistema socio-politico decide di assumere collettivamente e di

9 G. Farneti (a cura di), Ragioneria pubblica. Il “nuovo” sistema informativo delle aziende pubbliche, Milano, FrancoAngeli, 2004, p. 170.10 P.A. Samuelson, W.D. Nordhaus, Economia, XVII edizione, Milano, McGraw-Hill, 2002, p. 749.11 Cfr. Marchi, op. cit., p. 402.12 Cfr. ivi, p. 401.13 Cfr. Farneti, Ragioneria pubblica, cit., p. 173.

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non demandare ai meccanismi del “mercato”14: questa descrizione ben individua quanto sia complesso definire l’oggetto produttivo (e quindi la capacità produttiva) di un ente pubblico.

Inoltre, occorre aver presente come queste connotazioni dell’agire amministra-tivo, nella valutazione della performance della struttura, devono essere apprezzate nella loro manifestazione obiettiva, cioè nella coerenza con i risultati affidati, garan-tendo che la valutazione degli stessi non sia inquinata dai giudizi soggettivi di chi (il cittadino-utente), prima che l’esito, non ha apprezzato l’obiettivo da cui questo è scaturito. In termini più chiari, se gli organi di indirizzo politico-amministrativo orientano la struttura tecnica su obiettivi non graditi o apprezzati dall’utente finale, questa carenza di efficacia non può pesare sul giudizio di produttività della strut-tura, così come non se ne può contestare l’efficienza o l’economicità, se chi defini-sce le strategie e la programmazione dell’Ente assegna risorse inadeguate o persegue obiettivi, privilegiando soluzioni di per sé incapaci di produrre utilità ovvero tali da “consumare” eccessive risorse. Poiché il tratto saliente di un’azienda in condizione di economicità è quello di produrre maggior valore di quanto ne utilizzi, è altrettanto vero che, nell’Ente locale, la ricerca di quell’obiettivo gestionale è una “preoccupa-zione” esterna al ciclo aziendale, ne è fisiologicamente disorganica, perciò può darsi il caso – in vero spesso è la norma – di scelte “produttive” che non si pongono il problema di produrre valore aggiunto, di creare utilità, ma semplicemente di garan-tire equilibri politico-amministrativi (necessari al consenso), che prescindono dalla corretta ed efficiente allocazione delle risorse.

Di conseguenza, una valutazione che abbia a riferimento la produttività della strut-tura di un Ente pubblico (in questo caso l’Ente locale) non può non tener presenti questi due livelli di produttività (ma anche improduttività) possibili, senza escludere che, comunque, si possano costruire procedimenti, che, in qualche modo, cerchino sintesi fra quelle evidenti asimmetrie programmatiche e operative; sapendo che serve una positiva interazione fra politici che “ascoltano” e poi programmano e dirigenti che “propongono” e poi eseguono; soltanto in questo modo gli indirizzi politici si possono trasformare in progetti concreti e realizzabili e produttivi. È per questo obiettivo che, da tempo, molti esperti sollecitano l’introduzione, nell’agire dell’Ente pubblico, di logiche e tecniche di quello che viene chiamato “new public management”15.

Ma su questi ultimi aspetti ci sarà modo di soffermarsi più avanti, ragionando sullo strumento attorno al quale l’Ente locale deve – o dovrebbe – costruire efficienti azioni di governo.

14 E. Borgonovi, La pubblica amministrazione come insieme di aziende composte, Milano, Giuffrè, 1984, p. 26.15 AA.VV., Economia delle aziende pubbliche, Milano, McGraw-Hill, 2006.

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2. Legge delega 15/09 e primo decreto attuativo, fra innovazioni e limiti

2.1 Il piano delle performance

Definiti e chiariti i concetti di efficienza, efficacia, economicità e produttività, si tratta di approfondire un modo per poterli misurare e valutare, avendo presente che solo attraverso questa misurazione – e non da altro, almeno in teoria –, secondo la legge delega 15/09, ma già a partire dal d.lgs. 29/93, nonché dagli stessi contratti di lavoro degli enti locali, devono assegnarsi le risorse integrative (premiali) ai dipen-denti e ai dirigenti prima di tutto.

L’incentivazione e la valutazione della produttività costituiscono, perciò, punti essenziali della cosiddetta “Riforma Brunetta”. Prima di procedere oltre, con il nostro ragionare, si rende opportuna un’altra precisazione, che ci consenta di usare un linguaggio non ambiguo, decifrabile. Per evidenti esigenze di comunicazione, il miglioramento della pubblica amministrazione, spesso, viene declinato – an-che da osservatori esperti – con il termine “produttività”, non cogliendo in pieno quelle distinzioni di economia e tecnica aziendale, che abbiamo indicato nel pre-cedente paragrafo. Per rendere più efficace l’esposizione, può esserci di una certa utilità il termine “performance”, che, in qualche modo, possiamo assumere come la “summa” di tutte condizioni indispensabili (e quindi da misurare e valutare) per una migliore funzionalità della pubblica amministrazione. Più precisamente, si è scritto che “le principali dimensioni valutative della performance di un ente pubblico sono: efficacia, efficienza, produttività, equità, tempestività, accessibilità, accettabilità, appropriatezza, responsiveness (sensibilità ossia disponibilità dell’ente erogatore del servizio a dare una risposta all’utente), qualità”16. D’altra parte, è proprio con l’espressione “piano delle performance” che viene dato corpo e sostan-za ai principi, che dovrebbero ispirare il nuovo modo di essere della pubblica am-ministrazione. Un altro chiarimento metodologico preventivo riguarda anche la definizione “Riforma Brunetta”; quando la utilizziamo, intendiamo riferirci gene-ralmente ai contenuti dei due provvedimenti fondamentali, la legge delega 15/09 e il primo decreto attuativo, approvato dal Consiglio dei Ministri nell’ottobre 2009.

Di seguito, e per sommi capi, andiamo a riassumere i cardini della “riforma”, resi operativi con il decreto attuativo ovvero d.lgs. 150/09.

16 A. Morvillo, L’analisi comparativa delle performance nella Pubblica amministrazione, Consi-glio Nazionale Ricerche, IRAT, 15 ottobre 2008.

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TrasparenzaLa pubblica amministrazione deve garantire accessibilità a informazioni come

quelle relative agli andamenti gestionali, alla utilizzazione delle risorse per ottenere i risultati, fino alle procedure di valutazione. Inoltre, ogni amministrazione deve adottare uno specifico piano triennale per la trasparenza, nonché prevedere apposita pagina web.

MeritoLa prima parte del decreto attuativo, che va dagli articoli 4 a 31 è specificamente

dedicata a quello che è il tema centrale della riforma, il rilancio di sistemi di valo-rizzazione di produttività e merito, attraverso la definizione di un vero e proprio “ciclo delle performance”. A questo scopo è prevista una distribuzione selettiva degli incentivi economici: non più del 25% dei dipendenti di una determinata struttura potrà beneficiare del massimo del premio di produttività, non più del 50% potrà goderne in misura ridotta della metà, mentre ai lavoratori non meritevoli non è prevista alcuna corresponsione.

DirigenzaLa seconda parte del decreto, dagli articoli 32 a 47, contiene alcune modifiche

del d.lgs. 165/01, in merito ai poteri datoriali dei dirigenti, valorizzandone il ruolo e rafforzandone la responsabilità. È ribadito che solo ai dirigenti spetta la valutazio-ne dei dipendenti pubblici. A fronte di maggiori strumenti, anche economici, per esercitare il proprio ruolo, a carico dei dirigenti sono stabilite sanzioni anche econo-miche in caso di inadempienze.

AuthorityÈ prevista la costituzione di una Commissione centrale per la valutazione, la

trasparenza e l’integrità, collegata a organismi indipendenti di valutazione, attivati in ciascuna amministrazione. Oltre a definire più efficienti procedure di valuta-zione, la Commissione predisporrà, ogni anno, una graduatoria di performance delle singole amministrazioni statali, in base alla quale la contrattazione collettiva nazionale ripartirà le risorse, premiando le strutture migliori. Sono pure introdotte attività di customer satisfaction, per dare ai cittadini la facoltà di valutare i servi-zi. Dalle prime dichiarazioni, le associazioni degli Enti locali hanno manifestato interesse ad adeguamenti anche nei loro sistemi di valutazione, in sintonia con il decreto attuativo, se pur con l’autonomia loro garantita.

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SanzioniNel caso in cui il dipendente produca certificazioni o attestazioni di malattia

false sarà sottoposto a sanzioni anche di natura penale. Al medico compiacente spet-ta lo stesso trattamento; a garanzia di omogeneità di comportamento, nelle diverse amministrazioni, è previsto un catalogo delle infrazioni particolarmente gravi che possono comportare anche il licenziamento.

Contrattazione collettivaSi spinge verso una sempre maggiore assimilazione della pubblica amministra-

zione verso i modelli contrattuali privati (anche se non mancano contraddizioni, nel momento in cui, comunque, si interviene con legge, su materie tipicamente contrattuali). È previsto il potenziamento dei compiti dell’Aran, il cui presidente è previsto sia nominato con Decreto del Presidente della Repubblica. È sancita la inderogabilità della legge per via contrattuale.

Nella sostanza la “Riforma Brunetta” ha il dichiarato scopo di rendere concreta la sfida di una pubblica amministrazione più efficiente, più accessibile e trasparente, a cominciare dal modo in cui distribuisce le risorse ai propri dipendenti. Perciò diventa centrale la verifica puntuale e documentata del rendimento della “macchina pubblica”. Quell’obiettivo è stato, appunto, socializzato con l’espressione di misurazione delle performance, riferendosi alla necessità, per le pubbliche amministrazioni,di dotarsi di una puntuale pianificazione delle attività, degli obiettivi e dei relativi controlli, cioè un modo, attraverso cui mettere in sinergia positiva programmazione, obiettivi, attuazio-ne e controlli.

Anche in questo caso, però, non siamo di fronte a una vera e propria novità. L’art. 197, comma 2, lett. a) del d.lgs. 267 del 18 agosto 2000, prevede già che i Co-muni e le Province si dotino di uno specifico piano dettagliato degli obiettivi, che può essere predisposto dal direttore generale a integrazione-specificazione del Piano Esecu-tivo di Gestione, la cui obbligatorietà comunque è esclusa per i Comuni sotto i 15.000 abitanti. Gli obiettivi del “Piano dettagliato” dovrebbero essere i veri e propri “tiranti” che, in qualche modo, portano la struttura organizzativa al meglio della sua capacità produttiva (o meglio erogativa); valutando gli uni, quindi, si dovrebbe avere la possi-bilità di leggere la performance (e quindi misurare la “produttività”) dell’intero ente.

Non diversa è l’impostazione del bilancio statale, regolamentato con la legge 468/78, poi modificata nel 1988 e nel 1997. Come ha annotato Farneti, i contenuti innovativi della nuova struttura del bilancio statale, tra gli altri sono: “• una innovativa determinazione anche di un budget economico per Mini-stero […];

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• una necessaria identificazione dei più importanti centri di responsabilità (le cosiddette U.P.B. – unità revisionali di base [ndr] – di primo livello) che identificano gli organi amministrativi responsabili delle finalità istituzionali dei Ministeri; • una possibile caratterizzazione delle strutture ministeriali in centri di responsa-bilità e/o centri di costo coordinati mediante il sistema di contabilità economica di rilevazione dei costi (contabilità economico analitica); • una necessaria introduzione di un sistema di Controllo di gestione da coordina-re con gli altri controlli interni”17.

In sintesi, lo stesso bilancio dello Stato ormai da anni si muove (o dovrebbe muoversi) lungo l’asse programmazione, budget finanziario ed economico, controlli, incentrandosi su quelle Unità previsionali di base che, non a caso, Farneti definisce anche unità manageriali. Il piano delle performance della “Riforma Brunetta” si inserisce in questo quadro, già fortemente innovato, almeno dal punto di vista legi-slativo, a partire dagli anni novanta.

I contenuti di quel piano sono delineati all’art. 4, comma 2, lett. b) della legge 15 del 4/3/2009: “prevedere l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di predi-sporre, in via preventiva, gli obiettivi che l’amministrazione si pone per ciascun anno e rilevare, in via consuntiva, quanta parte degli obiettivi dell’anno precedente è stata effettivamente conseguita, assicurandone la pubblicità per i cittadini, anche al fine di realizzare un sistema di indicatori di produttività e di misuratori della qualità del rendimento del personale, correlato al rendimento individuale e al risultato conse-guito dalla struttura”.

Il legislatore ha esplicitato con sufficiente chiarezza lo scopo della norma, rinviando al decreto attuativo – che ha provveduto – la specificazione operativa, così da “assicu-rare elevati standard qualitativi ed economici dell’intero procedimento di produzione del servizio reso all’utenza tramite la valorizzazione del risultato ottenuto dalle singole strutture” (art. 4, comma 1); in una chiara accezione dell’attività amministrativa, sem-pre più rivolta al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini/utenti – il cosiddetto orien-tamento al risultato –, cercando, perciò, di superare la logica del mero adempimento formale, così da portare al centro dell’agire amministrativo le aspettative dell’utenza.

Naturalmente, poiché il piano delle performance è individuato come strumento gestionale delle scelte e dei programmi dell’amministrazione, prevedendo costanti verifiche e controlli sull’attuazione, diventa anche lo strumento attraverso cui andare alla valutazione del personale, che ne è il materiale esecutore. Perciò diventano cen-trali i modi e gli attori della valutazione del personale.

All’art. 4, comma 2, lett. e), della legge 15 del 4 marzo 2009 è stato previsto l’obiettivo di riordino degli “organismi che svolgono funzioni di controllo e valu-

17 Farneti, Ragioneria pubblica, cit., p. 253.

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tazione del personale delle amministrazioni pubbliche, secondo i seguenti criteri: 1) estensione della valutazione a tutto il personale dipendente; 2) estensione delle valutazioni anche ai comportamenti organizzativi dei dirigenti”.

Per inciso, va ricordato che la legge 15/09 rimarca il collegamento fra l’attività di attuazione degli obiettivi e le regole di trasparenza, garantendo ai cittadini l’accessi-bilità “totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’orga-nizzazione delle pubbliche amministrazioni, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse, al perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta in proposito dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità” (art. 4, comma 7).

Se è chiaro e condivisibile il ragionamento del legislatore, altrettanto può riba-dirsi che il corpus di norme e regole, maturate prima della legge delega e del primo decreto attuativo, già contenevano molti di quei concetti; in particolare, la neces-saria relazione fra ruolo dirigenziale e responsabilità di risultato, ovvero fra pro-grammi-verifica dell’attuazione-valutazione del personale, è chiaramente scritta nel d.lgs. 165/01,come nel d.lgs. 286/99, che, nel dichiarato scopo del monitoraggio e valutazione “dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche”, già all’art. 1, va a normare il sistema dei controlli interni, inquadrandovi anche la valutazione dirigenziale, da effettuarsi con apposite strutture, solitamente definite “nuclei”. Per gli enti locali, garantendo la necessaria autonomia costituzio-nale, è stato il Testo Unico, d.lgs. 267/2000, a introiettare con forza concetti come programmazione, obiettivi, valutazione e responsabilità.

A tal proposito, ragionando di piani delle performance, vale la pena rileggere con attenzione l’art. 169, primo comma, del TUEL, che, con semplicità, e con gusto dell’essenziale, descrive quel Piano Esecutivo di Gestione, già legiferato dall’art. 11 del d.lgs. 77/95 (sull’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali): “sulla base del bilancio di previsione annuale deliberato dal consiglio, l’organo esecutivo definisce, prima dell’inizio dell’esercizio, il Piano Esecutivo di Gestione, determi-nando gli obiettivi di gestione e affidando gli stessi, unitamente alle dotazioni neces-sarie, ai responsabili dei servizi”.

Interpretando i concetti nella loro sostanza, il Piano delle performance non è altro che una versione aggiornata – verrebbe da dire più mediatica – del cosiddetto PEG, di cui gli enti locali e i Comuni sopra i 15.000 abitanti devono dotarsi da quasi due lustri; mentre gli altri hanno, comunque, il potere/dovere di impostare budget operativi.

Non meno esplorata è la strada di una valutazione che serva a premiare i di-pendenti, in base al concreto contributo apportato alla realizzazione degli obiettivi;

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bastino la lettura dell’art. 45, commi 3 e 4 del d.lgs. 165/01: “i contratti collettivi definiscono, secondo criteri obiettivi di misurazione, trattamenti economici acces-sori collegati: a) alla produttività individuale; b) alla produttività collettiva tenendo conto dell’apporto di ciascun dipendente; c) all’effettivo svolgimento di attività par-ticolarmente disagiate […]. I dirigenti sono responsabili dell’attribuzione dei tratta-menti economici accessori”. Davvero niente o ben poco di nuovo sotto il sole.

2.2 La valutazione delle performance

Ragionando su come misurare la “produttività”, sarebbe buona regola attrezzarsi di un sano scetticismo, una sorta di antidoto dal pensare che esistano ricette e cer-tezze per afferrare un tema di per sé scivoloso; non a caso i due già citati economisti, Boeri e Pisauro, in proposito, hanno scritto: “nulla è più opinabile della misura della produttività nel pubblico impiego […]. La nozione di produttività del dipendente pubblico continua ad essere circondata da un’ipocrisia sacrale”18.

Messi al sicuro da ogni rischio di facili scorciatoie, possiamo riprendere il per-corso per arrivare a progettare una “macchina pubblica”, in grado di lavorare con produttività, efficienza, efficacia ed economicità, concetti che abbiamo cercato di definire nei precedenti paragrafi.

Assunto l’antidoto, l’esigenza di stimolare la pubblica amministrazione a funzio-nare meglio rimane fermo e prioritario, così come fermo e conseguente resta l’obiet-tivo di avere una misura di quanto e se le prestazioni e i servizi sono migliorate, partendo dal cosiddetto Piano delle performance, che, comunque, deve raccordarsi con la programmazione finanziaria e di bilancio. Naturalmente, ammesso e non concesso che il citato strumento di programmazione dell’azione amministrativa sia chiaro nei suoi termini, diventa centrale il sistema di valutazione che, partendo dal piano esecutivo gestionale, verifichi e valuti i dirigenti prima, consenta di valutare di dipendenti poi. Si arriva così al tema della misurazione, che la “Riforma Brunetta” (nello specifico il decreto attuativo) ha strutturato come il fine del cosiddetto “ciclo delle performance”, organizzandolo in una sequenza di fasi, che sono indicate: nella definizione e assegnazione degli obiettivi che si intendono raggiungere, dei valori attesi e dei rispettivi indicatori; nella misurazione e valutazione della performance organizzativa e individuale; nel monitoraggio in corso di esercizio e di attivazione; nell’utilizzo dei sistemi premianti, secondo criteri di valorizzazione del merito; nella rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai cit-tadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi. Quindi baricentro

18 Boeri, Pisauro, op. cit.

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del piano delle performance sono gli obiettivi, i risultati attesi e gli indicatori: cioè niente di più né di meno di una nuova e aggiornata esplicazione dei “costituzio-nalizzati” concetti di efficienza, efficacia ed economicità. In altri termini, il piano delle performance si caratterizza per il suo confrontarsi con gli obiettivi ovvero uno specifico segmento della pubblica amministrazione; “non più e non solo considerata come tale, ma in quanto caratterizzata da scopi e finalità predeterminati, dichiarati e condivisi; in modo da essere verificabili e quindi assoggettabili a monitoraggio e analisi per verificarne la realizzazione”19.

Siccome la misurazione delle performance si lega strettamente alla valutazione dei dirigenti (ma anche dei dipendenti), diventa centrale il ruolo dei nuclei di va-lutazione, sui quali, oltre alla legge 15/09, è intervenuta anche la legge 69/09 (“Di-sposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”), ampliandone ulteriormente i compiti. I nuclei, di conseguenza, sono sempre più strumenti dinamici, mezzi per monitorare le attività svolte dai dirigenti, collegando l’erogazione di risultato a uno spettro più ampio delle attività del dirigente e non solo al grado di raggiungimento degli obiettivi; in-cidentalmente, fra le novità della cosiddetta riforma del pubblico impiego, qualcuno ha evidenziato l’inserimento anche del comportamento organizzativo del dirigente come uno dei parametri di valutazione delle prestazioni, anche se, francamente, non si capisce dove stia, anche in questo caso, l’innovazione sostanziale.

Tornando alla legge 69/09, merita di effettuare un’essenziale ricognizione de-gli aumentati compiti dei nuclei di valutazione quale diretta conseguenza degli ob-blighi dirigenziali, per la cui inosservanza sono previste specifiche responsabilità e conseguenze sulla valutazione prestazionale. Responsabilità dirigenziale matura in caso l’ufficio diretto dallo stesso non abbia adottato i provvedimenti di conclusione dei procedimenti amministrativi, ovviamente fatti salvi quelli sottoposti a DIA o a maturazione con il silenzio assenso. “Ove il provvedimento consegua obbligato-riamente a un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche ammini-strazioni hanno il dovere di concluderlo mediante adozione di un provvedimento espresso” (art. 7, comma 1). Viene previsto – sia pure con molte cautele – che le pubbliche amministrazioni possano essere condannate al risarcimento dei danni a seguito di suddetta inosservanza: “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1ter, sono tenute al risarcimento del danno ingiusto in conseguen-za dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 7, comma 9). Di queste carenze dovrà essere tenuto conto nella valutazione dell’attività svolta dai dirigenti ai fini dell’erogazione dell’indennità di risultato e

19 C. Carbone, I pilastri del Peg tra competenze ed obiettivi, in «Guida agli Enti locali», n. 45, 2004.

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dell’eventuale revoca dell’incarico al dirigente: “la mancata emanazione del provve-dimento nei termini costituisce elemento di valutazione dirigenziale” (art. 7, comma 9). Nella stessa direzione, del resto, si orienta la legge 15/09 che responsabilizza espressamente i dirigenti al corretto svolgimento dei propri compiti di istituto come condizione per la stessa riconferma delle funzioni. Per inciso, viene da chiedersi, ancora una volta, la ragione di dover intervenire, in via legislativa, per sancire che un dirigente debba essere valutato per come e se attua correttamente i propri compiti ovvero rispetta il giusto procedimento.

Sempre la legge 69/09 prevede anche la trasmissione al CNIPA (Centro Nazio-nale per Informatica nella Pubblica Amministrazione) degli indirizzi di posta elettro-nica utilizzati dagli enti e aggiornati con cadenza almeno semestrale. Pure il mancato rispetto di tale prescrizione determina responsabilità dirigenziale. Inoltre, è obbligo che la pubblica amministrazione provveda a rideterminare la propria pianta organi-ca, adeguando il modello riorganizzativo, ogni qual volta provveda a esternalizzare parte dei propri servizi e attività, determinando i risparmi, che ne conseguono sul piano degli oneri per la contrattazione decentrata, riducendo conseguentemente il fondo per il salario accessorio. Anche in questo caso si profila una responsabilità diri-genziale. Sul tema in esame, alcune novità sono state introdotte anche dal d.l. 78/09 (convertito con legge 102/09, “Provvedimenti anticrisi,nonché proroga termini”), che prevede l’obbligo annuale, per le pubbliche amministrazioni, di trasmissione di una relazione sulle assunzioni flessibili, che l’ente ha utilizzato. Questa relazione do-vrà essere trasmessa al Nucleo di valutazione, cosicché possa verificare se il dirigente abbia maturano responsabilità per l’uso non corretto di quelle tipologie contrattuali, tenendone conto al fine della relativa valutazione.

La stessa legge 15/09 prevede altri compiti per i nuclei di valutazione, dal mo-mento che richiama, per i dirigenti pubblici, una serie di responsabilità e compiti, la cui non corretta realizzazione comporta conseguenze nella fase valutativa annuale: vigilanza sulle attività svolte dal personale ai fini dell’erogazione del trattamento eco-nomico accessorio di produttività e avvio dei procedimenti disciplinari in tutti i casi di fondato dubbio che il personale abbia compiuto azioni censurabili dal punto di vista disciplinare. Viene, inoltre, chiarito che il conferimento e la revoca degli inca-richi dirigenziali sono rimessi agli esiti della attività di valutazione svolta da suddetti organismi, a ciò deputati.

Questo insieme di nuovi compiti per i nuclei di valutazione, va a sommarsi ai compiti già previsti da leggi e contratti e così sintetizzabili:• valutare la prestazioni dei dirigenti e, negli enti che ne sono sprovvisti, dei tito-

lari di posizioni organizzative, ai fini dell’erogazione della indennità di risultato;• attestare che gli obiettivi assegnati siano raggiunti, per poter consentire ai di-

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rigenti di valutare l’apporto individuale dei dipendenti, ai fini dell’erogazione dell’indennità di produttività;

• certificare che, nell’ente, ai fini dell’incremento della parte variabile del fondo per la contrattazione decentrata, le risorse previste entro il tetto dello 1,2% del monte salari 1997, provengono da risparmi conseguenti alla razionalizzazione organizzativa e sono destinati a specifici obiettivi di produttività e qualità;

• garantire eventuale supporto all’esecutivo, nella definizione dei criteri di confe-rimento degli incarichi dirigenziali e/o di posizioni organizzative, in particolare per ciò che riguarda le metodologie per la valutazione delle posizioni, cioè la loro”pesatura”, e per la valutazione dei risultati;

• supportare l’ente nella definizione della metodologia di valutazione del perso-nale, sia al fine dell’erogazione dell’indennità di produttività sia delle progres-sioni orizzontali;

• eventuale intervento nello svolgimento del Controllo di gestione.

Se passiamo, quindi, alla fase operativa, la legge 15/09 (e ancora di più il decreto attuativo) introduce un modus operandi, per cui la valutazione dei dirigenti rischia non solo di essere procedimentalizzata e standardizzata, ma addirittura svincolata dalle responsabilità-prerogative di quel soggetto che, se pur non del tutto corretta-mente, possiamo definire “datore di lavoro” (cioè l’organo politico-amministrativo).

Così facendo, l’attività valutativa sfida l’omologazione, riducendosi ad adem-pimento amministrativo, cioè il contrario di ciò che deve essere. Per questo ci pare poco convincente – o comunque rischiosa – l’ideazione di un organismo indipen-dente di valutazione delle performance, che non si capisce bene che cosa debba fare ovvero che, secondo un costume tipicamente italico, potrebbe diventare l’ennesimo produttore di regole e condizionamenti burocratici. Da questo punto di vista, gli enti locali dovranno utilizzare con grande attenzione e saggezza l’autonomia orga-nizzativa che è loro garantita, anche se l’art. 4, comma 2, lett. f ) della legge 15/09 richiama, per gli stessi, l’obbligo di nominare i loro nuclei di valutazione, tenendo conto delle indicazioni della denominata Commissione centrale.

La legge in questione ha, certo, il merito di partire dall’oggettiva crisi (se non fallimento) dei sistemi di valutazione dei pubblici dipendenti. Ma è anche vero che le pubbliche amministrazioni non hanno saputo far ciò che la contrattazione di com-parto prevedeva dagli anni novanta, a seguito dell’approvazione del d.lgs. 29/93, cioè dall’inizio della cosiddetta (impropriamente) privatizzazione del pubblico impiego. Un uso distorto e volutamente opaco di norme, che pure c’erano, ha certamente prodotto una cattiva performance dei sistemi di valutazione, ma la risposta di mettere in campo nuovi organismi e nuove regole e procedure standardizzate non convince.

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Se la valutazione, prima di tutto, è affare del datore di lavoro, allora è questi che deve potersi dotare, in piena autonomia, di un servizio di controllo interno, che consenta allo stesso di assumere le decisioni conseguenti, ma nella discrezio-nalità (che è altro dall’arbitrio) che, fisiologicamente, una valutazione presuppone. Invece, la soluzione della centralizzazione dei modelli valutativi porta con sé il concreto rischio (quasi la certezza) di modelli uniformi di un’inarrestabile ten-denza alla procedimentalizzazione ex lege, che nega le differenze, che annienta le distinzioni, standardizza. Come la valutazione delle performance può diventare efficace metodo per valutare i dipendenti (dirigenti compresi), cercheremo di rap-presentarlo nei prossimi capitoli. A questo punto, invece, è opportuno segnalare che l’attività del legislatore di questi mesi (qui innovando davvero) enfatizza molto l’esigenza che la relazione causale fra valutazione e premi ai dipendenti sia traspa-rente e verificabile, proprio allo scopo di costringere i datori di lavoro pubblici a dar conto del corretto uso delle risorse.

La centralità della trasparenza, come modo per favorire l’attività di controllo dei cittadini, trova specifica attenzione anche nella legge 69/09, che modifica parti della legge 241/90, sollecitando una forte spinta alla informatizzazione e digitaliz-zazione dei processi amministrativi, mettendo in relazione i relativi risparmi con le incentivazioni del personale: “l’incentivazione del personale dipendente correlata ai risparmi derivanti dall’innovazione, dall’informatizzazione e dalla lotta agli sprechi, ai quali, con evidenza, il personale è chiamato a contribuire fattivamente e proposi-tivamente, con possibilità di riconoscimento effettivo in termini economici dell’ap-porto garantito”20.

A conclusione di queste considerazioni sulla valutazione delle performance come tema centrale della “Riforma Brunetta”, si ricorda che strumenti centrali, nell’atti-vità di misurazione, sono gli indicatori e i parametri, ricavati all’interno dell’ente, ma soprattutto all’esterno, attivando anche il cosiddetto “benchmarking”, di cui parleremo in seguito.

Dotarsi di attrezzi per misurare, però, è operazione parziale e insufficiente, tanto più quando non è semplice definire l’oggetto da misurare.

20 C. Renna, Legge 69/09 ed eliminazione degli sprechi nella Pa, in «La Gazzetta degli Enti Locali», 21 agosto 2009.

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2.2.1 La difficoltà della valutazione

Secondo una definizione scientifica le valutazione delle politiche pubbliche21 possono dividersi in tre categorie: valutazione amministrativa, valutazione giudizia-ria, valutazione politica. Ragionando di performance è evidente che si fa sostanzial-mente riferimento alla valutazione amministrativa, anche se tendenzialmente vanno ampliandosi i tentativi di valutazioni politiche, intese soprattutto come occasione di confronto e rendiconto ai cittadini (bilancio sociale e di mandato, per esempio). La valutazione amministrativa – sempre secondo i citati studiosi – si articola in sotto-categorie: valutazione dello sforzo, della performance, dell’adeguatezza delle performance; in sintesi si può ragionevolmente affermare che, di fatto, siamo di fronte alle verifiche di efficienza (tecnica e gestionale), efficacia ed economicità sotto altre spoglie. Per effettuare queste valutazioni si rendono necessari indicatori e/o parametri, che devono corredare puntualmente (e le norme lo specificano) i diversi obiettivi e progetti del piano delle performance (o del Piano Esecutivo di Gestione). I sistemi di budgeting consentono di programmare l’attività degli enti, collegando obiettivi e risorse, intendendo sia risorse finanziarie, sia risorse umane e strumentali, attivando verifiche periodiche (reporting), per correggere eventuali errori o anoma-lie. Quindi, il piano delle performance come evoluzione del budget ha in sé tutte le informazioni propedeutiche alla fase valutativa, che certo riguarda – e lo vedre-mo in seguito – prima di tutto le prestazioni del personale, ma conseguentemente permette – se i responsabili delle politiche e i dirigenti lo vogliono – di individuare come la “macchina” ha funzionato e dove eventualmente aggiustare e correggere. Anche in questo caso, però, occorre un’avvertenza, con cui già ci siamo misurati: “la valutazione della misura in cui gli obiettivi politici vengono raggiunti da un dato programma ha un ruolo centrale, ma deve fare i conti con la realtà che le politiche di solito non specificano obiettivi abbastanza precisi da permettere un’analisi rigorosa del loro raggiungimento o meno”22. Qui si tocca il delicato tema di come si formano gli indirizzi su cui poi la struttura organizzativa pubblica deve muoversi, chiamando gli stessi tecnici ad essere attori consapevoli e non passivi nella costruzione del pia-no delle performance ovvero degli strumenti che declinano operativamente le linee programmatiche, così come devono saper maneggiare con attenzione le informazio-ni periodiche, che permettono, motivatamente, di adeguare e correggere progetti e obiettivi. La valutazione periodica e dialettica fra i diversi soggetti interessati alle performance sembra un buon correttivo ai rischi di valutazioni finali così poco soli-

21 M. Howlett, M. Ramesh, Come studiare le politiche pubbliche”, Bologna, il Mulino, 2003, p. 181.22 Cfr. ibidem.

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de, così opinabili da costringere a vere e proprie “intese” al ribasso sul reale stato di conseguimento degli obiettivi programmati.

Insomma, valutare le performance della pubblica amministrazione ha una utilità indiscutibile, tuttavia bisogna essere consapevoli che si tratta di un processo più complicato di quanto possa sembrare.

2.3 Un problema di deficit di cultura “aziendale”

Anche dopo questo excursus sulle innovazioni della “Riforma Brunetta” per mi-gliorare la pubblica amministrazione, la sensazione è di un già visto o meglio letto e riletto. È nostra convinzione che, invece della via legislativa, avrebbe dovuto e potuto essere privilegiata – o quanto meno dovrà essere affiancata – quella della incentivazione delle buone prassi, dove queste si vanno a realizzare. Tanto per fare un esempio: per migliorare le performance di un determinato servizio o ufficio, si potrebbe sperimentare il collegamento fra incentivazione della produttività e risul-tato della gestione; cioè indicare un vero e proprio obiettivo economico (un utile o una riduzione dell’eventuale disavanzo o comunque economie gestionali), realizzato il quale si andrebbero a ripartire, fra i dipendenti interessati, almeno parte delle ri-sorse individuate come risultato conseguito. Una quota parte, poi, potrebbe andare a integrare il monte risorse, che il dirigente ripartisce come compenso della produtti-vità complessiva. Purtroppo, in evidente contraddizione con la spinta all’autonomia del dirigente, registriamo continue invasioni del legislatore anche su questi aspetti, ponendo limiti sulle stesse modalità di calcolo e gestione del cosiddetto “fondo va-riabile”, cioè quelle risorse accessorie, che dovrebbero essere utilizzate con flessibilità per favorire e stimolare i comportamenti virtuosi e produttivi.

D’altronde, gli straordinari cambiamenti, introdotti nella pubblica amministra-zione della Gran Bretagna, dal primo ministro Tony Blair, trovano origine e sostanza in un cambiamento nella pratica operativa, nel modo di lavorare, attraverso l’at-tivazione della delivery unit, che aveva “semplicemente” l’obiettivo di consegnare risultati al governo e ai cittadini, sulla base di una preventiva e attenta selezione di obiettivi specifici e concreti di trasformazione dei servizi pubblici23.

Di contro, come abbiamo osservato, in Italia il cambiamento continua ad essere affidato alla produzione legislativa e, nel caso dei recenti provvedimenti legislativi, se ci riferiamo all’ammodernamento della pubblica amministrazione, per orientarla al risultato, le nuove norme più che riformare, specificano, puntualizzano, dettagliano,

23 M. Barber, Instruction to Deliver, London, Politico’s, 2007. Sul tema anche J. Greenwood, R. Pyper, D. Wilson, New public administration in Britain, Abington, Routledge, 2002.

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ottenendo senz’altro un positivo apprezzamento popolare, che, però, non è detto si trasformi in vero e positivo cambiamento. Ci si trova immersi, ancora una volta – per chi frequenta le pubbliche amministrazioni –, in quello che uno storico del diritto come Polo Grossi ha definito “normativismo”, con i conseguenti rischi “di una separazione netta fra produzione e applicazione del diritto, fra comando e vita, fra un comando che si conchiude e si esaurisce in un testo e la vita che continua e diviene malgrado il testo”24. Nella pubblica amministrazione la “vita” è continuata, malgrado le norme, cercando di conciliare – spesso al ribasso – garanzie formali e procedure, con flessibilità e sostanza, ma con risultati complessivamente insufficien-ti, probabilmente anche perché si sono usati gli strumenti sbagliati.

La sensazione – rectius la certezza dei fatti – è che il vero problema da affrontare per una crescita qualitativa e quantitativa delle pubbliche amministrazioni stia nel bisogno di recuperare un evidente gap culturale, che riguarda il ceto politico ammi-nistrativo come la dirigenza. Intervenire su quel limite è la priorità, non pienamente colta dal legislatore.

La politica dovrebbe essere capace di passare dai “programmi di intenti” (vaghi, incerti, ambigui e, perciò, non misurabili) ai “programmi di impegni” (definiti, chia-ri negli obiettivi e, quindi, misurabili); un noto politico, con efficacia, ha affermato che la compagna elettorale è poesia, ma governare è prosa.

D’altra parte, i dirigenti devono maturare competenze e sensibilità in grado di trasformare i programmi di impegni della politica, in “piani di lavoro” – discussi, partecipati, verificati periodicamente –, i quali sappiano valorizzare le risorse umane e finanziarie, razionalizzando e riorganizzando in funzione degli obiettivi affidati e non viceversa. L’immutabilità della struttura organizzativa ovvero il suo modificarsi per forza di inerzia, più che per scelte di natura funzionale, qualunque siano gli obiettivi indicati dalla politica, di per sé costituiscono un valido indizio – se non una prova – di quanto forte sia la carenza di cultura aziendale della classe dirigente negli enti pubblici.

Le frenetiche innovazioni legislative degli ultimi mesi – e probabilmente altre ne arriveranno – definisce una tendenza comunque chiara, al di là di eventuali altri correttivi. Perciò possiamo effettuare alcune prime valutazioni.

C’è stata un vera e propria bulimia legislativa che, di fatto, ha enfatizzato (o ri-nominato) concetti sostanzialmente presenti nella normativa ormai consolidata, a partire dall’idea di una “valutazione intesa quale processo fondamentale per rea-lizzare un significativo passaggio dalla cultura dei mezzi (input) a quella dei risultati (output e outcome) al fine di produrre un tangibile miglioramento della performan-ce delle pubbliche amministrazioni”, così come scritto nella relazione governativa

24 P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2001, p. 56.

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allegata a schema decreto legislativo in attuazione legge 15/09 (entrato in vigore con il numero 150/09). Non meno condiviso e condivisibile è l’obiettivo di un sistema di valutazione, che assuma il merito come discriminante per assegnare le risorse in-centivanti al personale, interrompendo la pessima abitudine di procedere alla distri-buzione di incentivi economici a pioggia. Apprezzabile, ma altrettanto poco inno-vativo, l’obiettivo di costruire percorsi di carriera fondati sul merito anche nel con-sentire l’accesso a percorsi di alta formazione. Tutti questi obiettivi avevano e hanno ancora bisogno di impulsi, di scelte capaci di implementarne la loro realizzazione. In sintesi, “il cittadino-cliente, nelle intenzioni del legislatore, deve essere posto al centro di tutta l’attività di programmazione e di conseguente gestione della pubblica amministrazione, nella massima trasparenza e con idonee forme di rendicontazione chiare e dimostrabili […]. L’unica considerazione che si può legittimamente fare è se in realtà occorrano riforme o semplicemente non sia necessario dare attuazione a quanto già da tempo previsto dal sistema normativo vigente”25.

Insomma, siamo di fronte a specificazioni in tante parti addirittura ridondanti, se non pleonastiche, a un’iperproduzione che – giova ripeterlo – rischia di otte-nere il risultato opposto a quello prefisso, tornando a forti procedimentalizzazioni e, quindi, al problema della standardizzazione ovvero del riproporsi della cultura dell’adempimento formale. Ribadiamo che sarebbe stato meglio ragionare in termi-ni di buone prassi, cioè incentivare e attivare momenti d promozione della qualità dove si realizza.

2.4 Una maggiore cultura “aziendale” per una migliore produttività

Così come ampiamente documentato, la normativa conteneva e contiene già gli “attrezzi” per impostare un’amministrazione orientata al risultato, costruendo una mo-dalità di lavoro che privilegi gli obiettivi e su questi orienti le risorse, incentivando il personale in proporzione a quanto contribuisce a conseguire alti livelli di produttività. Almeno negli enti locali, da tempo, è chiaramente definito un circuito, tipicamente “aziendale”, che va dalle strategie, al bilancio, alla relazione previsione e programmati-ca, dal PEG (Piano Esecutivo di Gestione), al PDO (piano dettagliato degli obiettivo), dai controlli di gestione, alla valutazione dei dirigenti, a quella dei dipendenti. Il pro-blema vero è che questo articolato processo deve essere fatto funzionare.

Il datore di lavoro-dirigente, cioè il soggetto principe dell’attuazione e della valu-tazione (attiva e passiva), deve saper gestire con equilibrio quel processo, facendolo

25 C. Renna, La riforma del pubblico impiego: varato il decreto attuativo, in «La Gazzetta degli Enti Locali», 22 agosto 2009.

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funzionare, nella consapevolezza che ci sono spinte contrastanti. Si tratta di tenere insieme parti che tendono a muoversi in modo autonomo e anche in tensione fra loro.

Viene in mente la partita di croquet in Alice nel Paese delle Meraviglie: “all’ini-zio la difficoltà maggiore per Alice fu quella di imparare a usare il fenicottero: non le riusciva troppo difficile prenderlo sotto il braccio, tenendolo ben stretto, con le gambe penzoloni; ma, in linea di massima,proprio quando gli aveva steso per bene il collo e si preparava a dare un colpo al porcospino, quello ritirava su la testa e si metteva guardarla in faccia […] era molto irritante scoprire che il porcospino si era sgomitolato e stava per filarsela via”26. In questa ricerca di equilibrio, sintesi e azione sta la difficoltà dei dirigenti pubblici, ma anche degli amministratori, ferme restando le differenze di ruoli. La sfida è proprio quella di far comunicare e interagire quelle procedure, quegli strumenti programmatori e gestionali, che troppo spesso sono costruiti in modo autonomo e non tenendo conto l’uno degli altri.

L’altro aspetto da correggere è certamente quello di strumenti e provvedimenti che devono essere costruiti, tenendo conto delle specificità di ciascuna strategia loca-le, mentre, anche in questo caso, prevale una logica da adempimenti, con l’approva-zione di veri e propri facsimili che si ripetono da ente a ente, di anno in anno. Tutto ciò, quindi, richiama l’esigenza di una cultura coerente con gli obiettivi di orienta-mento al risultato dell’azione amministrativa. Ci vuole un vero e proprio approccio di tipo aziendale27, che ancora oggi manca, sia a chi fa i programmi e le strategie, sia a coloro che, poi, ne devono garantire la gestione.

Il costante richiamo all’esigenza di recuperare una cultura di tipo aziendale den-tro la pubblica amministrazione merita, però, una puntualizzazione, perché dietro le parole spesso si nascondono insidie; il nostro ragionare sul bisogno di una mag-giore cultura aziendale parte da una specifica definizione e in quella si riconosce: “è obbligo precisare che il termine “aziendale” è usato nel suo senso proprio e non in quello, erroneo, ma diffuso negli ambienti pubblici, di sinonimo di impresa priva-ta. L’indicazione di introdurre un orientamento verso l’aziendalizzazione assume il significato di recuperare l’interpretazione dell’amministrazione pubblica come “si-stema aperto” e di introdurre più dirette e precise responsabilità sui risultati, sul rapporto risultati-risorse e sulle relazioni con la domanda (famiglie, imprese, aziende composte pubbliche)”28.

Nella logica d’azienda fondamentale è il ruolo del soggetto economico, cioè “l’organo nel quale si accentra o al quale fa capo, di fatto, il supremo potere

26 L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, Garzanti, 1993, p. 75.27 L. Puddu, Il bilancio degli Enti Locali, Milano, Giuffrè, 1984.28 AA.VV., Il ciclo della pianificazione, programmazione e controllo nell’esperienza del Comune di Cesano Boscone, in «Azienditalia», n. 12, 2001.

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volitivo”29, che, nella pubblica amministrazione, è l’organo politico-amministrati-vo, al quale perciò fanno carico responsabilità rilevanti. Altrettanto rilevanti ovvia-mente sono le responsabilità di chi ha ruoli gestionali, cioè i dirigenti. Purtroppo le difficoltà della pubblica amministrazione trovano grande alimento proprio nei limiti di cultura aziendale di quei due soggetti. Sarebbe certamente sbagliato rap-presentare la pubblica amministrazione come un unico blocco arretrato e fermo nella sua capacità di ammodernamento.

Il fermento degli anni novanta ha certamente prodotto risultati di efficienza, ma il salto verso la costruzione di un sistema integrato ed efficiente non è ancora stato fatto.

La cultura aziendale (nella sua accezione anche di sistema di operazioni in grado di fornire risposte razionali e coerenti con gli obiettivi programmati) appare ancora lontana dall’affermarsi, al punto che, non a caso, Sabino Cassese, ancora dieci anni fa, doveva scrivere che: “il carattere bizantino dell’amministrazione, e le “paperasserie” della burocrazia producono effetti di reazione-imitazione nei rapporti civili […] nor-me oscure e sempre negoziabili, molte regole accompagnate da molte deroghe, buro-crazie borboniche o lente inducono i destinatari a difendersi producendo altre norme e cautelandosi con comportamenti ipergarantistici, che hanno per effetto di ossificare negozi, transazioni, comportamenti, e, alla fine, di burocratizzare l’intera società”30.

Se esiste un deficit culturale nell’affermare una capacità di governo delle pubbli-che amministrazioni, e in specie degli enti locali, che sappia produrre apprezzabili crescite di produttività complessiva, è evidente che quel deficit coinvolge tutti e due i soggetti che hanno responsabilità di governo: gli organi di indirizzo politico-ammi-nistrativo e gli organi gestionali. Infatti, l’azienda efficiente ha come fondamentale caratteristica quella di operare come sistema, cioè come insieme di attori e azioni unificate dal fine produttivo.

Per quanto sia stabilita una funzionale specificazione di ruoli e compiti, titolare dell’azienda (altrimenti definito soggetto economico) e management o dirigenza do-vrebbero avere tratti culturali, “vision” comuni e convergenti.

Nell’ente pubblico elettivo, il titolare della programmazione ha compiti che lo distinguono in modo netto da chi (dirigente) gestisce. La normativa che, nella pub-blica amministrazione, separa l’indirizzo dalla gestione, ha affrontato correttamente un problema, ma, nella pratica, la virtuosa separazione spesso è diventata un solco profondo (una vera asimmetria), fra questi due livelli decisionali, che crea non pochi problemi di funzionalità.

La carenza culturale a farsi attore di risultati, dentro la pubblica amministrazione, “va attribuita in larga misura all’incapacità dei soggetti che vi operano di compren-

29 P. Onida, Economia d’Azienda, Torino, Utet, 1971, p. 23.30 S. Cassese, Lo stato introvabile, Roma, Donzelli, 1998, p. 69.

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dere fino in fondo il significato delle norme stesse, e ciò a causa del prevalere di una cultura di tipo giuridico, incline più a preoccuparsi di questioni di legittimità, che non ad affrontare i problemi sostanziali che affliggono il funzionamento della pub-blica amministrazione e producono spesso risultati mediocri”31.

Fra i due piani – quello politico e quello gestionale – esiste, però, una dif-ferenza non trascurabile: l’organo politico non è scelto ed eletto, a condizione di possedere una cultura aziendale ovvero manageriale: “appare evidente, quindi, che l’organo politico potrebbe, comunque, incidere profondamente nella gestione qualora sapesse articolare i propri obiettivi politici, in concreti e analitici atti di indirizzo, qualora sapesse usare la tecnica della programmazione […]. In altri ter-mini, i politici dovrebbero acquisire una “cultura organizzativa” […]. Ma poiché tali competenze tecniche e professionali non sono, giustamente, una condizione necessaria alla loro elezione, solo con tale “cultura” saranno in grado di apprezzare quei dirigenti, che, invece, ne sono dotati”32. Siccome, come riconosce l’autore citato, non c’è modo di imporre o prescrivere – e non sarebbe costituzionalmente accettabile – che l’eletto, il politico, abbia da presentare particolari titoli di accesso alla carica pubblica, allora sono i tecnici a dover attrezzarsi di strumenti adeguati, attivando anche i necessari canali di proficua collaborazione e comunicazione con il soggetto economico.

In fondo, al di là delle peculiarità del contesto, ci troviamo di fronte alla vexata quaestio che affligge gli studi delle politiche pubbliche, cioè quello dei vincoli dei policy makers al momento di scegliere fra le soluzione possibili, di cui possiamo in-dicare un’efficace sintesi: “l’ipotesi dei teorici di public choice secondo cui i politici dovrebbero scegliere le politiche che li favoriscono nella competizione elettorale, oppure la conclusione degli economisti del benessere di agire secondo il criterio dell’ottimo paretiano presuppongono molto più spazio di quanto esista in realtà. I politici non possono fare semplicemente tutto quello che può incontrare il favore degli elettori o quello che gli economisti considerano ottimale”33.

In questa fisiologica difficoltà di scegliere le politiche più efficaci – “i vincoli sostanziali sono insiti nella natura del problema” 34 –, la carenza di cultura aziendale accentua il rischio di scelte di scarsa produttività. Il recupero (o l’innesto) di una migliore cultura aziendale (che aiuti a scegliere le soluzioni migliori) nell’agire am-ministrativo è perciò una necessità.

31 M. Paoloni, F.G. Grandis, La dimensione aziendale delle amministrazioni pubbliche, Tori-no, Giappichelli, 2007, p. 227.32 Ivi, p. 153.33 Cfr. Howlett, Ramesh, op. cit., p. 133.34 Cfr. ibidem.

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Preso atto, però, dell’impossibilità di imporla agli eletti, allora, nell’ente pubbli-co, l’impegno di recuperare una migliore cultura aziendale deve concentrarsi appun-to verso la dirigenza, avendo piena consapevolezza che il deficit della politica può es-sere recuperato o gestito positivamente, se un management attrezzato e competente sa costruire stimolare, incentivare, valorizzare occasioni di confronto fra i due livelli di governo dell’ente.

Non meno irrilevante, per stimolare la crescita culturale della classe politica, può essere l’affermarsi di un federalismo che sappia davvero tenere saldo il nesso (la conditio sine qua non) fra utilizzo delle risorse e principio di responsabilità.

Recuperare una cultura aziendale per la gestione dell’ente pubblico, però, non deve significare appiccicare comportamenti e metodologie del privato, senza tener conto – come talvolta avviene – delle peculiarità dell’azienda pubblica: “le deci-sioni di governo delle imprese sono riferibili all’istituto della proprietà, mentre nelle pubbliche amministrazioni sono riferibili all’istituto della rappresentativi-tà, del consenso, della tutela dei diritti delle minoranze, del fatto che parte dei prodotti dell’amministrazione pubblica non possono essere misurati dal valore di scambio”35.

Tra l’altro, la crisi economica che ha investito i mercati internazionali e che non è ancora terminata, tra i suoi effetti, ha avuto anche quello di far cadere molte con-vinzioni, affermate da prestigiose scuole di management; convinzioni e teorie su master, lavoro in team, brainstorming, certificazioni di qualità, riduzione di costi, leadership, “con una morale che dovrebbe chiosare la crisi del management del ‘900: pensare semplice è più efficace”36.

Ragionare aziendalmente, pertanto, si deve intendere non come un nuovo fio-rire procedure o nuovi strumenti per garantire prima, misurare dopo, la crescita di produttività. Serve “semplicemente” l’innesto di pezzi di cultura manageriale dentro i diversi e codificati passaggi, che portano alla costruzione degli obiettivi di governo degli enti, avendo la consapevolezza che il procedimento, se gestito con competenza, ha in sé i germi dell’efficienza.

Per quanto si possa essere cauti nell’importare convinzioni e metodi dalle aziende private, è innegabile che la pubblica amministrazione deve le sue difficoltà a una penuria di competenze e sensibilità su temi come l’organizzazione, l’attenzione alla valorizzazione delle risorse umane e finanziarie, la capacità di cercare e leggere le in-formazioni sull’andamento dei servizi. Di conseguenza, deve svilupparsi un doppio impegno: a) accentuare la formazione del quadro dirigente interno; b) impostare

35 R. Mussari, Economia dell’azienda pubblica locale, Padova, Cedam, 2002, p. 7.36 E. Riboni, I team non funzionano. Harvard contesta le certezze, in «Il Corriere della Sera», Milano, 2 ottobre 2009.

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politiche delle assunzioni che superino la tradizionale ricerca di competenze dirigen-ziali quasi esclusivamente in materie giuridico formali.

In via propedeutica, merita comunque rimettere in fila quelli che sono stati de-finiti i valori minimi di una cultura aziendale matura:• “l’orientamento al soddisfacimento dell’utente, cliente esterno e interno;• la comunicazione aperta, top-down e bottom up tra dirigenza e gli impiegati, e

attraverso tutta l’organizzazione;• operatori fruitori di empowerment, che possano risolvere i problemi del cliente

esterno sul posto di lavoro;• il coinvolgimento verso il miglioramento continuo;• il processo decisionale basato sui dati piuttosto che sull’intuito e sul sentito dire;• leadership tangibile della dirigenza; • spirito di gruppo tra impiegati e dirigenza e tra le diverse unità funzionali;• la volontà di investire nelle risorse umane attraverso l’assunzione, l’addestra-

mento, lo sviluppo professionale;• stabilire sistemi di feed-back che forniscano informazioni continue sui bisogni

e sulla soddisfazione dell’utenza interna ed esterna;• la pianificazione ben sviluppata e credibile che allinea il piano pluriennale con

le attività pianificatorie e operative;• l’abilità di vedere i problemi come opportunità di miglioramento;• la capacità di imparare dai difetti”37.

Se questi sono diffusamente riconosciuti come i caratteri minimi di una profi-cua cultura aziendale, che dovrebbe alimentare le azioni sopratutto, e almeno, della dirigenza (anche pubblica), è utile approfondirne alcune traduzioni operative, che certamente hanno il limite della soggettività.

2.4.1 Il piano di lavoro

Abbiamo già indicato l’esigenza che, per valutare la produttività e le prestazioni, ser-vono obiettivi chiari e misurabili; perciò si è posta l’esigenza di passare dai programmi di intenti ai programmi di impegni, che il dirigente, a sua volta, dovrebbe trasformare in piani di lavoro. Questi sono strumenti di scarso utilizzo nella pubblica amministrazione. Al di là dei termini, però, la pianificazione del lavoro presuppone un metodo, che richiama il dirigente a un lavoro di stimolo e di sintesi operativa, nel confronto aperto con la propria struttura organizzativa, ma anche nell’ascolto delle esigenze degli utenti (bottom-up), così da individuare azioni, in grado di concretizzare gli obiettivi, indicati dall’organo politico.

37 M. Sargiacomo, Il benchmarcking nell’azienda comune, Torino, Giappichelli, 2000, p. 74.

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Dopo una prima fase di confronto, la proposta di piano di lavoro dovrebbe tor-nare al confronto con gli esecutori, correggendone eventuali limiti, adeguandosi alle diverse esigenze (top down). Una sommaria, empirica se vogliamo, verifica in diverse amministrazioni locali ha documentato come il dirigente non socializzi gli obiettivi, non li trasformi in piani operativi, lasciando, quindi, il dipendente estraneo al proces-so e ai fini erogativi, per cui lo stesso viene valutato a fine dell’anno o a esaurimento dell’obiettivo. Affiggere indicazioni giornaliere e/o settimanali, mensili, fare incontri di lavoro specifici e puntuali, verificare per gruppi di lavoro e uffici le attività svolte, confrontarsi con l’utenza con periodicità e metodo; tutte queste azioni sono davvero rare nel modo di lavorare dei dirigenti pubblici, tuttavia le si può identificare come uno dei pilastri su cui dovrebbe essere costruito un efficace agire dirigenziale.

Anche senza i recenti provvedimenti legislativi, la Corte dei Conti (Sezione Se-conda centrale d’appello, n. 44 del 12 febbraio 2003) aveva chiaramente stabilito che l’erogazione generalizzata degli incentivi al personale, non correlati alla realizza-zione degli obiettivi programmati e realizzati, costituisce danno patrimoniale all’ente. Ma la programmazione degli obiettivi non sarebbe tale, se non fosse frutto di un percorso, che coinvolge e responsabilizza tutti gli esecutori. Il piano di lavoro può essere lo strumento utile e necessario, anche perché – come vedremo – assolve un’al-tra funzione rispetto al Piano Esecutivo di Gestione, ma anche al piano dettagliato degli obiettivi.

Ovviamente, quando parliamo di piano di lavoro, non pensiamo a un nuovo obbligo, all’ennesimo documento formale.

È la sollecitazione di un metodo di lavoro che segni un salto di qualità, dalla burocratizzazione fine a se stessa all’efficientizzazione come scopo e mezzo. In un seguente capitolo, ci soffermeremo ulteriormente sulle possibili caratteristiche di un dirigente pubblico soggetto attivo nel cambiamento, ma la pianificazione del lavoro costituisce un salto culturale necessario e da enfatizzare, perché consente un primo fondamentale risultato; cioè il coinvolgimento consapevole del lavoratore al perseguimento degli obiettivi: “per realizzare gli obiettivi aziendali è necessario il consenso dei lavoratori e del management in merito ai seguenti poli di riferimento culturali: gli obiettivi, i mezzi per raggiungere gli obiettivi, inclusi gli incentivi e ri-compense; i mezzi per verificare i progressi, inclusi reporting e feedback; le strategie da adottare se le cose dovessero andare male”38.

Pianificare e organizzare il lavoro significa, in sintesi, programmare insieme a chi deve poi attuare operativamente, definire gli obiettivi, concordare le misure di controllo, individuare possibili alternative, suddividere il lavoro, assegnare respon-

38 E. Moro, Aspetti di gestione delle risorse umane, in «Altalex. Rivista d’informazione giuridi-ca», 30 aprile 2004.

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sabilità chiare, definire mezzi e risultati, riorganizzare per semplificare e migliorare. Significa anche apprendere e conoscere le difficoltà e potenzialità quotidiane, che in un sistema aperto (e torniamo all’idea di “aziendalizzazione”, di cui sopra) mutano in continuazione, perché mutevoli sono i bisogni dei cittadini.

In ultimo, costruire il “piano di lavoro” significa motivare i propri dipendenti, avendo sempre presente quella piramide di Maslow, che,spesso, e anche con troppa enfasi, viene citata come guida di manager e policy makers, ma che afferma una verità apparentemente banale, cioè che la gente (nel caso il lavoratore) fa le cose per le proprie ragioni non per le nostre39.

2.4.2 Il benchmarking

In un contesto come quello pubblico, necessariamente svincolato dal profitto e, quindi, da quella unità misura di efficienza, che si chiama “prezzo”, per coloro che devono scegliere e valutare la soluzione gestionale migliore servono, comunque, parametri con cui rapportarsi.

“Le pubbliche amministrazioni operano in un contesto caratterizzato dall’assen-za di meccanismi automatici di aggiustamento. L’assenza della libera concorrenza, e del conseguente libero formarsi dei prezzi, determina la mancanza di quello scambio continuo di segnali e informazioni fra produttori e consumatori che permettono (o meglio impongono) la minimizzazione di inefficienze”40.

Il benchmarking è un metodo che consente di raffrontare, sul piano spazio-temporale, efficienza ed efficacia delle proprie prestazioni con altre, di enti simili, così da rincorrere standard più avanzati.

La direzione tecnica (ma anche quella politica) devono studiare e valutare i ri-sultati dei propri servizi, rapportandoli con altre realtà omogenee, assumendo poi le decisioni conseguenti di adeguamento e miglioramento. Il benchmarking è uno strumento efficace, che, con la comparazione dei risultati, consente “di intervenire nelle modalità di svolgimento delle attività dell’ente modificandone gli aspetti inefficaci e inefficienti”41.

Naturalmente il benchmarking ha piena efficacia, se si rapporta con l’attività del controllo e del monitoraggio della gestione. La dirigenza, in questo modo, ha mezzi importanti e innovativi per impostare una pianificazione del lavoro e organizzativa tendente al miglioramento.

39 A. Maslow, Motivation and personality, New York, Harper, 1954.40 G. Farneti, G. Savioli, Il sistema degli indicatori negli Enti Locali, Torino, Giappichelli, 1996, p. 136.41 M. Pantè (a cura di), Sistemi di controllo e valutazione, Milano, Giuffrè, 2000, p. 195.

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Il benchmarking esprime due esigenze: la misurazione della performance e l’in-dividuazione della best-practice.

Cosi come indicato da Sargiacomo, teoricamente, le possibili tipologie di bench-marking sono quattro (competitivo, interno, funzionale, generico); i più significativi sono quello competitivo, che raffronta le prestazioni aziendali con quelle di aziende simili, e quello interno che, invece, investiga i comportamenti organizzativi e i proces-si, che sono in essere nella stessa organizzazione, attivando una “competizione interna”.

Dovendo procedere alla scelta fra le diverse tipologie, è stato evidenziato come, per l’azienda comune, sia sconsigliato soltanto il benchmarking generico (per la sua complessità), mentre gli altri appaiono tutti utili, anche se “la circostanza ci impone di rimarcare che il benchmarking interno, a suo favore, ha maggiori punti di forza, rispetto alle altre tipologie, godendo di maggior tempestività di applicazione, maggiore cooperazione dei soggetti interessati e maggiore precisione nei confronti tra loro stessi, maggiore disponibilità e facilità nel reperimento dei dati, e quindi si confà, facie prima, all’azienda Comune”42.

Naturalmente, poi, la decisioni su quale tipologia utilizzare non può che essere rinviata alla dirigenza, che conosce le peculiarità in cui opera, avendo presente che, probabilmente, in molte realtà è più probabile che la cooperazione si attivi con più impulso se il raffronto guarda all’esterno, non proponendo competizioni interne che potrebbero stimolare e acuire tensioni.

Spesso la difficoltà sta nel reperire i dati su cui impostare le verifiche e i raffronti. Del resto, anche la già citata esperienza britannica della delivery unit, ha dovuto fare i conti con l’assenza ovvero la grave carenza di statistiche, dati, informazioni attendibili.

Per quanto ispiri una sana diffidenza, la Commissione centrale sulla valutazione, prevista dalla legge 15/09 e dal primo decreto attuativo, potrebbe contribuire a colma-re quelle lacune di conoscenze e di dati, così da costruire un efficiente benchmarking; anche se, in verità, almeno a livello di macro-parametri, già oggi, ci sono periodiche pubblicazioni, tanto importanti quanto poco frequentate dai dirigenti e dagli ammi-nistratori pubblici: la Relazione annuale della Corte dei Conti sulle Autonomie locali, la rielaborazione annuale dell’ISTAT sui preventivi e sui consuntivi degli enti locali, il Rapporto annuale del Ministero dell’interno sui parametri gestionali dei servizi degli enti locali, in applicazione del comma 7 dell’art. 228 del TUEL 267/2000.

Acquisire e maneggiare queste conoscenze per i dirigenti, ma anche per gli organi politici, diventa sempre più una esigenza per programmare e verificare con efficacia.

42 Cfr. Sargiacomo, op. cit., p. 49.

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2.4.3 Il budget

Quando ci riferiamo al budget, nell’Ente locale facciamo riferimento sostan-zialmente al Piano Esecutivo di Gestione (abbreviato in PEG), di cui parleremo in seguito.

Tra le carenze di cultura aziendale, di certo, quella della poca dimestichezza con la logica sottesa al budget, è certamente rilevante. Soffermandoci sull’Ente locale, è frequente – forse è il comportamento abituale – che il Piano Esecutivo di Gestione sia frutto più di una cultura attenta al formalismo (l’intramontabile adempimento), che di una cultura di tipo aziendale.

Cultura del budget, invece, significa comprendere in pieno che “la logica aziendale si fonda sulla programmazione-controllo, intesa come attività in grado di razionaliz-zare le decisioni e dunque la gestione, in grado di rendere pertanto possibile il conse-guimento di risultati che si dimostrino coerenti con le esigenze di efficienza, efficacia ed economicità”43. Il budget, quindi, presuppone un humus (rectius, una sensibilità) culturale in grado di stimolare, motivare a selezionare i dati delle diverse operazioni aziendali, di leggerli, di ricavarne una credibile programmazione delle attività44.

Inoltre, i dati contenuti nel budget, se frutto di un attento lavoro selettivo e ap-profondito, devono e possono essere utilizzati per una particolare attività di control-lo, quella preventiva; attività che consiste nella valutazione, a priori, dei risultati che l’azienda conseguirebbe se le sue attività venissero svolte secondo un determinato programma. In questo modo, i dati e le informazioni possono essere utili per valuta-re, prima che accadano, gli esiti di determinate operazioni aziendali, per intervenire preventivamente a rimodellarle, qualora emerga che non si raggiungano i risultati preventivati. In termini diversi, la logica del budget richiede, da parte dei responsa-bili, una capacità e attività costante di monitoraggio e aggiornamento delle operazio-ni aziendali, rinunciando all’idea della fissità e immobilità, che, invece, appartiene a un’impostazione di bilancio come adempimento formale, al limite da correggere soltanto in fase di assestamento45. “Inoltre, alla rilevazione globale, ma esprimibile in tempi lunghi, viene sostituita la significatività di rilevazioni in tempo reale, su oggetti di specifico interesse per l’utente, che attraverso di essi misura la qualità delle realizzazioni attuate”46. Questo approccio, che cerca le informazioni, le elabora, le

43 G. Farneti, Gestione e contabilità dell’Ente locale, Rimini, Maggioli, 2005, p. 153.44 M.T. Nardo, Controllo e valutazione negli enti locali: un approccio economico aziendale, Milano, FrancoAngeli, 2005.45 M. Bianchi, Il controllo manageriale degli enti locali, Milano, FrancoAngeli, 2007, p. 293.46 L. Bisio, Peg ancora pochi gli enti che lo utilizzano, in «Forum PA. Percorsi di innovazione nell’amministrazione che cambia», 2004.

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verifica rispetto ai risultati attesi, corregge e riorganizza, in fondo, propone una di-rezione degli Enti locali dinamica e aperta, contro una tendenza alla chiusura, alla difficoltà di confrontarsi anche all’interno della stessa struttura organizzativa.

Ma queste considerazioni hanno abbozzato temi che andremo a definire nei prossimi capitoli.

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3. Il Piano Esecutivo di Gestione, “percorso” verso la produttività

3.1 Il PEG ovvero l’innovazione che c’è

Come già ribadito, cercando di implementare qualità e quantità delle prestazioni della pubblica amministrazione, attraverso procedure e metodi di lavoro, che ten-gano insieme programmazione-gestione-controlli, non serve, né serviva, inventarsi chissà che cosa.

L’innovazione, il nuovo “attrezzo da lavoro” c’è già, è il Piano Esecutivo di Ge-stione (d’ora in avanti anche PEG); in proposito è stato evidenziato che “non sono state ancora assorbite le novità che questo comporta, in particolare il fatto che la gestione non spetta più ai politici, ma ai dirigenti. Soltanto negli enti dove è stato compiuto questo salto culturale il PEG è arricchito con gli obiettivi e utilizzato secondo lo spirito della norma. In questo senso il PEG è ancora uno strumento inno-vativo, anche se ha più di nove anni di storia”47. Invece di sviluppare, far funzionare e consolidare l‘innovazione esistente e disponibile, ha prevalso la solita logica tutta italica dello scrivere altre norme, forse sperando, come il dottor Azzeccagarbugli, che la nuova “grida“, appena giunta, “fresca” e puntuale sul caso, possa sortire un migliore effetto delle precedenti. Ma, come nel celebre romanzo, la sensazione e il rischio sono di aggiungere norme, ottenendo però scarsi risultati, se non c’è volontà pratica di rinnovare e modificare vecchie abitudini, ostinate resistenze culturali48.

Ovviamente, la speranza è che, almeno nel caso della produttività nella pubblica amministrazione, le nuove norme non finiscano nel novero delle inefficaci “grida manzoniane”. Fuor di metafora, il Piano Esecutivo di Gestione, per gli Enti locali, può essere ancora il banco di prova su cui impostare politiche di governo dei servizi più aderenti ai bisogni dei cittadini, senza comunque ignorare il fatto che, in tan-ti comuni e province, già da tempo, sono stati realizzati risultati confortanti. “Ne consegue che una riflessione sul PEG deve essere negli enti punto di partenza e di arrivo di qualsiasi processo di trasformazione teso a innovare l’amministrazione, a traghettarla appunto dalla cultura dell’adempimento a quella del risultato”49.

Va sottolineato che, in linea di massima, le difficoltà a utilizzare il PEG in modo dinamico, privilegiandone invece gli aspetti di adempimento procedurale riguardano più i Comuni medio-piccoli di quelli di dimensione medio-grande ovvero delle Pro-

47 A. Manzoni, I promessi sposi, Firenze, La Nuova Editrice, 1976.48 Farneti, Gestione e contabilità dell’Ente locale, cit., p. 154.49 B. King, T. Okey, L’Italia oggi, Bari, Laterza, 1904, p. 415.

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vince. La ragione, di frequente, sta nella difficoltà di reperire risorse umane e compe-tenze interne, in grado di misurarsi con logiche di tipo aziendale, mentre le difficoltà di bilancio condizionano la possibilità di acquisire risorse all’esterno degli enti.

A questi limiti oggettivi, spesso, si sommano anche quelle insufficienze cultu-rali della classe politico-amministrativa di cui abbiamo dissertato nei precedenti capitoli. Una soluzione possibile alle difficoltà oggettive, per gli enti medio-pic-coli, sta certamente nel costruire soluzioni associate (con particolare riferimento agli articoli 32 e/o 33 del d.lgs. 267/2000), costituendo servizi o uffici sovracomu-nali debitamente attrezzati in termini di competenze e tecnologie. Siamo, infatti, convinti che, probabilmente, le forme di associazione fra Comuni, prima che da servizi esterni, dovrebbero partire da servizi interni: da quelle prestazioni di natura direzionale e programmatoria, che possono rendere anche più agevoli e ragionate le forme di riorganizzazione e razionalizzazione dei servizi di front office ovvero direttamente erogati dall’Ente locale. D’altra parte, la debolezza dei Comuni pic-coli, nell’affrontare la complessità dell’amministrazione, risaltò già ormai un paio di secoli or sono. In uno straordinario studio sull’Italia dei primi del ’900, due attenti osservatori stranieri, esaminando la pubblica amministrazione, ebbero ad affermare: “ma il rimedio ovvio e il solo effettivo sarebbe di porre una differenza fra i Comuni più grandi e quelli più piccoli”50.

La proposta formulata dai due cronisti per cambiare lo stato delle cose, forse, non sarebbe accettabile, tuttavia quell’inciso documenta un problema aperto da or-mai due secoli.

Lasciando subito la digressione, rimane il fatto che la semplificazione della macchina amministrativa pubblica sarebbe davvero un tema centrale – impegna-tivo, quindi elettoralmente scomodo – per avere una burocrazia più efficiente, evitando quello che i citati studiosi chiamano “un sistema irritante e molesto di ostacoli burocratici.”

Chiuso questo inciso, possiamo tornare a ragionare sul PEG come innovazione ancora non pienamente esplorata nelle sue potenziali operative. Il Piano Esecutivo di Gestione, volendo riassumere, ha due caratteristiche fondamentali per una pubblica amministrazione locale che voglia fare il necessario salto di qualità operativo. Prima di tutto, costituisce il mezzo, attraverso cui i due attori protagonisti dell’amministra-zione, l’organo politico (definito più specificamente soggetto economico) e l’organo tecnico-gestionale si integrano e organizzano l’attuazione degli obiettivi stabiliti (ma lo vedremo meglio in seguito) dal Consiglio comunale, con l’approvazione della Re-lazione previsionale e programmatica, del Bilancio triennale, del Bilancio annuale. Si tratta di un vero e proprio virtuoso circuito: pianificazione-programmazione-ge-

50 Cfr. Farneti, Gestione e contabilità dell’Ente locale, cit., p. 153.

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stione operativa. Attraverso le attività di controllo sulla gestione operativa, vengono individuate le anomalie o comunque le correzioni-modifiche da apportare al PEG e, di conseguenza (“circolarmente”) agli strumenti di pianificazione e programmazio-ne. Il grafico cerca di rendere più comprensibile il circuito:

Il riferimento al controllo intende “quell’insieme di attività in grado di razio-nalizzare le decisioni e dunque la gestione, in grado pertanto di rendere possibile il conseguimento di risultati che si dimostrino coerenti con le esigenze di efficienza, efficacia ed economicità”51; attività anche necessarie ad apportare – di conseguenza – i necessari adeguamenti degli strumenti di programmazione e pianificazione, da cui il PEG deriva (input di ritorno). Parliamo di circuito, appunto, perché si parte dagli indirizzi, per trasformarli in programmi e progetti operativi (con il PEG), ma si ritorna indietro, attraverso il controllo e la verifica (feedback), avendo ottenuto importanti informazioni, tali da fornire indicazioni su ciò che non ha funzionato e apportare eventuali modifiche.

51 C. Iamele, Relazione Corte dei Conti gestione finanziaria degli enti locali esercizi 2007/08, 8 settembre 2009.

Pianificazione strategica (programma di mandato, piano

generale di sviluppo, linee strategiche relazione p.p.)

Programmazione e indirizzi esecutivi

(relazione previsionale e programmatica, bilancio

pluriennale, bilancio annuale)

Progettazione ed esecuzione (Peg, Pdo)

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Quello di essere il motore anche dell’attività di controllo e reporting costituisce la seconda fondamentale caratteristica del Piano Esecutivo di Gestione.

Dal momento della sua approvazione il PEG è, almeno in parte, ancora uno stru-mento autorizzatorio della spesa di ciascun responsabile, ma ha la funzione (o la poten-zialità) di governare i processi di funzionamento dell’ente, contenendo in se stesso (at-traverso tempizzazioni, parametri e indicatori) i mezzi perché la struttura organizzativa, a partire dai dirigenti, possa autovalutarsi e, quindi, autocorreggersi.

Tutto questo processo (ed è l’altra innovazione che c’è) dovrebbe avvenire in piena trasparenza, perché l’atto di approvazione del PEG è una delibera della giunta, così come pubblico è il collegato Piano dettagliato degli obiettivi.

La possibilità, poi, di variare il PEG al cambiare di condizioni e fattibilità apre un’ul-teriore fase, che si conclude con provvedimento altrettanto pubblico, cioè la formale variazione (art. 175 del d.lgs. 267/2000).

Il PEG, debitamente integrato dal Piano degli obiettivi, ha (potrebbe avere, se ben fatto e ben gestito) tutte le informazioni che, alla fine dell’esercizio, consentono ai siste-mi di controlli interni di verificare se e come gli obiettivi di bilancio sono stati realizzati, dove si sono avuti problemi operativi e per quali ragioni. Proprio su questa benefica in-terazione fra gestione e controllo, negli ultimi anni, si sono registrati effetti positivi, con conseguenti miglioramenti nell’utilizzo delle risorse (quindi, almeno in termini di effi-cienza); ne è riprova anche una recente relazione della Corte dei Conti che, tra l’altro, afferma: “visto che i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti sono obbliga-ti all’adozione del PEG, i referti ricevuti negli ultimi anni dalla Corte dei Conti hanno acquisito dati e notizie gestionali di portata più significativa degli esercizi precedenti”52. Anche se la stessa relazione evidenzia come, nei piani esecutivi esista una forte differen-ziazione, fra Enti locali, a seconda dei territori, dei contesti socio-economici, delle stesse culture amministrative: “le difficoltà operative scaturiscono, notoriamente, dalla grande eterogeneità dei modelli attuativi e dei livelli di funzionamento, accentuati dall’ampia sfera di autonomia che l’art. 2 della legge 131/03 ha attribuito, peraltro, con delega ancora da attuare, alla potestà statutaria degli Enti locali”.

Un’innovazione – tra le meno apprezzate e implementate – del PEG è certo quella di mettere in sinergia le diverse componenti della struttura organizzativa, facendole comunicare, aprendo la strada anche a positive relazioni top-down e bottom-up.

In ultimo, ma è un argomento che meriterebbe specifico approfondimento, il pro-cesso alla fine del quale si arriva al PEG, gli strumenti a cui si collega – a partire dal programma di mandato –, oltre alle informazioni che quel piano contiene, possono creare (in molti casi le hanno concretizzate) le condizioni per arrivare a forme di ren-

52 A. Bianchi, La distinzione delle competenze. Fu vera gloria?, in «La gazzetta degli Enti Locali», 6 luglio 2008.

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dicontazione sociale, in altri termini definite “bilancio sociale”, strumento che certa-mente consente di attivare sinergie forte fra eletti e cittadini; dentro le quali possono svilupparsi e collaudarsi forme di verifica della soddisfazione dei cittadini più mediate e ragionate di semplici procedure di customer satisfaction, considerando che non poche sono le differenze fra prestazione di un Ente locale e prestazioni-prodotti di un qualsiasi soggetto imprenditoriale privato.

Infine, c’è una quarta caratteristica che merita essere sottolineata, per documentare il PEG come innovazione che c’è; ci riferiamo a un aspetto che apparentemente sembra secondario, vale a dire la forza contrattuale che il PEG consegna al dirigente responsabile.

Infatti, l’autonomia che il titolare di spesa e di entrata si vede consegnata dalla nor-ma può consentirgli una significativa possibilità di manovra, quando si presenta sul mercato per acquisire beni e servizi.

In alcuni servizi si muovono migliaia di euro, fra spesa corrente, in conto capitale, spesa per investimenti, che possono essere utilizzati per economie importanti, ma anche per l’attivazione di modalità di pagamento e di acquisizione flessibili e snelle, in grado di superare (pensiamo ai contratti aperti) le strettoie di norme procedurali, come anche di condizioni di cassa, spesso di grande ostacolo a prestare servizi efficienti.

Il PEG, quindi, ha potenzialità vaste che ancora devono essere esplorate fino in fondo.

3.2 Costruire il PEG come processo virtuoso a partire dal programma di mandato

Negli ultimi tempi si avvertono continui tentativi di “restituire alla politica” un ruolo più incisivo, facendo riferimento ovviamente all’eccessivo protagonismo dei diri-genti, che sarebbe causato da un eccesso di autonomia gestionale.

Tale atteggiamento si sta sviluppando con particolare forza negli Enti locali, con tracce evidenti nelle proposte di revisione del TUEL, che stanno circolando; quindi non mancano anche provocazioni da parte di chi continuamente si trova ad operare nelle amministrazioni locali: “emerge un quadro di complementarietà in cui gli asses-sori riconoscono la loro maggiore influenza non solo nel processo di definizione delle strategie di ente, come richiesto dalla normativa […]. Questo quadro suggerisce una condivisione delle attività tra politici e dirigenti (che spesso colmano, viceversa, il ruolo poco presidiato degli assessori), piuttosto che la loro netta separazione, e una sostanziale confusa collaborazione nelle attività”53.

53 R. Mussari (a cura di), Manuale operativo per il controllo di gestione, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001, p. 73.

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Al di là di aspetti da correggere, in realtà il “disagio” degli amministratori, rispetto al presunto eccesso di autonomia dei dirigenti (in realtà il problema è esattamente il contrario) sembra nascondere un sostanziale limite; quello di non aver colto in pieno le prerogative (e la forza) che il nuovo assetto normativo, con la separazione dell’indirizzo dalla gestione, consegnava e consegna alla politica. Come spesso accade in Italia, si cerca di curare la febbre, rompendo il termometro. Il sistema di governo dell’Ente loca-le è costruito attorno a un ciclo pianificazione-programmazione-controllo (e ritorno). Questo circuito “svolge un ruolo fondamentale nell’ambito delle aziende non lucrative. Tale ruolo è, da un punto di vista concettuale, ancora più importante di quello svolto nell’ambito delle imprese, data la necessità di esplicitare il modello di correlazione tra utilità consumate e quelle create, in relazione al finalismo al cui perseguimento l’azienda è dedicata; modello che non può essere esclusivamente quello della contrapposizione fra costi e ricavi […]. All’interno di questa logica la pianificazione e la programma-zione rientrano in quel processo generale di cambiamento delle PA, sovente definito “aziendalizzazione”54. Siamo allora arrivati al punto; il legislatore ha consegnato alla politica un ruolo fondamentale, che sta nell’attivare il processo che dalla pianificazione deve condurre alla gestione:

54 R. Anthony, D. Young, Controllo di gestione per gli enti e le organizzazioni no profit, Mila-no, McGraw-Hill, 1992, p. 18.

atttuazione e gestione

Programmazionee Progetti

Pianificazione

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Ci troviamo di fronte a un vero e proprio percorso a cascata, che non può svol-gersi se non c’è la causa scatenante, cioè se gli amministratori non esercitano fino e in fondo, e con coerenza, il loro ruolo. Il punto di partenza di questo virtuoso (sem-pre che sia adeguatamente gestito) circuito è appunto la pianificazione strategica. Prima di spiegare meglio il tema, una piccola puntualizzazione: già nel precedente diagramma, si è inserita la Relazione previsionale e programmatica sia nella pianifi-cazione, sia nella programmazione; come vedremo, ragionando sulle definizioni, la Relazione, in realtà, almeno dal nostro punto di vista, ha aspetti che la collocano un po’ allo snodo fra quei due momenti del governo.

Tornando al tema, la politica che voglia e sappia esercitare il proprio ruolo ha pienamente in mano le redini dell’amministrazione: dal momento di indirizzare le azioni di governo, al momento (di cui molto si parla) di tirare le somme e valutare,se i responsabili della gestione (i dirigenti) hanno attuato gli obiettivi oppure no, adot-tando i conseguenti provvedimenti.

Il percorso è chiaro e lineare e nella sostanza (ci ripetiamo) lo è da almeno tre lustri. Il problema, che abbiamo già accennato (perciò non ci soffermiamo oltre) è la debolezza, almeno culturale, della politica – anche della politica – su questo delicato terreno, o meglio rispetto a questa sfida, che nasce fin dalla stesura del programma di mandato; lo strumento in grado di costituire la causa efficiente, che attiva o dovrebbe attivare un’efficace attività di governo.

È l’art. 13 del d.lgs. 170 del 12 aprile 2006, che definisce (o meglio ribadi-sce) quello che chiama (e non è una definizione casuale) sistema della program-mazione finanziaria e della rendicontazione. Al comma 3 recita: “gli strumenti della programmazione di mandato sono costruiti dalle linee programmatiche e progetti e dal piano generale di sviluppo”. Il legislatore ha codificato, quindi, la centralità degli indirizzi, che la politica deve affermare all’inizio del mandato amministrativo.

La programmazione di mandato ha la sua origine, a sua volta, dall’art. 46 del d.lgs. 267/2000, che, al comma 3, stabilisce che sindaco o presidente di provincia, entro un termine fissato dallo statuto, sentita la giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzarsi nel corso del mandato. In altri termini, si tratta del primo fondamentale passaggio dal programma elettorale (anche se la legge non stabilisce un legame) al programma di mandato. Evidente-mente, fra i due momenti si colloca il necessario approfondimento (con i relativi adeguamenti) che il capo dell’amministrazione ha svolto, in sinergia e dialettica, con la maggioranza consiliare che lo sostiene.

Riprendendo un’espressione già utilizzata, con la presentazione delle linee pro-grammatiche, l’amministrazione compie il primo atto di trasformazione della poesia

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della campagna elettorale alla prosa del governo, misurandosi, perciò, con le compa-tibilità, politiche, ma anche finanziarie, economiche e organizzative.

Merita sottolineare che le linee programmatiche di mandato sono illustrate e non sono sottoposte ad alcun obbligo di votazione (anche se alcune amministrazioni pro-cedono ad approvazione formale). La non formalizzazione, in realtà, riteniamo abbia un senso, che è appunto spiegato dall’art. 13 del d.lgs. 170; il programma di mandato, che costituisce il primo atto di pianificazione strategica, in realtà, ha bisogno di un’altra fase di approfondimento; dovendo misurarsi più nel dettaglio con le compatibilità.

La visione e la missione che sono tipiche della strategia devono misurarsi con la fattibilità, che appartiene di più alla fase della programmazione. Perciò l’art. 165, comma 7 del TUEL prima, e l’art. 13 del d.lgs. 170/06 dopo, indicano gli strumenti di programmazione di mandato, appunto, nelle linee programmatiche per azioni e progetti e nel piano generale di sviluppo.

Prima di procedere oltre con il nostro ragionare, forse, è opportuno andare a una esemplificazione dei termini pianificazione strategica (la genesi dell’azione di governo) e programmazione: “ogni organizzazione si pone una (o più) finalità, che rappresenta la sua ragione d’essere.

La pianificazione strategica è il processo attraverso il quale si definiscono le finalità dell’organizzazione e le principali linee strategiche. La programmazione è il processo decisionale relativo alla natura e alle dimensioni dei programmi da porre in essere per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione”55.

Da queste definizioni è evidente che il programma di mandato e il piano generale di sviluppo costituiscono l’orizzonte della pianificazione strategica. Peraltro, una pia-nificazione che sia veramente strategica deve evidentemente collocarsi su uno scenario dai tempi più estesi del mandato amministrativo ovvero può e deve contenere linee di sviluppo, che sanno guardare oltre orizzonti temporali limitati. Come già anticipato, la Relazione previsionale e programmatica, di cui diremo, si colloca certamente a metà strada, snodo, fra la dimensione pianificatoria e quella programmatoria.

Sulla programmazione, peraltro, merita soffermarsi ancora, a partire da una defi-nizione, che ci faccia da riferimento. Essa rappresenta “quell’attività tesa a formulare piani e programmi al fine di indirizzare l’azione amministrativa secondo obiettivi generali e particolari, tali da conseguire la migliore congruenza fra le risorse impie-gate e i bisogni soddisfatti dei cittadini. Essa alimenta pertanto l’attività decisiona-le, consentendone il razionale svolgimento e vincola conseguentemente la gestione chiamata a realizzare, tramite il susseguirsi delle operazioni, i predefiniti risultati”56.

55 Farneti, Gestione e contabilità dell’Ente locale, cit., p. 46.56 F. Curti, M.C. Gibelli, Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Firenze, Alinea, 1996.

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Abbiamo evidenziato il verbo “vincola”, riferito alla gestione, perché proprio quel vincolare rappresenta la più efficace evidenziazione di quanto si sta cercando di dimostrare; cioè che, se il circuito viene fatto ben funzionare, non esistono rischi concreti, per cui la gestione vada ad acquisire ruoli abnormi e svincolati dalle scelte strategiche.

La separazione fra indirizzo e gestione non nasce per depotenziare la politica, ma per restituirle il proprio ruolo, liberandola da una funzione impropria e dalle tentazioni che questa si porta dietro.

Il punto, allora, torna ad essere come la politica costruisce le pianificazione pri-ma, la programmazione dopo; e in ultimo come imposta il Piano Esecutivo di Ge-stione, che costituisce il punto di arrivo dell’attività di indirizzo-amministrazione.

Non casualmente, nel precedente paragrafo, si è fatto riferimento al PEG come all’innovazione che esiste e che deve essere esplorata e attivata in tutta la sua poten-zialità informativa e gestionale, allo scopo di innescare processi virtuosi di program-mazione-gestione-controllo.

Infatti, c’è l’esigenza di un nesso costante e verificato fra PEG e programma di mandato; il primo è la declinazione annuale delle indicazioni di medio-lungo perio-do indicate dall’altro e nell’attività gestionale annua si restituiscono rilievi, difficoltà, limiti, che poi dovrebbero aiutare al periodico aggiornamento delle strategie.

Per questo occorre che la costruzione del PEG si misuri con le proposte del mandato. Le azioni strategiche devono trovare una organico inserimento nella pro-grammazione dell’attività gestionale, nel budgeting.

3.3 Alcune sottolineature sul programma di mandato

Abbiamo indicato il programma di mandato come la causa attivante un’efficace azione di governo. Tuttavia le linee programmatiche (perché è così che la legge le definisce) devono trovare un momento di maggiore specificazione; devono misurarsi con le concrete e verificate compatibilità di medio-lungo periodo; devono inoltre integrarsi o comunque rapportarsi con strumenti di pianificazione esistenti o da adottare specificamente (piani urbanistici, piani sociali, piani commerciali ecc.).

Quel passaggio, pensiamo di poterlo identificare nella predisposizione del cosid-detto Piano Generale di Sviluppo (un oggetto piuttosto in ombra, nell’agire ammi-nistrativo). A tale proposito, è bene ricordare che il citato art. 13 del d.lgs. 170/06 fa riferimento, fra gli strumenti della programmazione di mandato, alle linee pro-grammatiche per azioni e progetti e al piano generale di sviluppo (di cui all’art. 165. comma 7, del TUEL, e d’ora in avanti anche PGS).

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Francamente la distinzione fra queste due dimensioni appare poco compren-sibile e, soprattutto, poco utile e pratica. Per cui, preferiamo ragionare sul piano generale di sviluppo come del punto di coagulo, sia delle linee programmatiche, sia delle azioni e dei progetti identificati nel programma di mandato. In altri termini, il piano generale di sviluppo diventa uno strumento di pianificazione, che costituisce la linea di unione tra i documenti di natura puramente politica, come il programma elettorale del sindaco o del presidente della provincia e le linee di mandato (la fase di concertazione con la maggioranza dell’organo consiliare), nonché con i tradizionali strumenti di programmazione finanziaria, come il bilancio annuale e pluriennale; il tutto allo scopo di concretizzare fattivamente l’individuazione delle risorse, che possano dare agli obiettivi politici le gambe indispensabili, perché questi vengano effettivamente raggiunti.

Continuando con la metafora, possiamo affermare che il PGS costituisce la ver-sione prosaica delle linee di mandato. Qualcuno ha parlato di questo come di una sorta di DPEF locale, che specifica le linee di intervento, che l’amministrazione vuo-le sviluppare nel quinquennio e oltre. Il bilancio dell’ente deve articolare e sviluppare il piano generale di anno in anno.

Prima di soffermarci sul rapporto fra PGS e bilancio, merita ancora trat-tenersi sulle possibili caratteristiche del piano, sapendo che la norma non lo definisce, né lo puntualizza oltre. Per qualche osservatore questa stringatezza normativa sarebbe un limite, per chi scrive costituisce, invece, l’opportunità di una crescita autonoma di quei soggetti (gli organi politici), che devono misurarsi con quello strumento.

Abbiamo delineato, se pur sommariamente, come il programma di mandato vada a consolidarsi nel piano generale.

Merita, a questo punto, delineare alcune tipicità del piano generale di sviluppo, almeno per come lo abbiamo fin qui delineato. Intanto, il PGS si colloca dentro il tentativo che, a partire dagli anni ’80, negli USA, dagli anni ’90 in Europa, ha visto molte città e realtà locali dotarsi di un nuovo strumento di pianificazione definito piano strategico.

Quello strumento ha avuto diversi sviluppi ed è stato caratterizzato da diversi approcci, fino ai più recenti che parlano di “processo reticolare”, perché vede investi-ti diversi attori della società locale57. D’altra parte, l’importanza della pianificazione strategica58, a livello locale, è strettamente legata alla consapevolezza che i singoli territori possano essere laboratori di crescita competitiva: “lo sviluppo locale è una

57 P. Perulli, Piani strategici. Governare le città europee, Milano, FrancoAngeli, 2004.58 Libro Bianco del Consiglio Italiano Scienze Sociali, redazionale, in «Il Sole 24Ore», 19 luglio 2005.

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risorsa, che l’Italia ha troppo a lungo sottovalutato e che va riscoperta, anche se da sola non risolve tutti i problemi […]. Quel che conta è mettere in rete in collega-mento le infinite sinergie dei sistemi locali” .

Non ci soffermiamo oltre sul tema, ma riveste particolare importanza aver iden-tificato l’esigenza che la pianificazione di mandato debba rispondere a una strategia proiettata in tempi lunghi e che nasca dal confronto con il territorio (perché questo aiuta poi anche il controllo).

Una strutturazione della pianificazione strategica (cioè nel nostro caso, del PGS) può essere così sintetizzabile:1. identificazione degli assi strategici o linee strategiche che rappresentano obiet-

tivi di carattere generale, richiamando i concetti e gli slogan della cosiddetta vision (che sempre ha come presupposto la mission, che gli amministratori vo-gliono indicare) e che identificano l’insieme delle tematiche affrontate (mobili-tà, economia, cultura, ambiente, welfare ecc.);

2. identificazione degli obiettivi generali o delle politiche, che definiscono obiet-tivi specifici o insiemi coordinati di azioni volte a raggiungere un obiettivo de-terminato;

3. specificazione delle azioni, che individuano singoli progetti o proposte di in-tervento.

Più operativamente, il piano generale di sviluppo esprime, per la durata del man-dato, le fondamentali linee di azione dell’ente:• nell’organizzazione e nel funzionamento degli uffici;• nei servizi da assicurare;• nelle risorse finanziarie correnti acquisibili;• negli investimenti e nelle opere pubbliche.

Organizzativamente, il PGS ricomprende e sintetizza le linee e le azioni strate-giche del mandato, ma, allo stesso tempo, da questo strumento partono, arrivano, trovano sintesi e “guida” unitaria tutti gli altri strumenti di pianificazione collegati al complessivo progetto di governo dell’ente, ancorché portatori di specificità: piani sociali di zona, piani urbanistici, della mobilità, del commercio piano energetico, piani assunzioni, piano triennale dei lavori pubblici, bilancio annuale e pluriennale, ma anche altri possibili.

Il grafico a pagina seguente sintetizza l’impostazione proposta per un PGS ef-ficace, fermo restando che sono ipotizzabili anche altre specifiche “pianificazioni”:

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Tutta questa strumentazione si dettaglierà in:1. progetti;2. azioni strategiche;3. indicatori dei risultati attesi e, poi, valutati nella loro capacità di trovare apprez-

zamento dagli utenti finali e, più in generale, dalla collettività espressione del territorio di riferimento (outcome).

Questi indicatori dovrebbero avere un peso da far valere, poi, nella valutazione di fine mandato dei dirigenti, di cui parleremo.

Altro aspetto fondamentale (e trascurato) del PGS deve essere quello di indicare anche strategie e indirizzi per i soggetti esterni controllati o partecipati dal Comune e/o dalla Provincia (anche se per questi enti il problema è più limitato); indirizzi rivolti sia alla struttura organizzativa interna che agli enti partecipati (vedi grafico precedente). In apparenza, questo può sembrare un inciso, però, in verità, ormai molti Enti locali operano come vere e proprie holding, da cui si diramano società o enti partecipati in qualche modo.

Pianogenerale di sviluPPo

Bilancio annuale

e triennale

Piano assunzioni

Piano energetico

Piano socialedi zona

Piano del commercio

Piano della mobilità

Pianotriennale dei lavori pubblici

indirizzi a soggetti partecipati

Piani urbanistici

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Questi soggetti, proprio in virtù della partecipazione pubblica, gestiscono in house servizi importanti e strategici (ad esempio, servizi idrici o gestioni rifiuti, men-se o trasporto scolastico), “consumano” risorse finanziarie significative, ma, quasi sempre, senza che l’Ente locale partecipante abbia veri poteri di controllo, nonostan-te la legge, proprio per consentire l’affidamento dei servizi in via diretta, imponga il cosiddetto “controllo analogo”, vale a dire un controllo equivalente a quello eserci-tato sui propri servizi.

Così succede che risorse significative dei bilanci locali finiscono ad alimenta-re società in apparenza controllate dall’ente territoriale, ma il controllo esercitato spesso si sostanzia in formalismi senza grande capacità di incidere e controllare; al contrario, “l’attività di direzione e coordinamento consiste,nelle sue linee generali, nell’esercizio effettivo del potere di una società di dirigere e coordinare altre società secondo un progetto unitario”59.

Proprio per governare e valorizzare quelle risorse finanziarie trasferite alle socie-tà controllate, attraverso il corrispettivo per i servizi prestati, gli indirizzi del PGS dovranno essere ripresi nei piani industriali delle aziende e dei soggetti partecipati, realizzando davvero quel controllo analogo che la normativa imporrebbe, in virtù del quale peraltro a quei soggetti vengono affidati servizi in gestione diretta, senza concorrenza e, quindi, senza che i prezzi siano “misurati” dal mercato.

3.3.1 Il controllo strategico e il Controllo di gestione

L’approccio aziendale alla gestione della cosa pubblica presuppone che si ragioni in termini di sistema aperto e comunicante, sia all’interno che con l’esterno. In quest’ottica, perciò, ricoprono particolare importanza le attività di controllo, da non intendersi come (o prima di tutto) ispettive, ma come presupposti per consentire correzioni e adeguamenti delle scelte gestionali e strategiche.

Fra le quattro attività di controllo individuate, prima dal d.lgs. 286/99, poi dal Te-sto Unico per gli Enti locali (controllo di regolarità amministrativa, di gestione, strate-gico, valutazione prestazioni dirigenziali), sono di particolare rilievo, nelle performan-ce aziendali, il controllo strategico e quello di gestione, che, in realtà, non possono non integrarsi, anche se si rapportano a interlocutori diversi; “l’impostazione del controllo strategico e del Controllo di gestione è fondamentale per l’influenza che essi possono esercitare sulle funzioni di governo e di direzione e, quindi, per l’impatto che possono imprimere alle performance socio-economiche conseguibili da parte dell’Ente locale”60.

Nell’architettura di cui gli enti si dotano, prevalgono due tipologie organizzative:

59 Associazione Disiano Preite, Il Diritto delle società, Bologna, il Mulino, 2004, p. 427.60 F. Fontana, M. Rossi, Il controllo interno, Milano, Giuffrè, 2005, p. 27.

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una che separa i due controlli, l’altra che li tiene insieme; ovviamente i due assetti presuppongono impostazioni ed effetti operativi diversi, ma, nella sostanza, la ge-stione unitaria consente una maggiore coerenza fra obiettivi strategici e obiettivi di gestione, anche se ovviamente presuppone una maggiore rigidità operativa.

Invece, l’organizzazione di controlli separati consente margini di autonomia maggiore nella fase gestionale, tuttavia presuppone canali specifici per superare le asimmetrie, che chiaramente si producono fra terminali del controllo strategico e terminali del Controllo di gestione.

Di norma, per strutture medio-piccole, e caratterizzate da scarsa flessibilità (in termini di bisogni e output), si privilegia un modello organizzativo che tiene insieme i due controlli o che, comunque, li fa relazionare a un unico interlocutore (quasi sempre il direttore generale), che poi veicola le informazioni ai diversi interlocutori per le conseguenti decisioni.

Fra le metodologie di controllo strategico e di gestione, negli ultimi anni, negli Enti locali, si va affermando,per le sue particolarità, la cosiddetta balanced scorecard.

Questo strumento – inventato da Robert Kaplan e David Norton, agli inizi degli anni ’9061 – ha lo scopo di supportare la programmazione e il Controllo di gestione, permettendo di tradurre quella che è la mission dell’azienda in un insieme di indi-catori di performance.

Ci sono più letture di questo strumento, a seconda che se ne privilegi la dimensio-ne di sistema per misurare le performance aziendali ovvero la dimensione di sistema manageriale, “che assicura una verifica bidirezionale tra processi interni all’organizza-zione e le prestazioni esterne, migliorando i risultati e le attività rivolte al consegui-mento degli obiettivi strategici”62. Nelle realtà locali la scelta della balanced scorecard è stata legata prevalentemente alla sua versatilità come strumento di misurazione, quindi controllo, in una dimensione strategica. Questo perché è un sistema in grado di bilan-ciare le diverse dimensioni e la pluralità di aspetti che caratterizzano un Ente locale: “la dimensione strategica con la dimensione operativa; l’azione di governo con l’attività di direzione; la missione dell’ente con le strategie settoriali; gli obiettivi di medio-lungo termine con gli obiettivi di breve termine; le performance esterne con le performance interne; gli indicatori monetari con gli indicatori non monetari”63.

Non è questa la sede per approfondire ulteriormente questo sistema di controllo. È utile, tuttavia, aggiungere che, oggi, la balanced scorecard si caratterizza per essere un sistema evoluto (per alcuni il più evoluto) di reportistica direzionale.

61 R.S. Kaplan, D.P. Norton, The balanced scorecard: translating strategy into action, Boston, Harvard Business School Press, 1996.62 Definizione a cura del Balanced Scorecard Institute.63 Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit., p. 33.

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Rispetto alla tradizionale reportistica aziendale, basata in prevalenza su dati eco-nomico-finanziari e sulle rilevazioni di una serie di indicatori di quantità e di presta-zioni, tale sistema mette in correlazione diverse dimensioni ritenute strategicamente rilevanti (non a caso è frequentemente rappresentata da un diagramma a stella o diamante), costituendo veri e propri cruscotti di controllo e schede bilanciate, che assolvono a molteplici funzioni: strumento di traduzione a attuazione delle strategie; strumento di valutazione strategica; strumento di misurazione dei risultati dell’alta direzione; strumento di comunicazione esterna. Ovviamente, di conseguenza, pro-prio la sua flessibilità consente a ciascun ente di evolvere e adeguare lo strumento secondo le proprie peculiarità e priorità.

3.3.2 I “controllori” e la “fiducia” della politica

Abbiamo chiarito come il controllo strategico non possa che legarsi al Controllo di gestione: in generale il sistema dei controlli, in una logica aziendale, di sistema aperto, che si monitora e corregge, deve operare in forte sintonia; di certo, in que-sto comune contesto, particolarmente integrate sono le finalità del controllo sulla rispondenza delle scelte gestionali con le linee di fondo della pianificazione (il con-trollo sulle strategie e il controllo sulle scelte gestionali), che, durante l’anno, hanno dato corso agli obiettivi di bilancio.

Per questo possiamo anche parlare di due facce dello stesso controllo, che, in sostanza, si divide per l’oggetto, ma sopratutto per gli interlocutori a cui si rivolge: gli amministratori, la politica, nel caso del controllo strategico, i tecnici, la dirigenza, nel caso del controllo digestione.

Queste considerazioni ci portano a sottolineare una convinzione. Nelle tensioni che si sono prodotte fra politica e dirigenza, spesso, negli ultimi tempi, si sono ri-proposte ipotesi, che enfatizzano l’esigenza di dirigenti selezionati in base a un forte ed esclusivo rapporto di fiducia, arrivando ad adottare procedure di vero e proprio spoil-system64; quasi fosse l’unico modo per garantire alla politica l’esercizio del ruo-lo che gli spetta.

In realtà, oltre che nella definizione di scelte chiare e “misurabili”, un altro terre-no, su cui la politica dovrebbe garantirsi ampia autonomia, è proprio sugli strumenti dei controlli, a partire dal controllo strategico, dove sarebbe assolutamente compren-sibile che gli amministratori (ferme restando competenze e obiettivi) si rivolgessero a figure professionali di fiducia, nel senso di soggetti portatori di comuni sensibilità su mission e vision dell’Ente locale. In fondo, proprio dal controllo, come vedremo,

64 La Corte Costituzionale ha dichiarato lo spoil system illegittimo anche con recente sentenza n. 351 del 24 ottobre 2008.

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può discendere un’efficace procedura di valutazione (ma anche di stimoli) alla diri-genza, per migliorare le proprie prestazioni.

3.4 Dal programma di mandato al bilancio, per un PEG più “efficace”

Per quanto sommaria sia stata la identificazione del piano generale di sviluppo, questa illustrazione ha documentato come la predisposizione di questo strumento (per la verità non ancora arrivata ad essere adempimento ordinario) possa costituire un punto centrale nella capacità della politica di affermare un efficace governo degli Enti locali. Perché il PGS esprima a pieno le sue potenzialità, rimane necessaria e aperta l’esigenza di una sua costante verifica e aggiornamento.

Un’altra condizione per la piena efficacia del piano generale di sviluppo sta nella impostazione della annuale sessione di bilancio come fase che trae origine, prima di tutto, dai contenuti di quello strumento.

Ovviamente, ci riferiamo al bilancio nell’accezione che gli dà la norma (art. 13, comma 4 del d.lgs. 170/06): “il bilancio di previsione è composto dalla Relazione previsionale e programmatica, dal bilancio annuale e dal bilancio pluriennale, de-liberato entro il 31 dicembre dell’anno precedente a cui si riferisce”. Questa com-plessità di atti deve, quindi, trovare un filo conduttore proprio nella pianificazione strategica, cioè nel PGS e atti governo collegati. Con questo legame, non solo teorico e generico, ma fatto di forti relazioni, fra programmi e progetti, progetti e azioni specifiche, risorse e priorità, si creano, poi, le condizioni per un Piano Esecutivo di Gestione credibile e, prima di tutto, funzionale alla strategia della politica (se la politica ovviamente ha una strategia). Così il PEG si presenta come il vero snodo fra pianificazione e programmazione65, consentendo di ottenere un triplice risultato:• la distinzione fra attività di indirizzo-controllo, spettante ai politici, e attività

gestionale dei dirigenti;• il collegamento fra la programmazione finanziaria e la specifica struttura orga-

nizzativa dell’ente;• la predisposizione di un piano operativo condiviso e di supporto all’attività dei

responsabili dei servizi.

Deve aggiungersi che adesione del PEG al programma di mandato (e al suo mo-dificarsi) significa costruire uno strumento flessibile e adeguato alle esigenze del mo-mento e del contesto, senza riproporre un modello burocratico, fisso e standardizzato.

65 G. Santomauro, Il Peg nel sistema di gestione del governo locale: logiche, contenuti e obiettivi, in «La Finanza Locale», n. 6, 1998.

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Se quelle sopra indicate sono sommariamente le caratteristiche per un PEG cor-retto, perché sia anche efficace, diventa indispensabile la chiarezza dei passaggi che lo precedono; è fondamentale la capacità del bilancio (ancora un atto della politica che indirizza e programma) di definire chiari progetti e orientamenti, dimensionandoli, nell’anno e nel triennio, dentro la cornice programmatica costituita dalla Relazione previsionale e programmatica, vero e proprio filtro-verifica fra pianificazione-pro-grammazione e gestione.

3.5 Alcune conclusioni. La necessità di un assetto organizzativo conseguente

Abbiamo cercato di delineare una parte del processo virtuoso che dovrebbe por-tare alla definizione di un PEG, la cui caratteristica principale – in sintesi – deve essere quella di “strumento di programmazione operativa attraverso il quale la giunta comunale, prima dell’inizio dell’esercizio, determina gli obiettivi gestionali […] e li affida ai responsabili dei servizi […] Il PEG costituisce inoltre la cerniera operativa fra organi di governo e organi di gestione”66.

In questo quadro, perché la politica possa esprimere a pieno il suo ruolo, è emer-sa ed emerge l’esigenza di implementare l’attività di controllo sui risultati e, prima di tutto, l’attività del controllo strategico. Non si può mai sottolineare abbastanza che l’utilità e la riuscita delle attività di controllo dipendono dalla definizione di stru-menti di pianificazione e programmazione (che abbiamo illustrato) che siano chiari, definiti, misurabili, leggibili, sintetici ma approfonditi e non ambigui.

Queste esigenze presuppongono capacità e competenze tecniche, che si affian-chino agli amministratori. Se si sceglie un efficace modello organizzativo per quei due bisogni (costruzione di programmi chiari e attivazione di controlli competenti), la politica evidentemente può meglio esercitare il proprio ruolo, superando le tenta-zioni di invadere il campo altrui (dei dirigenti, in questo caso),come anche la tenta-zione di scegliersi tecnici caratterizzati più dalla compiacenza che dalla competenza. Il modello che proponiamo è assolutamente realizzabile con le norme disponibili.

Gli art. 90 e 108 del d.lgs. 267/2000 (Testo Unico Enti Locali) contemplano, in nuce, un’ipotesi che proviamo a sviluppare. Con l’art. 108 è prevista, per sindaco o presidente di provincia, la possibilità della nomina del direttore generale, che co-stituisce l’interfaccia degli amministratori, si rapporta con la struttura, garantisce la realizzazione degli obiettivi. Al direttore generale – che è, prima di tutto, un tecnico

66 S. Foschi, G. Morri, Il piano esecutivo di gestione e il piano dettagliato degli obiettivi, Rimi-ni, Maggioli, 2005, p. 49.

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e un dirigente – sarebbe opportuno facesse far capo anche l’attività dell’ufficio che esegue il Controllo di gestione, così da intervenire prontamente a rimuovere pro-blemi e anomalie operative. Il direttore poi deve anche e costantemente veicolare le informazioni all’organo politico per le decisioni che si rendessero necessarie, per aggiornare il circuito pianificazione-programmazione-gestione-(controllo). Lo stesso direttore dovrebbe, in qualche modo, supportare gli amministratori nella lettura e nella rielaborazione dei referti del controllo strategico (fermo restando la forte e necessaria sinergia fra i diversi controlli).

A fianco di questa figura tecnica, gli amministratori dovrebbero affiancare un vero e proprio staff tecnico, autonomo dal resto della struttura, che supporta la politica, nella fase della programmazione e del controllo, non necessariamente alle (esclusive) dipendenze del direttore generale. Quella struttura di staff (volendo un vero e proprio nucleo think tanks) dovrebbe essere composta da figure professionali, in grado di aiutare i politici a individuare i problemi, a selezionarli, valutando le diverse soluzioni, a scrivere e aggiornare gli strumenti di pianificazione strategica. Ferme restando ovviamente le competenze, quelle figure professionali dovrebbero davvero, insieme al direttore generale, essere selezionate in un rapporto di fiducia, senza mediazioni, se non quelle della trasparenza e, perciò, del sapere e delle compe-tenze. In quel caso, dovrebbe davvero esprimersi l’autonomia di scelta della politica, senza che questo voglia dire arbitrio. Questo presuppone un profondo cambiamento nel modo in cui, fino ad oggi, la maggior parte delle amministrazioni ha gestito le prerogative dell’art. 90 suddetto (uffici di supporto agli organi di direzione politica); un modo che vede privilegiare uffici di staff riempite di personale amministrati-vo (vere e proprie mega segreterie) ovvero di figure con compiti di comunicazione all’esterno; in generale figure professionali con poca o nessuna competenza nelle policy. La nostra idea, invece, è di staff altamente qualificati nelle capacità di pro-grammare, leggere le informazioni e controllare. Si tratta, in uno slogan, di spostare la ragione costitutiva degli staff, dalla comunicazione alla costruzione dei contenuti da comunicare, sapendo che un’amministrazione efficiente, prima che il problema dell’agenda degli appuntamenti, ha da gestire e impostare l’agenda-setting.

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4. Relazione previsionale e programmatica e Bilancio: due passaggi verso il PEG

4.1 La Relazione previsionale e programmatica, fra forma e sostanza

Nell’articolato processo, che va dalla pianificazione alla gestione, la Relazio-ne previsionale e programmatica (d’ora in avanti anche RPP), di cui all’art. 170 del Testo Unico Enti Locali, d.lgs. 267/2000, costituisce un passaggio nevralgico, anche in un’impostazione di corretta politica aziendale dell’Ente locale; fermo re-stando che continuiamo a utilizzare quel termine, nell’accezione di soggetto che opera in una condizione di apertura verso l’esterno; azienda intesa come strumen-to, che l’uomo utilizza per svolgere, in modo economico, attività di produzione (nel caso di specie sostanzialmente di erogazione) e di consumo di beni destinati a soddisfare bisogni pubblici67.

Infatti, nell’attività di governo della cosiddetta azienda pubblica locale, ha una centralità ormai non più discutibile il corretto rapporto fra programmazione e reale disponibilità di risorse finanziarie e umane; rapporto che si realizza e concretizza nel cosiddetto “sistema del bilancio”68, che costituisce l’insieme di strumenti e procedu-re di programmazione, gestione e rendicontazione. Finalità del “sistema bilancio” sono, tra le altre, quelle di fornire informazioni, a favore dei soggetti interessati al processo di decisione politica, sociale ed economico-finanziaria, in merito ai pro-grammi futuri, a quelli in corso di realizzazione e all’andamento dell’ente. Il “siste-ma”, sostanzialmente, è articolato nei seguenti documenti: top-down, piano delle opere pubbliche, bilancio annuale, bilancio pluriennale (programmazione); Piano Esecutivo di Gestione (gestione); conto del bilancio, conto economico e conto del patrimonio (rendicontazione).

I documenti della programmazione, se gestiti nel pieno rispetto delle inten-zioni del legislatore, ma anche con un’autonomia attenta a utilizzare le risorse con razionalità “economica”, permettono di realizzare pienamente l’obiettivo di relazionare con efficacia programmi-gestione-misurazione delle performance. Allo stesso tempo, questo “sistema” permette di dare concretezza a quella, che viene definita accountability, termine che “non può essere tradotto in italiano con una sola parola che ne definisca il contenuto in modo completo e soddisfa-cente il significato; è necessaria una frase, ossia il “dovere di rendere il conto”.

67 F. Giunta, Appunti di Economia Aziendale, Padova, Cedam, 1996.68 A. Leonori, G. Ricci, Enti locali: dal bilancio al sistema di bilancio, in «Aziendaitalia», n. 8, 2003.

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Questo termine anglosassone, dunque, assomma in sé due concetti: responsabi-lità e rendicontazione”69.

D’altra parte, riteniamo di naturale evidenza quanto sia difficile rendicontare, se non c’è un punto di partenza con cui raffrontare i risultati; perciò non si dà rendiconto, senza aver preventivato: il sistema bilancio si tiene insieme, anche in funzione di un’accountability, che non sia il solito adempimento, tanto ridondante, quanto inconcludente. Da queste considerazioni emerge con chiarezza che, pure nel-le pubbliche amministrazioni, le qualità informative dei documenti contabili sono condizioni imprescindibili per una corretta azione di governo.

Se nelle aziende private le informazioni servono a intervenire per modificare e correggere le operazioni gestionali non efficienti, nel caso delle pubbliche ammi-nistrazioni, il sistema informativo ha uno scopo aggiuntivo; deve “garantire che la ricchezza provveduta e la ricchezza impiegata rientrino nel limiti approvate dagli organi politici. Deve inoltre consentire di controllare che ogni operatore agisca nel rispetto delle “autorizzazioni” concesse e di dimostrare che le risorse impiegate sono utilizzate oculatamente ai fini prefissati”70.

Vero fulcro del “sistema bilancio”, la RPP, di fatto, continua ad essere piuttosto sottovalutata, eppure “assume indubbiamente un ruolo preminente nell’ambito di pianificazione e programmazione”71; al punto che, nel 1990, è stata riproposta, con forza, dal legislatore “nel più ampio quadro di nuova attenzione ai principi dell’eco-nomicità, dell’efficacia e dell’efficienza, nell’art. 55 della legge 8/6/90 n. 142, oggi art. 151 del TUEL”72.

Tuttavia, prima di andare ad approfondire i contenuti della top-down, appare utile sottolineare come questo strumento sia, da qualche anno, oggetto di ipotesi di ridefinizione, nel quadro di proposte legislative, che provengono da più parti e che propongono una revisione complessiva degli atti di bilancio, superando l’attuale frammentazione di soluzioni contabili, consentite dall’autonomia lasciata agli Enti locali dal d.lgs. 77/95 e dal d.lgs. 267/2000; che, di fatto, hanno resa obbligatoria soltanto la dimostrazione dei risultati di gestione, tramite la redazione del conto eco-nomico e del conto patrimoniale, non indicando (non privilegiando) alcun sistema di contabilità economica. La Corte dei Conti73 e altri osservatori, da tempo, sosten-

69 Cfr. Paoloni, Grandis, op. cit., p. 293.70 A. Buccellato, Un modello di sistema contabile per le aziende di erogazione, in R. Mele, P. Popoli, La gestione delle aziende pubbliche: principi e tecniche innovative, Rimini, Maggioli, 1994, pp. 250-251.71 Cfr. Mussari, Manuale operativo, cit., p. 82.72 Cfr. ibidem.73 Corte dei Conti, Sez. Autonomie, Relazione al parlamento su andamento gestione finanzia-ria degli enti locali, nell’esercizio 2002.

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gono l’esigenza di razionalizzare, negli Enti locali, i sistemi contabili e documentali, arrivando, da parte di alcuni, a proporre soluzioni quali la “introduzione di bilanci preventivi con unità elementari degli stanziamenti di spesa a livello di servizi, col-legando responsabilità di entrata e di uscita, nell’ottica di semplificare e uniformare l’intero sistema di bilancio”74.

Nel quadro di questa sollecitata revisione del sistema di bilancio, si è posta molta attenzione anche alla RPP; tuttavia – siccome chi scrive continua ad avere una certa e solida diffidenza nell’eccesso di output legislativo –, alcune delle ipotesi proposte per reimpostare quel documento, già oggi, a norme invariate, sarebbero attuabili, aggiornandone forma e sostanza, cogliendone e sfruttandone in pieno l’essenza.

Intanto, appare opportuno – perché funzionale – rapportare i programmi della RPP con gli Assessorati.

Inoltre, per restituirle il ruolo di documento di programmazione strategica, ma anche di governo dell’Ente locale, oltre a rapportarsi e connettersi con il Piano Ge-nerale di Sviluppo, è opportuno che sia “solennemente” approvata, prima degli altri strumenti di bilancio, che ne risultino, pertanto, come portato operativo conseguente.

In generale, si rende necessaria una semplificazione dello strumento, allegge-rendone le parti burocratiche e puramente descrittive (come la sezione quarta), per fargli assumere così la caratteristica di atto “politico”, attraverso il quale la Giunta propone e illustra al Consiglio le politiche relative all’entrata e alla spesa. In sede di rendicontazione, la relazione della Giunta, descrivendo l’attività svolta dall’Ente lo-cale, deve essere redatta come un puntuale stato di avanzamento di quanto descritto nella Relazione revisionale e programmatica.

La RPP deve assumere a riferimento (o meglio dovrebbe assumere a riferimento) la pianificazione strategica – portata a sintesi nel piano generale di sviluppo – e da lì “estrarre” quei progetti e quelle azioni, che sono le priorità nel triennio di riferimen-to, individuando risorse e fattibilità. Questa sua peculiarità, nel processo di piani-ficazione-programmazione, fa sì che la si collochi sia nella prima che nella seconda fase. È importante notare come la RPP, appunto, si collochi in un lasso temporale tale da non coprire il tempo del piano generale di sviluppo o comunque delle linee di mandato, quindi deve essere costantemente e frequentemente aggiornata, in un dialettico scambio di informazioni con la gestione, ma anche con la cabina di regia, costituita dagli amministratori.

Di contro, la triennalità della Relazione le consente di “insinuarsi”, anche in un tempo che va oltre il mandato amministrativo, cosicché il primo atto di una nuova maggioranza di governo dell’ente, in via teorica, dovrebbe essere la presentazione del

74 S. Giangiuliani, Sistemi contabili e sistemi documentali: quale futuro?, in «Azienditalia», n. 3, 2003.

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proprio programma di mandato, indicando però le modifiche e gli aggiornamenti rispetto alla relazione programmatica vigente.

Già queste indicazioni delineano bene quali sono le caratteristiche e le potenzia-lità di quel documento di programmazione. Eppure (ed è un aspetto da correggere), la RPP viene sostanzialmente vissuta come un adempimento formale, che proprio per la sua connotazione di orpello burocratico, fa sì che la si riproduca quasi intonsa, di anno in anno, quasi di mandato in mandato; facendo così mancare quell’esigenza di continua interrelazione con il mondo esterno, che costituisce, come sappiamo, uno degli elementi fondamentali nella definizione di azienda efficiente.

La funzione centrale della RPP fa sì che, se dobbiamo riflettere in termini di ac-cessorietà, sono i bilanci annuale e triennale accessori alla Relazione e non viceversa; al contrario di come il normale comportamento degli organi politici (che ne sono gli attori principali) considera quel documento. Anche se, in questo caso, come vedremo, si tratta di un’accessorietà che ha la caratteristica della strumentalità, nel senso che la RPP ha assolutamente bisogno, per la sua credibilità e sostanza, delle informazioni provenienti dalla fase istruttoria del bilancio.

Come già anticipato, riguardo ai contenuti, la RPP, in primo luogo, deve attin-gere dalle linee strategiche del piano generale di sviluppo, specificando quei progetti e quelle azioni che, sulla base delle risorse disponibili, sono ritenuti fattibili.

Naturalmente, programmi, progetti e azioni sono variabili, nel senso che, a se-conda della visione contenuta nelle strategie politiche, si possono avere priorità di intervento diverse.

In ogni modo, vi sono almeno tre campi d’azione che nessuna programmazione può ignorare, ma che devono costituire assi fondanti dell’agire amministrativo, a partire dai contenuti della RPP. Li indichiamo di seguito.

Le politiche per le risorse finanziarieNessuna strategia è credibile, se non si definiscono chiare iniziative programma-

tiche, in relazione a quante e quali risorse finanziarie rendere disponibili, nonché quali dimensioni della spesa consentire. Da questo punto di vista, sono necessari e apprezzabili programmi che indichino anche precisi limiti di evoluzione della spesa corrente e d’investimento, rispetto al complesso delle uscite. Da questo punto di vista sono di un certo aiuto gli indicatori finanziari ed economici generali contenuti nei documenti del conto consuntivo.

Le politiche organizzativeQuesto certamente è un tema strategico, perché siamo di fronte a una spesa – so-

prattutto quella del personale –, che incide in modo assai impegnativo sul bilancio

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degli Enti locali. I dati ISTAT, oggi, per i Comuni la indicano mediamente, intorno al 32,6% su base nazionale75. Pertanto nessuna programmazione ha credibilità, se non definisce quale modello organizzativo darsi per affrontare le sfide dei servizi da erogare. Di certo, una pianta organica che pesa per il 40% rispetto alle spese com-plessive irrigidisce le possibilità di manovra dell’ente, condizionandone le possibilità di attivare nuovi progetti; non per caso, il recente CCNL delle autonomie locali stabilisce sotto il 32% la percentuale virtuosa di spesa per il personale, in relazione alle entrate dell’ente. Perciò, programmare le strategie organizzative diventa un tema centrale di qualsiasi RPP, considerando appunto che, in una spesa irrigidita, interve-nire sulle risorse umane assurge a orientamento strategico76.

Le politiche patrimonialiGli Enti locali hanno un patrimonio, che quasi mai sanno valorizzare, per cui

“una nuova concezione del patrimonio immobiliare e della sua gestione risulterà decisiva non solo come risposta alle stringenti esigenze di riequilibrio finanziarie delle amministrazioni locali, ma anche come mezzo di reperimento di risorse per la promozione e lo sviluppo economico sociale delle comunità di riferimento”77. È vero che i commi 594 e 595, art. 2, della legge finanziaria 2008, per la prima volta, hanno imposto agli enti la predisposizione di piani triennali, per l’utilizzo razionale anche dei beni immobili a uso abitativo o di servizio, ma questo impegno, ancora una volta, si va riducendo alle solite schede da riempire e da inviare. Invece, occorro-no scelte strategiche di valorizzazione anche finanziaria del patrimonio immobiliare, di cui gli enti sono proprietari o utilizzatori, compresi i beni che possono essere realizzati o acquisiti per razionalizzare i costi di sedi istituzionali, spesso fatiscenti e poco funzionali.

Queste linee programmatiche, insieme ad altre azioni più specifiche, dovrebbero costituire l’ossatura della RPP e ciascuna ipotesi dovrebbe essere articolata in sub-progetti, macro azioni, fasi di realizzazione, alle quali dovrebbero assegnati punteggi e pesi; che poi dovrebbero essere verificati ed eventualmente aggiornati, nelle diverse fasi di verifica di bilancio.

A detto proposito, è da evidenziare come le periodiche variazioni di bilancio non si rapportano quasi mai con l’esigenza di verificare lo stato dei programmi della RPP; intendendo, con questo, che non sono effettuate valutazioni puntuali e partecipate,

75 Istat, Bilanci consuntivi delle Amministrazioni Comunali - Anno 2007, Roma, 21 maggio 2009.76 A. Zaccone, Il gigante dai piedi di argilla,in «Azienda Pubblica», n. 3, 1995.77 A. Barbiero, Le società patrimoniali degli Enti Locali, Avellino, Halley editrice, 2007, p. 25.

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come invece sarebbe opportuno e necessario, anche per le successive esigenze di valutazione delle performance della struttura organizzativa.

Proprio per quelle fasi successive di verifica del funzionamento della “macchina” pubblica è indispensabile che le classificazioni, i punteggi e i pesi assegnati ai diversi progetti e alle diverse azioni della RPP siano richiamati, (pur nelle loro ulteriori specificazioni), nel Piano Esecutivo di Gestione.

Sulla base dell’art. 170 del TUEL si rammentano e riassumono i contenuti es-senziali della RPP:• analisi del contesto socio economico e territoriale;• analisi delle dotazioni e dei servizi dell’ente;• indicazione degli obiettivi degli organismi gestionali;• analisi delle entrate per categoria;• definizione dei programmi;• coerenza con i piani regionali di sviluppo;• analisi delle risorse e del spese per programma;• elenco delle opere finanziate e non realizzate;• considerazioni sullo stato di attuazione dei programmi e analisi degli scosta-

menti.

In questi titoli si intrecciano aspetti programmatici e di governo, con aspetti di rendicontazione ovvero puramente descrittivi; aspetti che hanno una loro stabilità temporale e aspetti che, invece, presuppongono dinamicità.

Una riforma della RPP è certamente utile, ma anche allo stato attuale sono as-solutamente possibili correttivi, impostandola con una forte saldatura fra relazione triennale e pianificazione strategica, cosicché si realizzi la necessaria connessione fra programmazione e gestione operativa, partendo dai bilanci di previsione e plurien-nale, per arrivare al PEG.

D’altra parte, la stretta integrazione delle varie parti del “sistema bilancio”, fa sì che la Top-down sia il punto di partenza anche di una credibile procedura che porti a un efficace rendiconto in favore dei cittadini (la già citata accountability).

Non si può concludere questa illustrazione sulla RPP, senza evidenziare come anche la normativa sottolinei l’esigenza che, fra i compiti e i contenuti di quel do-cumento, devono esserci indicazioni e indirizzi strategici per le aziende partecipate; il tema, che abbiamo già introdotto nel capitolo sul piano generale di sviluppo, ha un’assoluta rilevanza, perché ha lo scopo di orientare e governare una significativa mole di risorse, trasferite dall’Ente locale a soggetti, che quasi mai rispondono dei risultati gestionali, né sul gradimento dei cittadini.

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4.2 Il Bilancio e l’esigenza di comunicazione fra soggetto economico e titolari della gestione

Abbiamo più volte sottolineato come l’Ente locale, nella sua dimensione azien-dale, debba strutturare i rapporti fra i due soggetti motori dell’azione di governo (organo politico e dirigenza), attivando continui processi di comunicazione.

Dovendo usare uno slogan, potremmo dire che la comunicazione è governo. I due soggetti, infatti, sono autonomi nelle loro funzioni; non esiste una strut-

turazione gerarchica, ma una sovraordinazione funzionale: la politica dà indirizzi, la dirigenza li rende esecutivi.

In questo quadro di relazioni, appare chiara la ragione per cui la comunicazione diventa materia prima nel governo dell’Ente locale; ma la comunicazione presuppo-ne un efficiente e completo (o più completo possibile) sistema di informazioni; per-ciò il bilancio costituisce un momento centrale nel confrontarsi dei due soggetti di governo dell’ente. Metodologicamente, vale la pena ricordare che, almeno nell’Ente locale, con il termine “bilancio” ci si riferisce al bilancio di previsione.

In verità, sappiamo bene che parlare di bilancio preventivo, dal punto di vista aziendale, significa quasi utilizzare un ossimoro, perché si procede a fare sintesi di qualcosa che ancora non si è concretizzato.

Nelle aziende si è conosciuto il bilancio preventivo soltanto in tempi recenti e con un ruolo meno formalizzato di quanto avviene nella pubblica amministrazione, dove, invece, è proprio il bilancio preventivo il carburante dell’agire; “il bilancio di previsione è uno strumento di scelta per mezzo del quale l’organo volitivo, da un lato, traccia in anticipo il percorso da compiere per l’ottenimento degli obiettivi aziendali”78.

Approfondendo i temi della RPP, abbiamo fatto riferimento al fatto che il siste-ma bilancio della pubblica amministrazione è caratterizzato dal regime autorizzato-rio; si rende necessario, perciò, soffermarsi su questo aspetto rilevante del modo di funzionare anche degli Enti locali, che, a differenza delle aziende private, operano con risorse pubbliche, finalizzate all’erogazione di una serie di servizi e, in generale, di prestazioni orientate proprio a soddisfare le esigenze e i bisogni di quella collet-tività, da cui provengono le risorse finanziarie; non ci troviamo cioè di fronte alla dinamica tipica delle aziende private: produttore-prezzo-cliente.

“È proprio l’esistenza di questo rapporto biunivoco tra l’ente e la collettività, il quale si estrinseca attraverso il flusso input-output risorse-servizi che determina l’esigenza di sottoporre l’intera gestione dell’ente a una serie di vincoli”79, per evitare

78 Cfr. Mussari, Economia dell’azienda pubblica, cit., p. 174.79 Cfr. Paoloni, Grandis, op. cit., p. 253.

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lo spreco delle limitate risorse, nonché un loro non corretto utilizzo. Il bilancio di previsione, quindi, per la sua dimensione di mezzo per autorizzare la spesa, ha un ruolo di vera e propria guida dell’agire quotidiano dei soggetti gestori delle politiche del Consiglio Comunale. È “semplicemente” strumento di programmazione80 e di controllo preventivo.

Siccome, però, la dimensione futura e previsionale del bilancio rimane tale, cioè si opera su un materiale incompleto, grezzo, pieno di incertezze (per tanti aspetti, una vera e propria scommessa), allora la dialettica fra soggetto economico e soggetto tecnico è centrale e propedeutica a qualsiasi scelta.

Insomma, nella predisposizione del bilancio la dimensione informativa si ag-giunge alla fase, in cui i due soggetti del governo dell’ente comunicano i rispetti obiettivi, le diverse valutazioni, elaborano autonomamente le informazioni, ma ten-tano poi (o dovrebbero tentare) una sintesi dialettica, che dovrebbe poi completarsi nella fase di stesura del PEG; se quella dialettica manca prima, diventa difficile tro-varla nella fase esecutiva.

La stessa Top-down, di cui abbiamo evidenziato la strategicità, non può pensarsi efficace, senza che il bilancio (nella sua dimensione temporale, annuale e triennale) abbia trovato una sua definizione partecipata “internamente”. Perciò, come vedre-mo, gli Enti locali devono ragionare in termini di vera e propria sessione di bilancio; non si tratta di andare a formalizzare l’ennesima procedura, ma di dare la giusta rile-vanza a un percorso che, per essere efficace, ha bisogno appunto di continui scambi di informazioni fra tutti gli attori del governo degli enti.

Invece, questo scambio è assolutamente scarso o molto poco dialettico; si svolge, tante volte, limitandosi a trovare la sintesi (al ribasso) fra una politica che, malvolen-tieri, vuol fare i conti con le compatibilità limitate e una struttura tecnica, tendente a mantenersi un sufficiente spazio di manovra, nel garantire proprie esigenze orga-nizzative, che non sempre sono le esigenze dell’utente.

4.3 L’esigenza di un bilancio economico-patrimoniale, ma anche analitico

L’importanza di un bilancio di previsione, come guida e indirizzo all’operazioni di gestione, è stata a sufficienza illustrata; così come si è evidenziata la rilevanza del bilancio come fonte di informazioni per scegliere adeguatamente.

A questo punto si impone un inciso: ordinariamente, quando parliamo di bilan-

80 F. Fontana, M. Rossi, Bilancio, la programmazione finanziaria, in Programmazione e scelte finanziarie, in «Guida agli Enti Locali», n. 16, 2009.

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cio dell’Ente locale, di regola, facciamo riferimento al bilancio annuale, lasciando al bilancio pluriennale (pure imposto dal legislatore) un ruolo accessorio, esattamente come avviene per la Top-down.

Eppure, anche in questo caso, si deve ribadire che una corretta gestione delle risorse consiglia – anzi impone – che sia il bilancio annuale accessorio o, meglio, strumentale al bilancio pluriennale e non viceversa; così come diventa un passaggio non marginale ogni modifica al bilancio annuale, che non può non misurarsi con le ripercussioni con il bilancio pluriennale. Lo scenario temporale imposto dal bilancio pluriennale (il triennio si ritiene il più accettabile) ha il pregio di “costringere” il sog-getto economico a impostare, con grande attenzione, le proprie politiche finanziarie, modulando con adeguata coerenza e cautela le scelte di spesa.

Per rendere più apprezzabile questa strategia, sarebbe auspicabile che l’approva-zione del bilancio pluriennale avvenisse in sinergia con la Top-down e, comunque, in una inversione del rapporto gerarchico con il bilancio annuale, che deve confi-gurarsi come una frazione del primo; mentre oggi (e non è un fatto terminologico e basta) il bilancio pluriennale rappresenta lo sviluppo, la semplice matematica proie-zione, nel tempo, del bilancio annuale.

Dal punto di vista della normativa, però, il bilancio di previsione (sia annuale che pluriennale) conosce soltanto la dimensione finanziaria; mentre, con la rendi-contazione, sono introdotti un conto economico e un conto del patrimonio, che, tuttavia, sostanzialmente si realizzano, grazie al “prospetto di conciliazione”, come una declinazione dei dati finanziari.

Un bilancio di tipo finanziario certamente dà informazioni complessive sul cor-retto equilibrio fra i flussi di risorse in entrata e quelle in uscita, ma sostanzialmente poco o nessuna notizia emerge su come quelle risorse sono utilizzate ovvero se le operazioni, che gli uffici dell’Ente locale eseguono, producono valore, sono econo-micamente razionali.

In termini ancora più chiari, la contabilità finanziaria non riesce a darci un’in-dicazione fondamentale, cioè se l’attività di trasformazione delle risorse o il loro utilizzo hanno prodotto un arricchimento o un impoverimento del patrimonio “aziendale” (dell’ente).

La contabilità finanziaria rileva flussi di entrata e di spesa in partita semplice. È strumento autorizzativo, di definizione degli spazi in cui l’attività amministrativa può svolgersi; pone in secondo piano l’aspetto informativo; ma tali caratteristiche mal si conciliano con un contesto che dovrebbe tendere a privilegiare l’economicità della gestione e la sua implementazione.

La contabilità economico-patrimoniale, invece, registra i valori numerari e non, generati dallo scambio, in partita doppia.

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È strumento di osservazione e rappresentazione dei risultati gestionali, di de-terminazione del risultato economico d’esercizio e del patrimonio di funzionamen-to e ha come finalità principale quella di informare i terzi, a partire dal cittadino “cliente”81. In sostanza, la contabilità economica misura il valore delle risorse umane e strumentali (beni e servizi) utilizzate da una organizzazione (cioè i costi) e il valore dei beni e dei servizi prodotti o erogati (cioè i ricavi o proventi).

La contabilità finanziaria misura, invece, gli esborsi monetari sostenuti – o spese – e gli introiti monetari – entrate –. Fra la contabilità economica e quella finanziaria esistono altre due sostanziali differenze: temporali, perché l’esborso monetario può avvenire in un momento diverso da quello in cui le risorse vengono impiegate e strutturali, in quanto l’unità organizzativa, che impiega le risorse, può essere diversa da quella che sostiene il relativo esborso finanziario.

Sappiamo bene che la contabilità di tipo economico-patrimoniale non dà indica-zioni oggettive sulle performance delle aziende, nel senso che, a causa della continuità e dell’unitarietà della gestione aziendale, si rendono necessarie delle stime (elementi soggettivi) per misurare i valori inerenti operazioni ancora in corso di realizzazione.

Tanto più questa avvertenza vale per chi, come l’Ente locale, ha le caratteristiche di azienda di erogazione; tuttavia, altrettanto non si può non sottolineare che il bi-lancio economico consente di verificare se e come l’azienda riesce a sopravvivere con i propri mezzi82. Perciò, per quanto non imposto dalle norme – l’art. 229 del TUEL per l’eventuale compilazione di conti economici di dettaglio per servizi e costi si rimette all’autonomia degli enti – sarebbe consigliato che, in quella dimensione dia-lettica di cui si è detto, a livello locale, si cominciassero a produrre (e tanti lo stanno facendo) bilanci preventivi di tipo economico-patrimoniale articolati e puntuali, in contabilità generale, consentendo una sempre maggiore responsabilizzazione di chi indirizza e di chi gestisce risorse scarse, avendo come orizzonte il risultato di eserci-zio, prima che il pareggio finanziario.

In questo quadro di impostazione economica dei bilanci di previsione, acquisisce ancora più senso l’esigenza, già richiamata, che l’Ente locale assuma l’impegno a in-dirizzare, con ben più forza, le attività degli enti “partecipati”, tanto più se utilizzano risorse interne per fornire prestazioni in house.

In termini più espliciti, e fatti i dovuti distinguo, ipotizziamo che il bilancio (per la sua dimensione di portatore di informazioni, oltre che di strumento autorizzatorio

81 V. Arango, Dalla contabilità finanziaria alla contabilità economica negli enti locali, in «La finanza locale» n. 6, 1999.82 G. Farneti, Il controllo economico nell’ente locale, Rimini, Maggioli, 1992; R. Mele, P. Popoli, La gestione delle aziende pubbliche: principi e tecniche innovative, Rimini, Maggioli, 1994.

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della spesa) debba espandersi nella dimensione di bilancio consolidato, affermando così un modo di governare che assume il controllo di tutte le risorse dell’ente e, di conseguenza, almeno tendenzialmente, introduce elementi di governo e controllo, in grado di produrre migliori rendimenti del complesso delle risorse dell’ente.

Il bilancio di tipo economico-patrimoniale fornisce un indicatore di grande rilie-vo, cioè se e quanto la gestione di un determinato esercizio ha eroso o fatto crescere il patrimonio dell’azienda pubblica. Le informazioni, certamente rilevanti, del bi-lancio economico, come del resto di quello di natura finanziaria, forniscono esclusi-vamente notizie utili per un’osservazione esterna; cioè non dicono niente o dicono comunque poco dei fatti interni, dell’efficienza, della produttività e dell’economicità dei processi e delle operazioni, che avvengono dentro l’ente di riferimento.

Come abbiamo anticipato, neppure il profitto realizzato da un’azienda privata può essere indicato come esclusivo metro di efficienza.

Per sapere se l’azienda o l’ente hanno erogato servizi o prodotti, utilizzando gli input con razionalità economica, deve essere utilizzato un tipo specifico di conta-bilità, che viene definita analitica. Caratteristica di questa contabilità è quella di misurarsi con i costi, “la contabilità analitica […] consente, fra l’altro, di rispondere a un quesito sempre più pressante per tutte le amministrazioni pubbliche e vale a dire: “quanto costa?”. In altre parole, attraverso l’impiego di tale strumento contabile, è possibile determinare il valore delle risorse consumate in riferimento a diversi pos-sibili oggetti di costo […] per assumere decisioni coerenti”83.

Quando ci riferiamo ai costi, li intendiamo nelle loro diverse classificazioni, an-che se, per la pubblica amministrazione, merita di porre particolare attenzione ai costi variabili e fissi, nonché ai costi diretti e indiretti; quest’ultima tipologia, consi-derata la trasversalità di funzionamento dei diversi uffici, per quanto complessa da determinare, costituisce certo un costo da tenere in grande attenzione.

La caratteristica positiva della contabilità analitica sta nella sua capacità di rileva-re i costi (ma anche i ricavi) per unità economiche di riferimento (i cosiddetti centri di costo), così da misurare le performance di un reparto, settore o ufficio.

Per quanto riguarda le pubbliche amministrazioni, in sostanza, la contabilità ana-litica ha il vantaggio di ottenere una serie di informazioni utili a migliorare l’impiego delle risorse e a rendere il bilancio pubblico coerente con le nuove esigenze di un’azione amministrativa orientata all’efficienza; infatti, di per sé, la contabilità analitica è un ap-proccio sistematico alla rilevazione dei fenomeni aziendali e ha un inevitabile impatto sul comportamento delle organizzazioni oggetto della misurazione84.

83 Cfr. Mussari, Manuale operativo, cit., p. 288.84 G. Farneti, S. Pozzoli, Principi e sistemi contabili negli enti locali. Il panorama internaziona-le e le prospettive in Italia, Milano, FrancoAngeli, 2005.

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In sostanza, per gli Enti locali, la contabilità analitica: a) consente un costante e contestuale monitoraggio dei propri costi di gestione; b) permette un dialogo continuo fra indirizzo-gestione-controllo, ai fini delle valutazioni connesse alla programmazione finanziaria e alla predisposizione del bilancio di previsione e del PEG, agevolando inter-venti selettivi e mirati di riduzione dei costi e delle spese; c) si pone come riferimento per l’adozione di strumenti di rilevazione, verifica e controllo; d) fornisce elementi in-formativi per intervenire con modifiche sul funzionamento e sull’organizzazione degli enti. Naturalmente, pur avendone sottolineato il valore e le potenzialità, anche questo strumento deve essere maneggiato con equilibrio e competenza. Perciò due avvertenze: evitare di adottare quel sistema per accumulare informazioni dettagliate, dalle quali, poi, non scaturiscono azioni conseguenti; per quegli enti che dovessero iniziare a utilizzare quel tipo di contabilità, è consigliabile di selezionare i servizi e le prestazioni, su cui costruire dettagliati centri di costo, evitando una diffusione capillare tanto complessa, quanto, almeno all’inizio, difficile da gestire, se non addirittura controproducente.

4.4 Il Conto consuntivo come premessa per un bilancio credibile

La rendicontazione è un passaggio essenziale nella vita della pubblica ammini-strazione, “poiché è solo in questa particolare circostanza che è possibile verificare se e in quale misura sono stati conseguiti gli obiettivi che, in attuazione degli indirizzi politici, erano stati individuati nei documenti di programmazione e pianificazione”85. In questa definizione c’è tutto il senso del cosiddetto conto consuntivo.

Anche in questo caso, basterebbe affermare che la corretta gestione di quell’adem-pimento consente di dare pieno ed efficace corso al processo di valutazione di se e come la struttura organizzativa ha ben operato.

Prima di tutto, va evidenziato che la discussione sul conto consuntivo e i relativi allegati consente di dare concretezza e compiutezza a quello specifico bisogno di crescita della pubblica amministrazione, che abbiamo definito accountabiliy.

Quello che cittadini e operatori si aspettano, da parte degli amministratori pubblici, è una maggiore attenzione nella delicata fase della comprensione e di successiva valutazione dei risultati consuntivi prodottisi, durante la gestione, nel tentativo di portare ad attuazione e compimento le scelte dell’ente ovvero si richiede di comprendere meglio le relazioni causa-effetto, che legano il sistema delle decisioni e il momento attuativo, così da esprimere il proprio giudizio ver-so l’operato dell’amministrazione di riferimento86.

85 Cfr. Mussari, Economia dell’azienda pubblica, cit., p. 304.86 L. Mazzara, La relazione al rendiconto di gestione, in «Azienditalia», n. 8, 2005.

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Sarebbe un argomento di grande rilievo, ma potrebbe portarci fuori strada (e comunque lo riprenderemo parzialmente nell’ultimo capitolo); perciò basta ribadire l’esigenza di una rendicontazione che sia costruita sulla base di programmi chiari e misurabili, con specificati pochi, ma efficaci, indicatori dei risultati attesi, metten-doli in relazione con i riferimenti di altri servizi e/o enti, così da impostare efficaci azioni di benchmarking; anche se non vanno trascurati o sottovalutati gli indicatori e i parametri che già sono previsti dal legislatore e che, se ben letti e gestiti, consen-tono di avere indicazioni importanti, in relazione al funzionamento dell’ente, tanto più se i “lettori istituzionali” attivano raffronti con esperienze territoriali simili e/o con passati esercizi.

Proprio questi ultimi aspetti ci consentono di entrare in quello che è il punto di vista da cui, in questo discorrere, si intende guardare all’attività di rendicontazione.

Una corretta gestione di quel passaggio, di cui agli articoli 227 e seguenti del TUEL, sulla rendicontazione, permette di valutare e misurare quello che è stato fatto, ma consente, altresì, di fornire elementi propedeutici alla predisposizione del bilanci per l’esercizio dell’anno seguente a quando il consuntivo viene approvato; non va dimenticato, a tal proposito, che l’ordinamento contabile degli Enti locali prevede un bilancio a competenza cosiddetta “mista”, stabilendo che nel bilancio di previsione sia iscritto il risultato di amministrazione dell’anno precedente; la ragione di questa scelta del legislatore è proprio quella di mantenere uno stretto collegamen-to fra un esercizio e l’altro, consentendo al Consiglio Comunale di conoscere, in modo trasparente (e di poter controllare), come sono gestite le risorse e come e se sono stati realizzati gli obiettivi dichiarati.

Per questa ragione, nel seguente paragrafo, indichiamo la fase della discussione-approvazione del conto consuntivo come quella da cui prendono inizio i “tempi” del bilancio.

Invece, troppo spesso, anche questo appuntamento è gestito, con affanno, ap-prossimazione, con il solito spirito di adempiere a un passaggio burocratico, che, perciò, viene assolto, riempiendo i “soliti” stampati, con relazioni, atti e discussioni caratterizzate dalla logica del copia e incolla.

Al contrario, le Relazioni di rendicontazione dell’Organo esecutivo, dei Sindaci revisori e lo stesso elenco dei residui attivi e passivi dovrebbero costituire un insieme di informazioni di assoluto rilievo, per esprimere un primo (e autorevole) giudizio dell’organo consiliare su come l’esecutivo e la dirigenza hanno attuato i programmi, su quali sono le correzioni-integrazioni da apportare alle strategie e alle scelte per l’esercizio del nuovo anno. Conseguentemente, la fase della rendicontazione dovreb-be trovare una maggiore solennità nell’ente, ma anche nel rapporto fra amministra-tori e cittadini.

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Perciò è consigliabile (anche nella logica dell’accountability) prevedere, sempre e obbligatoriamente, che la discussione sul conto consuntivo avvenga dopo un ca-lendario di illustrazioni diffuse e aperte ai cittadini, alle associazioni, ai gruppi, che alimentano i diversi territori, anche quando non si voglia o possa arrivare a formule come il cosiddetto bilancio sociale87.

Fra i vari documenti, particolarmente curate e analitiche – come abbiamo ri-cordato – devono essere le Relazioni della Giunta come quella dei Sindaci Revisori.

La rendicontazione della Giunta deve fare espressamente riferimento alla Top-down, rapportando i risultati con le azioni e i progetti lì indicati, facendo uso dei pesi e degli indicatori previsti nella fase delle previsioni, indicando, altresì, le ragioni di eventuali risultati non raggiunti.

Anche in questo caso, non sarebbe male dare solennità ai due documenti, preve-dendo che discussione e approvazione avvengano sempre in sedute distinte, così da evitare il solito rischio delle approvazioni affrettate e tutte giocate sull’assolvimento di un obbligo burocratico rituale e poco significativo.

Nel concludere, va rammentato che la maggiore efficacia della rendicontazione è strettamente legata all’attivazione della contabilità economica, nonché, con le cau-tele indicate, anche di quella analitica; tenendo, comunque, come puntuale e priori-tario riferimento, il PEG che, anche quando mantiene un’impostazione finanziaria, con spese e non costi, tuttavia deve contenere obiettivi, risultati attesi, indicatori. Successivamente, con l’attività di controllo, si deve e può verificare quanto e come è stato speso e se sono stati raggiunti i risultati prefissati.

4.4.1 Controllo di gestione e rendicontazione: il “circuito” virtuoso

“La verifica dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità dell’azione ammini-strativa è svolta, rapportando le risorse acquisite e i costi dei servizi, ove possibile per unità di prodotto, con i dati risultanti dal rapporto annuale sui parametri gestionali dei servizi degli Enti locali di cui all’art. 228, comma 7”: se ce ne fosse ancora biso-gno, il citato articolo 197, comma 4, del TUEL documenta in modo significativo (anche se in apparenza marginale) il saldo (e opportuno) collegamento fra Controllo di gestione e le informazioni contenute nei documenti del conto consuntivo.

Ancora una volta, siamo a verificare come il funzionamento del circuito costrui-to attorno ai documenti di bilancio può produrre comportamenti virtuosi.

Ricapitolando: i dati della rendicontazione annua di ciascun Ente locale conflui-scono a livello centrale, dove può essere predisposto un vero e proprio primo nucleo

87 B. Siboni, Nuovi strumenti di reporting sociale. Principali contenuti e una proposta di bilan-cio sociale, inserto, in «Azienditalia», n. 10, 2004.

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di benchmarcking, i cui parametri possano già essere utilizzati da comuni e provin-ce per valutare le proprie performance e, eventualmente, apportare le conseguenti correzioni organizzative e gestionali. Anche in questo caso, pertanto, il Controllo di gestione – come parte del sistema dei controlli interni – si dimostra uno strumento flessibile e di assoluta rilevanza per un’amministrazione che voglia ragionare davvero con una logica aziendale.

Portando a sintesi quanto fin qui scritto, l’attività di controllo interna “deve interrelare, nell’ambito di un processo unitario o comunque integrato, le fasi di de-finizione degli obiettivi strategici e operativi, di formulazione dei programmi e pro-getti, di gestione dell’attività, di verifica del grado di realizzazione degli obiettivi e di attuazione dei programmi – interagendo, quindi, con il rendiconto di gestione [ndr] –, di analisi di eventuali scostamenti e di conseguente attivazione degli aggiustamen-ti necessari a riallineare i processi operativi agli obiettivi programmi predefiniti”88.

Così il Controllo di gestione, oltre a fornire costanti elementi di valutazione sull’andamento del funzionamento ordinario dell’ente, per le eventuali azioni cor-rettive (feedback)89, può costruire il raccordo fra rendicontazione e valutazione delle performance dei diversi servizi.

Perché quel prezioso lavoro di reporting, però, possa esprimere tutta la sua utilità si rende necessaria la costruzione di un PEG, che, eventualmente integrato dal piano dettagliato degli obiettivi, sappia individuare obiettivi chiari e misurabili.

D’altra parte, proprio la predisposizione del piano dettagliato degli obiettivi co-stituisce una delle fasi – e non è secondario neppure l’utilizzo di quella espressione – che l’art. 197, comma 2, individua come articolazione del Controllo di gestione.

Programmazione, gestione, verifica e, di nuovo, programmazione: questo è il circuito virtuoso, attorno a cui deve muoversi una pubblica amministrazione, che voglia davvero migliorare le proprie performance.

4.5 I “tempi” del bilancio

Se, come abbiamo cercato di dimostrare, il bilancio degli Enti locali consta di un insieme di documenti previsionali (e consuntivi), tra loro strettamente connessi e complementari, che vanno dalla top-down, passando per il bilancio annuale e trien-nale, arrivando al PEG e poi al conto consuntivo, ne deriva che la formazione del bi-lancio non può essere lasciata all’improvvisazione o svolgersi in maniera episodica, in un ambito ristretto, a volte estraneo agli amministratori (se non per la parte finale).

88 Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit., p. 51.89 A. Bruzzo, P. Morigi, Il controllo di gestione negli enti locali, Milano, FrancoAngeli, 1987.

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Al contrario, la formazione del bilancio deve dar luogo a un processo organizza-to, in una sequenza di fasi e di operazioni, guidato dagli organi di direzione politica dell’ente, e al quale partecipano attivamente tutti i protagonisti del bilancio.

A differenza di quanto avviene nei paesi anglosassoni, nei quali il processo di formazione del bilancio è accuratamente disciplinato, nella normativa e nella prassi degli Enti locali del nostro paese, questo aspetto non viene preso in particolare con-siderazione e l’attenzione è rivolta, sopratutto, al rispetto del termine ultimo stabi-lito dal legislatore per la deliberazione del bilancio medesimo da parte del consiglio.

Ne deriva che il progetto di bilancio viene spesso elaborato in maniera affrettata e approssimativa, ritoccando quello dell’anno precedente poco prima del termine per la deliberazione consiliare; la stessa approvazione è sistematicamente rinviata a primavera inoltrata, con tutte le prevedibili competenze per un bilancio di tipo autorizzatorio come quello locale.

La necessaria e proficua interrelazione tra i documenti, che compongono il bi-lancio (compresi i documenti di rendicontazione, di cui sopra), induce a seguire la linea di un processo integrato e contestuale di formazione degli atti previsionali. Perciò, nell’ambito di tale processo, sorge l’esigenza sia di interessare il livello poli-tico, per le scelte definitive, sia di coinvolgere i dirigenti o i responsabili dei servizi, ai quali sono affidati, attraverso il PEG, compiti di attuazione. In questo senso, si deve parlare di una vera e propria sessione di bilancio, che deve intendersi come un processo di più tappe e dai tempi scanditi, senza rinunciare a quella gerarchia di approfondimenti e priorità, che fin qui abbiamo indicato.

Intanto, un corretto processo di formazione del bilancio deve partire dalla fis-sazione di linee guida relative alla politica delle entrate e delle spese, che l’organo di governo è opportuno tracci tempestivamente, nell’ambito della sua funzione di indi-rizzo. Poi seguirà la fase di elaborazione, a livello tecnico, delle proposte di bilancio, formulate partendo dalla programmazione triennale e dalle eventuali integrazioni o modifiche individuate dall’organo politico.

Ovviamente dentro questa fase devono intendersi ricomprese tutte le verifiche sulle entrate, sulle uscite, sul piano triennale delle opere, sulle politiche tariffarie, sui tassi di copertura dei costi dei servizi a domanda individuale, compresa l’impostazio-ne degli altri allegati previsti a corredo del bilancio.

Nella logica dell’accountability, inoltre, deve essere organizzata una fase di con-fronto, non solo formale, con le associazioni, le forze sociali e produttive e con gli altri soggetti della partecipazione.

Naturalmente il bilancio, come processo organizzato in una sequenza logica di operazioni, non si esaurisce nel momento della sua formazione e approvazione, ma continua attraverso la preparazione degli eventuali provvedimenti di variazione; si

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aggiunga, almeno una volta l’anno, entro il 30 settembre, la prevista ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi e sul permanere degli equilibri di bilancio, anche sulla base del rendiconto dell’esercizio precedente, nel frattempo approvato (con le eventuali conseguenze sul risultato di amministrazione iscritto a preventivo).

Il processo prosegue con l’assestamento generale, da effettuare entro il 30 no-vembre; fase che sarebbe meglio anticipare, consentendo così di concentrare le risor-se sugli interventi la cui spesa si presenta più dinamica, prevenendo la formazione di eventuali economie. Le opzioni politiche emergenti in questa fase possono trovare, inoltre, soluzioni alternative, nel contesto del bilancio relativo all’esercizio successi-vo, il cui processo di formazione, nel frattempo, dovrebbe essere avviato.

Insomma, quando parliamo di tempi del bilancio, intendiamo affermare che il sistema, per funzionare, non può conoscere interruzioni ovvero non può operare efficacemente, se ogni parte non è connessa in modo costante: dal rendiconto alla formazione del nuovo bilancio, la “macchina” dell’Ente locale, per ben funzionare, non può conoscere interruzioni o, meglio, disconnessioni.

In sostanza, a riepilogo di quanto affermato, possiamo ipotizzare che la forma-zione del bilancio si dovrebbe articolare in “tempi”, di seguito sintetizzati.

Mesi giugno-luglioSulla base anche delle valutazioni contenuti negli atti di rendicontazione del

precedente esercizio (approvati entro il 30 giugno), il Consiglio delibera, su proposta della Giunta, un atto di indirizzo con indicate le linee-guida, cui deve uniformarsi il progetto di bilancio preventivo dell’anno successivo. Conseguentemente, la dirigen-za (se c’è il direttore generale, altrimenti il coordinamento dei dirigenti o responsabi-li) elabora le proposte (in bozza) relative ai diversi documenti: top-down (per le parti più tecniche), bilancio annuale e pluriennale, piano delle opere, PEG.

Mesi agosto-settembreI dirigenti o responsabili dei servizi formulano le prime proposte di bilancio per

le loro specifiche competenze, dandone informazione preventiva, eventualmente, agli assessori competenti in materia.

Le proposte di spesa come di entrata, naturalmente, devono essere costantemen-te verificate con il servizio finanziario, che costituisce, di fatto, il punto di riferimen-to e rielaborazione contabile delle ipotesi formulate.

In questa fase, devono trasmettere le loro proposte di bilancio anche eventuali aziende speciali o comunque che vedano l’ente impegnato finanziariamente.

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Mesi ottobre-novembreLa giunta esamina, discute e definisce il progetto di top-down, di bilancio plu-

riennale e annuale. Vengono acquisiti eventuali pareri ovvero attivate forme di con-fronto con i diversi soggetti sociali e politici interessati.

Mese dicembreIl sindaco o presidente della provincia trasmettono copia dei documenti di bi-

lancio all’organo di revisione.Contemporaneamente, viene convocato il Consiglio, previa fissazione dei tempi

di discussione generale e per la votazione finale, fermo restando che la Top-down e il bilancio pluriennale sarebbe utile fossero discussi (e approvati, almeno “politica-mente”) in specifica seduta, da tenersi prima dell’approvazione del bilancio annuale, per le ragioni già illustrate nei precedenti paragrafi.

I provvedimenti di bilancio, comunque, devono essere sempre approvati entro il 31 dicembre, anche nel caso (assai frequente) che non ci siano certezze sui trasfe-rimenti statali. Se del caso, si opererà con una variazione, ma è salubre che gli uffici abbiano la certezza sui tempi di disponibilità delle risorse e, soprattutto, sugli obiet-tivi, per i quali (come vedremo) dirigenti e dipendenti saranno o dovranno essere valutati a fine esercizio.

Un’annotazione finale: per dare solennità e forza ai tempi del bilancio, per le ra-gioni già ampiamente esposte, gli enti dovrebbero renderli cogenti, inserendoli come tassativi nei regolamenti di contabilità. Addirittura, vista la rilevanza strategica, or-mai assunta dagli aspetti economici e finanziari, c’è da chiedersi se, almeno l’esigenza di una “sessione” di bilancio, non sia da inserire anche negli statuti degli enti.

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5. La gestione del PEG

5.1 Alcune considerazioni sul senso e il ruolo del Piano Dettagliato degli Obiettivi

Gli articoli 108, comma 1 e 197, comma 2, lett. a) del TUEL prevedono la pos-sibilità che il Piano Esecutivo di Gestione sia integrato dal Piano Dettagliato degli Obiettivi (altrimenti definito PDO).

È importante sottolineare che detto strumento operativo dovrebbe essere predi-sposto – quando è nominato – dal direttore generale.

Quindi, si tratta di una sorta di specificazione operativa e, appunto, “dettagliata” di quali sono gli specifici risultati che devono essere raggiunti per considerare con-seguiti pienamente gli obiettivi del PEG. In termini più chiari possiamo affermare che il Piano Esecutivo di Gestione indica dei macro-obiettivi strettamente legati al bilancio e, soprattutto, alla Relazione previsionale e programmatica, mentre il Piano Dettagliato degli Obiettivi individua i micro-obiettivi ovvero l’insieme di singole azioni, che i servizi devono mettere in campo per dare gambe al PEG.

Un problema che, di certo, si pone è quello del rapporto fra i due Piani; sostan-zialmente, dal punto di vista della teoria e della pratica, si cimentano due approcci assai diversi.

Da una parte, alcuni enti locali tengono separati i due provvedimenti, preveden-do appunto due distinti soggetti che li approvano: la Giunta approva il PEG, mentre il direttore generale approva il Piano Dettagliato degli Obiettivi; dove non c’è un Di-rettore può essere la Conferenza dei dirigenti a concordarlo e poi renderlo operativo. Dall’altra parte, ci sono enti che inglobano il PDO, dentro un PEG particolarmente analitico, che è approvato dal solo organo esecutivo.

“In relazione alle esigenze informative, organizzative e gestionali dell’ente, il Pia-no degli obiettivi, contenuti nel PEG, può essere spinto a un livello di analiticità, tanto da costituire un vero e proprio Piano dettagliato anche ai fini del Controllo di gestione”90. In caso contrario, si può ipotizzare la “predisposizione di un Piano dettagliato degli obiettivi (PDO), che potrebbe coincidere con la parte obiettivi del PEG qualora si volesse optare per una gestione integrata dei due strumenti” 91.

Non diversa l’impostazione e le valutazioni di altri studi, che evidenziano come: “tra le molte impostazioni possibili, le più diffuse considerano: l’una il PDO come documento di programmazione di carattere prevalentemente operativo e il PEG come un documento di programmazione di carattere prevalentemente finanziario; l’altra il

90 Foschi, Morri, op. cit., p. 53.91 Ivi, p. 51.

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PEG come un documento completo di programmazione operativa e finanziaria e il PDO come un indice analitico per gli obiettivi, integrale o selezionato, del PEG. Tra le impostazioni, la seconda, che tende all’unificazione dei due documenti, appare più semplice e funzionale”92. In sostanza, non esiste una regola generale che disciplini il rapporto tra PEG e PDO, “e anche nei comuni in cui è presente la figura del direttore generale, il PDO può semplicemente coincidere con la parte descrittiva del PEG”93.

Le due modalità di gestione del PDO non sono senza conseguenze. Legare i due piani, con l’unica approvazione della Giunta, di sicuro semplifica

la procedura, ma, di fatto,costruisce una “rigidità operativa”, perché ogni modifica del PDO deve tornare all’organo che lo ha approvato; trattandosi di un piano di dettaglio è evidente che il problema delle variazioni si pone spesso.

L’approvazione distinta, di contro, se rende più agevole la gestione degli obiettivi e di eventuali modifiche, può creare problemi di comunicazione fra i due piani, ma, in primo luogo, prevede un evidente appesantimento procedurale.

La proposta più oculata sembra quella di non sposare aprioristicamente uno dei due procedimenti; rinviando alla valutazione specifica di ogni singola realtà.

Per inciso: il legislatore ha lasciato agli enti locali ampi margini di autonomia, specialmente nella gestione e nella contabilità degli enti locali, che, troppe volte, è vissuta come un problema, ricercando uniformità operative non sempre rispettose delle peculiarità degli enti, di cui invece una classe dirigente attenta deve sapere leggere differenze e potenzialità. Perciò, anche nel caso del PDO, si suggerisce di scegliere la soluzione operativa più consona al contesto.

Di larga massima, si ritiene che l’approvazione separata dei due piani sia utile dove ci sono enti locali particolarmente estesi e organizzativamente complessi, pre-feribilmente quando è nominato un direttore generale.

Per gli enti minori (che poi sono la grande maggioranza) sono consigliabili so-luzioni che vedano PEG e PDO congiunti, prevedendo però che, negli atti di ap-provazione, siano presenti norme che consentano margini di flessibilità, tali da non costringere a tornare in Giunta a ogni modifica del PDO ovvero dei singoli obiet-tivi: si possono, per esempio, indicare limiti massimi di spesa, entro cui il dirigente può operare redistribuzioni o correzioni in autonomia ovvero si possono aggregare gruppi di micro-obiettivi, anche trasversali, su cui i dirigenti operino con flessibilità, tutt’al più prevedendo forme di comunicazione e informazione all’organo politico.

Un altro aspetto importante del PDO consiste nel fatto che l’art. 197, comma 2, lett. a), del TUEL 267/2000 stabilisce che sia il Controllo di gestione a contribuire nella definizione degli obiettivi.

92 Cfr. Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit., p. 91.93 Foschi, Morri, op. cit., p. 53.

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Questo aspetto, oltre a ribadire la strategicità del Controllo di gestione, viene a confermare in pieno quanto forte, e necessaria, sia la connessione (la circolarità) fra programmazione e controllo, in sintonia con un approccio efficacemente aziendale, perché coniuga le informazioni acquisite, controllando, con le scelte programma-tiche (intese dal punto di vista del dirigente che indirizza e programma l’attività, secondo gli obiettivi dell’amministrazione), organizzative e gestionali.

Conseguentemente la modalità di lavoro, nonché le competenze, del Controllo di gestione acquisiscono una responsabilità aggiuntiva, di cui deve essere tenuto conto nell’utilizzo di quello strumento operativo94.

5.2 Come arrivare al PEG

In verità, questo paragrafo, in gran parte, lo si può considerare impostato sulla base dei ragionamenti e dagli approfondimenti, che si sono effettuati nelle pagine fin qui scritte.

In altri termini, quello che abbiamo detto ed evidenziato, fino a questo mo-mento, altro non è che il modo per arrivare alla definizione del Piano Esecutivo di Gestione, partendo dal ribadirne le sostanziali caratteristiche: “è uno strumento che guida la relazione tra organo esecutivo e responsabili dei servizi ed è finalizzato alla definizione degli obiettivi di gestione e all’assegnazione delle risorse necessarie”95.

Per arrivare al Piano Esecutivo di Gestione, pertanto, deve essere percorsa, con grande attenzione e competenza, tutta quella strada fin qui tracciata e che, addirittura, trova o sempre deve trovare le sue ragioni di fondo nel “programma di mandato”, pro-iettandolo, allo stesso tempo, nella dimensione del controllo-misurazione delle perfor-mance dei diversi servizi e uffici; controllo-misurazione, che costituisce il presupposto indispensabile per incentivare e premiare la corretta attuazione dei programmi e dei correlati obiettivi, da parte dei dirigenti e dell’intera struttura organizzativa.

Insomma, un PEG che si colloca esattamente al centro di almeno tre dimensioni: • la programmazione (pianificazione);• l’attuazione (organizzazione-gestione);• il controllo.

In letteratura scientifica e specialistica le suddette tre dimensioni sono indicate anche come subsistemi del management96.

94 M. Bellesia, Il controllo di gestione ed il sistema informativo contabile, Gorle, CEL, 2001.95 R. Simonazzi, Nuovi bilanci per gli enti locali, in «ItaliaOggi», Milano, 2 gennaio 2009.96 Cfr. Marchi, op. cit.

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Il grafico seguente evidenzia, con efficacia, che cosa significhi ovvero che cosa si intenda per centralità del Piano Esecutivo di Gestione, nel più complesso sistema di funzionamento della pubblica amministrazione.

Un passaggio irrinunciabile nell’arrivare al PEG si configura nell’esigenza della “negoziazione”. Più esplicitamente, alla definizione dei contenuti gestionali non si può non arrivare, se non attraverso un “negoziato” ovvero una fase di confronto, fra dirigenti e politici; un confronto che deve partire già dalla fase di definizione del bilancio, ma che, nella stesura del PEG, costituisce condizione perché lo stesso sia credibile.

Dentro i “tempi”, che abbiamo indicati necessari per una disciplinata costru-zione dei documenti di bilancio, il PEG deve avere un suo spazio, fatto proprio di confronto e mediazione con il soggetto economico, titolare dell’indirizzo.

Spesso questa negoziazione avviene, sulla base di compromessi, che tentano di rinviare i problemi e di ignorare i limiti di compatibilità, sperando poi nella prima manovra utile di bilancio (l’immancabile variazione), che, in qualche modo, va a diluire impegni e obiettivi, producendo la solita notte nera dai gatti bigi.

Proprio per evitare questo rischio di “compromesso al rinvio”, occorre che il PEG sia adeguatamente integrato con indicatori, che diano ben conto dei rapporti, delle relazioni fra le diverse grandezze oggetto dell’approvazione.

Rendiamo più chiaro il ragionamento fin qui svolto, formulando un esempio: se al servizio manutenzione, per un determinato esercizio, viene previsto un deter-minato budget di risorse umane e finanziarie per intervenire sulle strade, per cui il rapporto fra dipendenti/km mantenuti è pari a 1/20, mentre il rapporto fra spesa e quantità mantenuta è pari a euro 100/0,15 km, non è giustificabile poi che, a metà

Programmazione

attuazione controllo

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anno, una variante di bilancio potenzi le risorse a indicatori invariati, a meno che non si documenti che l’obiettivo iniziale di PEG era sbagliato.

Nella sostanza, l’esempio non ha fatto che dare conferma di quale sia la diffe-renza fra un PEG come vero e proprio budget, che guida efficacemente l’azione gestionale97, e un PEG ridotto a semplice passaggio formale.

Proprio una negoziazione chiara, e trasparente, può far arrivare il Piano Esecu-tivo di Gestione alla condizione di strumento di governo operativo e non di adem-pimento burocratico, a cui si può sostituire un foglio con un altro, senza che niente cambi.

5.3 Caratteristiche di un PEG “incisivo”

Un PEG “incisivo”, pertanto, deve prodursi come punto di arrivo di un’intensa e ragionata negoziazione fra amministratori e dirigenza; ma non basta.

Altra caratteristica del PEG (come del resto di ogni budget) deve essere l’auto-nomia, nel senso che ciascun dirigente deve essere lasciato sufficientemente libero di agire per raggiungere gli obiettivi negoziati, pena la perdita di qualsiasi responsabilità e dell’essenza stessa di quello strumento.

Proprio per garantire l’autonomia più ampia, il PEG deve essere costruito, pre-stando grande attenzione alla costruzione di centri di responsabilità (lo vedremo meglio nel seguente paragrafo), strettamente legati agli obiettivi di bilancio e, allo stesso tempo, a una coerente struttura organizzativa; in questo modo il dirigente responsabile si garantisce significativi margini di manovra nell’utilizzo delle risorse disponibili.

Per le ragioni già esposte, perché il PEG abbia le piene caratteristiche di un budget sarebbe necessario che fosse costruito sulla base delle contabilità economica e analitica. In questo modo l’indicatore di risultato più rilevante potrebbe essere un vero e proprio risultato di esercizio identificato in via preventiva, insieme poi agli indicatori più di dettaglio, per i singoli obiettivi. Questa impostazione, ovviamente, avrebbe bisogno di un bilancio di natura economico-patrimoniale, articolando il PEG in Centri di responsabilità, Centri di costo, ma anche Centri di ricavo o addi-rittura di “profitto”.

Ciò che, comunque, sarebbe utile evitare è un’eccessiva enfasi sulla contabilità economica, che pure ha una sua dimostrata utilità,perché occorre avere una duplice consapevolezza: a) anche un bilancio di natura economica, quando è di previsione, sconta i margini di incertezza che caratterizzano ogni proiezione nel futuro: “il bi-

97 AA.VV., Delibera di PEG - un modello vincente, in «Guida agli Enti Locali», n. 46, 2004.

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lancio ha carattere storico e probabilistico insieme […], il “preventivo”, al contrario, non è altro che un’indagine probabilistica”98; b) per ragioni che abbiamo evidenziato più volte, nella pubblica amministrazione, è assolutamente difficile definire gran-dezze corrispondenti a quelle che, in azienda, sono definite ricavi. Perciò, realistica-mente, dobbiamo sapere che anche il PEG dovrà vedere intrecciati elementi tipici di contabilità finanziaria con elementi di contabilità economica; anche per questo, sviluppare la contabilità analitica può aiutare a trovare sintesi sempre più avanzate, perché sempre più vicine a definire, con puntualità, le condizioni per utilizzare con maggiore razionalità le scarse risorse.

Comunque, rimane fermo che recenti proposte di revisione dei principi contabili del 2003, formulati dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità, operante presso il Ministero dell’interno, ipotizzano un PEG ampliato e rafforzato, che “viene redat-to per competenza e ha previsioni economico-patrimoniali, contenuti programma-tico-contabili e a carattere autorizzatorio e infine possiede rilevanza organizzativa, attraverso il collegamento tra la struttura dell’ente e l’individuazione dei responsabili di centro”99. Se a queste modifiche si aggiunge il richiamo a un sistema di bilancio che deve porsi, fra gli altri, l’obiettivo della sostenibilità economico-finanziaria delle scelte, gli Enti locali sempre più dovranno ragionare su PEG coerenti, che siano veri e propri budget operativi, in grado di individuare l’articolazione delle responsabilità complessive dell’azienda in più aree di responsabilità di risultato, anche per favorire un allentamento di forme di irrigidimento organizzativo, che finiscono con il pro-durre sprechi e onerose complessità.

Nell’ambito di un bilancio costruito, nei tempi e nei termini già delineati, un PEG incisivo deve avere alcune altre caratteristiche:• chiara individuazione dei centri di responsabilità, attraverso il collegamento fra

PEG e modello organizzativo (con sviluppo almeno in centri di costo);• individuazione degli obiettivi di gestione da affidare ai dirigenti, collegandoli

agli obiettivi strategici stabiliti nei documenti di programmazione (programma di mandato, piano generale di sviluppo, programma triennale delle opere pub-bliche, Relazione previsionale e programmatica);

• collegamento degli obiettivi a indicatori dei risultati attesi.

Già in sede di consuntivo, abbiamo fatto riferimento al termine “indicatore”, per cui merita fare qualche considerazione aggiuntiva. Prima di tutto, vanno di-stinti gli indicatori del PEG da quelli del Piano dettagliato degli obiettivi, nel caso quest’ultimo sia approvato in modo distinto. I primi richiamano la performance

98 E. Giannessi, Appunti di economia aziendale, Pisa, Pacini, 1979, pp. 474-475.99 Simonazzi, op. cit.

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della struttura rispetto ai risultati attesi dalla Giunta Comunale, anche per le va-lutazioni dirigenziali. I secondi servono internamente alla direzione generale per intervenire e correggere, strada facendo, sull’attività gestionale e anche per avere informazioni, che consentano di valutare e comparare diverse modalità di utilizzo e combinazione dei fattori produttivi, anche in caso di conseguimento pieno degli obiettivi programmati.

Nella costruzione del PEG, oltre a definire obiettivi misurabili, lo sforzo sta nello:• stabilire indicatori di risultato chiari e non in numero pletorico (un paio o tre si

ritengono sufficienti per ciascun obiettivo);• porre attenzione a ricercare una motivata coerenza tra obiettivi e risorse uma-

ne, strumentali e finanziarie assegnate (come frutto appunto della preventiva negoziazione)100;

• contenere indicazioni e direttive della Giunta comunale chiare e puntuali, evi-tando cioè obiettivi sfuocati e ambigui, per i quali la misurazione del raggiungi-mento diventa oggetto di mediazioni o compromessi più o meno apprezzabili;

• evitare di costruire un piano che vada a ridursi a un elenco di capitoli, con indi-cate le risorse, ma senza puntuale specificazione degli obiettivi;

• prevedere (anche nell’atto deliberativo) verifiche almeno trimestrali, e formali, sullo stato di attuazione degli obiettivi, così da impostare in modo trasparente eventuali modifiche o correzioni;

• articolare gli strumenti gestionali, in modo che ai dirigenti sia garantito un sufficiente grado di libertà per assumere decisioni rapide su temi o problemi imprevisti. È illusorio pensare di pre-figurare, nel bilancio e nel PEG, tutta la gestione dell’anno, se solo si pone mente a quanti e quali siano, per un Ente locale, i fenomeni ambientali e sociali, che richiedono un costante adattamen-to dei programmi precedentemente impostati. Se tale libertà viene a mancare, peraltro, la conseguenza è che ai dirigenti si affida non tanto la responsabilità su determinati obiettivi, quanto piuttosto una responsabilità sull’esecuzione di singoli compiti e, dunque, essi sono indotti a incorporare, come criterio guida per la propria azione, la conformità alle previsioni piuttosto che il perseguimen-to dei risultati. Più esplicitamente, il PEG deve essere strumento di semplifica-zione amministrativa e non l’inverso;

• disegnare un sistema coerente di obiettivi, che tenga conto del fatto che, soprat-tutto nell’Ente locale, gli schemi organizzativi e di lavoro sono caratterizzati da frequenti e significative interazioni, sicché difficilmente il buon funzionamento di un’unità operativa, di un ufficio e la produzione di servizi finali adeguati

100 C. Carbone, I pilastri del PEG, tra competenze ed obiettivi, in «Guida agli Enti Locali», n. 45, 2004.

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alle esigenze della popolazione può dipendere esclusivamente dalle capacità e dall’impegno di una singola unità organizzativa. Il PEG, pertanto, dovrà sup-portare il diffondersi di un’adeguata attenzione ai rapporti di collaborazione tra i servizi e alla comprensione del significato dell’espressione “cliente interno”;

• assegnare il Piano Esecutivo di Gestione, entro il 31 dicembre, chiarendo che l’approvazione in tempi diversi, ovvero più avanzati nell’anno di riferimento, comporta automatiche riduzioni nell’incidenza e nei pesi degli obiettivi.

In relazione all’articolazione e alla struttura del PEG, si ritengono necessari un paio di suggerimenti aggiuntivi. Per la parte della spesa di dettaglio, il numero dei capitoli di spesa sarebbe opportuno fosse mantenuto al minimo, identificandone non più di due o tre per intervento. Infatti, all’aumentare del numero dei capitoli si accresce anche la rigidità della gestione, avendo il PEG anche valore autorizzatorio, per cui a ogni variazione bisogna ricorrere a provvedimenti di Giunta, con le pre-vedibili conseguenze in termini di tempi operativi. Come meglio vedremo, non è consigliabile utilizzare il PEG ai fini di osservazione della gestione, se non si attivano sistemi di contabilità per centri di costo, opportunamente dettagliati, semplificando la fase di acquisto di beni e servizi.

Questo insieme di caratteristiche del piano, in verità, a ben vedere – ma era l’esi-to che si voleva raggiungere – altro non è che la ricapitolazione dei punti essenziali del percorso, che abbiamo fin qui svolto proprio per indicare come arrivare a una pianificazione operativa efficiente e “incisiva”.

Per gli enti locali, come per tutte le pubbliche amministrazioni, rimane difficile definire se e quanto si è stati efficienti, efficaci ed economici, mancando quello stra-ordinario strumento di misurazione costituito dal “mercato”.

Per questa ragione diventa fondamentale l’utilizzo dei cosiddetti “indicatori”.Quel termine, d’altra parte, anche in questa trattazione si ripete con frequenza,

per cui è opportuno tentarne una definizione che sia chiara, almeno dal nostro pun-to di osservazione. Tra le definizioni più semplici e più efficaci, ancorché modulata per altri contesti, si ricorda: “non si può gestire ciò che non si può misurare. Il successo delle politiche integrate attuali e future si può giudicare solo individuando gli indicatori chiave che possono essere registrati e paragonati a obiettivi politici concreti”101. Più specifica è la definizione dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development), peraltro molto utilizzata negli enti pubblici con compiti di controllo dell’ambiente, che afferma come”gli indicatori dovrebbero

101 D. Jemenez-Beltran, Premessa a “Stiamo andando nella direzione giusta?. Indicatori relativi all’integrazione delle politiche dei trasporti e dell’ambiente dell’Ue”. Transport and enviroment reporting mechanism. TERM 2000, Sintesi, Copenaghen, EEA.

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essere dunque considerati al pari di uno strumento in grado di fornire la miglio-re conoscenza disponibile […] L’indicatore è un parametro, o un valore derivato da parametri, che indica/fornisce, informazioni sullo stato di un fenomeno/ambito/area con un significato che va oltre ciò che è direttamente associato al valore del parametro”102.

In termini più direttamente pertinenti al nostro ragionare, si evidenzia che “il com-pito specifico e importante che, dunque, assegniamo al sistema degli indicatori è quel-lo di ricreare forme di competizione, finalizzate a dar conto dell’efficacia gestionale e, contemporaneamente, suscettibili di essere utilizzati ai fini di controllo gestionale”103.

Perché gli indicatori siano in grado di dar conto dell’efficienza è assolutamente necessario andare a implementare una contabilità di tipo economico, cioè capace di verificare i costi dei servizi e delle prestazioni, creando un insieme di rilevazioni e raffronti (interni ed esterni), nell’obiettivo di verificare se e quanto le scarse risorse disponibili sono state utilizzate in modo razionale.

Ovviamente, anche in pendenza di una contabilità economico-analitica, non devono essere trascurati i positivi effetti di un’attenta utilizzazione di parametri e indicatori che già sono disponibili, come i cosiddetti parametri gestionali ovvero gli stessi indicatori finanziari, da allegare al conto consuntivo e, in generale, all’attività annuale di rendicontazione.

5.4 Centro di responsabilità e Centro di costo

Abbiamo indicato come necessari per un PEG “incisivo” l’individuazione di obiettivi che si colleghino a precisi Centri di responsabilità.

Inoltre, si prevede un ulteriore articolazione in Centri di costo. Le considerazioni fin qui svolte consentono di procedere in modo sintetico nell’affrontare questi due argomenti, anche se, comunque, si rende necessario un ulteriore approfondimento.

Di fatto, allo stato dei fatti, al PEG è affidata una funzione ibrida, con la presenza”da un lato, di una prospettiva contabile finanziaria, connessa al processo che delega al dirigente l’impegno e la gestione delle risorse finanziarie, dall’altro, di una prospettiva manageriale e contabile di tipo economico che si concentra su responsabilità “d’impiego” ovvero sull’utilizzo effettivo e concreto delle risorse nella gestione e sui risultati che ne derivano”104.

102 OECD core set of indicators for environmental performance review, in «Enviroment Mono-graphs» n. 83, 1993.103 Farneti, Gestione e contabilità dell’Ente locale, cit., p. 384.104 Mussari, Manuale operativo, cit., p. 115.

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Questa dicotomia ha portato alla conseguenza che, in alcune realtà, il PEG è stato scisso in due documenti, uno strettamente finanziario, l’altro vero e proprio budget o, in alternativa, si è distinto fra chi acquisisce le risorse e chi le utilizza. Chi scrive ribadisce che sarebbe contro-natura ipotizzare strumenti standardizzati; ogni realtà locale deve operare, secondo le proprie peculiarità organizzative e gestionali, fermo restando l’obiettivo di un uso razionale delle risorse.

D’altra parte, crediamo che si possa ragionare (e lo specificheremo in seguito), facendo una sintesi virtuosa fra queste diverse e comprensibili sottolineature; per esempio: si può pensare a un PEG finanziario, che, però, contenga un budget di tipo economico come obiettivo in sé; ovvero indicando le risorse previste in entrata, con una specifica percentuale a disposizione direttamente del responsabile, che, quindi, non può non farsi parte attiva nel curare anche la fase di acquisizione, per la parte che gli compete.

Dopo queste premesse, torniamo ai due “anelli” contabili e organizzativi del PEG. Il Centro di responsabilità deve intendersi come l’articolazione organizzativa responsabile di uno o più obiettivi, caratterizzati da una certa omogeneità, cioè at-torno ai quali si può costruire una organizzazione coerente e funzionale, anche in relazione agli altri obiettivi. Il responsabile del Centro di responsabilità deve essere o il dirigente o il responsabile funzionario, dove ci sia specifica delega.

La puntuale identificazione fra dirigente/funzionario responsabile e Centro di responsabilità ha caratteristiche di funzionalità operativa, ma serve anche, di con-seguenza, a una fase di misurazione e valutazione delle performance più precisa e mirata.

Non è escluso, anzi sempre più può diventare la norma, che a singoli responsa-bili facciano riferimento più Centri di responsabilità, così come si pone con sempre maggiore frequenza, tanto più sono complessi i problemi, la necessità di costituire Centri di responsabilità trasversali, cioè che attraversano e coinvolgono più strutture organizzative.

A tal proposito, va ricordato che il PEG, nella sua annualità, fra i suoi contenuti, contiene la definizione delle risorse finanziarie, ma anche umane, da mettere a di-sposizione dei diversi servizi. Ne discende (ma il condizionale sarebbe d’obbligo) che la struttura organizzativa dovrebbe avere una flessibilità tale, da adeguarsi, di anno in anno, alle diverse esigenze di governo. In questo senso, il Centro di responsabilità può (a nostro parere deve) avere implicazioni organizzative.

Va anche evidenziato che la “trasversalità”, per quanto organizzativamente diffi-cile da gestire, anche in termini poi di misurazione dei risultati e delle responsabilità, può consentire quel comune sentire, che certamente è caratteristica positiva di qual-siasi organizzazione. D’altra parte, a quel “problema” organizzativo certamente può

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dare soluzioni ovvero ne può contenere gli effetti negativi una figura come quella direttore generale, che, fra i suoi compiti, deve tenersi anche quello di gestire le ne-cessarie (e fisiologiche) tensioni e frizioni fra servizi diversi.

Quello che appare sconsigliabile è definire organizzativamente, una volta per tutte, la “trasversalità”, perché gli obiettivi, altrimenti, rischiano di essere prodotto delle esigenze organizzative e non viceversa; così come vale la regola che la defini-zione di una chiara responsabilità costituisce già un buon risultato organizzativo; in altri termini, le soluzioni organizzative “leggere”, sfumate nei ruoli, richiamandosi a collegialità operose, rischiano di mancare il risultato, confondendo la necessaria flessibilità con la (improduttiva) evanescenza organizzativa.

D’altronde, la complessità dei problemi da affrontare richiama sempre più l’esi-genza di attivare sinergie fra competenze diverse; a questo si aggiunga la fisiologica trasversalità di tante attività dell’Ente locale, per cui la probabilità di Centri di re-sponsabilità trasversali è nelle regole; anzi, per molti obiettivi, appare funzionale: basti, per esempio, la predisposizione degli atti di pianificazione programmazione strategica.

Il Centro di responsabilità trasversale, naturalmente, dovrà essere costruito con obiettivi ben articolati in azioni e micro-azioni, adeguatamente “pesate”, in relazione alle diverse competenze: stando sempre all’esempio sulla pianificazione strategica, la stesura del “piano generale di sviluppo”, a prescindere dal Centro di responsabilità, richiama una serie distinta di azioni e micro-obiettivi (piani di settore, iniziative di confronto, tavoli di lavoro, indagini ecc.), per cui la individuazione del dirigente re-sponsabile non esclude l’esigenza del coinvolgimento di competenze e funzioni, che operano in servizi e Centri di responsabilità diversi, sotto altri dirigenti o funzionari.

Le diverse “azioni” previste per raggiungere l’obiettivo strategico del piano ge-nerale di sviluppo, quindi, dovranno essere definite e “pesate”, in modo che le ne-gligenze o i ritardi di un servizio non vadano a gravare sull’altro, quando si andrà a valutare lo stato dei progetti e i risultati correlati.

Invece, sappiamo che il “centro di costo”, quale strumento della contabilità ana-litica, consente di misurare il costo di realizzazione di un determinato prodotto o di una determinata prestazione. Non si può ipotizzare, cioè, che la gestione sia più o meno produttiva o efficiente, se non si sono davvero misurati i costi per acquisire e combinare i diversi fattori produttivi: queste valutazioni può consentirle l’aggrega-zione della spesa in aggregati di spesa, che altro non sono se non unità elementari riferite a singoli oggetti di costo, che forniscono al management informazioni utili per assumere decisioni organizzative razionali.

Va, comunque, sempre ricordato che il legislatore non ha introdotto, per gli enti locali, uno specifico modello di contabilità, pur indirizzando verso una contabilità

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economica e richiamando il fatto che al Controllo di gestione (art. 197 del TUEL) è riservato anche il compito di rilevare i “dati relativi ai costi e ai proventi”. Imple-mentare la contabilità analitica, perciò, si rende assolutamente necessario per avere tutte le informazioni utili a definire le scelte organizzative più efficienti e produttive.

In questo quadro, il Centro di costo ha una funzione peculiare e utile, così come la possono avere anche centri di provento e, addirittura, di profitto, che, in alcune amministrazione pubbliche, si cominciano a costituire.

A proposito dei “centri di profitto”, va sottolineato che sono tentativi pratici di affinamento dell’azione amministrativa in termini economici, costruendo un “quasi mercato”, che, in qualche modo, vada a misurare la differenza fra “ricavi” e costi-opportunità totali delle risorse connesse alla produzione di determinati servizi e prestazioni pubbliche; in termini diversi, si surroga il concetto aziendale di pro-fitto, dando applicazione al “principio del minimo mezzo relativamente ai processi produttivi svolti, abbinato altresì a una qualità dei beni e servizi prodotti, la quale, pur non potendo ottenere l’avallo del mercato, in genere non operante, si associ però al più elevato gradimento degli individui-consumatori”105.

5.5 Una piccola annotazione sulle insidie degli “atti di indirizzo”

Nel definire il procedimento di costruzione del PEG, abbiamo più volte sotto-lineato l’esigenza che il confronto (la negoziazione) fra amministratori e dirigenti produca, tra gli altri risultati, una puntuale quantificazione delle risorse umane e finanziarie, cioè che ci sia una equilibrata e documentata relazione fra obiettivi e strumenti messi a disposizione degli attori gestionali.

Capita, con una frequenza preoccupante, che i Consigli, ma frequentemente (più frequentemente) anche le Giunte utilizzino i cosiddetti “atti di indirizzo” per risolvere il problema dei limiti operativi posti dal PEG prima, dal bilancio poi.

La volontà di affrontare un problema imprevisto, o la deliberata scelta di rin-viare a una fase seguente al bilancio, portano gli organi politici a scegliere la strada dell’atto di indirizzo, che diventa una sorta di deroga alla programmazione in essere. Come abbiamo ripetuto, deve certamente essere superata l’idea di un bilancio come documento chiuso e inespugnabile; proprio la complessità dei problemi, l’esigenza dell’Ente locale di operare come un soggetto aperto all’ambiente esterno sono il discrimine fra l’operare con mentalità aziendale-manageriale o, di contro, con men-talità ferma all’adempimento formale.

Tuttavia, quell’obiettivo di pronto adeguamento a ciò che cambia deve esse-

105 A. Propersi, Contabilità e bilanci negli Enti Locali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p. 33.

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re perseguito, senza scorciatoie, che vadano a compromettere la sostenibilità degli strumenti di programmazione, gestione e controllo. Gli atti di indirizzo possono essere necessari e utili, però devono sempre rapportarsi: a) con gli altri documenti di pianificazione e programmazione, se, del caso, modificandoli o integrandoli; b) con gli atti di gestione, per le parti e gli obiettivi, che vanno a modificare, cosicché siano ristabiliti i necessari equilibri di risorse e indicatori di risultato.

Altre soluzioni non garantirebbero un sistema in grado di consentire poi di valu-tare efficacemente i risultati della gestione.

5.6 Un’ipotesi di PEG

Dopo le riflessioni fin qui svolte, si propone un’ipotesi di Piano Esecutivo di Gestione, evidenziando che si fa riferimento alla programmazione attuativa di un Comune medio-piccolo, che, poi, è la tipologia decisamente preponderante fra gli enti locali italiani.

La precisazione sulle dimensioni dell’ente si rendono necessarie, a conferma di un punto che abbiamo più volte sottolineato: è necessario che programmazione e gestione tengano conto delle specifiche realtà territoriali e organizzative.

Così andiamo a ipotizzare dieci possibili caratteristiche fondanti e operative di quello che abbiamo definito un PEG “incisivo”; per gli aspetti grafici e organizzativi del documento, rimandiamo alle autonome scelte di ciascun ente.

5.6.1 Un PEG possibile in 10 punti

1. PEG e PDOIpotizziamo, in via preferenziale, un PEG integrato con il Piano Dettagliato de-

gli Obiettivi. Questa soluzione non esclude che venga approvato una sorta di PDO, da parte del direttore generale e/o del coordinatore delle conferenza dei dirigenti, ma questo provvedimento altro non è che un’esplicitazione operativa (un vero e proprio ordine di servizio) del Piano Esecutivo di Gestione, a cui i diversi diri-genti dovranno attenersi, salvo l’autonomia loro garantita. Va infatti ricordato che, nel TUEL, a proposito del PEG si fa generico riferimento a “obiettivi di gestione” (art. 169), mentre il Piano dettagliato degli obiettivi rappresenta uno degli strumenti per effettuare il Controllo di gestione (art. 197, comma 2, lett. a). In altri termini, il Piano Dettagliato degli Obiettivi non sembra necessariamente dover fornire ele-menti per la valutazione dirigenziale da parte della Giunta, ma, dove c’è una figura apicale come il direttore generale ovvero una sorta di coordinamento sovra-ordinato,

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diventa un modo, attraverso il quale la “tecnostruttura” si monitora e corregge, in riferimento agli obiettivi indicati dall’organo di governo. Tenere distinti i due “pia-ni”, comunque, almeno per i comuni medio-piccoli, appare poco convincente e, sopratutto, poco pratico, perché questa soluzione “allunga i tempi di costruzione del sistema gestionale, in quanto postula due passaggi cronologici che potrebbero risultare non sempre compatibili con il principio di efficienza, efficacia, tempestività e celerità dell’azione amministrativa”106. È vero che la differenziazione fra PEG e PDO è la naturale conseguenza della distinzione fra indirizzo-programmazione e gestione; tuttavia, va annotato che “anche la fase in cui vengono dettagliati gli obiet-tivi necessita di un momento di raccordo e di negoziazione con l’organo politico, in quanto attiene pur sempre alla definizione delle direttive politiche di gestione (es. tempi di attuazione, modalità, priorità, indicatori di verifica e controllo). Per questi motivi, si ritiene che nella struttura del PEG possa essere compreso ab origine, il Piano dettagliato degli obiettivi, quale momento unico in cui le attività di indirizzo e di controllo dell’organo di indirizzo trovano massima sintesi”107. Ciò non toglie che, ovviamente, al direttore generale o al dirigente apicale, con il PEG che integra anche il PDO, si forniscano elementi anche per valutare i dirigenti e, più complessi-vamente, il funzionamento della “macchina” organizzativa. La ragione di privilegiare l’integrazione fra i due “piani”, come abbiamo già chiarito, sta nel fatto che la grande maggioranza dei Comuni italiani ha dimensioni medio-piccole (addirittura sotto i 15.000 abitanti) e, perciò, non ha quella complessità organizzativa necessaria ad attivare forme eccessivamente articolate di gestione e controllo. Il rischio è quello di produrre documentazioni soltanto formali, spesso senza avere competenze per la loro predisposizione ragionata e men che meno per la loro corretta attuazione. Se il PDO può essere depotenziato come strumento aggiuntivo al PEG, sembra invece più efficace l’ipotesi di una articolazione/specificazione degli obiettivi che ciascun dirigente dovrebbe comunque fare, come completamento di quel “piano di lavo-ro”, che, in un precedente capitolo, abbiamo indicato come importante strumento, perché l’attività gestionale possa fare un salto di qualità. Di contro, attivare una soluzione di PEG, che ingloba il dettaglio degli obiettivi, non significa produrre una soluzione meno efficace allo scopo, che è appunto quello di guidare la gestione al raggiungimento di risultati programmati.

2. FlessibilitàOvviamente, come abbiamo già chiarito, occorre impostare PEG flessibili, cioè

tali da non costringere a provvedimenti dell’organo esecutivo per ogni modifica che

106 Foschi, Morri, op. cit., p. 81.107 Ivi, pp. 81-82.

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si rendesse come necessaria. Sul mercato esistono numerosi “prodotti” già predispo-sti per costruire PEG ben fatti, anche per questa ragione, in questa sede, la scelta è quella di indicare alcune caratteristiche, una sorta di identikit, di un Piano Esecutivo di Gestione efficace, fermo restando che, poi, i Comuni, nella necessaria autonoma garantita dal TUEL 267/2000, devono costruirsi il PEG più rispondente alla loro qualità e tipologia organizzativa.

3. Contabilità economicaUna difficoltà obiettiva, nella costruzione del PEG, consiste nel trovare una sin-

tesi alla doppia dimensione (finanziaria e budgetaria) che lo caratterizza. Un Piano Esecutivo di Gestione, per assumere pienamente la dimensione di budget ispirato a una logica aziendale, fra le impostazioni possibili, è preferibile che si qualifichi per un approccio di tipo economico, cioè in grado di orientare l’attività gestionale verso il conseguimento di positivi “risultati economici di esercizio”, capace di assumere la preoccupazione di quanto e come la gestione arricchisca o meno il “patrimonio aziendale”, considerando inoltre i valori finanziari ed economici generati dai fatti di gestione esterna. La contabilità finanziaria viene privilegiata da quelle ammini-strazioni che non assumono come strategiche le informazioni fornite dal conto eco-nomico e dal conto del patrimonio; in questi casi, spesso, i dati finanziari vengono aggiustati per ottenere degli approssimativi dati di costo e provento. Va notato che, spesso, la scelta di mantenere una contabilità di tipo finanziario è conseguenza della mancanza di adeguate risorse e competenze tecniche per implementare un sistema informativo più affine a un approccio aziendale. D’altra parte, implementare una contabilità di tipo economico-patrimoniale, senza avere competenze, in grado di interpretare ed elaborare le informazioni, che ne derivano, è certamente poco utile, prima che poco produttivo.

In ogni modo, tanto più in caso di assenza di contabilità generale, il Controllo di gestione deve e può costituire il supporto indispensabile per una corretta impo-stazione del PEG. L’auspicata connotazione in senso economico del Piano Esecutivo di Gestione significa che, per ogni servizio, devono essere predisposti un budget dei “ricavi” e uno dei “costi”, facendo del “risultato economico di esercizio” il primo parametro, che consente di valutare la performance finale; avendo sempre presente che, nella pubblica amministrazione, “il confronto fra “utilità consumata” genera-trice di costi e oneri, e “utilità prodotta”, apportatrice di benefici, è particolarmente complesso non solo per la già accennata assenza di un “prezzo di mercato”, ma anche perché il prodotto, oltre ad essere immateriale (servizio), a volte, è anche astratta-mente individuabile e definibile sia in termini quantitativi che qualitativi”108.

108 Paoloni, Grandis, op. cit., p. 221.

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4. Centro di responsabilità come snodo organizzativoPer una gestione efficiente si ribadisce l’esigenza di una chiara relazione fun-

zionale fra Centro di responsabilità e dirigente/responsabile degli obiettivi. In altre parole, l’organizzazione deve adeguarsi al PEG e non viceversa. Nel caso di obietti-vi strategici e trasversali, si attivano specifici Centri di responsabilità, con specifici budget e dotazioni di risorse umane definite, contabilizzando, con il supporto del Controllo di gestione, il concorso dei diversi servizi o Centri di responsabilità coin-volti (costi indiretti e costi comuni). In linea di massima, comunque, per quanto la flessibilità organizzativa debba essere uno strumento di lavoro sempre disponibile, sono da verificare prioritariamente soluzioni che colleghino strettamente Centri re-sponsabilità a Dirigenti o Responsabili di Aree organizzative. Per conciliare le due esigenze apparentemente contrastanti (flessibilità e stabilità organizzativa), sarebbe auspicabile che, in sede di approvazione del Piano Generale di Sviluppo (di cui si è già scritto), la ripartizione delle deleghe assessorili e, quindi, l’organizzazione fossero impostate in coerenza con gli obiettivi di fondo indicati per almeno l’arco del man-dato amministrativo. I Centri di responsabilità, a quel punto, essendo “prodotti” organizzativi dei programmi annuali (ma ancorati alla pianificazione di mandato), da questi dovrebbero strutturarsi quasi come sviluppo naturale e fisiologico.

5. ObiettiviPerché il PEG-PDO abbia successo e sia strumento di verifica efficace, deve esse-

re corredato da obiettivi. Ai fini della loro definizione, gli obiettivi possono e devono essere classificati e dopo “pesati” nel loro valore, rispetto al complessivo risultato; di modalità di classificazione ne esistono svariate, a seconda del punto di vista di lettura che viene scelto109:a. sulla base della natura e del livello (strategici e operativi, finali e intermedi);b. sulla base delle dimensioni di analisi di gestione accolte: ad esempio, utilizzando

la balanced scorecard, si possono avere molteplici articolazioni (obiettivi relativi ai cittadini, ai risultati monetari, ai processi interni, all’apprendimento e allo sviluppo);

c. sulla base dei gradi di libertà fruibili da parte dell’ente, si distinguono: obiettivi vincolati e discrezionali, obiettivi manovrabili e condizionabili;

d. sulla base dei criteri che informano la gestione organizzativa si definiscono: obiettivi di efficacia, di efficienza,di produttività;

e. sulla base dell’impatto operativo e organizzativo si determinano: obiettivi con-servativi e innovativi, di vario dimensionamento della gestione organizzativa, obiettivi di varia qualificazione della gestione organizzata.

109 F. Fontana, M. Rossi, La contabilità analitica nell’Ente Locale, Milano, Giuffrè, 2003.

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Queste chiavi di lettura, in gran parte convivono e si integrano, cioè consentono di valutare e, soprattutto, ponderare un obiettivo in modo articolato, fermo restando che la griglia su cui verrà costruita la ponderazione sarà articolata nella misura in cui l’obiettivo è rilevante.

Al di là della classificazione o delle articolate classificazioni, che si sceglie di dare agli obiettivi, questi devono possedere alcune caratteristiche essenziali e irrinuncia-bili che ormai vedono la condivisione di gran parte degli studi e approfondimenti sul tema110; cioè devono essere:• specifici ossia dettagliati e chiari;• misurabili, cioè quantificati e con chiari parametri di riferimento;• realistici, ovvero attuabili e non solo teorici, confermando quindi il valore della

“negoziazione”;• orientati all’azione, cioè devono essere esplicitati nelle operazioni e nelle attività

necessarie al loro raggiungimento;• tempificati e scadenzati;• determinati nelle risorse assorbite e valorizzati in termini di costi generali ovvero

devono essere obiettivi razionali, in relazione al rapporto costi/benefici e alla fattibilità.

Una volta definiti e classificati, gli obiettivi devono esser conseguentemente ponderati. Scopi della ponderazione sono: una migliore esplicitazione delle priorità dell’amministrazione, un indirizzo più incisivo della Giunta alla dirigenza, una più efficace pianificazione operativa delle attività da parte della dirigenza, un più pun-tuale controllo della complessiva funzionalità dell’ente, una più razionale valutazio-ne delle prestazioni dirigenziali.

Un’efficace ponderazione deve far riferimento sostanzialmente alla complessità e strategicità degli obiettivi. Non crediamo serva soffermarci sulla definizione dei due termini, se non per chiarire che la ponderazione servirà a costruire una griglia attra-verso la quale i diversi obiettivi, intrecciando il punteggio di valore connesso alla loro specifica tipologia (obiettivi di mantenimento, di sviluppo, di ampliamento ecc.) otterranno un punteggio, che dovrà essere proporzionato con il resto degli obiettivi dell’ente, determinandone il peso relativo.

Un’ultima annotazione. Spesso all’idea di obiettivo si lega il riflesso condizionato di qualcosa di straordinario ed eccezionale rispetto all’ordinario. La logica del PEG come strumento tendente al risultato consiste, invece, nel pensare che tutta l’attività dell’ente deve caratterizzarsi per la capacità di innovarsi e migliorare le proprie per-formance. Perciò, si ritiene utile che il PEG sia costruito, avendo a riferimento alcu-

110 Cfr. Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit.

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ni insiemi di obiettivi, che, a titolo di esempio, potrebbero essere: attività ordinaria, obiettivi di sviluppo, di mantenimento, di innovazione, obiettivi generali, strategici, obiettivi speciali. A queste tipologie di obiettivi, nelle diverse articolazioni del PEG, potranno essere assegnati pesi particolari e differenti, in coerenza con la program-mazione, stabilita dai documenti di bilancio, a partire dalla Relazione previsionale e programmatica, ai quali comunque gli obiettivi del PEG dovranno richiamarsi.

6. Obiettivi strategiciFra gli obiettivi, ne indichiamo, quindi, una tipologia-raggruppamento definiti

strategici. La connotazione che si vuol dare a questo termine è evidente e riteniamo che la strategicità debba essere indicata in sede di stesura della Relazione previsionale e programmatica; in quel contesto ai progetti strategici deve anche essere assegnato un moltiplicatore o una ponderazione, che poi darà il valore dell’obiettivo di PEG, il quale poi sarà suddiviso per articolate micro-obiettivi e/o azioni, adeguatamente pe-sate. Un rilievo che può scaturire da questo approccio sta nel fatto che è possibile ci siano servizi, con un maggiore “carico” di obiettivi strategici, perciò con l’obbligo di dover dare attuazione a un punteggio più elevato. La risposta a questa corretta pre-occupazione, invece di uniformare i punteggi per tutti i dirigenti o responsabili, può essere quella di modulare le indennità dirigenziali (ma anche dei cosiddetti “titolari di posizione organizzativa”), proprio sulla base del carico di progetti che, all’inizio del mandato prima, in sede di bilancio poi, vengono assegnati ai diversi dirigenti. In altre parole, per potenziare un modello manageriale dell’organizzazione, suggeria-mo un rapporto direzione politica-dirigenza tecnica che sia costruito attraverso una modulazione della parte variabile dello stipendio (indennità di posizione e indennità di risultato) strettamente ancorata alla forza degli obiettivi, superando impostazioni burocratiche, uniformanti ovvero ripetute automaticamente di anno in anno.

7. Come impostare gli obiettiviStando sempre all’ipotesi delle tipologie di obiettivo, questi devono essere rag-

gruppati e identificati con specifiche sigle. Ovviamente, nell’affidare i punteggi, la Giunta comunale può modularli, in modo da privilegiarne alcuni su altri, in re-lazione appunto alle proprie strategie. Ogni obiettivo deve essere indicato in una scheda specifica, che contenga: a) la descrizione dei risultati e delle attività; b) la suddivisione in tre, quattro “azioni” fondamentali, che devono essere descritte e ca-denzate nel tempo. Alle “azioni” deve essere assegnato un peso sul valore complessivo del punteggio. Questa “pesatura” dell’obiettivo si rende tanto più utile, quando gli obiettivi vedono investiti altri Centri di responsabilità; anche in questo caso vale la pena di fare un esempio. Nel caso di un obiettivo di potenziamento dei servizi

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all’infanzia, per esempio, si possono individuare le seguenti azioni: lavori edili per l’adeguamento della struttura, progetto educativo, selezione del personale, gestione delle liste di attesa; la prima delle quattro azioni potrebbe riguardare un altro servi-zio, avrà quindi un peso che sarà un 20% sul complessivo valore dell’obiettivo. Se l’obiettivo ha valore 80, la struttura responsabile di quella specifica azione avrà un punteggio pari a 16. Per mantenere al PEG la necessaria flessibilità, rimane inteso che il dirigente può intervenire (anche modificandole) sulle singole “azioni”, fermi restando i valori complessivi.

Il ragionamento sui punteggi, introduce un aspetto che è bene chiarire subito, per evitare confusione. Dopo i necessari confronti e le necessarie verifiche, si sa-ranno definiti i diversi obiettivi, per i diversi Centri di responsabilità; a quel punto si sommeranno tutti i punteggi assegnati ai singoli obiettivi per ottenere infine il punteggio complessivo (ovvero il valore performance)111 cui deve tendere un deter-minato Centro di Responsabilità. A fine anno la somma dei punteggi delle “azioni” ovvero degli obiettivi, che avranno conseguito i risultati attesi, produrrà il risultato della specifica struttura.

8. Attività ordinaria e obiettivi generaliA differenza degli altri raggruppamenti di obiettivi, per l’attività ordinaria, si

ipotizza una descrizione puntuale di tutte le azioni necessarie a garantire il funzio-namento dell’ufficio o dello specifico servizio, indicando l’obiettivo e le “azioni” da correggere ovvero da aggiungere e, spesso, (sarebbe già questa la soluzione) da eliminare per ottenere il risultato atteso. Anche in questo caso appare utile dare un peso alle diverse “azioni” che vadano a incidere sull’obiettivo.

Un’annotazione vale anche per quelli che possiamo definire come obiettivi ge-nerali e/o trasversali. Si tratta di obiettivi, che hanno una caratteristica alternativa: sono generali, quando richiamano risultati che valgono per tutti i servizi (esempio il rispetto del risultato di esercizio ovvero economico indicato nel budget); sono trasversali, quando coinvolgono diversi servizi o uffici (esempio la realizzazione di un nuovo asilo nido o la stesura del piano del commercio). Nel primo caso, quindi, sono obiettivi assegnati a tutti i Centri di responsabilità; nel secondo caso, invece, possono essere assegnati a specifici Centri di responsabilità oppure, in caso di strut-ture non complesse, possono essere assegnati al Centro di responsabilità caratterizza-to dalle prevalenti attività dell’obiettivo.

111 Cispel (Osservatorio della produttività), Norme sulla produttività. Profili applicativi, ottobre 1989.

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9. Centri di costoCome abbiamo anticipato, se l’impostazione di una contabilità analitica si rende

necessaria ed è comunque consigliabile, a integrazione di quella generale, ne deriva la conseguenza che, nel PEG, i Centri di responsabilità siano articolati in “centri di costo”. La connotazione di queste unità di spesa dovrebbero essere definite fra management e Controllo di gestione, sulla base dell’esperienza e dei dati rilevati nel tempo, anche se soltanto dalla contabilità finanziaria. Abbiamo già scritto che i costi si possono classificare in base a diversi criteri: a) in base al momento della rile-vazione (consuntivi e preventivi), b) in base alla destinazione del fattore produttivo (speciali o comuni); in base alla variazione dei volumi produttivi (fissi o variabili); c) in base al modo in cui sono imputati all’oggetto del calcolo (diretti o indiretti). Nelle pubbliche amministrazioni, anche per esigenze di natura burocratico-formale, ci sono una serie di operazioni, che vedono costantemente coinvolti più servizi (e non potrebbe essere altrimenti), perciò un problema che si pone è certamente quello di ripartire e allocare i cosiddetti costi indiretti o anche comuni. Il confronto fra dirigenza e Controllo di gestione deve, fra l’altro, confrontarsi per dare un valore a queste definizioni, sapendo che si procede anche per approssimazione. Tornando all’esempio: l’ampliamento dell’asilo nido sarà contabilizzato dentro un centro di costo definibile “asili nido e scuole per l’infanzia”, vista la loro uniformità. In quei costi, però, ci saranno anche quelli del personale degli affari generali ovvero della ra-gioneria che cura l’emissione dei bollettini per la riscossione delle tariffe. Quelli sono costi indiretti, la cui contabilizzazione non è semplice, ma è necessaria, se vogliamo conoscere i costi degli asili nido; questa conoscenza ci fornisce elementi anche per dimensionare la politica tariffaria, considerando che, in questo caso, abbiamo un servizio a domanda individuale, teoricamente, da finanziare da parte dei fruitori. Un altro problema che può porsi è quello di chi debba spendere nel caso l’asilo nido abbia bisogno di lavori edili, che, per l’organizzazione del Comune, potrebbero ri-cadere sotto altra responsabilità. In questo caso occorre tenere distinto “chi” spende, da “chi” cura i lavori, ma anche da “chi” si vede imputare il costo. Per un’efficace contabilità analitica, crediamo che il lavoro edile sia da iscrivere al Centro di costo dell’asilo nido. Chi poi esegue i lavori o li commissiona, riguarda il tipo di organiz-zazione dell’ente.

Sempre in relazione ai centri di costo, ribadiamo l’esigenza che, se si sceglie un maggiore dettaglio della spesa, articolandola da interventi in capitoli, questi non siano superiori a un paio, così da evitare, anche in questo caso, un irrigidimento delle iniziative del dirigente: a tal proposito, le norme di PEG potrebbero prevedere la possibilità che il dirigente operi anche modifiche nella ripartizione dei costi per capitoli, senza che questo comporti modifiche da sottoporre alla Giunta, ma segna-

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landole al Controllo di gestione, per i necessari aggiornamenti delle rilevazioni su costi e proventi. In un sistema, che si specializza e perfeziona, non meno rilevante è anche l’attivazione di veri e propri “centri di ricavi”, che, almeno in alcuni servizi (i nidi e le materne fra questi), possono dedicarsi al complesso, e spesso trascurato, lavoro di acquisizione dei corrispettivi per le prestazioni, anche implementando si-stemi di controllo e verifica.

10. Attività di verificaNon meno rilevante è che il PEG espressamente venga approvato, inserendo con

norme che prevedano verifiche trimestrali (con relativi report alla Giunta) sullo stato di attuazione, attraverso il necessario lavoro di rilevamento, elaborazione e sintesi del Controllo di gestione. La verifica periodica è strumento irrinunciabile per per-formance efficaci, attivando controlli costanti degli andamenti gestionali attraverso (negli enti più complessi) veri e propri “cruscotti di comando”, a disposizione del management; attivando, perciò, controlli infrannuali, con cadenze stabilite e suffi-cientemente frequenti, almeno per gli obiettivi più complessi, sempre che il control-lo sia così tempestivo da consentire di assumere per tempo le necessarie decisioni correttive112. “Le risultanze dell’attività di controllo devono essere messe a disposi-zione sia degli organi di direzione, sia degli organi di governo, tanto per indubbie esigenze informative, ancorché differenziate a seconda dei ruoli rivestiti, quanto per l’assunzione di eventuali provvedimenti correttivi. L’aspetto centrale della rappre-sentazione delle risultanze della gestione riguarda ovviamente gli scostamenti dagli obiettivi e dai programmi predefiniti”113.

Dovendo fare sintesi del valore manageriale, che abbiamo opportunamente as-segnato al PEG, possiamo affermare che questo può e deve essere lo strumento che aiuta ad affermare una “cultura della misurazione”; ricordando, come sopra, che non si gestisce ciò che non si misura.

D’altra parte, diventa difficile (e opinabile) valutare un risultato e un comporta-mento, se non si hanno oggettivi parametri di riferimento114.

In conclusione, qualunque tipologia di PEG e di PDO scelgano, amministra-tori e dirigenti avranno contribuito al miglioramento delle performance pubbliche, quando avranno reso ordinario l’impegno ad affidare pesi e valori misurabili ai loro obiettivi.

112 L. Falduto, Reporting aziendale e business intelligence, Torino, Giappichelli, 2001.113 Cfr. Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit., p. 56.114 F. Amigoni, Misurazione d’Azienda, Milano, Giuffrè, 1988.

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6. Verificare il PEG per valutare i dirigenti (e i dipendenti)

6.1 Il Controllo di gestione quale condizione per una valutazione efficace

Abbiamo fin qui approfondito e dissertato, seguendo un filo, che ci ha portato al “cuore” del nostro ragionare, in pratica a come misurare con efficacia le performance dell’Ente locale, riguardo all’obiettivo di valutare di conseguenza i dirigenti, e anche gli altri dipendenti.

Nel fare quel ragionamento, si sono messi su carta diversi punti, che, come in un gioco enigmistico, ora andremo a congiungere per linee, che disegneranno la figura nascosta. Nel nostro caso, stiamo tirando le fila e dovrebbe comparire il misterioso oggetto, cioè la procedura di valutazione del personale dell’ente pubblico (locale). Il primo tratto di penna parte dal Controllo di gestione, che abbiamo incontrato più volte e che, proprio in questa presenza ricorrente, trova la conferma del suo valore come indispensabile strumento manageriale.

Del resto, non si potrebbe parlare d’aziendalizzazione della pubblica ammini-strazione, senza misurarsi con il Controllo di gestione che, come sappiamo, nelle imprese private, costituisce un insieme di strumenti e tecniche, in grado di fornire alla direzione e alla proprietà informazioni utili per comprendere meglio la realtà aziendale e garantire l’efficace ed efficiente acquisizione, organizzazione e impiego delle risorse.

Come ben chiarisce l’art. 197 del TUEL115, d.lgs. 267/2000, l’attività del Con-trollo di gestione, in qualche modo, si “spalma” sull’intero ciclo aziendale, attuandosi nella pianificazione, nella programmazione e nel controllo, in una stretta consequen-zialità. Delle tre fasi, quella del controllo acquisisce un particolare rilievo, riguardo appunto all’obiettivo di valutazione dei dirigenti. Il reporting, infatti, rappresenta certamente lo strumento di monitoraggio delle attività aziendali, ma acquisisce un senso compiuto solo nel momento in cui confronta i dati realizzati con quelli pre-ventivati, ne rileva gli scostamenti e ne individua le cause. Da qui deve partire, quin-di, il lavoro di chi ha il compito di esprimere la valutazione sulle performance e sui dirigenti. La misurazione dei dati della gestione, infatti, può essere:• preventiva, se riferita alla rilevazione prospettica. È finalizzata alla necessità di

comprendere l’adeguatezza delle combinazioni organizzative e gestionali, in rela-

115 AA.VV., L’ordinamento degli Enti Locali, Rimini, Maggioli, 2004.

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zione agli obiettivi predefiniti, nonché all’esigenza di motivare e orientare i com-portamenti dei soggetti aziendali;

• concomitante, se riferita alla rilevazione dei risultati, nel momento stesso in cui vengono realizzati. Riveste una funzione informativa per la guida e il riallinea-mento degli obiettivi;

• consuntiva, se riferita alla misurazione dei risultati conseguiti a fine periodo. Co-stituisce una base informativa motivazionale e decisionale per la successiva fase di valutazione dei risultati raggiunti, a proposito del conseguimento degli obiettivi e di misurazione dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione intrapresa.

Dall’ultima tipologia misurazione si parte, di conseguenza, per una valutazione dei dirigenti, anche se le altre due fasi non sono meno rilevanti, perché forniscono, in ogni modo, elementi utili a considerazioni circa le capacità organizzative (definite anche con il termine “comportamento organizzativo”), a partire dall’impostazione dei programmi, alla gestione razionale delle risorse, alla prontezza nel correggere gli sco-stamenti fra obiettivi e risultati effettivamente conseguiti. Venendo alle procedure per ottenere un corretto rilevamento dei risultati operativi, occorre far riferimento a due condizioni, che andiamo a puntualizzare. La prima l’abbiamo già precisata e si esplicita nel pianificare obiettivi, le cui caratteristiche sono riassunte nel seguente grafico116.

116 Cfr. Fontana, Rossi, Il controllo interno, cit., p. 70.

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La seconda condizione, strettamente intrecciata alla prima, sta nella chiara defi-nizione dei cosiddetti indicatori di risultato. Abbiamo già dato una definizione del termine “indicatori”; va però posto l’accento sul fatto che d’indicatori ne esistono di diverse tipologie, variando a seconda dei punti di vista e, soprattutto, di ciò che deve essere valutato e degli obiettivi del controllo. La loro specificazione e selezione può (anzi, deve) appartenere a quella negoziazione, che abbiamo indicato come una fase essenziale nel processo di programmazione dell’attività dell’ente, a partire dalla formazione del budget.

Resta inteso che le informazioni più indicative, in ordine ai risultati, possono essere ottenute attraverso l’utilizzo di una serie di indicatori tra cui ricordiamo: gli indicatori di attività, gli indicatori di efficienza, gli indicatori di efficacia.

Gli indicatori d’attività tendono a esprimere le azioni svolte da una determinata unità organizzativa, mettendo a raffronto l’attività erogata con il carico di lavoro, potenziale o reale, riferito all’unità organizzativa stessa.

Gli indicatori d’efficienza ed efficacia hanno lo scopo di misurare le performance dell’attività gestionale dell’ente.

Come sappiamo, l’efficienza rileva la capacità di produrre beni e servizi (output) in relazione all’utilizzo di risorse e fattori produttivi; informazioni che si ricavano dagli indicatori di attività, i quali calcolano il livello dei beni e servizi prodotti dalle unità organizzative (input); il suo indicatore, come abbiamo appreso, è il risultato del rapporto input su output.

Gli indicatori d’efficacia misurano il grado di raggiungimento degli obiettivi, sia in termini quantitativi che qualitativi. Mentre per le imprese, operando sul mercato, questa misurazione passa attraverso il fatturato e il profitto, per l’Ente locale si rende necessario ricorrere a indicatori che esprimono il livello qualitativo dell’output e il grado di soddisfazione degli utenti; per cui devono essere impostate specifiche so-luzioni, anche a seconda di ciò che si decide di verificare (dagli indicatori di qualità alla customer satisfaction).

A tal proposito, è da evidenziare come il Nucleo di valutazione sulle prestazioni dirigenziali (di cui parleremo) deve esercitare, prima di tutte, un’attività di supporto proprio nella fase che abbiamo definito di negoziazione del PEG, considerando che “fissazione di obiettivi, assegnazione delle risorse e definizione ex ante delle metodo-logie di valutazione sono indispensabili per far dispiegare al sistema di incentivazio-ne la sua funzione di orientamento, essendo essa quasi completamente accantonata in caso di definizione ex post dei criteri di valutazione e dei risultati attesi”117.

Perché il sistema di valutazione funzioni è indispensabile che l’intero sistema dei controlli interni dell’ente funzioni e, soprattutto, interagisca, a iniziare dall’attività

117 M. Bianchi, Il controllo manageriale degli enti locali, Milano, 2007, p. 326.

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del Controllo di gestione, avendo presente che il processo di verifica non può non integrarsi all’interno di un sistema di valori, una “mission” condivisa dell’ammini-strazione; insomma c’è l’esigenza che controllo e valutazione abbiano come presup-posto una comune visione etica dei propri compiti, dell’attività lavorativa a servizio della pubblica amministrazione118.

Se non esiste quella condivisione di fondo del ruolo di pubblico dipendente, c’è il rischio reale che abbiamo già paventato, cioè del compromesso a ribasso fra valutatore e valutato, verificandosi la circostanza, per la quale il soggetto sottoposto a controllo è “in grado di offrire incentivi alla inadeguata effettuazione dei controlli che sono superiori a quelli che l’ente può offrire”119.

Utilizzando un pensatore attento all’amministrazione pubblica come Weber, possiamo certo far riferimento all’esigenza di un’“etica della responsabilità” e, forse scadendo un po’ troppo nella retorica, potremmo richiamare come al dirigente pub-blico, in primo luogo, quella funzione assicura “da un lato un guadagno materiale e dall’altro un contenuto ideale di vita”120.

Tornando, perciò, all’importanza strategica dei controlli interni e della loro co-stante interrelazione, per l’Ente locale, si pone il problema dell’impostazione orga-nizzativa del Controllo di gestione.

Intanto, è necessario e utile costituire una specifica struttura, che abbia una do-tazione tecnologica e di personale altamente qualificato e specializzato; questa im-postazione rientra pienamente nell’obiettivo di un Ente locale che, per essere più efficiente, si riorganizza, spostando risorse dalla gestione alla programmazione e al controllo.

Inoltre, è preferibile che il Controllo di gestione sia un’attività autonoma dal resto dell’organizzazione; per cui va collocata in posizione di staff, affiancando, dove c’è, il direttore generale, oppure direttamente l’organo di governo, nell’esercizio delle funzioni di indirizzo, programmazione e verifica. Allo stesso tempo, il Controllo di gestione deve farsi strumento di stimolo e supporto ai singoli titolari dei Centri di responsabilità; devono essere anche, e soprattutto, i dirigenti/responsabili dei servizi ad avvalersi di quello strumento, tenendo aperta una continua attività di scambio di informazioni.

In ultimo, a sintesi di quanto fin qui affermato, si rileva che punto di partenza dell’attività del Controllo di gestione deve essere, all’inizio di ciascun anno, la pre-disposizione dei parametri di riferimento del controllo sull’attività amministrativa,

118 G. Della Rocca, V. Veneziano (a cura di), La valutazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche, Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004.119 Cfr. Bianchi, Il controllo manageriale, cit., p. 309.120 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948, p. 55.

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anche sulla base dei parametri gestionali dei servizi degli enti locali pubblicati sulla gazzetta ufficiale (ma in quanti lo fanno?), a cura del Ministero dell’interno e della tabella dei parametri di riscontro della situazione deficitaria strutturale allegata al rendiconto dell’ultimo esercizio chiuso, in costante confronto con il soggetto che deve procedere alla valutazione delle prestazioni dirigenziali.

Dall’elaborazione e sintesi di quelle informazioni deve cominciare il virtuoso circuito che porta dalla pianificazione, al controllo, alla valutazione dei dirigenti121; avendo sempre ben chiaro che non si deve intendere la valutazione dirigenziale come una semplice operazione quantitativa, consistente in pratica nella somma di punteg-gi, misurati attraverso il Controllo di gestione.

La valutazione, per essere tale, pertanto completa e realistica, deve adeguatamen-te tener conto del quanto, ma anche del come; vale a dire della qualità prestaziona-le del dirigente, che “deve dimostrare di essere in grado di saper gestire, non solo tecnicamente ma, soprattutto, realmente, mostrando di adattarsi al cambiamento, alla trasversalità degli impegni e alle abilità richieste dagli interventi plurisettoria-li, che la nuova professionalità dirigenziale richiede di possedere ai membri di tale categoria”122.

Insomma, occorre aver presente che non esiste un metodo di valutazione del dirigente, che possa prescindere dalla “soggettiva” ponderazione di aspetti non nu-merabili (ordinali oltre che cardinali), ma che hanno assoluto rilievo nel configurare il corretto dispiegarsi di un compito complesso come “dirigere”.

6.2 Nucleo di valutazione: chi e come

Come abbiamo ricordato, l’art. 147, comma 1, lett. b) del d.lgs. 267/200, tra i controlli interni, introduce la valutazione delle prestazioni dirigenziali, dando pieno senso e ragione di un sistema che ha una sua coerenza, nella logica dell’applicazione di modelli manageriali alla pubblica amministrazione, nell’obiettivo di superare la dimensione puramente burocratica123.

Dalla legge 142/90, passando per il d.lgs. 29/93, dal d.lgs. 77/95, fino al d.lgs. 165/2001, passando, per gli enti locali, dal TUEL 267/2000, nella separazione fra

121 A. Zirzuolo, Sistemi di controllo interno: controllo di gestione e nuclei di valutazione, in «Azienditalia», n. 8, 2001.122 S. Toschei, Il conferimento dell’incarico dirigenziale tra atto gestionale di mobilità nell’am-ministrazione e provvedimento attributivo di competenze, in «Gestione delle risorse umane/Formez», n. 6, 2005, pp. 79-80.123 H. Mintzeberg, Ascesa e declino della pianificazione strategica, Torino, Isedi, 1996.

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programmazione-indirizzi e gestione, si è consolidata una nuova tipologia di diri-gente pubblico, caratterizzata da nuove importanti responsabilità: a) assicurare che le scelte politiche si traducano in strategie operabili, gestendo il processo di pianifica-zione e controllo, mettendo in relazione amministratori e responsabili delle strutture operative; b) supportare gli organi di governo nella selezione delle priorità da attua-re; c) proporre obiettivi di miglioramento dell’efficienza, efficacia, produttività ed economicità e di conseguente qualificazione della gamma dei servizi; d) raccordare strategie e risorse; e) definire i programmi operativi, implementando piani di svi-luppo delle risorse umane e anche promuovendo l’integrazione fra settori e attività diverse; e) definire strategie e modalità di acquisizione e utilizzo delle risorse; f ) con-trollare l’andamento della gestione, modificando e correggendo errori e anomalie.

Questa sostanziale qualificazione (perché anche di questo si tratta) del ruolo del dirigente ha marciato di pari passo con una profonda revisione del modo attraverso cui si forma il rapporto fra dirigente e organo politico, nonché – più “prosaicamen-te” – del modo di calcolo della retribuzione.

Per il primo aspetto, si è introdotta una forte relazione fra nomina (e conferma della nomina) a dirigente di un determinato servizio e obiettivi che la politica chiede (o dovrebbe chiedere) di raggiungere. In relazione al secondo aspetto, specularmen-te, per la dirigenza pubblica è stata introdotta una forma contrattuale, che prevede due indennità variabili: quella di posizione e quella di risultato; l’una riconosce il carico di impegni e responsabilità legate alla funzione; l’altra, invece, è strettamente legata ai risultati che, annualmente vengono conseguiti dal dirigente. Non è mai abbastanza porre l’accento sulla circostanza che questo salto di qualità del ruolo dirigenziale richiede “il rinnovamento della cultura e delle competenze professionali per i dirigenti pubblici e la definizione di nuovi profili, sempre più coerenti con le nuove funzioni cui è chiamata la pubblica amministrazione soprattutto locale”124.

Dal quadro delineato emerge, con chiarezza, che il disegno non può non com-pletarsi, se non attivando una procedura di verifica e valutazione su come il dirigente ha esercitato quel nuovo ruolo, meno burocratico-formale, più gestionale-operativo.

La connessione forte fra indirizzo e gestione, fra input politico-amministrati-vo e fase operativa non poteva non definire uno strumento di efficace valutazione dell’operato del dirigente. Per questo, quindi, fra i controlli interni, è stata prevista la valutazione dirigenziale, affidata a strumenti ad hoc definiti anche nuclei di valu-tazione, che la legge delega 15/09 e il primo decreto attuativo, di fatto, rafforzano, seppur introducendo quella “centralizzazione”, sui cui rischi ci siamo già soffermati.

Su come sono composti e come operano i Nuclei si hanno soluzioni diverse,

124 D. Cristofoli, A. Turrini, G. Valotti, Aspettando il dirigente dell’avvenire, in «lavoce.info», 8 novembre 2007.

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tanto più negli enti locali, dove sappiamo la materia dei controlli interni ha ampi margini di autonoma impostazione organizzativa.

Sostanzialmente, negli enti locali, vanno affermandosi, sintetizzando e forse semplificando un po’, due modelli di nuclei: un modello estensivo, cioè che tende ad affidare ai Nuclei più funzioni, ricomprendendo anche il Controllo di gestione e pure le modalità di definizione dei criteri di valutazione dei dipendenti. Un modello contenuto, più definito, che “limita” l’attività del nucleo alla valutazione dei dirigenti, ovviamente in un rapporto stretto con quanto verificato dal Controllo di gestione.

Sul piano organizzativo, poi, si va da Nuclei con tecnici esterni e/o interni, pre-sieduti dal Sindaco o dal Presidente della Provincia, a Nuclei invece meramente tecnici, che formulano proposte di valutazione prioritariamente (dove è istituito) al direttore generale o direttamente al Sindaco o al Presidente della Provincia, a secon-da dell’organizzazione dell’ente.

In coerenza con quanto fin qui affermato, intanto, riproponiamo che l’attività di valutazione del dirigente non può che essere onore e onere del “datore di lavoro”, nel caso di specie del capo dell’amministrazione, che, nella sostanza, è il titolare del rapporto contrattuale, impostato all’atto della nomina del dirigente che sappiamo essere costruito sostanzialmente sui risultati da ottenere.

In questa lettura, il ruolo del Nucleo di valutazione deve essere considerato come strumento di verifica oggettiva dei risultati, sulla base dei referti del Controllo di gestione, che, nel determinare gli obiettivi di PEG, deve e può essere sollecitato dallo stesso Nucleo per introdurre criteri ovvero parametri specifici di verifica.

Preventivamente, il Nucleo di valutazione può contribuire a definire quella “pe-satura” degli obiettivi del PEG, di cui abbiamo già scritto, in relazione alla loro stra-tegicità, alla complessità o al grado di utilità, ovviamente in sinergia con la Giunta Comunale e in relazione ai documenti programmatici.

In una logica di necessaria apertura del processo valutativo anche ai giudizi degli utenti ovvero dei diversi stakeholder, che si rapportano con la pubblica amministra-zione, il Nucleo di valutazione può (e deve) impostare metodologie di coinvolgimen-to degli utenti ovvero dei loro rappresentanti, delle organizzazioni di riferimento.

Da una disamina, seppur sommaria, delle esperienze operanti in diversi enti locali, emergono diverse tipologie e modelli Nuclei di valutazione, che, solitamente, oltre a rispondere a precise scelte degli amministratori, si adattano alla complessità organiz-zativa del singolo ente, nonché alla stessa impostazione del circuito programmazione-gestione-controllo; rimanendo fermo, però, un assunto che riteniamo irrinunciabile, cioè quello di un Nucleo di valutazione che non può, soprattutto non deve, andare oltre la pur fondamentale funzione di supporto alle scelte degli amministratori; per costoro non è possibile rifuggire dalla virtuosa sinergia responsabilità-valutazione.

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Da tutte queste considerazioni, discende come la composizione del Nucleo deb-ba essere caratterizzata dalla presenza di figure competenti, preferibilmente esterne all’ente e, in ogni caso, la loro composizione non debba prevedere commistioni con la “politica”.

Il Nucleo poi dovrebbe avere una durata di tre anni, così da non coincidere con il mandato amministrativo, proprio perché deve caratterizzarsi per una forte e cre-dibile terzietà operativa; fermo restando – come abbiamo sopra confermato e come vedremo meglio nel prossimo paragrafo – che la valutazione definitiva (quella che dà luogo a conferme e indennità) si ritiene debba essere sopratutto responsabilità degli amministratori, nella loro qualità di “datori di lavoro”.

Questa ultima sottolineatura sull’imprescindibile ruolo degli amministratori, presuppone un conseguente procedimento valutativo, che non è escluso possa carat-terizzarsi anche per “tensioni” con il sistema che, invece, va delineandosi con la co-siddetta “Riforma Brunetta”, caratterizzato da tentativi evidenti di standardizzazione e anche di centralizzazione; del resto, in questa sede, si continua a fare riferimento ai margini di autonomia organizzativa che la normativa concede – ovvero dovrebbe continuare a concedere – agli enti locali.

In proposito, commentando il d.lgs. 150/2009, in relazione agli obblighi di adeguamento degli Enti locali alle “nuove” norme sugli organi di valutazione dei dipendenti pubblici, è stato autorevolmente osservato che le stesse “non trovano diretta applicazione presso regioni ed Enti locali, ma costituiscono semmai norme di principio: in particolare, per gli enti locali continueranno a trovare applicazione le disposizione dell’articolo 147 del d.lgs. 267/2000 […] e non muta il complesso de-gli organismi interni preposti al controllo, cioè il Nucleo di valutazione e il servizio di controllo interno”125.

6.3 Il procedimento di valutazione dei dirigenti

“Trasformare la macchina pubblica è possibile, ma richiede una drammatica iniezione di merito ai suoi vertici. Non serve a niente parlare di incentivi e di merito per i milioni di impiegati della Pa, se il merito non esiste prima di tutto al vertice, nei mille uomini chiave della Pa italiana […]. Solo una trasformazione meritocratica dei mille dirigenti chiave degli enti pubblici, al centro e in periferia (capi dipartimento, direttori generali, dirigenti in posti chiave dei ministeri e delle strutture amministra-tive delle regioni e delle principali città) potrà permettere di passare da piattaforme

125 L. Olivieri, “Performance senza pagella - Comuni e Province non devono dotarsi dell’organo di valutazione”, in «ItaliaOggi», Milano, 27 novembre 2009.

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ideologiche a miglioramenti concreti”126. Di conseguenza, per una complessiva cre-scita delle performance della pubblica amministrazione, non si sfugge dall’esigenza di una relazione forte fra incarico dirigenziale-obiettivi da perseguire-conseguente valutazione. La procedura valutativa è quindi uno strumento potente per stimolare e innovare.

Nel ribadire che, su questo tema, al di là dei proclami, c’è poco di nuovo sotto il sole e molto da valorizzare di quel che c’è, ricordiamo anche in quale contesto si inquadra la valutazione del dirigente nell’Ente locale. Ai sensi del comma 10, dell’art. 50 e dell’art. 109 del TUEL, d.lg. 267/2000, il sindaco e il presidente della provincia attribuiscono gli incarichi dirigenziali o di responsabili dei servizi, secondo criteri di competenza professionale e in stretta relazione con gli “obiettivi indicati nel programma amministrativo”.

In coerenza con tale impostazione, il CCNL dei dirigenti 1998-2001 (confer-mando quello sottoscritto il 10 aprile 1996) ha consolidato e previsto la correspon-sione di una retribuzione di posizione e di una di risultato127; l’indennità di posizione dei dirigenti viene definita dalla Giunta, in base al supporto, alla “pesatura” operata dal Nucleo di valutazione posto alle dipendenze del vertice politico (questo aspetto è peraltro rilevante per quanto diremo in seguito), secondo quanto disposto anche dal d.lgs. 286/99 (ovvero art. 147 del TUEL). La graduazione deve avvenire attin-gendo a criteri oggettivi, da predeterminare secondo quanto disposto dai contratti di lavoro: la collocazione della struttura ossia l’importanza strategica nell’ente; la complessità organizzativa; le responsabilità gestionali e l’importanza degli obiettivi.

I tre aspetti indicati confermano quanto abbiamo affermato, riguardo al carico degli obiettivi (e dei punteggi), che possono essere affidati a una struttura rispetto a un’altra: la “pesatura” può servire proprio a gestire con equilibrio quest’ aspetto.

Va aggiunto che, con l’indennità di posizione, per la prima volta, si lega una parte della retribuzione al ruolo oggettivo specificamente ricoperto dal dirigente, all’interno dell’organizzazione (job evaluation) e non alla persona che lo ricopre128.

Per completezza, va ricordato che, a metà strada fra dirigenza e dipendenti, in tanti enti, si colloca la cosiddetta “posizione organizzativa”, che, peraltro, in molte realtà medio-piccole, spesso sostituisce il dirigente, in tutto e per tutto. La posizione organizzativa ha lo scopo di incentivare i dipendenti di categoria D, quando, appun-to, ricoprano funzioni rilevanti di direzione di unità complesse, di alta professio-

126 R. Abravanel, Meritocrazia, Milano, Garzanti, 2008, p. 239.127 G. Cecora, C. D’Orta, La Riforma del pubblico impiego, Bologna, il Mulino, 1994. Sull’argomento anche R. Ruffini, L’indennità di posizione dirigenziale, in «Azienditalia», n. 4, 1996.128 G. Costa, Manuale di gestione del personale, Torino, Utet, 1992.

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nalità o specializzazione o di staff, ovvero di studio e ricerca. Tali incarichi possono avere una durata massima di 5 anni, ma possono essere revocati anticipatamente con atto scritto e motivato, in relazione a mutamenti organizzativi o a risultati ne-gativi dell’incaricato; è preferibile che abbiano una durata non superiore a quella del mandato, tenendo presente che una durata troppo lunga consente all’incaricato di attuare strategie particolarmente complesse, ma una durata sufficientemente breve può garantire il massimo impegno129.

L’indennità di risultato, da liquidarsi a fine esercizio – come del resto quella di posizione –, si basa su criteri da definirsi in sede contrattuale, tra i quali, in ogni caso, il più discriminante consiste nella valutazione dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi programmati (PEG-PDO), oltre alla valutazione sulla professionalità dimostrata ovvero sulle competenze organizzative.

Se la relazione fra risultati conseguiti e risultati attesi può essere rinviata a crite-ri oggettivi, certamente questa oggettività non può essere regolata, più di tanto, per la valutazione del cosiddetto comportamento organizzativo, cioè il come determinati obiettivi sono conseguiti, ma, più generalmente, come viene esercitato il ruolo di di-rigente. Questo aspetto, relazionato agli obiettivi, non può che essere oggetto di una valutazione che è, per definizione, soggettiva, discrezionale (non arbitraria, sia chiaro).

Di conseguenza, appare poco comprensibile la tendenza a proporre “valutatori”, che sfuggono alla nomina ovvero alla responsabilità dell’imprenditore-datore di lavoro (sindaco, presidente della provincia o direttore generale).

Più complessivamente (a parere di chi scrive), la ricerca di presunti criteri ogget-tivi di valutazione delle prestazioni dirigenziali – che, in fondo, è la tendenza della legge delega 15/09 e del primo decreto attuativo – rischia di favorire una fuga dalle responsabilità degli amministratori; i quali, al contrario, devono assumersi l’onere della valutazione e delle motivazioni, nel binomio inscindibile di autonomia e re-sponsabilità, pur avendo piena consapevolezza che – come è stato osservato – legisla-zione e, prima di tutto, contrattualistica130 del rapporto di lavoro, secondo un vezzo o vizio tutto italiano, hanno teso a svuotare (anche in relazione ai dipendenti) la possibilità di utilizzare, con efficacia, lo strumento della valutazione delle prestazioni lavorative.

A sua volta, il dirigente, nei confronti dei propri dipendenti, deve poter operare con la stessa autonomia degli amministratori nei suoi confronti, considerando che, in quel caso, a questi spetta la qualifica di datore di lavoro. Ovviamente, sul fatto che il dirigente pubblico sia datore di lavoro non possono esserci più dubbi o condi-

129 M. Marafini, A. Ruggia, Dal contratto nazionale al contratto decentrato, Rimini, Maggioli, 2004, p. 97.130 S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, il Mulino, 1983.

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zionamenti; bastino la lettura delle prerogative consentite dagli articoli 16 e 17 del d.lgs. 165/01 ovvero, per gli enti locali, dell’articolo 107 del d.lg. 267/2000, che, al comma 3 lett. 2) indica, tra le funzioni dirigenziali, “gli atti di amministrazione e gestione del personale”.

Ancora più netta è la definizione di un altro provvedimento legislativo, apparen-temente fuori luogo in questa trattazione, ma assolutamente pertinente allo specifico tema del dirigente pubblico datore di lavoro; il riferimento è all’art. 1, comma 1, lett. b) del d.lgs. 81/08 (sulla sicurezza dei luoghi di lavoro), il quale, descriven-do coloro che sono assimilabili a datori di lavoro, specifica come “nelle pubbliche amministrazioni […] per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione […] In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”. Per inciso, di contro, va evidenziato come lo stesso Decreto legislativo 150/09, almeno dal punto di vista delle dichiarazioni di principio, rafforza il ruolo datoriale del dirigente, ma, di fatto, sembra contraddittoriamente privarlo della leva fondamentale del giudizio sui dipendenti.

Siamo, invece, assolutamente d’accordo con quella parte di esperti131 che, da tempo, rivendicano come il processo di valutazione dei dirigenti e il relativo prodotto – come avviene del resto nelle imprese private – non possa essere essere demandato o appaltato (o non possa esserlo in tutto) a soggetti terzi, di presunta obiettività e im-parzialità: la valutazione è concettualmente quanto di più parziale vi sia, perché pro-viene dal datore di lavoro, perché è il risultato della comparazione fra le aspettative di performance del datore di lavoro e i risultati effettivamente assicuratigli dal diri-gente; perché ha a che fare anche con concetti “parziali” come assunzione di respon-sabilità, qualità e comportamento 132. Come è stato scritto, se c’è un terreno su cui la pubblica amministrazione deve assumere i modelli delle imprese è proprio quello della valutazione dei dirigenti e dei dipendenti. Perciò continuano a convincere poco soluzioni operative fatte di commissioni o organismi, cosiddetti “terzi”, centralizzati e standardizzanti: la valutazione della dirigenza pubblica deve mantenere al datore di lavoro il suo compito, cioè quello di essere la controparte del contratto.

Il dirigente, di fatto e di diritto, è il primo fra i collaboratori dell’imprenditore amministratore, significando, perciò, che l’arbitro della misura del rapporto di colla-borazione non può che essere l’imprenditore e lui soltanto.

131 R. Nobile, I soggetti della misurazione e della valutazione delle performance nel pubblico impiego e Valutazione del personale e ruolo del datore di lavoro, in «La Gazzetta degli Enti Locali», 22 maggio 2009 e 21 agosto 2009.132 G. Corso, Il dirigente pubblico e la responsabilità dei risultati, in D. Sorace (a cura di) Le responsabilità pubbliche, Padova, Cedam, 1998.

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Lo stesso approccio vale o dovrebbe valere per la pubblica amministrazione, pure in virtù della tanto decantata “privatizzazione” del rapporto di lavoro nel pubblico impiego.

In questa chiave di lettura, la complessa procedura di valutazione dei dirigenti, ma anche dei dipendenti, appare meno complessa; ovvero è meno complessa se ne ristabiliamo con chiarezza, con semplicità e coerenza, i punti fermi, gli attori, i ruoli.

A questo punto del nostro argomentare, appare utile andare a ipotizzare un pro-cedimento di valutazione dei dirigenti, sapendo che è soltanto un esempio per ren-dere più comprensibili alcuni concetti fin qui esternati.

Il primo nodo da affrontare, dal punto di vista metodologico, consiste nel defi-nire il rapporto fra i due aspetti in cui si articola ogni valutazione: la misurazione dei risultati, il giudizio sul comportamento organizzativo.

È naturale che un valutatore esterno all’ente guarda al dato degli indicatori a ciò che è consolidato dai referti e dalle verifiche, mentre appare più difficile che possa assumere l’onere di valutare i comportamenti, ciò che riguarda il quotidiano operare del dirigente e che soltanto la “soggettività” e la presenza del datore di lavoro può com-prendere, percepire e valutare, sempre che non siano strutturate procedure di costante interazione (auditing) fra Nuclei e soggetti interni ed esterni all’amministrazione.

Infatti, deve essere chiaro che il sistema di valutazione dei dirigenti ha lo scopo di verificare e di sottoporre a un giudizio di valore il modo in cui l’interessato ha svolto i suoi compiti, quale livello di competenza e di preparazione professionale ha dimo-strato (valutazione qualitativa), quanti e quali degli obiettivi prefissati ha raggiunto (valutazione quantitativa).

La sintesi fra queste esigenze può essere trovata con una procedura articolabile, secondo i passaggi, che andiamo a descrivere, di seguito.1. Intanto, si ripropone l’esigenza che siano adeguatamente “pesate” indennità di

posizione e indennità di risultato, evitando formule stabili e immutabili, ma adeguando e modulando i “pesi” sulla base dei programmi e dei concreti cari-chi di responsabilità, le quali non sono date una volta per tutte, considerando che cambiano, anche annualmente, programmi e priorità. Come abbiamo già detto, il Nucleo di valutazione svolge, in questa fase di ponderazione, un ruolo indispensabile. Di norma, in ogni modo, l’indennità di risultato (la più variabi-le) non dovrebbe scendere sotto il 50%, in relazione al valore complessivo della parte variabile della retribuzione dirigenziale.

2. La valutazione qualitativa (il cosiddetto comportamento organizzativo) può es-sere compiuta, partendo dai giudizi raccolti all’interno dell’ente, per esempio, riempiendo specifiche schede. A questa valutazione deve aggiungersi quella dei cittadini ovvero delle loro organizzazioni. I fattori di valutazione della “prepa-

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razione qualitativa”, peraltro indicati nei Contratti Nazionali di Lavoro, devo-no essere dettagliati nelle schede, attraverso l’individuazione di un insieme di parametri qualitativi; questa fase di definizione dei parametri e delle schede è ovviamente gestita dal Nucleo di valutazione, che, poi, cura anche la fase di raccolta ed elaborazione.

A titolo d’esempio, se ipotizziamo di valutare i dirigenti di un determinato Ente locale, attraverso una scala di valori, che va da 0 a 10 punti per ognuno di 30 para-metri individuati avremo un punteggio massimo pari a 300 punti per la valutazione qualitativa. A questo punteggio potremmo ipotizzare di sommare altri 300 punti, che si ricavano dalla valutazione quantitativa (quanti obiettivi del PEG-PDO sono stati raggiunti).

I giudizi qualitativi sono selezionati tenendo conto di quelle che devono essere le caratteristiche del cosiddetto “comportamento organizzativo” del dirigente, che sono diverse e “comprendono, in particolare, la capacità gestionale, quale attitudine a utilizzare strumenti di valutazione e gestione delle prestazioni sia reale che potenzia-le; la capacità organizzativa di definire ruoli, compiti e obiettivi, nonché strumenti di informazione e controllo; capacità sociali atte a diagnosticare realtà socio-organiz-zative e pianificare interventi socio-organizzativi; capacità relazionali ossia quelle di raccogliere informazioni sugli individui, per poter esercitare influenza, motivare e comunicare efficacemente”133.

Per la parte “qualitativa”, una variabile da introdurre è certamente la valutazio-ne dei cittadini ovvero degli utenti, che dovrebbe essere raccolta attraverso speci-fici procedimenti impostati dal Nucleo di valutazione: dalla customer satisfaction alla raccolta di informazioni direttamente da gruppi di utenti o da associazioni, all’ascolto di soggetti come il Difensore civico, nonché dall’approfondimento di eventuali esposti o documenti inoltrati all’URP o anche alla stampa ovvero alle segreterie degli amministratori. Una volta stabilito il procedimento di raccolta delle valutazioni dei cittadini, si tratta di affidargli un peso all’interno del punteg-gio complessivo (nel caso del nostro esempio sul totale dei 300 punti previsti o adeguatamente maggiorati).

Ai punteggi di dipendenti-amministratori e utenti, si può ipotizzare di aggiun-gere i punteggi (che abbiamo a titolo di esempio indicato in un totale di 300) che il Nucleo di valutazione propone, riguardo allo stato di attuazione del PEG e di eventuali programmi integrativi, basandosi naturalmente sui dati e le informazioni acquisite e rielaborate dal Controllo di gestione134.

133 Moro, Aspetti di gestione delle risorse umane, cit.134 M. Bianchi, La valutazione della dirigenza, in «Azienditalia», n. 41, 1996.

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Il Nucleo di valutazione procede alla somma dei punteggi della “valutazione qualitativa” e di quelli della “valutazione quantitativa”, prevedendo che al punteggio complessivo ottenuto da ogni dirigente corrisponderà una conseguente valutazione.

Di conseguenza, il Nucleo formula la sua proposta al Sindaco o al Presidente della Provincia, che effettuano e formalizzano la valutazione, poi la trasmettono ai dirigenti, i quali, secondo quanto stabilito dai contratti di lavoro, hanno un tempo (solitamente almeno 10 giorni) per formulare eventuali contro deduzioni.

Il Sindaco o il Presidente della Provincia, poi, formulano e trasmettono la valutazione definitiva, sulla cui base al dirigente è percentualmente liquidata l’indennità di risultato.

È del tutto evidente che questa procedura sposa l’idea (che a noi pare di buon senso) di un sistema di valutazione che, per i dirigenti, vede il Sindaco o Presidente della Provincia come decisori finali (ed esclusivi).

In questo quadro, comunque, il Nucleo di valutazione mantiene un ruolo im-portante perché, intanto, propone il metodo di valutazione; lo testa; definisce i criteri oggettivi di raccolta delle valutazioni qualitative; verifica, in sinergia con il Controllo di gestione, i risultati ottenuti, avendo prima collaborato alla definizione degli indicatori e degli obiettivi; cura la fase della raccolta delle schede di valutazione qualitativa, proponendo “pesi” e procedure; propone la valutazione provvisoria; sup-porta il Sindaco o il Presidente nella fase delle contro-deduzioni.

6.4 La valutazione di fine mandato quale condizione per la conferma del dirigente

Nella fase di approfondimento del rapporto fra programma di mandato e scelte di bilancio triennali e annuali, abbiamo già anticipato che, anche in quel contesto, devono potersi creare le condizioni per valutare la dirigenza ovvero i responsabili di un Ente locale.

Se il legame fra politica e gestione passa attraverso la nomina del dirigente ovvero l’affidamento delle responsabilità dirigenziali, di solito proiettata all’intero mandato amministrativo, diventa naturale e conseguente (però quasi mai lo è) che il dirigente sia valutato annualmente, nei modi che abbiamo indicato, ma anche complessivamen-te alla fine del tempo dell’incarico, in relazione ai progetti e agli indirizzi del mandato.

In questa azione valutativa svolge un ruolo importante il Nucleo, che, nella valu-tazione annuale, sulla base dei “pesi” affidati nella RPP ai diversi progetti, dovrebbe esprimere un giudizio provvisorio, che, alla fine del quinquennio ovvero dell’inca-rico, deve trasformarsi in una ipotesi di valutazione sull’operato complessivo del dirigente come condizione propedeutica all’eventuale conferma.

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Ciò non esclude, naturalmente, che ci sia un cambio di amministratori e, per-tanto, nonostante una valutazione negativa, un sindaco o presidente di provincia.

In quel caso, una specifica regolamentazione dovrebbe costringere almeno a una puntuale e specifica motivazione della decisione, ferma restando l’autonomia di scelta e, di contro, fermo restando che la Corte Costituzionale, con sentenze n. 103 e 104 del 2007, ha affermato come “la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza soltanto di un’accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato”. Queste pronunce hanno posto un freno all’idea che gli incarichi diri-genziali avessero come discrimine il cosiddetto rapporto fiduciario, “esponendo gli incaricati a condizionamenti nell’esercizio delle loro esclusive competenze, essendo la conferma dell’incarico nel potere dello stesso organo che lo ha conferito, finendo per premiare il “vincolo di fedeltà”, in luogo della responsabilità misurata sui risultati”135. A maggior ragione, perciò, la regolamentazione anche delle procedure relative alla con-ferma del dirigente da un contratto all’altro, da un mandato amministrativo all’altro, diventa un modo per costruire una procedimentalizzazione trasparente e che privilegia il merito sulla “cieca” fiducia, i risultati sulla “fedeltà”.

Nella costruzione di un approccio, che ha nel merito il discrimine per premiare e confermare, possiamo formulare una minima ipotesi operativa.

Costituendo il mandato amministrativo il limite massimo per l’incarico diri-genziale, proprio per garantire un rendimento davvero attento ai risultati, sarebbe auspicabile la stesura di contratti individuali (fra amministrazione e dirigente) con durata inferiore al mandato, rinnovabili sulla base proprio di una puntuale verifica del lavoro svolto, non dimenticando, infatti, che l’attuale versione dell’art. 19 del decreto legislativo 165 del 2001 (contenente disposizioni in tema di incarichi per funzioni dirigenziali) stabilisce che, con il provvedimento di conferimento dell’inca-rico, sono individuati l’oggetto dello stesso e gli obiettivi da conseguire, con riferi-mento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi, che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico. La durata dell’incarico è sostanzialmente lasciata alla disponibilità delle parti.

La norma sopra indicata, inoltre, precisa che al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico 136.

135 S. Bianca, Separazione tra funzioni di indirizzo politico amministrativo ed attività gestionale nella legge delega Brunetta. Il nodo del conferimento degli incarichi dirigenziali, in «Lexitalia.it. Rivista internet di diritto pubblico», n. 4, 2009.136 Cfr. Toschei, op. cit., pp. 83-84.

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La valutazione di mandato, se impostata per passaggi codificati e trasparenti, può inibire tentativi di conferme o addirittura promozioni, che non siano ispirate da ben argomentate motivazioni di merito e di manifesta competenza.

6.5 Dalla valutazione dei dirigenti a quella dei dipendenti. Spunti operativi.

“C’è paura della meritocrazia, che non è temuta solo dai privilegiati (che ovvia-mente hanno molto da perdere da maggiore merito e concorrenza), ma anche dai meno abbienti, ovvero da coloro che sarebbero invece avvantaggiati da una maggiore mobilità sociale. Probabilmente questo accade perché la meritocrazia viene associata alla concorrenza che porta con sé lo scontro competitivo tra individui e l’idea che ci possano essere comunque dei perdenti”137.

L’esperienza della pubblica amministrazione, purtroppo, conferma in pieno que-sta paura, con il conseguente e costante tentativo di depotenziare o sterilizzare le valutazioni di merito. Eppure l’art. 6 del CCNL del 31 marzo 1999 per i lavoratori delle autonomie locali prevede che gli enti si dotino di un sistema permanente di valutazione – di merito – dei dipendenti, previa concertazione con i sindacati.

La cosiddetta “Riforma Brunetta”, con il primo decreto attuativo della leg-ge delega 15/09, è intervenuta sull’intera materia, prevedendo che la valuta-zione sulla produttività dei dipendenti non può essere a pioggia, cosicché ha stabilito limiti precisi, oltre i quali deve per forza crearsi una differenziazione: per esempio, la valutazione massima non può riguardare più del 25% dei di-pendenti in servizio. Scopo della norma – che lascia agli enti locali margini d’autonomia – sta proprio nel cercare di limitare un uso distorto dei compensi per la produttività nella pubblica amministrazione, che, invece, di premiare il merito hanno finito per costituire delle vere e proprie integrazione dello stipendio uguali per tutti.

Del resto, l’erogazione generalizzata di incentivi al personale, senza correlazione con il conseguimento di chiari obiettivi predeterminati, è stato sancito dalla Corte dei Conti come vero e proprio danno patrimoniale (sentenza n. 44 del 12 febbraio 2003, sez. II centrale d’appello). Di conseguenza, deve rimarcarsi la responsabilità del dirigente sul piano disciplinare in caso di attribuzione impropria e non corretta dei trattamenti economici accessori138.

137 Cfr. Abravanel, op. cit., p. 108.138 C. Zoli, Il Trattamento economico, in F. Carinci, M. D’Antona (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, Giuffrè, 2000.

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Invece di una valutazione puntuale e argomentata nel merito, si è affermata una prassi che preferisce la distribuzione a tutti i dipendenti delle stesse risorse incen-tivanti, attraverso un atteggiamento “politico”, che non “discrimina”, ma assegna sostanzialmente a tutti i dipendenti la stessa valutazione.

Al di là dell’efficacia concreta, il fatto che la “Riforma Brunetta” abbia scelto di stabilire, per legge, veri e propri contingentamenti delle valutazioni rappresenta la certificazione dell’inadeguatezza di tanti dirigenti rispetto al compito di valutare ed, eventualmente, incentivare il dipendente che ha ben operato. Forse è un problema anche di resistenza ideologica, tuttavia c’è anche molta inadeguatezza a intendere in pieno il ruolo.

Premesso ciò, in ogni caso, si possono svolgere alcune considerazioni, formulare alcuni spunti operativi su come tentare di attivare un efficiente ed efficace sistema di valutazione dei dipendenti, che abbia il merito come unica bussola.

Intanto, la valutazione dei dipendenti – e sono considerazioni che abbiamo già anticipato – non può che essere precipua responsabilità del dirigente ovvero del responsabile.

Ribadiamo la scarsa considerazione per tentativi di standardizzare, “oggettivare” l’attività valutativa; ci possono essere supporti, consulenze, strumentazioni specifi-che, ma l’attività di valutazione sul rendimento di un dipendente non può che essere onere di chi lo dirige, in virtù di anche di quel rapporto di subordinazione, di cui all’art. 2094 del Codice Civile.

La valutazione è, di per sé, attività discrezionale, togliendo a quel termine la cat-tiva luce dell’arbitrio; ma ribadendone il senso di discrimine, di scelta. Di contro, le scelte devono esser motivate e sostenute da presupposti trasparenti e da un percorso che le legittimino.

Il dirigente ha il dovere di definire prima e con chiarezza qual è il sistema, attra-verso cui procederà alla valutazione139.

Fra gli strumenti, come abbiamo detto, di grande utilità può essere di certo il “piano di lavoro”, che, nel confronto coi dipendenti, dovrebbe indicare gli obiettivi dell’ufficio o del gruppo di lavoro, stabilendo modalità di misurazione e di verifica. Insieme agli aspetti quantitativi, anche in questo caso, si devono affiancare aspetti qualitativi (non solo il “quanto”, ma il “come”) della prestazione, secondo criteri che possono essere pre-determinati, ma che, più degli altri, chiamano l’autonoma capacità del dirigente di valutare e motivare; l’incentivo è soprattutto uno strumento motivazionale.

Per la complessità e l’intreccio di funzioni e compiti, siamo fra coloro che, nella pubblica amministrazione, ritengono difficile valutare il singolo; del resto, proprio

139 M. Martinelli, Sistemi di valutazione nel lavoro, in «Azienditalia», n. 8, 1999.

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sull’opportunità di valutare il merito del singolo lavoratore o del gruppo, si sono avute diverse posizioni e anche intensi confronti fra tecnici di indubbia competenza140.

Questa difficoltà ha portato alcuni a proporre soluzioni di valutazioni elusiva-mente di gruppo, anche se la “Riforma Brunetta”, ribadisce, anzi sembra rafforzare, la valutazione individuale.

Una soluzione al problema, che obiettivamente c’è, sta nel costruire un sistema ibrido. Potrebbe ipotizzarsi una valutazione individuale come sintesi di più livelli di valutazione. Proviamo a spiegarci.

Intanto, va rilevato che le modalità di valutazione e di assegnazione delle risorse premianti devono essere conosciute prima e non aggiustate dopo.

Di per sé stimolante potrebbe essere l’ipotesi di prevedere che una parte delle risorse incentivanti siano ricavate autonomamente, all’interno di un servizio o di un centro di responsabilità, sulla base di scelte economicamente positive; ad esempio: si è razionalizzata la spesa per gli acquisti ovvero si sono aumentate le entrate di un de-terminato servizio, perciò parte di quelle economie diventa incentivo da distribuire.

Posto che il “piano di lavoro” ha preventivamente stabilito obiettivi e indicatori relativi all’attività di un gruppo di lavoro o di un ufficio, alla fine dell’anno il diri-gente assegna il punteggio sulla base di quei presupposti.

Su un punteggio di 100, ammettiamo che la valutazione sul raggiungimento degli obiettivi sia il 50%. Questi punteggi sono assegnati dal dirigente sulla base degli obiettivi del piano di lavoro, in modo uniforme, salvo casi specifici e ben de-limitati, ipotizzando anche moltiplicatori o divisori che modulano (prima) i diversi “pesi” di responsabilità. Questa parte della valutazione, di fatto, ricomprende quella cosiddetta “quantitativa”.

Altri 30 punti potrebbero essere assegnati da un procedimento di auto-valutazione dei dipendenti che, attraverso una scheda o altro metodo, assegnano un punteggio – su parametri predefiniti – a sé stessi e ai colleghi dell’ufficio e del gruppo di lavoro.

A queste schede, si aggiunge la valutazione effettuata del dirigente, che assegna i 20 punti residui, facendo riferimento ovviamente alle qualità organizzative e operative del singolo dipendente. Al dipendente è trasmessa la valutazione finale, ma suddivisa per i tre distinti punteggi. L’incentivo al merito, quindi, dovrebbe essere modulato, attraverso fasce, con un minimo sotto cui non viene assegnato alcun incentivo.

Questo naturalmente è un esempio, ma che dimostra come sia possibile tenere insieme questioni non sempre facili da conciliare: valutazione singola o di gruppo, qualità o quantità, scelta tutta discrezionale del dirigente o compartecipazione piena.

140 A. Ichino, Perché serve la valutazione individuale dei lavoratori nel settore pubblico, in «lavoce.info», 22 febbraio 2007. Anche L. Olivieri, Difetti dei sistemi di valutazione negli enti locali, in «lavoce.info», 26 novembre 2007.

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Anche in questo caso, vanno evitate le formule valide per tutti, confermando, comunque, la convinzione che spetta al dirigente la – esclusiva – responsabilità di valutare le prestazioni lavorative dei dipendenti; perciò, allo stesso spetta anche la responsabilità di essere parte attiva nella costruzione del sistema di valutazione. Con-dizioni discriminanti per un procedimento di valutazione efficiente sono la traspa-renza e la preventiva informazione ai dipendenti.

A conclusione di quanto detto, possiamo sinteticamente rammentare che il pro-cesso di valutazione (per i dirigenti come per gli altri dipendenti) si articola in tre fasi fondamentali, costituenti dei veri e propri “cardini” attraverso i quali passa l’effi-cacia del processo stesso: a) a inizio dell’esercizio (quindi prima dell’inizio dell’anno solare), i dirigenti organizzano incontri preventivi, in cui illustrano ai dipendenti, inseriti nei centri di responsabilità, i programmi e i progetti che dovranno realizzare, nonché i parametri, su cui saranno valutati; b) durante l’esercizio (questa è una fase tanto importante, quanto poco considerata nella pratica), i dirigenti organizzano ap-posite riunioni per esaminare i report intermedi (a cura del Controllo di gestione) e, conseguentemente, l’andamento dei piani e dei progetti, se necessario, proponendo alla Giunta correzioni agli stessi obiettivi di PEG, ma, prima di tutto, avvisando i singoli dipendenti di eventuali prestazioni insufficienti da migliorare; c) a fine eser-cizio, sindaco o presidente di provincia erogano l’indennità di risultato ai dirigenti, i quali a loro volta premiano i rispettivi collaboratori, sulla base delle verifiche e dei rendiconti del Controllo di gestione e, eventualmente, (a seconda delle procedure stabilite), del Nucleo di valutazione.

6.6 Annotazioni conclusive

Abbiamo compiuto una sorta di periplo che, partendo da una riflessione critica sulla “Riforma Brunetta”, attraverso l’analisi di quanti fossero gli strumenti dispo-nibili alla pubblica amministrazione per migliorare e poi misurare le proprie perfor-mance, ci ha portato a ruotare, per gli enti locali, intorno al PEG, quale asse su cui impostare anche efficaci valutazioni su come e se il management ha svolto bene il proprio compito.

Questo escursus ci ha confermato la convinzione che, come abbiamo affermato all’inizio, in realtà già da qualche anno la pubblica amministrazione ha gli strumenti per impostare politiche gestionali produttive; negli enti locali quegli strumenti sono in gran parte raggruppati dentro il d.lgs. 267/2000, ma anche nei contratti di lavoro di questi ultimi tre lustri. A questo punto si rende utile, riassumere o sottolineare gli aspetti più significativi di questo percorso.

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1. La pubblica amministrazione, prima che di nuove norme e regole, obblighi e li-miti formali, ha bisogno di una “cultura di tipo aziendale”, intesa come capacità di porre in essere soluzioni organizzative, che abbiano al centro obiettivi chiari e definiti per un uso razionale delle risorse.

2. Nessun programma è attuabile con efficienza ed efficacia, se non si articola in obiettivi misurabili. La”cultura della misurazione” possiamo definirla come il completamento (verrebbe a dire la specializzazione) della “cultura aziendale”.

3. Gli organi di governo devono maturare con più forza l’attitudine a formulare programmi chiari e impegnativi, rinunciando all’idea che il proprio ruolo sia valorizzato se, invece, gli amministratori si spostano dal formulare indirizzi e controllarne l’attuazione all’intervenire sulla gestione.

4. Nell’acquisizione della necessaria “cultura aziendale”, la dirigenza pubblica deve saper cogliere in pieno le responsabilità – affidategli dalla legge – di “datori di lavoro” nei confronti dei dipendenti, a partire dalla responsabilità di valutare, motivare e incentivare. Un dirigente, che rifugga dal pieno esercizio delle prero-gative di datore di lavoro, va a menomare una parte essenziale del proprio ruolo.

5. L’autonomia fra organi di indirizzo e di gestione è fondamentale per il corretto funzionamento della pubblica amministrazione, fermo restando che la “sintesi” fra i due momenti va costruita attraverso l’impegno comune a definire con trasparenza gli obiettivi di governo, ai quali si dovranno conformare le scelte gestionali. La non conformazione ovvero la inadeguata conformazione della ge-stione agli indirizzi politici comporta che l’organo di governo vada a esercitare il suo ruolo di verifica e sanzione.

6. Il legame fra politica e gestione, quindi, ha forza, se costruito su programmi chiari e contratti di lavoro impostati, appunto, su contenuti e impegni pun-tualmente definiti. Fuori di questa impostazione, ci sono soluzioni inefficaci e compromessi al ribasso, intesi come scambi fra ruoli che si sovrappongono e si confondono.

7. Per gli enti locali, Programma di mandato-Piano Generale di Sviluppo, Re-lazione di previsione e programmatica, Bilancio pluriennale e annuale, Piano Esecutivo di Gestione costituiscono un sistema che, se impostato e organizzato con piena consapevolezza e competenza, da parte dell’organo politico, consente davvero l’affermazione di modelli di governo efficacemente orientati al risulta-to, implementando modelli organizzativi, caratterizzati dalla logica “aziendale” del rapportarsi costantemente con l’esterno, del misurare le proprie efficienze o inefficienze, del monitorare i propri limiti per correggersi e migliorarsi. Quel sistema, in una parola, è già la soluzione per un Ente locale che voglia migliorare e valutare le performance di breve e medio-lungo periodo.

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Partendo da tutto questo, si può davvero fare il giusto cammino verso una pub-blica amministrazione efficiente, efficace ed economica, tenendo sempre a riferi-mento, quando parliamo di performance e di produttività, una lungimirante af-fermazione di Taiichi Ohono ovvero l’ispiratore del cosiddetto “spirito Toyota”141: “le risorse umane vanno al di là di ogni immaginazione. Esse si espandono illimi-tatamente quando le persone cominciano a pensare”. Perché, in fondo, ci stiamo riferendo a donne e a uomini, alle loro aspirazioni e ai loro bisogni, ai loro limiti e alle loro imprevedibili potenzialità.

141 O. Taiichi, Lo spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993.

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