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IL PIANISTA di Roman Polansky DOCUMENTAZIONE PER L’APPROFONDIMENTO

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  • IL PIANISTA di Roman Polansky DOCUMENTAZIONE PER L’APPROFONDIMENTO

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    Il PIANISTA1 Un film di Roman Polanski ( di Marina Sambiagio) Varsavia, 1939. Wladislaw Szpilman (Adrien Brody), brillante pianista polacco di religione ebraica, sta eseguendo in

    diretta radiofonica un notturno di Chopin quando i nazisti invadono la Polonia. Il concerto si interrompe e da quel mo-mento, in una spirale crescente di angoscia e terrore, Szpilman viene prima confinato nel ghetto, poi segnato con la stel-la di Davide sul braccio e infine inserito nelle liste dei deportati. Grazie alla collaborazione di un ufficiale tedesco (Tho-mas Kretschmann), l’artista sfugge al lager, trovando rifugio fra le rovine di una capitale diroccata e spettrale. Soltanto la liberazione, sette anni più tardi, porrà fine alla sua disperata cattività. Restituito ad un'esistenza finalmente normale, Szpilman potrà riprendere il concerto esattamente dal punto in cui era stato costretto a interromperlo. Con Il pianista Roman Polanski mette in scena i suoi fantasmi di bambino polacco scampato miracolosamente allo sterminio nazista. Il taglio della pellicola, Palma d'oro al Festival di Cannes, non è però autobiografico. Infatti, per queste memorie immobili, abissali e sconvolgenti, il regista polacco ha preferito adottare un filtro narrativo che smorzasse il trauma della prospetti-va in prima persona. Con affondi espressivi di brutale realismo, Il pianista racconta la disperazione della fame e della paura, l'angoscia quotidiana degli stenti e delle persecuzioni. La macchina da presa filma il funebre crescendo delle re-strizioni e dei divieti imposti dalle leggi razziali, inquadra i bambini morti per fame ai bordi delle strade, i vecchi e gli am-malati defenestrati dalla soldataglia, le esecuzioni sommarie fra le macerie della città. Sobrio, livido e intenso, il film di Polanski ribalta la consueta logica manichea di tante pellicole del genere, mettendo in scena la vicenda di un nazista capace di compassione e di ebrei più bestiali dei carnefici stessi. Raggelanti le sequenze sul ghetto di Varsavia, che ci-tano altri illustri precedenti, da I dannati di Varsavia di Wajda a Schindler's List di Spielberg. Film sull'abominio della persecuzione e dell'annientamento psicologico, II pianista prosegue la lunga riflessione di Polanski, da Rosemary's Baby fino a La nona porta, sul tema prediletto del Male e della sua ambiguità.

    Roman Polanski (regista) Nato in Francia da genitori ebrei polacchi, ritorna in Polonia con la famiglia alla vigilia della II Guerra Mondiale. Qui i

    suoi genitori vengono arrestati e deportati in un campo di concentramento, dove la madre morirà. Il piccolo Roman scampa alla persecuzione nazista rifugiandosi presso alcune famiglie cattoliche fino alla fine della guerra. Verso la fine degli anni 50, dopo una serie di prove attoriche a teatro e al cinema, talvolta sotto la direzione di grandi maestri come Andrzej Wajda, debutta nel cortometraggio, dimostrando una vocazione all'introspezione psicologica e al black humor che ricorrerà nella sua produzione successiva. Il suo esordio nel lungometraggio è del 1962 con II coltello nell'acqua, che riceve il consenso unanime della critica. Nel 1964 è a Parigi dove conosce Gerard Brach, lo sceneggiatore con cui scrive altri due film importanti, Repulsion e Cul de sac, rispettivamente Orso d'Oro e d'Argento al Festival di Berlino. Nel 1968 dirige il suo capolavoro, Rosmary's Baby, e sposa l'attrice Sharon Tate, conosciuta l'anno prima sul set di Per favore non mordermi sul collo. Nel 1969 una tragedia sconvolge la vita del regista: la moglie, incinta di otto mesi, vie-ne brutalmente uccisa da un gruppo di seguaci di Charles Manson mentre si trovava nella sua villa sulle colline di Hol-lywood. Distrutto dall'avvenimento, Polanski ripara in Europa e soltanto nel 1974 prende parte ad una produzione ameri-cana, dirigendo Chinatown. Il successo della pellicola sembra aprirgli le porte di Hollywood, ma il regista deve lasciare il paese a causa di guai con la giustizia. Dopo aver preso la cittadinanza francese, prosegue la sua carriera in Europa, gi-rando film come Tess, Frantic e Luna di fiele. Dal 1989 è sposato con l'attrice francese Emmanuelle Seigner dalla qua-le ha avuto due figli. Dopo il Leone d'Oro alla carriera, ricevuto al Festival di Venezia del 1993, ha girato La nona porta e, infine, II pianista.

    Adrien Brody (attore protagonista) Dopo un'adolescenza turbolenta nei malfamati sobborghi di Queens, si trasferisce a Los Angeles per tentare la fortu-

    na sul grande schermo. Comincia con una particina in Piccolo grande Araon di Steve Soderbergh, poi compare in vari film indipendenti e infine coglie la sua grande occasione nei panni del soldato Fife in La sottile linea rossa di Terence Malick. Non pronuncia neanche una battuta, ma il suo provino videoregistrato piace a Spike Lee che lo sceglie per l'im-portante ruolo di Ritchie in Summer of Sam. Da quel momento inanella un successo dietro l'altro, fino ai recenti trionfi di Liberty Heights e Bread and Roses.

    La decima porta di Roman Dopo più di quarant'anni, grazie anche alla drammatica autobiografia del pianista polacco Spzilman, l'ormai quasi

    settantenne regista decide di tornare in Polonia, per realizzare il suo film più personale, denso di ricordi dolorosi e drammatici, anche se non propriamente autobiografico. Il film della memoria. Quel "Pianista" che, asciutto, controllato e 1 Dal fascicolo messo a disposizione dalla casa distributrice.

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    volutamente freddo, adotta la cifra dell'osservazione distaccata, passiva e quasi surreale della guerra e della distruzione di Varsavia, che sceglie l'osservatorio del pianista dimenticato in una città completamente rasa al suolo, film nel quale le note dell'orrore e dell'odio si accordano, come in una sinfonia, con quelle

    della ragione e della solidarietà umana. Tra poesia e tragedia, la vicenda diventa parabola - sull'istinto di sopravvi-venza, sulla dignità umana, sul potere della musica e dell'arte. Lontano dagli olocausti hollywoodiani, ma anche dall'eroi-smo romantico del polacco Andrej Wajda, maestro del giovane Polanski, "II pianista" mostra tutto l'orrore nazista, ma contiene anche un chiaro segno di speranza: la vita riesce a sopravvivere anche negli abissi della Storia.

    Un formicaio minacciato Wladyslaw Szpilman era nato Sosnowiec, vicino Varsavia, nel 1911. La sua passione per la musica, inculcatagli an-

    che dal padre violinista, lo aveva indotto a studiare pianoforte fin da bambino, sotto la guida di due professori allievi di Franz Liszt. A vent'anni era andato a perfezionarsi a Berlino, presso l'Accademia di musica, avendo già composto un concerto e parecchie sonate per piano e orchestra. Nel 1935, al suo rientro, era stato assunto alla radio polacca, mentre Hitler era già salito al potere e la paura della guerra aveva già raggiunto Varsavia. Nell'estate del '39 solo pochi ottimisti irriducibili nutrivano l'illusione che la presa di posizione della Polonia avrebbe trattenuto Hitler dall'invadere il paese. Fino a tutto agosto il ghetto ebraico non era stato ancora creato e Wladyslaw viveva in una centrale strada della città, insieme con le due sorelle, un fratello e i genitori. Ma, il 1° settembre il risveglio fu brusco ed avvenne al minaccioso rumore di alcune esplosioni. Nel giro di pochi giorni i tedeschi giunsero alle porte di Varsavia. Dopo un primo momento di caos, i cittadini organizzarono una prima difesa, scavando trincee intorno alla loro città per impedire l'avanzata dei carri armati. Ma, l'artiglieria tedesca ormai cannoneggiava Varsavia, dalla periferia al centro. Il 23 settembre di quell'anno il giovane pianista si esibì per l'ultima volta ai microfoni della stazione radio di Varsavia. Con una determinazione pari solo alla sua bravura, il musicista ebreo raggiunse a fatica la sede radiofonica ed attaccò con la forza della disperazione il "Notturno" in Do diesis Minore di Chopin, tra il frastuono dei proiettili. Qualche ora dopo radio Varsavia cessò le sue trasmissioni. Dopo quattro giorni la città si arrese ai tedeschi, non senza aver lasciato ventimila morti lungo le strade. Presto comin-ciarono le prime retate di ebrei. Seguirono a ruota i decreti contro le famiglie ebraiche. Era solo l'inizio. Di lì a poco ven-ne fatto l'obbligo agli ebrei di munirsi di braccialetti contrassegnati dalla stella di Davide. Subito dopo una zona di Varsa-via fu destinata a “Distretto ebraico”: furono costruite delle mura per poterla chiudere, e vi furono ammassati più di mez-zo milione di ebrei. Il 1940 si affacciò all'orizzonte recando nuovi decreti repressivi, come quello che annunciava l'obbligo per gli ebrei di lavorare due anni in campi di concentramento, al fine di “ricevere un'educazione sociale appropriata”: sa-rebbe così stata cancellata la loro natura di 'parassiti'. I cancelli del ghetto vennero chiusi, lasciando centinaia di famiglie, le cui case non sorgevano entro i confini fissati, senza un tetto.

    Nel '41 la Germania invase la Russia. Gli ebrei seguivano col fiato sospeso le fasi dell'offensiva, nell'illusione che i tedeschi finalmente avrebbero perso, ma le truppe di Hitler continuavano ad avanzare senza sconfitte. Intanto l'area del ghetto si restringeva sempre di più: sembrava quasi che quella superficie fosse inversamente proporzionale all'allarga-mento dei Paesi assoggettati. La vita in quel recinto era peggiore di quella dei carcerati, perché aveva solo la parvenza di libertà, senza possederne la sostanza. Si poteva infatti uscire per le strade con l'illusione di trovarsi in una condizione di assoluta normalità. Ma dietro ad ogni angolo c'erano delle mura invalicabili. La massa umana costretta a vivere in quell'odioso recinto della vergogna era centinaia di volte superiore alla quantità di persone che quelle strade e quelle ca-se potevano contenere, così che la gente era costretta a muoversi a spinte, come in mezzo ad una folla perenne, circon-data da una puzza insopportabile. La famiglia di Wadislaw era molto unita: il fratello Henryk era un intellettuale dall'invin-cibile rigore morale, le due sorelle erano due brave e belle ragazze, il padre un grande ottimista, e la madre teneva al ri-to del pranzo di mezzogiorno da consumare tutti uniti. "Passerà tutto - diceva, mentre portava la minestra - aspettate e vedrete". Ma i tedeschi cominciarono a fare rastrellamenti. Il peggio era arrivato. Dice Wladislaw nelle sue memorie: "Se penso a come era la nostra vita in quei giorni e in quelle ore terribili, mi viene solo un'immagine alla mente: quella di un formicaio minacciato. Quando il piede di un idiota comincia a distruggere sconsideratamente un formicaio col suo tallo-ne, le formiche prendono ad agitarsi, cercando scampo da ogni parte, e invece di andare avanti e mettersi al riparo, co-me sotto un influsso malefico, tornano a ripercorrere il cerchio mortale, andando incontro alla morte. Proprio come noi". Ciascuno avrebbe potuto sentire il fischio delle SS nel cortile da un momento all'altro. Il 16 agosto del '42 arrivò il turno della famiglia Szpilman. Era inutile lottare. La madre di Wladislaw raccolse ciò che le capitò sottomano in un piccolo pacco e dopo poco erano tutti nel cortile.

    Una "sonata" per vivere II centro di raccolta degli ebrei da deportare si trovava ai limiti del ghetto, vicino ai binari della ferrovia. Via via che ar-

    rivavano le persone, il posto diveniva sempre più affollato. Mentre si accingevano a salire sui vagoni colmi oltre l'invero-simile, una mano pietosa afferrò il giovane Wladislaw e lo scaraventò fuori dal cordone della polizia. Era un poliziotto che gli disse di scappare, di salvarsi almeno lui. All'improvviso al pianista fu chiara la sorte di quella gente salita sui treni. Stava per iniziare la sua personale lotta per l'esistenza. Essa sarebbe durata più di due anni, durante i quali il suo istinto di autoconservazione si sarebbe affinato sempre di più. In questo suo viaggio all'inferno avrebbe sperimentato la so-

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    lidarietà di molti amici, ma anche la ferocia di altri, ebrei come lui, la bontà di un tedesco, la cattiveria di alcuni polacchi. Avrebbe saggiato soprattutto la sua grande resistenza fisica - al freddo, alle intemperie, alla paura, al dolore. Quando le truppe naziste stavano per abbandonare la città, per la prima volta si lasciò sorprendere. Scovato dal capitano tedesco Wilm Hosenfeld, pensò che fosse arrivato anche il suo momento. Ma l'ufficiale, quando apprese che era un pianista, gli chiese di suonare per lui. Senza nessun esercizio da più di due anni, con le dita irrigidite, sporche e tremanti, Wladislaw eseguì il "notturno"in Do diesis Minore di Chopin, quello stesso che aveva suonato nelle ultime ore di vita della stazione radio di Varsavia. Il capitano decise di aiutarlo, portandogli cibo e coperte. Grazie a quel singolare soldato più amante della musica che della guerra, il pianista ce la fece, e dopo la partenza definitiva delle truppe, la vita ricominciò anche per lui. Quando riprese a lavorare per Radio Varsavia aprì la trasmissione con lo stesso brano di Chopin eseguito l'ulti-mo giorno di attività della radio. E lo stesso che gli aveva salvato la vita poche settimane prima. Era come se la trasmis-sione fosse stata interrotta solo brevemente per consentirgli, durante quei sei anni, la più straordinaria e drammatica av-ventura della sua vita.

    Una comunità cancellata La Polonia occupa una posizione molto particolare nella memoria dell'Olocausto. È lì che prima della guerra viveva la

    maggior parte del popolo ebraico ed è proprio lì che avvenne lo sterminio degli ebrei europei. All'inizio della guerra erano tre milioni e mezzo a vivere in Polonia, alla fine ne rimasero duecentomila, oggi ce ne sono non più di qualche migliaio. Nella sola Varsavia vi erano trecentosessantamila ebrei, pari a un terzo della popolazione. Dopo la rivolta dell'aprile 1943, i quarantamila ebrei sopravvissuti si ridussero a venti per la repressione delle SS, il suicidio dei capi e la fuga degli altri. In Polonia fu costruito il maggior numero di campi di concentramento e molti pensano che nel loro progetto di ster-minio i nazisti contassero sulla collusione dei polacchi. Che in parte ci fu. L’antisemitismo, infatti, era già diffuso molto prima dell'invasione tedesca. Ma al contempo nessun'altra nazione ha aiutato tanti ebrei a sfuggire ai tedeschi come la Polonia. Dei sedicimila ariani ricordati a Yad Vashem, nel Viale dei Giusti, dove sono stati piantati altrettanti alberi, uno per ogni gentile che abbia salvato un ebreo dalla morte, un terzo sono polacchi. È quindi più probabile che i campi siano stati collocati in Polonia per ragioni logistiche, semplicemente perché quello era il luogo nel quale si trovava la maggior parte delle persone destinate allo sterminio. Per gran parte dei sopravvissuti la Polonia rappresenta il buio più profondo, vero simbolo dell'inferno. Luogo della sofferenza per eccellenza. In nessun altro posto la distruzione fu così radicale co-me negli innumerevoli shteti polacchi, cittadini e villaggi disseminati nel paesaggio e del tutto abitati da ebrei. Che cosa rimane di essi? Solo qualche traccia, qualche eco, ma anche tristezza, rabbia, senso di colpa e negazione del passato. Anche se oggi in Polonia vivono ancora alcune migliaia di ebrei, le loro comunità, con la loro specifica cultura e organiz-zazione sociale, furono completamente distrutte. I villaggi ci sono ancora, rimangono anche alcune cittadine, spesso immiserite dalla povertà del dopoguerra prima, e dall'architettura socialista dopo, qualche sinagoga è ancora in piedi ma altre stanno andando in rovina, come i piccoli cimiteri ebraici rimasti, ricoperti da siepi e da erbacce. Del mondo degli e-brei che pulsava in quei posti, con i suoi negozietti e le sue bancarelle, il suono dello yiddish e dell'ebraico non rimane più nulla.

  • La storia del ghetto di Varsavia

    Allo scopo di una migliore comprensione degli avvenimenti narrati dal film di Roman Polansky, Il Pianista, si riporta un’ampia parte della storia del ghetto di Varsavia con-tenuta nel libro “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” di L. Poliakov. La prima parte ricostruisce in generale la storia del ghetto; la seconda parte è incentrata sulla storia dell’insurrezione. Moltissimi episodi che compaiono nel film sono esplicitamente docu-mentati nel libro di Poliakov.

    [...] I ghetti. Una collettività chiusa1

    Perseguitati in tutta l'Europa, sottoposti a un regime la cui crudeltà andava sempre peggiorando, po-

    chissimi erano gli Ebrei che si aspettassero la sorte che era loro riservata. Una strage perpetrata a mente fredda, questa cosa così semplice e mostruosa, oltrepassava la loro immaginazione; si preparavano a dure prove, ma avevano la ferma speranza di vederne la fine; è questo un primo punto che conviene te-ner presente alla memoria quando si cerca di capire il fenomeno nel suo complesso. Viste nei particola-ri e secondo i paesi, le reazioni ebraiche furono varie e dissimili cosi come in tutti i tempi fu il loro de-stino. Una differenza fondamentale deve esser fatta tra l'Europa orientale — dove la collettività ebraica costituiva un'entità nazionale sui generis, ma ben definita — e i paesi dell'Europa occidentale, dove i legami che univano fra loro i membri delle comunità ebraiche avevano assunto ormai un carattere rilas-sato e ibrido, per metà religioso e per metà psicologico. Questa distinzione, sulla quale ritorneremo, è essenziale per chi vuoi comprendere la vicenda ebraica. Fra l'altro spiega perché la segregazione nei ghetti voluta dai Tedeschi sia stata praticamente realizzata solo nell'Est. Esamineremo nel presente ca-pitolo la vita di queste collettività create artificialmente. Siamo all'ultima fase che precede il genocidio: quella in cui le vittime, artificialmente isolate, ridotte alla miseria e indebolite dalla fame, fanno tenta-tivi per organizzare la loro esistenza, in attesa della fine della guerra, da cui sperano la salvezza.

    Il fatto che in Polonia, per esempio, come in certe regioni dell'Unione Sovietica, le popolazioni e-braiche, a forte densità, siano state in tutti i tempi concentrate in determinati quartieri delle città, baste-rebbe a spiegare come la segregazione nei ghetti sia stata qui più facilmente realizzabile. Il « quartiere ebraico » divenne l'area designata per il ghetto. La differenziazione accentuata della popolazione ebrai-ca, che colpiva al primo sguardo e si spingeva fino a certe particolarità dell'aspetto fisico, fu un altro fattore supplementare atto a facilitare l'isolamento artificiale. Lingua, abitudini, foggia nel vestire, tutto differenziava le vittime designate delle persecuzioni dalle popolazioni che le circondavano. Avevano creato forme di vita e di cultura diverse da ogni altra, lentamente elaborate nel corso dei secoli; civiltà unica nella sua specie, che un furore barbaro ha per sempre cancellata dalla terra. Si era sviluppata sot-to la pressione di un mondo ostile; e da questa stessa pressione la vita ebraica traeva le risorse della sua straordinaria vitalità. Gli Ebrei dell'Europa orientale avevano un'antica esperienza delle persecuzioni: il persecutore non trovò vittime impreparate, e la loro resistenza psichica facilitò il loro adattamento a forme di vita atroci; mondo di incubi, specchio deformato della condizione umana, il ghetto seppe esse-re un mondo vitale.

    Ci si può chiedere che cosa, in questa eccezionale esperienza d'una collettività umana che sia stata ermeticamente chiusa, fosse dovuto a peculiarità fondamentalmente ebraiche, e che cosa invece possa essere considerato insegnamento generale, umano, sociale: problema che sarà appena sfiorato nel corso delle pagine che seguono. Si potrebbe dire che l'intensità di certe reazioni ebraiche, il loro amore alla vita, la loro adattabilità e la loro combattività, le loro passioni e ambizioni smisurate, dovute appunto al 1 Da LEON POLIAKOV, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino, 1955.

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    fatto che il loro sviluppo vitale fu così duramente compresso nel corso dei secoli, non sono che l'e-spressione dell'universale condizione umana portata al suo punto estremo. E questo sarebbe il « signifi-cato universale dell'Ebreo»...

    Certi ghetti, specialmente dell'Urss, scomparvero per cosi dire senza lasciar traccia, e i documenti che ne esistono non sempre sono accessibili. D'altra parte, poiché ogni ghetto costituì come un mondo a sé, non è possibile narrarne successivamente la storia senza rischiare prolissità e ripetizioni.

    Ci limitiamo a esporre nei particolari la storia del più grande di essi: il ghetto di Varsavia, capitale del giudaismo polacco. È anche quello la cui vicenda è meglio conosciuta, grazie ai sopravvissuti, ma soprattutto grazie agli scomparsi. Fin dalla creazione del ghetto, infatti, un gruppo di storici aveva ini-ziato la costituzione di archivi, che registravano la sua vita giorno per giorno. Il diario tenuto dall'ani-matore del gruppo, lo storico Emmanuel Ringelblum, sarà per noi un filo conduttore estremamente pre-zioso1 . Quando nel 1942 cominciò l'agonia del ghetto di Varsavia, gli archivi furono sotterrati. I mem-bri del gruppo vi unirono i loro ultimi messaggi: «Ciò che non potevamo gridare in faccia al mondo, l'abbiamo nascosto sottoterra... », scrisse uno di essi.

    Vita e struttura di un ghetto. Come abbiamo visto, il ghetto di Varsavia fu istituito il 16 ottobre 1940: la sua creazione era stata

    annunciata, poi rinviata a più riprese. Fin dall'estate del 1940, i Tedeschi facevano costruire nelle strade dei muri, per isolare gruppi di case. A poco a poco, questi tronconi di muri si congiungevano, isolando un quartiere, verso il quale venivano avviati gli Ebrei espulsi dai villaggi e dalle cittadine di provincia. Dal 1° luglio 1940, fu loro vietato di risiedere altrove che nel settore cosi delimitato. L'ordinanza del 16 ottobre prescriveva il trasferimento in questo quartiere dei centoquarantamila Ebrei di Varsavia che abitavano fuori dei confini di esso, e l'evacuazione degli ottantamila Polacchi che vi risiedevano. E dal 16 novembre gli Ebrei di Varsavia non poterono più uscire dal ghetto senza speciale autorizzazione.

    Il numero totale degli abitanti del ghetto di Varsavia non può essere stabilito con certezza. Ai 359827 Ebrei censiti a Varsavia nell'ottobre del 1939 si aggiunsero nel 1940-41 altri evacuati dalla provincia, secondo certe fonti, in numero di centoquarantamila: nell'estate 1941 la popolazione totale del ghetto non deve esser stata lontana dal mezzo milione2. Si trattava di una collettività estremamente eterogenea, gente di tutte le età, di tutte le professioni, di tutte le classi sociali, differenziata per cultura e per lingua (all'Ebreo ortodosso, che parlava solo lo yiddish, si opponeva l'Ebreo intellettuale, la cui lingua materna era il polacco). Ne facevano parte tra gli altri un certo numero di Ebrei convertiti (molte migliaia secondo certe testimonianze)3, che frequentavano regolarmente le tre chiese comprese nel ghetto. Nei limiti della sua cinta, il ghetto contava circa millecinquecento case di abitazione o edifici vari; dopo una riduzione del suo perimetro, imposta da un'ordinanza dell'ottobre '41, si contavano in media quattordici abitanti per vano. La densità era quindi spaventosa. I Tedeschi avevano avuto cura di escludere ogni giardino, ogni zona di verde dai limiti del ghetto; l'aria fresca diventava una vera merce preziosa, e i proprietari dei pochi rari alberi esigevano una tassa speciale per il diritto di sedersi sotto di essi. Questa terribile situazione di sovrapopolazione dava la sua impronta all'aspetto delle vie, brulican-

    1 «Bleter far Geszichte» (rivista della Commissione storica ebraica della Polonia, vol. I, gennaio-marzo 1948). 2 Queste indicazioni statistiche e la maggior parte delle successive provengono principalmente dalle seguenti fonti: Lo

    sterminio degli Ebrei polacchi sotto l'occupazione tedesca dal 1939 al 1945, del prof. FRIEDMAN (opera da noi consultata in manoscritto); The Black Book of Polish Jewry, New York 1943; Hitler's ten-year war on the Jews, Institute of Jewish Af-fairs, New York 1943.

    3 Cfr. MARY BERG, Le Ghetto de Varsavie, Paris 1947, p. 134. In The Black Book of Polish Jewry si trova indicata la cifra

    di 1761 Ebrei convertiti nel gennaio del 1940.

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    ti di folla, e delle quali un testimone ebbe a dire che assomigliavano a qualcosa che stia in mezzo tra un manicomio e un mercato orientale.

    In queste condizioni, e data la mancanza di medicine, non può far meraviglia che le epidemie faces-sero strage: la più grave, quella di tifo esantematico, produsse nel corso del 1941 15749 vittime. Questi erano però flagelli minori in confronto alla fame atroce che regnava senza tregua in quel campo di con-centramento gigantesco che era ormai il ghetto. Abbiamo visto che si trattava da parte dei Tedeschi d'una politica deliberata di eliminazione per fame. Le razioni alimentari degli Ebrei erano ridotte al mi-nimo: alimenti indispensabili, come carne, pesce, verdura fresca, frutta, ecc. erano stati di proposito e-sclusi; pane, patate, surrogati di grassi ne costituivano le basi, e il valore nutritivo della razione era in media di ottocento calorie. L'isolamento del ghetto facilitava il controllo delle quantità globali di vetto-vagliamento che vi pervenivano. Le malattie dovute all'inanizione vi infierivano nei vari stadi fin dal principio e andavano aggravandosi, facendo crescere la mortalità in un modo vertiginoso1, e diminuire in forte grado l'energia e la resistenza psichica della maggioranza della popolazione. I rifugiati della provincia, senza tetto ne focolare, ne erano le principali vittime. Decine di disgraziati morivano nelle strade; i passanti ne ricoprivano frettolosamente i cadaveri con giornali, in attesa che il carro delle pompe funebri venisse a raccoglierli.

    Tranne in qualche rarissimo caso, gli abitanti potevano uscirne solo se incolonnati per lavoro; senti-nelle polacche e tedesche stavano a guardia delle quattordici porte di entrata, e sparavano a bruciapelo sugli Ebrei che si avvicinavano troppo. Le linee telefoniche, come le linee tranviarie che conducevano al ghetto, erano state interrotte (una linea speciale di tram, che portava la stella di Sion, funzionava al-l'interno del ghetto; questa «concessione » era stata data alla ditta Kohn & Heller, di cui si parlerà più oltre). Le comunicazioni postali con l'esterno erano proibite; l'entrata di pacchi di viveri fu vietata (sot-to pretesto del «pencolo di epidemie») il 1° dicembre 1941.

    Nel ghetto cosi isolato, e con ampie possibilità di controllare le quantità globali di vettovagliamento, i Tedeschi potevano applicare a loro guisa la politica di affamamento preconizzata da Frank.

    Il controllo tedesco si esercitava essenzialmente dall'esterno. Infatti, non v'erano nel ghetto uffici dell'amministrazione tedesca, ne distaccamenti delle SS o di altri reparti erano ivi acquartierati. Salvo per certe vie di transito regolarmente utilizzate (in particolare quella che portava al carcere politico di Pawiak, situato nel centro del ghetto) le intrusioni tedesche erano rare. Qualche visita di giornalisti, qualche comitiva di militari della Wehrmacht in licenza, ai quali, a titolo di svago, si offriva lo spetta-colo della lenta agonia dei sottouomini, - visite e comitive abolite, del resto, al principio del 1942, in seguito alle reazioni varie e sovente sfavorevoli che esse provocavano sugli spettatori2 . Le divise tede-sche si vedevano di rado nel ghetto; qualche distaccamento di SS, sempre gli stessi, vi effettuavano po-che ronde regolari. Cosi i nazisti potevano ipocritamente pretendere di aver accordato l'« autonomia » agli Ebrei. La preoccupazione dell'amministrazione tedesca, diretta da Auerswaid, commissario del ghetto, era d'isolarlo al massimo, e di ricavarne il possibile sotto forma di forniture e di prestazioni di mano d'opera, insieme mirando, per mezzo della fame, all'indebolimento biologico dei suoi occupanti.

    1 A Varsavia si ebbero 344 decessi di Ebrei nel giugno del 1939, 1094 nell'aprile del 1940, 4290 nel giugno del 1941, e 5700 nel settembre 1941 (Hitler's ten-year war on the Jews cit.). Nell'aprile del 1941 si ebbero 361 nascite e 81 matrimoni (The Black Book of Polish Jewry). Era stata creata una commissione di medici al fine di studiare l'evoluzione patologica del-la denutrizione secondo i cui calcoli, mantenendo un ritmo prefissato, la popolazione del ghetto avrebbe impiegato cinque anni per scomparire (testimonianza del dottor Israel Rothbalsam raccolta dalla signora Novic).

    2 Emmanuel Ringelblum riferisce a questo proposito: « ... Un gran numero di Tedeschi veniva a visitare il cimitero e l'o-

    bitorio, dove si trovavano ammucchiati i cadaveri trovati nella strada o quelli dei disgraziati mora di fame, in attesa di essere inumati nella fossa comune. Discussioni nascevano fra i Tedeschi a proposito della questione ebraica. Alcuni esprimevano il loro piacere a vedere le vittime della politica di sterminio hitleriana, ma altri manifestavano la loro indignazione e si appel-lavano alla " cultura tedesca ". Dato il loro effetto indesiderabile, le escursioni sono state vietate» (Diario, 8 maggio 1942).

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    Come tutti gli altri, anche il ghetto di Varsavia era amministrato da un « Consiglio ebraico » nomi-nato dai Tedeschi dopo l'occupazione della città.

    Molto inchiostro fu versato a proposito dei Consigli ebraici, strumenti di esecuzione delle volontà tedesche in tutte le loro gradazioni, dall'isolamento allo sterminio. Una vergogna incancellabile pesa su questi organi di autentica collaborazione, i cui mèmbri erano signori nel ghetto e beneficiavano di pre-rogative sicure; il paragone con i Quisling o i Laval viene spontaneamente alla penna. Si pensi, tuttavia, che i Tedeschi si trovavano non già davanti a un paese vinto, con la sua struttura e i suoi organi di am-ministrazione, ma a un artificiale agglomerato umano creato da loro e che, in un modo o in un altro, doveva trovare un modo di organizzazione interna e di rapporti con i Tedeschi. Storicamente, i Consigli ebraici erano inevitabili. Diversi giudizi possono essere avanzati, a seconda dei casi, sui motivi che i-spirarono quegli uomini e sul modo come svolsero le loro funzioni. È certo che sovente pessimi ele-menti si insinuarono nei Consigli. Quali che abbiano potuto essere i moventi dei loro mèmbri, e qua-lunque critica si possa muovere alla loro politica, una scelta obbligatoria fra il martirio e l'ignominia sta alla fine della loro vicenda. Per suprema ironia, la scelta che essi fecero allora era destinata ad avere una portata pratica assai limitata a vantaggio dei loro amministrati, o di loro stessi. Tutti sono morti: quelli che hanno anticipato la loro fine o quelli che hanno scelto il suicidio, beneficeranno, senza dub-bio, di qualche circostanza attenuante allo sguardo della storia.

    Il Consiglio ebraico di Varsavia contava ventiquattro mèmbri, tutti nominati dai Tedeschi, ed era presieduto dall'ingegnere Adam Scerniakov. La maggior parte delle funzioni governative usuali rien-trava nelle sue attribuzioni. Venne istituito un corpo di polizia ebraica, di più di mille uomini; furono stabilite delle imposte, che permisero di organizzare una rete di assistenza sociale e di cucine popolari, al fine di soccorrere e di nutrire gli indigenti sempre più numerosi. Tuttavia, come si vedrà più oltre, questo settore essenziale delle attività del ghetto aveva una propria autonomia. Spettava al Consiglio e-braico fornire i battaglioni di mano d'opera richiesti dall'occupante. La preparazione artigianale e un embrione di insegnamento elementare ufficialmente ammesso1 erano assicurati dal Consiglio; e così pure le questioni mediche e sanitarie, l'organizzazione degli ospedali, la lotta contro le epidemie. Il Consiglio organizzò anche officine dove lotti di materie prime (tessili, cuoi, ecc.) forniti dai Tedeschi venivano lavorati dagli operai e artigiani del ghetto per uso della Wehrmacht. Tuttavia la maggior parte delle attività economiche del ghetto aveva il suo fulcro fuori del Consiglio. Erano dirette sia dagli stessi Tedeschi, sia da certi personaggi che avevano saputo entrare nelle loro buone grazie. Sta di fatto che, esattamente come la collaborazione amministrativa, la collaborazione economica aveva una sua tragica necessità pratica; e l'interesse economico offerto dal ghetto rappresentava la sua principale garanzia di sopravvivenza. Abbiamo citato nel capitolo II alcuni documenti tedeschi, i quali ponevano l'accento sul significato che rappresentava per la Wehrmacht in particolare l'apporto della mano d'opera industriale e artigianale ebraica. Gli Ebrei del ghetto di Varsavia non lo ignoravano. Fin dall'aprile 1942, Emmanuel Ringelblum annotava nel suo diario:

    ... La storia dei popoli non ha mai conosciuto una tragedia simile. Un popolo che odia i Tedeschi con tutte le forze della

    sua anima non può riscattarsi dalla morte se non al prezzo di contribuire alla vittoria del nemico, di quella vittoria che signi-fica il suo sterminio completo in Europa e forse nel mondo intero...

    La gran maggioranza di queste lavorazioni era sostenuta da imprenditori tedeschi come Walter To-

    ebbens, le cui tessiture e concerie occupavano migliaia di operai. Questo lavoro significava per l'ope-raio ebreo una paga sicura, vantaggi nel vettovagliamento e l'esenzione dai lavori forzati; doveva signi-ficare, nel periodo finale, una garanzia provvisoria contro la deportazione e la morte. Una strana solida-

    1 Al momento della creazione del ghetto, i Tedeschi rifiutarono l'autorizzazione per l'apertura delle scuole. Solo nel maggio 1941 fu possibile istituire classi per cinquemila bambini («Gazeta Zydowska», n. 34 del 29 aprile 1941).

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    rietà d'interessi si stabiliva quindi fra l'Ebreo sfruttato e il suo sfruttatore tedesco, in lotta per la conservazione dei suoi schiavi. Dal lavoro

    talvolta derivavano loro tristi soddisfazioni: cosi quando al principio del 1942 più di duecentomila divi-se tedesche, insanguinate e lacere, arrivarono a Varsavia per essere pulite e riparate nei laboratori e-braici (Ringelblum riferisce che le tasche di certi camiciotti contenevano ancora le lettere che i soldati, dalle ultime plaghe dell'inverno russo, inviavano alle loro famiglie).

    Il movimento economico ufficiale era limitato così all'introduzione di scarse derrate alimentari e alle materie prime utilizzate nei laboratori del ghetto, esportate poi sotto forma di prodotti finiti. Questi scambi si facevano principalmente attraverso l'Umschlagplatz, immensa stazione di smistamento stabi-lita vicino a una delle porte. Ai margini, il ghetto conosceva un'altra vita economica viva e intensa.

    I risparmi dei suoi abitanti, i gioielli, il denaro, gli utensili e oggetti vari che alcuni Ebrei erano riu-sciti a conservare, ne costituirono la base essenziale. Vi si aggiunsero alcuni stock di materie prime, di merci rare che i loro possessori erano riusciti a conservare.

    Ai laboratori, alle officine già esistenti nel ghetto, l'ingegnosità dei suoi imprenditori, dei suoi inge-gneri e dei suoi chimici permise di aggiungere un gran numero di industrie nuove: industrie alimentari (conserve di pesce, lavorazione della carne equina, marmellate « sintetiche » e surrogati di ogni sorta), concerie e tintorie clandestine, e perfino industrie di lusso (cioccolato, sigarette, orologeria). Alcuni di questi prodotti erano destinati all'esportazione; certi commercianti ebrei riuscivano nel corso dei primi mesi a trattare affari con la città « ariana » per telefono senza lasciare il ghetto. Esportazioni e importa-zioni si facevano sia clandestinamente, che con la complicità dei doganieri tedeschi dell'Umschla-gplatz1 . In cambio di denaro e di prodotti clandestini, un afflusso regolare di vettovagliamento perve-niva al ghetto; ove ne beneficiava una classe assai ristretta di privilegiati. I contrabbandieri del ghetto ne furono gli agenti attivi, dal grosso imprenditore che lavorava in complicità con le guardie ucraine o tedesche, ai bambini ebrei che uscivano di nascosto attraverso le fognature o insinuandosi attraverso gli interstizi dei muri. Le principali merci di contrabbando erano le patate e, soprattutto, la farina: decine di mulini clandestini furono installati nelle cantine, nei granai; poiché funzionavano a mano, ed esigevano quindi una mano d'opera abbastanza numerosa, tosto si costituirono in sindacato clandestino. I grossi contrabbandieri rappresentavano nel ghetto una confraternita importante e rispettata; una borsa d'assi-curazione funzionava, in via Naiewki n. 13, per assicurare i grossi carichi di contrabbando.

    Tali i palliativi che il corso stesso della vita apportava al cerchio di ferro mediante il quale i Tede-schi si sforzavano di strangolare il ghetto.

    Per lottare contro queste attività, i Tedeschi istituirono, indipendentemente dalla polizia del Consi-glio ebraico, una speciale polizia economica, incaricata soprattutto di segnalare e confiscare la mercé introdotta clandestinamente. Questa polizia dipendeva direttamente dalla Gestapo di Varsavia. Installa-ta in via Leszno n. 13 e diretta da un certo Chaim Ganzweich, e conosciuta nel ghetto sotto la designa-zione di «i Tredici», riuniva sinistri figuri, come ne sorgono spontaneamente nei momenti più torbidi. Personaggi di questa fatta erano d'altra parte i più adatti per intendersi con i loro compari SS e per comprarli. I rapporti di Ganzweich con la Gestapo gli procuravano un certo numero di favori, fra i quali il rilascio d'una quantità limitata di lasciapassare era il più apprezzabile. Egli potè dunque avviare un numero incalcolabile di traffici vari, e divenne rapidamente uno dei magnati del ghetto. Teneva tavola imbandita, posava a mecenate, mantenendo a sue spese scrittori e artisti, e fondando persino per loro una casa di riposo. Aveva pure organizzato a sue spese un servizio di ambulanze (il «Soccorso rapido») il cui personale era vestito con uniformi di sua invenzione. È opportuno notare a questo

    punto che nella società del ghetto, più che in qualunque altra, i grandi filibustieri avevano tendenza a compensare i loro eccessi con una parvenza di attività sociale, e a giustificare i servigi che prestavano

    1 MAKY BERG, Le Ghetto de Varsavie cit.; s. ROTHBALSAM, Souvenirs d'un médecin juif, raccolti dalla signora Novic.

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    ai Tedeschi, assumendo la parte di benefattori del popolo. Una delle cause potrebbe essere un moto di solidarietà nato dal senso della sorte estrema comune con l'ultimo dei miserabili del ghetto1.

    La banda dei « Tredici » fu liquidata, per oscure ragioni, e, a quanto sembra, da una sezione della Gestapo differente da quella con cui lavorava, nel maggio 1942, molto prima delle deportazioni e della liquidazione finale.

    Altre potenze si affermarono nel ghetto, che, senza essere investite di funzioni ufficiali, godevano di fatto d'un potere considerevole. Cosi il gruppo Kohn-Heller, con-cessionari dell'unica linea tranviaria del ghetto. Si trattava di una ditta commerciale che prima della guerra aveva avuto numerosi rapporti d'affari con la Germania. Se la banda dei « Tredici » traeva il suo potere dalla Gestapo, Kohn e Heller godevano invece delle grazie dell'amministrazione del commissario Auerswald. Il sistema era identico: informazioni e servigi vari resi ai Tedeschi, mance e regali. L'intercessione di Kohn-Heller era decisiva per ottenere l'autorizzazione a introdurre merci nel ghetto. Essi stessi erano diventati i principali impor-tatori: godevano in particolare del monopolio dell'introduzione dei medicinali, ma importavano anche derrate alimentari su larga scala2. Presentandosi l'occasione facevano anche i delatori: Ringelblum at-tribuisce loro in particolare le responsabilità della notte sanguinosa del 18 aprile 1942, che causò molte decine di vittime, e che aveva come obiettivo i tipografi e i distributori della stampa clandestina del ghetto. Il fasto, l'ostentazione di cui si circondavano Kohn e Heller superavano, se è possibile, quelli di cui faceva sfoggio la banda dei « Tredici ». Organizzavano ricevimenti e banchetti sontuosi: la celebra-zione della circoncisione del suo primogenito fu annunciata da Heller con manifesti affissi in tutte le vie del ghetto (come il battesimo d'un figlio di re. Questa stravagante tendenza dei Grandi del ghetto ai fasti regali raggiunge il colmo nel ghetto di Lodz; parleremo più oltre del suo «decano» Chai'm Rum-kowski). Nell'ottobre '41, la linea tranviaria fu soppressa e sostituita con un servizio di diligenze: fu il segnale del declino progressivo di Kohn e Heller, la cui fine fu altrettanto oscura di quella dei «Tredi-ci».

    La lotta contro la fame. Una fame rabbiosa e nuovi pericoli a ogni istante incombevano sugli abitanti del ghetto: la lotta per

    la vita era diventata lo scopo essenziale della loro esistenza. Condizioni di questo genere sono propizie per mettere a nudo la natura più intima degli uomini, per far cadere le maschere convenzionali, esacer-bando i conflitti di ogni specie, e accentuando i contrasti. La società umana, tuttavia, continua a esistere (è facile far congetture sul corso che avrebbe preso l'evoluzione del ghetto se esso avesse potuto perpe-tuarsi, dando origine a nuove generazioni. Ma non ebbe che due anni di vita). Agli estremi che abbiamo descritti, si offrivano spontaneamente dei palliativi.

    Uno di questi fu l'istituzione dei « Comitati di casa » che si costituirono in ogni fabbricato fin dalla

    1 Nel suo studio sul ghetto di Kaunas, S. Gringauz cita un caso analogo e particolarmente caratteristico, quello dell'ebreo

    Serebrowitz: «Serebrowitz era un funzionario della Gestapo. Non viveva nel ghetto, ma in città. Aveva ricevuto una buona educazione ebraica, era ben dotato, ed era stato un avventuriere intellettuale prima della guerra... Era già temuto prima della guerra, essendo al servizio della polizia politica e contemporaneamente agente del controspionaggio tedesco. Quantunque vivesse fuori del ghetto, teneva a presentarsi nel ghetto come un " benefattore " e un martire della causa ebraica. Una sera, invitò a casa sua gli intellettuali del ghetto - professori, letterati, avvocati, giornalisti - e tenne loro un lungo discorso ideo-logico, esponendo la sua confusa filosofia della Storia. Concluse con queste parole: " Io soffro più di voi, quantunque mangi e viva meglio di voi. Voi avete almeno una speranza di sopravvivere. Io sarò fucilato molto prima di voi ". Lui, sua moglie e i suoi due bambini furono fucilati dalla Gestapo al principio del 1943» (s. GRINGAUZ, The Ghetto as a Social Experiment, «Jewish Social Studies» New York, gennaio 1949).

    2 In un esempio citato da Ringelblum, venti vagoni di patate importate nel ghetto da Kohn e Heller e comperate al prezzo

    di 0,40 zloty al kg, furono rivendute a 2 zloty al kg.

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    creazione del ghetto. I membri, da cinque a dodici, erano eletti dagli abitanti della casa: compito dei Comitati era di venire in aiuto agli inquilini più indigenti, sia che si trattasse del loro nutrimento, che di vestirli o di assisterne i bambini. Gl'inquilini più agiati erano tassati a questo fine. Queste istituzioni, del tutto indipendenti dal Consiglio ebraico, alleggerivano in parte il peso delle terribili ingiustizie so-ciali che regnavano nel ghetto. Presto esso fu coperto da una rete di Comitati, che si raggrupparono per creare dei Comitati di circondario: questi ultimi, a loro volta, inviavano dei delegati alla Commissione centrale dei comitati del ghetto. In tal modo nacque spontaneamente un'assemblea rappresentativa del-l'opinione pubblica, senza altro potere che un'autorità morale. Il suo raggio d'azione fu tuttavia indiscu-tibile. Gran parte dell'assistenza sociale del ghetto, e in particolare alcune mense, funzionava sotto l'e-gida della Commissione centrale e dei suoi organi, che controllava cosi un problema importantissimo: l'alimentazione degli indigenti. Più volte, il Consiglio ebraico tentò di subordinare a sé i Comitati di ca-sa, ma la Commissione centrale riuscì a difenderne l'indipendenza fino alla fine.

    Cosi, in conformità alle più pure tradizioni della solidarietà ebraica, emergevano temperamenti di veri lottatori, uomini e donne che buttandosi con ardore nel lavoro sociale vi spendevano ogni loro e-nergia. Era gente di ogni età e ogni classe sociale, semplici artigiani e intellettuali tra i più qualificati, mèmbri di tutti i partiti politici, che soffrivano anch'essi la fame e il freddo. Nessuna fatica, nessuna difficoltà faceva loro paura, ne i rischi del contagio nelle case infettate dal tifo, ne le manovre infide e la pericolosa opposizione delle autorità « ufficiali ». In questa attività cosi febbrile e intensa, le donne avevano una parte di primo piano, parte che talvolta diventò preponderante, soprattutto verso la fine. « In numerosi Comitati di casa, le donne sostituiscono gli uomini, - scriveva Ringelblum il 3 giugno 1942, — che sfiniti cedono il posto, logorati dal lavoro ch'essi hanno prestato. In certi Comitati, la dire-zione è interamente affidata alle donne; per l'assistenza sociale, più indispensabile che mai, rappresen-tano una riserva di forze nuove... »

    Innumerevoli campi di attività si offrivano nel ghetto alla gente di buona volontà. Le organizzazioni giovanili, quelle stesse che più tardi fornirono i quadri della resistenza del ghetto, tentavano di ovviare alla fame coltivando i più piccoli spazi disponibili. Furono coltivati degli orti sopra le rovine delle case bombardate; la verdura fu seminata sui balconi e perfino sui tetti; qualche contingente di giovani volon-tari fu autorizzato a coltivare dei campi fuori del ghetto. Fattorie collettive di giovani sionisti ebbero modo d'altronde di sopravvivere nei dintorni di Varsavia, e contribuivano al vettovagliamento del ghet-to.

    Questa attività non era però che una goccia d'acqua nel mare. Nel maggio del 1942, Ringelblum scriveva nel suo diario:

    L'assistenza sociale non risolve il problema: prolunga l'esistenza, ma la fine è inevitabile. Prolunga le sofferenze e non

    apporta soluzioni, perché non dispone dei mezzi necessari. I clienti delle mense popolari, ridotti alla minestra e al pane sec-co, muoiono, a poco a poco. Sorge il problema di sapere se non sarebbe stato meglio assistere in primo luogo le persone preziose dal punto di vista sociale, le élites spirituali e così via; ma la situazione è tale che perfino per questi eletti i mezzi di cui disponiamo sono insufficienti, e d'altra parte ci si domanda perché bisognerebbe sacrificare esseri umani che prima della guerra erano operai o artigiani produttivi, e che solo la guerra ed il ghetto hanno trasformato in feccia della popolazione e in candidati alle fosse comuni. Questo è il tragico dilemma: dobbiamo aiutare a cucchiaiate, il che è insufficiente alla soprav-vivenza, o dobbiamo aiutare a piene mani un piccolo gruppo di eletti?...

    Si presentava quindi il tragico problema delle bocche inutili, e la soluzione adottata, fino alla fine

    del ghetto, fu l'assistenza diretta a tutti i bisogni senza alcuna eccezione, e conseguentemente del tutto insufficiente. Abbiamo visto che gli evacuati della provincia furono le prime vittime della fame, poiché morivano a migliaia; la clientela delle cucine popolari cambiava quindi progressivamente carattere, e gli Ebrei della stessa Varsavia venivano a sostituirsi a quelli della provincia, dei quali solo poche mi-gliaia restavano in vita nel luglio del 1942. Secondo Ringelblum, essi si lasciavano morire senza ri-bellione, e il cronista si pone degli interrogativi sulle ragioni di questa passività, trovando da solo la ri-

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    sposta: Un fatto sconcertante è la passività delle masse ebraiche che muoiono in silenzio. Perché tacciono? Perché muoiono sen-

    za protestare? Perché non si sono realizzate le minacce che noi facevamo, le ribellioni, i saccheggi, questi pericoli che han-no stimolato i Comitati di casa e li hanno incitati a costituire delle riserve di viveri?

    Molte sono le risposte. Gli occupanti hanno istituito un tale regime di terrore che si ha paura ad alzare la testa. Degli as-sassini in massa possono essere la risposta a qualunque reazione delle masse affamate: questa è la ragione del ritegno della parte ponderata della popolazione. C'è un'altra ragione: una parte delle classi povere, la parte più attiva, è riuscita a siste-marsi in un modo o in un altro. Il contrabbando apre possibilità a migliaia di facchini che incassano dieci zloty per ogni sac-co trasportato in più della tariffa. Gran parte degli operai e artigiani ha trovato lavoro nei laboratori che lavorano per i Tede-schi. Altri sono diventati venditori ambulanti. Sono rimaste al di fuori le persone passive, che hanno meno capacità di ripre-sa, e muoiono in silenzio. La polizia ebraica, che ha imparato a colpire, a inviare la gente nei campi di lavoro e a far regnare l'ordine, è un altro fattore che tiene le masse tranquille. Le vittime della fame sono in gran parte i rifugiati di provincia, che si sentono persi e scoraggiati in un ambiente straniero. Le loro reazioni si limitano ai lamenti; assalgono i passanti per le strade ed esigono energicamente l'elemosina, assediano le associazioni di carità e protestano presso i Comitati di casa... Ho parlato recentemente con uno di questi rifugiati. Tutti i suoi pensieri si concentravano sul cibo, ovunque vada e qualunque cosa faccia, sogna il pane, si ferma davanti a ogni panetteria, davanti a ogni vetrina. Intanto era diventato rassegnato e apati-co, nulla lo interessava più: aveva difficoltà a lavarsi e lo faceva solo perché vi era abituato fin dalla sua infanzia... Forse questa passività provocata dalla fame è la causa del fatto che le masse ebraiche soccombono in silenzio alla fame senza pro-testare vigorosamente...

    Non c'è molto da aggiungere a queste righe: esse ci fanno nello stesso tempo capire una delle ragioni essenziali per la quale la resistenza ebraica è stata cosi lenta a manifestarsi nel ghetto. La mendicità di cui parla Ringelblum apportava al quadro del ghetto una delle sue note caratteristiche. Dopo aver speso le ultime economie, venduto gli ultimi stracci, i disgraziati cercavano mendicando un ultimo comple-mento alla magra razione delle cucine popolari. Adulti e bambini, isolati o a gruppi, tendevano la mano per le strade, passavano perfino dalla «parte ariana», disprezzando ogni rischio, pur di raccogliere qual-che soldo. Sopravveniva allora l'ultimo stadio, quello della lenta agonia nelle strade. Mary Berg rievoca nel suo diario « lo stuolo di bambini, i cui genitori sono morti, seduti per la strada. I loro poveri corpi-cini sono d'una magrezza spaventosa, si vedono le ossa attraverso la pelle gialla, che ha l'aspetto della pergamena... si trascinano per terra gemendo, non hanno più nulla di umano, e paiono più scimmie che bambini... » Pochi passi più in là, in certi caffè del ghetto, si poteva trovare « assolutamente tutto quel che si vuole, i liquori più cari, cognac, pesce salato, conserve di ogni sorta, anitra, pollo, oca: il prezzo del pasto con vino va da cento a duecento zloty...»1.

    Psicologia del ghetto: l'evasione spirituale. Le esperienze degli anni 1939-45 ci hanno apportato insegnamenti sconcertanti sul funzionamento

    della società e sulle reazioni di uomini sottoposti a pressione inimmaginabile e a torture senza nome. Molti sopravvissuti ai campi di concentramento hanno lasciato intendere parole di sconforto sulla sorte riservata ai valori umani nelle anticamere della morte, ma quando sono stati conservati, hanno saputo innalzarsi fino alle vette del sublime. Il ghetto non era altro che un campo di concentramento più auto-nomo e più differenziato; e i contrasti sociali (lusso-miseria) come i contrasti morali (egoismo feroce-altruismo totale) vi si ritrovano spinti fino all'estremo.

    È incerto se l'origine ebraica degli abitanti abbia aggiunto qualche caratteristica particolare. Forse ebbe l'effetto di accentuare certi caratteri come il magnifico sforzo di solidarietà e di aiuto sociale che abbiamo descritto. Altre particolarità che ora vedremo si spiegano forse parzialmente con tratti del ca-rattere nazionale ebraico, quale si è andato sviluppando nel corso dei secoli. Anche qui si tratta di rea-

    1 MARY BERG, op. cit., pp. 65-66 e 98.

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    zioni di significato universale, ma portate nel caso presente a un grado di grande intensità. A parte la qualità dell'espressione, la ricerca del sollievo intellettuale o artistico, cosi come lo spirito

    di curiosità disinteressata, si sono consolidate piuttosto che indebolite nel ghetto. Molti teatri funziona-rono sino alla fine. Giovani compagnie di dilettanti facevano concorrenza agli attori di professione. Abbiamo visto che i grandi rapaci del ghetto si facevano un punto d'onore di nutrire o mantenere artisti, musicisti o letterati. D'altra parte, l'insegnamento, quantunque vietato o vessato da parte dei Tedeschi, si sviluppò nella clandestinità su larga scala e in tutti i gradi. Mary Berg ci ha lasciato una descrizione commovente di tali lezioni clandestine: una scuola d'arti grafiche e di disegno industriale con vari corsi completi di studio, esami di fin d'anno e rilascio di diplomi. Persino la scienza pura trovava da eserci-tarsi nel ghetto. Cosi un gruppo di medici intraprese una serie di studi sugli aspetti patologici della fa-me. I fondi necessari provenivano da donazioni private; apparecchi speciali furono installati negli o-spedali. I risultati delle ricerche, messi al sicuro nella Varsavia « ariana » man mano che si svi-luppavano le osservazioni, sono stati ritrovati dopo la guerra e sfruttati1.

    La vita intellettuale degli abitanti del ghetto fu di intensità singolare. Il gusto della lettura, cosi svi-luppato in tutti i tempi presso gli Ebrei, era più forte che mai. L'attualità si trovava evidentemente al primo posto nelle loro curiosità: ma solo un magro bollettino ufficiale controllato dai Tedeschi, la «Ga-zeta Zydowska», e pochi giornaletti clandestini pubblicati nel ghetto, erano loro accessibili. In queste condizioni, l'interesse andava alle lettere, alla storia, e soprattutto ai periodi che permettevano di stabili-re confronti con le vicende del momento. Ringelblum ci ha lasciato su questo tema alcune conside-razioni, che, datate nel maggio 1942, rappresentano un documento di commovente lucidità:

    Che cosa si legge?... Ci si chiederà dopo la guerra: ove erano rivolti gli spiriti degli uomini del ghetto di Varsavia, di

    quegli uomini che sapevano che la morte li attendeva, quella morte che già ha pesato sugli abitanti delle piccole città? Si po-trà ben dire che non abbiamo perduto il nostro intelletto;

    la nostra mente lavora come prima della guerra. Il lettore serio si interessa molto alla letteratura di guerra. Si leggono libri di memorie, come quelle di Lloyd George, i

    grandi romanzi della guerra 1914-18 e cosi via. Si assaporano le pagine che trattano dell'anno 1918 e della disfatta tedesca. Si cercano dei paragoni con i tempi attuali, si cercano prove che la disfatta dell'invincibile esercito tedesco è vicina. Si gusta con piacere particolare il racconto del ricevimento dei parlamentari tedeschi a Compiègne e si vede già nell'immaginazione come si svolgerà una nuova Compiègne ancora più sorprendente. Ho riletto da parte mia recentemente l'importante opera di van der Meersch sull'occupazione tedesca in Francia e nel Belgio 2(1) . A ogni passo, il paragone si impone con l'epoca at-tuale, ben più terribile ancora che quella della guerra precedente. Una cosa resta identica: le spoliazioni e l'oppressione spie-tata e fredda della popolazione civile dei paesi occupati... La popolazione era stata messa in schiavitù e costretta a lavorare come ai nostri giorni. Dopo la lettura di questo libro, ci si domanda che si è fatto, per evitare un nuovo regime degli Unni in Europa.

    Molti lettori si appassionano per i tempi di Napoleone. Si va alla ricerca di analogie fra Hitler e Napoleone, sempre a vantaggio di quest'ultimo, perché se ebbe sulla coscienza fiumi di sangue versato su tutti i campi di battaglia di Europa, sep-pe pure scuotere il mondo feudale e apportare il nuovo ordine rivoluzionario; Hitler invece lascerà dietro di sé solo decine di migliaia di vittime e un'Europa desolata e in rovina. Si ama leggere la storia di Napoleone, perché si vede qui come la stella d'un dittatore invincibile non sia eterna, e possa declinare più velocemente che non si immagini. Vale a dire che si leggono soprattutto le pagine sulla campagna di Russia... si spera che la storia si ripeterà. Guerra e Pace di Tolstoj è riletto da gente che l'ha già letto più d'una volta, per il modo come tratta l'epopea napoleonica.

    In altre parole non avendo la possibilità di vendicarsi sul nemico nella realtà, si cerca di farlo nell'immaginazione e col-l'aiuto della lettura...

    L'evasione nella lettura e nella storia apportava cosi qualche sollievo agli abitanti del ghetto e li aiu-

    tava a vivere. Il conforto principale, però, lo trovavano in se stessi, in quella vitalità e in quell'ottimi-

    1 Testimonianza del dottor Israel Rothbalsam, trascritta dalla signora Novic. Cfr. anche un articolo nel «Figaro Littérai-re».

    2 M. VAN DER MEERSCH, Invasion 1914.

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    smo così carat-teristici negli Ebrei. Occorre però distinguere fra l'Ebreo polacco, che ha conservato in-tatte le tradizioni e le esperienze di secoli di vita propriamente ebraica, e l'Ebreo occidentalizzato e as-similato. Abbiamo visto nel primo capitolo l'insopportabile dramma morale che rappresentava per gli Ebrei tedeschi l'essere espulsi fuori dalla comunità nazionale. Questo choc affettivo era stato rispar-miato alla grande maggioranza degli Ebrei polacchi, dei quali abbiamo evocato la lunga tradizione di persecuzioni, e quella consuetudine da cui essi traevano la loro forza di resistenza psichica. Per effetto di un vero meccanismo di compensazione, essa aveva loro permesso di crearsi quella magnifica vitalità e quella fede nell'avvenire, fuse nel mondo millenario della fedeltà alla Legge e ai Profeti, che li aiuta-va a far fronte a tutte le minacce, a sopravvivere a secoli di pogrom e di miseria. Una resistenza a tutta prova andava di pari passo con un'elasticità ostinata. Una tecnica particolare di rapporti con i detentori del potere si era venuta elaborando nel corso dei secoli presso gli Ebrei; essi vi riponevano parte delle loro speranze. Sognavano corruzioni grandiose offerte alla Gestapo; contavano fermamente sulle ne-cessità econo-miche della Wehrmacht, e i nazisti ne traevano profitto in mille modi, soprattutto col si-stema fraudolento dei « certificati di protezione » che assicuravano loro una mano d'opera docile. So-prattutto gli Ebrei non potevano credere a tanta crudeltà. Tutto contribuiva cosi ad alimentare il loro ot-timismo tradizionale: la duplicità tedesca e la mostruosa estensione dei massacri che sotto di questa si nascondeva. Finché speravano, potevano vivere. Sintomo caratteristico della vitalità del ghetto: l'epide-mia di suicidi che si abbattè sugli Ebrei di Germania, per esempio, fu sconosciuta a Varsavia, fatta ec-cezione precisamente per un gruppo di Ebrei tedeschi deportati dalla Germania in Polonia, e che bene-ficiavano di condizioni materiali superiori al resto della popolazione. L'entusiasmo del ghetto per lo studio dell'inglese (la cui conoscenza doveva servire all'emigrazione del dopoguerra) era un altro sin-tomo della robusta fede ebraica nell'avvenire.

    Il confine fra la speranza e l'illusione era talvolta difficile a distinguersi. In ogni istante, ma soprat-tutto nei momenti più tragici, le masse ebraiche del ghetto erano pronte a credere che la fine della guer-ra fosse imminente e che la vita sarebbe ridivenuta immediatamente «normale»; voci varie aiutavano a conservare questo stato d'animo; così, una vera industria di «falsi bollettini» della radio si era sviluppa-ta, mantenuta da qualche giornalista poco scrupoloso, che redigeva e metteva in circolazione questi fan-tastici comunicati1. Gli animi più posati erano evidentemente incapaci di sostentarsi con l'aiuto di mez-zi cosi fallaci. L'umorismo ebraico, amaro e sarcastico, offriva loro talvolta qualche possibilità di eva-sio-ne. Ringelblum da numerosi esempi di queste invenzioni dello spirito popolare. Citeremo questa, ove la disperazione si nasconde sotto la smorfia : « Churchill va a consultare un rabbino miracoloso sul modo di vincere la Germania. Due vie sono possibili, gli dice il rabbino; una via naturale: l'Eterno in-vierà in Germania un milione di angeli armati di spade fiammeggianti; e una via soprannaturale: lo sbarco di un milione di soldati britannici...»

    Il crepuscolo del ghetto. Il ghetto di Varsavia non ebbe che due anni di vita. Mentre i suoi abitanti cercavano di sopravvivere

    a dispetto del loro destino, l'ingranaggio del genocidio si metteva in movimento. Fin dal principio del 1942, le eliminazioni in massa cominciavano in Polonia. Nell'aprile del 1942, le prime notizie sui mas-sacri avvenuti nella provincia pervenivano al ghetto. Il 12 aprile, Ringelblum parla nel suo diario di vo-

    1 L'8 maggio 1942, Ringelblum aveva annotato il testo di qualche «falso bollettino»: «... Che dicono questi bollettini?

    Anzitutto, Smolensk è stata conquistata per me2zo di uno sbarco di sessantamila soldati, che si sono congiunti all'Esercito Rosso. Questo stesso bollettino ha anche fatto cadere Charcov. Ha fatto sbarcare a Murmansk un'armata trasportata da. cen-tosessanta navi, nessuna delle quali è stata affondata. Se ancora non bastasse, hanno per di più assassinato Mussolini e com-piuto una rivoluzione in Italia. Si aggiunga, per finire, un ultimatum di Roosevelt al popolo tedesco, che scadrà il 15 mag-gio...»

  • 11

    ci circa l'arrivo a Varsavia d'una brigata addetta all'eliminazione. Il massacro dei quarantamila Ebrei del ghetto di Lublino vi fu conosciuto pochi giorni più tardi1. Il 17 aprile e al principio di maggio si verifi-carono dei pogrom che contribuirono ad appesantire l'atmosfera. L'8 maggio, Mary Berg scrive:

    «...Gli assassini perpetrati nella notte continuano, può darsi che la metà della popolazione sia scom-parsa prima della fine della guerra... È diventato molto pericoloso percorrere lunghi tratti nel ghetto. Ciò nonostante, la vita segue il suo corso, i negozi sono aperti... nei teatri si recita come al solito...» 2.

    Informazioni più precise a proposito del campo di sterminio di Belzec, dei massacri di Pabianice e di Biala Podiaska, annotate da Ringelblum nel suo diario nel giugno 1942, dimostrano che gli uomini in-formati non ignoravano la fine imminente del ghetto, anche se fra le masse l'illusione si conservò più a lungo.

    L'uragano scoppia un mese dopo. Il 22 luglio 1942, un manifesto affìsso per conto del Consiglio e-braico annunciava agli abitanti del ghetto che sarebbero stati deportati « verso est », senza distinzione di età ne sesso; solo gli Ebrei occupati nelle industrie tedesche, o impiegati nelle istituzioni del Consi-glio, sarebbero stati esentati. Così cominciò l'agonia del ghetto. Esamineremo in altro capitolo i proce-dimenti usati dalle SS per raggiungere i loro fini con la massima economia di mezzi, con o senza l'aiuto dei Consigli ebraici; essi riguardano ormai le tecniche tedesche della morte, non più la volontà ebraica di vivere. Mentre i treni partivano verso i campi della morte, gli Ebrei si aggrappavano con moltiplica-ta energia alla principale e provvisoria ancora di salvezza: i certificati di impiego presso i negrieri tede-schi. Selezioni sistematiche erano state compiute dalle SS nei laboratori, al fine di eliminare gli operai troppo vecchi o di scarso rendimento, i quali ricorrevano a vari sotterfugi, si ringiovanivano con certifi-cati di nascita alterati o tingevano in nero i loro capelli grigi. Il ghetto, intanto, si svuotava. Due mesi dopo, più di tre quarti dei suoi abitanti erano stati evacuati.

    La sua vita interna, un tempo così complessa, si andava spegnendo; per la sua struttura, si avvicina-va sempre più al prototipo del campo di concentramento nazista. Caffè, teatri, negozi, scomparvero. Essendo stati deportati in primo luogo i bimbi e i vecchi, soli restavano gli uomini e le donne valide; i certificati di protezione non bastavano più, e gli schiavi venivano contrassegnati con un marchio dai lo-ro proprietari in varie parti del corpo, affinché nelle cacce all'uomo le SS tedesche o ucraine non com-mettessero più errori 3. Il giorno del Gran Perdono, alla fine di settembre, duemila agenti di polizia fu-rono deportati con le loro famiglie; solo trecentottanta poliziotti ebrei furono lasciati provvisoriamente in funzione. Il 22 settembre, il perimetro del ghetto fu modificato, e la sua superficie ridotta a meno della metà. Qualche appunto di Mary Berg permette di rendersi conto di quel che fu la vita del ghetto nel suo crepuscolo:

    II ghetto non è più che un immenso campo di lavoro. Di giorno le strade sono quasi deserte, si ha un po' di circolazione

    solo alle sei del mattino, quando la gente va al lavoro. Dalle. finestre vediamo uomini e donne uscire di casa, e dirigersi con passo rapido verso i posti di adunata, dove si mettono in fila per andare alle fabbriche; camminano quattro a quattro, scortati dalle pattuglie tedesche. Dopo le otto, è raro vedere un uomo per le strade del ghetto. Da mezzogiorno all'una, c'è il riposo per il pranzo; si porta un gran calderone nel cortile della fabbrica, e i lavoratori si mettono in fila, con la gavetta in mano, per la distribuzione della minestra. Alla sera, suonate le sette, le vie si animano di nuovo, i disgraziati ritornano al più presto alle loro abitazioni. Nessuno osa uscire più tardi, perché le pattuglie tedesche si celano dappertutto. Questa è la vita che si conduce ora nel ghetto. Gli ebrei sentono di continuo su di loro l'ombra della morte, ma ciascuno pensa, malgrado tutto, di avere qualche probabilità di sfuggirle. Senza questa speranza che ha del miracoloso, i sopravvissuti si suiciderebbero in massa...

    I mariti sono stati separati dalle mogli e dai bambini, i bambini dai genitori, e ciascuno alloggia dove riesce a trovar po-

    1 MARY BERG, Journal cit., p. 156. 2 Ibid., p. 169. 3 Ibid., p. 156.

  • 12

    sto. Persone che non si conoscono affatto vivono insieme come fossero stretti parenti. Gli uomini la cui famiglia è stata de-portata cercano di sfuggire alla solitudine pregando la prima donna venuta di sistemarsi con loro. La vita è più facile con una donna; inoltre a essere in due in quell'inferno si acquistava un certo senso di maggior sicurezza...

    (1°- 2 ottobre 1942). Questi uomini e queste donne, vedendo che alla fine la loro sorte era segnata a breve scadenza,

    prendevano precauzioni di carattere ben differente da prima. Non contando più sulla grazia dei Tede-schi, lottavano per sopravvivere loro malgrado. Alcuni si nascondevano nelle case sinistrate, o si barri-cavano nei loro appartamenti; altri si facevano murare nelle cantine con provviste di viveri e d'acqua. Profondi rifugi, i Bunkers, furono scavati nel sottosuolo: prendendo inizio dalla rete delle fognature, un vero ghetto sotterraneo sorgeva a Varsavia. La resistenza ebraica prendeva rapidamente corpo. Le de-portazioni continuavano: quarantamila Ebrei soltanto restavano nel ghetto al principio del 1943. Ma le implacabili SS non erano più i soli padroni del ghetto: un'altra autorità era nata, quella dell'Organizza-zione ebraica di combattimento. Un proclama di Walter Toebbens, il più grosso fornitore della We-hrmacht, getta un po' di luce sull'atmosfera delle ultime giornate del ghetto di Varsavia. È del marzo 1943:

    AGLI OPERAI DEL QUARTIERE EBRAICO ADDETTI AGLI ARMAMENTI

    Lo Stato Maggiore dell'Organizzazione di combattimento ha lanciato nella notte dal 14 al 15 marzo un proclama al quale

    voglio rispondere. Affermo categoricamente: i) che non si tratta di deportazioni; 2) che ne Schulz, ne io abbiamo ricevuto ordini, sotto la minaccia della rivoltella, di procedere alle deportazioni; 3) che l'ultimo trasporto è giunto a destinazione feli-cemente...

    Operai ebrei, non credete a coloro che cercano di ingannarvi. Essi vogliono spingervi ad atti le cui conseguenze sarebbe-ro incalcolabili. I Bunkers non offrono nessuna sicurezza, e la vita non vi è possibile, allo stesso modo che nel quartiere a-riano. L'insicurezza e l'inattività mineranno il morale di operai abituati al lavoro. Io vi chiedo: perché gli Ebrei ricchi abban-donano il quartiere ariano e vengono a chiedermi di impiegarli? Hanno abbastanza denaro per vivere nel quartiere ariano, ma non riescono a sopportare un'esistenza di continuo minacciata. Vi consiglio di andare a Trawniki o a Poniatowo, dove potrete stabilirvi e aspettare la fine della guerra. La direzione dell'Organizzazione di combattimento non potrà aiutarvi, non può darvi altro che vuote promesse...1.

    Le strane esortazioni di questo mercante di schiavi non furono seguite che da una minoranza di ope-

    rai ebrei. Coloro che gli obbedirono poterono prolungare di qualche mese la loro esistenza nei placowki (campi di lavoro) di Trawniki e di Poniatowo, ove vissero qualche mese in condizioni relativamente sopportabili e furono poi massacrati nel novembre 1943.

    La maggior parte degli ultimi abitanti del ghetto perì nell'aprile-maggio del 1943, al momento della rivolta2. Il quartiere fu bombardato, incendiato e completamente raso al suolo. Un campo di concen-tramento che riuniva duemila detenuti ebrei e non-ebrei, fu in seguito installato dalle SS nella zona prima occupata dal ghetto. Dai racconti dei pochi sopravvissuti di questo campo, si seppe che una vita sporadica e misteriosa si prolungò ancora per qualche mese nei sottosuoli e nelle fognature di quello che era stato il ghetto di Varsavia 3.

    1 Documento citato da J. KEKMISZ, in Powstanie vi getcie Warszawskim, p. 29. 2 Cfr. capitolo VII. 3 G. TENEBAUM, In search of a Lost People, New York 1948, pp. 67 e segg.

  • 13

    [...] La resistenza ebraica1

    Le pagine precedenti hanno forse rivelato al lettore come la società degli schiavi «concentrazionari»,

    di fronte a una persecuzione implacabile quale soltanto i mezzi offerti dalla tecnica moderna potevano render possibile, accettasse in massa e passivamente la sua sorte, poiché ognuno dei suoi membri si as-sumeva quegli incarichi e svolgeva quei precisi compiti che erano necessari al buon funzionamento di tutto il sistema. Auschwitz o Treblinka, tuttavia, non erano che le ultime ruote di un ingranaggio che funzionava con ordine metodico. Prima di esserne stritolati, gli Ebrei dell'Europa occupata, ovunque posero piede le legioni hitleriane, conobbero una fase preliminare di oppressione e di progressivo deca-dimento. Essi allora, in ogni paese e sotto forme diverse cercarono di difendersi; nonostante l'inverosi-mile sproporzione di forze, risposero a più riprese alla violenza con la violenza e morirono sfidando i loro carnefici.

    Cercheremo di rievocare qualche aspetto di questa lotta gloriosa e disperata. Ma ci pare necessario, prima di tutto, rispondere a una domanda che può sorgere istintiva: come mai gli episodi della Resi-stenza ebraica, numerosi certamente e fulgidi di luce incomparabile, si presentano solo come eccezioni che confermano una regola? Come mai una collettività di parecchie migliaia di uomini si lasciò portare al macello senza unirsi in una difesa accanita, e, di fronte a una sorte irrevocabile, non preferì morire combattendo giocando il tutto per il tutto?

    Problema delicato, certo, per la sensibilità ebraica, pronta sia a sopravvalutare e generalizzare fatti d'arme leggendari, ma isolati, sia a constatare con rassegnazione l'impossibilità di agire della popola-zione disarmata dei ghetti. La guerra in Palestina, tuttavia, rivelò al mondo il valore militare e il poten-ziale di combattività che, rimasto a lungo latente nel popolo della diaspora, insorse nella forma ben no-ta, appena fu concessa agli eterni erranti un'esistenza propria in suolo nazionale. Forse si vorrà conveni-re su un fatto, spiacevole forse, ma che non si può contestare: e cioè che, se le virtù militari e la ca-pacità di resistere con la forza alla forza non hanno potuto svilupparsi in seno al giudaismo tradiziona-le, al giudaismo dei ghetti, e non hanno occupato nella loro scala dei valori che un posto molto secon-dario, ciò non è altro che un dato sociologico inevitabile.

    Se si esamina la storia ebraica dell'ultimo millennio, con la sua sequela di umiliazioni ed espulsioni, di roghi e di pogrom, si può trovare qualche lontana analogia con il mondo concentrazionario, dove, sotto l'effetto di una raffinata oppressione, una collettività martirizzata, resa impotente a ogni resistenza e definitivamente prostrata, non ha altra risorsa che la sottomissione e l'adattamento. Ma la forza op-pressiva del mondo medievale non era così violenta, né la sostanza del popolo ebraico era tale da impe-dirgli, ripiegandosi su se stesso entro la stretta cerchia del ghetto, di crearsi valori propri e di sublimare le proprie passioni represse. Se si astenne dal rispondere alla violenza colla violenza, se si trovò sprov-visto di ogni tradizione militare, dimostrò però, con la fedele osservanza alla Legge, col rifiuto di accet-tare conversioni imposte col ferro e col fuoco, di saper raggiungere le più eccelse vette dell'eroismo umano. Vi sono pagine di storia ebraica, ignorate dai cristiani, disconosciute dagli Ebrei, il cui valore edificante non ha confronti: ghetti renani dati deliberatamente alle fiamme o assaliti da bande di crocia-ti, i cui abitanti preferirono la morte all'abiura; sublime resistenza, più tardi, degli Ebrei spagnoli sotto l'Inquisizione, cui fa eco, due secoli dopo, sotto Bodhan Chmel'nicki, il martirologio degli Ebrei della Polonia... Il fatto che questo martirologio acquistasse il valore di un atto etico, grazie alla presenza di una alternativa sempre aperta, il battesimo, gli conferiva valore di esempio e senso storico, rendendo più salda e profonda la fede e la coerenza di questo popolo sradicato e disperso.

    1 Da LEON POLIAKOV, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino.

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    Invece, lo sterminio biologico del secolo xx, non lasciava agli Ebrei alcuna alternativa: esso infieri-va, d'altronde, in una fase transitoria della storia ebraica, quando già si erano allentati i vincoli dell'anti-ca fede, e già crollavano le mura dei ghetti; in cui già da decenni si andava sempre più accentuando tra le masse ebraiche la tendenza all'assimilazione con le popolazioni tra cui vivevano, mentre si delinea-va, come corollario e insieme come reazione, quel movimento sionista in cui trovava nuova espressione lo spirito nazionale del popolo eterno.

    Ma, se le ideologie avite perdevano ogni giorno terreno, i caratteri tradizionali permanevano ancora e, tra questi, quello che non è peculiare degli Ebrei, ma comune a tutte le minoranze oppresse e perse-guitate: la tendenza ai compromessi, all'attesa paziente, alle armi diplomatiche, ai giochi di astuzia, piuttosto che a una resistenza aperta e armata. Il ricordo eroico dei Maccabei, solennemente celebrato ogni anno, vanamente infiammava il cuore dei giovani Ebrei: la vita reale fatta di sopraffazioni, di quo-tidiane umiliazioni, non tardava a insegnar loro che le reazioni violente e palesi non rientravano nelle loro possibilità. Per queste ragioni l'ondata di pogrom che insanguinò all'inizio del nostro secolo la Russia degli zar, non provocò che raramente una difesa organizzata: e con vero strazio Bialyk, il poeta nazionale ebreo, apostrofava i figli del suo popolo umiliato:

    Non compiangerli! lo scudiscio li ha bruciati, Ma essi sono abituati al dolore, familiare è per loro la vergogna. Troppo sventurati perché si rivolga loro rimprovero, Caduti troppo in basso perché li si compianga ancora 1'. Anche tra gli Ebrei dei paesi occidentali, Ebrei « assimilati», che in apparenza si amalgamavano

    progressivamente con la collettività circostante, certi residui del passato potevano ancora sussistere, sotto varia forma. Quanto agli Ebrei dei ghetti, gli Ebrei dell'Est, essi non avevano nessuna tradizione di lotta armata e nemmeno istinti battaglieri: ancor meno, di conseguenza, i mezzi tecnici, le organizza-zioni di quadri, le poche armi, le piccole mitragliatrici e le rivoltelle nascoste, di cui altrove si armarono i partigiani delle foreste e i combattenti alla macchia. Vari documenti tedeschi mettono in luce questa impotenza degli Ebrei che ai nazisti pareva totale: « Avevo avvertito in precedenza i miei uomini di ca-ricare i fucili, perché non erano Ebrei quelli con cui avevano a che fare», cosi si esprime un tenente del-le SS, ritenuto responsabile della ribellione di un gruppo di prigionieri russi che, al momento dell'ese-cuzione, rischiando il tutto per il tutto, avevano strappato le armi dalle mani dei carnefici e si erano dati alla fuga per i campi2. Il contratto di affitto stipulato fra il generale Globocnick e l'impresario Toeb-bens, avente per oggetto gli schiavi ebrei del ghetto di Varsavia e un certo numero di detenuti polacchi, precisava al § 9: «I Polacchi, sistemati in un quartiere a parte, dovranno essere sottoposti a una vigilan-za molto più severa da parte delle SS » 3.

    È certo molto complesso il concetto del coraggio fisico. Durante questi anni, vi fu un campo d'azio-ne in cui gli Ebrei, senza giungere alla rivolta armata, ma affrontando esattamente gli stessi rischi, tro-varono modo di esplicare la loro solidarietà su un piano sociale e umanitario; fu ciò che si è convenuto di chiamare « resistenza passiva»: carte false, abitazioni clandestine, salvataggio di bambini, trafile di evasioni e via dicendo. Numerosi Ebrei che compivano prodigi di eroismo in questo campo indietreg-giavano poi, più o meno coscientemente, di fronte al passo estremo, quello dell'aperta rivolta, colti so-

    1 L'Affaire de Nemirov (1905). 2 Rapporto inviato al comandante della Polizia di sicurezza e del SD a Zitomir, dal titolo: «Incidenti derivati dal tratta-

    mento speciale (Sonder-behandlung) effettuato nella giornata odierna», Berdichev, 24 dicembre 1942 (Urss 311). 3 Contratto stipulato tra il Gruppenfuhrer delle SS Globocnick e Walter C. Toebbens, Lublino, 31 gennaio 1543 (cxcviii,

    i).

  • 15

    vente dal terrore, così pericoloso, delle responsabilità collettive. Se è necessario cercare ancora un'altra spiegazione della passività ebraica, i metodi nazisti ci forni-

    scono una seconda risposta. Non solo la sproporzione delle forze era enorme, ma, come abbiamo detto, ciò che era veramente in giuoco, cioè l'irrevocabile «soluzione finale», rimaneva quasi sempre ignorata dagli Ebrei. Solo là dove la fine viene conosciuta e solo dal momento preciso che essa non rappresenta più un mistero, prende consistenza e trova adesione tra le masse ebraiche un movimento di resistenza vero e proprio. (Per questa ragione ci fu la resistenza in Polonia, ma non in Ungheria, dove gli Ebrei e-rano completamente all'oscuro della sorte che li attendeva ad Auschwitz). Essa prese vita, per lo più, per opera di una esigua minoranza di sopravvissuti, illuminati dalla tragica fine della maggioranza. Già si è visto in qual modo, fino all'ultimo istante di agonia nelle camere a gas, i Tedeschi cercassero di in-gannare le loro vittime. Alla mente di queste, non si presentava quindi l'alternativa tra il soccombere passivamente o il morire in un estremo anelito di resistenza; ma tra il morire o il vivere adattandosi. E come già abbiamo detto, ciò ben corrispondeva a una tradizione millenaria; qualunque sia il sentimento che ci anima a rievocare un passato ancor vivo e palpitante, chi può arrogarsi il diritto, su questo ar-gomento, di fare una scelta nella gerarchia dei valori umani, chi può osare di formulare dei giudizi? Ri-cordiamo, per finire, le terribili difficoltà di ordine pratico che si presentavano a una resistenza orga-nizzata tra le masse amorfe del ghetto, il cui inimmaginabile agglomeramento era già un ostacolo per-manente a ogni azione cospiratrice, la fame e il logorio fisico, l'ostilità generale, infine, delle popola-zioni locali, soprattutto di quelle polacche.

    Sarà dunque eterna gloria del giudaismo europeo l'aver fatto sorgere dal suo seno, nell'ora dell'ago-nia, uomini e gruppi che seppero combattere e morire con le armi in pugno.

    Furono di solito gli ambienti sionisti - e ciò è significativo - a servire da vivaio ai diversi movimenti di resistenza ebraica in formazione qua e là per l'Europa. I Tedeschi non si ingannavano: il generale Stroop, che fu a capo delle truppe tedesche durante la battaglia del ghetto di Varsavia, menziona co-stantemente nei suoi rapporti il «movimento haloutzistico »1, e lo stesso Eichmann, durante le deporta-zioni dell'Ungheria, si accaniva particolarmente contro i sionisti, «materiale umano di alto valore bio-logico »2. Non che i sionisti agissero dietro istruzioni generali emanate da un qualsiasi centro: si trattò sempre di iniziative isolate, locali e spontanee. Era già molto se i capi giungevano a mantenere rari contatti, via Istanbul o via Genova, con le autorità ebraiche della Palestina. Tutt'al più, si può dire che la forma di vita scelta da questi Ebrei, già molto tempo prima della guerra, la loro organizzazione in cellule e in collettività chiuse, i loro centri di tirocinio, i Kibbutzim, tutto ciò li rendeva più atti a un'a-zione cospirativa concordata. Ma, soprattutto, al di là delle preoccupazioni personali o familiari o anche di carattere umanitario, l'ideale nazionale concreto e ben definito che serviva loro da guida, stroncava sul nascere ogni esitazione. Questo ideale dava un orientamento e animava la loro azione immettendovi un significato profondo. E l'esperienza dell'ultima guerra ha rivelato ancora una volta che quali siano le parole d'ordine, gli orientamenti politici e le ideologie, i popoli non resistono a fondo, non si battono e non muoiono che in nome di un ideale nazionale.

    Lo studio dei movimenti europei di resistenza proporrà agli storici futuri molti e difficili problemi. Condizioni fondamentali di successo per le organizzazioni clandestine e per i partigiani erano, da un la-to, il segreto, dall'altro, il restare divisi e sparpagliati; la trama generale è formata da mille fili diversi che bisognerà ricollegare seguendoli uno a uno, con l'aiuto soprattutto di memorie e di relazioni redatte a distanza di anni. Le stesse difficoltà, ma molto più gravi, si ergono di fronte a chi voglia scrivere una cronaca della Resisteva ebraica, cosi differente da paese a paese, da regione a regione, e di cui non esi-

    1 Cfr. i rapporti del Gruppenfuhrer delle SS Stroop («II Quartiere ebraico di Varsavia non esiste più») (PS 1061). 2 Rapporto dell'ambasciatore tedesco in Ungheria Veesenmayer del 25 luglio 1944 (NG 1806).

  • 16

    ste quasi più nessun superstite. Nelle pagine seguenti non potremo seguire altra via che la rievocazione di qualche episodio, scelto tra i più salienti o tra quelli che meglio si prestano a una ricostruzione esatta.

    La battaglia del ghetto di Varsavia. Dopo la prima guerra mondiale, la Polonia era divenuta il principale vivaio di quei giovani pionieri,

    i Halutzim, che, prosciugando le paludi e dissodando i deserti, hanno creato la Palestina ebraica. Ma, se numerosi erano i chiamati, ben più rari erano quelli prescelti per la partenza; e, attendendo il loro turno di poter varcare le porte della Terra Promessa, decine di migliaia di ragazzi e di ragazze si assoggetta-vano a lavori preparatori nel paese di origine, vivendo in collettività agricole o artigiane. Durante la concentrazione degli Ebrei nei ghetti, i loro Kibbutzim cercarono di non lasciarsi disperdere, e, del re-sto, in casi particolari, le autorità tedesche autorizzarono alcune collettività, grazie al loro tipo di pro-duzione, a mantenersi sul posto. Essi rimasero dunque nei ghetti, seguendo le loro particolari regole di vita in comunità chiuse di lavoro e di studio. Tra le altre questioni veniva talvolta discussa tra questi giovani appassionati l'idea di una resistenza armata; ma prima che si scatenasse la soluzione finale, l'o-pinione della maggioranza intendeva che si riservasse per la riconquista della Palestina la parte miglio-re delle forze e del sangue ebraico.

    Da queste cellule dovrà scaturire il più luminoso episodio di una resistenza ebraica organizzata. Oc-corre notare però che non esistevano solo queste cellule e che nel ghetto di Varsavia, di cui parleremo tra poco, altri movimenti o partiti conducevano un'esistenza clandestina: il Bund1, per esempio, o il Par-tito comunista, che pubblicavano giornali clandestini ed elaboravano progetti di resistenza armata. An-tiche rivalità politiche continuavano a mettere gli uni contro gli altri: armi, nessuno ne possedeva. E quando, nel giugno del 1942, dopo l'inizio delle deportazioni in massa, i capi dei Halutzim di Varsavia proposero agli altri gruppi politici del ghetto di unirsi in vista di una resistenza estrema, la maggioranza ritenne che non fosse ancora giunta l'ora e che occorresse attendere « l'evoluzione degli avvenimenti ». I Halutzim tentarono allora di gettare le basi di una loro propria organizzazione di combattimento il cui armamento, nei giorni della sua creazione, si riduceva a una sola rivoltella. Qualche settimana dopo, gli altri movimenti clandestini si associavano all'iniziativa sionista. Fu creato un Comitato di coordinamen-to, che comprendeva rappresentanti di tutti i partiti politici e aveva qualche rapporto con la Resistenza polacca: condizione essenziale per ottenere armi e munizioni. Il giovane sionista Mordechai Aniele-wicz, di ventiquattro anni, fu messo a capo dell'organizzazione ebraica di lotta, finalmente unificata. A quest'epoca la popolazione del ghetto, diminuita di nove decimi, non raggiungeva ormai che la cifra di cinquantamila uomini circa; ma contava su una percentuale molto forte di operai giovani e robusti. I quadri dei Halutzim, saldamente organizzati, muniti di documenti falsi e di denaro, erano stati relati-vamente risparmiati.

    Era l'autunno 1942, quell'autunno in cui le «azioni » tedesche devastavano uno dopo l'altro gli ultimi ghetti della Polonia. Nel ghetto di Varsavia ferveva un'attività segreta e febbrile. L'amministrazione te-desca aveva in quei giorni ordinato di costruire nella città rifugi antiaerei; la popolazione del ghetto ne approfittò per scavare a grande profondità una rete fittissima di nascondigli che furono poi mascherati e il cui ingresso fu abilmente mimetizzato. Alcuni di essi furono perfezionati in modo da alloggiare intere famiglie, furono provvisti di bagni e d'impianti igienici; servirono a celare depositi di munizioni e di viveri in modo da poter far fronte a un lungo assedio. Questa rete sotterranea doveva servire più tardi da principale base d'azione per l'organizzazione ebraica di combattimento. Per il momento, il compito principale consisteva nel procurare armi e queste non potevano giungere che dalla zona « ariana