Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri...

22
Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli Ho scoperto che la terra è fragile, e il mare leggero: ho imparato che lingua e metafora non bastano più a dare un luogo al luogo[Mahmud Darwish] Il paesaggio: una rilevanza epocale. La cura e la tutela del paesaggio, da questione di decoro e sfondo, tende ad assumere oggi una rilevanza epocale di salvaguardia dello spazio di vita per noi esseri umani e i sistemi viventi di cui siamo parte. Seppur in misura ancora limitata, la maggiore conoscenza delle nostre origini e della nostra evoluzione, tende ad accrescere la consapevolezza delle condizioni della nostra vivibilità sul pianeta Terra. Inizia a prodursi allo stesso tempo un’estensione della percezione del nostro spazio vitale e un approfondimento di quello che possiamo considerare il nostro paesaggio. Ci rendiamo conto con una certa difficoltà che la consapevolezza non è sufficiente a generare nuovi stili d’azione, mentre sempre più evidentemente il paesaggio tende a sostanziarsi di concreti fattori come l’aria, l’acqua, il suolo e si estende all’ambiente e al territorio. Emerge l’importanza di investimenti in eccedenza rispetto agli equilibri esistenti, educativi, culturali e operativi per sostenere comportamenti e azioni di tutela e cura dei paesaggi e degli ambienti in cui viviamo. Situati come siamo nei contesti della nostra vita, generiamo azioni performative, letture e narrazioni, nel mondo e negli ecosistemi, producendo paesaggi che, alfine, emergono al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione. A differenza degli altri animali e

Transcript of Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri...

Page 1: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

Il paesaggio: vivibilità, cura e tuteladi Ugo Morelli

“Ho scoperto che la terra è fragile,e il mare leggero: ho imparato

che lingua e metafora non bastano piùa dare un luogo al luogo”

[Mahmud Darwish]

Il paesaggio: una rilevanza epocale.

La cura e la tutela del paesaggio, da questione di decoro e sfondo, tende ad assumere oggi una rilevanza epocale di salvaguardia dello spazio di vita per noi esseri umani e i sistemi viventi di cui siamo parte. Seppur in misura ancora limitata, la maggiore conoscenza delle nostre origini e della nostra evoluzione, tende ad accrescere la consapevolezza delle condizioni della nostra vivibilità sul pianeta Terra. Inizia a prodursi allo stesso tempo un’estensione della percezione del nostro spazio vitale e un approfondimento di quello che possiamo considerare il nostro paesaggio. Ci rendiamo conto con una certa difficoltà che la consapevolezza non è sufficiente a generare nuovi stili d’azione, mentre sempre più evidentemente il paesaggio tende a sostanziarsi di concreti fattori come l’aria, l’acqua, il suolo e si estende all’ambiente e al territorio. Emerge l’importanza di investimenti in eccedenza rispetto agli equilibri esistenti, educativi, culturali e operativi per sostenere comportamenti e azioni di tutela e cura dei paesaggi e degli ambienti in cui viviamo. Situati come siamo nei contesti della nostra vita, generiamo azioni performative, letture e narrazioni, nel mondo e negli ecosistemi, producendo paesaggi che, alfine, emergono al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione. A differenza degli altri animali e

Page 2: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

della vita vegetale, siamo noi che, per ragioni storico-evolutive, con le nostre azioni e i nostri linguaggi, costituiamo la principale presenza e la più incidente minaccia per noi stessi e gli ecosistemi in cui viviamo, in ragione delle forme della nostra espansione pervasiva. Riusciremo a esprimere la nostra capacità simbolica e creativa e il nostro linguaggio, per vivere le relazioni con gli altri e i paesaggi della nostra vita in modi e forme coevolutive e non distruttive? Per cercare di affrontare questa domanda, la comprensione della natura del paesaggio e le implicazioni della sua cura e tutela, è necessario partire da alcune questioni che indicano altrettanti cambiamenti in corso:

- la questione storico-evolutiva; in base ai processi evolutivi e con l’avvento del comportamento simbolico e del linguaggio abbiamo accumulato progressivamente capacità di incidere negli spazi della nostra vita, fino a concorrere a determinare un’era che definiamo antropocene (Crutzen, 2005). Tutto ciò pone, tra l’altro, una domanda che oggi – considerato l’intenso processo di antropizzazione del pianeta Terra (Farinelli, 2007) – appare più che mai attuale: è possibile considerare separatamente l’umano dall’artificiale, da quello che “facciamo ad arte” con il linguaggio e la tecnica? È ancora possibile ignorare l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua, dell’aria, del suolo, del mondo vegetale e di tutto il mondo animale. Consideriamo la natura un bacino di risorse, a completa disposizione del nostro agire indiscriminato. E, così facendo, ci siamo trasformati nella principale minaccia per noi stessi e per l’intero pianeta Terra, come molte delle recenti catastrofi – causate proprio dall’intervento umano – vanno dimostrando. Anche l’uomo è parte del tutto, ed è, questa, una consapevolezza che va coltivata e diffusa. Mentre siamo parte del tutto, creiamo ad arte le condizioni della nostra vivibilità. In noi naturale e artificiale si fondono. Così siamo divenuti e diveniamo umani. In questo si genera la nostra presenza e la nostra responsabilità (Chelazzi, 2013). La principale delle responsabilità oggi consiste probabilmente nel cambiare idea e comportamenti rispetto alla nostra vita sul pianeta Terra. Il cambiamento però costa, mentre l’abitudine ci rassicura. La mente umana fatica ad accettare il nuovo: è una resistenza legittima, figlia della battaglia che la nostra specie ha condotto nel tempo profondo per difendersi dal resto della natura. La mente umana impiega tempi lunghi per appropriarsi di un fenomeno, apprenderlo definitivamente e cambiare idea, ed è un tempo troppo breve quello che separa l’oggi dal passato, quando ancora era l’uomo a essere minacciato dai fenomeni naturali. Eppure, accanto a questa proprietà della mente umana vi è la nostra capacità di creare l’inedito. È più che mai necessario evolvere la nostra cultura verso un atteggiamento appropriato ed equilibrato, nei confronti di noi stessi e del mondo a cui apparteniamo.

Quello che si può fare è molto, a partire da subito. Identificare l’immensa quantità di superfluo che caratterizza i nostri stili di vita è solo il primo ma importante passo. Non si tratta solo di una rinuncia, ma di un cambiamento dei comportamenti o, meglio ancora, di un’evoluzione culturale (Mercalli, Goria, 2013). Abbiamo bisogno di immaginare uno sviluppo che sia uguale a vivibilità, compatibilità, appropriatezza. Abbiamo bisogno di ridefinire i parametri di ciò che comunemente chiamiamo “qualità della vita”. Solo la combinazione tra comportamenti individuali e scelte di governo può preparare un futuro degno di essere vissuto. Le vie che cerchiamo per mantenere le nostre abitudini e assolverci sono sistematiche e sempre in agguato. Ma siamo anche capaci di generare discontinuità, di inventare quello che prima non c’era. Se i processi educativi e di promozione culturale saranno in grado di aumentare la nostra consapevolezza e di aiutarci a cambiare idea su noi stessi come parte della natura, potremo giungere a sviluppare capacità di azione appropriate alla cura e alla tutela dei paesaggi della nostra vita.

- la questione paradigmatica; gli approcci al paesaggio e le scienze della vita sono stati separati fino a quando abbiamo considerato il paesaggio solo come organizzazione visibile del territorio e non espressione delle interazioni tra uomo e ambiente e, quindi, spazio costitutivo della nostra stessa vita. Noi non ci siamo resi conto della effettiva rilevanza del paesaggio fino a quando non lo abbiamo riportato a figura della nostra esistenza, togliendolo dallo sfondo. Per farlo è forse stato necessario giungere al limite degli effetti della nostra presunzione di superiorità di specie e dell’uso indiscriminato delle risorse del pianeta su cui viviamo e di cui siamo parte. Dalla reificazione alla partecipazione attiva, potrebbe essere l’espressione per descrivere il processo in corso. Il paesaggio reificato, ridotto a “cosa” sullo sfondo, si impone sempre più come condizione costitutiva della vivibilità. Lo era sempre stato ma non

2

Page 3: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

ce ne eravamo accorti. Così come noi esseri umani acquisiamo il linguaggio verbale, a partire dal nostro primo anno di vita circa, allo stesso modo, come mostra la ricerca Paesaggio lingua madre, attribuiamo senso e significato al luogo in cui nasciamo e viviamo (Cepollaro, Morelli, 2014). La traduzione dei luoghi in ecosistemi simbolizzati è un processo tacito e naturale per degli esseri come noi che dispongono di una mente embodied, incarnata, embedded, situata in un contesto, extended, estesa alle relazioni. Il paesaggio, perciò, lungi dall’essere lo sfondo della nostra esperienza, emerge per noi da un continuo processo di introiezione del mondo e di proiezione in esso. La qualità della nostra esperienza nei luoghi della nostra vita dipende, pertanto, in modo significativo dalla natura dei “materiali” dell’ambiente che introiettiamo e su cui proiettiamo nel tempo noi stessi (Ferrari, Pezzi, 2013). Il paesaggio, quindi, è dentro di noi e intorno a noi. Per questo nella nostra contemporaneità il paesaggio tende a connettersi in maniera critica e costitutiva alla vivibilità. L’equilibrio demoeconomico risulta, infatti, decisamente esposto ai limiti delle risorse disponibili e le forme di vita pongono inedite esigenze di appropriatezza. La specie umana, come già detto, si trova di fronte a un profondo cambiamento da una posizione presunta e sostenuta da profondi miti storici, di essere sopra le parti, a cercare di riconoscere le condizioni per essere parte del tutto. Tutto questo esige una profonda trasformazione nel modo di considerare e vivere i paesaggi della nostra vita. Le comunità locali si trovano, pertanto, di fronte a un cambiamento impegnativo che comporta conflitti profondi di natura psicologica, sociale e culturale. In particolare, il principale problema è di partecipazione ed empowerment. Da un lato, infatti, l’appartenenza ai luoghi e ai paesaggi naturalizza e reifica i luoghi e i paesaggi stessi, rendendo l’azione umana spontanea, immediata e pratica verso un uso illimitato. Dall’altro è oggi indispensabile un inedito livello di partecipazione attiva fondata su una cultura e su prassi della tutela e del limite, per un’evoluzione appropriata nel rapporto tra presenza umana, paesaggio, ambiente e territorio. Da un paradigma meccanicistico e newtoniano all’esigenza di un approccio evolutivo proprio delle scienze della vita, abbiamo bisogno di riconoscere che, seppur il mondo abbia bisogno degli specialismi, questi non possono risolvere la complessità contemporanea. È necessario integrare gli specialismi in un approccio che consideri la complessità dei sistemi viventi e i vincoli e le possibilità della coevoluzione.

- la questione affettiva-cognitiva; accorgersi del paesaggio e dei paesaggi della nostra vita vuol dire abitarne lo spazio a volte difficile e doloroso, ma denso di senso e di sensazioni, tra coinvolgimento e distacco. Aristotele chiamò synoikismos la terra/casa e l’energia con cui in lei sogniamo e viviamo. La condizione stessa della formazione della polis era indicata dai greci con la parola synoikismos, letteralmente un "radunare". Synoikismos potrebbe prendere uno o entrambi i significati: essere una concentrazione fisica della popolazione in una singola città o un atto di unificazione puramente politico che permette alla popolazione di continuare a vivere in modo disperso. In entrambi i casi richiama la dimensione simbolica che dà senso ai luoghi, dal punto di vista di chi li vive. Scrive João Nunes: “Se il paesaggio è il ritratto delle convinzioni umane impresso sul territorio, allora le strade, le linee elettriche, le ferrovie, le dighe ed i porti saranno paesaggio tanto quanto lo sono i campi agricoli, i castelli, le città, i villaggi e le foreste” (Nunes, 2010, p. 26)La geografia della nostra vita è sempre una geografia affettiva. Una finzione, un’illusione che, stimolate dai luoghi, sono simultaneamente oggetto e paesaggio dei nostri desideri. Per molti aspetti la tensione a dare senso ai luoghi della vita è affine alla ricerca, impossibile da esaurirsi e da esaudirsi una volta per tutte, con cui ci relazioniamo ad ogni oggetto di passione. Quegli oggetti sollecitano le nostre emozioni e sono fonte, allo stesso tempo, di attrazione e pathos. La trasformazione in paesaggio è perciò frutto di azioni simboliche in un ambiente costruito e di memorie lasciate dalle generazioni precedenti. L’accumulo delle memorie e l’azione contingente trasformano il paesaggio in una realtà non meno sociale che fisica (Pfeiffer, 1982). Ciò mostra ancora una volta la dimensione culturale dei processi evolutivi che riguardano homo sapiens, che sono origine ed effetto della nostra condizione di specie.

- la questione etico-politica; il paesaggio come spazio della vivibilità richiama direttamente la nostra responsabilità delle scelte (Settis, 2012). Gaston Bachelard ha ben individuato il legame profondo, di natura principalmente simbolica e affettiva, un legame d’amore, tra uomo, casa e paesaggio, quando sostiene che il paesaggio e la casa sono “il nostro angolo di mondo. Come è stato detto ripetutamente sono il nostro primo universo, un cosmo reale nel vero senso della parola” (Bachelard, 1975; 4). Del resto è anche abbastanza elementare il

3

Page 4: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

processo mediante il quale si creano le preferenze di noi esseri umani per i luoghi che traduciamo in paesaggi. Edward O. Wilson ha documentato recentemente quel processo in modo esemplare: “Alcuni studi hanno dimostrato che, potendo scegliere l’ubicazione delle loro case o dei loro uffici, le persone si orientano sempre verso un ambiente che unisce tre caratteristiche ben presenti agli architetti del paesaggio e agli agenti immobiliari. Le persone vogliono stare su un’altura panoramica, prediligono una radura simile a una savana con alberi e sottobosco, e vogliono stare vicini a uno specchio d’acqua come un fiume, un lago o un oceano. Anche se questi elementi sono meramente estetici e non funzionali, chi compra una casa sarà disposto a svenarsi pur di avere questo panorama” (Wilson, 2013; 302). “Un principio etico su cui possiamo sicuramente essere tutti d’accordo è smettere di distruggere il nostro luogo di nascita, l’unica dimora che l’umanità avrà in futuro” (Wilson, 2013; 326).

Paesaggio, ambiente, territorio

Ricollocare l’essere umano nella natura mediante un’appropriata elaborazione dell’esperienza evolutiva di autoelevazione semantica: questa è forse la prima condizione, educativa e culturale, per la tutela del paesaggio. Dal suo inizio fino a oggi quell’autoelevazione è stata vissuta principalmente come presa di distanza dalla natura, con autoattribuzione di specialità quando non di presunzione di superiorità di specie; fino a forme più o meno esplicite di negazione di appartenenza al regno animale e al sistema vivente naturale. Una sorta di riconoscimento di sé per eccesso; un modo narcisistico di elaborare la propria eccedenza evolutiva; una carente capacità di fare un uso appropriato della neotenia e della capacità simbolica. Un’altra elaborazione della distinzione specie-specifica dell’autoelevazione semantica è possibile. Si può cercare di affermarla oggi, nel momento in cui accadono due processi contingenti:- la comprensione più approfondita e estesa di cosa significa essere umani, grazie agli studi

sull’evoluzione e ai risultati della ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive;- la condizione di punto di soglia che la specie homo sapiens ha raggiunto nella propria storia

evolutiva sul pianeta Terra, fino ad una presenza pervasiva, capace di compromettere la propria esistenza e l’ecosistema del pianeta stesso.

Si può pensare oggi a un’evoluzione culturale orientata a comprendere la vivibilità e il senso della nostra presenza nei paesaggi delle nostre vite, fondando uno studio e una comprensione del paesaggio come condizione della vivibilità stessa, a partire da un approccio che la consideri come la proprietà che emerge dagli accoppiamenti strutturali tra corpo-cervello-mente degli esseri umani, movimento e azioni, e ambienti di vita. Ogni possibile forma di tutela del paesaggio come spazio delle nostre vite e contesto della vivibilità, mentre dipende da approcci normativi e da regole, è strettamente connessa ai comportamenti e alle azioni che le nostre menti incarnate in relazione tra loro esprimono e esprimeranno nei contesti e nelle contingenze evolutive. La mente umana, del resto, “è una spettacolare conseguenza dell’attività incessante e dinamica, che vede il cervello impegnato nella creazione di mappe”, come evidenzia Antonio Damasio (Damasio, 2010; pp. 96-97). Il cervello costruisce anche mappe di se stesso intento a tracciare mappe e in tal modo genera immagini che rappresentano le entità fisiche di proprietà diverse, insieme alle loro relazioni spaziotemporali e alle loro azioni. La traduzione dei luoghi in paesaggi avviene probabilmente così. “Siamo in grado di eseguire traduzioni a quattro vie”, secondo Damasio, “fra 1) movimento reale, 2) rappresentazioni somatosensoriali del movimento, 3) rappresentazioni visive del movimento, e 4) memoria” (Damasio, p. 139). In una mente cosciente, quindi, “l’elaborazione delle immagini riferite all’ambiente è orientata da un particolare insieme di immagini interne: quelle dell’organismo del soggetto, così come esso viene rappresentato nel sé” (Damasio; pp. 333-334). La traduzione dei luoghi in paesaggi connette, in tal modo, mondo interiore di ognuno di noi e mondo esterno, generando allo stesso tempo un’incorporazione dell’ambiente e una nostra proiezione in esso. Un’esigenza di base da cui partire è riconoscere le distinzioni e le integrazioni tra paesaggio, ambiente e territorio. Noi giungiamo alla realtà con la nostra presenza e il nostro movimento corporei in essa per narrarcela performandola con il linguaggio. In questo senso il paesaggio è narrazione incarnata situata in un contesto. Sembra essere il paesaggio, quindi, la via per tradurre nella nostra esperienza l’ambiente e il territorio. Pur agendo il performativo in modi che nessuna intenzione cosciente può determinare completamente (Butler, 2012; nota 22, p. 238), ogni traduzione connette ambiente, territorio e creazione artificiale (fatta ad arte) del paesaggio. Nel momento in cui l’ambiente (oikos) di un determinato territorio (aerale) diviene paesaggio, ciò accade come traduzione e elaborazione di una mancanza, di un’assenzialità, tra il mondo “intorno” e il mondo

4

Page 5: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

“interno” di coloro che in quel luogo vivono e si muovono. I nostri corpi o, come sarebbe meglio dire, i corpi che siamo, operano come un “mezzo vivente”, trattando ricevendo ed emettendo immagini, come scrive Hans Belting, richiamando Aby Warburg. (Belting, 2002). Non dovremmo, perciò, considerare l’immagine soltanto come un prodotto di un determinato mezzo, ma anche come espressione della nostra mente incarnata e situata nei contesti e nelle relazioni. In quella contingenza generiamo immagini personali che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile. Da un processo di traduzione con queste caratteristiche si crea il paesaggio con le sue molteplici manifestazioni, sintetizzando le materiali manifestazioni del mondo e le nostre simbolizzazioni. Lo stesso ecosistema in cui viviamo, l’oikos o ambiente, è quindi l’esito dell’accoppiamento per adattamento, selezione, caso e progetto che noi e gli altri esseri viventi, animali e vegetali, operiamo continuamente in esso. Il territorio si configura nella nostra esperienza come il contesto o aerale che costituisce il tessuto di base in cui si svolge l’azione delle presenze viventi e trasformatrici.La continua e incessante ricerca di significato che ci distingue come specie umana, protesa a elaborare la mancanza e l’assenzialità (Deacon, 2012), genera simbolizzazioni e narrazioni degli ecosistemi e crea paesaggi. L’assenzialità, infatti, riguarda la tensione che ci costituisce nel nostro modo di stare al mondo: tendiamo sistematicamente all’oltre rispetto all’esistente e, in buona misura, abitiamo l’assenza, quello che ancora non c’è e ancora non siamo. Una tensione che è possibile definire rinviante, protesa cioè a rinviare all’oltre rispetto a quello che esiste già e alle letture consuete e consolidate (Morelli, 2010). Solo un approccio transdisciplinare può concorrere a creare le condizioni di cura, tutela e vivibilità appropriata nel paesaggio. È importante, infatti, constatare la polivalenza del paesaggio e, in particolare, che il paesaggio può essere: educazionepartecipazionearte del limitenegoziazioneIl paesaggio è un accordo provvisorio ed evolutivo tra elementi differenti (come un’orchestra che suona).Gli approcci al paesaggio tendono ad assumere, infatti, molteplici dimensioni e trattarle esige una contingenza di più punti di vista:

- Movimento-Vivibilità > approccio neuroscientifico-cognitivo- Uso-Scambio > approccio economico- Tutela > approccio ecologico- Pensiero > approccio filosofico- Segni > approccio semiologico- Progetto > approccio architettonico- Comportamenti > approccio psicologico- Partecipazione/Negoziazione > approccio di scienza della politica.

Necessitiamo perciò di una:i) Grammatica del paesaggio > Generativitàii) Sintassi del paesaggio > Composizione e ricomposizione in base processi di individuazione,

interessi, valori e normeiii) Semantica del paesaggio > Varietà e variazioni dei significatiiv) Pragmatica del paesaggio > Operatività (scelte e azioni).

Se il paesaggio sembra emergere da un processo “generativo-trasformazionale” in base al quale le infinite sue versioni pervengono, attraverso un numero ristretto di regole e componenti (tra le quali, in primo luogo, quelle della competenza estetico-simbolica umana), alle espressioni, alle narrazioni e alle azioni progettuali (artefatti) più diversi, una sua cura esige un’elaborazione di una complessità simile.Il paesaggio, infatti, può essere creato da strutture superficiali (agenti) e da strutture profonde (condizioni) che interagiscono in modi differenti e molteplici.Ogni paesaggio incorpora, tuttavia, un insieme “finito” di principi che ne costituiscono l’emergere contingente:

- un osservatore- un sistema osservato- movimenti e azioni

5

Page 6: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

- narrazioni { contingenza ecologica- uno spazio- un tempo

La cura, la tutela e la vivibilità dovranno la loro efficacia alla capacità di essere partecipi delle dinamiche di quella contingenza ecologica.Il paesaggio che noi esseri umani creiamo e abitiamo è un oggetto finito, vincolato alle condizioni e alle risorse ambientali e territoriali disponibili, ma di portata illimitata, cui è concesso un repertorio incalcolabile di espressioni e significati possibili. Si tratta di un’emergenza storico-evolutiva, relativa all’avvento del nostro comportamento simbolico e del linguaggio verbale e strettamente connessa a questi tratti distintivi della nostra specie. Sembra proprio che sia peculiare, e perciò distintiva, la “capacità umana di riorganizzare i simboli per immaginare possibili alternative e porsi la fondamentale domanda (“che cosa accadrebbe se?”) su cui ogni giorno noi riflettiamo” (Tattersall, 2014). Anche se non siamo gli unici esseri viventi a riconoscere simboli, la composizione e ricomposizione almeno in parte originale dei simboli, nonché l’invenzione di inediti repertori simbolici, paiono tratti distintivi di noi esseri umani. Un cane sa riconoscere dal tintinnio delle chiavi di casa che forse si sta uscendo per una passeggiata e gli scimpanzé possono riconoscere e disporre i simboli in modo additivo e produrre e comprendere sequenze come: “prendi… palla… verde”. Creare paesaggi vuol dire comporre e ricomporre i simboli con cui leggiamo gli ecosistemi in modi di volta in volta originali. Mentre cerchiamo di comprendere come il cervello crea la mente (De Salle, Tattersall, 2013), possiamo riconoscere, come già Jean Piaget (Piaget, 1983) aveva intuito, che lo fa mentre costruisce il mondo. Quella creazione è mediata dal riconoscimento e dal rientro che si generano con la narrazione a un altro o ad altri, del proprio vissuto. Siccome l’invenzione del linguaggio pare essere il principale stimolo culturale candidato all’avvento evolutivo e all’invenzione della capacità simbolica, quest’ultima e il linguaggio sembrano essere alla base della nostra propensione a ricreare i luoghi e i contesti traducendoli in paesaggi.In particolare, sembra che l’interdipendenza tra linguaggio e paesaggio sia uno degli ambiti da esplorare per comprendere la natura e i processi della traduzione dei luoghi in paesaggi mediante percorsi di sense-making (Bruner, 1992). Noi esseri umani conosciamo il mondo, tra l’altro, mediante la continua ricerca di significati. Questa nostra tensione si basa su processi originari frutto della nostra evoluzione e del nostro accoppiamento strutturale con i contesti della nostra vita. Così come un bambino impara, e non può non imparare, a parlare quando ha un certo numero di mesi di vita, allo stesso modo costruisce la propria individuazione in una contingenza contestualizzata che è l’ambiente in cui nasce e vive. Ogni bambino introietta i materiali e gli elementi di quell’ambiente, mentre proietta in quell’ambiente l’elaborazione delle introiezioni. Non può non farlo. Facendolo elabora e traduce i materiali e gli elementi disponibili, dalla cui qualità dipenderà il tipo di paesaggio che svilupperà e con cui, coevolvendo, si individuerà. Il paesaggio si configura perciò come un ecosistema simbolizzato. Come la lingua madre permette di esprimere un repertorio infinito di pensieri, così il paesaggio originario è al principio di una estrema varietà di espressioni e manifestazioni. Allo stesso tempo, come il numero di grammatiche costruibili con il linguaggio è limitato (Moro, 2006), o, come aveva intuito Darwin, “quasi infinito”, così le proprietà costitutive del paesaggio originario vincolano l’elaborazione della natura e della qualità dei paesaggi possibili. Il rapporto tra linguaggio e paesaggio non riguarda solo la genesi della nostra capacità di parlare e della nostra contingenza situata, bensì anche la realizzazione effettuale della nostra traduzione simbolica dei luoghi: il processo di attribuzione di senso si realizza di fatto nel momento in cui ne narriamo la percezione e il sentimento a qualcuno. Così come le nostre emozioni sono da noi stessi riconosciute narrandole, alla stessa maniera il paesaggio diviene a noi stessi riconoscibile, rientra (Edelman, 1995) per così dire in noi mediante la narrazione. È bene ricordare che è grazie alla narrazione poetica di Petrarca che abbiamo avuto accesso per la prima volta alla parola e al concetto stesso di paesaggio (Dotti, 2004). Siamo di fronte a una manifestazione recentissima nell’evoluzione umana, corrispondente all’avvento del comportamento simbolico e alla prevalenza degli aspetti culturali nel processo evolutivo. Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersall, ha sostenuto: “L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata quasi certamente il portato dell’invenzione di quello che è il singolo più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio”. L’accumulazione di conoscenza e il linguaggio, unitamente alle narrazioni degli spazi di vita, hanno generato non solo gli immaginari sui paesaggi della nostra vita, ma anche le basi delle nostre scelte comportamentali. Quelle scelte sono parte integrante dei paesaggi in cui viviamo. Il paesaggio è in noi e intorno a noi (Morelli, 2011). Da quando abbiamo avuto una certa consapevolezza di noi e dei contesti della nostra vita, da

6

Page 7: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

allora il paesaggio è divenuto luogo della creazione della nostra vivibilità. Si è generato un equilibrio dinamico, più o meno consapevole, tra il livello demoeconomico della nostra presenza sulla Terra, il livello simbolico culturale e il livello strategico, relativo ai nostri modi di mettere in campo noi stessi nel creare le nostre forme di vita. Il paesaggio è così divenuto considerabile in base a un criterio di proporzionalità, ossia alla specificità con cui nelle diverse epoche della nostra storia abbiamo fatto esperienza del corrisponderci, correlarci, accoppiarci strutturalmente con gli altri esseri umani, gli altri animali e la natura di cui siamo parte. In tempi diversi e secondo scelte diverse abbiamo di fatto praticato un criterio di appropriatezza più o meno coerente nell’espressione della nostra presenza nei contesti e nelle forme di vita. Elaborando i vincoli e le possibilità della nostra presenza nelle contingenze della nostra storia, i paesaggi della nostra vita sono divenuti quello che la percezione o la perdita di percezione delle forme di reciprocità nella nostra conversazione con gli altri e con l’ambiente hanno lasciato emergere (Turri, 2004).

Antropizzazione e paesaggio. Interventi e regole.

Nella creazione del paesaggio le condizioni di persistenza del mondo si combinano con le emergenze della percezione e dell’immaginazione, dando vita di volta in volta alle immagini che del paesaggio riconosciamo e condividiamo. In quella tensione che si sviluppa tra la raffigurazione e le potenziali immagini attribuibili ai luoghi sta, probabilmente, l’origine dell’evoluzione del senso e del significato del paesaggio. Un’immagine, infatti, è sempre più di un’immagine, è sempre raffigurazione di qualcosa e traccia d’altro. La distinzione e il consolidamento ulteriori e provvisori di un’immagine del paesaggio sarà ancora un esito dell’immaginazione e dei suoi frutti. Non appare perciò possibile limitarsi ad una lettura statica, settoriale e locale del paesaggio. Pur considerando l’eterogeneità dei contesti, da quelli agricoli a quelli urbani, da quelli montani a quelli marini e lacustri, a contraddistinguerli è comunque la loro dinamicità evolutiva, la loro instabilità sistemica. Gli sviluppi delle scienze della vita – in particolare quelle ecologiche – e delle neuroscienze cognitive, oltre a modificare l’idea stessa di progetto, sostengono gli stessi interventi urbani e ambientali nel loro processo di revisione critica e riscrittura dell'artificiale, portando avanti un progressivo ampliamento delle rispettive tematiche e problematiche che, ibridando i tradizionali confini, pongono al centro la relazione tra le parti e non più i singoli fattori. Mentre cambia il modo di intendere il paesaggio si trasformano anche le discipline che se ne occupano, seppur più lentamente. Se qualcosa di rilevante sta accadendo in questo campo è il cambiamento di focalizzazione dagli enti alle relazioni, dalla stabilità all'instabilità, dall'essere al divenire: il paesaggio ne emerge trasformato nel suo significato ecologico e fenomenologico, fisico e simbolico, come nuovo paradigma della vivibilità contemporanea. Qualora un simile orientamento si affermi può suggerire prassi inedite per la cura e la tutela del paesaggio, in particolare per cercare di andare oltre il dualismo tra il paesaggio come veduta e il paesaggio vissuto. Quel dualismo, infatti, oltre ad essere responsabile di non poche azioni improprie e distruttive nel rapporto uomo-ambiente, risulta anche palesemente falsificabile sul piano scientifico. Si basa in buona misura sulla centralità e sul predominio della visione e di una concezione mentalista della percezione. Entrambe queste prospettive sono oggi ampiamente messe in discussione da un’evidente valorizzazione del corpo e della dimensione embodied della percezione e del nostro rapporto con l’ambiente, che permettono finalmente di considerare la visione come solo uno dei sensi che generano il rapporto di risonanza incarnata e sinestetica tra noi e il mondo, l’ambiente e lo spazio. L’analisi del paesaggio accede in questo modo alla considerazione dei processi di trasformazione ambientale e di evoluzione degli ecosistemi. In discussione appare quindi la separatezza tra figura e sfondo, tra naturale e artificiale, riconoscendo la dimensione sistemica della vivibilità come aspetto decisivo del paesaggio come spazio di vita. Questa evoluzione appare oltremodo necessaria, anche per cercare di cogliere la dinamica evolutiva tra spazi edificati, spazi aperti e spazi intermedi e marginali, tutti tradotti simbolicamente in spazi di vita e, quindi, in paesaggi. Sia la riqualificazione che i nuovi interventi; sia l’azione per generare paesaggi di larga scala, sia quella per intervenire nelle interrelazioni tra centri storici e caratteri del “terzo paesaggio”, secondo l’accezione di G. Clément; sia per tutelare e preservare aree territoriali di pregio che per risanare territori e ambienti particolarmente alterati; sia per tutelare i paesaggi agricoli che per sostenere la vivibilità nelle terre alte; per tutte queste ragioni, ridefinire l’epistemologia e la prassi delle concezioni del paesaggio appare come una condizione decisiva per la sua cura e la sua tutela. La compenetrazione tra fattori considerati separati, che vanno dalla norma al progetto, dalle scelte di governance alla fenomenologia estetica dei luoghi, dall’architettura alla biologia dei sistemi viventi, sta, insomma, ridefinendo il modo di intendere, progettare e governare il paesaggio. Il paesaggio appare, in tal modo, sempre meno riconducibile a qualcosa di straordinario ed esemplare, e sempre

7

Page 8: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

più si associa alla rete di eventi e scelte che lo riportano alla nostra stessa vivibilità nei luoghi dove abitiamo e in quelli che scegliamo di frequentare. Il progetto con cui noi esseri umani ci rivolgiamo ai contesti delle nostre vite necessita di una profonda trasformazione se si vuole considerare rilevante la cura e la tutela del paesaggio. È necessario concepire e praticare il progetto come un dispositivo sensibile alla coevoluzione ambientale e al sistema contingente in cui intende esprimersi. L’interpretazione della grammatica, delle forme e della semantica di un territorio possono generare un dialogo con un ambiente, in modo da dar vita a un paesaggio appropriato ad una vivibilità efficace. I principi di eco-progettazione si combinano con l’attenzione all’estetica e, come accade nell'opera di G. Clément, diviene centrale una visione etica ed estetica della realtà che compone in un’unica prospettiva paesaggio ed ecologia, in base ai principi essenziali del giardino in movimento (Clément, 1991), del giardino planetario (Clément, 1999) e del terzo paesaggio (Clément, 2004) capaci di favorire, nel rispetto del dinamismo e delle diversità della natura, un criterio di ecologia teso ad "assecondare il più possibile e ostacolare il meno possibile" le energie in gioco (Roger, 2001). Anche in questa prospettiva il paesaggio è comunque trasformazione della forma in evoluzione, in quanto ogni forma è in evoluzione, se non altro dal punto di vista degli sguardi cangianti che la osservano (Jakob, 2014): quella interfaccia che segna la frontiera impercettibile del nostro giardino planetario il cui valore, al di là dell'accezione strettamente ecologica, risiede proprio nel suo dinamismo e nella metamorfosi continua della sua struttura, nella intrinseca diversità, eterogeneità e pluralità con cui abbraccia la complessità del vivente.

Regole e consuetudini nella storia del paesaggio

Sembra che siano stati i danesi, nel 1805, a dotarsi di una prima normativa riguardante le riserve forestali e a creare il più antico riferimento giuridico al paesaggio. Nel diciannovesimo secolo negli Stati Uniti furono adottate le prime misure pubbliche riguardanti il paesaggio, all’interno di iniziative politiche per proteggere le risorse naturali e i beni culturali. Fu all’inizio del ventesimo secolo che si sviluppò l’attenzione del governo pubblico al paesaggio: la Costituzione della Repubblica di Weimar del 1919 e quella del Brasile del 1937 ne sono un esempio. Nella seconda metà del secolo, sei Stati europei hanno inserito un riferimento al paesaggio nei propri testi fondamentali: è il caso delle Costituzioni, in vigore, dell'Italia, della Germania, di Malta, del Portogallo, della Slovacchia e della Svizzera. La considerazione per il paesaggio a livello legislativo si è gradualmente rafforzata in Europa dalla seconda metà degli anni Ottanta, e ha subito un'accelerazione sotto l'influenza dei principi affermati nella Convenzione europea sul paesaggio del 20 ottobre 2000, adottata sotto gli auspici del Consiglio d'Europa. In quella convenzione il paesaggio è riconosciuto quale componente essenziale dell'ambiente di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale, e fondamento della loro storia. Considerata l'importanza economica, sociale, culturale e ambientale attribuita al paesaggio, l'obiettivo principale della convenzione è quello di promuoverne la salvaguardia, la gestione e la valorizzazione in ogni parte nel territorio degli Stati che vi aderiscono: questi si impegnano a riconoscere il paesaggio quale bene giuridico indipendentemente dal suo valore specifico, in vista della sua tutela o valorizzazione sulla totalità del proprio territorio nazionale, in funzione di valori democraticamente stabiliti sulla base delle aspirazioni espresse dalle popolazioni. Dopo aver definito il paesaggio "una […] parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni", la Convenzione europea sul paesaggio vincola gli Stati contraenti ad adottare una specifica politica del paesaggio. In applicazione di tale politica gli Stati devono attuare misure particolari finalizzate alla salvaguardia, gestione e valorizzazione del paesaggio, coinvolgendo direttamente le popolazioni che, a questo scopo, devono essere adeguatamente educate e sensibilizzate. In tale prospettiva, nel riferirsi ai principi di sussidiarietà e di autonomia locale, la stessa convenzione promuove il decentramento democratico dei pubblici poteri a livello territoriale.Nel diritto italiano, l'articolo 9 della Costituzione del 1947 dispone che la Repubblica "tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". La Corte costituzionale ha espresso una visione che tende a identificare la nozione di paesaggio con quella di bellezze naturali. Pur riconducendo il paesaggio a valori puramente estetico-culturali, la Corte ha infatti affermato che il paesaggio comprende ogni elemento naturale e umano che contribuisce alla forma esteriore del territorio. Rispetto alla questione delle competenze istituzionali, dopo aver affermato che la medesima zona di territorio può formare oggetto di provvedimenti normativi relativi al paesaggio, ovvero concernenti l'urbanistica, la Corte ha precisato che la tutela del paesaggio costituisce un compito dell'intero apparato della Repubblica nelle sue diverse articolazioni e in primo luogo dello Stato, oltre che delle Regioni e degli enti locali. Un riordino generale della legislazione in materia di paesaggio è

8

Page 9: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

stato operato nel 1999 attraverso la compilazione del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali. Alcune novità sono state invece introdotte dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. In base ai principi della Convenzione europea sul paesaggio del 2000, nella terza parte, relativa ai beni paesaggistici, il Codice dei beni culturali e del paesaggio contiene disposizioni che si riferiscono espressamente: alla definizione del termine paesaggio; alla necessità di predisporre politiche paesaggistiche di tutela e di valorizzazione da parte dello Stato e delle Regioni; all'estensione della pianificazione paesaggistica delle Regioni all'intero territorio regionale con un valore descrittivo, prescrittivo e propositivo; all'esigenza di predisporre obiettivi di qualità paesaggistica in vista della tutela o valorizzazione del paesaggio a livello regionale; al principio della concertazione istituzionale e alla partecipazione dei soggetti interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi nei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici (Cammelli, 2000; 2004).

Paesaggio e embodiment Le cose sono storiche non solo per essere accadute, ma poiché rinvengono un posto nella coscienza. Non solo in una coscienza singola, ma in una coscienza comune. Il riconoscimento estetico, infatti, è un processo sociale (Morelli, 2010). A proposito del paesaggio è possibile sostenere, come fa Beppo Toffolon, che: “Il paesaggio esiste solo in quanto patrimonio comune, riconoscibile e riconosciuto – as perceived by people – in cui la presenza di un carattere intersoggettivo diventa essenziale”. Continua Toffolon: “Il carattere di un paesaggio puo essere dunque pensato come il prodotto di un contenuto semantico, di una struttura sintattica e di un catalogo morfologico. Questi elementi possono essere piu o meno tipici, e quindi la loro alterazione incide piu o meno pesantemente sulla riconoscibilita di un paesaggio. Ci sono paesaggi che, per il loro valore estetico, storico o culturale e opportuno conservare tali e quali. Ci sono paesaggi che possono essere trasformati semanticamente, sintatticamente o morfologicamente per ritrovare il carattere perduto o per produrne uno nuovo” (Toffolon, 2014). Il paesaggio, quindi, non è solo là fuori, ma è incarnato in noi. Nel tentativo di fondare una teoria naturale del paesaggio e della traduzione simbolica degli ecosistemi, sembra importante collocare il paesaggio e il suo riconoscimento nella traiettoria dell’evoluzione culturale. Il rapporto tra stimolo fisico e sensazione soggettiva provata è stato studiato nel corso del tempo dalla filosofia. Se possiamo oggi sostenere, con una certa attendibilità, che materiali, forme, colori, oggetti e paesaggi, sia reali che dipinti, attivano in noi specifiche aree del cervello identiche a quelle che si attivano di fronte a situazioni esistenziali (Zeki, 2007), si configura una circolarità fra mondo interno e mondo estero, fra sistema cervello-mente ed esperienza, nella creazione dei paesaggi della nostra vita. Come il sé viene alla mente, un movimento dall’interno all’esterno, così il contesto ha ripercussioni sulla capacità del cervello di produrre e riprodurre una mente situata in un contesto e nelle relazioni con gli altri, un movimento dall’esterno all’interno. È, quindi, la contingenza della sua emergenza simbolica a connotare il paesaggio e a richiedere una sua ridefinizione come tratto caratteristico della nostra evoluzione naturalculturale. A rendere impegnativa un’adeguata comprensione dei nostri comportamenti, infatti, è la contingenza. Una complessa rete di fattori sembra agire alla base dei diversi livelli della composizione delle nostre relazioni, delle nostre azioni e degli atteggiamenti che le sostengono. Sappiamo che il passaggio dalla nostra biologia all’emergere di un sé primordiale, fino al sentimento di noi stessi nelle relazioni e nei contesti, e ai comportamenti che esprimiamo, presenta più interrogativi che risposte, più dubbi che certezze. Le dimensioni e la varietà degli stati mentali non si prestano a misure di tipo convenzionale e non disponiamo a tutt’oggi di modalità non solo risolutive, ma neppure appropriate, di misurazione. La connessione tra i meccanismi cerebrali e le espressioni comportamentali nelle relazioni con gli altri e il mondo rappresentano materia di forte investimento di ricerca e, tuttavia, le domande prevalgono sulle risposte. Se possiamo riconoscere che gli apprendimenti nell’esperienza della vita influenzano le connessioni sinaptiche cerebrali e possono dar vita a nuovi schemi comportamentali, non siamo in grado di descrivere in modo più preciso come ciò avvenga. Abbiamo però delle evidenze significative della plasticità della costruzione di noi stessi tra persistenza della nostra storia evolutiva e personale ed emergenza del nostro sé. Quali siano l’estensione e la flessibilità di quella plasticità è una questione aperta e di particolare rilevanza, in quanto ne derivano conseguenze importanti sulle possibilità di intervento psicologico, educativo e terapeutico. Le relazioni e le esperienze, infatti, generano effetti ricorsivi sui circuiti cerebrali e, quindi, la portata della plasticità diviene un tema decisivo. Se si vogliono evitare i pericoli di approcci riduzionistici da un lato e consegnati al mistero dall’altro, è bene tendere a non confondere i livelli e non trattare in modo deterministico il rapporto tra i processi neurobiologici e la complessità dei processi mentali umani più elevati. Gli stati mentali,

9

Page 10: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

ci indica Antonio Damasio, hanno inizio a livello fisico e fisici rimangono. “Possono essere rivelati solo quando una costruzione ugualmente fisica, che chiamiamo sé, diventa disponibile ed esegue il suo compito di testimone”. Damasio, a questo punto, aggiunge una considerazione decisiva e radicale: “I tradizionali concetti di materia e di mentale hanno un’accezione inutilmente ristretta” (Damasio, 2012; p. 398). Proprio le connessioni tra materia e mentale, tra neuronale, emozionale e cognitivo, sono al centro dell’attenzione della ricerca che si impegna a ridefinire che cosa significa essere umani. L’attenzione viene posta in particolare sulla costituzione del sé primordiale: come emerge e come si manifesta l’elementare consistenza del sé, il sentimento originario dell’individuazione. Al centro dell’interesse della ricerca vi è il tronco encefalico. Sulla funzione del tronco encefalico la posizione di Damasio è presentata chiaramente, distinguendo tra “sé primordiale” e “sé nucleare”: “Le mie precedenti descrizioni del sé non contemplavano il sé primordiale. I sentimenti elementari di esistenza erano parte del sé nucleare. Sono giunto alla conclusione che il processo può funzionare solo la componente del proto-sé localizzata a livello del tronco encefalico genera un sentimento elementare: una sorta di primordio, indipendentemente dal fatto che un qualsiasi oggetto interagisca con l’organismo e quindi modifichi il proto-sé”. Quel sentimento elementare si propone, quindi, come l’originario e generativo emergere del sé. Si sa da tempo, infatti, che grazie alla neuroplasticità, ogni attività cerebrale, comprese quelle che non hanno un rapporto diretto e immediato con il mondo come può essere il caso della riflessione, modifica la materia del cervello, con particolare riguardo alla struttura dei gruppi neurali e alla densità operativa delle sinapsi. Una differenza di punti di vista importante e non risolta nella individuazione e nel rapporto soggetto-altro-altri-mondo riguarda la circolarità ricorsiva. Secondo Jaak Panksepp, ad esempio, il sentimento elementare di sé sarebbe necessariamente legato a eventi che hanno luogo nel mondo esterno. Panksepp descrive quel sentimento elementare come “quell’ineffabile sentimento in cui si ha esperienza di sé come agenti attivi negli eventi percepiti del mondo” (Panksepp, 1998). Secondo l’ipotesi di Damasio il sentimento primitivo/sé primordiale è un prodotto spontaneo del proto-sé. La definizione delle origini dei sentimenti primordiali è di particolare rilevanza per l’epistemologia e la prassi psicoanalitica e psicologica, in quanto quei sentimenti costituiscono i nuclei portanti della personalità e il livello della loro plasticità definisce i margini d’azione di ogni intervento possibile basato sulla relazione. Damasio sostiene l’ipotesi che sia sufficiente che i sentimenti primordiali siano legati al corpo per emergere, indipendentemente dai legami con il mondo e con qualsiasi oggetto. Altri sostengono che il sentimento elementare di sé, per emergere, necessiti della connessione con il mondo esterno attraverso le attività motorie della struttura del tronco encefalico. Di particolare rilevanza risultano gli avanzamenti relativi al rapporto tra emozioni e sentimenti nella ricerca delle possibili “sedi della mente”. Mentre le emozioni sono considerate come programmi di azione complessi e in larga misura automatici messi a punto dall’evoluzione, “i sentimenti delle emozioni sono perlopiù percezioni di quello che il nostro corpo fa mentre l’emozione è in corso, unite alla percezione del nostro stato mentale in quel medesimo lasso di tempo. Negli organismi semplici capaci di comportamento ma senza un processo della mente, le emozioni possono essere rigogliosissime, senza tuttavia dare necessariamente seguito a corrispondenti stati del sentire” (Damasio, ivi, pp. 144-145). Questa considerazione formulata da Damasio e sostenuta da un elevato numero di studi sullo stesso tema, è probabilmente alla base di una delle distinzioni più significative degli esseri umani, l’integrazione che dà vita alla coscienza di second’ordine correlata a una variante genetica: la variante di un gene che si chiama DRD4 e che controlla la dopamina, una sostanza fondamentale nel funzionamento del cervello. La variante DRD4-7R sembra sia presente in circa il venti per cento di tutti i comportamenti di homo sapiens, e potrebbe essere quella che spinge a cercare il nuovo, l’inedito, quello che prima non c’era, in tutti i campi, affrontando i rischi connessi. Evitando, naturalmente, spiegazioni deterministiche e troppo semplici, in quanto un solo gene, o variante di un gene, non può essere ritenuto causa sufficiente di un comportamento, la motivazione alla ricerca del nuovo e ad affrontare il rischio pare una distinzione specie-specifica della nostra specie. Quella motivazione ad esplorare e a cercare si esprime in maniera contingente con un contesto di fattori, da quelli genetici a quelli ambientali. (Kidd K. K., Pakstis A. J., Yun L., 2013). I sentimenti di sé e del mondo sono sentimenti di conoscenza: l’integrazione di quei sentimenti genera una mente cosciente. Come scrive Damasio: “un insieme dinamico di processi neurali integrati, centrati sulla rappresentazione del corpo in quanto organismo vivente, che trova espressione in un insieme dinamico di processi mentali integrati” (Damasio, ivi, p. 21). Quei processi mentali integrati, nell’esprimersi in un contesto, ne incorporano e integrano i fattori, mediante un processo di estensione che dà vita alla traduzione simbolica dell’ambiente e alla creazione e costruzione del paesaggio, di cui abbiamo coscienza nella narrazione con altri. Come scrive Nicholas Humphrey, “la coscienza è priva di caratteristiche fisiche; non si manifesta” (Humphrey, 2013; p.

10

Page 11: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

13). Humphrey aggiunge: “l’essere fenomenicamente cosciente deve influenzare il modo in cui la creatura pensa ciò che vuole o ciò che crede al punto da farla agire nel mondo per mezzo di strategie adattive che altrimenti non avrebbe intrapreso” (Humphrey, ivi, p. 17). Emergendo da un processo di integrazione, quella che chiamiamo una condizione cosciente è il modo in cui il sé viene alla mente. Allo stesso tempo, quello che chiamiamo paesaggio è il modo in cui il luogo e il contesto della nostra vita vengono a noi mediante un processo di embodiment e traduzione simbolica. Il vincolo della nostra coscienza del mondo è la condizione della nostra presenza e allo stesso tempo la via per la quale siamo sensibili al mondo. La nostra condizione di esploratori ci apre le porte al cambiamento possibile, il primo dei quali è l’accesso alle possibilità di cambiamento attraverso il conflitto. Noi possiamo cambiare l’ordine delle cose in quanto ne siamo capaci per ragioni evolutive, per come siamo diventati e ogni cambiamento nasce da un confronto tra un ordine esistente e un ordine possibile; quel confronto è il conflitto come madre di tutte le cose. Negli ultimi anni abbiamo visto una serie di scoperte decisive nell'ambito delle scienze biologiche e delle neuroscienze cognitive. Argomenti tradizionali come "naturale” e “culturale” cambiano di significato, come aveva con anticipo intuito Giorgio Prodi. Realizziamo oggi con continue evidenze che, proprio come stiamo influendo sui nostri ambienti , così gli ambienti da noi stessi alterati concorrono a ristrutturare le nostre stesse capacità cognitive e le nostre prospettive di vita. Il paesaggio della nostra vita diviene parte integrante della nostra vivibilità. Se le scoperte biologiche e tecnologiche esprimono benefici promettenti quali quelli riguardanti l'aspettativa di vita, quelle stesse scoperte hanno anche il potenziale per migliorare in modo significativo la qualità dei nostri ambienti creati e costruiti, dai paesaggi urbani a quelli non urbanizzati. Possiamo documentare oggi come lo spazio si comprenda a partire dall’attività motoria del corpo umano. Ciò modifica le nostre concezioni intorno ai temi della bellezza, della cultura, dell'emozione, dell'esperienza delle persone che abitano i nostri ambienti e i nostri paesaggi (Mallgrave, 2013). Le forme che si trovano nello spazio esterno attivano specifiche aree cerebrali in relazione alle azioni verso le quali indirizzano, e in base alle loro caratteristiche di accessibilità, appropriatezza, tattilità, fruibilità, vivibilità. Se si considera il paesaggio creato da Daniel Libeskind al Museo ebraico di Berlino, con forme spaziali a zig zag, che si restringono, finiscono in zone buie e si esprimono in linee sconnesse e torri verticali senza luce, si ha una verifica dell’effetto di straniamento che la traduzione simbolica interiorizzata di uno spazio può produrre.

Paesaggio lingua madre

Il paesaggio è come la lingua madre (Cepollaro, Morelli, 2014). La sua presenza, tacita o esplicita, riconosciuta o latente, contiene il codice originario della nostra appartenenza e ci invoca a considerarla, oltre i dualismi tra mente e natura. L’idealizzazione del paesaggio o la sua distruzione sono entrambe vie per la sua negazione e il suo mancato riconoscimento, modi per non accedere alla sua considerazione e alla sua cura. Prendersi cura del paesaggio è prendersi cura di sé. Il paesaggio, infatti, emerge al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione [Morelli, 2011]. Proprio perché “le immagini sono basate su cambiamenti che hanno luogo nel corpo e nel cervello durante l’interazione fisica con un oggetto” e con un contesto, come evidenziano i risultati delle ricerche sui modi in cui il sé viene alla mente e noi diveniamo quello che siamo prendendone coscienza [Damasio, 2012; 98]; proprio per queste ragioni le interazioni dell’organismo con l’oggetto e il contesto sono l’organismo e generano le sue stesse possibilità di fare esperienza e di riconoscersi. “Le immagini”, sostiene Damasio, “rappresentano le proprietà fisiche di entità diverse, insieme alle loro relazioni spaziotemporali e alle loro azioni” [Damasio, 2012; 96]. Se il cervello costruisce anche mappe di se stesso intento a tracciare mappe, il processo incorporato interessa la costruzione di sé. Il paesaggio non è perciò qualcosa che sta “là fuori”, ma interviene nell’individuazione di ogni essere simbolico quale noi siamo e informa di sé il nostro spazio di vita interno e esterno. Il sé esiste e “si tratta di un processo, non di una cosa; e il processo è sempre presente quando si presume che noi siamo coscienti”. È “il processo che dà un centro alle nostre esperienze e ci permette infine di riflettere su di esse” [Damasio, 2012; 19]. Il processo di creazione di sé varia, naturalmente, a seconda delle circostanze, e può dare vita a una relativa pienezza o a problemi rilevanti fino alla psicopatologia [Fedida, 2002]. Un’idea fissista del corpo e della sua esperienza non risulta sostenibile alla luce delle verifiche dell’inestricabile connessione tra emozioni, sentimento e cognizione, che sembrano offrire una nuova luce alle considerazioni di Gilles Deleuze che, insieme a Felix Guattari, rivendicava il “corpo senza organi”. A proposito del processo di creazione di sé, William James riteneva che il sé materiale emergesse dalla integrazione di tutto ciò che un uomo può chiamare suo: “non solo il

11

Page 12: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

corpo e le facoltà psichiche, ma anche i vestiti, la moglie e i figli, gli antenati e gli amici, la reputazione e le opere, le terre e i cavalli, lo yacht e il conto in banca” [James, 1890; cap. 2]. Non solo la nostra mente è estesa al mondo e lo incorpora, ma la percezione di ciascuna delle cose del mondo genera emozioni e sentimenti di cui è fatta la nostra vita. Mediante i sentimenti siamo in grado di distinguere il “dentro” dal “fuori”, tra i contenuti che appartengono al sé e quelli che non gli appartengono, ma una circolarità contingente e ricorsiva presidia e sostiene la coevoluzione tra sé, mente e mondo. I sentimenti di conoscenza che regolano la distinzione tra sé e mondo si muovono su un’appartenenza naturale di base, preintenzionale, prevolontaria e prelinguistica. Parlando di paesaggio, perciò, è possibile sostenere che noi siamo il nostro paesaggio e averne cura è avere cura di noi stessi, così come infliggergli ferite è come ferire il nostro volto e la storia della nostra stessa individuazione.

La catena dei dualismi e i suoi vincoli nella definizione del paesaggio

Da secoli la nostra cultura e i nostri modi di pensare sono immersi in una catena di dualismi: tra mente e corpo, tra individuo e ambiente, tra osservatore ed eventi osservati, tra materiale e immateriale, tra la dimensione della presenza misurabile e quella dell’assenza imponderabile. Oggi siamo in condizione di riconoscere che tale catena di dualismi ha inciso e continua a incidere sul modo in cui agiamo nel mondo, nel senso di una riduzione di vivibilità. Correlato ai precedenti c’è poi il dualismo che separa il nostro corpo dalle operazioni mentali di cui siamo capaci, come se la mente fosse un sistema computante svincolato o svincolabile, in linea di principio dal corpo, e dai contesti entro cui apprende e diviene. Eppure la ricerca contemporanea evidenzia progressivamente come tra i due ambiti ci sia un legame profondo, anzi mostra con sempre maggiore evidenza per ora non falsificata che gli ambiti non sono due ma uno solo: una mente, per essere tale, è allo stesso tempo incarnata, situata in un contesto e estesa nelle relazioni. Ogni pensiero ha una contingenza emozionale e cognitiva e la nostra vita si esprime nella contingenza [Pievani, 2011]. Il movimento psichico che porta a trasformare il sentimento di conoscenza e la distinzione tra sé e mondo in dualismo, può essere compreso se si considera la propensione economica, reificante della mente umana e del suo funzionamento. Proprio perché siamo in grado di riconoscere i limiti e le fallacie della mente nella costruzione della conoscenza, del mondo e di se stessa, possiamo ingaggiare un conflitto estetico ed epistemologico con il dualismo e cercare di generare processi conoscitivi alla temperatura di quel conflitto. Nel caso del paesaggio, la sua acquisizione, l’accesso alla sua considerazione e la definizione dello stesso costrutto, sono stati lenti e difficili. A lungo noi esseri umani, impegnati nella sopravvivenza, abbiamo vissuto la natura come nemica. Stabilire un dualismo rassicurante con il resto della natura deve essere stata anche una necessità. Certamente l’avvento della competenza simbolica e la possibilità di nominare le cose in loro assenza, ma soprattutto il fatto di accedere ad esse nel dare loro senso e significato, ha prodotto una decisa discontinuità evolutiva [Tattersall, 1998; Deacon, 2001; Pievani, 2011]. Da quel periodo in avanti, noi abbiamo vissuto progressivamente il resto della natura come una realtà da dominare con le nostre capacità ritenute “superiori”. La distanza che abbiamo creato tra noi e il resto del sistema vivente è stata tale da trasformarsi in dominio: la stessa concezione della cultura è stata narrata nel tempo come una prerogativa umana dell’animale razionale e intelligente che ha il diritto di dominare la natura. Con i grandi miti e le grandi narrazioni che ci siamo dati di noi stessi e delle divinità che abbiamo inventato, ci siamo alla fine collocati sopra le parti. La spinta a dominare, figlia anche della paura verso il resto del vivente, si è tradotta in dominio e poi in dominio distruttivo. La nostra stessa vivibilità e quella del sistema vivente sono state compromesse. Lo stile e il comportamento non sono certo stati di cura. Come abbiamo già sottolineato, siamo oggi di fronte a quella che forse si configura come la più impegnativa e vertiginosa necessità di cambiamento che il genere umano si sia trovato ad affrontare: deporre la presunzione di essere sopra le parti e cercare di riconoscersi con i pensieri e le azioni come parte del tutto. Un cambiamento difficile per una specie che nelle scelte tende a privilegiare la dipendenza dalla storia e la forza dell’abitudine, facendo prevalere la consuetudine e la conferma dei propri comportamenti anche quando gli esiti, rispetto al cambiare idea e modi di agire, si presentano altamente indesiderabili. Eppure di creatività e innovazione siamo naturalmente capaci e le nostre menti, a certe condizioni, sono in grado di generare dei break down che danno vita all’inedito, a quello che prima non c’era. Siamo in grado di istituire discontinuità nei domini di senso e di esprimere esperienze estetiche in grado di connetterci al mondo in modi originali e generativi di nuove possibilità. Tutta l’analisi dell’esperienza estetica come esperienza naturale depone a favore dell’esistenza di queste possibilità e si interroga sulle loro potenziali estensioni [Morelli, 2010]. Da quelle possibilità creative dipende se riusciremo a sospendere e interrompere la

12

Page 13: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

nostra espansione distruttiva sul pianeta Terra, il paesaggio della nostra vita, e a creare atteggiamenti e comportamenti di cura per il mondo, per la natura di cui siamo parte e, quindi, per noi stessi. Per ora persistiamo principalmente in una posizione di osservazione e di azione “a distanza” del pianeta e della natura di cui siamo però parte. L’osservatore, che siamo noi, non si decide a riconoscere di essere parte dell’evento e si comporta come se potesse permettersi un’osservazione e un’azione a distanza e senza limiti, di utilizzo del sistema di cui è parte. Si tratta di un processo dalle implicazioni incandescenti sul piano emozionale e cognitivo, i cui esiti sono incerti, ma che esigerebbe in prima istanza che noi riconoscessimo che siamo parte dell’evento della vita sul pianeta Terra, e che il fatto indubitabile che, in ragione della nostra competenza simbolica, siamo in grado di osservarlo “come se” fossimo al di fuori, dovrebbe aumentare la consapevolezza della responsabilità e indurre a dismetterne un uso irresponsabile. I processi conoscitivi e operativi di fronte al mondo, come saggiamente ha indicato Heinz von Foerster, possono vederci nella posizione di vedere; di non vedere; di non vedere di non vedere. Finora, per le ragioni indicate e probabilmente riconducibili anche al fatto che, fra tredicimila e dodicimila anni fa, all’origine dell’agricoltura, eravamo meno di cinque milioni sul pianeta Terra, una contingenza esterna che ci poneva in posizione fragile e a rischio, ci siamo impegnati a domare e a dominare la natura di cui siamo parte. Facendo leva su noi stessi e sul linguaggio simbolico abbiamo pervaso il pianeta. La tecnica che abbiamo creato ha proceduto più velocemente della persistenza della nostra infanzia simbolica. Ci sono ragioni interiori, però, accanto a quelle esterne, che in certi casi fanno sì che il “non vedere di non vedere” non sia solo un incidente indesiderato ed evitabile logicamente e razionalmente. La distruttività è una possibilità per la specie umana, che è una specie aggressiva. Un esame di realtà esige realismo analitico e capacità, se possibile, di constatare che la nostra aggressività può esprimersi in generatività e distruttività. Che prevalga la prima sulla seconda, sia verso gli altri che verso la natura di cui siamo parte, dipende da un deliberato investimento in educazione e cura, in grado di sostenere le nostre menti relazionali incarnate e plastiche, a privilegiare la coevoluzione con la natura. Le condizioni della cura dei paesaggi della nostra vita e, perciò, di noi stessi sono, come si può vedere, molto impegnative. Alla base di tutto si tratta, in primo luogo, di rendersi conto che il paesaggio, di cui ci siamo accorti e che abbiamo considerato grazie alla letteratura e alle arti visive, è in movimento con noi e noi con esso coevolviamo. Siamo partiti dall’occhio e dalla visione a distanza per giungere a una concezione del paesaggio come contemplazione. L’occhio e la visione, del resto, costituiscono il fulcro della modernità.

il rapporto uomo-paesaggio nella visione della modernità

il rapporto uomo-paesaggionel paradigma evolutivo

Occhio --- > Sinestesia

Visione a distanza --- > Accoppiamento strutturale

Contemplazione --- > Coevoluzione

Ci rendiamo conto, ma non con facilità, che il paesaggio non è lo sfondo decorativo della nostra vita, ma di esso siamo parte in ragione della sinestesia che ci caratterizza. Tutti i sensi agiscono contingentemente e il paesaggio è odore, è suono o rumore, è visione, è tatto, è gusto. Siamo accoppiati strutturalmente con i paesaggi della nostra vita e con essi sperimentiamo i vincoli e le possibilità di una coevoluzione necessaria. La responsabilità della scelta di cura sta nel riconoscere e praticare tutto quello che oggi sappiamo e che con l’educazione possiamo rendere ancora più evidente e riconosciuto. “Per me il paesaggio non esiste in senso stretto, cambia in ogni momento; è l’atmosfera circostante che gli dà il suo vero valore”, ha scritto Claude Monet. L’educazione può creare la giusta atmosfera e favorire l’immaginazione di paesaggi appropriati alla vivibilità di noi come parte della natura; proprio quell’immaginazione che Aby Warburg ha riconosciuto come processo biologicamente necessario. Per affrontare la crisi di pensiero e prassi intorno al paesaggio pare necessario uscire da una prospettiva del costruire e contemplare, ed entrare in una prospettiva del vivere. Per questo è decisiva una ri-educazione dei governanti, dei tecnici e della popolazione. Se si allarga lo sguardo all’orizzonte del tempo in cui viviamo, non è difficile vedere come il paesaggio oggi non sia più solo il “paysage” di origine francese, o il “landscape” inglese: qualcosa che sta là fuori, da trattare dall’esterno, decidendo come usarlo. Vi sono nuove e inedite categorie da considerare. Perché inedita è la nostra condizione umana sulla Terra e nei luoghi della nostra vita.

13

Page 14: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

Quelle categorie, tra le altre, si possono riportare a tre. La prima è la vulnerabilità. Abbiamo scoperto la finitudine e la fragilità delle risorse, che non sono più in grado di sopportare la nostra impronta e la nostra presenza secondo l’attuale modello di sviluppo economico. Gli scenari globali per i prossimi quarant’anni, disegnati da Jorgen Randers in 2052, Rapporto al Club di Roma, parlano chiaro. Il pianeta ci contiene nel proprio vulnus se siamo rispettosi della sua vulnerabilità. Lo stesso vale per ognuno dei luoghi in cui viviamo. La vivibilità, la seconda categoria, deriva dalla prima, e riguarda l’esistenza o meno di un equilibrio sufficientemente appropriato tra la natura di cui siamo parte, le risorse e i modi d’uso proiettati nel tempo. La terza categoria riguarda il nostro atteggiamento mentale da cui deriva il valore che attribuiamo al paesaggio inteso come spazio della nostra vita. Da quegli atteggiamenti mentali derivano le nostre azioni concrete, appropriate o distruttive. Siccome le risorse sono evidentemente in crisi a causa di modi d’uso inappropriati, allora la domanda importante è come scegliamo di stare in questa trasformazione radicale in cui inizia un nuovo mondo per noi, quello della finitudine e del riconoscimento della vulnerabilità delle risorse. Il progetto allora non può che partire dal paesaggio come unico spazio disponibile della nostra vita. Non può che porsi come ricerca di un dialogo con la natura e la cultura di cui siamo parte, assumendo come criterio l’arte della cura della vulnerabilità e del “meno è meglio”. Conviene allora riflettere su cosa intendiamo per crisi, resilienza e progetto: come lavorare alla violazione della risonanza tradizionale che ci tiene dentro la dittatura dell’abitudine del nostro tempo? Senza violazione dell’empatia non vi sarebbe innovazione. Che rapporto esiste tra crisi, progetto e innovazione? La resilienza è una via per l’esercizio delle responsabilità, se accanto all’aumento delle competenze tecniche si lavora allo sviluppo di una visione e di una pratica umanistiche del progetto.Due sembrano gli ostacoli ad accedere a una visione naturale e fenomenologica della crisi, della resilienza e del progetto, al fine di vedere il paesaggio come cuore del progetto e affrontare il progetto in termini sistemici:

- La presunzione di stabilità dell'io che a un certo punto incontrerebbe l'incertezza intesa come evento eccezionale e ne uscirebbe messo in discussione nella sua presunta continuità;

-La visione del mito moderno, del mondo come conquista da parte di un essere, quello umano, supposto sopra le parti, che modella il mondo "fatto per lui", a sua immagine e somiglianza, secondo razionalità, intenzionalità e volontà, disponendo di un'etica della verità a priori rispetto al linguaggio e all'azione.

Se si prescinde, cercando di accoglierne le sempre più evidenti falsificazioni scientifiche, da una concezione unitaria e stabile dell' "io", assumendo che si tratti di un costrutto a valenza lessicale o narrativa o poco più, le categorie analitiche di "crisi" e di "progetto" subiscono una metamorfosi, la cui natura può essere ricondotta alle seguenti considerazioni:- crisi, indica verosimilmente una "sospensione della regolarità", da kríno (gr. separo, distinguo); quella sospensione è un evento costante della nostra esperienza, altrettanto costantemente compensato o rimosso in ragione della nostra prevalente propensione alla continuità e al conformismo rassicuranti. Da quella sospensione (un lampo nel buio; una ferita del senso), è possibile chiamare la sospensione del dominio di senso dominante; (Morelli, 2010) e solo da quella sospensione della regolarità noi esseri umani, animali dotati evolutivamente di comportamento simbolico, possiamo concepire e immaginare l'inedito. La nostra neuroplasticità ci attrezza a farlo; le strategie conformiste dell'educazione e dell'organizzazione sociale, pur necessarie, ci disabilitano a praticare, almeno quando sarebbe necessario, il perseguimento delle emergenze creative che l'utero della crisi potrebbe generare. Ci riconsegniamo più volentieri ai contrafforti protettivi del conformismo, di quanto non coltiviamo le possibilità della trasgressione dell'ordine costituito. - progetto, richiama la propensione del nostro pluriverso interiore a non coincidere mai con se stesso e in questo senso viviamo. Imbrigliato nell'ingegneria razionalistica moderna, a cui peraltro oggi "neorealisticamente" chiediamo asilo non riuscendo a tollerare e elaborare l'ansia della complessità trasformatrice, "progetto", nella retorica ingegneristica, architettonica e managerialista, assume le caratteristiche di emanazione intenzionale e lineare di una mente disincarnata, isolata asetticamente dal contesto, deculturata. "Siamo un progetto e un'invenzione" come Aldo Giorgio Gargani sempre ha ricordato, nel senso che possiamo, e ne siamo effettivamente capaci, immaginare quello che ancora non c'è o mai c'è stato e mai ci sarà (la sirena o l'ircocervo). E l'immaginazione ci salva da dove giaciamo sovente.L'immagine è il luogo fragile di un passaggio diretto, vale a dire senza mediazione rappresentativa, dall'affettività alla forma. Noi siamo quelli che possono dare forma all'inedito, almeno in una certa misura, esercitando il dubbio sull'esistente e stare a vedere quel che ci offre il caso. Il paesaggio non

14

Page 15: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

ha senso se non esiste un uomo che lo osserva e – di più – concretamente lo vive, in una totalità di esperienza sinestetica. La progettazione del paesaggio coinvolge il processo percettivo, sensoriale ed esistenziale ed è a sua volta una traduzione organizzata di forme e spazi inediti (Venturi-Ferriolo, 2009). Un simile orientamento richiede di combinare la contemplazione con l’ascolto e l’esperienza vissuta (A. Roger, 1997). Concepire il paesaggio mediante un progetto significa partire da un’analisi e da uno sviluppo delle relazioni che costituiscono il paesaggio stesso e che nel paesaggio si esprimono (Simmel, 2006). L’aspetto “relazionale” del progetto del paesaggio, insieme con la centralità dei fattori relativi al tempo e al movimento, conferiscono una spiccata specificità a questo campo di ricerca e progettazione finalizzati alla cura e alla tutela. Prestare attenzione ai valori contestuali sia in senso geografico sia in senso storico-culturale, al rapporto delle persone con i luoghi e con le storie dei territori, vuol dire intendere il progetto come un intervento di coevoluzione. L’obiettivo è quindi costruire strumenti teorici e progettuali in grado di costruire il paesaggio partendo dagli orientamenti della Convenzione Europea del Paesaggio. Mente incarnata e paesaggio

Sembra proprio che sia il dualismo tra noi e il mondo, tra noi e il nostro modo di conoscere, tra cognizione e emozioni, tra corpo e mente, la fonte delle difficoltà a creare un sapere senza fondamenti, frutto della nostra autofondazione e dell’unità naturalculturale mente corpo. Si propone necessaria, perciò, non solo una critica al dualismo di base, come abbiamo già sostenuto, ma anche al dualismo di ritorno. Non perché fossimo riusciti a metterlo in discussione del tutto, ma in quanto sembra rientrare prepotente dalla finestra mentre in alcuni, forse una minoranza, eravamo impegnati a cacciarlo fuori dalla porta. Concorrono a riaffermare approcci dualistici sia la lunga deriva delle scienze cognitive “mentaliste” e computable, sia il cosiddetto “neorealismo” nelle sue forme radicali o “modeste”. Si tratta di un “dualismo temporale”, nel senso che torna ad assumere una prospettiva newtoniana del tempo e, quindi, a riproporre un “prima” e un “dopo” nella spiegazione dell’azione e del comportamento umano; tende, inoltre, a proporre la separazione tra una “sostanza” e le sue “espressioni” e il corpo e la mente, i corpi e la conoscenza tornano ad essere collocati in due mondi diversi e separati. Il tempo eisteiniano curvo e circolare e il tempo quantistico non fanno parte di quell’epistemologia e di quel paradigma che, rassicurante, s’avanza a compensare la domanda di “realtà” solida, fissa e assolvente che il nostro tempo di crisi pone. Prima viene la realtà e poi le interpretazioni; la prima è fissa, le seconde mobili. Prima viene il soggetto e l’”io”, poi le relazioni. Il fatto è che se qualcosa di importante e rilevante è accaduto nella ricerca su cosa significa essere umani negli ultimi anni, ciò riguarda proprio la progressiva caduta di possibilità di giustificare il dualismo. In nome del dualismo possiamo solo giungere a concepire una cura del paesaggio dal di fuori, come se non ne facessimo parte, e gli effetti di una simile posizione sono sotto gli occhi di tutti. Il fatto è che, come la pecora Dolly, il new realism nasce vecchio. È pressante il sospetto che abbia gli stessi geni del positivismo e della pretesa di vedere senza occhi: di quell’osservazione a distanza che risolveva il rapporto soggetto-sapere “come se” l’osservatore potesse conoscere senza far parte del sistema conosciuto. Che esista una realtà là fuori, nessuno dubita. La questione è: come la conosciamo? Come, cioè, una specie capace di conoscere la conoscenza, conosce la realtà; come una specie che sa di sapere, la impara quella realtà. - La impara misurandola a distanza?- La impara solo per interpretazione e ogni interpretazione è vera e falsa allo stesso tempo?- La conosce mettendo in discussione i propri sensi e il sapere ingenuo; elaborando, cioè, il

conflitto epistemologico ed estetico con il mondo?- La conosce mediante il movimento e l’azione della mente relazionale incarnata?

Il naturalismo critico aveva, nel corso degli ultimi anni, favorito un avanzamento oltre il dualismo. I contributi di Stanley Cavell, Cora Diamond e altri avevano aiutato la riflessione a valorizzare il ritorno all’ordinario e il riconoscimento che “bisogna appoggiare i piedi da qualche parte per afferrare qualche cosa”, come ha sostenuto con alta capacità critica Aldo Giorgio Gargani nell’ultimo periodo del suo percorso di ricerca. Stabilendo quella che è più di un’analogia fra evoluzione biologica della vita ed evoluzione della conoscenza, gli studi afferenti all’orientamento epistemologico della complessità, in particolare le neuroscienze e la biologia evolutiva, hanno evidenziato la circolarità ricorsiva tra persistenza e emergenza nella vita e nella conoscenza, mostrando come la vita sia conoscenza. Tutto ciò conduce oltre il dualismo biologico e psichico e oltre ogni “fissismo” nella lettura della realtà dei sistemi viventi adattativi. Sempre Gargani aveva

15

Page 16: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

riconosciuto la natura di quella propensione ad assestare un ordine o una relazione intrinseca laddove non c’è: "La semiologia contemporanea, la filosofia della scienza, l’epistemologia della complessità e da ultimo le teorie fisico-matematiche del caos hanno dissolto il falso presupposto che fra linguaggio e realtà così come fra linguaggio e stati psichici, stati interni, sussista una relazione intrinseca, ordinata e coerente di qualche tipo" [A. G. Gargani].

Affetti e cognizioni nella cura del paesaggio

Una prospettiva neodisciplinare accomuna quelli che furono approcci separati e ci può aiutare oggi a mettere in discussione il dualismo, condizione che riteniamo indispensabile per lo sviluppo di qualsiasi strategia di cura del paesaggio e della vivibilità. Ad emergere in questa direzione sono soprattutto l’Interpersonal Neurobiology e le Affective Neuorsciences [D. Fosha, D. J. Siegel e M. F. Solomon, 2009]. Sono interessanti i tempi in cui viviamo, proprio perché “si modificano le frontiere tra aree del sapere”. La rivoluzione delle neuroscienze “ha rilevato il ruolo primario degli affetti nella condizione umana” indicando come decisivo sia per la ricerca che per l’azione terapeutica l’importanza di “cogliere gli affetti radicati nel corpo” e i corpi radicati nei contesti. Emerge in maniera chiara e inequivocabile la possibilità di superamento di ogni cognitivismo mentalista e apre le porte a una possibilità di leggere la mente come espressione della biologia e delle emozioni di base, connettendo gli esseri umani agli esseri delle altre specie e ai contesti naturali della vita, non solo, ma ricavando proprio da questa prospettiva decisive indicazioni per l’azione di cura e emancipativa. Jaak Panksepp, autore del fondamentale Affective Neuorscience: The Foundations of Human and Animal Emotions [Panksepp, 1998], occupandosi dei sistemi emotivi e della qualità della vita mentale, critica quella che chiama la “visione esternalista” che “continua a distorcere il pensiero cognitivo e a portare verso continue concezioni degli organismi come macchine passive basate sulle associazioni e sull’elaborazione di informazioni” [Panksepp, 1998; 22]. Il suo obiettivo è cercare le vie per una comprensione delle emozioni del processo primario – cioè verso quei processi mente-cervello che costituiscono le complessità neuro-affettive. L’autore identifica sette sistemi emotivi di base che ritiene “solidamente e consistentemente supportati dalla neuroscienza affettiva inter-specie”. Essi sono: Ricerca, Paura, Rabbia, Piacere sensuale, Cura, Panico, e Giocosità” [Panksepp, 1998; 28]. Panksepp avverte che si tratta di sistemi cerebrali necessari per i comportamenti emotivi e le sensazioni, nonostante non siano in alcun modo sufficienti per le manifestazioni emotivo-cognitive di ordine superiore che possono sorgere da questi sistemi coinvolti nell’attività del mondo reale. Il chiarimento relativo alla plasticità di tutti i sistemi emotivi di base ne definisce la funzione mostrando che essi “possono divenire sensibilizzati (più forti) con l’uso, o desensibilizzati (più deboli) se poco utilizzati” [Panksepp, 1998; 44]. L’analisi di Panksepp ha tra l’altro il valore di presentare le condizioni per un approccio neurofenomenologico al cambiamento e all’apprendimento, di particolare rilevanza per una prospettiva integrata della concezione e della prassi delle relazioni di cura. Utilizzando un approccio multidisciplinare che consenta di approfondire le reciproche relazioni tra corpo e cervello nella percezione e espressione degli affetti è possibile comprendere qualcosa di più di come si esprime il principio organizzatore degli affetti e l’accesso a emozioni prosociali, ovvero come le relazioni e l’ambiente reclutano stati neurofisiologici dando vita a specifiche abilità per la regolazione degli affetti, per il coinvolgimento sociale e per la comunicazione. Tutto ciò è di particolare rilevanza per la relazione che ognuno stabilisce con il contesto e l’ambiente e, quindi, per lo sviluppo di una relazione di cura del paesaggio. Del resto l’evoluzione modifica le strutture del sistema nervoso autonomo e, quindi, la regolazione emotiva e il comportamento sociale sono derivati funzionali di cambiamenti strutturali nel sistema nervoso autonomo, in risposta ai processi evolutivi. I comportamenti sociali adattivi e maladattativi rilevabili in base a tale prospettiva forniscono un’importante base per la messa a punto di strategie di cambiamento e di relazioni di cura. Se si considera il contributo di uno studioso come Colwyn Trevarthen riguardo alle funzioni delle emozioni nell’infanzia, risulta strettamente rilevante, a proposito della relazione di cura, per l’attenzione posta alla regolazione e comunicazione del ritmo nella reciprocità empatica e nell’emergenza del significato nello sviluppo umano. L’attenzione al potere curativo delle emozioni per l’autore è collegata alle evidenze relative al ruolo del corpo e del movimento nelle relazioni e nelle informazioni che trovano risonanza nell’attività cerebrale di un’altra persona capace di percepirle attraverso un’empatia immediata. Il contributo di Trevarthen trova il suo punto di maggiore rilevanza nella messa a fuoco dei processi di incorporazione delle emozioni come principi attivi, non come mere reazioni. Si giunge così a riconoscere come le narrazioni emozionali diventano il discorso del linguaggio, in modo da preparare le indicazioni sull’intervento sulle radici della comunicazione delle emozioni in quanto azione educativa e curativa [Trevarthen, 1998]. Del resto il nostro rapporto con il

16

Page 17: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

paesaggio è una continua costruzione multilivello di significato, emozionale polimorfico e polisemico. In ogni relazione con gli altri e il contesto pare necessario criticare la tendenza a circoscrivere e categorizzare il significato all’interno del dominio dell’esplicito, soprattutto in quello del linguaggio, dei simboli e delle rappresentazioni. I significati sono biopsicologicamente polimorfici. È possibile osservare ciò a partire dai neonati e riconoscere come i significati siano connessi all’elaborazione della caoticità e alla creazione dell’inedito e del nuovo. Significato, attaccamento e formazione delle relazioni sono contingenti e interconnessi. La teoria degli affetti rappresenta un riferimento decisivo per ogni azione di cura. Integrando la psicoanalisi con diverse correnti di ricerca nel campo dello sviluppo neurologico e affettivo, se ne possono ricavare indicazioni importanti ai fini di una co-costruzione di campi intersoggettivi, per cui la regolazione emotiva interattiva può essere un processo centrale delle dinamiche del cambiamento. Del resto è sempre più evidente la funzione delle emozioni come integrazione, anche per il superamento del dualismo e della circolarità tra persistenza ed emergenza, per cercare di comprendere che cosa significa essere e divenire umani coevolvendo con i paesaggi della nostra vita.

Parole che cambiano. Per un’estetica della natura.

A lungo abbiamo usato parole chiave della nostra vita dando ad esse un significato duraturo di generazione in generazione. Uno dei segni della grande trasformazione in atto è il cambiamento di significato delle parole, di solito preceduto da una confusione e da incomprensioni che richiedono costanti precisazioni e traduzioni. Ciò tende a valere prima di tutto per le parole che indicano le trasformazioni più importanti. Quando le usiamo ci capita spesso di dire: “non intendevo in quel senso, ma…..”; “uso la parola per dire che…..”, e così via. I significati tendono, infatti, ad avere una lunga durata e a rimanere latenti nel tempo, fino a quando non diventano come un guscio di serpente in estate, abbandonato sull’erba o tra i rovi, dal portatore che ne ha creato uno nuovo. Del resto vivere una grande trasformazione vuol dire, nella maggior parte dei casi, non accorgersene. Le parole che cambiano sono un buon indicatore. Due di quelle parole sono oggi: “arte” e “natura”. Utilizzate insieme, assumono, inoltre, un potere evocativo di una delle più importanti evoluzioni in corso. L’arte era per pochi; era tanto più arte quanto più rappresentava la realtà in maniera conforme; essendo stata a lungo una forma di preghiera, era soprattutto legata al sacro e al potere, che spesso coincidevano; se definita popolare era considerata “quasi-arte”; rappresentava il mondo esterno con canoni precisi; era separata, in quanto immateriale, dalla vita materiale; era principalmente rivolta al passato e alla sua raffigurazione; celebrava, nella maggior parte dei casi, l’ordine costituito; era appannaggio di pochi creatori che davano le loro opere alla contemplazione; la maggioranza dei fruitori, comunque limitata e elitaria, era fatta di spettatori. Oggi, con tutte le criticità e le confusioni di stili e interpretazioni, l’arte è scesa per strada. Non solo nelle forme di arte pubblica, ma soprattutto perché interviene in presa diretta o, comunque, intende farlo, nel nostro rapporto con il mondo. L’arte intende aprire e, spesso, apre finestre di comprensibilità al nostro stupore. Ci pone di fronte al tempo in cui viviamo e destabilizza i luoghi comuni e le consuetudini interpretative del mondo. Spesso anticipa e crea chiavi di lettura del tempo in cui viviamo e delle sue fenomenologie. L’arte ci consente, attraverso inedite letture delle opere storiche, di rileggere anche il passato, in quanto ogni arte è arte contemporanea, avendo noi, che viviamo il nostro tempo, solo il nostro sguardo per osservare le opere e gli eventi e dare loro un significato. Per quanto riguarda la natura, essa era matrigna; era stata fatta per noi, perché potessimo farne l’uso che più ci aggradava; la natura era, nelle sue molteplici espressioni, di chi se ne appropriava e, per questo, era ed è il teatro dei nostri conflitti e delle nostre guerre, come accade oggi, ad esempio, per l’acqua e il petrolio; era pericolosa e si trattava di domarla e dominarla; era “là fuori” e noi non ne facevamo parte; potevamo mangiarla, bruciarla, sovraccaricarla dei nostri rifiuti, utilizzarla senza limiti, tanto era fatta per questo; era peccaminosa e peccatogena, piena di tentazioni da evitare o esorcizzare; la natura faceva paura e ancora fa paura, ma più che riconoscere in questo suggerimenti per i nostri limiti, tutto ciò ha eccitato e eccita la nostra propensione al dominio; la natura, a certe condizioni, può divenire oggetto di ascesa e contemplazione, in momenti e contesti eccezionali, o può essere il teatro dei nostri divertimenti, come nello sport, purché al nostro servizio e separatamente dal valore d’uso che deve continuare ad avere per noi: vogliamo poter godere della bellezza di una montagna o di un lago, ne invochiamo perfino il rispetto, ma vogliamo poter utilizzare senza condizioni quella montagna e quel lago fino ad alterarne o inquinarne irreversibilmente l’ecosistema. Cominciamo ora a renderci conto, ma siamo solo agli inizi ed è una cosa per pochi, che la natura siamo noi; forse più per trauma che per scelta ci rendiamo conto che siamo al limite nella possibilità d’uso delle risorse naturali, in

17

Page 18: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

molti campi; ci dimeniamo nella necessità di cambiare idea e accorgerci finalmente che non siamo sopra le parti ma siamo parte del tutto; la natura non ci appare solo matrigna, tranne quando ferisce il nostro narcisismo con manifestazioni incontrollabili; ne celebriamo il valore oscillando tra enfasi misticheggianti e ecologistiche e ricerca di ulteriori forme di controllo e dominio, come gli interventi chimici per provocare la pioggia, le coperte per i ghiacciai che scompaiono o le biotecnologie per divenire eterni; cerchiamo, allo stesso tempo, in molti modi di capire la natura e di trovare forme per coevolvere. Non siamo in grado di dire cosa prevarrà, ma possiamo sostenere con una certa attendibilità che è proprio la valorizzazione di un’estetica della natura che potrà indicare alcune vie per uscirne, passando attraverso i vincoli del presente che noi stessi abbiamo generato. Secondo il grande poeta americano Robert Frost: “The best way out, is always through” (La miglior via per uscirne è passarci attraverso). Poche altre risorse come la creatività e l’arte potranno elevarci all’altezza dei problemi che abbiamo prodotto. Se per estetica non intendiamo riduttivamente gli aspetti esteriori delle cose, ma la struttura che connette ogni cosa a noi e noi alle cose, allora possiamo sviluppare inedite capacità di stupirci di fronte al mondo e di sentirlo. Per questo, noi animali umani dotati di un sistema cervello-mente che è neuroplastico, abbiamo la possibilità di tirare fuori il possibile da noi stessi, di educarci a sentire il mondo e la natura come parte di noi e noi come parte della natura e del mondo. Arte e natura divengono sodali, in questa prospettiva, e configurano un progetto e un’invenzione di cambiamento delle nostre vite, in una civiltà che è già planetaria, ma in cui noi dobbiamo mostrare a noi stessi di essere all’altezza di divenirne cittadini.

Sentire il mondo

La difficoltà di sentire il mondo, di collocarsi al margine del conformismo dominante, di accogliere la dimensione generativa del margine, richiede attenzione e cura rivolte alla capacità di essere adulti e bambini allo stesso tempo, in questa svolta epocale nella nostra contemporaneità [Morelli, 2012]. Scrive Theodor W. Adorno, in Minima Moralia, parlando dell’uomo che pensa:“Egli sperimenta radicalmente, come una questione di vita, l’umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o diventare un bambino” [Adorno, 1979; 155]. Co-sentire con il mondo e averne cura è possibile, coevolvere con esso pure. Ne abbiamo la capacità. “The brain make sense of our experiences by focusing closely of the time of impulses that flow through billions of nerve cells”, scrivono Terry Sejnowski e Tobi Delbruck, concludendo la loro ricerca sul linguaggio del cervello [T. Sejnowski, T. Delbruck, 2012]. L’integrazione, quindi, sta alla base dell’emergenza del senso di cui noi alimentiamo la nostra vita. È quanto mai opportuno riflettere su quella che probabilmente è qualcosa di più di un’analogia tra l’integrazione con cui miliardi di cellule lasciano emergere il senso e l’integrazione delle componenti che, per bricolage, fanno emergere il paesaggio. Dallo stupore di fronte al mondo, dalla mancanza e dall’assenzialità che ne derivano, è possibile abitare quella tensione tra mente e mondo e accogliere il sentimento del paesaggio della nostra vita. Sulla mancanza sono decisive le considerazioni di L. Pagliarani che la riconosce come il possibile baratro, ma anche come il vuoto generativo [Pagliarani, 2012]. Sull’assenzialità è decisivo il recente, importantissimo studio pionieristico di T. Deacon [Deacon 2012]. Quel paesaggio mostra di non ridursi alle componenti di cui è fatto e si sottrae a interpretazioni fissiste e solo contemplative, agiografiche e celebrative; così come la nostra capacità distintiva specie-specifica di generare senso non si riduce ai miliardi di neuroni, né si consegna, senza costi pregiudicanti la libertà di conoscenza e di azione, a emozionalismi e sentimentalismi di stampo new age. Riconsegnarsi alla coevoluzione con i paesaggi della nostra vita e con la natura di cui siamo parte richiede una inedita cultura della cura di sé, da una cura auto-centrata ad una cura attraverso il mondo. La porta è stretta e pare importante non sbandare di lato, indulgendo a facili nostalgie che abbelliscono passati che sono storia e non oggetto di celebrazione, o assumendo la cinica posizione di chi si concentra sulla scelta della marca dello champagne sul ponte del Titanic. Si tratta di educarsi a sentire e vivere il mondo con il mondo. Scrive Marcel Proust:“I poeti pretendono che tornando in una certa casa, in un certo giardino dove siamo vissuti in gioventù, noi si ritrovi per un attimo quel che siamo stati allora. Sono pellegrinaggi assai rischiosi, dai quali si può uscire con una delusione come con un successo. I punti fermi, contemporanei delle diverse età, è meglio cercarli dentro di noi. L’ignoto della vita delle persone è come quello della natura, che ogni scoperta scientifica fa indietreggiare ma non annulla”.

Mindscape/Landscape

18

Page 19: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

La responsabilità di cura del paesaggio esige proprio un’innovazione nei processi di apprendimento e trasformazione di comportamenti e stili di vita che assume caratteristiche epocali. Coinvolti sono lo spazio e il tempo come categorie fondative dell’apprendimento. Attraverso la loro elaborazione è possibile immaginare l’emergenza di metafore inedite della vivibilità e, quindi, creare universi simbolici originali in grado di sostenere una nuova progettualità nel rapporto tra esseri umani, ambiente, territorio e paesaggio. Lo spazio e il tempo, infatti, risultano alla base di ogni possibilità di immaginazione di percorsi inediti di simbolizzazione e di genesi di una progettualità possibile.

SPAZIOTEMPO

IMMAGINAZIONESIMBOLO

PROGETTO

Per questo scopo, come ha sostenuto Peter Sloterdijk: “Una premessa decisiva consiste nell’accettare che la storia dell’uomo debba essere compresa come il dramma silenzioso del suo creare spazi” [Sloterdijk, 2004; 125]. Creiamo spazi manipolando il mondo, che per noi è un progetto e un’invenzione. Lo facciamo da sempre e lo abbiamo fatto, fino a un certo punto, senza chiederci se il nostro modo di farlo sia stato tale da consentirci di poter continuare a farlo. Oggi ci rendiamo conto almeno in parte che si pone una questione radicale di vivibilità: condizione costitutiva dei modi d’uso delle risorse è che l’utilizzo non pregiudichi la loro utilizzabilità futura. Si pone perciò un inedito problema di appropriatezza e cura che richiede una nuova cultura, nuovi orientamenti di valore e nuovi stili di comportamento; che richiede, in una parola, di ripensare il paesaggio come spazio e condizione della nostra vita. Ripensare il paesaggio oltre il dualismo uomo-natura vuol dire cercare di comporre evolutivamente la centratura sulla visione e sulla percezione a distanza come mera contemplazione con la relazione circolare tra osservatore e sistema osservato, riconoscendo che l’osservatore è anche parte del sistema che osserva (Iacono, 2013). Vivere in un paesaggio o attraversarlo, quindi, non vuol dire averne una rappresentazione dal di fuori, ma sperimentare un accoppiamento strutturale con esso. Quell’accoppiamento non è stabile ma si forma e ri-forma secondo le dinamiche transindividuali e relazionali che fondano e rifondano la soggettività. La critica alle interpretazioni che antepongono l’individuo alla società spostano l’attenzione da un’idea di individuo già formato, che si muove in un ambiente, al processo di individuazione che coevolve con gli altri e il contesto, che emerge nelle relazioni in un paesaggio. L’evoluzione psichica di ogni individuo, già secondo la prospettiva proposta da Lev Vygotskij, non solo non è collocabile al di fuori delle relazioni sociali situate in un contesto, ma si origina attraverso continui processi di interiorizzazione e proiezione, di connessioni e di interdipendenze, di continue combinazioni e ricombinazioni (Balibar E. e Morfino V., 2014). Il paesaggio, pertanto, non si propone come un’icona fissa, come una continua replica della tradizione, bensì è frutto di un’elaborazione della mancanza creativa, dell’assenza, dell’incompletezza, in una parola del sentimento di malinconia (Starobinski, 2012). Potremmo dire che nasce per traduzione di quella mancanza d’essere, forse proprio a dispetto di quella mancanza d’essere, di una kénosis, che ha tuttavia il potere di criticare l’assenza della pienezza, mentre tende ad una pienezza che non raggiungerà mai. Non coincidiamo mai, infatti, con i luoghi, noi che tendiamo a un significato ulteriore rispetto a quelli esistenti, avendo il potere singolare di concepire in absentia traduzioni simboliche inedite dei luoghi in cui viviamo. In sostanza appare sempre più evidente come sia il primato dell’azione e del movimento la fonte della conoscenza e dell’interpretazione dei luoghi, piuttosto che modelli mentali o rappresentazioni precedenti la risonanza con gli altri e l’ambiente di vita. I concetti di esternalità o di esteriorità non trovano verifica o giustificazione parlando di ecologia della vita; risultano un’astrazione rispetto all’esperienza vissuta. Forma e contenuto, nel caso del paesaggio, coincidono e il paesaggio non può essere ridotto a sfondo dell’esperienza, in quanto si mostra in modo sempre più evidente come figura incorporata. Pur rimanendo certamente la cornice dell’esperienza il paesaggio è materia concreta. Fonte di narrazione poetica, il paesaggio concorre a comporre l’individuazione, la storia e la memoria e la sua non è mai una fruizione passiva, ma concerne la continua negoziazione della storia e della memoria. Abbiamo a lungo avuto nei confronti del paesaggio una posizione di ricezione passiva; lo abbiamo considerato in termini di una statica giacente e non secondo un orientamento di vivibilità responsabile in grado di partecipare alla sua dinamica vivente. Eppure il paesaggio emerge da uno scarto di riflessività nel fluire corrente dell’esperienza e si propone come un avvento di significato, generato da occasioni di riconoscimento dei segni del mondo, che noi stessi abbiamo tracciato o che la natura di cui siamo parte manifesta. Del resto, come ha sostenuto Victor Turner:

19

Page 20: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

“non è nell’eccezionale e nello straordinario che l’esperienza si realizza e prende forma, ma nell’abituale normalità dell’esistenza: è qui, nel quotidiano, che vengono tessute le fila della comunicazione tra le generazioni” (Turner, 2014). Se il paesaggio diventa esperienza nella dinamica delle relazioni, nei giochi linguistici e delle rappresentazioni e relazioni quotidiane, accorgersi della sua rilevanza e considerarla sono in buona misura una questione educativa. La tutela e la cura del paesaggio possono essere consegnate alle norme e alle scelte di governo che ne guidino la progettazione e le dinamiche evolutive, ma alla base di una cultura della vivibilità si situa una strategia che educhi a cambiare idea riguardo alla nostra posizione nella natura e alla nostra responsabilità nei modi di coevolvere con il paesaggio, l’ambiente e il territorio. Lo studio delle relazioni che generano le individuazioni e le soggettività nel rapporto con gli spazi della vita, generando paesaggi, è stato a lungo trascurato, ponendo di qua l’identità individuale e di là l’ambiente e il paesaggio come realtà che stanno “là fuori”. Appare sempre più evidente e necessario considerare il processo coevolutivo di enactment da cui sono emanati senso, significato e prassi esistenziali negli spazi delle nostre vite, nelle nostre ecologie. Ciò sembra valere sia per la tutela degli spazi che riteniamo di riservare integralmente, sia per i più antropizzati degli ambienti, come gli spazi metropolitani. Si tratta in ogni caso di spazi che traduciamo in paesaggi delle nostre vite. In certi casi siamo di fronte a una certa stabilità e continuità di linguaggi; in altri i linguaggi sono altamente instabili e continuamente negoziati e rinegoziati. Ad accomunare le situazioni più diverse è la co-produzione dello spazio pubblico inteso come bene comune. La capacità di connettere luoghi privati e luoghi pubblici, collettività e soggettività, fa di quegli spazi dei paesaggi più o meno riconoscibili e vivibili. L’originario interesse per la soggettività e l’esperienza che deriva dagli studi di William James può consentirci di considerare il pensiero e i vissuti emozionali di noi stessi nell’ambiente e, globalmente, di analizzare le nostre performance come fonti stesse delle nostre traduzioni dei luoghi in paesaggi. In quelle dinamiche si creano orientamenti, piani e strutture dei comportamenti che esprimiamo nei contesti delle nostre vite. Quei contesti, quei testi prodotti insieme, fanno gli spazi, antropizzandoli, e da essi traduciamo i paesaggi e i nostri modi di viverli e interpretarli. Si tratta di un processo di traduzione e immaginazione, di ristrutturazione e re-immaginazione. Immaginare è creare alternative alla realtà esistente. Si tratta di una particolare forma di pensiero, che non si affida solo a regole o a legami logici, ma si presenta come riproduzione ed elaborazione libera del contenuto di un’esperienza. Emerge grazie a una disposizione e a un determinato stato affettivo e, spesso, è orientata da un tema fisso che possiamo darci e che rappresenta occasione di esplorazione e ricerca di invenzione. L’immaginazione può produrre i cosiddetti «sogni a occhi aperti», che meritano molta considerazione, in quanto possono consentire di concepire l’inedito, quello che ancora non c’è. Con l’immaginazione possono nascere creazioni armoniose, capaci di preparare nuovi prodotti, nuovi processi e nuove forme di vita organizzata. Se ha a che fare con i contenuti artistici, l’immaginazione riguarda allo stesso tempo anche i modi in cui creiamo gli spazi e i paesaggi in cui viviamo; non solo, riguarda anche l’apprendimento e la formazione, il lavoro e l’organizzazione. Essa, infatti, si connette strettamente all’intuizione e quando è ben coltivata può dar vita a conclusioni ricche di contenuto pratico (Oliverio, 2013). Tutti gli esseri umani hanno la facoltà di formare le immagini, di elaborarle, svilupparle e anche deformarle, in quanto tutti siamo dotati di potenza creatrice (Gallese, 2010). Non sempre utilizziamo al meglio questa nostra capacità, eppure tutte le volte che impariamo qualcosa di nuovo, ciò accade in quanto lo abbiamo intuito e immaginato; così come, ogni volta che concepiamo un’innovazione nella vita personale, lavorativa, pubblica, essa è generata da un’immaginazione di una nuova possibilità (Ferraris, 1996). È possibile educarsi all’immaginazione con l’attività quotidiana e investendo in prassi inedite per cambiare idea e comportamenti, che lascino spazio alle possibilità di immaginare una vivibilità più appropriata a coevolvere con il paesaggio (Zanzotto, 2013), creando quello che ancora non c’è e cercando di metterlo in pratica. È proprio in quei processi di immaginazione che l’educazione può inserirsi e operare come lievito di un’inedita cultura della vivibilità, che ponga la tutela e la cura dei paesaggi delle nostre vite come un valore epocale ed esistenziale. Ringrazio Luca Mori, assiduo compagno di studio e ricerca, per la sua lettura di questo saggio e per i suoi suggerimenti.

BibliografiaAdorno, T. W., 1979, Minima moralia (1951), trad. it., Einaudi, Torino Balibar E. e Morfino V., 2014, Il transindividuale, Mimesis, Gemona-Milano.Belting H., 2002, Bild-Anthropologie. Entwurfe fur eine Bildwissenshaft, Wilhelm Fink Verlag,

20

Page 21: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

Paderborn; ed. it., Antropologia delle immagini, a cura di Salvatore Incardona, Carocci, Roma 2011.Bruner J., 1992, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino. Butler J., 2012, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffaello Cortina Editore, Milano.Cammelli M., 2000, (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali , Bologna.Cammelli M., 2004, (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna.Cepollaro G., Morelli U., 2014, Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento. Chelazzi G., 2013, L’impronta originale, Einaudi, Torino.Clément G., 1991, Le jardin en mouvement, Pandora, Parìs.Clément G., 1999, Le jardin planétaire, Albin Michel, Parìs. Clément G., 2004, Terzo paesaggio G. Clément, Manifeste du Tiers paysage, Paris 2004 (trad. it.) Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.Crutzen P., 2005, Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano.Damasio A., 2012, Il sé viene alla mente, Adelphi, Milano; ed. orig., Self Come to Mind. Constructing the Conscious Brain, 2010.Deacon T., 2001, La specie simbolica, Giovanni Fioriti Editore, Roma.Deacon T. W., 2012, Natura incompleta. Come la mente è emersa dalla materia, trad. it., Le Scienze, Roma 2012De Salle R., Tattersall I., 2013, Brain. Il cervello, istruzioni per l’uso, Codice edizioni, Torino.Dotti U., 2004, Vita di Petrarca, Laterza, Roma-Bari.Edelman G. M., 1995, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano.Farinelli F., 2007, L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo.Ferrari C., Pezzi G., 2013, L’ecologia del paesaggio, Il Mulino, Bologna.Ferraris M., 1996, Immaginazione, Il Mulino, Bologna.Fosha D., Siegel D. J., Solomon M. F., 2009, The Healing Power of Emotion. Affective Neuroscience, Developmental & Clinical Practice, Norton & Co., New York – London.Gallese V. (2010), Postfazione, in U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umberto Allemandi &C., Torino.Humphrey N., 2013, Polvere d’anima. La magia della coscienza, Codice edizioni, Torino.Iacono A. M., 2013, L’evento e l’osservatore, ETS, Pisa.Jakob M., 2014, Sulla panchina, Einaudi, Torino.James W., 1890, Principi di Psicologia, Principato, Milano 1942.Kidd K.K., Pakstis A.J., Yun L., 2013, An historical perspective on "The world-wide distribution of allele frequencies at the human dopamine D4 receptor locus", Human Genetic, October 27 .Mallgrave H. F., 2013, Architecture and Embodiment. The implication of the new sciences and humanities for design, Routledge, London-New York.Mercalli L., Goria A., 2013, Clima bene comune, Pearson Italia, Milano-Torino. Morelli U., 2010, Mente e bellezza. Arte, creatività, innovazione, Umberto Allemandi & C, Torino; seconda edizione 2013. Morelli U., 2011, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino.Morelli U., 2013, La mano. Arto, arte, artefatti, Codice edizioni, Torino.Moro A., 2006, I confini di Babele, Longanesi, Milano.Nunes J., 2010, PROAP, Architettura del paesaggio – Arquitectura paisajista, NOTE, Lisboa.Oliverio A., 2013, Immaginazione e memoria, Mondadori Università, Milano.Pagliarani L., 2012, Violenza e Bellezza. Il conflitto negli individui e nelle istituzioni , a cura di C. Weber e U. Morelli, Guerini e associati, Milano.Panksepp J., 1998, Affective Neurosciences. The foundations of human and animal emotions, Oxford University Press, New York.Pfeiffer J., 1982, The Creative Explosion: An Inquiry into the Origins of Art and Religion, Harper & Row, New York. Piaget J., 1983, Biologia e conoscenza. Saggio sui rapporti fra le regolazioni organiche e i processi cognitivi, Einaudi, Torino.Pievani T., 2011, La vita inaspettata, Raffaello Cortina Editore, Milano.Roger A., 2002, Dal giardino in movimento al giardino planetario, in Lotus navigator, 2.Roger A., 1997, Breve trattato sul paesaggio, ed. it. Sellerio, Palermo 2009.Sejnowski T., T. Delbruck T., 2012, The Language of the Brain, Scientific American, vol. 307, no. 4, pp. 54-59.Settis S., 2012, Azione popolare, Einaudi, Torino.

21

Page 22: Il paesaggio: vivibilità, cura e tutela di Ugo Morelli · l’accoppiamento strutturale tra esseri umani e natura? Ci riteniamo sopra le parti, come se non facessimo parte dell’acqua,

Simmel G., 2006, Saggi sul paesaggio, Armando, Roma.Spens M., 2003, Modern landscape, London-New York.Starobinski J., 2012, L’Encre de la mélancolie. Èditions du Seuil, Parìs.Tattersall I., 1998, Il cammino dell’uomo, Garzanti, Milano.Tattersall I., 2014, La seconda nascita di homo sapiens, in Almanacco della scienza, Micromega, 1/2014.Toffolon B., 2014, Paesaggio Trentino Trasformato, relazione al seminario del 4 aprile 2014 in occasione della mostra omonima, Trento.Trevarthen C., 1998, The Theory of Innate Intersubjectivity, in The MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, MIT Press, Boston. Turner V., 2014, Antropologia dell’esperienza, Il Mulino, Bologna.Turri E., 2004, Il paesaggio e il silenzio, Marsilio, Venezia.Venturi-Ferriolo M., 2002, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Roma.Venturi-Ferriolo M., 2009, Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino. Wilson E. O., 2013, La conquista sociale della terra, Raffaello Cortina Editore, Milano; ed. orig. 2012.Zanzotto A., 2013, Luoghi e paesaggi, Mondadori, Milano. Zeki S., 2007, La visione dall’interno, Bollati Boringhieri, Torino.

Ugo Morelli, insegna Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Bergamo e dirige il World Natural Heritage Management Master Unesco a Trento, presso la Scuola per il governo del territorio e del paesaggio, dove insegna Psicologia della creatività e dell’innovazione. E’ autore di oltre centosessanta pubblicazioni e sul paesaggio ha pubblicato, tra l’altro, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014 (curato con G. Cepollaro); I paesaggi della nostra vita, Bollati Boringhieri, Torino, (con Tullio Pericoli, in corso di pubblicazione).

22