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Oriente e Occidente dall'unità alla rottura: tra Costantino e Romolo Augustolo Il mondo romano dalla morte di Costantino a Teodosio Un progetto fallito. Alla sua morte, avvenuta nel 337, Costantino lasciò l'Impero ai tre figli. Tra questi, però, si sviluppò fin dal primo momento una lotta senza esclusione di colpi, che alla fine lasciò in vita il solo Costanzo II, imperatore unico dal 350 al 361. L'ultimo discendente di Costantino, Giuliano, esercitò infine per breve tempo il sommo potere fra il 361 e il 363. Giuliano aveva dato prova di grandi doti militari combattendo in Gallia contro tribù germaniche. Gli fu fatale, però, la spedizione in grande stile organizzata contro i persiani e mirante a consolidare la frontiera in quel delicato scacchiere: morì infatti proprio agli inizi della guerra e l'improvvisa scomparsa dell'imperatore determinò il fallimento della spedizione, cosa di cui i persiani approfittarono prontamente per sconfinare in territorio romano. Con Giuliano si estinse definitivamente anche la dinastia del primo imperatore cristiano. Gli unni e la crisi alle frontiere. Sotto i successori di Giuliano, la strategia romana in Oriente si limitò alla costante ricerca di un cessate il fuoco sempre precario con l'Impero persiano, ma le zone perdute non furono mai più riconquistate. Intanto, una nuova crisi si prospettava subito al di là del confine danubiano. Gli unni, una popolazione nomade che proveniva dal cuore dell'Asia, iniziò verso la metà degli anni settanta a spostarsi verso occidente, premendo sulla tribù germanica dei visigoti. Cavalieri abilissimi, gli unni evitavano i grandi scontri utilizzando la tattica del "colpisci e fuggi" ed erano di inaudita ferocia nelle loro scorrerie, che facevano terra bruciata e non risparmiavano nessuno. Di fronte a questa minaccia, i visigoti si videro costretti a chiedere ospitalità all'interno dei confini romani. La disfatta di Adrianopoli. L'imperatore d'Oriente Valente (364-378) non aveva scelta: in quel momento, l'Impero non era in condizioni di impedire alle tribù germaniche l'accesso nei propri territori, senza contare che i visigoti avrebbero potuto costituire un cuscinetto utile per attutire il possibile impatto degli unni. Ma la coabitazione fra i nuovi arrivati e le autorità romane si rivelò immediatamente problematica e il malcontento dei visigoti assunse in breve tempo l'aspetto di una vera e propria rivolta. In questa situazione già tesissima, Valente affrontò lo scontro senza attendere rinforzi dall'imperatore d'Occidente e nel 378 i romani subirono ad Adrianopoli, in Tracia, una sconfitta tremenda, nella quale lo stesso imperatore perse la vita. Lo shock fu disastroso anche sul piano psicologico: il mito dell'invincibilità romana e della superiorità sui "barbari" ne uscì definitivamente incrinato. L'Impero non era mai stato così vulnerabile, mentre le forze che premevano alle frontiere e all'interno dei confini apparivano ogni giorno più difficili da controllare. I goti accolti entro i confini. Dopo Adrianopoli, il nuovo imperatore d'Oriente Teodosio (378-395), succeduto a Valente, non ebbe altra scelta che formalizzare la presenza dei visigoti all'interno del territorio imperiale, accordando loro, nel 382. il permesso di insediarsi nel territorio della Tracia. Giuridicamente, la posizione dei goti era quella di "federati", cioè di stranieri regolarmente residenti sul suolo romano, sulla base di un patto che li vincolava a precisi obblighi nei confronti dello stato tante, primo fra tutti quello di non attaccare i sudditi dell'Impero e di contribuire semmai alla difesa delle frontiere nell'area di loro spettanza. Una prima comunità romano-germanica. La propaganda ufficiale presentò questa scelta come una mossa strategica vincente, che impostava su basi nuove e più vantaggiose il problema della gestione dei "barbari": questi venivano integrati nell'Impero senza colpo ferire e, da nemici che erano, diventavano difensori praticamente a costo zero. Ma la realtà era ben diversa: il sistema della federazione infatti, se sul momento conteneva la pressione avversaria, rappresentava un'arma a doppio taglio, perché i popoli accolti nei confini erano inevitabilmente portati ad alzare il prezzo della loro neutralità o della loro collaborazione. Negli anni successivi, molti goti ascesero a posizioni di potere nell'esercito e nella burocrazia, al punto che si può parlare, nell'ultimo scorcio del IV secolo, del formarsi in Oriente di una classe dirigente etnicamente mista, romano-germanica: un processo che fu bruscamente interrotto, come vedremo, dalla reazione

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Oriente e Occidente dall'unità alla rottura: tra Costantino e Romolo Augustolo

Il mondo romano dalla morte di Costantino a Teodosio

Un progetto fallito. Alla sua morte, avvenuta nel 337, Costantino lasciò l'Impero ai tre figli. Tra questi, però, si sviluppò fin dal primo momento una lotta senza esclusione di colpi, che alla fine lasciò in vita il solo Costanzo II, imperatore unico dal 350 al 361. L'ultimo discendente di Costantino, Giuliano, esercitò infine per breve tempo il sommo potere fra il 361 e il 363. Giuliano aveva dato prova di grandi doti militari combattendo in Gallia contro tribù germaniche. Gli fu fatale, però, la spedizione in grande stile organizzata contro i persiani e mirante a consolidare la frontiera in quel delicato scacchiere: morì infatti proprio agli inizi della guerra e l'improvvisa scomparsa dell'imperatore determinò il fallimento della spedizione, cosa di cui i persiani approfittarono prontamente per sconfinare in territorio romano. Con Giuliano si estinse definitivamente anche la dinastia del primo imperatore cristiano.

Gli unni e la crisi alle frontiere. Sotto i successori di Giuliano, la strategia romana in Oriente si limitò alla costante ricerca di un cessate il fuoco sempre precario con l'Impero persiano, ma le zone perdute non furono mai più riconquistate. Intanto, una nuova crisi si prospettava subito al di là del confine danubiano. Gli unni, una popolazione nomade che proveniva dal cuore dell'Asia, iniziò verso la metà degli anni settanta a spostarsi verso occidente, premendo sulla tribù germanica dei visigoti. Cavalieri abilissimi, gli unni evitavano i grandi scontri utilizzando la tattica del "colpisci e fuggi" ed erano di inaudita ferocia nelle loro scorrerie, che facevano terra bruciata e non risparmiavano nessuno. Di fronte a questa minaccia, i visigoti si videro costretti a chiedere ospitalità all'interno dei confini romani.

La disfatta di Adrianopoli. L'imperatore d'Oriente Valente (364-378) non aveva scelta: in quel momento, l'Impero non era in condizioni di impedire alle tribù germaniche l'accesso nei propri territori, senza contare che i visigoti avrebbero potuto costituire un cuscinetto utile per attutire il possibile impatto degli unni. Ma la coabitazione fra i nuovi arrivati e le autorità romane si rivelò immediatamente problematica e il malcontento dei visigoti assunse in breve tempo l'aspetto di una vera e propria rivolta. In questa situazione già tesissima, Valente affrontò lo scontro senza attendere rinforzi dall'imperatore d'Occidente e nel 378 i romani subirono ad Adrianopoli, in Tracia, una sconfitta tremenda, nella quale lo stesso imperatore perse la vita. Lo shock fu disastroso anche sul piano psicologico: il mito dell'invincibilità romana e della superiorità sui "barbari" ne uscì definitivamente incrinato. L'Impero non era mai stato così vulnerabile, mentre le forze che premevano alle frontiere e all'interno dei confini apparivano ogni giorno più difficili da controllare. I goti accolti entro i confini. Dopo Adrianopoli, il nuovo imperatore d'Oriente Teodosio (378-395), succeduto a Valente, non ebbe altra scelta che formalizzare la presenza dei visigoti all'interno del territorio imperiale, accordando loro, nel 382. il permesso di insediarsi nel territorio della Tracia. Giuridicamente, la posizione dei goti era quella di "federati" , cioè di stranieri regolarmente residenti sul suolo romano, sulla base di un patto che li vincolava a precisi obblighi nei confronti dello stato tante, primo fra tutti quello di non attaccare i sudditi dell'Impero e di contribuire semmai alla difesa delle frontiere nell'area di loro spettanza.

Una prima comunità romano-germanica. La propaganda ufficiale presentò questa scelta come una mossa strategica vincente, che impostava su basi nuove e più vantaggiose il problema della gestione dei "barbari": questi venivano integrati nell'Impero senza colpo ferire e, da nemici che erano, diventavano difensori praticamente a costo zero. Ma la realtà era ben diversa: il sistema della federazione infatti, se sul momento conteneva la pressione avversaria, rappresentava un'arma a doppio taglio, perché i popoli accolti nei confini erano inevitabilmente portati ad alzare il prezzo della loro neutralità o della loro collaborazione. Negli anni successivi, molti goti ascesero a posizioni di potere nell'esercito e nella burocrazia, al punto che si può parlare, nell'ultimo scorcio del IV secolo, del formarsi in Oriente di una classe dirigente etnicamente mista, romano-germanica: un processo che fu bruscamente interrotto, come vedremo, dalla reazione

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antibarbarica sviluppatasi dopo la morte di Teodosio.

Teodosio e il cristianesimo come religione di stato. Dopo la breve parentesi di Giuliano, detto “l’Apostata” per avere sconfessato la religione cristiana e avere tentato di ripristinare il paganesimo come religione dell’impero, epurando i cristiani dai quadri della classe dirigente, la scelta del potere politico a favore del cristianesimo si irrigidì, mentre la nuova religione guadagnava altri consensi fra gli strati elevati della popolazione urbana. Il processo raggiunse il culmine con Teodosio: con l'editto di Tessalonica del 380, subito dopo la sua ascesa al trono d'Oriente, egli proclamò infatti il cristianesimo l’unica religione riconosciuta all'interno dell'Impero. Contestualmente, venivano disposte una serie di misure punitive che colpivano tanto gli eretici - e dunque i cristiani che sostenevano dottrine non riconosciute dalla chiesa - quanto, soprattutto, i pagani. Erano provvedimenti che non solo miravano a proibire le manifestazioni del culto (in particolare il sacrificio animale, elemento essenziale di quasi tutte le cerimonie pagane), ma tendevano a strangolare proprio le istituzioni religiose che tenevano in vita il culto stesso: vietando, per esempio, i finanziamenti ai santuari e ai templi, incamerando a favore del fisco i loro patrimoni, sciogliendo i collegi sacerdotali a Roma e in tutte le province e così via. Le persecuzioni cristiane. Già sotto gli immediati successori di Costantino la politica di tolleranza verso il cristianesimo si era trasformata, poco a poco, in una attiva azione di intolleranza verso i pagani, azione sollecitata e stimolata dagli stessi intellettuali cristiani. Fu però con Teodosio che si moltiplicarono le manifestazioni persecutorie nei confronti dei pagani. Esse comprendevano anche casi di distruzioni ai danni di templi e altri edifici del culto pagano, così come di vero e proprio linciaggio di intellettuali e filosofi non allineati con il nuovo corso religioso.

Chiesa e impero al tramonto del mondo antico. Nei decenni successivi, lo spazio di manovra della chiesa, almeno in Occidente, si ampliò ulteriormente. Nella crisi e poi nel crollo del potere politico, la chiesa, con il suo papa, i suoi vescovi, la capillare presenza sul territorio, rimase di fatto l'unica istituzione in grado di assicurare l'ordine, l'assistenza alle classi povere e in alcuni casi persino la difesa militare delle città. Teologi e intellettuali cristiani elaboravano intanto la teoria della superiorità del potere del vescovo rispetto alla stessa autorità imperiale, ponendo le premesse per una disputa che si protrarrà durante tutto il Medioevo. Con Costantino, gli imperatori avevano abbracciato la nuova religione sperando di sfruttare il consenso della chiesa e dei suoi fedeli, allo scopo di consolidare la propria autorità; ora il clero si prendeva la rivincita ed era il potere politico a divenire un'emanazione di quello della chiesa. La sottomissione di Teodosio ad Ambrogio. Un episodio illustra bene la nuova situazione. Durante dei tumulti scoppiati nel 390 a Tessalonica, in Grecia, furono uccisi alcuni funzionari imperiali e Teodosio, appresa la notizia, ordinò per punizione che i militari massacrassero migliaia di tessalonicesi inermi. A Milano Ambrogio reagì fermamente: denunciò l'insensata enormità della rappresaglia e negò i sacramenti al-l'imperatore fino a che non avesse compiuto un atto pubblico di pentimento. A quanto ne sappiamo, Teodosio tenne duro per un po', poi domandò la riammissione nella chiesa e si umiliò davanti ad Ambrogio. Un episodio forse gonfiato dalle fonti cristiane, ma tale da rendere chiaro a tutti quali erano i nuovi rapporti di forza fra potere civile e potere ecclesiastico.

La successione a Teodosio. Nel 383, tutto il territorio dell'Impero passò nelle mani del solo Teodosio. Fu l'ultimo imperatore a governare sia sull'Oriente che sull'Occidente: nel 395, quando morì, l'Impero tornò infatti nuovamente a dividersi tra i suoi due figli, l'Occidente a Onorio (all'epoca undicenne e posto per questo sotto la guida del generale di origine vandala Stilicone), l'Oriente ad Arcadio (a sua volta minoren-ne). Da allora in poi, i destini dell'Oriente e dell'Occidente andarono sempre più differenziandosi.

L'Occidente da Teodosio a Romolo Augustolo

L'offensiva dei visigoti in Italia. Dopo la morte di Teodosio (395), nell'Impero d'Oriente la scelta dell'integrazione con i germani fu sconfessata e prevalse la linea intransigente di chi voleva la loro espulsione dall'esercito e da tutti i posti di potere. Fiutata la congiuntura sfavorevole, nel 401 gruppi di visigoti guidati da Alarico lasciarono la loro riserva in Tracia e penetrarono in territorio italico. Di fronte alla nuova minaccia,

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Onorio trasferì la corte imperiale a Ravenna, difesa da vaste paludi e dotata di un porto che assicurava i collegamenti con Costantinopoli, e dunque meglio attrezzata di Milano per resistere a un attacco. In questa prima fase la pressione dei visigoti fu contenuta grazie all'abilità di Stilicone, il tutore di Onorio, che comandava le truppe romane d'Occidente. Per proteggere l'Italia, però, Stilicone dovette sguarnire altri fronti, come quello renano, con il risultato di abbandonare la Gallia a nuove invasioni di popolazioni ger-maniche. Di questa nuova crisi approfittò l'aristocrazia senatoria per accusarlo di complicità con gli invasori: Stilicone fu liquidato (408), nell'illusione suicida di poter fare a meno del generale "barbaro".

Il sacco di Roma. Alarico non incontrò allora più ostacoli, nel 410 pose l'assedio a Roma, mentre Onorio rimase barricato a Ravenna. Nell'agosto di quell'anno Roma fu espugnata e per tre giorni le truppe alariciane la sottoposero a un sistematico saccheggio. Il sacco di Roma da parte dei visigoti ebbe un impatto scioccante. Per la prima volta la città veniva violata dall'epoca dell'invasione gallica, esattamente ottocento anni prima, e, pur non essendo più da tempo la capitale politica dell'Impero, conservava agli occhi dei contemporanei un insostituibile significato simbolico: era la culla della civiltà latina, il cuore originario dell'Impero, nonché la sede più prestigiosa della cristianità occidentale. Il suo saccheggio rappresentò quindi un trauma incancellabile per gli uomini che ne furono testimoni o anche semplicemente ne sentirono parlare, appena attenuato dalla leggenda (diffusa da fonti di parte) secondo cui i visigoti risparmiarono dalla devastazione le chiese cristiane.

La dissoluzione dell'Occidente: Gallia e Spagna. Ma in quegli anni terribili era tutto l'Occidente che si sbriciolava, mentre una dopo l'altra tutte le province cadevano nelle mani degli invasori germanici. Le forze dell'esercito erano ormai largamente insufficienti, anche perché i barbari non abbandonavano i territori imperiali dopo averli saccheggiati, ma puntavano ormai a insediarsi stabilmente nelle aree conquistate. Così, nel 406-407, mentre i visigoti tenevano sotto pressione le forze di Stilicone in Italia, i vandali e altre stirpi germaniche avevano sfondato il confine renano, penetrando in Gallia e di lì in Spagna. Nella Gallia meridionale sì stanziarono i visigoti reduci dal saccheggio di Roma, lungo il corso del Rodano i burgundi, nel nord penetrarono i franchi. Formalmente i visigoti erano federati, in realtà trattavano da pari a pari con l'autorità imperiale. Altri gruppi di visigoti scesero nella penisola iberica, occupata anche da svevi e vandali.

La dissoluzione dell'Occidente: dalla Britannia all'Africa. Nello stesso torno di anni fu la volta della Britannia. Quest'isola lontana era stata persa e riconquistata molte volte dai romani, dall'epoca di Cesare in poi; all'inizio del V secolo, di fronte alle minacce delle tribù germaniche sul confine renano, fu inevitabile trasferire sul continente le truppe che la presidiavano, abbandonandola al suo destino. Intorno al 430, dopo aver ultimato l'occupazione della Spagna, gruppi di vandali al comando di Genserico passarono lo stretto di Gibilterra invadendo i territori romani d'Africa. Fino a quel momento, l'Africa era rimasta immune dalle invasioni; era la terra di elezione dei grandi latifondisti romani, aveva una vita urbana ricca e vivace e una chiesa forte e prestigiosa. L'attacco dei vandali dì Genserico fu però devastante: già nel 439 cadeva in mani vandale Cartagine, che per alcuni decenni era stata la città più colta dell'Occidente. Negli anni successivi, inoltre, i vandali d'Africa crearono - unici fra i nuovi padroni dell'Impero - una potente flotta, con la quale prima minacciarono e poi conquistarono Sicilia, Sardegna e Corsica.

Gli unni di Attila. Non era ancora finita. A metà del V secolo gli unni, che abbiamo già incontrato mentre spingevano i visigoti verso la frontiera romana, avviarono sotto il loro sovrano Attila una spinta espansionistica che li portò ad aggredire dapprima la Gallia, dove furono sconfitti ai Campi Catalaunici nel 451, poi, nel 452, direttamente l'Italia. Per un attimo si temette per la stessa Roma, ma gli unni dovettero ritenersi soddisfatti dei saccheggi compiuti nella pianura padana e si ritirarono nelle loro sedi. L'anno successivo la morte di Attila comportò il rapido declino della breve potenza unna. 455: il secondo sacco di Roma. Ma il sollievo fu di breve durata. Nel 455 i vandali di Genserico approdarono sulle coste del Lazio, risalirono il Tevere e attaccarono Roma. Questa volta il saccheggio fu molto più devastante di quello compiuto meno di mezzo secolo prima da Alarico: la città fu messa a ferro e fuoco per quindici lunghissimi giorni. I vent'anni che seguirono il secondo saccheggio di Roma furono lo stadio terminale della lunga agonia che travagliava l'Occidente. Nessun imperatore fu più in grado di opporsi alle truppe germaniche che si muovevano indisturbate attraverso la penisola e spesso la difendevano da altre invasioni, sostituendo un esercito ufficiale che non esisteva più.

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476: la fine. L'epilogo giunse allorché Oreste, un aristocratico romano, nel 475 proclamò imperatore il giovanissimo figlio Romolo, soprannominato spregiativamente Augustolo, letteralmente "il piccolo Augusto"; dopo pochi mesi di governo il nuovo imperatore venne deposto da Odoacre, il generale che comandava le truppe germaniche in quel momento di stanza in Italia. Odoacre però non volle nominare un nuovo sovrano a lui più gradito e neppure assumere personalmente il ruolo di imperatore. Preferì inviare le insegne imperiali a Costantinopoli, all'imperatore Zenone, sottomettendo implicitamente la propria autorità a quella dell'unico potere credibile sopravvissuto al collasso dell'Occidente e accontentandosi del titolo di re, che valeva solo agli occhi della popolazione non romana. Era il 476: quattro secoli e mezzo dopo la morte di Augusto, nell'anno 1229 dalla fondazione della città, l'Impero di Roma cessava di esistere.

L’ingresso nel medioevo

Una nuova fase storica: geografia politica ed economia 476: uno spartiacque? Il 476 è, secondo una consolidata tradizione storiografica, la data in cui termina l'età antica e inizia il Medioevo. Ma cosa significa effettivamente questo passaggio? Se leggiamo le fonti contemporanee, scopriamo che per la maggior parte registrano l'episodio della deposizione dì Romolo Augustolo da parte di Odoacre senza attribuirgli un rilievo particolare. Forse perché da almeno due secoli le invasioni erano una drammatica abitudine, o perché alcune province erano state abbandonate da un pezzo e in altre sovrani germanici si erano già insediati al posto dei governanti romani. L'altra metà dell'Impero. Continuava inoltre a esistere, forte e ricco, l'Impero d'Oriente. Costantinopoli era da un secolo e mezzo la nuova capitale dell'Impero, e dunque poteva sembrare ai contemporanei che il dominio di Roma, sia pure fortemente ridimensionato, fosse ancora in piedi in una sua componente fondamentale; e in fondo non avevano torto. Bisanzio non era forse la "seconda Roma"? Lì si erano trasferi-te, al tempo di Costantino, importanti famiglie dell'aristocrazia romana, lì si parlava correntemente il latino e gli abitanti continuavano a definire se stessi "romani". Per chi, nel 476, viveva a Costantinopoli, ad Antiochia di Siria, ad Alessandria d'Egitto o in altre metropoli dell'Oriente romano, non era facile capire che stava iniziando un'epoca nuova della storia. Se poi dalle città dell'Impero ci spostiamo nelle campagne, vediamo che anche qui i cambiamenti legati alla fine dell'età antica non furono subito evidenti. Gli invasori portarono naturalmente distruzioni (come del resto facevano da sempre), ma le grandi proprietà dei latifondisti in linea di massima non vennero toccate; e anche le condizioni di coloni e schiavi non mutarono sostanzialmente, né in meglio né in peggio.

Medioevo per chi? Naturalmente, tutte queste considerazioni non eliminano l'importanza epocale del crollo dell'Occidente. Ci ricordano, però, che se quella data è stata significativa, lo è stata per una parte dell'umanità: una parte importante, ma comunque minoritaria. Mentre "noi" iniziavamo il "nostro" Medioevo, altri popoli non si erano ancora formati e altre grandi civiltà erano in piena fioritura. La storia del mondo ha ritmi e velocità diverse e i movimenti delle culture umane non sono ovunque sincronizzati. È dunque importante ricordare sempre, quando usiamo espressioni come "età antica" o "medioevo", che non si tratta di termini di validità universale, ma di scansioni del passato che hanno senso all'interno della nostra specifica cultura. Il medioevo tra decadenza e rinascita. "Medioevo" significa letteralmente «età di mezzo». Questo termine è tradizionalmente impiegato dagli storici per indicare il periodo di circa mille anni compreso tra la fine del mondo antico e l'inizio dell'età moderna. Il Medioevo è stato a lungo considerato un periodo di decadenza delle arti e delle lettere, di crisi della vita cittadina, di imbarbarimento e regresso complessivo dell'Europa. La storiografia più recente tende invece a recuperare tutta la complessità e la ricchezza della vita culturale, economica e politica di quest'età e a sottolineare come fra la civiltà antica e quella medievale la frattura non sia stata poi cosi netta; infatti, se è indubbio che molti fenomeni storici furono tipici del Medioevo (per

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esempio, l'apporto demografico di popolazioni come i franchi, i normanni, gli slavi, l'importanza politica del papato oppure la nascita delle lingue moderne), è vero pure che nell'età di mezzo continuarono a svilupparsi fenomeni già in atto nell'ultima fase del mondo antico, come l'affermazione del cristianesimo, l'impoverimento delle campagne, la crisi della vita cittadina. Inoltre, se è vero che la prima fase del Medioevo (in particolare i secoli dal VI al X d.C, comunemente indicati come "Alto Medioevo") fu caratterizzata da una complessiva decadenza della vita civile, è vero anche che in seguito (durante il "Basso Medioevo", tra l'XI e il XV secolo) in Europa maturarono le condizioni di un grande sviluppo: vi furono notevoli innovazioni nell'agricoltura, che in alcune zone permisero di aumentare la produttività delle campagne, e anche l'arte e la cultura elaborarono forme originali ed elevate. Va poi detto che, se l'Europa occidentale attraversò una lunga fase di regresso, durante questi secoli varie parti del mondo limìtrofo conservarono o persino incrementarono la loro prosperità: fu infatti il periodo medievale che vide l'età d'oro della civiltà araba e di quella bizantina, che si svilupparono a stretto contatto con il mondo europeo e, anzi, in gran parte in territori che erano stati un tempo inclusi entro ì confini dell'impero romano. Fine della centralità del Mediterraneo. Un primo aspetto che bisogna considerare, avvicinandosi allo studio dell'età medievale, è il cambiamento dei rapporti tra i vari territori che avevano fatto parte dell'impero romano. Intorno al Mediterraneo si erano sviluppate tutte le grandi civiltà del mondo antico. Nell'Atene del V secolo a.C. Socrate poteva dire: «Noi viviamo intorno a un mare come rane intorno a uno stagno», e mille anni più tardi - ha scritto lo storico inglese Peter Brown - il mondo classico era ancora abbarbicato attorno al medesimo «stagno», vale a dire il Mediterraneo. L'unità del mondo mediterraneo era una realtà già dai tempi in cui fenici, greci e cartaginesi vi intrecciavano i propri traffici commerciali. Successivamente si era creata anche un'unità politica, quando Roma aveva sottoposto le popolazioni della regione al proprio dominio. Le regioni dell'Europa centrale e settentrionale si trovavano ancora oltre il limes, la frontiera dell'impero, oppure erano terre di confine, dove la vita era primitiva. Anche la maggioranza delle grandi città europee di oggi (come Londra, Parigi, Berlino, Mosca) non esistevano oppure risultavano marginali o estranee rispetto all'asse fondamentale della civiltà antica. La "vera" vita si svolgeva nelle città di impronta romana e greca, stacciate sul Mediterraneo, da cui provenivano gli impulsi fondamentali della civiltà. Tra la fine del IV e l'inizio del VI secolo d.C. si assistette invece a una dinamica opposta: con l'ingresso nella storia di popolazioni che fino ad allora erano rimaste ai margini (germani, tra cui franchi e longobardi, slavi e, nel secolo successivo, arabi), le terre oltre il confine nord-occidentale entrarono a far parte di un'Europa comune, mentre la storia di molte regioni fino a quel momento strettamente collegate a Roma (come l'Egitto, la Siria, l'Africa e anche vaste aree della regione balcanica) procedette per vie proprie.

Lo spostamento dell’asse politico europeo. La conseguenza, anche se non immediata, di questo stato di cose fu lo spostamento dell'asse politico europeo verso nord. L'Italia, che si era trovata al centro delle grandi correnti del mondo mediterraneo, all'inizio dell'epoca medievale ne divenne la frontiera meridionale. La geografia politica d'Europa mutò profondamente. Se all'epoca di Costantino (inizi del IV secolo d.C.) i confini del mondo civile erano il Reno e il Danubio, che separavano l'Europa settentrionale e barbarica dal mondo mediterraneo, un secolo più tardi, e poi definitivamente a partire dall'invasione araba (inizi del VII secolo d.C), un rigido confine veniva fissato tra quelle che erano state le terre occidentali e orientali dell'impero romano. Il tentativo dell'impero romano d'Oriente di riconquistare i territori occidentali, avvenuto all'epoca di Giustiniano (VI secolo), ebbe solo un successo effimero. Questi processi storici e politici ebbero profondi effetti anche a livello culturale: l'impero d'Oriente restò per molti secoli un'area più avanzata rispetto all'Europa occidentale. Spopolamento delle città e crisi dei commerci. I territori dell'Europa occidentale che avevano fatto parte dell'impero romane conobbero durante il VI e il VII secolo una gravissima crisi demografica che condusse a un imponente regresso della vita cittadina. Questo fenomeno si era già manifestato durante gli ultimi due secoli dell'impero romano, ma si aggravò ulteriormente: in seguito alle enormi devastazioni causate da invasioni, guerre, carestie e pestilenze, le città sopravvissute si ridussero enormemente di estensione. Mentre l'impero romano era stato caratterizzato dalla presenza di un'intensa vita cittadina, durante l'Alto Medioevo le città progressivamente si spopolarono. Ben

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presto le strade non furono più curate, i ponti crollarono, gli acquedotti andarono in rovina: le comunicazioni di conseguenza diventarono sempre più difficili. Inoltre, la moneta - che con la scomparsa dell'impero romano d'Occidente non potè più essere garantita - venne usata progressivamente di meno, sicché gli scambi avvenivano perlopiù attraverso il primordiale sistema del baratto, generalmente in fiere e mercati di livello regionale. Tra le cause del declino delle città vi fu anche la stagnazione dei commerci e dell'artigianato. Anche il commercio internazionale andò riducendosi enormemente e con esso quella classe imprenditoriale che aveva movimentato la vita economica di epoca imperiale. Infatti, oltre alla grave crisi economica che accompagnò l'insediarsi delle popolazioni germaniche, occorre tener conto che a partire dal VII secolo d.C. gli arabi si impadronirono di buona parte delle coste medi-terranee, rendendo impercorribili le rotte marittime: il Mediterraneo divenne un "lago" arabo, in cui le flotte islamiche dominavano incontrastate. L'Europa dell'Alto Medioevo fu, per cosi dire, "un'Europa senza mare": i porti si insabbiarono, le città portuali erano semidistrutte e, a partire da un certo momento, si aggiunse il pericolo dei pirati arabi sempre in agguato; e del resto, che cosa mai si poteva commerciare, in assenza di un mercato che consentisse lo scambio? Continuò a esistere, comunque, un commercio di lusso che trasportava in Europa merci preziose destinate alle corti o all'alta aristocrazia; esse provenivano dall'Oriente per mezzo dei mercanti bizantini, i quali, come vedremo in seguito, mantennero la possibilità di servirsi di porti ancora sotto il loro diretto controllo (per esempio Ravenna e Bari, in Italia). L’Europa delle foreste. Il declino demografico fu un processo lungo e non riguardò solo le città. Sappiamo che, ormai in pieno Medioevo, al tempo di Carlo Magno (771-814), l'intera Europa arrivò a contare meno di trenta milioni di abitanti. Durante l'Alto Medioevo vaste porzioni di terra rimasero quindi incolte e i boschi tornarono a invadere le campagne; molte zone (specialmente nell'Italia centro-meridionale) s'impaludarono e furono abbandonate, spopolandosi anche in seguito al flagello della malaria, malattia quasi sconosciuta in epoca antica, ma che andò sviluppandosi sino a diventare endemica in età successiva. Disboscare un terreno e dissodarlo era un lavoro assai lungo e difficile: richiedeva infatti strumenti di ferro che pochi possedevano e la possibilità di giovarsi di altre risorse per il periodo in cui il nuovo terreno non produceva frutto. In questa situazione, una risorsa fondamentale era offerta dai boschi e dagli specchi d'acqua (stagni, laghetti, paludi): il bosco rendeva disponi bile il legname, che era indispensabile per le costruzioni, per cucinare, riscaldarsi e ali-mentare le fucine dei fabbri; esso forniva inoltre ghiande per l'allevamento dei maiali (una delle principali risorse alimentari), cacciagione, bacche commestibili. Gli specchi d'acqua permettevano invece la pesca e la caccia di selvaggina palustre. La resa dei campi inselvatichiti era estremamente bassa: si calcola che fosse in genere nel rapporto di due o al massimo di tre semi a uno (vale a dire, per ogni seme piantato nel suolo ne venivano raccolti due o tre).

A differenza che nel mondo antico, quella dell'Alto Medioevo fu dunque un'economia di sussistenza: i prodotti dei campi, lavorati con tecniche primitive, fornivano a malapena quanto bastava per nutrire gli agricoltori stessi e quindi il numero di coloro che potevano dedicarsi ad attività diverse dall'agricoltura era inevitabilmente molto basso. I pochi artigiani producevano solo i manufatti che servivano a soddisfare le necessità locali.

Ogni singola comunità tendeva quindi all'autarchìa, ossia all'autosufficienza economica.

I nuovi soggetti politici

L’impero bizantino

L’ eredità romana a Costantinopoli:. L'Impero romano d'Oriente resistette per quasi mille anni alla caduta di quello d'Occidente: solo nel 1453 i turchi riuscirono a conquistare la capitale Costantinopoli, che divenne - con il nome di Istanbul - la capitale del loro nuovo impero.

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Specialmente nei primi tempi successivi alla caduta dell'Occidente, i bizantini mantennero una viva consapevolezza di rappresentare solo la metà di un intero perduto: ancora alla metà del VI secolo il latino era la lingua parlata a corte e negli uffici dell'amministrazione centrale, ed era in latino che si redigevano i testi di legge e si amministrava la giustizia. I bizantini definivano inoltre se stessi "romei", cioè appunto "romani", mentre "greco" divenne, nella lingua corrente dell'Impero, sinonimo di "pagano". Soprattutto durarono a lungo la convinzione secondo cui l'insediamento dei "barbari" in Occidente fosse una situazione temporanea e la percezione di quei territori come tuttora appartenenti all'Impero. Anatomia di un successo: ragioni geografiche e militari. Il successo dell'Impero bizantino fu dovuto a molte ragioni. Proviamo a schematizzarle. Anzitutto, nel momento in cui l'onda d'urto delle popolazioni germaniche si abbatteva sull'Europa, l'Oriente si trovò geograficamente in posizione più defilata: le direttrici migratorie degli invasori puntavano perlopiù verso l'Europa continentale (Gallia, Italia, Spagna), lasciando da parte i territori orientali. E quando questo non accadeva, i sovrani bizantini potevano sempre indurli a deviare più a ovest, in cambio del diritto di governare in loro nome questa o quella regione dell'antico Impero d'Occidente. È quanto accadde - per esempio - con gli ostrogoti, che nel 488, su mandato dell’imperatore bizantino Zenone, furono inviati, al comando del loro re Teoderico, a stanziarsi in Italia per scalzarvi Odoacre. Ragioni economiche. Una seconda ragione che spiega la maggiore tenuta dell'Impero d'Oriente sta nella forza della sua economia. L'assenza di gravi invasioni fece sì che non si verificasse, nel territorio bizantino, quello spopolamento delle città che aveva invece segnato gli ultimi due secoli dell'Occidente: al contrario, la vita urbana rimase ricca e vivace, le strade di comunicazione si mantennero intatte, con la conseguenza che gli scambi commerciali non subirono interruzioni. Le coste mediterranee controllate dai bizantini erano poi il punto di partenza delle grandi vie che collegavano l'Impero con il lontano Oriente e lungo le quali viaggiavano la seta, le spezie e altri beni di lusso. Tra l'altro, a Costantinopoli si mantenne costante l'uso della moneta, mentre in Occidente si tornava agli scambi in natura.

Ragioni politiche. Un'ultima causa della solidità bizantina va individuata nella stabilità del potere imperiale. Nella cultura bizantina il sovrano era percepito come l'immagine terrena della divinità: egli era chiamato a svolgere nei confronti dei sudditi lo stesso ruolo di padre benevolo e attento che Dio ricopriva nei confronti degli uomini. Lo stesso Impero, del resto, era voluto dalla divinità e da questa protetto, anche perché chiamato al ruolo storico di portare tutti i popoli alla "vera fede".

Cesare e papa. L'immagine e le funzioni dell'imperatore cambiarono, quindi, sotto due aspetti fondamentali:

1) l'imperatore appariva un uomo speciale, sacro, lontanissimo dai comuni mortali:

2) l'imperatore era anche il vicario di Dio sulla Terra e il capo supremo della sua chiesa.

La sacralizzazione della figura imperiale era già emersa nell'Occidente tardo-antico, ma a Costantinopoli fu portata molto più avanti, con un cerimoniale rigidissimo che prevedeva, per esempio, il bacio dei piedi da parte dei sudditi e il silenzio assoluto al cospetto dell'imperatore. Anche le funzioni religiose dell'imperatore si erano affermate in Occidente, all'epoca di Costantino. In Occidente, però, con la nascita dei regni romano-germanici i vescovi (e tra loro quello di Roma) si svincolarono dal potere politico, mentre in Oriente l'imperatore nominava la più alta autorità religiosa, cioè il patriarca di Costantinopoli, presiedeva i concili, aveva la responsabilità ultima della dottrina, si batteva attivamente contro l'eresia. Questa somma di potere politico e religioso va sotto il nome di cesaropapismo e rimase a lungo caratteristica della cultura bizantina.

I regni romano-germanici

Le migrazioni dei germani. I popoli germanici, che il crollo dell'Impero d'Occidente aveva trasformato nei nuovi padroni dell'Europa, si erano spostati per secoli. Molti di loro provenivano dalle lontane steppe dell'Asia, o dalle pianure gelate del Nord Europa. Alla continua ricerca di terre o di migliori condizioni di vita, oppure pressati da altri popoli, alla fine avevano raggiunto i ricchi territori dell'Impero d'Occidente,

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travolgendo le sue fragili difese: qui si erano fermati, trasformandosi in popoli stanziali.

La nuova carta politica. Verso l'inizio del VI secolo, il territorio occidentale dell'ex impero si era frantumato in quattro grandi aree di dominio.

• La costa nordafricana, insieme alla Sardegna e alla Corsica, in mano ai vandali.

• La penisola iberica era occupata per la maggior parte dai visigoti, che per un certo periodo controllarono anche la fascia mediterranea della Gallia.

• Il restante territorio della Gallia e anche terre al di là del Reno erano spartiti tra franchi e burgundi.

• L'Italia apparteneva agli ostrogoti, che controllavano anche la parte settentrionale dei Balcani (quella meridionale restava in mano ai bizantini).

• Quanto alla Britannia, abbandonata dalle legioni romane all'inizio del V secolo, fu invasa intorno alla metà del V secolo da alcuni popoli germanici (angli, sassoni, iuti), che cancellarono ogni traccia di cultura romana e costrinsero alla fuga molti degli originari abitatori di stirpe celtica. Alcuni di questi attraversarono la Manica e si insediarono nel lembo nord-occidentale della Gallia, cioè nella regione che ancora oggi si chiama Bretagna e dove si parla ancora, non a caso, un dialetto che deriva dalla lin-gua celtica.

La gestione dei nuovi regni. Quando fu chiaro che le invasioni "barbariche" non erano un fenomeno temporaneo, ma un evento che modificava in modo duraturo l'intero assetto dell'Europa occidentale, iniziò a porsi il problema della convivenza fra le due etnie. I romani erano sconfitti militarmente, ma molto più numerosi degli invasori; i germani erano pochi e soprattutto privi della cultura necessaria a gestire le complesse strutture amministrative e di governo create da Roma. Le scelte che si ponevano ai nuovi padroni erano perciò sostanzialmente due: distruggere le vecchie strutture, mirando all'annientamento anche fisico dell'elemento romano, oppure venire a patti con quell'elemento, ripartendo in maniera più o meno pacifica i ruoli e le competenze. La prima scelta venne messa in atto dai vandali in Africa. La seconda fu prevalente in Europa e diede origine a un compromesso in base al quale i germani tennero il vertice del potere e la difesa militare, i romani l'amministrazione civile. Anche le terre non furono completamente requisite dai conquistatori, ma in misura variabile (di solito i due terzi) furono lasciate nelle mani della vecchia aristocrazia latifondista romana. Il problema del diritto . Il compromesso con l'eredità romana non eliminava, naturalmente, le difficoltà della convivenza. Un problema era per esempio la differenza fra il diritto romano e quello germanico. Il primo era un diritto scritto, sofisticato, proprio di una società fortemente articolata, il secondo un diritto orale, infinitamente più semplice, basato su consuetudini trasmesse da una generazione all'altra. Anche in questo campo, la soluzione prevalente fu il compromesso: le leggi romane si applicarono alle controversie fra cittadini romani, i germani continuarono a servirsi delle proprie norme nei loro rapporti interni.

Le codificazioni germaniche. Gli stessi conquistatori avvertirono presto il bisogno di dare veste scritta alle proprie leggi. Lo fecero per primi i visigoti di Spagna, il cui codice fu dapprima applicato alla minoranza germanica e poi esteso a tutti, anche ai discendenti dei romani. Il codice si chiamò lex Wisigothorum (legge dei visigoti) e fu scritto in latino, la sola lingua che poteva esprimere i complessi princìpi del diritto. La "legge dei visigoti" fu la più evoluta tra le codificazioni germaniche e incorporò molti princìpi del diritto romano. La questione religiosa. C'era poi il problema della differenza religiosa. Già prima di invadere e abbattere l'Impero, infatti, quasi tutti i germani si erano convertiti al cristianesimo, ma nella variante ariana, molto diffusa tra IV e VI secolo specie in Oriente, dove i germani l'avevano assimilata. L'arianesimo era un'eresia, cioè una dottrina condannata dalla chiesa: gli ariani negavano la natura divina di Gesù, facendone un semplice profeta, mentre la chiesa riteneva il Cristo "della stessa sostanza del Padre" (come recita ancora oggi il Credo cattolico), "vero Dio e vero uomo", cioè partecipe nella stessa misura della natura umana e di quella divina.

In molte regioni esisteva quindi una differenza fra la religione cattolica della popolazione e la religione ariana degli occupanti germanici, dichiarata eretica dalla chiesa. In un'epoca di violenti conflitti, una diffe-renza di questo genere contribuiva a rendere più difficile la convivenza fra vecchi e nuovi padroni dell'Europa.

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La fonte della legittimità. Infine, un importante elemento accomunava i regni germanici (anche in questo caso con l'eccezione di quello vandalo in Africa). I sovrani "barbarici" d'Occidente erano convinti che l'autorità ultima sui loro territori spettasse all'imperatore bizantino. Essi, cioè, si sentivano semplici delegati di quell'imperatore e dipendenti dalla sua approvazione. Di fatto i regni germanici si mossero il più delle volte in totale autonomia dalla volontà di Costantinopoli; la coscienza di questo fondamento ultimo del loro potere, però, non venne mai del tutto meno.

Il regno dei Franchi L'arrivo dei franchi in Gallia. I franchi erano già noti ai romani: dalla metà del IV secolo gruppi di germani di stirpe franca erano stati accolti al di qua del confine e insediati in Gallia, lungo l'alto corso del Reno. La tradizione vuole anzi che il loro re Meroveo, capostipite della dinastia merovingia, avesse combattuto a fianco dei romani contro il re unno Attila. Dopo la caduta dell'Impero d'Occidente i franchi si erano insediati nella Gallia settentrionale, che prenderà da loro il nome odierno di Francia, e avevano scelto come loro capitale Lutetia Parisiorum, cioè Parigi, antico centro celtico posto su un'isoletta della Senna.

Il regno di Clodoveo. Un primo momento importante nella storia del regno franco venne con la riunificazione delle diverse tribù operata dal re Clodoveo (481-511), il quale inoltre si convertì al cattolicesimo, trascinando con sé il suo popolo. Fu una scelta dettata non tanto da motivazioni religiose, ma da lungimiranza politica: attraverso il suo gesto, Clodoveo superava di colpo uno dei principali motivi di attrito con la maggioranza romana, di religione cattolica, e poneva le premesse per quella politica di buoni rapporti fra monarchia franca e chiesa di Roma che si svilupperà nei secoli successivi. La conversione al cattolicesimo e la lunga frequentazione tra franchi e romani, già prima del crollo dell'Impero, fecero del Regno franco uno dei regimi romano-germanici in cui meglio funzionò l'integrazione fra antichi gruppi dirigenti romani, gerarchie ecclesiastiche e nuovo governo.

L’espansione del Regno franco. Clodoveo ebbe anche l'intelligenza politica di conservare sempre rapporti eccellenti con il sovrano bizantino, presentandosi, secondo la concezione dominante dell'epoca, come un rappresentante dell'imperatore d'Oriente, che governava per conto di quest'ultimo un territorio dell'antico Impero d'Occidente. Il re franco intraprese inoltre l'espansione verso la Gallia meridionale, controllata dai visigoti; essendo questi ariani, l'impresa ottenne il beneplacito del papato e dei vescovi della Gallia. Infine, estese la sua autorità sulle tribù di franchi stanziate sulla sponda destra del Reno. Tra la metà del VI e la metà dell'VIII secolo il regno franco attraversò una fase di divisioni, dovute alla debolezza del potere centrale. Lo sforzo di unificare sotto l'unico dominio franco tutto il territorio dell'antica Gallia proseguì comunque ben oltre la morte di Clodoveo; questi aveva sconfitto i visigoti, i suoi successori sottomisero i burgundi e tentarono, con. parziale successo, dì scacciare gli ostrogoti dalla fascia mediterranea della Francia.

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Il regno degli Ostrogoti Gli ostrogoti inviati in Italia. I goti, come tutte le stirpi germaniche, avevano migrato a lungo prima di giungere nel cuore dell'Impero romano. La loro patria d'origine era nella lontana Scandinavia, dalla quale sì erano mossi verso il centro dell'Europa, giungendo più tardi sino ai confini dell'Asia; si erano poi divisi in due gruppi, visigoti e ostrogoti, il secondo dei quali si era insediato nel territorio dell'attuale Bulgaria, premendo dunque direttamente sui confini dell'Impero d'Oriente. Nel 488 l'imperatore bizantino Zenone pensò di dirottare il loro re Teoderico, con tutta la sua gente, verso l'Italia, con il compito di rovesciare il regime di Odoacre, insediatosi dopo la deposizione di Romolo Augustolo. In questo modo Zenone allentava la pressione sui confini e puntava a recuperare il controllo sia sull'Italia sia sui territori occidentali: Teoderico, infatti, ricevette dall'imperatore il diritto di governare per suo conto un vasto territorio che comprendeva anche la Provenza, l'area a nord delle Alpi sino al Danubio e la parte settentrionale della penisola balcanica, sino al confine con l'Impero d'Oriente.

La fine di Odoacre. Entrati in Italia da nord-est, gli ostrogoti ebbero facilmente ragione delle truppe di Odoacre, mentre la cattura di quest'ultimo - che si era asserragliato a Ravenna, circondata da paludi e per questo impossibile da assediare - richiese tre anni di combattimenti. Nel 493 anche quest'ultima resistenza fu superata, Odoacre venne eliminato e Teoderico divenne padrone del suo vasto regno, che avrebbe governato fino alla morte, avvenuta nel 526. L’atteggiamento verso l’ereditàn romana. Da bambino Teoderico era stato condotto a Costantinopoli come ostaggio, e i dieci anni che trascorse in quella città lo segnarono per sempre. Pur essendo analfabeta, Teoderico rimase infatti profondamente affascinato dalla cultura romana e si sentì sempre privilegiato rispetto agli altri sovrani germanici per il fatto di governare su territori che erano stati la culla della civiltà latina. Dal punto di vista di Teoderico, il sovrano ostrogoto era il legittimo continuatore degli imperatori romani. Non a caso, stabilì la capitale del suo regno a Ravenna, cioè nella città che era stata già capitale dell'Occidente negli ultimi decenni della sua storia, e cercò sotto molti aspetti di imitare lo stile dei principi romani, fino a farsi costruire un mausoleo (tuttora conservato a Ravenna) per la propria sepoltura, come già avevano fatto tanti imperatori.

Il coinvolgimento dell'aristocrazia senatoria. In questo spirito, Teoderico avviò una politica volta a ottenere il consenso di tutti i poteri forti presenti nella penisola: l'aristocrazia romana, che aveva il suo centro nel senato, e la chiesa di Roma. Le fun-zioni militari rimasero saldamente nelle mani dei conquistatori, ma Teoderico trasse dalle file dell'aristocrazia latina il personale necessario all'amministrazione statale.

• Boezio, per esempio, appartenente a una famiglia che da generazioni dava a Roma senatori, principi e uomini di cultura, fece una brillante carriera politica, culminata nell'incarico di responsabile unico dell'amministrazione ostrogota.

• Un altro collaboratore, Simmaco, era suocero di Boezio e discendeva a sua volta da una prestigiosa famiglia di politici e letterati.

• Cassiodoro, infine, divenne responsabile della cancelleria di corte, incaricata di redigere i testi dei provvedimenti giuridici e normativi e di stendere la corrispondenza ufficiale.

La tolleranza religiosa e le difficoltà dell'integrazione. Gli ostrogoti erano ariani, ma anche con il papato romano i rapporti di Teoderico furono cordiali e improntati alla reciproca tolleranza. Nelle città le cattedrali ariane, riservate al culto della minoranza gota - come la bellissima struttura di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, o il Battistero degli ariani, sempre a Ravenna -, si affiancarono alle chiese destinate alla ben più numerosa popolazione cattolica. Negli ultimi anni del regno di Teoderico, però, la coesistenza pacifica fra le due etnie iniziò a incrinarsi. Se l'unificazione politica dei due popoli in un unico stato poteva dirsi sostanzialmente riuscita, goti e romani rimanevano estranei gli uni agli altri, pur vivendo nelle stesse città.

L’imperatore Giustino e l’ortodossia religiosa. Come se non bastasse, il nuovo imperatore d'Oriente Giustino (518-527 d.C.) avviò una politica religiosa volta a estirpare tutte le eresie o le dottrine estranee al cristianesimo "ortodosso": e tale era anche la fede ariana di Teoderico e dei goti. Non si trattava solo di una preoccupazione di tipo religioso: l'uniformità delle credenze era un obiettivo perseguito già a suo tempo da Costantino, in quanto eliminava una possibile fonte di tensione fra i sudditi e contribuiva a rafforzare il potere dell'imperatore, suprema autorità politica ma anche garante dell'autentica dottrina cattolica; era

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perciò importante che questa dottrina fosse definita in modo univoco e accettato da tutti.

Fallisce la convivenza fra germani e romani in Italia. I riflessi della politica intollerante di Giustino si fecero sentire anche nel regno di Teoderico, che era pur sempre, nella concezione bizantina, una provincia dell'Impero d'Oriente; e in questo clima era inevitabile che le tensioni crescessero, intrecciandosi con il problema irrisolto della fusione fra conquistati e conquistatori. Teoderico temette che l'aristocrazia romana simpatizzasse per l'imperatore bizantino e preparasse complotti per rovesciarlo; l'incarcerazione e la successiva condanna a morte di Boezio e Simmaco, nel 524-525, segnarono la fine della politica di convivenza pacifica fra le due etnie. Nel 526 morì Teoderico, l'anno seguente Giustino. Il nuovo imperatore, Giustiniano, era deciso a proseguire la lotta all'eresia e, per di più, riteneva che la politica dei predecessori nei confronti dell'Occidente - governare quei territori in maniera indiretta, con la mediazione di principi barbari formalmente dipendenti dal sovrano bizantino - avesse fatto il suo tempo. Secondo Giustiniano era giunto il momento di recuperare il controllo diretto sull'Occidente.

L’impero bizantino sotto Giustiniano Rinsaldare l’impero: un solo potere, una sola religione. Giustiniano salì al potere nel 527 e vi rimase fino al 565. Un lungo regno, che il nuovo imperatore sembrò subito impostare nel segno di una tenace ricerca dell'unità a tutti i livelli della vita dello stato: unità dell'Impero, unità della dottrina religiosa, unità del diritto e naturalmente, al vertice di tutto questo, unità della direzione politica, saldamente nelle mani del sovrano. Sul piano religioso, si trattava di continuare la linea del predecessore Giustino, quella della lotta a ogni forma di credenza religiosa "deviarnte": dunque, non solo le eresie interne al cristianesimo, ma anche i residui di paganesimo, ancora diffusi, per esempio, negli ambienti filosofici e intellettuali. Si inquadra in questa politica la decisione di chiudere, nel 529, l’Accademia di Atene, la prestigiosa scuola di filosofia fondata da Platone dopo il 387 a.C., considerata luogo simbolo della cultura e del pensiero pagano. Il ruolo del sovrano come supremo garante della vera fede non si espresse solo nella persecuzione del dissenso reli-gioso. Ebbe, per esempio, una manifestazione spettacolare nel grandioso progetto della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.

L’unità nella giurisprudenza: il Codice. Nel 528, quindi poco dopo l'ascesa al trono, Giustiniano nominò una speciale commissione di esperti giuristi, con l'incarico di procedere a un riordinamento complessivo del diritto romano. Nei secoli, le leggi e le norme romane si erano accumulate, sovrapposte, non di rado contraddicendosi fra loro e comunque dando origine a un edificio giuridico dalla struttura confusa, nella quale non si riusciva a rintracciare un ordine. Il risultato di sei anni di intenso lavoro della commissione fu il Codice di Giustiniano (Corpus iuris civilis), un'opera fondamentale, che sintetizzò organicamente tutta la tradizione giuridica romana. L'accordo con la Persia, la vittoria sui vandali. La vocazione all'unità di Giustiniano si manifestò poi nell'ambizioso progetto di recuperare al controllo diretto di Costantinopoli i territori dell'ex Impero d'Occidente (vd. immagine n. 3), ponendo fine al compromesso di affidare questi territori a reggenti germanici in qualità di rappresentanti del sovrano bizantino. Un progetto al quale non era estranea, ancora una volta, una motivazione di carattere religioso, dato che i re germanici erano perlopiù ariani, dunque eretici. Per realizzare i suoi piani, Giustiniano aveva bisogno di avere le mani libere lungo la frontiera orientale, contro la quale premeva il Regno persiano; nel 532 il problema fu risolto attraverso un accordo con il sovrano persiano Cosroe, favorito dal versamento di una consistente indennità da parte bizantina.

L'anno seguente il progetto di riconquista prese il via dal Regno africano dei vandali, il più fragile tra i domini germanici. Fu sufficiente un anno di campagna militare perché le forze bizantine, guidate dall'abile generale Belisario, potessero entrare trionfalmente nella capitale Cartagine, nel 534.1 vandali sopravvissuti si dispersero e scomparvero dalla scena della storia.

L’Italia e la guerra greco-gotica. Poi fu la volta dell'Italia. Nel 535, con il pretesto di presunti atteggiamenti antibizantini della corte ostrogota, Giustiniano scatenò l'offensiva attaccando la penisola da nord e da sud, ancora una volta sotto la guida di Belisario. Appena cinque anni dopo, con l'occupazione di tutto il centro-sud (dove del resto la presenza ostrogota era sporadica), la conquista di Ravenna e la cattura

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del sovrano germanico Vitige, sembrava che la guerra si fosse conclusa a favore dei bizantini. I goti dimostrarono però un'imprevedibile capacità di resistenza. Il nuovo re Totila tenne testa a lungo alle forze di Giustiniano, ricorrendo anche a provvedimenti estremi come la concessione della libertà agli schiavi dei grandi latifondisti latini (considerati simpatizzanti dei bizantini), a patto che combattessero dalla parte dei goti. L'Italia venne percorsa in lungo e in largo dai due eserciti in uno stillicidio di devastazioni e violenze, dato che ognuno dei contendenti cercava di fare terra bruciata attorno all'altro. Nel 552 Totila fu ucciso e l'anno dopo anche l'ultima resistenza gota fu annientata. I bizantini avevano vinto la guerra, ma l'Italia era prossima al collasso.

L’Italia devastata. Nel 554, un provvedimento di Giustiniano noto come Prammatica sanzione sancì ufficialmente il ricongiungimento dell'Italia all'Impero. Diciotto anni di guerra all'ultimo uomo avevano però avuto effetti devastanti sul tessuto economico e sociale della penisola. I campi erano sconvolti, l'antica aristocrazia latifondista decimata, e anche la popolazione urbana si era ridotta fortemente, per i massacri e per le epidemie provocati dalla guerra. Molte strade romane risultavano ormai inservibili, vaste aree rurali si erano impaludate o erano tornate all'incolto; nelle città spopolate interi quartieri rimasti deserti venivano adibiti a zone di pascolo o a serbatoio di mattoni e altri materiali da costruzione.

La politica di Giustiniano in Italia. Per di più, l'aristocrazia romana, che i goti avevano rispettato e coinvolto nel governo, venne emarginata da Giustiniano, che amministrò i territori riconquistati con personale proveniente dall'Oriente. L'aristocrazia fu anche mortificata da un prelievo fiscale esoso, che scaricava i costi altissimi della guerra proprio sulla classe che avrebbe dovuto trarne vantaggio. Si capisce bene come, in queste condizioni, il controllo bizantino dell'Italia fosse durato appena quindici anni: nel 569 una nuova invasione condusse nella penisola i longobardi, la più selvaggia fra tutte le genti germaniche. Prima, però, Giustiniano fece in tempo ad abbellire Ravenna, ex capitale ostrogota e ora sede del comando militare bizantino, di splendide chiese, secondo un uso politico dell'architettura sacra che abbiamo già conosciuto a Costantinopoli.

La Spagna. Intanto, i costi umani ed economici della campagna d'Italia non arrestarono il progetto di riconquista dell'Occidente. Appena un anno dopo la fine delle ostilità in Italia, nel 554 l'esercito bizantino veniva diretto contro la Spagna visigota. L'attacco prese le mosse dall'Africa, attraverso lo stretto di Gibilterra, e portò all'occupazione dei territori meridionali della penisola iberica. Anche in questo caso si trattò di un successo effimero: trent'anni dopo, nel 585, i visigoti avevano di nuovo riunificato sotto il loro controllo l'intera Spagna.

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Un bilancio in rosso. La politica di riconquista di Giustiniano si risolse dunque in un insuccesso. Anzitutto, le guerre in Occidente drenarono immense risorse economiche, necessarie a pagare il soldo alle truppe (perlopiù mercenarie) e poi, a conquista ultimata, ad assicurare la ricostruzione e a mantenere le forze di occupazione. In secondo luogo, si trattò di conquiste effimere, durate solo pochi anni, in parte proprio per l'impossibilità strategica e finanziaria di garantire l'occupazione e la difesa dei nuovi territori. Infine, il massiccio concentramento dell'impegno militare sul fronte occidentale sguarnì inevitabilmente i confini orientali dell'Impero bizantino, che conobbe ripetute invasioni sia nei suoi territori europei sia in quelli asiatici. Costantinopoli dunque sarebbe stata costretta a rinunciare al controllo di territori lontani ed economicamente poco redditizi e a concentrare le forze nella difesa dei propri confini storici.

L’ultimo dei romani . Il fallimento della politica di Giustiniano ebbe un'altra conseguenza di lungo periodo: ai suoi successori non sarebbe rimasto che prendere atto del fatto che le terre d'Occidente erano perdute per sempre e che anche il controllo indiretto di quei regni non era più possibile; da allora in avanti, le due metà dell'antica Impero avrebbero avuto storie, protagonisti e culture sempre più distanti l'una dall'altra e dalla loro matrice comune. Il sogno di fermare la storia, o di riportarla indietro, era tramontato per sempre: ma proprio per aver cercato di realizzare quel sogno, Giustiniano può davvero essere definito l'ultimo dei romani.