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Il mondo di Giuseppe 1 «Misura due volte, taglia una volta» Da un dialogo non registrato di Giuseppe con Gesù, mentre lavoravano a modellare una sedia per la sinagoga di Nazaret. «Ricordati, Gesù: qualsiasi cosa stiamo facendo, sempre stiamo facendo una casa allo Spirito. Tua mamma pensa che una casa per lo Spirito sia come una coppa vuota. Ma io preferisco l’immagine di una stanza spaziosa con una larga finestra per il sole e una porta non facile da trovare. Il modo migliore per cominciare è pulire uno spazio, e il modo migliore per pulire uno spazio è smettere di giudicare. Questo richiede un tempo di preghiera. Ogni volta che le cose sembrano semplici e ovvie e la mente è soddisfatta per la sua certezza e prepotente sicurezza, vacci piano. Ci sono più cose di quanto pensi: solo che non si vedono ancora. Il giudizio chiude le possibilità. Così, quando tu non giudichi, tu eviti anche di far danno ad altri. La legge è la nostra misura. È uno strumento di giudizio, ma c’è sempre qualcuno che lo controlla. Non usare la legge come un martello per colpire o una lama per tagliare. I nostri strumenti sono per dar forma a un tavolo, non per violentare il legno. La legge è uno strumento per formare gente che ama, ma può anche spezzare le persone e perdere il senso del suo scopo. La legge ha sempre paura di una vita fuori controllo. Così essa ha bisogno di creare casi di persone che la trasgrediscono. Essa si nutre e si irrobustisce sulle trasgressioni. Si riempie la bocca di scandali. Ma lo scandalo non equivale a una colpa reale. Lo scandalo può essere l’irruzione dell’amore di Dio che le nostre menti deboli devono ancora capire. Perciò, trova una via per onorare la legge e onorare la persona che, nella nostra comprensione limitata, ha trasgredito la legge. Questo non è facile. Richiede di far lavorare la legge per l’amore. L’amore è il sole; la legge è il suo raggio più lontano e più debole. Se tu stai saldo nell’amore, vedrai come la legge è un suo riflesso. Se tu perdi l’amore, la legge non potrà sostituirlo. La legge senza amore sarà solo qualcosa che tu usi per promuovere te stesso e punire gli altri. Quando tu ami una persona attraverso la legge, tu modelli la legge su una realtà che è sempre più grande di quello che sai. Ciò dà alla vita la possibilità di respirare e alle persone la possibilità di cambiare. E il cambiamento più importante non sarà negli altri, ma in te stesso. L’amore toglie via la trave dal tuo occhio. Non ferma il suo sguardo sulle schegge negli occhi degli altri. Una volta mi è capitato qualcosa di simile, e io ero tentato di giudicare e di punire. Ma mi fermai e aspettai, e una porta più nascosta si aprì, la porta difficile da trovare. E fui condotto in una stanza di sole, una casa per lo Spirito. Dentro, c’eravate tu e tua mamma, e una presenza di luce che parlò alla mia paura. Era sogno, ma non era sonno. Il sogno mi svegliò. Tolse la trave dal mio occhio. Vidi che fare spazio allo Spirito è una avventura senza fine, come il tuo diventar grande, figlio mio. Noi carpentieri diciamo, “misura due volte, taglia una volta sola”. Così, Gesù, guarda sempre due volte. Prima guarda con gli occhi del corpo, e poi guarda di nuovo con gli occhi del cuore. Al primo sguardo, spesso vedi un pezzo di legno irregolare e buono a niente. Forse, stai per gettarlo via. Ma non lasciarti ingannare dalle apparenze delle cose. Guarda più a fondo. A una seconda occhiata, puoi vedere un bel braccio di sedia nascosto nella sua forma inusuale. Abbraccia la bellezza, Gesù, quando la vedi. Conducila a casa tua. Non avere dubbi e non fare domande. Metti tutto in discussione, Gesù, ma obbedisci all’amore». (John Shea, The Spiritual Wisdom of the Gospels for Christian Preachers and Teachers, pp. 43-48: traduzione di A. Pinna). 1. Quando si parla di San Giuseppe nei vangeli, i problemi di metodo non sono sempre rispettati. Si rischia di dire più quello che si ha in testa, che quello che c’è nei testi. Rispetta il metodo la pagina che abbiamo presentato in traduzione? Si, almeno nel senso che le “due misure” fanno parte del modo di procedere del vangelo stesso.

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Il mondo di Giuseppe 1 «Misura due volte, taglia una volta» Da un dialogo non registrato di Giuseppe con Gesù, mentre lavoravano a modellare una sedia

per la sinagoga di Nazaret. «Ricordati, Gesù: qualsiasi cosa stiamo facendo, sempre stiamo facendo una casa allo Spirito.

Tua mamma pensa che una casa per lo Spirito sia come una coppa vuota. Ma io preferisco l’immagine di una stanza spaziosa con una larga finestra per il sole e una porta non facile da trovare.

Il modo migliore per cominciare è pulire uno spazio, e il modo migliore per pulire uno spazio è smettere di giudicare. Questo richiede un tempo di preghiera. Ogni volta che le cose sembrano semplici e ovvie e la mente è soddisfatta per la sua certezza e prepotente sicurezza, vacci piano. Ci sono più cose di quanto pensi: solo che non si vedono ancora. Il giudizio chiude le possibilità.

Così, quando tu non giudichi, tu eviti anche di far danno ad altri. La legge è la nostra misura. È uno strumento di giudizio, ma c’è sempre qualcuno che lo controlla. Non usare la legge come un martello per colpire o una lama per tagliare. I nostri strumenti sono per dar forma a un tavolo, non per violentare il legno. La legge è uno strumento per formare gente che ama, ma può anche spezzare le persone e perdere il senso del suo scopo. La legge ha sempre paura di una vita fuori controllo. Così essa ha bisogno di creare casi di persone che la trasgrediscono. Essa si nutre e si irrobustisce sulle trasgressioni. Si riempie la bocca di scandali. Ma lo scandalo non equivale a una colpa reale. Lo scandalo può essere l’irruzione dell’amore di Dio che le nostre menti deboli devono ancora capire. Perciò, trova una via per onorare la legge e onorare la persona che, nella nostra comprensione limitata, ha trasgredito la legge. Questo non è facile.

Richiede di far lavorare la legge per l’amore. L’amore è il sole; la legge è il suo raggio più lontano e più debole. Se tu stai saldo nell’amore, vedrai come la legge è un suo riflesso. Se tu perdi l’amore, la legge non potrà sostituirlo. La legge senza amore sarà solo qualcosa che tu usi per promuovere te stesso e punire gli altri. Quando tu ami una persona attraverso la legge, tu modelli la legge su una realtà che è sempre più grande di quello che sai. Ciò dà alla vita la possibilità di respirare e alle persone la possibilità di cambiare. E il cambiamento più importante non sarà negli altri, ma in te stesso. L’amore toglie via la trave dal tuo occhio. Non ferma il suo sguardo sulle schegge negli occhi degli altri.

Una volta mi è capitato qualcosa di simile, e io ero tentato di giudicare e di punire. Ma mi fermai e aspettai, e una porta più nascosta si aprì, la porta difficile da trovare. E fui condotto in una stanza di sole, una casa per lo Spirito. Dentro, c’eravate tu e tua mamma, e una presenza di luce che parlò alla mia paura. Era sogno, ma non era sonno. Il sogno mi svegliò. Tolse la trave dal mio occhio. Vidi che fare spazio allo Spirito è una avventura senza fine, come il tuo diventar grande, figlio mio.

Noi carpentieri diciamo, “misura due volte, taglia una volta sola”. Così, Gesù, guarda sempre due volte. Prima guarda con gli occhi del corpo, e poi guarda di nuovo con gli occhi del cuore. Al primo sguardo, spesso vedi un pezzo di legno irregolare e buono a niente. Forse, stai per gettarlo via. Ma non lasciarti ingannare dalle apparenze delle cose. Guarda più a fondo. A una seconda occhiata, puoi vedere un bel braccio di sedia nascosto nella sua forma inusuale. Abbraccia la bellezza, Gesù, quando la vedi. Conducila a casa tua. Non avere dubbi e non fare domande. Metti tutto in discussione, Gesù, ma obbedisci all’amore». (John Shea, The Spiritual Wisdom of the Gospels for Christian Preachers and Teachers, pp. 43-48: traduzione di A. Pinna).

1. Quando si parla di San Giuseppe nei vangeli, i problemi di metodo non sono sempre rispettati.

Si rischia di dire più quello che si ha in testa, che quello che c’è nei testi. Rispetta il metodo la pagina che abbiamo presentato in traduzione? Si, almeno nel senso che le “due misure” fanno parte del modo di procedere del vangelo stesso.

2. Nella conclusione della genealogia di Gesù (Mt 1,18-25), la prima misura di Giuseppe è la Legge. Secondo questa prima giustizia, egli pensò di ripudiare Maria. La seconda misura è la parola dell’angelo nel sogno: Non temere di prendere con te Maria. La Legge viene da Dio, e anche l’angelo viene da Dio. Eppure, portano a decisioni contrarie. Siate sinceri: per essere santi subito voi avreste consigliato di scegliere la via sicura, i fatti che si vedono. Perché l’altra via, la via di ascoltare ciò che non si vede, di capire la verità dagli occhi sinceri dell’altro, senza parole adeguate a spiegare, non è altrettanto sicura. Ma è questa la “nuova” giustizia di Giuseppe. Quella di cui Gesù dirà che se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). Da chi volete che Gesù l’abbia imparato? Da un sms inscritto, come ho sentito da certi teologi o “antropologi’, nella sua “natura teandrica”? Meglio Giuseppe. Meglio una povera incarnazione a Nazaret.

3. Subito dopo, nel racconto di Erode e dei Magi, le due misure si ripetono, ma in ordine inverso. Si comincia dal sogno, la visione di una stella, muta ma ricca di desideri che anche per il vangelo più ebraico non nascono sotto il cielo delle antiche generazioni. Una prima misura ora passa in ricerche non “nostre”, non secondo i “nostri canoni”, che forse giudichiamo anche “confuse”, addirittura male “orientate”, visto che non arrivano direttamente alla meta cercata. Ma appunto, anche per i Magi c’è una seconda misura per sapere Dove è colui che è nato, il re dei Giudei. La seconda misura è ora la stessa parola della Legge: Gli risposero: A Betlemme, perché così è scritto… (Mt 2,5). Una Legge usata anche male, per informare “in modo neutro” il nemico re Erode. Una Legge che ha bisogno di una stella che ricompare, di un sogno che la riporti al suo scopo sulla via dell’amore, che riconverta i Magi da informatori in adoratori: al (ri)vedere la stella provarono una gioia grandissima (Mt 2,10).

4. “Noi facciamo anche più di due misure”, mi disse un muratore dopo un’omelia domenicale. Forse carpentieri e muratori fanno parte di quei mestieri che nel regno di Dio passano avanti a chi crede di avere per missione l’unica misura garantita (Mt 21,28-32), e alla fine non misura per niente, né per legge né per amore. Diventati “misura a se stessi”, dirà Gesù per averlo imparato, con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi (Mt 7,2). Ovviamente, ciò avverrà secondo tradizione: colmando la misura dei vostri padri (Mt 23,32). Giuseppe era un padre diverso, in un’altra genealogia.

Il mondo di Giuseppe 2 (7808 caratteri, spazi inclusi) Il mondo di chi “parla il nome” 1. Il “mondo di San Giuseppe” è ora, anzitutto, il Vangelo di Matteo. Tutto il vangelo, e non solo le pagine

conosciute come “vangelo dell’infanzia”, scritte dal punto di vista del “padre” (Luca le scriverà dal punto di vista della “madre”). 2. Strano, direte. Il mondo di Giuseppe non è forse Betlemme di Giudea e Nazaret di Galilea? Certo, ricostruire i

paesaggi della “terra santa”, informare sui modi di vivere di allora, spiegare i costumi matrimoniali che fanno da sfondo ai rapporti fra i due “promessi sposi” Maria e Giuseppe, è cosa che non solo soddisfa tante curiosità provocate dalla lettura, ma anche ci fa sentire più vicini ai due protagonisti. Tuttavia, queste informazioni storiche, che in gran parte si riducono a ipotesi, hanno sovente l’effetto finale di distrarre dalla “buona notizia” del “vangelo”. Proprio mentre sembrano trasportarvi dentro il “paese” di Nazaret, queste mille informazioni si riducono a un paradossale “spaesamento” dal testo evangelico. 3. Controprova. Ogni tanto capita di vedere pubblicizzate le “visioni mistiche” in cui alcune persone dicono di

raccontare “per rivelazione” ciò che si è svolto veramente nella vita di Gesù. Le “descrizioni” oggi più conosciute sono, ad esempio, quelle contenute nei dieci (!) volumi di Maria Valtorta (1897-1961), dai quali è stato pubblicato un estratto dedicato proprio a San Giuseppe. Ugualmente, si parla di nuovo anche delle “visioni” della beata Anna Katharina Emmerick (1774-1824), talvolta evidenziandone le convergenze con quelle della Valtorta, come se tale rassomiglianza potesse rappresentare una prova della loro veridicità storica.

Ebbene, i mille e mille dettagli di queste visioni, mentre vi danno l’illusione di assistere finalmente al “filmato” dei fatti, non vi dicono niente di ciò che rappresentava il centro del messaggio del vangelo di Matteo. Talvolta, si ha più che l’impressione che queste visioni mistiche siano debitrici alle idee diffuse del loro tempo o a quelle radicate nella psicologia dei “visionari”, più che a una lettura attenta dei testi stessi. Solo un esempio: la Emmerick nelle sue visioni identifica Maria la Maddalena con la sorella di Lazzaro, che lei immagina “traviata” poiché anche la identifica con la donna prostituta che in casa del fariseo profuma i piedi di Gesù, quando invece nei testi evangelici niente permette una simile identificazione. Così, tutti gli espedienti escogitati dal fratello Lazzaro e dalla sorella brava per fare incontrare la sorella traviata con Gesù e così convertirla, sono soltanto una riproduzione romanzesca e edificante delle convinzioni e convenzioni sociali e religiose del tempo, anche se presentate sotto il “genere letterario della visione”. 4. Sovente, poi, il “mondo di Giuseppe” è costruito più sulla “sovrabbondanza” lussureggiante dei vangeli apocrifi

che sulla “scarsità” di notizie dei vangeli canonici. Nell’ultima sua pubblicazione su San Giuseppe, ad esempio, G. Ravasi ha ritenuto opportuno inserire la “Storia di Giuseppe il Falegname”, anche per mostrare come il santo è arrivato a essere invocato come patrono di una “buona morte”. Le mille e mille informazioni dei vangeli apocrifi, tuttavia, vanno considerate, pur con le dovute differenze, più o meno allo stesso modo delle mille e mille informazioni delle “visioni”, cioè come riproduzione delle idee religiose di gruppi e di persone che “inventano” (nel senso filologico di “fare inventario”), più che memoria di fatti accaduti da parte di persone che “ricordano” o “vedono”. 5. In conclusione, tra i tanti “mondi possibili” di san Giuseppe, l’unico che conta, poiché anche l’unico a nostra

“totale disposizione”, nel senso almeno di diretta e reale, ispirata e canonica disposizione, è quello del testo evangelico. E questo soprattutto nella forma del vangelo di Matteo, dove egli è presentato come protagonista dei primi due capitoli (niente di lui si dice in Marco, mentre quattro volte è nominato in Luca, e due volte in Giovanni). 6. Ora, se il testo di Mt presenta gli avvenimenti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe, lo fa però sullo

sfondo dell’intero vangelo, volendo presentarlo come figura rappresentativa e esemplare di ogni credente che si senta parte della “discendenza di Abramo”.

Vangelo scritto da ebrei per ebrei, dal “popolo eletto” per il “popolo eletto”, Mt vuole rappresentare in Giuseppe non solo l’accettazione di Gesù come “Messia, Figlio di Davide” (1,1-17: la genealogia), ma anche l’accettazione del “nuovo” che porta a compimento l’ “antico”, senza rotture e senza rifiuti (1,18-25: l’annunciazione di Giuseppe).

Vangelo scritto da ebrei, ma aperto ad altre genti, dal “popolo eletto “ai “popoli eletti”, Mt vuole rappresentare in Giuseppe non solo il “figlio” di una matura “genealogia” di patriarchi, uomini e donne, senza confini (1,1-17), ma anche il “padre-patriarca” di una antica e nuova generazione nello Spirito (1,18-25), “nuova creazione” perché ogni volta “concepita” nella disponibilità sofferta e generosa ad attraversare nuovi confini, in una fedeltà capace di vivere eterno ogni gioioso o doloroso imprevisto (2,1-23: I Magi ed Erode, la fuga in Egitto e il rifugio a Nazaret). 7. Dire che fra i tanti “mondi possibili” di Giuseppe l’unico che conta è quello testualmente evangelico, significa

capire la figura dell’uomo giusto Giuseppe, nei primi due capitoli di Mt, non tanto frugando nella Legge e nei costumi dei fidanzamenti del tempo, quanto alla luce di ciò che Gesù dirà e farà nei ventisei capitoli seguenti, magari a partire proprio dalle parole sulla giustizia sovrabbondante-superflua (5,20) nel discorso della montagna. Così in modo simmetrico: quello che Gesù dirà e farà nella cosiddetta “vita pubblica”, sarà meglio capito alla luce di quello che Giuseppe ha già fatto e detto nei cosiddetti “vangeli dell’infanzia”, quando cioè Gesù veniva “concepito” e “nutrito” e “salvato”, in una “passività-passione” iniziale che anticipa e rende quotidiana l’altra “passività-passione” finale, quando quel figlio porta a compimento la sua “vocazione” di “salvatore e salvato”, secondo il nome Gesù previsto e dato attraverso la parola di Giuseppe: (Maria) darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù (1,21); (Maria) diede alla luce un figlio ed egli (Giuseppe) lo chiamò Gesù (1,25). 8. Davvero risulta testualmente incomprensibile parlare del “mondo di Giuseppe” come “mondo del silenzio”, se

davvero come lettori credenti ascoltiamo questa unica ma totale parola presentata dal vangelo come “sognata e detta” da Giuseppe, padre e patriarca di nuove generazioni di “parlanti il nome” di Gesù, i quali, come Giuseppe, “dubitatori e credenti” nel medesimo tempo (cf 1,20 e 28,17), danno origine a nuove generazioni capaci di riconoscere con il nome “materno” di Emmanuele (cf 1,23 e Is 7,14) un Dio con noi (28,20), presente fino alla fine perché ogni volta presente in ogni atto di concepimento che genera fratelli e sorelle (cf 12,46-50; 19,27-29; 23,8; 25,40; 28,10) in una genealogia rinnovata e di nuovo senza confini.

Al modo di Dio, per il quale “dire il nome” è creare. Al modo di Giuseppe e Maria, per i quali “ascoltare e dire”, nell’ascoltare Dio e nell’ascoltarsi e ri-parlarsi l’uno con l’altra, è generare. Per giungere infine, nell’ora del nostro ascoltare e dire, a generare a nostra volta creature nuove che sanno di sogno, con parole-nomi infine, letteralmente e in tutti i sensi, condivisi: Andando dunque fra tutte le genti, fate discepoli battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare-custodire tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (28,19-20: conclusione del vangelo e presenza dell’Emmanuele-Dio con noi). [ap]

Il mondo di Giuseppe 2014 3 Un bastone con le ali 1. L’abbiamo ricordato nella prima riflessione: i vangeli dicono poche cose di san Giuseppe,

perciò si rischia di parlare molto di quello che si ha in testa e poco di quello che c’è nei testi. È noto ad esempio come i predicatori di esercizi spirituali insistono sul “silenzio” di Giuseppe (la gente zitta fa comodo a molti), e trascurano che egli, scegliendo di non pronunciare la condanna della Legge, diventa invece capostipite di quanti “parlano il nome” della salvezza di Dio: Tu gli porrai nome Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).

È vero: nei secoli, secondo l’antica tradizione ebraica del “ricercare” sui testi (midrash), si è sempre tentato di riempire i vuoti lasciati dai racconti biblici, a partire dai vangeli apocrifi fino al moderno genere letterario delle cosiddette “rivelazioni”, messe in bocca a Gesù o Maria, su come sarebbero avvenuti i fatti. Ma come in campo musicale, una “variazione sul tema” ha senso come tale solo se è “sul tema”, e il tema è dato soltanto dallo sviluppo narrativo, letterario e teologico del testo evangelico.

Abbiamo applicato questo principio di metodo nelle prime due riflessioni. Per quanto interessanti possano essere le illustrazioni erudite sulle usanze matrimoniali del tempo, per quanto verosimili le introspezioni psicologiche sullo sposo in preda al dubbio, per quanto dettagliate le sedicenti “rivelazioni” sugli avvenimenti e sul loro ambiente, in modo paradossale esse rischiano solo di “spaesare” il lettore dall’unico “mondo di Giuseppe” a lui direttamente disponibile, il mondo del testo evangelico.

2. Abbiamo visto così che per capire la figura di Giuseppe, uomo giusto nei primi due capitoli di

Mt, è indispensabile tenere presente ciò che Gesù dirà e farà nei ventisei capitoli seguenti. A partire proprio dalle parole sulla giustizia sovrabbondante nel Discorso della montagna: Se la vostra giustizia non sarà sovrabbondante fino al superfluo rispetto a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). La fiducia della comunità ebraica del Vangelo di Matteo di essere fedele alle “misure” della Legge solo nella sovrabbondanza delle “misure” dell’amore (cf Mt 22,34-40: Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti), ha la sua radice nella medesima fiducia di Giuseppe che, nella contraddizione tra le esigenze della Legge e le parole dell’Angelo, tutte e due provenienti da Dio, è capace di vivere un sogno che fa posto insieme alla fede e all’amore. Giuseppe anticipa così quella libertà con cui il suo figlio, infrangendo la Legge del Sabato, la riporterà a servizio della vita: Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa (cf Mt 12,1-14).

Riconoscere questa “nuova giustizia”, di Giuseppe prima e poi del figlio che egli educa insieme con Maria che egli aveva evitato di condannare senza colpa, lei che con lui ha per prima condiviso la salvezza della misericordia, senza vittime sacrificali di principi non negoziabili, riconoscere questa “novità” non può dipendere da ricostruzioni chiuse in un passato ipotetico, ma da una lettura testuale aperta all’esperienza di ogni persona o comunità credente sincera con Dio, quando le vicende della vita la invitano, come sogno d’Angelo, a scommettere che pure Dio è dalla parte di chi è sincero con chi ama. Varcare la soglia della “sincerità” di Dio, come entrare nel mondo della “sincerità” di chi ama, è possibile solo attraverso una giustizia sovrabbondante, quella che, non richiesta da nessuna “scrittura”, introduce tuttavia nel “regno dei cieli”, in una “cultura di Dio”, in un modo diverso di decidere e di vivere, al di là di ogni obbedienza concepita come “polizza di assicurazione”. Che il Figlio abbia imparato bene la lezione della esperienza dei “suoi” appare fin dalla prima “uscita da casa”, quando di fronte alla tentazione della falsa sicurezza che viene da una “scrittura”, la supera rispondendo: Sta scritto anche (Mt 4,5-7). La nuova giustizia di Giuseppe e di Gesù nasce nella libertà e nella sincerità di chi sa misurare due volte.

3. Questo tema della “nuova giustizia” trova una “variazione” nel Vangelo di Giovanni, dove

Giuseppe è nominato due volte, ma di cui in genere non si parla mai a suo proposito. Fin dal Prologo poetico il Quarto Vangelo pone i lettori di fronte alla scelta di accettare o rifiutare il Verbo-fragile-carne che viene fra i suoi. L’accettazione ha come due modi o due tappe: l’accettazione di chi, figlio della famiglia umana, deve riconoscere la sua “fragile giornata” di luce e tenebra, di grazia e peccato, e l’accettazione di chi, già figlio di Abramo e discepolo di Mosè, accetta di riconoscere grazia su grazia sempre nel Verbo-fragile-carne: Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1,17).

L’ostacolo alla prima accettazione sarà di chi, come Pietro, immagina di essere santo subito. Egli invece, per aver “parte con” il Maestro (Gv 13,8), deve imparare la sovrabbondanza di un amore che va oltre il vanto di una giustizia data per scontata, e arrivare infine a riconoscere nella sua terza e finale risposta, Tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene, che le sue buone intenzioni sono salvate insieme con i suoi tre rinnegamenti (Gv 21,15-19).

L’ostacolo alla seconda accettazione sarà di chi si prende il sicuro: Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia (Gv 9,29); di chi non accetta di seguire il consiglio di Nicodemo di obbedire alla Legge ascoltando le persone (Gv 7,5-52), e arriva infine a perdere anche la figliolanza da Abramo, pur considerata anch’essa automatica: Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo... Voi fate le opere del padre vostro (Gv 8,39-41).

La differenza di esito tra Pietro e i Capi giudei mostra la differenza tra l’aprirsi a grazia su grazia e l’essere certi di una sola misura. Così, alla prima occorrenza del nome di Giuseppe (Gv 1,45-46): Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret, Natanaele oppone l’obiezione: Da Nàzaret può venire qualcosa di buono? In modo simile, nella seconda occorrenza (Gv 6,41-42), gli uditori di Cafarnao di fronte all’affermazione di Gesù: Io sono il pane disceso dal cielo, obbiettano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: Sono disceso dal cielo?

Nelle due occorrenze, le obbiezioni anticipano la sterilità di quelli che, imbalsamati in magniloquenti titoli religiosi, si escludono da ogni vero discorso su Dio, pur convinti nel medesimo tempo di aver ricevuto l’incarico di controllori di Dio (cf Gv 7,52: Studia e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!). Da una parte, con Pietro, anche Nicodemo: venuto all’inizio con le presunzioni “autorevoli” tipiche di ogni uomo che si prende per credente (cf Gv 2,23-25 e 3,1-2), torna alla fine a seppellire Gesù, mostrando di aver imparato a rendergli giusto onore nella assoluta assenza dei segni divini di cui si faceva forte (Gv 19,39-42). Dall’altra parte, ancora i Capi giudei: espellono il cieco nato dalla sinagoga proprio perché non riescono ad accettare che ci possa essere qualcosa di divino al di fuori del loro controllo: Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia; e non arrivano a capire che il mondo e Dio vanno avanti anche senza di loro: Rispose loro quell'uomo: Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi (Gv 9,28-30).

Nel vangelo di Giovanni, dunque, Giuseppe è lì a distinguere la fede di chi crede in fondo solo nella propria illusoria grandezza, e di chi crede davvero in un Padre più grande (Gv 14,28), che si manifesta nella piccolezza dei “suoi”, i quali però faranno anch’essi opere più grandi, per averlo con il Paràclito riconosciuto nell’amore fino alla fine del Verbo-fragile-carne (Gv 14,12).

4. Altre volte di fronte a un uditorio di “sorelle giuseppine” ho attirato l’attenzione sui mosaici

della loro chiesa in Donigala: a fronte degli angeli, ben dotati di ali, sta un povero Giuseppe con un povero bastone. Se abbiamo capito il “mondo di Giuseppe”, sappiamo già di quali sogni divini parla quel bastone così umano.

Il mondo di Giuseppe 4 Giuseppe, uomo di parola condivisa 1. Nelle precedenti “puntate” abbiamo affrontato un discorso di metodo e di

contenuti. Nella prima puntata, in modo paradossale, a un testo del tutto inventato (un

“insegnamento” di Giuseppe al figlio Gesù sulle due misure di giustizia e amore a partire dalle diverse misure che un falegname prende nel suo lavoro) abbiamo affiancato un commento che ne faceva vedere la coerenza sia con il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” (Mt 1-2) sia con tutto l’insieme del vangelo di Matteo (Mt 3-28).

Nella seconda puntata, anzitutto dicevamo in chiaro che sovente si sentono su Giuseppe e su Maria cose inventate che riscuotono anche grande “successo” di uditorio, ma che purtroppo si allontanano e allontanano dai testi evangelici. Su questa premessa, passavamo poi a inquadrare in modo più completo la figura di Giuseppe sullo sfondo del tema della “nuova giustizia”, la giustizia sovrabbondante-superflua (Mt 5,20), nell’insieme del vangelo di Matteo.

Nella terza, iniziavamo una specie di applicazione del “metodo testuale” al tema del “silenzio”, sovente sfruttato in modo moralistico nella predicazione su san Giuseppe, definito “uomo del silenzio”. Presentavamo invece Giuseppe come “uomo della parola”: della parola totale e universale, perché egli è il genitore che pone il nome “Gesù”, e perciò dice che Dio salva; ma anche uomo della parola personale e individuale, perché egli è lo sposo che ritrova la capacità di ri-ascoltare e ri-parlare in modo nuovo la sua sposa, e perciò salva Maria come madre del figlio della promessa davidica. Questo varcare la soglia della sincerità di Dio e della sincerità di chi ama lo vedevamo ancora sullo sfondo della giustizia sovrabbondante-superflua del vangelo di Matteo, ma anche sullo sfondo del vangelo di Giovanni, dove la figura troppo “quotidiana” di Giuseppe di Nazaret (Gv 1,45; 6,42) appare come pietra di inciampo sulla via di chi vuol credere solo in un “dio dei grandi eventi”.

2. È un luogo comune dei predicatori ripetere che i Vangeli non riferiscono nessuna parola di San Giuseppe. Anche l’enciclica papale Redemptoris Custos riporta questo luogo comune al n. 17, mettendo il silenzio di Giuseppe in contrasto con la parola pronunciata da Maria: «La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell'Annunciazione, mentre Giuseppe - come è già stato detto - al momento della sua “annunciazione” non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo “fece” divenne l'inizio della “via di Giuseppe”. Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il “giusto” (Mt 1,19)». Il rimando del testo papale è al n. 4, dove la citazione evangelica è più completa, arrivando a includere la parte del seguito che dice “prese con sé la sua sposa”, ma è tuttavia, di nuovo, ancora monca, ignorando appunto la conclusione che include il “nominare” di Giuseppe: senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù (Mt 1,24). Una volta dato per scontato il silenzio di Giuseppe, succede che lo si può riempire di ciò che di volta in volta si vuole, usando i riferimenti biblici in modo più ideologico che testuale.

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Ora, la pagina dell’ «annunciazione» in Matteo è tutta centrata su Giuseppe che pone il nome di Gesù (1,21.25), e a questo nome si affiancano quelli di Messia-Cristo (1,18), di Emanuele-Dio con noi (1,23), e, infine, a conclusione di un passo in cui tutto ancora dipende da ciò che fa Giuseppe, il nome di Nazareno (2,23): tutti questi nomi danno senso alle vicissitudini talvolta incomprensibili della storia umana racchiuse nella genealogia (1,1-17) e concluse proprio dall’annunciazione a Giuseppe (1,18-25). Se nel vangelo di Matteo è Giuseppe, in ubbidienza di sogno, a pronunciare questo nome che dà senso alla storia, come è possibile dire che noi non conosciamo nessuna parola di Giuseppe? Giuseppe è nel vangelo di Matteo colui che prende con sé: oltre che in Mt 1,20.24 la frase ritorna in 2,13 prendi con te il bambino; 2,14: si alzò nella notte, prese con sé il bambino e sua madre; 2,20: prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; 2,21: prese con sé il bambino e sua madre: ogni volta il testo di Matteo sottolinea che nel prendere con sé di Giuseppe si compie ciò che era stato detto … (Mt 1,22; 2,15.17.25). Il prendere con sé di Giuseppe è in realtà una presa di parola e una presa in parola di Dio stesso: Dio compie la sua promessa (la sua “giustizia sovrabbondante”) verso l’umanità mentre uno sposo mantiene la sua promessa (anch’essa “giustizia sovrabbondante”) verso la sua sposa.

Mi piace concludere questo punto con le parole di una studente su questa pagina di Matteo: «Giuseppe nella narrazione non parla, né al discorso diretto, e neppure a quello indiretto, ma forse, a ben leggere, parla anche troppo palesemente: egli si fa portavoce di una parola ascoltata e accolta, presa con sé e seguita-accompagnata, per dare compimento; senza che di lui mai si dica che “serbasse qualcosa nel cuore”. Giuseppe fa un carico di parola che “porta” fisicamente, come se egli fosse un mezzo di mediazione della salvezza, ne porta il peso e la consistenza sulle sue braccia e, a questo punto allora, il narratore non ha più bisogno di dipingerne il cuore meditabondo, così come sarebbe superfluo soffermarsi sulle sue labbra parlanti. Non dimentichiamo che la sua è una parola accolta nel silenzio sconcertante degli avvenimenti che gli stravolgono la vita, ma accolta perché mai separata dall’essere condivisa: condivisa con Dio, in una logica di “presa in carico”, e condivisa con Maria, in una logica di amore senza condizioni» (Sr Maria Rita Cordeschi).

3. Ma direte: nel vangelo di Luca è Maria che riceve l’incarico di dare il nome a

Gesù: concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù (Lc 1,31). A parte il fatto che quando Luca parla della circoncisione, l’imposizione del nome è riportata secondo il rito senza particolare menzione di uno dei genitori, ma solo in riferimento al significato del nome dato dall’angelo (Lc 2,21), ciò ricorda che non possiamo leggere i vangeli dell’infanzia mischiandoli insieme con l’intento di ricostruire un ipotetico svolgimento dei fatti, ma che ogni vangelo va letto anzitutto nel suo insieme per capire il particolare aspetto cui esso è interessato. Dovremo tener conto, così, che al di fuori dei cosiddetti vangeli dell’infanzia, mai né per Maria né per Giuseppe si parla più di rivelazioni straordinarie, né angeliche né in sogno. Anzi, a tener conto di alcuni dati dei Vangeli e degli Atti, sembra che anche per la madre e i parenti il cammino di accettazione della predicazione di Gesù sia stato più lungo di quello che dicono i luoghi comuni dei predicatori (cf Mc 3,21; Gv 7,2-9; At 1,14). Se si deve parlare di silenzio, dunque, il primo silenzio resta quello di Dio: né Maria né Giuseppe hanno potuto contare su un “navigatore” sempre in linea che indicasse loro a ogni passo la via di Dio. Sono ancora gli stessi vangeli dell’infanzia a metterci sull’avviso, quando, pur in contesti di visioni angeliche, mostrano sia Maria sia Giuseppe stupiti e

perplessi per gli avvenimenti che stanno succedendo loro e che addirittura non capiscono (cf Lc 2,33.48-50). In altre parole, né a Maria né a Giuseppe sembra essere stata risparmiata la domanda dei profeti e di ogni credente: “Dov’è Dio in quello che ci succede?”, né per rispondere hanno potuto evitare di ripercorrere il lungo cammino di fede dei padri, come del resto i vangeli dell’infanzia con il loro linguaggio biblico di nuovo suggeriscono. Le esperienze di fede dei padri, testimoniate dalle Scritture e ascoltate ogni sabato in sinagoga, sono state e hanno continuato a essere per Maria e Giuseppe angelo e sogno per camminare nella via della fedeltà a una parola che ciascuno di essi, nel proprio modo di uomo e di donna reciprocamente promessi, o “parlati”, letteralmente prendeva con sé.

GIUSEPPE E MARIA: IL RACCONTO DELLA COSTOLA, E FALSIFICAZIONI SUCCESSIVE 1) Un moderno vangelo apocrifo dell’infanzia. Diverse tradizioni ebraiche stabilivano diversi giorni per

la celebrazione dei matrimoni, dandone ogni volta motivazione particolare. La tradizione che riservava al mercoledì il matrimonio di una coppia di novelli sposi dipendeva dal fatto che il giorno dopo, il giovedì, si riuniva il tribunale, ed eventualmente lo sposo avrebbe potuto subito portare in giudizio la donna per sciogliere il matrimonio se non fosse stata trovata vergine.

Erri De Luca, nel suo libro In nome della madre (una specie di moderno vangelo apocrifo sulla nascita di Gesù), costruisce il seguente dialogo tra Maria e Giuseppe, quando egli è appena rientrato dicendole di aver pagato il doppio del normale per aver a tutti costi voluto che il loro matrimonio si celebrasse di mercoledì.

Maria: Alla fine del racconto l’ho rimproverato con il sorriso per la spesa in più. «Non era lo stesso, un giorno o l’altro?»

Giuseppe: «No, Miriàm, noi siamo nel giusto. Tu sei vergine e io sposo una vergine di mercoledì. E dimostro che del tribunale del giovedì non so che farmene.»

Maria: «Da una parte noi, dall’altra tutti loro, una delle due dev’essere nel torto, Iosef. Siamo nel giusto, ma è possibile che tutta la comunità sia nell’errore?» Lo dicevo non per un dubbio, ma per ascoltarlo.

Giuseppe: «Nessuno ha torto, Miriàm. Il fatto è che tu sei la più speciale eccezione e loro non hanno cuore sufficiente per intenderla e giudicarla. È una faccenda che ha bisogno di amore a prima vista, mentre loro s’ingarbugliano sui codici, le usanze. Per loro tu sei pietra d’inciampo, per me sei la pietra angolare da cui inizia la casa.»

Maria: Iosef con il suo esempio prova a spiegare l’amore alla legge. «Da dove prendi la forza di stare da solo contro tutti, Iosef?»

Giuseppe: «Da te», risponde. 2) La tranquillità della Legge e il rischio dell’Amore. Giuseppe, uomo giusto, pensava di ripudiare

Maria in nome della Legge, ma l’Angelo del Signore lo incarica di una vocazione contraria. Anche la Legge veniva da Dio, e i rappresentanti della Legge restano con la Legge: si prendono la parte sicura. “Da una parte noi, dall’altra tutti loro: una delle due deve essere nel torto”. Ma è dalla medesima Legge che Giuseppe, uomo giusto, ha imparato ad amare, ancora prima che dagli Angeli: Padrone della forza, tu giudichi con mitezza… Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento (Sap 12,18-19).

Giuseppe ama Maria e trova in lei la forza di stare da solo contro tutti, ma senza giudicare nessuno. Ama quelli che si ingarbugliano sui codici perché li vede incapaci di amare, e inciampano sulla pietra che per lui è invece pietra angolare. L’insegnamento quotidiano della Scrittura ascoltata in sinagoga con la voce straordinaria dell’Angelo sentita in sogno, danno ora a Giuseppe la forza di amare in modo sovrabbondante rispetto alla Legge, perché sovrabbondante questo stesso amore egli se lo sente restituito da Maria, aiuto simile di fronte a lui, concretissima pietra angolare da cui inizia la casa.

3) Le falsificazioni religiose: dagli “aiuti simili-di fronte” alle “divisioni/concorrenze”. Da sempre, fin

dal vero primo racconto biblico della costola (Gen 2,18-24), il rapporto tra uomo e donna è stato pensato nella Bibbia come un aiuto reciproco per vivere secondo un rapporto di somiglianza con un Dio che abbandona la via della perfezione autosufficiente per inaugurare la via del perdere e riavere, anticipando amori fino alla fine che ogni dono e ogni abbandono trasformano in sorgente di desiderata unità e di vita risorta. La cosa strana è che a partire da alcuni antichi presupposti patriarcali, nel mondo religioso soprattutto della Chiesa romana, ha prevalso invece una mentalità negativa e di sospetto, tanto da far pensare il rapporto uomo-donna in concorrenza e contro il rapporto con Dio.

Succede così, per fare solo un esempio, che nella pagina della Prima lettera ai Corinzi letta recentemente nella Quarta Domenica B (1Cor 7,32-35), le traduzioni correnti introducono del tutto abusivamente una specie di incompatibilità ontologica tra il rapporto uomo-donna e il rapporto persona umana-Dio. Generazioni di persone religiose sono cresciute pensando che Paolo abbia detto che la persona sposata si trova divisa tra l’amore del compagno o della compagna e l’amore di Dio, e per conseguenza hanno pensato che per darsi tutto/tutta a Dio bisognava ovviamente non solo scegliere la via del celibato e della verginità, ma anche escludere sempre e in tutti i modi ogni relazione che in qualche modo ricordasse il sapore gustato della reciprocità. Ora, basterebbe leggere il greco senza precomprensioni ideologiche (perché di ideologia si tratta e non di esegesi o teologia), per accorgersi che la sintassi, la grammatica e lo stesso stile di Paolo

obbligano a tradurre nel modo che segue: 32Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie. 34E si differenzia allo stesso modo anche la donna: la donna non sposata (vedova), come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. 35Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza distrazioni.

Paolo ha costruito la sua frase in modo perfettamente bilanciato e simmetrico (del resto, sempre egli rispetta le pari opportunità e pari dignità tra uomo e donna, alla faccia di commentatori e traduttori misogini e maschilisti che purtroppo ne hanno divulgato un’immagine tradita simile a loro): prima egli parla della situazione dell’uomo sposato e non sposato, e poi vede la medesima differenza dal punto di vista della donna. In altre parole, la frase che in greco opera simmetricamente il passaggio tra la prima parte e la seconda (“e la stessa differenza esiste per la donna”, kai memèristai kai hê gynè, con due punti dopo gynè) si trova invece tradotta con la ormai famosa espressione “e si trova diviso”, applicata al marito sposato (immaginando un punto dopo il verbo memèristai). Una simile traduzione non trova nessuna giustificazione grammaticale e sintattica. Si introduce così per il maschio (e si noti la mancanza di ogni simmetria per la donna), una specie di “divisione” o “concorrenza” ontologica tra l’amore di Dio e l’amore della sua donna (il cui punto di vista è ovviamente trascurato e filtrato al maschile), tanto è vero che poi la traduzione italiana della Cei 2008 ha peggiorato le cose, sostituendo nel v. 35 il precedente e più corretto termine di “distrazioni” con “deviazioni”, arrivando così infine a qualificare come “deviazione” quel rapporto di amore che in pagine più serene è riconosciuto come “sacramento”. Dai frutti, buoni o cattivi, Gesù disse, si dovrebbe riconoscere l’albero buono o cattivo. A condizione, però, disse anche Gesù, che gli occhi siano limpidi: Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! (cf Mt 6,22 sempre saltato nella letture liturgiche).

Al contrario, nella sua risposta ai fidanzati che gli chiedevano come poteva essere valido nella loro situazione di fidanzamento, per natura provvisoria, il suo consiglio che ciascuno … continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato (1Cor 7,17), Paolo aveva in mente solo un problema di tipo pratico, giustificato soprattutto dall’imminente attesa del ritorno del Cristo.

Mai Paolo poteva pensare che la coppia Priscilla e Aquila, che tanti problemi gli aveva risolto insieme (e quattro volte su sei nomina per prima la donna), fosse una coppia “divisa” tra l’amore di Dio e l’amore reciproco, amori vissuti tutte e due nel servizio davvero totale verso lo stesso apostolo.

E del resto, nel seguito (ma ancora una volta con una traduzione impropria che ora non esaminiamo), Paolo stesso dice che il suo non è un “principio”, e tanto meno “non negoziabile”, ma un consiglio che può essere liberamente disatteso, senza ovviamente pensare che in quei casi Paolo veda messa in pericolo quella fondamentale appartenenza di tutti al Signore, formando un solo spirito con lui, di cui ha parlato appena prima (cf 1Cor 6,12-20, pagina letta nella Domenica III B, di nuovo con traduzioni quanto mai difettose e, queste sì, devianti). Universale appartenenza di tutti al Signore che Paolo aveva immaginato proprio attraverso la forza e la concretezza del legame matrimoniale, dal momento che aveva usato per descriverla esattamente gli stessi termini che il racconto della costola, nella versione della Settanta, usava per l’unione dell’uomo e della donna: chi si incolla (ho de kollômenos) al Signore forma con lui un solo spirito (1Cor 6,17); come in Gen 2,24 si diceva: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà (si incollerà, proskollêthêsetai) a sua moglie, e i due saranno un'unica carne.

4) Una domanda nell’anno dedicato alla vita consacrata: profezia positiva o negativa? Siamo ancora,

dunque, sulla scia del tema che ha unificato le riflessioni bibliche dello scorso anno, e cioè la tensione inclusa nella giustizia sovrabbondante del Vangelo di Matteo, il cui primo esempio è la giustizia sovrabbondante di Giuseppe. La “sovrabbondanza superflua” di cui Gesù parla (e mi piace pensare che l’abbia imparata un po’ dall’esperienza di Giuseppe con Maria), implica la capacità di raggiungere “il fine” e “la fine” della Legge (cf Rom 7), vivendola secondo un Amore che non si lascia ingannare dalla sua “lettera”. In un anno in cui le riflessioni sul cosiddetto “di più” della vita religiosa sembrano prendere qualche direzione di autocompiacimento, aggravato dall’atto pubblico, converrà forse anche interrogarsi se per caso la profezia che si vuole considerare caratteristica della vita consacrata (ma la profezia non è anche tipica di ogni battezzato?), non rischi talvolta di essere negativa piuttosto che positiva. E sarebbe negativa se religiosi e religiose, “assicurando” un proprio cosiddetto e compiaciuto “di più” nell’ambito del “divino perpetuo”, finissero di svalutare di riflesso quegli stessi valori che loro vorrebbero profeticamente

testimoniare come tipici di tutti i cristiani, ma in un ormai riduttivo “umano provvisorio”. Tuttavia, i cristiani che prima venivano detti “semplici cristiani”, ormai divenuti “gente del meno” nell’improvvido confronto gerarchico superiore/inferiore del latino magis (ma anche il plus estensivo sarebbe stato inopportuno), sapranno andare oltre le apparenti gare fuori luogo, e in evangelico gaudio sapranno accogliere profezie purificate da superflui e poco cristiani “di più”. Ancora e sempre “semplici cristiani”, essi saranno consapevoli, per grazia o profezia ricevuta, nel loro sempre provvisorio ma anch’esso inesorabilmente perpetuo presente, umano, certo, ma anch’esso, per interposta incarnazione, divino presente, saranno consapevoli, dunque, di vivere non virtuali o aggiuntive ma ben reali e concrete “ubbidienze, purezze e povertà”, pur senza il “lusso” di particolari voti, consacrazioni o professioni con annesse scelte e selezioni previe, e sempre nei limiti umili, poveri e amanti di chi vive del “semplice” detto evangelico «Si? Si; No? No. Il di più viene dal maligno» (Mt 5,37). Ancora e sempre “cristiani semplici”, con totali “dedizioni”, e perché no?, “dedicazioni”, pur senza cerimonie talvolta a rischio non evitato di autocelebrazione, essi vivono le relazioni umane che tocca loro in sorte di vivere, un po’ per caso e un po’ per circostanze di “incontri” concreti e misteriosamente provvidenziali, e in ogni caso sempre senza troppi diritti di “scelta vocazionale”, ma pur sempre secondo un Amore che, per la sua stessa identica origine e meta, non tollera confronti devianti tra “gente del più” e “gente del meno”.

Antonio Pinna, semplicemente, né più né meno

San Giuseppe “filosofo”: una tradizione pittorica purtroppo dimenticata

1. Nel numero precedente, avevamo fatto riferimento alla Legge come fonte del “sovrappensiero” di Giuseppe, “uomo giusto”, da una parte di interrompere il contratto matrimoniale con Maria, e d’altra parte di non esporla a un processo pubblico. Ciò, dicevamo, sembra equivalere, a osservare la Legge e nel medesimo tempo ad andare “oltre la Legge”. Giuseppe diventava, così, fin dall’inizio del vangelo, il modello del comportamento che il Discorso della Montagna avrebbe proposto a ogni seguace di Gesù: “Se la vostra giustizia non sarà sovrabbondante rispetto a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). Come esempio di una simile corrispondenza-sovrabbondanza, conforme anch’essa alla Legge, citavamo il Libro della Sapienza: «Ma è dalla medesima Legge che Giuseppe, uomo giusto, ha imparato ad amare, ancora prima che dagli Angeli: Padrone della forza, tu giudichi con mitezza… Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento (Sap 12,18-19)».

2. Ora, succede che nell’iconografia di San Giuseppe una tradizione, purtroppo oggi poco conosciuta e forse anzi del tutto dimenticata (anche la Enciclopedia dei Santi. Bibliotheca Sanctorum la ignora del tutto), rappresentava appunto Giuseppe con il libro della Legge in mano o proprio intento a leggerlo, per trovarvi il senso del concepimento e della nascita di Gesù, come appare con tutta evidenza quando la sua figura non è isolata ma fa parte, in genere, della scena della natività o anche della fuga in Egitto.

Rimandiamo, come esempio di immagine isolata, alla parte sinistra di un trittico, conservata al National Gallery e attribuita a Giovanni Battista Moroni (1522-1578), e alla statua di San Giuseppe nella Basilica di Santa Maria Maggiore (Cappella Paolina), di Ambrogio Buonvicino (1552-1622). Come esempi di immagini in cui, invece, la lettura del libro è messa in relazione con i contenuti del quadro, riportiamo il piccolo quadro (35x27, olio su rame) di Francesco Albani (1578-1660), conservato nella Dulwich Pictur Gallery (Londra), dove san Giuseppe sembra anche trovare proprio insieme con Maria il senso delle Scritture che li riguarda. In un altro quadro di G. M. Crespi ((1665-1746), Giuseppe sembra quasi voler verificare ciò che sta leggendo, mentre anche Maria interrompe la lettura del piccolo libro delle sue preghiere.

3. Ci si può chiedere se il testo evangelico di Matteo abbia potuto costituire sufficiente ispirazione per la nascita di questa tradizione pittorica, oppure se sia da supporre qualche altra fonte. Tenuto conto che si tratta di una tipica tradizione rinascimentale, non sarebbe fuori luogo leggere questa tradizione come una tappa nello sviluppo iconografico che vede promuovere la figura di San Giuseppe come modello dell’uomo che cerca il senso degli avvenimenti, facendogli occupare talvolta anche un ruolo di primo piano, mentre era stato nel passato sovente relegato a un ruolo secondario, dietro le preoccupazioni dei vangeli apocrifi che ne sfiguravano in diversi modi l’immagine per salvaguardare l’idea della verginità di Maria.

Non è quindi fuori luogo ricordare, ad esempio, la tradizione antica che sta dietro le parole di San Giovanni Crisostomo nella Omelia Quarta sul Vangelo di Matteo. Preparandosi a sviluppare il contrasto tra il comportamento misericordioso di Giuseppe e le usuali reazioni violente dei mariti gelosi (uno sviluppo che Papa Francesco sembra aver voluto riprendere nell’Angelus del 22 dicembre 2013), il Crisostomo afferma: Hai visto che quell’uomo era filosofo e libero dalla passione più tirannica? In modo significativo, per ciò che ci riguarda circa il rapporto di Giuseppe con la Legge, egli continua citando a conferma le stesse Scritture: Sapete infatti quanto grave sia la gelosia; perciò chi lo sapeva chiaramente diceva: Lo sdegno del marito è pieno di gelosia; non perdonerà nel giorno del giudizio (cf. Pr 6,34), e: Dura come gli inferi è la gelosia (cf. Ct 8,6). Anche noi sappiamo che molti hanno preferito abbandonare la vita piuttosto che cadere nel sospetto di gelosia. In questo caso non c’era nemmeno il sospetto perché il rigonfiamento del ventre lo dimostrava. Ma tuttavia era così puro da passioni che non voleva rattristare la Vergine nemmeno in minima parte. Poiché tenerla in casa sembrava contro la Legge, mentre esporla al biasimo e portarla in giudizio, significava necessariamente consegnarla alla morte, non fa nessuna di queste cose, ma si comporta ormai al di sopra della Legge. Essendo infatti arrivata la grazia, occorreva che ci fossero quindi molti segni di un sistema di vita sublime. Come il sole, anche senza aver mostrato ancora i suoi raggi, illumina da lontano la maggior parte della terra, così anche Cristo, sul punto di sorgere dal seno materno, prima di uscirne illuminò tutta la terra. Perciò anche prima del parto della Vergine i profeti esultavano di gioia, le donne predicevano il futuro e Giovanni Battista, senza essere ancora uscito dal seno materno, sussultava nel suo grembo. Quindi anche Giuseppe mostrava una grande filosofia: non accusò, non insultò, ma cercò solo di rimandarla. [Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo, vol. 1, Introduzione, traduzione e note a cura di Sergio Zincone, Città Nuova, Roma 2003, pp. 87-88].

Francesco Albani, Santa Famiglia (Olio su Rame, 1610 c.)

G.M. Crespi (1665-1746), Santa Famiglia

Giuseppe, figura escatologica del “tempo che viene” 17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare

pieno compimento.18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. 20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

1. Queste parole del Discorso della Montagna (Mt 5,17-20) le abbiamo usate fin dal primo articolo delle

nostre riflessioni per spiegare il senso della “giustizia” di Giuseppe. Egli infatti è detto uomo giusto poiché non voleva accusare pubblicamente la sua sposa e pensava di licenziarla in segreto (Mt 1,19).

L’interpretazione minimale o più economicamente aderente al testo di questa frase è che, volendo da una parte evitare di esporre Maria a pubblico esempio (auten deigmatisai, in Col 2,15 il medesimo verbo è tradotto fare pubblico spettacolo di…), e d’altra parte non volendo concludere il matrimonio con una donna evidentemente colpevole di peccato, Giuseppe sta pensando a una procedura abbastanza privata di ripudio con il minimo indispensabile di due testimoni. In tal modo, egli avrebbe rispettato la Legge e nel medesimo tempo avrebbe agito con Maria nel modo in cui il suo amore gli suggeriva.

Nel primo articolo di un anno fa, parlavamo di “due misure”, della Legge e del cuore, e indicavamo in Giuseppe il modello di quella giustizia sovrabbondante con cui comincia il Discorso della Montagna. Il racconto evangelico mette in evidenza questo aspetto esemplare, senza preoccuparsi di più precise ricostruzioni, come del fatto, ad esempio, che una completa segretezza sarebbe stata del tutto impossibile.

Come punto di partenza di questo articolo, vogliamo ora sottolineare che Giuseppe è sulla via di questa sovrabbondanza già prima del sogno dell’angelo. Egli non solo si dimostra “uomo saggio” che ha imparato l’insegnamento della Sapienza: Padrone della forza, tu giudichi con mitezza… Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento (Sap 12,18-19), ma anche anticipa nei fatti l’insegnamento di Gesù (che paradossalmente si dimostra a sua volta “discepolo” di Giuseppe!): Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa (Mt 12,7). Il sogno dell’angelo non farà che portare a completa maturazione la giustizia sovrabbondante di Giuseppe. E in modo paradossale, proprio quell’amore con cui Giuseppe sta pensando di rispettare una Legge di separazione, di ripudio e di abbandono, sarà dal sogno della rivelazione trasformato in sorgente di una nuova Legge di comunione, di accettazione e di totale presa a carico: Non temere di prendere con te Maria, tua sposa (Mt 2,20). Presa reale che, slegata tuttavia da ogni “stretta” di possesso, concluderà il concepimento con la parola di un nome a seme e frutto sovrabbondante di salvezza: ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù (Mt 2,21).

2. Vediamo però più da vicino,anche se per un aspetto molto limitato, la frase della sovrabbondanza del

Discorso della Montagna. Un primo svantaggio per comprendere bene viene dalla stessa traduzione con il verbo “superare”: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei. L’area semantica del verbo greco perisseuô, in genere usato per tradurre la radice ebraica jtr, è quella della “abbondanza fino allo straripante, fino al super-fluo”, e significativamente tale verbo è usato nei testi escatologici, sia giudaici sia cristiani, per indicare la sovrabbondanza di ogni bene nel “tempo che viene” o nel “regno di Dio”. Mentre la traduzione ormai diventata abitudinaria sembra inaugurare quelle gare religiose di superiorità che hanno portato e portano disastri nella storia, il verbo essere sovrabbondante, vicino del resto al termine regno dei cieli, rafforzato in greco dall’aggiunta del comparativo pleion, trascurato nella traduzione ufficiale, inaugurava invece quella giustizia sovrabbondante-superflua capace di ispirare un modo di vivere i rapporti con gli altri e con Dio fondato non sulla “lettera” della Legge ma sul suo senso profondo così come inteso da Gesù, il Messia, e illustrato dalle antitesi immediatamente successive, a tre elementi: Avete inteso che fu detto… E io in più vi dico … Se però… . Nel vangelo di Matteo, dunque, la storia di Giuseppe che prende, pensa di abbandonare e riprende Maria, appare a buon diritto l’inizio di un “regno” il cui ingresso non sarà misurato sui meriti di chi bussa, ma sulla grazia sovrabbondante di chi apre.

3. Che Giuseppe sia diventato patrono dei moribondi o della buona morte è certo dipeso più dai vangeli

apocrifi che dalla considerazione appena fatta sulla sua giustizia sovrabbondante. Da questo punto di vista, le espressioni “sensibili” della religione popolare possono essere viste come un chiodo su cui appendere, per

conservarli e ritrovarli, quei misteri della fede che attraverso i sensi arrivano ad abitare-rimanere nel cuore, senza che noi troviamo parole più adatte a restituirle. Ma è fuor di dubbio che la figura di Giuseppe, se ben compresa nella sua giustizia sovrabbondante, sia la prima figura escatologica del “tempo che viene”, del tempo che inizia ogni volta che un discepolo accetta di sognare una vita che è possibile vivere in modo sovrabbondante rispetto a ogni contabilità di legge.

A ben pensarci, Gesù ha certo trovato le parole giuste per dirlo, ma forse egli stesso questa giustizia sovrabbondante l’ha prima imparata dal tono di voce con cui Giuseppe è arrivato a pronunciare fin dalla prima volta il suo nome, il nome di “colui che salva”. Pur non volendo aggiungere un vangelo apocrifo ai tanti, mi piace pensare che ogni volta, nel tono di voce di Giuseppe che lo chiamava per nome, Gesù sentisse le emozioni di quella grande scommessa di amore sovrabbondante che lo aveva generato e sempre lo custodiva. Se, come Giuseppe, speriamo anche noi un giorno di chiamare Gesù per nome, e se vogliamo immaginare il tono di voce con cui egli dirà il nostro nome, non abbiamo altra strada che imparare quella giustizia sovrabbondante con cui Giuseppe per primo ha dato nome alla speranza con cui portava a compimento una generazione che non gli apparteneva.

Titolo: Giuseppe e l’Eucaristia.

Sottotitolo: Penultimo dialogo, a voce bassa, con Giuseppe.

Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano:

«Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque

dire: Sono disceso dal cielo?» (Gv 6,41-42).

Cafarnao, “due giorni” dopo / Gerusalemme, “due giorni” prima.

Caro Yoseph-Aggiunto da Dio, il mondo è piccolo, e tra Cafarnao e Nazaret le notizie scendono e salgono

in fretta. Immagino il tuo sconcerto nel sapere che tu, ieri, sei stato tra le cause della nuova incredibile

“discesa in basso” di Gesù. Avantieri, in migliaia, dopo aver mangiato il suo pane, volevano iniziare una

rivoluzione; ieri lo hanno mandato a quel posto, tutti. E non era l’ingratitudine normale di chi prende e poi

scompare. No, è stata proprio una questione di principio, perché anche molti dei suoi discepoli, tornati

indietro, non andavano più con lui. Eccetto il nostro piccolo resto di Dodici. Ti scrivo a nome di tutti loro,

incluso Giuda, per aggiungerti quello che oggi ci sembra di aver capito, rispetto all’ultima volta in cui non

abbiamo avuto il tempo di salutarci a Nazaret. Perché non fu nemmeno quello un giorno finito bene.

A dir il vero, “a capire”, sembrava, a noi, di aver capito. Rimasti soli con Gesù, lui ci ha chiesto se

volevamo “sparire” anche noi. Detto con una parola dura: se volevamo anche noi “farlo fuori”. Ma Pietro,

che ci ospitava a casa sua per rifarci della delusione con uno dei pani avanzati, ha risposto che no, Gesù era

l’unico da seguire, perché avevamo creduto e conosciuto che era lui il Santo di Dio. Un altro ci avrebbe detto

«bravi, voi sì», e molti si sarebbero fermati lì.1 Invece, Gesù ci ha risposto che no, non avevamo capito bene,

perché non avevamo capito tutto, fino alla fine. Così ha aggiunto che non eravamo noi, i bravi, a scegliere

lui, ma era lui, il Santo di Dio, che aveva scelto noi, i Dodici. E con uno sguardo e un tono di voce che ora

vedo e sento senza risentimento, ma con la tenerezza di una scelta che proprio in quel momento si rinnovava,

ha ancora aggiunto: E uno di voi è un diavolo! Così, in quel momento, mentre qualcuno molto umanamente

stava per tradirlo e “farlo fuori”, ho cominciato a capire che lui, il Santo di Dio, già ci amava fino alla fine,

ci accettava, anzi ci sceglieva di nuovo, come eravamo, senza pretendere di vederci più avanti: Per ora non

puoi seguirmi; mi seguirai più tardi, dirà a Pietro, ma vedendo tutti noi nei suoi tre rinnegamenti.

È in quel momento, Yoseph-Aggiunto da Dio, che mi sono ricordato di te. E ho capito che tu con Maria

(conosciamo il padre e la madre, avevano detto), con la vostra storia tanto umana, non eravate ostacolo, ma

via per capire bene, nel senso di capire tutto, fino alla fine. Ho capito che anche noi, come chi si allontanava

da Gesù, rischiavamo di fare lo stesso errore, pur credendo di avvicinarci: volevamo una scorciatoia per il

cielo, per un posto alla destra. Proprio come i tanti che se n’erano andati, convinti di aver imparato dai nostri

padri nel deserto a riconoscere un pane dal cielo… Come Nicodemo, che era venuto anche lui convinto di

aver capito bene perché riconosceva segni celesti (noi sappiamo che tu sei venuto da Dio come maestro,

perché nessuno può fare i segni che tu fai se Dio non è con lui), mentre poi sarebbe passato a capire che

bisognava ascoltare bene (La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato?), per arrivare,

fino alla fine, a seguire Gesù quando non c’era più niente da seguire, ma solo da seppellire un sogno, senza

più segni dal cielo. Ma sarà proprio Nicodemo con Giuseppe di Arimatea a porre allora un “segno dalla

terra”, ma che avrebbe parlato di cielo: per seppellire Gesù sceglieranno un giardino, e nel giardino un

sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto… Là dunque posero Gesù.

Quel giardino e quel sepolcro nuovo sono, in realtà, il “luogo” da cui ti scrivo, nel medesimo tempo a

Cafarnao, “due giorni dopo”, e a Gerusalemme, “due giorni prima”.

Indovino, però, caro Yoseph-Aggiunto da Dio, ciò che tu, come in quei giorni a Nazaret, letteralmente tra

coraggio e sacrificali fumi d’ira, stai rimuginando: «Ma che c’entro io in tutto questo? Ho di nuovo

l’impressione che il mio destino sia quello di essere protagonista di storie che sognavo diverse. E non è facile

nemmeno per me, e nemmeno oggi, accettare che una storia con ali d’angelo avanzi invece con il bastone di

uno zoppo. Davvero, questa parola è stata dura, anche per me».

Proprio questo, caro Yoseph-l’Aggiunto, stavo cercando di dire, e non trovavo le parole. Anche tu hai

rischiato di “far fuori” Maria, in nome di una Legge venuta dal cielo. Poi hai capito che viene dal cielo anche

1 Infatti, i “cristiani”, quando leggono in modo ufficiale questa pagina, saltano in un modo incredibile proprio la

risposta del “loro” Cristo. E la maggior parte non si accorgerà nemmeno di ciò che le hanno tolto (cf vangelo della

Domenica XXI, Anno B, letto il 23 agosto scorso).

l’amore, perché in cielo può ri-portare, per stare alla destra, ma solo se riconosce un “corpo disceso”, un

“corpo deposto”: E se vedeste il figlio dell’uomo salire la dov’era prima… Parole che sembrano strane, ma

che percepisco come un frammento di “dialogo familiare” tra te e Maria, con Gesù che origliava… Perché tu,

questo pane-corpo disceso-deposto lo hai riconosciuto tuo figlio nel corpo di Maria. Era per noi necessario

sapere ciò che tu stavi rimuginando, era per noi necessario sapere ciò che i discepoli stavano mormorando:

era per noi necessario prendere atto di come nella nostra vita siamo dei “buttafuori” in nome di Dio. Era per

noi necessaria questa parola dura, parola tuttavia capace di “trasformarci” proprio nel momento in cui

riconosciamo il nostro peccato: se ci riconosciamo come gente che mangia la tua carne e beve il tuo sangue,

gente che “fa fuori” commensali perché crede così di essere giusta. Non è facile accettare questo “invito”,

riconoscersi “novizi” di questa “vocazione di realtà”, e così, invece di lasciarcene trasformare, lo abbiamo

trasformato in mistero incomprensibile, occasione per contarci ed escludere, invece che per lasciarci contare

e includere tutti nella sua rete che non si squarcia, piena di 153 bei pesci.

Così, caro Yoseph-l’Aggiunto, ho capito che tu con Maria non siete l’ostacolo, ma la via per capire tutto,

fino alla fine. Sto comprendendo, caro Yoseph, che tu non sei colui a cui è stato tolto qualcosa, che tu non sei

il Sottratto, ma L’Aggiunto: come le due gocce d’acqua che aggiungo ogni alba eucaristica per riempire il

calice della memoria, dal quale le attingo “trasformate” in vino nuovo, per una giustizia più grande, una

giustizia sovrabbondante, proprio perché anche, nel medesimo tempo, una giustizia superflua.

Devo finire, caro Yoseph-l’Aggiunto, ma ne riparleremo un giorno, per aggiungere ciò che non abbiamo

ancora capito fino alla fine…, o per essere anche noi “aggiunti”. E sarà, in fine, il terzo giorno.

Antonio Pinna