Il mio Salgari - La Repubblica
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DOMENICA 23GENNAIO 2011/ Numero 310
DomenicaLa
di Repubblica
i sapori
Viva i broccoli venuti dal freddoLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI
l’incontro
Fabri Fibra, “Sono un mito da abbattere”ERNESTO ASSANTE
cultura
Halter, storia delle storie degli ebreiPIETRO DEL RE
l’immagine
L’uomo che ha disegnato New YorkANGELO AQUARO
PACO IGNACIO TAIBO II
Nonspaccerò queste nuove avventure delle Ti-gri della Malesia come il prodotto di un re-cente ritrovamento di opere frammentarieincompiute di Emilio Salgari vendute a suotempo dagli eredi, in seguito al marasma fa-miliare causato dal suo suicidio, a un italo-si-
riano di nome Ibrahim Brambilla che gestiva un banco deipegni in Milano, e che poi le dimenticò in un baule deposi-tato in una vecchia caserma dei pompieri di qualche cittadi-na della Liguria, dove aveva una cugina sposata con un vigi-le del fuoco, e dopo tanti anni le avrei infine scoperte io conl’aiuto di un prete di sinistra che mi aveva invitato a tenereconferenze sulla situazione in Messico e sugli zapatisti.
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spettacoli
A Hollywood la pausa è d’autoreSILVIA BIZIO e DARIO PAPPALARDO
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PACO IGNACIO TAIBO II
Il mio Salgari
Nel centenariodella mortedel padredi Sandokan,l’omaggiodi un grande allievo:le Tigri sono tornate
ERNESTO FERRERO
Adesso che ci accingiamo a ricordare i centoanni della scomparsa (25 aprile 1911, con unsuicidio degno di un samurai), possiamo ve-dere ancora meglio come per quasi un seco-lo i romanzi di Emilio Salgari abbiano lascia-to in generazioni di italiani un imprinting in-
delebile: il big bang di un’emozione che verrà ricordata nel-l’età adulta con commossa gratitudine da scrittori come Pa-vese, Parise, Pontiggia, Citati, Eco, Magris… Un Paese pove-ro, immobile, depresso e represso, che fatica a tirare avanti,con lui poteva liberare fantasie archetipiche in cui le gioiedell’esotismo si accompagnano al sogno di quello che ognu-no vorrebbe essere.
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Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23GENNAIO 2011
Paco & Salgari
Ritorno a Mompracem
L’amore per l’avventura, l’anticolonialismo, la fantasia, la forzarivoluzionaria: ecco perché Paco Ignacio Taibo II ha riscritto “Le tigridella Malesia”. Senza viaggiare, inventando, leggendo, raccogliendomigliaia di notizie. Proprio come faceva lo scrittore veronese di cui cadeil centenario della morte.Pubblichiamo un’anticipazione del romanzo:il tributo a un uomo che fece sognare gli altri ma non se stesso
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Niente di tutto questo. Si tratta in definitiva,schiettamente, di un pastiche salgariano,risultato dalla congiunzione tra una assiduavocazione letteraria per il romanzo d’av-ventura e la mia passione infantile per ilmaestro della narrativa d’azione, coltiva-
te in tanti anni, che hanno avuto origine in un bambi-no malaticcio e felice in una società repressiva e sen-za televisione e si sono consolidate in un adole-scente attivo nelle lotte politiche e sociali deglianni Sessanta avvalendosi del codice etico deitre moschettieri, dell’atteggiamento impa-vido di Robin Hood e dell’antimperiali-smo di Sandokan.
Quando ho deciso di scrivere questenuove avventure, mi sono arrovellatoper almeno un anno, dopo alcunestimolanti conversazioni con i mieieditori, Anne Marie a Parigi e Mar-co a Milano, su come ridare vitaalla saga salgariana. Sarei potutosalire su un aereo per Los Ange-les e da lì per Singapore e rag-giungere il luogo di ambienta-zione in meno di venti ore dal-la mia abituale base di Città del
nella Storia. Il punto di partenza era Emilio Carlo Giusep-pe Maria Salgari, nel suo umile studio di Torino, intento ascrivere sulla sua scrivania portatile, con l’inchiostro cherealizzava personalmente, perseguitato dai creditori, co-stretto a produrre ventidue cartelle al giorno, avvalendosidi mediocri enciclopedie, improbabili carte geografiche ecarenti dizionari, ma soprattutto di una superba, meravi-gliosa immaginazione e un portentoso talento di affabula-tore.
Gran personaggio, l’Emilio: suicida, figlio di suicida, pa-dre di suicidi. Nato nell’agosto del 1862 a Verona. Occhidolci, sguardo triste. Piccoletto, poco più di un metro emezzo d’altezza. Baffi neri con le punte all’insù. Tenace ci-clista amatoriale, ginnasta. Chiamato dai detrattori «Falsocapitano» o «la Tigre della Magnesia». Accanito protagoni-sta di duelli. Sposato con Ida (o Aida), che soffriva di malat-tie nervose, triste e depressa. Padre di Omar, Nadir, Rome-ro e Fatima. Inventore di false autobiografie, di storie sulleproprie esperienze marinare, che non ebbe mai, a parteuna breve traversata sull’Adriatico. Massacrato dalla criti-ca acculturata, castigato da insegnanti e professori orto-dossi, paragonato svantaggiosamente con Verne (che noiaVerne, con le sue pretese pedagogiche ed esplicative), be-nedetto dai lettori giovani e giovanili, vittima di un tentati-vo di sequestro da parte della retorica mussoliniana checercò di impossessarsi dello scrittore e dei suoi personag-gi. Assurdo: cosa avrebbero fatto le Tigri o gli eroi filippini oil Corsaro Nero di fronte ai deliri imperiali di Mussolini? Dache parte sarebbero stati gli eroi salgariani nella guerra co-
Messico, per poi dedicarmi a osservare, prendere appuntisul paesaggio, raccogliere storie locali; sarei potuto andarea Londra a trascorrere un paio di mesi al British Museumper studiare i resoconti dei coevi sulle guerre dell’imperocontro i pirati malesi e la vera storia del rajà Brooke; avrei
potuto sfruttare il mestiere di storico per addentrar-mi nel periodo a metà del Diciannovesimo
secolo allo scopo di approfondire ilcontesto e aggiungere conoscenze
erudite su imbarcazioni, vegeta-zione, monete, gioielli, libri, ve-
stiario. Ero tentato di farlo.Alla fine sono tornato al
punto di partenza, chenon era nel Borneo, in
Malesia o nella mitica eormai inesistente iso-
la di Mompracem(identificabile nel-l’odierna Kera-man, da dove miavevano portatoun vasetto disabbia aggiun-gendo che erapoco più di unoscoglio); e nep-pure al BritishMuseum o
PACO IGNACIO TAIBO II
la copertina
IL LIBRO
Uscirà il 27 gennaio
il “sequel” salgariano scritto
da Paco Ignacio Taibo II
Edito da Marco Tropea,
si intitolaRitornano le Tigridella Malesia (352 pagine,
16,90 euro). Presentazione a
Roma mercoledì alla Libreria
Feltrinelli di Piazza Colonna
alle 18 e a Milano
il 2 febbraio, alla Feltrinelli
di Piazza Piemonte
alle 18,30
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 23GENNAIO 2011
Ovviamente ho inventato tutto quello che ho potuto: pian-te e animali, villaggi, e anche strumenti e meccanismi. Hopersino cannibalizzato alcuni capitoli del mio romanzo Aquattro mani.
Mi sono preso soltanto un paio di libertà in più rispetto aquelle già elencate: esplicitare la tensione politica e la pul-sione anticolonialista delle avventure delle Tigri (all’origi-ne del mio antimperialismo, che indubbiamente si nota eche ha un sapore salgariano e non leninista) e andare oltreil progetto originale, decisamente intrappolato nelle con-venzioni della letteratura per ragazzi ottocentesca a cuiSalgari non poteva sfuggire. Questo significa tra le altre co-se l’uso di nuovi insulti e vecchie descrizioni amorose. Co-me non integrare il Kamasutra in una saga salgariana? Co-me lasciarne fuori Friedrich Engels e la Comune di Parigi?
In un sondaggio effettuato tra giovani lettori italiani po-co dopo la morte del maestro, all’inizio del Ventesimo se-colo, un paio di loro spiegava perché lo leggevano di na-scosto, disobbedendo gli imperativi dei genitori: «Scalda latesta», «eccita i nervi». Spero che l’effetto continui a esserelo stesso, anche nell’era del Discovery Channel. Infine, de-vo confessare che sebbene mi sembrasse un libro di facilestesura, non lo è stato affatto. Ma che mi sia enormementedivertito, questo sì.
Traduzione di Pino Cacucci© 2010 Paco Ignacio Taibo II
© 2011 Marco Tropea Editore Srl
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© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Gli antieroi ribellidel capitano triste
ERNESTO FERRERO
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Il piccolo giornalista veronese, improvvisatosi narratored’appendice per uscire da un destino mediocre, ha regalatoai lettori d’ogni età (donne incluse) il destino epico che avreb-
be voluto per se stesso. Non si sentiva superiore al lettore, nonaveva messaggi da lanciare. Usava un linguaggio convenziona-le, che è poi quello enfatico dei libretti d’opera, perfetto peresprimere sentimenti stilizzati. Forse solo un sedentario potevaavere così forte un senso quasi futurista dell’azione, del movi-mento, della velocità, della bellezza del gesto.
Salgari entusiasma anche perché esce da ogni schema, è po-liticamente scorretto. I suoi cieli sono vuoti, l’ammirazione perle meraviglie della Natura non presuppone l’esistenza di unCreatore. Il trascendente è rigorosamente assente: nessuno pre-ga o si raccomanda a dio nemmeno nei momenti di massimo pe-ricolo. I suoi eroi sono l’esatto contrario del perbenismo bor-ghese caro a De Amicis. Passionali e violenti, dediti a sogni divendetta con i quali vorrebbero ristabilire una giustizia violata,non rispettano alcuna legge umana. Nemici di ogni mediazio-ne, vivono in un mondo darwiniano dove vale la legge del più for-te, anche se portano con sé i valori della lealtà e del coraggio. Sal-gari avversa il colonialismo perché bisogna pur trovare qualcu-no per la parte del villain, ma i suoi oppressi non sono dei marxi-sti, non elaborano una coscienza di classe: hanno bisogno dellaguida di un eroe, di cui restano i sodali obbedienti e fedeli finoalla morte.
Salgari non può piacere nemmeno ai capitalisti, che fiutano ilpericolo costituito dalle masse di invasati pronte a rovesciarsisull’ordinato mondo occidentale. Disprezza i grandi ricchi, le lo-ro fortune sfacciate, l’idea stessa di profitto. L’oro per lui è un te-soro da accumulare in forzieri kitsch per potersene vantare conla bella di turno, non un capitale da investire e far fruttare. Le me-raviglie della tecnica non lo incantano, perché finiscono permettere in secondo piano le qualità dell’uomo. Giudica rozza latecnologia dell’automobile perché troppo puzzolente, rumoro-sa e pericolosa; predice che un abuso di consumi elettrici ren-derà gli uomini isterici, anzi folli.
In un’Europa serenamente razzista, la quale ha già difficoltàad ammettere che i neri abbiano un’anima, Salgari inscena connaturalezza unioni multirazziali: l’abbronzatissimo maleseSandokan conquista la nobile anglo-partenopea Marianna.Non il sangue conta, ma le virtù eroiche. Vaccino perfetto con-tro ogni forma di razzismo, i suoi romanzi non abbelliscono i pri-mitivi, di cui registrano impassibilmente efferatezze e crudeltà.
Salgari è pre-storico, pre-politico, pre-tutto. Racconta un’e-terna giovinezza allo stato puro, ebbra della sua forza e del suosangue caldo, portata alla semplificazione, che si sente viva so-lo nel furore della battaglia. Invano il fascismo cercherà di an-netterlo. Impensabile un Sandokan che baratta la bandiera ros-sa con la tigre per la camicia nera. Autodidatti della guerriglia, isuoi tigrotti suonano, cioè combattono, a orecchio.
Naturalmente Salgari non poteva piacere al mondo dellascuola, perché scaldava le giovani menti, scriveva di fretta, sen-za troppo badare alle incongruenze e alla sintassi, utilizzandoun linguaggio artefatto. Colpevole dell’immenso successo cheha avuto, è stato escluso sprezzantemente dalle storie letterarie,anche da quelle più aperte al nazionalpopolare e alla sociologiadella lettura.
In America Latina lo hanno adorato quanto in Italia. Il vecchioBorges si intenerisce al ricordo di un Corsaro Nero avuto in re-galo a cinque anni: altro che Verne! Il giovane Ernesto Guevara,questo Sandokan argentino, è diventato il Che su una sessanti-na di romanzi del veronese. Giustamente Emanuele Trevi hascritto che il diario boliviano del Che è tragicamente, perfetta-mente salgariano. Luis Sepúlveda e Paco Ignacio Taibo II, an-timperialisti in servizio permanente, sono dei tigrotti letterari,forse i veri eredi del Nostro. Nel suo divertente e divertito pasti-che, in cui compaiono a sorpresa Pascal, Doré, Quevedo, Engelse Kipling, Taibo fa dire a Sandokan che sarebbe inutile rico-struire Mompracem: meglio che ognuno la edifichi dentro di sécome idea, come mito di libertà in un oceano di padroni e dischiavi. La battaglia continua. Anche se gli imperialisti sonosempre in agguato, «questi poveri imperi governati da imbecil-li non possono uccidere un mito». Anzi, il mito per eccellenza.
Di Ernesto Ferrero uscirà il 5 aprile per Einaudi Disegnare il vento. L’ultimo viaggio
del capitano Salgari
loniale in Abissinia? E allora? Alla maniera di Salgari, mi so-no detto: immaginazione, pessime enciclopedie e tanta in-ventiva, atlanti mediocri e buoni personaggi; anacronismi,spropositi con abbondante disinvoltura e ancor più ab-bondanti passioni. Non si trattava di compiere ricerche suun mondo, ma di reinventarlo. È stata ovviamente neces-saria una meticolosa rilettura della saga salgariana di San-dokan, Yanez, Tremal Naik e Kammamuri e del seguitoscritto da Luigi Motta; una profonda immersione nello sti-le e nella struttura narrativa. A Salgari devo non solo i per-sonaggi, ma molte frasi, descrizioni, modi di vedere, ma-nie, ossessioni. Mi sono imbattuto in una difficoltà prati-camente insormontabile, dovevo trovare uno stile narrati-vo dal sapore ottocentesco, ma che snellisse la narrativaconvenzionale e l’eccesso di dialoghi formali; forse è pro-prio dovuto a tale ricerca il fatto che ci abbia messo tanto ascrivere questo libro e che debba molto a Victor Hugo, Emi-le Zola e Eugène Sue.
Ho frugato nelle enciclopedie, nei libri di viaggi, nei ma-nuali di zoologia, nei testi scolastici di biologia di mia figlia,in quelli di Pepe Puig sulle imbarcazioni e ci ho trovato piùdi quanto avessi bisogno; ho messo assieme una collezio-ne di francobolli con giunche, elefanti, nativi delle isole del-la Sonda, pagode e divinità indù, palazzi laotiani e dirigibi-li; ho assimilato libri di viaggio, scritti di Darwin, Russel,Magellano, Malinowsky, cataloghi di armi e romanzi diConrad e Multatuli; guide turisti-che e strane risposte ad ancor piùstrane domande su Internet.
Repubblica Nazionale
NEW YORK
Se siete a New York, e nella metropo-litana alzate gli occhi cercando il se-gnale per Brooklyn, quello è Massi-mo Vignelli. Se siete arrivati fin qui
con un volo American Airlines, quello è Massi-mo Vignelli. Se bazzicate nell’Upper East Side,e nella bramosia delle compere finite da Bloo-mingdale’s, quello è Massimo Vignelli. Se inve-ce vi basta l’inseparabile golf Benetton, beh, an-che quello è Massimo Vignelli. Se siete tornati aRoma, e nella stazione Termini cercate il segna-le di uscita, quello è naturalmente Massimo Vi-gnelli. Poi, certo, se siete così fortunati da avereuna Thema, o ricordate ancora la prima voltache avete invitato la fidanzatina sulla Ypsilon,anche quello, sì, anche il restyling del logo Lan-cia è Massimo Vignelli. E se dalla libreria di fa-miglia, giusto per darvi quell’aria radical chic,tirate giù la Storia del movimento operaio,Edouard Dolléans, Biblioteca Sansoni, 1963,ok, sarà Massimo Vignelli. Oh: ma non era mor-to, Marx? Ad ogni modo: se pensate di poter ela-borare il lutto con una bella Falanghina di Feu-di di San Gregorio, sappiatelo — anche quella èMassimo Vignelli...
Dall’alto dei suoi ottant’anni, il milaneseMassimo Vignelli ha disegnato davvero il mon-do che ci gira intorno. Loghi su loghi. Insegne.Mobili. L’università di Rochester, New York, gliha prelevato l’intero archivio e l’ha catalogatocome fosse Leonardo. Gli ha chiesto, in cambio,di poterlo utilizzare nei corsi della School of De-sign. E di realizzare, lui stesso, l’edificio del mu-seo: il Vignelli Center for Design Studies. «Ri-
cordo ancora il giorno in cui portai gli schizzidelle nuove copertine alla Sansoni, mezzo se-colo fa», dice l’architetto rimettendo in ordinela scrivania della sua casa-ufficio sull’Upper Ea-st Side, il catalogo dell’Olio Carli — bandiera d’i-talianità a Manhattan — che spunta sotto il dvddi Helvetica, il documentario di Gary Hustwit dicui Vignelli è il mattatore. «Un libro, dissi, è co-me una scatola di saponette: quello che conta èla copertina, l’impatto, la capacità di lanciare ilconcetto di brand. Benedetto Gentile, che allo-ra guidava la casa editrice, si mise le mani nei ca-pelli. E figuriamoci: Benedetto, il figlio di Gio-vanni, il filosofo dell’idealismo». E teorico delfascismo. Benedetto si arrese. E per la prima vol-ta in Italia un editore pubblicò i libri con il titoloche invece che da sinistra a destra andava dal-l’alto in basso. Il nome dell’autore grande quan-to quello del saggio. Rigorosamente in Helveti-ca: il carattere (tipografico) che resterà indisso-lubilmente legato al marchio Vignelli.
Se gli chiedi di rivelarti il segreto del bravo de-signer, il maestro sfodera il tris che adesso inse-gnano a Rochester: History, Theory, Criticism.Storia, teoria e senso critico. Storia, soprattutto.Perché prima del nero su bianco a testa in giùper la Sansoni, per esempio, c’era il nero subianco di Albe Steiner sui Gettoni, intesi comecollana libraria, che Elio Vittorini faceva circo-lare per Giulio Einaudi. Ma quello che ha distin-to e distingue Vignelli dagli altri navigatori del-la grafica e del design è una scoperta fonda-mentale: la scoperta dell’America. È il 1965quando decide di chiudere bottega a Milano.Per carità. Lì le cose andavano benissimo: Oli-vetti, Pirelli, Rank Xerox. Ma Vignelli ce l’avevanel destino di dover saltare dal treno in corsa.Forse perché è nato in via San Gregorio, tra i
ANGELO AQUAROgiardini di via Palestro e la Stazione Centrale.Forse perché la voglia di fuggire ce l’aveva fin dabambino: «Mio papà voleva che continuassicon la bottega di famiglia, una piccola industriachimica, ma a me solo l’odore di fenolo facevastare male». A quattordici anni già ricopia i boz-zetti dei grandi con l’abilità di un copista me-dioevale. Fa il liceo artistico. Si iscrive al Politec-nico, Architettura, ma poi punta subito a Ca’ Fo-scari, Venezia. Entra nella bottega di un grandecome Achille Castiglioni: «Tiravo linee, tiravo li-nee, tiravo linee». Si sbatte come un pazzo perErnesto Rogers, il genio che con Banfi, Barbia-no di Belgiojoso e Peresutti darà vita al miticoBBPR che farà nascere la Torre Velasca.
Proprio per consegnare una lettera di Rogersil giovane Vignelli bussa un giorno a una casa diPorte Molitor, Paris. «Ero così emozionato chesbaglio entrata e salgo dall’ascensore di servi-zio. Finisco diritto in cucina con la moglie chemi urla in faccia dallo spavento. Chiedo: ho unappuntamento col maestro. E lei mi chiama LeCorbusier». Le Corbusier! «Il mito della mia vitami introduce in quell’appartamento che cono-scevo a menadito: l’avevo studiato milioni divolte sulla mappa. Qui si gira a destra, qui la sca-la a chiocciola che porta allo studio, da qui si vaper il salone. Sapevo già tutto. Il rock dovevanoancora inventarlo ma io ero già un groupie: unfan scatenato dell’architettura».
Vince una borsa di studio per una scuola d’ar-te di Boston. L’America alla fine degli anni Cin-quanta è davvero una New Frontier. Che Vi-gnelli affronta con la donna che gli sarà vicinoper tutta la vita: una compagna di scuola e di ar-te chiamata Lella. «Ci eravamo sposati prima dipartire. Eravamo caricatissimi. Un anno a Bo-ston, poi a Chicago, che allora era una sorta di
L’uomo che ha disegnato New York
l’immagineSegni dei tempi
In Italia il suo nome ai più non dirà granché, ma l’Americalo ha appena festeggiato per i suoi ottant’anni. PerchéMassimo Vignelli, milanese, è il designer che ha creatola grafica del metrò più famoso al mondo e poi mille altrimarchi ancora. Lo abbiamo incontrato nel suo studiodi Manhattan: “Ora mi manca solo il brand del Vaticano...”
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Repubblica Nazionale
Bauhaus in esilio, con tutti i maestri finiti lì». Fi-nisce, però, anche quell’avventura. Scade il vi-sto e i Vignelli tornano a Milano. «Una mattinadi ferragosto 1960: non la dimenticherò mai.Corso Magenta un deserto: nemmeno un’auto,un tram, un passante». Tranne Giuseppe, l’a-mico Giuseppe, Giuseppe Trevisani, il giornali-sta e grafico che disegnerà il manifesto e cam-bierà il volto ai giornali italiani. «Mi dice: c’è unagrande compagnia che cerca un design, un gra-fico. Io: perfetto. Studio bellissimo dietro SanBabila. Stipendio da favola. Lavoro zero. Dopotre mesi non reggo e presento le dimissioni. Equelli: ecco la sua liquidazione. Non ci volevocredere. Scendo giù in strada, giro per via Duri-ni, e lì dal concessionario c’è un’Alfa Spider ros-sa con interni neri che mi guarda: la prendo.Torno a casa e mi presento a mia moglie. “Ci so-no tre novità. Una, mi sono licenziato. Due, ab-biamo una Spider. Tre, apriamo finalmente ilnostro studio”. La povera Lella era lì che butta-va la pasta e comincia a piangere che non lasmette più».
È il contrario della “Legge di Mike” che Erne-st Hemingway svelò in Fiesta: «Come hai fattoad andare in rovina?» «In due modi: gradata-mente prima e poi tutto d’un colpo». MassimoVignelli gradatamente è cresciuto a Milano. Epoi, tutto d’un colpo, ha conquistato l’America.«Nel 1965 rifacciamo le valigie. Avevamo già fat-to qualche mostra grazie ai nostri amici di tantianni prima: funzionava. Abbiamo detto: pro-viamo». Da allora Vignelli ha disegnato di tutto.Superando mode e contestazioni per ritrovarsidopo mezzo secolo ancora all’avanguardia. Infondo le linee asciutte dell’iPhone e dell’iPadche svettano sulla scrivania sono scuola sua. Havinto il suo minimalismo: e non i fronzoli degli
anni Ottanta. «Apple è l’Olivetti del Duemila.Una stessa linea per i prodotti, i negozi, tutto.No, io non disegno con il computer: per me è piùveloce la matita, a quest’età dovrei ricomincia-re a studiare tutto. Però, vede, se schiaccio qui,ecco, questo è il Vivaldi che ho registrato dal miogiradischi. Questo crac crac? No, questo è unoStravinski originale. Stravinskj che dirige Stra-vinskj. C’è un programma che ti toglie anche ilfruscio. Ma toglieresti il fruscio a Beethoven?».
Il computer non lo spaventa, anzi. «Ma non èuna sfida per me». Eppure quando ha deciso disintetizzare la sua esperienza s’è buttato, a sor-presa, proprio sul libro elettronico. The Vignel-li Canon è uscito online due anni fa: trecento-mila clic nel primo mese. «E quale editoreavrebbe potuto assicurarmi un simile exploit?L’hanno scaricato perfino in Russia; vuole ve-dere la traduzione in cirillico?». L’altro giornoera all’Apple Store a portare a riparare il porta-tile. Il ragazzo ha preso il nominativo. «Dico:Massimo Vignelli. Lui: quel Massimo Vignelli??Per me è stato l’onore più grande: non sono mi-ca un attore famoso». Non sarà un attore ma al-la festa a sorpresa per i suoi ottant’anni il NewYork Times ha dedicato una pagina intera.Embé. Tra gli invitati allo showroom di Poltro-na Frau, nel cuore di Soho, c’erano RichardMeier, l’archistar, Milton Glaser, quello del logoI love New York.
Maestro, può bastare? Si ferma. Sorride: «Or-mai c’è solo un brand che mi piacerebbe ridise-gnare». Prego. «Quello del Vaticano». E perchémai? «Mi vedo già davanti al Papa: Sua Santità,il marchio è perfetto» e con le dita fa il segno del-la santa croce «ma tutto il resto è da rifare. Vo-gliamo cominciare?».
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 23GENNAIO 2011
L’uomo che ha disegnato New York
I LAVORIIn queste pagine: a sinistra, segnaletica
della metro di New York; a destra
dall’alto e da sinistra, Massimo Vignelli;
il logo di American Airlines; la Hankerchief
Chair di Knoll disegnata con David Law;
la mappa della metro di New York;
il logo di Blomingdale’s;
cartelli stradali di New York;
i loghi di Ducati e Benetton; il logo sui treni
della Great North Eastern Railway di Londra;
il progetto della Stazione Termini di Roma
Repubblica Nazionale
Sparpagliati su cinque continenti, da quattromila anni perseguitatie sterminati. Ma dai tempi del capostipite, i discendenti di Abramonon hanno mai smarrito né legge, né lingua, né identità. Per il Giorno
della Memoria, lo scrittore Marek Halter, che ha pubblicato un libro illustrato sulla sua gente,spiega il senso del loro esodo infinito: “Un monito per non dimenticare che eravamo schiavi,e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo”
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PIETRO DEL RE
EbreiStorie di un popolo
CULTURA*
contare un popolo in quattromila anni di storia, o sia pure distorie, per chi storico non è? No, risponde Halter: gli è basta-to, dice, comportarsi da narratore, distillando cioè gli avveni-menti e i personaggi più emblematici. «Fece la stessa cosa chiscrisse la Bibbia, che non è un libro di storia, ma piuttosto unlibro di memorie. Là dove mi sono concesso qualche libertà ènell’interpretazione di alcuni fatti». Nella quarta di copertinadel libro, compaiono gli elogi di due premi Nobel per la Pace,entrambi ebrei, Shimon Peres e Elie Wiesel. Sembra quasi checon loro Marek Halter abbia voluto farsi scudo di eventuali cri-tiche da parte degli storici più ortodossi. «Non ho paura dellecritiche. Vede, la cultura ebraica è una cultura di interpreta-zione. Tra gli ebrei non dovrebbero esserci filosofi, perché ilfilosofo, come disse Hegel, è colui che reinventa il concetto delmondo. Ora, gli ebrei partono dal presupposto che questaconcezione del mondo sia già stata scritta nella Bibbia, unavolte per tutte. Quello che si può ancora fare è interpretarla. IlTalmud è un libro d’interpretazione, ed è un libro aperto, alquale chiunque può aggiungere un nuovo capitolo. Conta giàventiquattro volumi, ma potrebbe averne cento o duecento.È per questo che gli ebrei scomunicarono Spinoza, perchénon si presentò come interprete, ma come un vero filosofo,che voleva ripensare l’universo. Eppure era un bravo ebreo.Ma un giorno non lo lasciarono entrare in sinagoga. Poichénon vado in sinagoga, è un rischio che io non corro».
E perché due premi Nobel? Perché sono due amici. «ElieWiesel l’ho conosciuto in Francia, poco dopo il mio arrivo: eraorfano, e la sera veniva a mangiare la minestra che preparavamia madre. Shimon Peres è invece l’ultimo dei moicani deifondatori socialisti dello Stato ebraico, un politico che ha con-servato intatti i suoi sogni, o le sue illusioni, con cui preparaigli accordi di Oslo nel 1993. Ma poi Yitzahk Rabin fu assassi-nato e la situazione precipitò nuovamente nel caos. Se Rabinfosse ancora vivo, non vedremmo oggi Netanyahu confabu-lare con Abu Mazen, per poi fare il contrario di quello che haappena promesso».
Halter ricorda infine il viaggio che fece François-René deChateaubriand in Palestina due secoli fa, raccontato nel suoItinerario da Parigi e Gerusalemme. Lì, il padre del Romanti-cismo francese trovò chi dall’antichità era sopravvissuto al si-gillo del tempo con le stesse tradizioni, la stessa memoria e lastessa lingua di una volta. «Era un piccolo popolo, rimasto ag-grappato a quei luoghi, mentre tutti gli altri, dai sumeri ai ba-bilonesi, dagli egiziani ai greci, erano scomparsi da secoli omillenni. Quando vengono strappati dalla loro patria, i popo-li “normali” muoiono come una pianta sradicata. Diverso èper gli ebrei, che se sono costretti a lasciare la loro terra, si por-tano appresso il loro Libro, e quindi le loro radici». È forse perquesto che tutti coloro che hanno cercato di distruggere il po-polo ebraico hanno cominciato col bruciare i suoi libri.
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PARIGI
Sparpagliato su cinque continenti da persecuzionie genocidi, esiste un popolo che negli ultimi quat-tromila anni, dai tempi del suo capostipite Abra-mo, non ha smarrito né la sua Legge né la sua lin-
gua né la sua identità. È il popolo mosaico, semitico, giudai-co, ebraico, israelitico o anche israeliano. Troppi aggettivi perchiamare gli ebrei? «No, perché l’ebraismo si definisce anzi-tutto attraverso la sua storia», risponde lo scrittore Marek Hal-ter, con una voce così bassa che si distingue appena nellachiassosa brasserie di Montparnasse dove ci ha dato appun-tamento. «Credo che per essere ebreo basti volerlo diventare.Ora, la Corte suprema di Israele ha detto quasi la stessa cosa,aggiungendo però che è necessario farlo in buona fede. Misembra una postilla eccessiva: è già abbastanza coraggioso di-re “sono un ebreo”. C’è sempre il rischio di ritrovarsi in uncampo di concentramento. Nel prossimo, infatti, gli ebrei nonprovocano solo amore».
Figlio di un tipografo polacco e di una poetessa yiddish,Halter scampò per miracolo alla distruzione del ghetto di Var-savia, e da una vita si batte per la difesa dei più deboli e per ilraggiungimento della pace in Medio Oriente. Quando glichiediamo di spiegarci quanto conta la comunione religiosaper il popolo ebraico, visto che ci sono anche molti ebrei nonpraticanti, o addirittura senza religione, lo scrittore torna aparlare della sua storia. «È ciò che lo tiene unito più di qual-siasi altra cosa. Ancor più della Torah. Tutti gli ebrei celebra-no però due festività. La prima è lo Yom Kippur, il giorno del-l’espiazione, del grande perdono. L’altra è la Pesach o la Pa-squa, che ricorda l’esodo e la liberazione dall’Egitto. È un mo-nito per non dimenticare che un giorno eravamo schiavi, e perdire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancoraschiavi al mondo».
Queste e altre spiegazioni sull’originalità del popolo ebrai-co sono racchiuse nella sua ultima fatica: Histoires du peuplejuif (Arthaud/Flammarion, 220 pagine, 39 euro), libro ricca-mente illustrato che ne ripercorre l’odissea attraverso, ap-punto, le sue “storie”. «Che cosa lo rende diverso dagli altri po-poli? Il fatto, per esempio, che ebbe l’idea geniale di trasfor-mare la sua storia in religione. Nelle sinagoghe si legge il Can-tico dei cantici, che racconta l’amore tra il re Salomone e labruna regina di Saba. È come se nelle chiese cristiane si leg-gesse dei legami tra Carlo Magno e le sue amanti». Il libro siapre con le immagini di due coppie di anziani, una accanto al-l’altra: la prima mostra un bassorilievo sumero del Terzo mil-lennio avanti Cristo; nell’altra c’è una foto scattata negli anniTrenta del Novecento. Le due donne hanno lo stesso sorriso,il medesimo volto allungato; anche i loro mariti sembrano ge-melli, per via dello stesso taglio di occhi e dell’identica barbasquadrata. La somiglianza è stupefacente. «La fotografia ri-
trae i miei nonni a Varsavia, quando c’erano nella capitale po-lacca più di quattrocentomila ebrei che pubblicavano settequotidiani. L’antico bassorilievo, invece, l’ho scoperto al Lou-vre, e da quel giorno tutto mi è apparso più chiaro. Capii chenoi occidentali giudeo-cristiani non dobbiamo nulla agli egi-ziani. Diverso è se parliamo dei sumeri. Sono loro che crearo-no il primo alfabeto cuneiforme, dunque astratto, senza ilquale l’uomo non sarebbe riuscito a concepire la più astrattadelle invenzioni: un solo unico Dio. Con i geroglifici e i pitto-grammi dei Faraoni, che rendevano visibile l’invisibile, ilpantheon egizio rimase invece affollato da decine di divinità».
Halter cita anche l’esempio degli ebrei cinesi, giunti attor-no al IX secolo nella città di Kaifeng. «Quando si chiede loro“perché siete ebrei?”, loro rispondono “perché è la prima re-ligione monoteista del mondo”. L’idea di un unico Dio nasceda un bisogno di giustizia. In un universo politeista era più fa-cile comprarsi un idolo. Il ricco aveva perciò un’assicurazio-ne sulla vita eterna maggiore del povero. Con il monoteismoebraico nasce invece un Dio fatto a nostra immagine e somi-glianza, di tutti noi, bianchi, gialli o neri. E con lui per la primavolta appare l’idea di eguaglianza nell’uomo».
Ma non è una sfida troppo ambiziosa quella di voler rac-
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 23GENNAIO 2011
MISAELfiglio
di Uziel
ELSAFANfiglio
di Uziel
ASSIRfiglio
di Core
ELCANAfiglio
di Core
ABIASAFfiglio
di Core
ZICRIfigliodi Isar
NEFEGfiglio
di Isear
COREfiglio
di Isear
UZIELfiglio
di Cheat
EBRONfiglio
di Cheat
ISARfiglio
di Cheat
SIMEIfiglio
di GhersonLIBNIfiglio
di Gherson
AMRAMfiglio
di Cheat
MALIfiglio
di Merari
MUSIfiglio
di Merari
IOCHEBEDmoglie e ziadi Amram
AARONNEfiglio
di Amram
IL LIBRO
È uscito in Francia Histoiresdu Peuple Juif di Marek
Halter (Arthaud, 224 pagine,
39 euro). L’illustrazione
di queste pagine, tratta
dal libro, è una genealogia
biblica di Stephanus Garsia
contenuta nel Commentariosull’Apocalisse detto Beatus di Saint-Sever(Undicesimo secolo)
MOSÈfiglio
di Amram
MARIAfiglia
di Amram
ELISEBAmoglie
di Aaronne
SEFORAmogliedi Mosè
GHERSOMfiglio
di Mosé
ELIEZERfiglio
di Mosé
FINEASfiglio
di Eleazar
ABIUfiglio
di Aaronne
ELEAZARfiglio
di Aaronne
ITAMARfiglio
di Aaronne
SEREDfiglio
di Zabulon
ELONfiglio
di Zabulon
IALEELfiglio
di Zabulon
SAULfiglio
di Simeone
OADfiglio
di Simeone
IACHINfiglio
di Simeone
LEVIfiglio
di Giacobbe
ISSACARfiglio
di Giacobbe
ZABULONfiglio
di Giacobbe
SIMROMfiglio
di Issacar
TOLAfiglio
di Issacar
IOBfiglio
di Issacar
PUVAfiglio
di Issacar
MERARIfiglio
di Levi
CHEATfiglio
di Levi
GHERSONfiglio
di Levi
SIMEONEfiglio
di Giacobbe
RUBENfiglio
di GiacobbeCHESRON
figliodi Ruben
CARMIfiglio
di Ruben
DINAfigliadi Lea
IEMUELfiglio
di Simeone
IAMINfiglio
di Simeone
CHENOCfiglio
di Ruben
PALLUfiglio
di Ruben
NADABfiglio
di Aaronne
GIACOBBE LEA
SOARfiglio
di Simeone
SITRIfiglio
di Uziel
Repubblica Nazionale
Cary Grant scherza con Doris Day sputando l’acquadella piscina, Rock Hudson passeggia vestito di sola pelliccia,Audrey Hepburn si riposa sotto un albero africano. Nell’istantein cui la macchina da presa si spegne Leo Fuchs punta l’obiettivoe immortala le star tra un ciak e un altro. Scatti ora raccoltiin un libro che fotografa la vita dopo la finzione
SPETTACOLI
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23GENNAIO 2011
Alfred Hitchcock guarda Tippi Hedren come il gatto fa col topo.Sono sul set di Marnie. È in quel momento che lui sta pensandodi regalare alla figlioletta di lei, Melanie Griffith, una Barbie simil-Tippi confezionata in una bara di legno? Paul Newman anche inpausa, sigaretta tra le dita, maglietta buttata via chissà dove, pro-prio non riesce a dismettere la posa da divo. Gregory Peck ripas-
sa il copione de Ilbuio oltre la siepecon la piccola coprotagonista Mary Badham:sembra lo stesso onesto americano medio che incarna cento volte sullo scher-mo. Cary Grant, invece no, per stemperare la fama di gentleman, sputa l’acquadella piscina, davanti a Doris Day che non fa una piega.
Nella Hollywood dei tempi d’oro, appena la macchina da presa si spegne, LeoFuchs punta l’obiettivo. Sta lì a catturare i momenti morti, quei non tempi traun ciak e l’altro, con le stelle che rileggono la parte, sbadigliano, ridono, fanno icapricci, telefonano a casa. Quando i genitori — pasticceri ebreo-polacchi — daVienna ripiegano a New York, nel fatale 1939, Leo ha solo dieci anni e si chiama
ancora Abraham Leon Springer. Poco dopo vende per cinque dollari un ritrattorubato della first lady Eleanor Roosevelt. Dimostra di avere subito carattere eidee chiare: quattordicenne, lascia la scuola per imparare il mestiere dei suoi so-gni al Globe Photos. I primi lustrini che immortala sono quelli degli spettacoli diBroadway e giornali e riviste iniziano a contenderselo. Ma negli anni Cinquan-ta arriva la grande occasione: i set gli aprono le porte. È tra i pochissimi ad acce-dere ai dietro le quinte della mecca del cinema. Sono i tempi in cui gli attori, te-nuti a bada dagli Studios, centellinano la loro immagine e la adeguano ai con-
tratti firmati. Scrive Bruce Webernel saggio che ora accompagnaLeo Fuchs: Special Photographerfrom the Golden Age of Hollywood,raccolta di scatti memorabili einediti pubblicata negli Stati Uni-ti da powerHouse Books a cura diAlexandre Fuchs, figlio del foto-grafo scomparso nel 2009 : «La na-turalezza delle sue fotografie puòparagonarsi solo con i ritrattiinformali di Spencer Tracy realiz-
zati da Imogen Cunningham o con quelli di Cecil Beaton al giovane Marlon Bran-do. Gli scatti di Leo erano “la cruda realtà” o, come amano dire a Hollywood, “larealtà stessa”».
La realtà nascosta dietro la celluloide. Appare troppo facile oggi guardare sot-to un’altra luce la foto di Rock Hudson che cammina vestito di sola pelliccia sulset di Amore ritorna. Con lo sguardo tra l’annoiato e l’inquieto, non ha per nien-te l’aria di uno che sta girando una commedia. Avrebbe dovuto attendere altrivent’anni prima di poter fare coming out. Fuchs coglie con il suo obiettivo le om-bre dei divi, ma senza il grottesco delle foto da rotocalco che sarebbero venute di
Quando Hollywoodsmette di recitare
ALFREDHITCHCOCKIl regista
(a destra)
sorride
a Leo Fuchs
nel suo ufficio
di produzione
GREGOY PECKE MARY BADHAML’attore (nella foto
grande qui sopra)
ripassa
il copione
durante
una pausa
de Il buio oltrela siepe insieme
alla piccola
coprotagonista
Mary Badham:
è il 1961
DARIO PAPPALARDO
PAUSA
!
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 23GENNAIO 2011
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lì a poco. Non è un paparazzo. Delle star conquista il rispetto, a volte qualcheconfidenza, che serba per sé o trascrive con discrezione senza l’inchiostro effi-cace e velenoso di un Truman Capote. Sul set dei Giovani leoni, dove si con-frontano i due “ribelli” Marlon Brando e Montgomery Clift, annota: «Monty eraun’“antenna”, recettivo e sensibile a tutto e a tutti. Marlon, invece, aveva un ap-proccio più intellettuale al suo lavoro». Fatto sta che, quando prova a mostrarea Brando alcuni scatti realizzati durante le pause, uno dei tirapiedi dell’attore glisi avventa contro: «Come osi avvicinarti a Mister Brando senza prima chiedere
il permesso?». Da allora, Fuchspreferirà concentrarsi su Clift.
Nel backstage di Irma la dolce,si divertirà di più, con gli sghi-gnazzi e le smorfie rubate a JackLemmon e Shirley MacLaine. Econ l’umorismo di Billy Wilder,che però sul set era serissimo: me-todico fino all’ossessione, siste-ma lui stesso il vestito alle inter-preti secondarie del film.
Poi c’è Audrey Hepburn. «Nonriuscivi a farle una brutta foto, nemmeno se ci provavi», ricorderà il fotografo.Lui la “cattura” in Congo, mentre gira La storia di una monaca di Fred Zinne-mann. La Hepburn che sorride col costume da suora e si ripara dal sole con l’om-brello. La Hepburn al mercato locale, e tutto il mondo attorno che si ferma a guar-darla. La Hepburn che legge un libro, o con una scimmietta sul braccio. E poi an-cora: col volto incorniciato da foglie e tronchi di una foresta pluviale, ha un ac-cenno di occhiaie. Forse è stanca, di sicuro in quella foto è Audrey e basta.
SEAN CONNERYL’attore durante
una pausa sul set
di La donna
di paglia, 1963
AUDREYHEPBURNIn alto a destra,
l’attrice
si riposa sotto
un albero: si gira
La storia
di una monacaROCK HUDSON1960: sul set
di Amore ritornal’attore si diverte
indossando
una pelliccia
CARY GRANTE DORIS DAYScherzi
a bordo piscina
Il set è quello
de Il visonesulla pelle,
Bermuda, 1961
FRANK SINATRAFrancia, 1957,
durante
la lavorazione
di Ceneresotto il sole
IL LIBRO
In alto a sinistra, con Paul Newman a torso nudo,
la copertina di Leo Fuchs, Special Photographerfrom the Golden Age of Hollywood edito
da powerHouse Books e curato da Alexandre Fuchs
Da qui sono tratte tutte le immagini
che illustrano queste pagine
Cameron Diaz - ATTRICE
Appartengo alla categoria di attori convintiche recitiamo gratis e veniamo pagatiper tutto il resto: interviste e pauseAggiungo: trovo crudele che sui setci siano tutti quei popcorn
Paul Haggis - REGISTA
Non amo aspettare, e neppure gli attori: dopo una scena vogliono rifarla subito Questo per dire che sui miei set ci sonopoche pause, credetemi!
Jeff Bridges - ATTORE
Fra un ciak e l’altro io fotografo: colleghi, trucco, troupe...
Andy Garcia- ATTORE
Pausa? Per me non c’è né “azione” né “pausa”. La vita va sempre avanti
Anthony Hopkins - ATTORE
Non sono più i tempi in cui si staccavaalle cinque, a meno che non lavoricon Woody Allen o Clint EastwoodIo con Eastwood non ho mai lavoratoma mi dicono che è uno che alle cinquedice: bene così , pausa, ci vediamo domani!
Stanley Tucci- ATTORE
Una volta un grande attore mi disse:“Io recito gratis, ma mi faccio pagare,e tanto, per le ore che sto lì ad aspettareun ciak di qualche secondo”
Al Pacino - ATTORE
Se il film è impegnativo meglio chiudersiin camerino e prepararsi Ma per rilassarsi meglio ancora starsenea scherzare con la troupe
Anne Hathaway - ATTRICE
Le pause possono anche essere molto faticoseSul set di “Love and Other Drugs” avevamoparecchie scene di sesso. Prima di ogni scenaandavo in camerino a fare flessioni in modocompulsivo, come se potessi cambiare il miocorpo da un momento all’altro e una volta nudapotessi essere miracolosamente superEro ossessionata. Del resto non sono mai statatanto nuda come in quel film!
Michele Gondry - REGISTA
Se c’è una pausa corro nel mio camerinoe schiaccio un pisolino Ma non succede quasi mai...
Colin Firth - ATTORE
Preferisco scherzare piuttosto che starmene chiuso in uno sgabuzzino
Testi raccolti da SILVIA BIZIO
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23GENNAIO 2011
i saporiDi stagione
di accorgimenti: aggiungere una fetta di li-mone o un boccone di pane raffermo imbe-vuto di aceto nell’acqua di bollitura.
Ma non di sola sulforafane, si pregiano ibroccoli, ricchi di vitamine (A, B1, B2, C, PP)e di sali minerali (fosforo, potassio, ferro,zinco) facilmente assimilabili perché poveridi ossalati. Discorso analogo per il calcio:una porzione di broccoli cotti in manieracorretta equivale a bere una tazza (da tè) dilatte. Da qui, la messe di proprietà remine-ralizzanti, energetiche, antianemiche, di-sinfettanti, antireumatiche. Dopo aver cot-to al vapore i broccoli appena comprati ar-mati di limone e contaminuti, una spadella-ta in aglio, olio e peperoncino contempora-nea alla cottura delle orecchiette ci regaleràuno dei piatti più sani e golosi della stagione,quasi meglio di un vaccino antinfluenzale.
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LICIA GRANELLOFRIARIELLOA Napoli, i castigliani
frio-grelos si spadellano
in aglio e olio con le salsicce
Attenzione però: in provincia
si chiamano così anche
i peperoncini verdi
RAMOSOSimile al cavolfiore,
ha cime piccole
(infiorescenze ramificate)
di un colore verde-azzurro
e piccoli germogli ascellari
chiamati broccoletti
CIME DI RAPAI broccoletti di rapasi caratterizzano per foglie
frastagliate di un bel verde
brillante e per i piccoli fiori
gialli, dal gusto lievemente
amaro e piccante
FIOLAROIl broccolo dop, prodotto
in un’area della campagna
vicentina, ha germogli
laterali (fioi) e un gusto
elegante che si affina
con le prime gelate
Broccoli
Non fate i mùgnoli, ammoni-scono le mamme pugliesi,quando i loro piccoli fanno icapricci. Sarà perché i broc-coletti della provincia di Lec-ce hanno foglie nervose e fra-
stagliate, piccole e ribelli, tutte da addome-sticare. Del resto, i broccoli — inarrivabilicampioni della nutrizione invernale — rap-presentano l’ala anarchica delle brassica-cee: lontani dalla forma globosa e rassicu-rante di verza e cappuccio, dalla fiorituralattea del cavolfiore, dalla tenera piccolezzadei cavolini di Bruxelles, si accaparrano unfazzoletto di territorio e lì danno il massimo.
Appena il gelo comincia a mordere la ter-ra — il sottozero aumenta la concentrazio-ne degli elementi organolettici decisivi perdare finezza al sapore — eccoli affastellarsisui banchi dei mercati: sfrontati e selvaggicome le cime di rapa, turgidi come i torbole-si del Garda trentino, lunghi ed eleganti co-me quelli di Creazzo, che il creazzese più fa-moso del decennio, Carlo Cracco, da no-vembre a febbraio si fa portare settimanal-mente dal padre Bertillo nel locale bistella-to di Milano, per preparare una crema (confiletto di trota spadellata e leggermente af-fumicata) da urlo.
Pochi dettagli — dimensioni delle infio-rescenze, lunghezza delle foglie, colore deigermogli — che firmano in maniera nettagusto e odore. Proprio l’elemento naso gio-ca a loro sfavore, soprattutto da quando lacucina di casa si è trasformata da centrodella vita familiare in un’area di pochi me-tri quadri condannati all’asetticità olfatti-va. In realtà, l’odore di cavolo che annunciain maniera irrimediabile la preparazionedei broccoli, deriva dalla degradazione disua componente solforata — la proteinasulforafane — dalle straordinarie proprietàanticancro e inibitrici dell’invecchiamentocellulare.
Così, se da una parte l’ideale sarebbemangiare i broccoli crudi e freschi (oltre i tregiorni di conservazione, il meglio delle so-stanze benefiche scompare), dall’altra lacottura andrebbe attentamente controlla-ta, fermandola al limite della consistenzacroccante. Per limitare l’espansione nel-l’ambiente delle molecole solforate, un paio
le calorie presenti
in 100 grammi di broccoli
27
la vitamina C presente
in 100 grammi di broccoli
50 mg
il sulforafane dei broccoli viene
individuato come antitumorale
1992
Campioni del grande freddo
MÙGNOLORaro, si coltiva nel Salento
Rispetto al broccolo
comune, vanta
un’infiorescenza più piccola
e meno compatta,
con fiori bianchi e grandi
Ricchi di minerali, sali e vitamine, sono le uniche verdureche dal gelo traggono nutrimento. Un vero toccasanaantinfluenzale che, a dispetto dell’odore non propriopiacevole sprigionato in cottura, sposa a perfezionepasta e carni. E nonostante le origini povere e contadineoggi vengono esaltati anche dai grandi chef
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 23GENNAIO 2011
Gli italiani nel mondocon una “c” sola
MASSIMO MONTANARI
La più antica ricetta di broccoli è quella con-tenuta in un testo del Quindicesimo secoloche gli studiosi conoscono come Meridiona-
le A. La ricetta è semplicissima: mettere a bollire laverdura «in grande quantità de acqua», quando èben lessata tirarla fuori e friggerla «con olio et ce-polle», poi aggiungervi del pepe «et dà ad magna-re». Rispetto al procedimento suggerito per altreverdure (rape, cicoria, asparagi, finocchi) la va-riante per i broccoli è di non passarli nell’acquafredda prima di saltarli in padella. È questo unesempio di come, nella tradizione italiana, anchei ricettari destinati alle classi alte (tutti lo sono, nelMedioevo) riservino attenzione a prodotti “conta-dini” e a preparazioni “povere”, appena imprezio-site dall’aggiunta di qualche spezia.
Non sorprende che questi «broculi de coli» —cioè appartenenti alla più vasta famiglia dei ca-
voli — siano attestati in un ricettario del Me-ridione. La “meridionalità” di questa ver-
dura, infatti, per molti secoli non fu in di-scussione. In particolare, i broccoli furo-no a lungo identificati come “napoleta-ni”. Così il “gioco della Cuccagna” del-l’incisore bolognese Giuseppe MariaMitelli (1691), «che contiene le princi-pali prerogative di molte città d’Italiacirca le robbe mangiative», individuasenz’altro i broccoli come cibo-simbo-
lo di Napoli. Ciò valeva anche fuori d’I-talia: nel 1699, il trattato sulle verdure
dell’inglese John Evelyn descrive anche lemolte specie di cavoli tra cui i broccoli, pre-
cisandone l’origine «from Naples». Neglistessi anni, il palermitano Carlo Nascia, cuoco al
servizio del duca di Parma e Piacenza, includevanel suo ricettario i «broccoli alla Napolitana», con-sigliando di cuocerli poco perché altrimenti «nonvalgono niente», e di condirli «con sale, pepe, oglioe succo d’aranci».
Nei ricettari ottocenteschi, i broccoli appaionoormai “adottati” come prodotto di rilevanza na-zionale. Giovanni Vialardi, «aiutante capo-cuocodelle Loro Maestà Carlo Alberto e Vittorio Ema-nuele II re di Sardegna», nel suo Trattato di cucina(1854) li indica senz’altro come «italiani» e li defi-nisce «una verdura molto stimata, e assai buona».Ne dà cinque diverse ricette, fra cui i «broccoli allamilanese» e i «broccoli strascinati alla romana». Ilriferimento a Roma si ritrova in altri testi dell’epo-ca ed è infine accolto da Pellegrino Artusi, padredella cucina italiana moderna, che inserisce nellaScienza in cucina (accanto ai «broccoli o talli di ra-pe alla fiorentina») i «broccoli romani», non senzaprecisare che di questi broccoli «a Roma si fa granconsumo».
Si pongono in questo modo le premesse di un’e-voluzione che ha trovato il suo corso nel Ventesi-mo secolo, quando i broccoli sono diventati unavera icona della cucina italiana. Con due “c” o piùspesso con una sola, i «brocoli» ormai fanno partedel patrimonio gastronomico del nostro paese edella sua immagine nel mondo.
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itinerariCurtis Duffy gestisceil ristorante due stelle“Avenues” dell’hotelPeninsula, a ChicagoI broccoli(caramellati,spadellati, in puré)
accompagnano la deliziosaentrecote di manzomarinata alle spezieasiatiche e abilmentecotta nel latte di cocco
Clima mite e terra calcarea firmano il terroirdel broccolo Fiolaro dop, coltivato lungo
i declivi della collina Renella,
nella campagna vicentina
DOVE DORMIREHOTEL VERGILIUS
Via Carpaneda 5
Tel. 0444-165800
Camera doppia da 90 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREL’ALTRO PENACIO
Via Tavernelle 71. Località Altavilla Vicentina
Tel. 0444-371391
Chiuso domenica e lunedì a pranzo
menù da 35 euro
DOVE COMPRAREAGRICOLA ENZO RIVA
Via Rampa 22
Tel. 0444-522692
Ha storia millenaria la cittadina appoggiata
tra mare e collina, che vanta un museo
dedicato all’olio e storiche ricette a base
di mùgnoli e cime di rapa
DOVE DORMIREMASSERIA ALCHIMIA
Contrada Fascianello 50
Tel. 335-6094647
Camera doppia da 65 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARELE PALME DI TORRE MAIZZA
Contrada Coccaro. Località Savelletri di Fasano
Tel. 080-4827838
Senza chiusura
menù da 45 euro
DOVE COMPRAREMASSERIA LAMAPECORA
Contrada Fascianello
Tel. 080-4420843
Veri tesori ortofrutticoli dei Campi Flegrei,
i broccoli battezzati dalla mineralità
del territorio vulcanico, ingredienti imperdibili
della pizza ch’e’ friarielle
DOVE DORMIREVILLA OTERI
Via Lungo Lago 174
Tel. 081-5234985
Camera doppia da 85 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREIL CHIOSCO DI MAZZELLA
Via Panoramica 27
Tel. 081-8682814
Senza chiusura
menù da 15 euro
DOVE COMPRAREAGRITURISMO IL CETRANGOLO (con cucina)
Via Faro 56
Tel. 081-5232688
Creazzo (Vi) Bacoli (Na) Fasano (Br)
POLENTAConciatura in verde grazie
ai broccoli sbollentati,
salati, pepati e frullati,
aggiunti a fine cottura
insieme a formaggio
di malga e un po’ di burro
VAPOREIl tipo di cottura
che più ne rispetta
le qualità nutrizionali,
ideale per insalate
e per la gratinatura
con la besciamella
ZUPPASbollentati in abbondante
acqua salata e insaporiti
in un soffritto, si frullano
dopo l’aggiunta di brodo
Il passaggio al setaccio
fine elimina le fibrosità
SFORMATOOlio, timo e maggiorana
per spadellare i broccoli
sbollentati, frullati
con tuorlo e parmigiano
Si mette albume montato,
cottura a bagnomaria
ORECCHIETTEI tondini di semola bolliti
nell’acqua di cottura
delle cime di rapa,
si condiscono
con la verdura saltata
in olio, aglio, acciughe
GLI APPUNTAMENTI
La celebrazione dei broccoli,
cominciata in settimana a Creazzo,
Vicenza, si sposta nel prossimo
weekend nel Lazio,
tra Priverno e Anguillara Sabazia,
terre di produzione
della qualità romanesca
In Sicilia le varietà tardive
(cucinate in pastella)
saranno il piatto forte
delle feste di strada
che accompagnano la settimana
dedicata a San Giuseppe
a metà marzo
Repubblica Nazionale
le tendenzeAlternative
Comfort, sofisticatezza, rigore, pulizia. Le ragazzeche oggi amano indossare i pantaloni del fidanzatoo le signore che mettono il tuxedo del maritodichiarano una differenza di carattere, non di sessoE fanno una scelta di stile più che di genereEcco chi sono le nuove trasformiste
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23GENNAIO 2011
Lei Lui
come
Indossare i pantaloni e sentirsi in minigon-na. Mettere il tailleur e scoprirsi in giarret-tiera. Le donne che si vestono da uomini, og-gi, non vogliono diventare maschi. Ma piùfemmine. È il paradosso della moda, l’ulti-ma evoluzione di una tendenza che ha pre-
so il via all’inizio del secolo scorso. A differenza delpassato, però, lo stile androgino attuale non ha nul-la a che fare col femminismo o le quote rosa. In uncerto senso, ha perso i connotati per guadagnare inconnotazione. Sono lontani i tempi in cui CocoChanel rubava il jersey dai grembiuli delle came-riere per metterli alle clienti emancipate dal cor-setto. O gli anni di lotta femminista in cui Yves SaintLaurent vestiva le sue muse con lo smoking del po-tere maschile. E sono passati anche i decenni chehanno visto Giorgio Armani traghettare le businesswoman nei consigli di amministrazione col tailleural posto del tubino. Persino lo stile giapponese,quello che sbriciolò i confini tra i sessi all’inizio de-gli anni Novanta dando il via al minimalismo, è ar-gomento di ieri. Le ragazze che oggi indossano ipantaloni del fidanzato (in gergo fashion si chia-mano “boyfriend pants”) o le signore che mettonoil tuxedo del consorte dichiarano una differenza dicarattere, non di sesso. E fanno una scelta di stilepiù che di genere.
Esemplare, a questo riguardo, è la fortuna e l’a-scesa al successo di Phoebe Philo, la stilista ingleseche ha riportato in auge la maison francese Céline.Nominata designer dell’anno ai Fashion BritishAward del 2010, Philo ha lanciato un diktat moltosemplice: no frills, ovvero niente fronzoli. Nienterouches, niente ricami, niente simboli della fem-minilità di ieri. Solo comfort, sofisticatezza e puli-zia. Dopo uno shock iniziale, nell’ultimo anno lostile Céline e quello di chi l’ha seguita sembra esse-re stato digerito. Lo confermano tre proprietari dialcune tra le più importanti boutique d’Italia. Il pri-mo è Beppe Angiolini, titolare di Sugar ad Arezzo:«Il ritorno dello stile maschile per le donne», ha di-chiarato, «non ha a che fare né col minimalismo nécon l’androginia del passato: è piuttosto la voglia dinon farsi sopraffare dagli abiti, di trovare una cor-nice al proprio carattere, piuttosto che un vestitosexy che lo prevarichi». Gli fa eco Roberto Trapani,della boutique Vertice di Torino: «Dopo un mo-mento di stanca, oggi le donne tornano a compra-re giacche e pantaloni. Non solo, spesso entranonella parte maschile del nostro negozio per acqui-stare pull extra large e pantaloni di lui. Il completoda uomo, poi, non viene usato solo nelle occasionilavorative, ma soprattutto nelle serate eleganti inalternativa all’abito lungo». E Antonia Giacinti, del-la boutique Antonia di Milano, conferma: «Per lasera, il massimo della tendenza è unire maschile efemminile. Per questo consiglio alle mie clienti losmoking, i tacchi alti e un top coperto davanti macon la schiena nuda. L’effetto che si crea togliendola giacca è un piccolo colpo di teatro. Un’accortez-za che trasforma un abito in un colpo di stile».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SIMONE MARCHETTI
MORBIDOCompleto con giacca,
pantalone e gilet
in seta misto lana
colore grigio fumo
La scelta di Hermès
per la primavera
BIKERIn pelle nera con fibbie
È lo stivale biker
da donna proposto
da Gucci nella collezione
autunno-inverno
2010-2011
CASUALJohn Richmond
abbina un gilè scuro
con bottoni
a una camicia bianca
e pantaloni a sigaretta
Vestite da uomonon da maschio
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 23GENNAIO 2011
“Ridurre il superfluoè la nuova seduzione”
Francisco Costa di Calvin Klein
MINIMALISTAÈ un completo gessato
in lana la proposta
della stilista tedesca
Jil Sander per uno stile
sobrio e minimalista
SHORTSDoppio petto con revers
in lana e shorts. Abbinato
a décolleté con calza
cucita alla scarpa
Di Dolce e Gabbana
INFORMALEAmpia camicia di cotone
bianca su pantalone
di lana grigio a pence
Da abbinare a classiche
décolleté. È lo stile sobrio
firmato Paul Smith
PRIMAVERILEBlazer e pantalone
maschile in lino pesante
azzurro. Con borsa
dello stesso colore
e camicia in cotone
mille righe. Di Ferragamo
NEROLook total black Calvin
Klein: alla giacca lunga
con ampie tasche
si abbina una T-shirt
dello stesso colore
e pantaloni morbidi
ELEGANTEAlta, in pelle nera,
lucida, senza lacci,
con elastico alla caviglia
Con i jeans e non solo
È la proposta
di Rodolphe Menudier
SCAMOSCIATALa scarpa stringata
in scamosciato
a più colori
firmata Church’s
FRANCESINAIn pelle lucida
anticata con i lacci
La francesina
proposta da Santoni
TRONCHETTOIn pelle con elastico
alla caviglia
È il tronchetto
griffato Marni
CLASSICOSobrio ed elegante
il Borsalino a tesa piccola
con cinta blu notte
È il ritorno ormai assodato
del cappello in feltro
per eccellenza
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ha tagliato gli orli. Ridotto il superfluo. Semplificatotutto. Ha messo giacca e pantaloni al posto degliabiti a sirena. E architetture di stoffa invece di linge-
rie di pizzo. Francisco Costa, designer al timone stilistico diCalvin Klein dal 2004, non è tipo da andare per il sottile. Lessis more. Meno è di più. Anzi: meno è meglio. Nelle ultimedue sfilate è riuscito persino a scrivere uno nuovo capitolonella storia delle donne che si vestono da uomini. Facendopiazza pulita dei ghirigori da fanciulla in fiore, dei luoghicomuni da look androgino e di quanto visto finora.
Cosa pensa delle donne che oggi scelgono abiti ma-schili per il loro guardaroba?
«Penso siano individui alla ricerca di più libertà e più sti-le. Da una parte, questo desiderio le lega al passato e alle lot-te di emancipazione dal potere maschile. Ma la loro richie-sta ha caratteristiche slegate dalla lotta femminista. È vo-glia di pulizia e di sofisticatezza, un porto sicuro, in fatto diabiti, lontano dalle acque burrascose dei look troppo sexyo dell’idea stereotipata del femminile. Penso che questedonne siano alla ricerca di una nuova uniforme piuttostoche di un’uguaglianza sessuale».
Non vogliono, quindi, somigliare ai loro compagni omariti?
«Al contrario: vogliono marcare il territorio, stabilire unconfine preciso. Non a caso, una donna con un completomaschile perfetto è molto sexy. Perché un tailleur può di-ventare l’arma di seduzione più inaspettata, e quindi piùefficace, che ci sia. Icone come Frida Kahlo o KatherineHepburn hanno già scritto questo capitolo della storia del-la moda. Ultimamente, però, la tendenza è tornata in augecon risultati diversi».
Quali?«Tanto per iniziare, non si rubano più le giacche o i pan-
taloni al proprio fidanzato o marito. La ragazza che prendeun capo dall’armadio di lui resta un mito. Le nostre ultimecollezioni sono un lavoro d’ingegneria sui tagli degli abitifemminili che guardano e ripensano l’estetica maschile. Illavoro più grande, poi, è sui tessuti, sul mix di pensante eleggero, di rigido e scivolato. Nell’opposizione dei contra-sti, che si può ricondurre al binomio maschile/femminile,sta l’altra questione».
Quali sono le caratteristiche di questa nuova eleganza?«Riguarda soprattutto la silhouette. Ovvero, il modo di
mischiare le proporzioni. Il mio consiglio è di sovrapporreuna giacca ben costruita e astratta su una T-shirt lunga epoi completare con pantaloni morbidi corti sopra la cavi-glia. L’effetto finale non è né maschile né femminile, mauna sorta di sintesi tra i due. Un completo così si può por-tare anche con le scarpe basse. Questo a dimostrazione chenon si tratta di gioco dei ruoli. Ma di un nuovo capitolo del-l’eleganza femminile».
(s.m.)
MICHELLE MON BELMichelle Pfeiffer
ritratta da Herb Ritts
nel ’91 con un tuxedo
Armani. Foto dal libro
In Vogue, Rizzoli
LUMINOSAFrancesina in camoscio
e nappa: è impreziosita
da applicazioni
in Swarovski
Alberto Guardiani
non passa inosservato
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23GENNAIO 2011
l’incontro
tutti, non voleva essere simpatico e, finoa un certo punto, interpretava consape-volmente un personaggio scomodo e ri-belle. Oggi, passati i trent’anni, è più ma-turo, attento, accorto, ha raggiunto unastraordinaria popolarità, ed è uscito dalghetto del rap. E inizia a parlare di «con-trocultura». Che cosa vuol dire contro-cultura oggi in Italia? «È un seme che siappresta a germogliare, lo sento nei ra-gazzi che vengono ai concerti, con la vo-glia di svuotarsi, di non credere a quelloche gli raccontano, con la voglia di con-frontarsi e, magari, di cambiare idea.Forse la prossima generazione saràpronta per distruggere questa Italia diplastica che non sta solo in televisionema ovunque. Controcultura sono lenuove generazioni con la voglia di disin-tegrare questo sistema che ti spinge anon pensare, a non interpretare le coseche vedi e senti. Oggi è ancora il mo-mento dell’estremo e dello scontro, nondel confronto e della crescita. Ma cam-bierà, perché in trentaquattro anni ho vi-sto attorno a me sempre meno, è un con-tinuo togliere: diritti, lavoro, vita. Equando ti tolgono tutto prima o poi le co-se cambiano. Quando ho cominciato afare rap avevo sedici anni, la controcul-tura era già morta, i centri sociali in de-clino, non c’era nulla per nessuno. Sì, afarla rivivere sarà la prossima generazio-ne. Durante i concerti dico sempre a chimi ascolta: l’unica cosa che ti può salva-re nella vita è avere una passione da con-dividere, perché tutti pensano solo a far-si i cazzi propri. La controcultura è que-sto, un velo di speranza. Intitolando co-sì il mio disco ho pensato che potesse es-sere uno stimolo. Magari può servire afar nascere qualcosa, magari i ragazzi co-minceranno a smontare i miti. Me com-preso, magari».
Fabrizio si limita a interpretare, a rende-re vivo, a portare sulla scena? Mentreparla Fibra ha un tono serio, pesa le pa-role, dipinge se stesso con attenzione:«Fibra è un personaggio che può dire de-terminate cose in questo Paese piatto edisabituato ad ascoltare cose nuove.Quello che dice Fibra io lo penso. Lo fac-cio dire a lui perché lui è un supereroe il-luminato che spacca il culo a tutti e puòdire ciò che vuole. Non sono io ma sonoio». Fabri ora parla a raffica, senza sosta,spiega, racconta, non vuole essere frain-teso, non vuole essere ancora una voltamateria di polemica, di scandalo. Mascandali e discussioni ne ha scatenatisempre tanti e tutto, anche questa nuo-va consapevolezza, questa maturità,sembra frutto di una attenta strategia. «Ilfatto che ci sia stata, all’inizio, l’intenzio-ne di stupire con la cattiveria mi sembraevidente. Applausi per Fibraera frutto distrategia, un trailer in cui mettevo in sce-na il peggio di me, con un testo che ave-va dentro Erica e Omar. Sensazionali-smo. Avevo bisogno di farmi vedere, ve-nivo dalla provincia, non sono un figliod’arte, non ho quella sicurezza che ti vie-
ne dall’aver frequentato un certo mon-do. Ho fatto tattica di sfondamento, hopensato che dovevo dire cose che gli al-tri non dicevano, e non mi interessava sesarebbe stato un bene o un male. Se aves-si fatto un pezzo come In Italia nel 2006non sarei mai arrivato».
Un tempo c’erano i locali, i club, i con-certi, le piazze. La gavetta. Oggi farescandalo è il modo migliore per diventa-re visibili? «Sì, la gente vuole il sangue. Èl’era dell’estremo. Se deve venire fuoriun rapper oggi deve essere un mostroche attiri l’attenzione. E se si vuole pre-sentare un mostro, non c’è un modosimpatico per farlo. La verità è che io sobene cosa faccio, perché so cosa vuol di-re lavorare. Stavo in catena di montaggiofino a cinque anni fa: ho visto che il mon-do dello spettacolo era vuoto e che c’eraspazio per me. Poi è arrivato il successo,il pubblico, i dischi venduti, ma c’è an-che il lato oscuro, e devi saperlo gestire.Io ho avuto la fortuna di aver provato tut-te le schifezze prima. E oggi, anche sesuccedono cose peggiori, la mia vita èmeglio di com’era prima».
«Prima» significa il lavoro in fabbrica,una famiglia con genitori separati, la dif-ficoltà a gestire i rapporti umani. Unastoria come tante che Fibra prova a vol-gere a suo vantaggio, trasformandola inmateria per dischi che hanno contenutiviolenti, difficili, scomodi. Per un rapperè importante che si capisca il suo mes-saggio? C’è un messaggio? «Una personascrive delle cose in una realtà metafisicache è il disco: quel disco, quel giorno, etanto basta. E quando non si riesce a ca-pire quello che c’è dentro io sono con-tento. Voglio che nasca il dubbio». Fibraè davvero un ribelle? Non tanto, a benguardare. È ormai un ragazzo «maturo»che non ha nulla in comune con i teena-ger che affollano i suoi concerti. «Lavorocon l’Adidas, una multinazionale, sonopiù inquadrato di tanti altri. Ma la veritàè che ci si muove per schemi vecchi, nonc’è la voglia di capire, fa comodo lasciaretutto in superficie e non ascoltare davve-ro. Parlo di quello che accade intorno anoi, e mi viene facile mettere in scena gliincubi nazionali. Poi però se parlo di stu-pri dicono che incito alla violenza, e lostesso accade se parlo di gay o di pregiu-dizi razziali. Metto solo in scena un sen-timento che è nazionale, e che è tutto ita-liano. E l’italiano è quello che quando ac-cende Striscia la notizia non sta a senti-re le denunce o i problemi, ma guarda ledue fighe che ballano sul bancone».
Allora, proviamo a fare il punto: FabriFibra è arrivato in scena scandalizzando‘‘
Spiriti ribelli
Dove sono cresciutotrovare un amicoera un’impresaNon eroun disadattato,ma sapevo che c’eraqualcos’altroE lo volevo trovare
Lo hanno accusato di non avererispetto per le donne, di usareun linguaggio blasfemo, di esaltarela violenza. Ma lui, il sognatoredi provincia che lavorava alla catena
di montaggio e oggiè il rapper più in vistadel panorama italiano,si difende: “Metto soloin scena gli incubidi un paese di plasticaMa potete starne certi:a cambiarlo ci penserà
la prossima generazione. Smonteràtutti i miti. Me compreso”
ROMA
Chi è Fabri Fibra e perchédobbiamo parlare di lui?Beh, innanzitutto perchéè il rapper più in vista del-
la scena italiana e perché ha, da alcunianni, grande successo. Poi, perché daquando è arrivato fa scandalo, costringegli altri a occuparsi di lui: lo hanno accu-sato di avere poco rispetto delle donne,di usare un linguaggio blasfemo, di ba-nalizzare il crimine, di esaltare la violen-za. Simpatico? No, ascoltando i suoi pri-mi dischi è impossibile definirlo simpa-tico. Ma con il passare del tempo le cosecambiano, Fibra incide con GiannaNannini, scala le classifiche, cambia to-no, cambia parole. E le parole, in questocaso, pesano. E sono quelle che fanno dilui una star.
Fabri Fibra è in tour, gira da una parteall’altra d’Italia, e migliaia di ragazzi lovanno ad ascoltare. Lo incontriamo aRoma, in un albergo, in una pausa diquello che, se da una parte è certamenteun lavoro, per lui è in realtà la vita straor-dinaria che è riuscito a costruirsi con fa-tica, uccidendo Fabrizio e facendo na-scere Fabri. Iniziamo a parlare, confes-siamo un pizzico di prevenzione da par-te di chi, come molti, ha avuto qualchedifficoltà nel mandar giù alcuni dei testidei suoi brani. Lui non si scompone. Èabituato alle critiche, ma allo stesso tem-po è stufo di essere dipinto sempre comeun omofobo violento, un rapper stupi-do, il perfetto figlio degenere dei suoitempi. Parla di sé con calma, della «mor-te» del ragazzo di provincia che era e del-la «rigenerazione» in eroe del rap. Pro-viamo a capire come accade che un ra-gazzo che si chiama Fabrizio Tarducci
diventa Fabri Fibra. «Non lo so raccon-tare nemmeno io. Ci sono arrivato pervie traverse, ho sempre provato a fare al-tro, scrivere era la mia passione, ma maiavrei pensato di trasformarlo in un lavo-ro. E ora che lo è diventato lo vivo comese lo fosse sempre stato. Ho avuto tre fa-si diverse: una prima da autodidatta, incasa, dai sedici ai ventidue anni. Poi, daiventidue ai ventisei, mi sono mosso in gi-ro per l’Italia. E dai ventisei a oggi sonoarrivato a Milano. Tre fasi significative,perché facevo cose diverse, frequentavopersone diverse, e ognuna delle personeche ho incontrato, delle cose che ho fat-to, ha contribuito a farmi diventare quel-lo che sono adesso».
Insomma, rapper non si nasce, ma sidiventa, con le esperienze e la vita, chevanno messe in tasca e nel cervello. «Al-l’inizio stavo in casa, con mio fratello, la-voravo in fabbrica, in un supermercato,non pensavo che le mie rime avrebberoassunto una forma migliore. Forse miaccontentavo perché ero un sognatoredi provincia, parlavo di tutto e di niente,mi lasciavo prendere dal gusto della pa-rola. Pian piano le cose sono cambiate,ho cominciato a uscire, a muovermi, aprendere treni e a incontrare le personegiuste. Cosa mi guidava? La passione,forte, fortissima, talmente forte che miha salvato, mi ha trasformato».
E così Fabrizio diventa Fabri. «Sonostato un adolescente diverso, dove sonocresciuto, a Senigallia, era difficile trova-re degli amici, gente con cui condivideretempo e passioni. Quando ne trovaviuno era come scoprire un tesoro. Nonche fossi chiuso, o disadattato, ma sape-vo che c’era qualcos’altro e lo volevo tro-vare». Fabri se ne stava nascosto dentroFabrizio e qualcuno lo ha visto e lo ha ti-rato fuori. «Tutto è cambiato quando hoincontrato una persona importantissi-ma, Neffa. È lui che mi ha scoperto, da luiho capito cosa voleva dire scrivere. Lui èbravo a usare parole, e ho imparato da luiche ogni parola ha un peso specifico. So-no stato da lui a Bologna, poi ho cono-sciuto quella che oggi è la mia manager,che all’epoca aveva una rivista hip hop, etutto è cambiato di nuovo». Esce il primodisco, Turbe giovanili, vende mille co-pie, in pochi si accorgono di lui. «Non cheme ne importasse molto, ma le cose nonandavano come dovevano, anche nellamia vita privata. Lavoravo in un postoterribile, non ce la facevo più. Andai inInghilterra, e lì mi convinsi che la mia vi-ta era, doveva essere, la musica».
E oggi chi è Fibra? È molto diverso daFabrizio? È reale o è un personaggio che
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ERNESTO ASSANTE
FO
TO
AR
MA
ND
O R
OT
OLE
TT
I / LU
ZP
HO
TO
Fabri Fibra
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Repubblica Nazionale