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RITA CORUZZI IL MIO AMICO KAROL Vita e santità di Giovanni Paolo II

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RITA CORUZZI

IL MIO AMICOKAROL

Vita e santità di Giovanni Paolo II

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I Edizione 2011

© 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Anno 2011-2012-2013 - Edizione 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

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Capitolo 1

Una domenica che cambiò la mia vita

Cosa si può dire che non sia già stato detto, di una per-sona come Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla? Sono passati sei anni dalla sua morte e ancora la sua presenza è viva, palpabile, in mezzo alla gente, a chiun-que pensi a lui o a qualcosa che ha fatto nei suoi ventisei anni di pontifi cato. E quando io penso a lui, nella mia mente riaffi ora ancora vivida e smagliante la sua imma-gine di Papa amato da tutti, e di uomo che tutti ama, la cui immensa umanità resterà per sempre impressa nel cuore di chi lo ha visto, come un segno indelebile del suo lungo pontifi cato. Io ho avuto la grande fortuna e il privilegio di conoscerlo e di poterlo avvicinare negli ultimi anni della sua vita, quando già sofferente e ma-lato, appariva ancora più forte e vigoroso nello spirito di quando era giovane. Il suo corpo era debole, ma lo spirito non lo era affatto, e questo traspariva da ogni suo gesto, dai suoi sguardi intensi, dalle sue parole pro-nunciate a fatica ma con grande forza.

So che scrivere queste cose di lui rischia di essere banale, ma per me non lo è affatto, per me non sono solo parole scontate e stereotipate, ma è un modo di testimoniare la verità. Per tale motivo voglio raccontare del mio rapporto personale con Giovanni Paolo II, che

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da quando è morto ho iniziato a chiamare familiarmen-te Karol, perché adesso lui è mio amico.

Rimpiango di non averlo conosciuto quando stava ancora bene, e il Parkinson non si era impadronito del suo corpo, ma ero piccola e non mi interessavo a certe cose, anche se ora capisco che è stato un peccato non aver avuto l’opportunità di conoscerlo in quei momenti. Ma d’altronde mi rendo conto che io stessa, per la gio-vane età, non avrei compreso cosa in fondo signifi cava veramente.

Ho cominciato a interessarmi a lui, al suo ministero e alla sua persona, dopo la mia conversione a Lourdes e la scoperta del valore della sofferenza nella vita di un cristiano (come ho raccontato nel mio libro Un volo di farfalla). Volevo conoscere questo Papa malato, che molti avevano già dato per morto prima che iniziasse il 2000, e invece a dispetto di tutto, contro ogni pre-visione, per quanto il suo corpo si facesse sempre più debole, fragile e le sue condizioni precarie, era ancora vivo, con una luce negli occhi sempre più brillante, che anche dalla televisione si poteva chiaramente vedere, che gli illuminava tutto il viso.

Mi colpiva soprattutto quel suo fare paterno, il suo sorriso dolce e rassicurante, proprio di chi è completa-mente nelle mani del Signore e ha totalmente fi ducia nella sua volontà. Sapevo che non sarebbe stata un’im-presa facile incontrarlo, ma per lo meno volevo pro-vare a mettermi in contatto con lui, per fargli sapere che anch’io avevo cominciato a vivere serenamente il mistero della sofferenza, e cominciavo a essere davve-ro felice di portare la croce che Dio mi aveva affi dato. Insomma, volevo fargli sapere che pregavo per lui, che lo volevo aiutare nel suo ministero, per quanto mi era

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possibile, essendo ben consapevole che non ero altro che una goccia in un oceano, e l’esempio che lui stava dando a tutto il mondo non poteva certo essere acco-stato a quello di una ragazza sedicenne, che cominciava il suo cammino spirituale verso la più totale comunione con Dio.

Ogni giorno che passava il desiderio di scrivergli si faceva più insistente, e sempre con minor convinzione desistevo da tale proposito, ma una parte di me ave-va paura. Perché mai il Santo Padre, una persona così importante, così impegnata, avrebbe avuto piacere o tempo di leggere la lettera di una ragazza sconosciuta che non gli chiedeva niente, gli diceva solamente che non doveva sentirsi solo, che lei gli era vicino, che lo voleva aiutare, pur essendo un granello di senapa in un deserto, nel suo grande ministero universale? Il solo fatto che mi prendesse in considerazione era alquanto improbabile, per non dire assurdo, così i giorni passa-vano, io conservavo questo desiderio ma non avevo il coraggio di realizzarlo. Alla fi ne decisi di mettermi in ascolto, di aspettare un segnale da parte del Signore, che mi facesse capire cosa dovevo fare, se era giusto scrivergli oppure no, se dovevo concretizzare questo progetto oppure lasciare perdere dal momento che era veramente assurdo.

Una domenica che io credevo come tante, cambiò la mia vita, e forse, oso sperare, anche quella di Karol. Andai a Messa in una parrocchia dove avevo degli ami-ci per poter partecipare all’Eucaristia insieme a loro e condividere quel momento di comunione e di fraternità. Durante l’omelia il parroco parlò proprio della soffe-renza, e di quanto fosse importante viverla nel modo giusto, in comunione con Dio, benedicendo e non ma-

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ledicendo. Esortava ad abbandonarsi completamente alla Sua volontà, e a trasformare la sofferenza in un’oc-casione di crescita spirituale e personale e di condivi-sione con il prossimo, proprio come faceva Sua Santità Giovanni Paolo II dal quale tutti i cristiani dovevano prendere esempio. Aggiunse inoltre che sarebbe stato bellissimo che chiunque vivesse la sofferenza in questo modo potesse farlo sapere al Santo Padre, così anche lui sarebbe stato contento e sollevato nel vedere che il suo esempio non cadeva nel vuoto, che c’era chi lo prendeva a modello e non lo considerava solo un Papa vecchio e stanco, ormai alla fi ne della vita, ma un uomo eroico, ancora forte nello spirito, pieno di vita, di amo-re, che non voleva lasciare se non al momento della sua morte, il compito che Dio e lo Spirito Santo gli avevano affi dato tanti anni prima, cioè guidare la Chiesa cristia-na cattolica per tutti i giorni della sua vita e condurla nel nuovo millennio, ma anche oltre, anche se in con-dizioni fi siche veramente precarie e forse nel modo più improbabile.

Quelle parole fecero breccia nel mio cuore e furono una risposta alle mie tacite domande. In quel momento capii che dovevo scrivere a Karol, che era un bene per me, ma anche per lui. E non aveva importanza se quella lettera fosse andata in mille mani prima di arrivare alle sue, tremolanti; ci avrebbe pensato il Signore a fare in modo che Karol sentisse la mia presenza vicino a lui, se era cosa buona avrebbe dato frutto. Così il giorno stesso, quando rincasai dopo Messa, mi misi subito a scrivere. Mi ricordo come se fosse ieri: le mie mani su-date per l’emozione, che si muovevano freneticamente sulla tastiera del computer e rammento il mio imbarazzo nel non sapere come cominciare. Cosa potevo scriver-

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gli: Santo Padre carissimo? A Sua Santità carissima? Ri-cordo che mi domandai perfi no: ma si scrive carissimo al Papa? Poi mia nonna venne in mio aiuto, e mi fornì la parola che cercavo, e che non riuscivo a trovare: illu-strissimo, o eminentissimo.

Santo Padre illustrissimo ed eminentissimo: così co-minciai. E questo fu quanto gli scrissi:

A Sua Santità Giovanni Paolo II

Santo Padre eminentissimo e illustrissimo,mi chiamo Rita Coruzzi e sono una ragazza disabile.

Nella giornata mondiale dei giovani a Toronto, ha det-to: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo, voi siete il futuro, noi il presente».

Queste parole mi hanno profondamente colpito e per questo ho deciso di provare a scriverLe, anche se non mi aspetto una risposta.

Con questa lettera vorrei dimostrarLe che sono dispo-sta ad aiutarLa a portare la sua croce. Da due anni or-mai, sto portando avanti un progetto che mi sta molto a cuore: quello di andare nelle comunità parrocchiali e di portare la testimonianza della mia sofferenza, offrendola al Signore e a tutti i miei amici disabili. Mi permetto di allegare a questa mia lettera la traccia del mio progetto che ho scritto su desiderio del mio Vescovo, monsignor Adriano Caprioli, il quale a mia insaputa e con mia gran-de sorpresa e gioia, l’ha inserita nella lettera pastorale alle famiglie.

Come ho precedentemente detto, non mi aspetto una risposta: ho voluto soltanto scriverLe per farLe sapere che Le sono vicina nella Sua grande missione e prego perché il Signore La conservi ancora a lungo.

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La ringrazio del tempo che mi ha concesso e La riveri-sco affettuosamente.

Rita Coruzzi

L’allegato era il seguente:

Traccia sulla sofferenza

Carissimi,in questa giornata mi è stato chiesto di testimoniare la mia sofferenza e di raccontare come vivo questa esperienza. Come potete vedere, io sono una ragazza di quindici anni, sono sulla carrozzina e soffro di una malattia chiamata tetraparesi che mi ha bloccato totalmente le gambe e par-zialmente le mani. Fortunatamente però, il Signore mi ha concesso il dono di capire e di poter parlare per esprimere le mie sensazioni e per aiutare i miei amici sulla carrozzina e senza voce. Ci sono tanti ragazzi della mia età sulla carrozzi-na come me in condizioni peggiori e io vorrei aiutarli a farsi capire e comprendere dagli adulti, perché, anche se non par-lano, capiscono, soffrono, gioiscono proprio come fate voi.

Quando ero piccola io ho sempre vissuto con dispia-cere la mia condizione, perché la reputavo un’ingiustizia e dicevo: «Signore, tu che sei così buono e giusto, che ti sei sacrifi cato per salvarci, che ci hai insegnato tante cose, perché a una tua fi glia hai fatto una cosa del genere: non mi vuoi bene? Ti ho disubbidito? Mi sono forse conces-sa a qualche peccato?». Quando sono stata più grande, in prima media, una persona è venuta in mio aiuto ed essendo mia madre mi ha detto: «Carissima fi gliola, guar-da che se tu sei in questo stato non è perché Dio non ti vuole bene, ma perché gli servi in questo modo; cerca di

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accettarlo e di servirlo come puoi». Io da quel momento ho cominciato a vedere la vita in modo totalmente diver-so: ho cominciato ad apprezzare i dolori che mi venivano infl itti, sia quelli fi sici che quelli morali; ho cominciato a credere che la sofferenza fi sica non fosse una maledizione, ma bensì un segno di predilezione da Cristo sulla croce.

Ogni volta che io vado in chiesa, guardo sempre il Crocefi sso e dico: «Quanti doni, quante grazie mi hai re-galato! Sei venuto a vivere e soffrire dentro il mio corpo, io sono dentro di Te e Tu sei dentro di me. Grazie per questo miracolo, Padre mio!».

Io qualche volta e forse anche tuttora mi chiedo: Perché il Padre mio mi sottopone a prove così dure? Ma poi mi rendo conto che se anche io non capisco i suoi progetti, Lui fa sempre il meglio per noi e io vorrei incoraggiare tutti voi, anche se so che sarà diffi cile, quando accadono delle disgrazie, delle cose brutte che noi non vorremmo mai che accadessero, a dire: «Signore, io non Ti capisco, ma sicuramente hai fatto il meglio per me». Infatti Lui mi ha concesso, nonostante la mia condizione, di avere degli amici, una famiglia, di poter frequentare una scuola im-pegnativa come il liceo classico e di intravedere davanti a me un futuro. Io ho molti Padri Spirituali e anche molte persone che, in mancanza dei miei genitori, mi forniscono aiuto e consiglio come se fossi una loro fi glia. Per queste benedizioni io non smetterò mai di ringraziare e di lodare incessantemente il Signore.

Grazie per l’attenzione.

Quando scrissi questa lettera non sapevo cosa avreb-be portato, che svolta avrebbe impresso nella mia vita, né tantomeno se ci sarebbe stata; ero ben consapevole di essere una fi glia singola in mezzo a un universo di

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fi gli. Per mia fortuna, feci la conoscenza di un monsi-gnore della mia città, che aveva ottimi contatti a Roma e che si recava in Vaticano tre giorni la settimana per svolgere alcuni incarichi. Mi assicurarono che nelle sue mani quella lettera non sarebbe andata perduta, non sa-rebbe stata una delle tante, ma avrebbe fatto il giro giu-sto, e sarebbe arrivata molto vicina al Papa. Bisognava solo vedere se il monsignore la riteneva degna di tanto. Chiesi un incontro, sempre più titubante ed emoziona-ta: chissà perché, cominciavo a intravedere Karol come una persona sempre più vicina nella mia vita, non così lontana come pensavo fi no a poco tempo prima. Seb-bene non mi facessi illusioni, capivo che instaurare un rapporto epistolare con il Santo Padre era qualcosa di estremamente raro, che non tutti avevano la fortuna e il privilegio di avere. L’incontro con il monsignore che mi avrebbe fatto da tramite avvenne il 14 settembre 2002 in Duomo, in un posto a lui particolarmente caro: da-vanti alla statua della Madonna pellegrina e sulla tomba del vescovo reggiano monsignor Beniamino Socche, che lo ordinò e costituì per lui un vero punto di rife-rimento nella sua vita sacerdotale. Mi ricordo ancora l’incontro: era verso sera e il Duomo era praticamente deserto, intravidi in un banco di una navata laterale la fi gura di un sacerdote, ormai anziano, che vestiva an-cora l’abito talare, con i capelli bianchi ben pettinati, un’espressione concentrata, il corpo ancora longilineo e slanciato, il portamento signorile. Tutto in lui faceva trasparire fi erezza, raffi natezza e tranquillità. Aveva il breviario tra le mani, e aspettava pazientemente pre-gando. Mi avvicinai lentamente, per paura di disturba-re, e gli sussurrai: «Monsignore?».

Lui si voltò, e nei suoi occhi apparve subito un lam-

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po di tenerezza nel vedermi, fu come se mi accarezzas-se dolcemente con lo sguardo. Mi sorrise rassicurante, e io mi stupii del suo fare giovanile, non dimostrava assolutamente l’età che mi avevano detto che avesse. Mi apparve un uomo in pace con se stesso, sereno, ma ancora in gamba, pieno di vita, molto dinamico e attivo.

«Rita?» mi rispose.«Sono io» gli dissi.«Che piacere!» esclamò lui, e fraternamente mi ab-

bracciò, anche se c’eravamo appena conosciuti. Ma lui mi spiegò che nei sofferenti vedeva sempre Gesù e quindi non poteva non abbracciarlo.

«La ringrazio di avere accettato di incontrarmi, mon-signore» gli dissi.

«Figurati!» mi rispose lui. «Mi hanno detto che puoi aver bisogno di me. Che cosa posso fare per esserti utile?»

«Ecco, monsignore...» cominciai esitante. Non volevo indugiare troppo, perché sapevo che

aveva poco tempo, ma desideravo anche fargli capire quanto io tenessi al mio proposito, senza dargli l’im-pressione che fosse un capriccio, o un desiderio dettato solo dalla mia giovane età o dal fascino che il ruolo di un Papa poteva esercitare su di una ragazza che si stava appena affacciando al mondo.

«Vorrei mettermi in contatto con il Santo Padre. Per me sarebbe estremamente importante fargli avere que-sta lettera, e queste rifl essioni sulla sofferenza e su come io avrei intenzione di viverla. Mi hanno detto che lei ha molte conoscenze in Vaticano, e la lettera arrivereb-be molto vicina al Santo Padre, se consegnata dalle sue mani. Lo farebbe?»

«Posso vedere la lettera?» mi chiese lui sorridendo.«Certo.» Gli porsi la busta.

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«Posso leggerla?»«È aperta.»Tirò fuori delicatamente il contenuto, e cominciò a

leggere a voce bassa, ma sentivo che scandiva le parole. Ci mise pochissimo tempo, ma a me quei minuti parve-ro interminabili: da lì sarebbe dipeso tutto, un sì e ci sa-rebbe stata qualche possibilità, un no e il mio desiderio sarebbe stato stroncato sul nascere. Temevo, ma sapevo di dover rischiare. Mi rivolsi alla statua della Madonna e pregai che il monsignore non mi giudicasse totalmen-te pazza, e vedesse qualcosa di buono in ciò che avevo scritto. Mentre fi ssavo intensamente gli occhi di Maria, mi sentii chiamare: «Figliola!».

Mi voltai, e vidi che gli occhi del monsignore era-no lucidi e che aveva un sorriso commosso e felice allo stesso tempo.

«Questa lettera» proseguì «è ispirata dallo Spirito Santo! È bellissima! Ti confesso che non ho mai letto niente del genere. Ringraziamo il Signore per il dono che ti ha fatto.»

Deglutii. «Questo vuol dire che la porterà?» «Certo che la porterò, e mi assicurerò che arrivi il più

vicino possibile al Santo Padre. Ha bisogno di sentire parole come queste, e ti dirò di più, sono sicuro che ti risponderà. Certo, non lui personalmente, uno dei suoi segretari, ma ti risponderà, credimi.»

Non sapevo cosa dire, tanta era la gioia. Mi limitai a buttargli le braccia al collo e a sussurrargli all’orecchio tantissimi «grazie». Lui mi prese per mano e mi disse: «Concludiamo questo incontro con una bella Ave Ma-ria alla Madonna, che ne dici? Lo sai che il Santo Padre è devotissimo alla Madonna? Nel suo stemma c’è scrit-to, e lui stesso ha dichiarato più volte di esserlo, “Totus tuus”, sai cosa vuol dire?».

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Lo guardai esitante, avevo da poco cominciato il li-ceo classico, ma in quel momento non ero abbastanza lucida per mettermi a tradurre quelle parole, per quan-to semplici fossero. Il monsignore comprese e mi venne in aiuto spiegandomi: «Tutto tuo. Vogliono dire tutto tuo. Molto spesso il Santo Padre ha dichiarato: “Totus tuus ego sum”, sono tutto tuo».

Io rimasi colpita da questa spiegazione, da questa frase, e mi sembrava già di conoscere meglio quell’uo-mo straordinario. Ora sapevo una cosa molto impor-tante, che anche per lui Maria, come per me da quando ero tornata da Lourdes un anno prima, era una parte fondamentale della sua vita cristiana, al punto da con-siderarsi tutto suo.

Così scrissi la mia prima lettera a Giovanni Paolo II. Quella sera non sapevo che stavo dando inizio a un le-game che sarebbe durato tutta la vita terrena di Karol e anche dopo, che Karol mi sarebbe entrato nel cuore, nelle viscere, e sarebbe stato una delle persone più im-portanti per me, nella mia vita non solo cristiana, ma anche personale, che l’avrei visto come un amico, un padre, un fratello sofferente, che sarebbe diventato per me un punto di riferimento incancellabile.

Qualche tempo dopo, mentre stavo pranzando tran-quillamente, suonarono alla porta. Mia nonna andò ad aprire, dopo di che rientrò e mi disse: «Visite per te».

«Per me?» esclamai. «Ma non aspetto nessuno!»«Eppure qualcuno ti cerca» mi rispose lei, con un sor-

riso che tradiva la felicità, ma di cui allora non mi accorsi.Mi trovai davanti un collaboratore del mio vescovo,

un diacono che ancora lavora in Curia. Ci conosciamo e ci diamo del tu.

«Marco,» gli dissi «che ci fai qui a quest’ora?»«Chiedilo al vescovo!» mi disse ridendo. «Mi ha spe-

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dito a casa tua senza neanche darmi il tempo di man-giare. Ha detto che è una cosa troppo urgente e troppo bella, che dovevo portartela subito, ed eccomi qui.»

«Cosa c’è di così urgente?» chiesi, mettendomi su-bito all’erta.

«L’hanno recapitata in vescovado per te» disse por-gendomi un pacchetto. «Leggi il mittente! Io e il vesco-vo siamo rimasti strabiliati, a dirti la verità.»

Lo guardai con aria interrogativa, ma lui mi fece segno di controllare il mittente. Quando i miei occhi lessero, il mio cuore si fermò: Città del Vaticano, Segre-teria di Stato. Il diacono disse: «Sembra proprio che tu sia arrivata fi no in Vaticano, eh Rita?».

«Non può essere!» esclamai io ancora incredula e al colmo della felicità.

«Invece è vero. Apri la busta. Posso sapere cosa dice? Così lo riferisco al vescovo.»

«Certo» gli risposi «però mi devi aiutare ad aprire la busta.» Lui rise e mi aiutò. Mi trovai con una lettera in mano, e con una corona di rosario. La lettera era fi r-mata da monsignor Pedro Lopez Quintana che, come venni a sapere in seguito, era uno dei più stretti colla-boratori del Papa. Nonostante siano passati otto anni, la lettera è ancora incorniciata, appesa nel mio studio, la prima di una lunga serie, ma quella che ha dato inizio a tutto, e dice così:

Dal Vaticano, 1 ottobre 2002

Gentile Signorina,il Santo Padre ha ricevuto e molto apprezzato la recente lettera, e relativo allegato, con la quale Ella ha voluto comunicarGli una particolare esperienza, assicurando af-

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fettuosa vicinanza al Suo universale ministero e alla Sua persona.

Riconoscente per il premuroso gesto di devozione, il Sommo Pontefi ce desidera manifestare vivo compia-cimento per la generosa testimonianza di fede offerta soprattutto ai giovani e, mentre incoraggia a confi dare sempre in Dio, Padre buono e ricco di misericordia, as-sicura per Lei e per i suoi cari uno speciale ricordo nella preghiera e, affi dandoLa alla materna protezione della Vergine Maria, è lieto di inviare la Benedizione Aposto-lica, accompagnandola volentieri con l’accluso dono della corona del Rosario da Lui benedetta.

Profi tto della circostanza per porgerLe cordiali saluti.

Mons. Pedro Lopez QuintanaAssessore

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Capitolo 2

La mia corrispondenza con Giovanni Paolo II

Continuai a scrivergli, gli inviavo gli auguri per le feste, o anche poche righe soltanto per sentire come stava, o per raccontargli un po’ di me e di cosa stavo viven-do in quel momento della mia vita. Non ero sicura di far bene, in fondo lui era il Papa, portava il peso del mondo sulle spalle, e io una ragazza che non aveva mai visto. Ma lo sentivo talmente vicino! Ormai mi era im-possibile interrompere quella singolare corrisponden-za epistolare. Il mio padre spirituale mi incoraggiò a continuare, mi disse che era un bene che continuassi a scrivergli, che mi ricordassi di lui anche per le festività, nei momenti più banali e che avessi per lui pensieri sempre affettuosi e di preghiera. Mi disse che Karol di questo avrebbe tratto sicuramente benefi cio, in quan-to era il Papa, ma era anche un uomo e forse qualche volta si poteva sentire solo. Infatti spesso, più respon-sabilità si ha, più è diffi cile avere rapporti umani con la gente comune. Certo, aveva dei collaboratori, infatti era circondato da cardinali, segretari, consiglieri, suore che lo accudivano e gli dimostravano affetto, ma forse sentiva il bisogno di qualcuno che si avvicinasse a lui e non fosse tra gli stretti collaboratori, una persona qual-siasi come quando da giovane sacerdote si imbatteva

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in tanti giovani che incontrava nella sua parrocchia o in altri luoghi e con il suo carisma e la sua capacità co-municativa riusciva a trascinare a tal punto che furono tra i primi a fondare i Wojtyla boys. Così dopo queste rifl essioni ho pensato: “Anche se è il Papa, perché no? Perché non tentare di avere un rapporto quasi amiche-vole con lui?”.

Questa considerazione mi fece molto rifl ettere e pen-sai che forse il Papa poteva gradire la vicinanza di una persona al di fuori del suo entourage di collaboratori del Vaticano: forse Sua Santità sentiva la mancanza di un rapporto quotidiano, delle cose semplici che sono alla base della vita di una persona qualunque e con poche responsabilità, o non così grandi come quella di guidare una Chiesa. Le mie lettere esprimevano pro-prio questo, freschezza, novità, quotidianità, dolcezza. Forse era proprio questo che a Giovanni Paolo II im-portava. Così continuai la mia corrispondenza, cercando di coinvolgerlo anche nelle piccole grandi cose che vi-vevo momento per momento, ormai per me era diven-tata una presenza quotidiana, la mia vicinanza a lui era assidua.

Forse per questo egli fece un gesto che lasciò stu-piti tutti, sia in Vaticano che nella mia città, e che non dimenticherò mai fi nché vivrò. Mi dimostrò in modo inequivocabile e sorprendente come fossi riuscita a far breccia nel suo cuore e come le mie lettere gli dessero gioia. Mi fece capire che ormai si aspettava le mie mis-sive, che ormai erano diventate una quotidianità per lui e quanto questo gli facesse piacere.

Il monsignore a cui avevo affi dato la mia prima lette-ra, da allora aveva preso a cuore la mia causa e si faceva tramite della corrispondenza fra me e il Santo Padre,

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chiamandosi scherzosamente “il corriere”, infatti quan-do mi telefonava, esordiva dicendo: «Sono il corriere del Vaticano. C’è posta per te».

Un giorno monsignor Pietro Iotti venne a trovarmi nella mia parrocchia, un sabato qualunque. Io avevo appena fi nito la mia lezione di catechismo e stavo ac-compagnando i miei bambini in chiesa per la preghiera conclusiva. All’improvviso me lo vidi sbucare davanti, d’istinto allargai le braccia e dissi: «Che piacere rive-derla!».

«Anche per me» rispose lui, guardandomi con affetto. «Ho delle cose da darti» bisbigliò.

Io lo guardai con aria interrogativa, ma lui si limitò a dire: «Dopo».

Io annuii. Non sapevo di che cosa potesse trattarsi, pensavo che più semplicemente fosse venuto in visita al mio parroco, dato che erano e sono tuttora molto amici. Il mio don cominciò a dire le preghiere, mentre i catechisti e i bambini le recitavano in coro riempien-do la chiesa di voci. Io mi ero quasi dimenticata della presenza del monsignore, ero troppo occupata a vigilare sui miei bambini, a guardare che si comportassero bene, a controllare come recitassero le preghiere. Poi all’im-provviso, prima del canto fi nale, il mio parroco invitò monsignore a salire sull’altare, dicendo che aveva un an-nuncio da fare. Lui prese il microfono e disse: «Mi scuso per l’intrusione, ma oggi io sono il messaggero del Papa, e ho qualcosa di molto importante da dire».

Sentii la chiesa riempirsi di esclamazioni: i bambini erano molto meravigliati da questa presenza estranea che aveva esordito con tali parole. I miei bambini ave-vano ancora un’idea astratta di chi era o che cosa faceva il Papa, ma io avevo affrontato l’argomento con loro,

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cercando di fare capire l’importanza di questa fi gura. In questa circostanza però li vedevo confusi, mentre i ragazzi più grandi erano incuriositi, non sapevano cosa aspettarsi. Istintivamente io fui molto felice per il mio parroco, dato che proprio quell’anno si festeggiava il cinquantesimo di fondazione della parrocchia, ed ero veramente contenta che il Santo Padre ne fosse venuto a conoscenza e avesse deciso di dare importanza alla cosa. Per noi parrocchiani era un avvenimento unico, e il parroco si meritava veramente un riconoscimento particolare da parte del Papa. Venni distolta da questi pensieri, quando sentii dire: «Ho un messaggio molto importante da dare, che riguarda Rita Coruzzi».

Io sgranai gli occhi: per me? Era venuto per me? Il messaggio era per me! Il mio parroco mi portò sull’alta-re, in modo da poter stare di fi anco a lui in un momento così importante. Lo vidi che sorrideva orgoglioso, e i suoi occhi sprizzavano gioia come non l’avevo mai visto fare.

«Dovete sapere» proseguì il prelato «che il Santo Pa-dre vuole bene a tutti, ma in modo particolare a Rita. Per lei ha fatto una cosa che in tutti questi anni non ho mai visto fare. Cara Rita, a nome del Santo Padre, per le tue lettere, per il tuo affetto verso di lui, per l’amore quotidiano che gli dimostri, sono molto felice e onorato di consegnarti questi regali, che, indegnamente, sono stato incaricato di portarti. Ecco!»

Mi porse una scatolina bianca con lo stemma papale. Già di per sé la trovai bellissima, ma intuii che doveva contenere qualcosa di molto prezioso e importante.

«Questa corona del rosario il Santo Padre la dà solo alle mogli dei capi di stato. Tu sei la prima senza que-sto titolo che la riceve, con uno sguardo particolare di

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affetto, di stima e la benedizione apostolica per te e per tutti coloro che desideri. A te!»

Io non potevo crederci, mi sembrava di vivere un so-gno. Non era possibile che stesse succedendo proprio a me! Era troppo bello, troppo incredibile, insomma, non era possibile! Invece era vero e dalla chiesa si levò un grosso applauso. Il parroco, prendendo a sua volta il microfono, disse: «Siamo onorati e commossi che una nostra parrocchiana sia diventata amica del Papa».

Io lo guardai allibita: amica del Papa? Il Papa era mio amico, e io sua amica! Non potevo crederci. D’istinto nel cuore mi scoppiò un grido che però, per quanto giovane, riuscii a tenere dentro di me, e a non esterna-re di fronte agli altri. Sono felice di non averlo fatto, in quanto ritengo che sarebbe stato inopportuno, ma il mio cuore gridò dentro di me: «Ti voglio bene, Karol!».

Ci fu un momento di commozione generale, in cui sca-turì un applauso spontaneo e sincero. Il mio parroco mi chiese, parlandomi all’orecchio: «Vuoi dire qualcosa?».

Io annuii, quindi lui mi diede il microfono. Ricordo che dissi: «Non so davvero cosa dire, sono frastornata, mi sembra di vivere in un sogno, non riesco ancora a credere che sia la realtà. Ma voglio dire che sono pro-fondamente grata a monsignor Pietro perché si è preso a cuore il mio caso e senza il quale non sarei arrivata a questo. E come posso dimenticare il mio parroco che mi ha impartito i primi rudimenti del cristianesimo, che mi ha sempre incoraggiato in tutte le mie iniziative, che è stato il primo a farmi intraprendere il cammino dell’accettazione della mia sofferenza anche quando ero disperata e non credevo più in niente. Lui non ha mai smesso di starmi vicino».

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E guardandolo negli occhi, gli dissi: «Se sta accaden-do questo, è anche merito tuo, della tua pazienza, della tua tenacia, anche quando io mi allontanai momentanea-mente dalla parrocchia perché ero arrabbiata con Dio, tu mi sei venuto a trovare, non hai perso la speranza. Ora io sono ritornata e questo risultato lo voglio condi-videre con te».

Il monsignore mi chiese a chi doveva impartire la benedizione apostolica, dato che potevo farla avere a chiunque desiderassi. Chiesi che venisse impartita in quello stesso momento lì nella mia parrocchia, al mio parroco e a tutta la comunità. Volevo che venisse im-partita nella chiesa dove avevo cominciato ad appren-dere i primi rudimenti della religione e della fede, dove avevo fatto il catechismo, dove avevo ricevuto tutti i sacramenti, dove per la prima volta avevo ricevuto Dio nel mio corpo con l’Eucaristia, e dove in seguito affer-mai la mia professione di fede, ricevendo la cresima e diventando testimone diretta del Dio vivente. Alla fi ne di tutto, quando scesi dall’altare, ancora incredula e grondante di felicità, il monsignore mi confessò di esse-re ancora più incredulo di me, ma anche estremamente felice.

«Te l’avevo detto» mi disse «che c’era la mano dello Spirito Santo su di te! L’avevo capito.»

Io gli dissi timorosa: «Monsignor Pietro, dopo tutto questo, scrivergli non mi basta più. Voglio incontrarlo».

«Farò in modo che tu lo incontri.»«Ma vorrei prendergli la mano.»«Gliela prenderai, però devo avvisarti che per quan-

to io abbia delle buone conoscenze, non sarà una cosa immediata, ci vorrà del tempo. Bisogna studiare i tempi e i modi adatti.»

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Io non nascosi di essere preoccupata: la malattia di Karol era già a uno stadio molto avanzato e ogni minu-to si rivelava prezioso. Io avrei voluto andarci subito, per paura di non riuscirci più, che aspettando troppo il Signore lo chiamasse a sé prima che io potessi vederlo da vicino e guardarlo negli occhi, almeno una volta. Vo-levo guardare negli occhi questo amico di nome Karol.

Il monsignore mi disse in maniera rassicurante: «Se il Signore vorrà, vi incontrerete. Lo terrà in vita affi nché tu possa incontrarlo. Abbi fi ducia in Lui».

Ma io ero giovane allora, non avevo ancora una fede così profonda come ora, e scalpitavo. Scalpitavo d’im-pazienza con la paura che Karol potesse venir meno da un momento all’altro, ma lui resisteva, resisteva.

Intanto, però, gli scrissi nuovamente per ringraziarlo dei doni meravigliosi che mi aveva mandato, e gli inviai questa lettera:

A Sua SantitàGiovanni Paolo II

Reggio Emilia, 28.2.2003

Santo Padre eminentissimo e carissimo,La ringrazio infi nitamente per i generosi e bellissimi doni che mi ha mandato tramite monsignor [Pietro Iotti]. Lei mi ha trattato come una persona importante, regalando-mi una corona del Rosario così preziosa; inoltre ho molto gradito la Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae e la Sua immagine in atteggiamento di benedizione, che ora custodisco gelosamente.

Questa lettera vuole essere innanzitutto un ringrazia-mento ma anche un segno di vicinanza alla Sua persona e al Suo Ministero, in quanto mi sento in dovere di con-fi darLe che io prego per Lei in due modi: sia come Som-

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mo Pontefi ce e quindi Vicario di Cristo, sia come Karol Wojtyla, cioè come persona che per volontà del Signore è stata eletta Papa. Faccio così anche con il mio Padre Spiri-tuale monsignor Giuseppe Verucchi, attuale Arcivescovo di Ravenna e spero che a Lei non dispiaccia.

Prima di salutarLa, vorrei chiederLe una cosa molto importante per me, anche se forse impossibile, ma oso ugualmente formulare il mio desiderio e il mio sogno: quello di potere un giorno partecipare a una Sua udienza generale e, magari, stringerLe le mani e baciarLe l’anello. Mi perdoni se oso farLe questa richiesta, immagino che Lei avrà tante persone a cui concedere udienza, certamen-te più importanti di me, ma Le sono talmente grata per i doni generosissimi che mi ha mandato, che non posso evitare di desiderare di poterLa vedere più da vicino al-meno una volta. Se ciò sarà possibile ne sarò molto felice, in caso contrario continuerò a seguirLa e a pregare per Lei anche da lontano.

RingraziandoLa ancora di tutto quello che ha fatto per me e del tempo che mi ha concesso, La saluto affettuosa-mente. Che Dio La benedica e La protegga sempre.

Sua aff.ma Rita Coruzzi

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