Il Lavoro Pubblico in Italia Appunti Carabelli Carinci (1)

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Il Lavoro Pubblico in Italia Umberto Carabelli e Maria Teresa Carinci, Cacucci, 2010 PARTE PRIMA : LA RIFORMA DELLA P. A. E DEL LAVORO PUBBLICO IN ITALIA CAPITOLO 1 : I PROCESSI DI MODERNIZZAZIONE ORGANIZZATIVA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LA LORO INCIDENZA SUL LAVORO PUBBLICO 1. LA STRUTTURA DEL SETTORE PUBBLICO IN ITALIA : Il Livello centrale: In Italia la p.a. comprende: - I ministeri, che gestiscono le politiche pubbliche statali e hanno funzioni di governo e di indirizzo; - Gli enti pubblici non economici, che hanno funzioni amministrative,di servizio e di erogazione; - Le agenzie nazionali, che sono autonomi rispetto i ministeri. 1. Il Livello territoriale: Le pp.aa. che operano a livello locale sono: - Regioni ed Enti regionali; - Enti locali ( Comuni, Provincie, Comunità Montane e Città Metropolitane); - Altri enti dotati di autonomia rispetto allo Stato centrale la cui attività su svolge prevalentemente a livello territoriale (Aziende Sanitarie locali, Camere di Commercio). Tali enti sono autonomi rispetto allo Stato e hanno azione territoriale, l’art. 114 cost. dice che per tali enti il territorio è l’elemento centrale e costitutivo. Alle 20 Regioni Italiane la Costituzione riconosce anche il potere di emanare leggi su ogni materia non riservata espressamente dalla stessa Costituzione alla legislazione statale, tale possibilità pone le Regioni in una posizione primaria e sovra-ordinata rispetto agli enti locali Mentre il settore pubblico allargato è composto da attività costituite con capitali pubblici ma gestite da soggetti privati, le stesse per legge sono sottoposte ad alcune regole di diritto pubblico ed al controllo pubblico ( Aziende di trasporto locali, aziende della raccolta dei rifiuti urbani). 2. PRINCIPALI FUNZIONI DEL SETTORE PUBBLICO A livello centrale sono gestite le funzioni che la costituzione riserva alla competenza statale, (ordine pubblico, sicurezza, difesa, forze armate, istruzione, sistema tributario nazionale 1

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Il Lavoro Pubblico in Italia Umberto Carabelli e Maria Teresa Carinci, Cacucci, 2010

PARTE PRIMA : LA RIFORMA DELLA P. A. E DEL LAVORO PUBBLICO IN ITALIA

CAPITOLO 1 : I PROCESSI DI MODERNIZZAZIONE ORGANIZZATIVA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LA LORO INCIDENZA SUL LAVORO PUBBLICO

1. LA STRUTTURA DEL SETTORE PUBBLICO IN ITALIA :

Il Livello centrale: In Italia la p.a. comprende:

- I ministeri, che gestiscono le politiche pubbliche statali e hanno funzioni di governo e di indirizzo;

- Gli enti pubblici non economici, che hanno funzioni amministrative,di servizio e di erogazione;

- Le agenzie nazionali, che sono autonomi rispetto i ministeri.1. Il Livello territoriale: Le pp.aa. che operano a livello locale sono:

- Regioni ed Enti regionali;- Enti locali ( Comuni, Provincie, Comunità Montane e Città Metropolitane);- Altri enti dotati di autonomia rispetto allo Stato centrale la cui attività su svolge

prevalentemente a livello territoriale (Aziende Sanitarie locali, Camere di Commercio).Tali enti sono autonomi rispetto allo Stato e hanno azione territoriale, l’art. 114 cost. dice che per tali enti il territorio è l’elemento centrale e costitutivo.Alle 20 Regioni Italiane la Costituzione riconosce anche il potere di emanare leggi su ogni materia non riservata espressamente dalla stessa Costituzione alla legislazione statale, tale possibilità pone le Regioni in una posizione primaria e sovra-ordinata rispetto agli enti locali Mentre il settore pubblico allargato è composto da attività costituite con capitali pubblici ma gestite da soggetti privati, le stesse per legge sono sottoposte ad alcune regole di diritto pubblico ed al controllo pubblico ( Aziende di trasporto locali, aziende della raccolta dei rifiuti urbani).

2. PRINCIPALI FUNZIONI DEL SETTORE PUBBLICO

A livello centrale sono gestite le funzioni che la costituzione riserva alla competenza statale, (ordine pubblico, sicurezza, difesa, forze armate, istruzione, sistema tributario nazionale ecc. ) mentre a livello territoriale sono gestite le funzioni di competenza regionale ( sanità, trasporto pubblico, scuole dell’infanzia, urbanistica, gestione del territorio ecc).Ci sono funzioni sulle quali vi è una competenza congiunta tra livello centrale e locale territoriale (vedi la tutela ambientale dove il Ministero dell’Ambiente svolge le funzioni di governo e legifera sulla materia, l’agenzia Nazionale per L’ambiente (APAT) svolge attività tecnico-scientifica e le Agenzie Territoriali svolgono le attività di gestione e controllo del territorio.

3. DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO , RIFORMA COSTITUZIONALE E FEDERALISMO FISCALE

Negli anni ’90 è iniziato un processo di decentramento di funzioni dallo Stato alle Regioni ed Enti locali, processo iniziato con la L. 59/1997 e proseguito con la L. 3/2001 (a modifica dell’art. 117 cost.) che hanno ridisegnato il riparto dei poteri e delle funzioni tra Stato centrale, regioni ed enti locali, rafforzando il ruolo delle autonomie locali e dando concreta attuazione al principio di sussidiarietà. Le riforme hanno previsto che lo Stato può legiferare solo su materie di sua esclusiva competenza,

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(vedi immigrazione, politica estera, difesa, forze armate, pubblica sicurezza, previdenza sociale, tutela ambientale ecc) mentre alle Regioni compete il potere di legiferare su tutte le altre materie non riservate alla competenza statale; vi sono poi alcune materie di legislazione concorrente sulle quali è riservata allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (una sorta di legge cornice) e alle Regioni la competenza di formulare la legge attenendosi al limite che fissa lo Stato.Nel nuovo assetto dei poteri gli Enti Locali sono titolari di funzioni proprie (oltre quelle conferite con legge statale e regionale), sulla base del principio che tutte le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo quelle che richiedano l’esercizio unitario a livello provinciale, regionale o statale. Inoltre, la costituzione riformata attribuisce piena autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, in attuazione dell’art. 119 cost. è stata approvata una legge delega, secondo il quale il governo disciplina mediante decreti l’autonomia finanziaria degli enti territoriali e detta alcune regole sulle risorse tributarie decentrate, sulla parificazione fiscale e sul coordinamento fra i vari livelli di governo. Tale autonomia dovrà coniugarsi con una maggiore responsabilità degli enti territoriali sulla spesa e sugli andamenti del bilancio.

PRIVATIZZAZIONI

All’inizio degli anni ’90 lo Stato deteneva circa il 45% del settore industriale e circa l’80% del settore bancario. Nel ’92 inizia il processo di privatizzazione del settore pubblico al fine di liberalizzare i mercati e risanare con le vendite i conti pubblici. Le privatizzazioni sono state realizzate in più fasi:

- La fase di privatizzazione formale, ovvero trasformazione in società per azioni alcuni enti pubblici economici ed istituti di diritto pubblico, es: Enel, Anas, Banca BNL, le F.S., l’ENI ;

- Nel caso dei servizi di pubblica utilità, la privatizzazione è stata accompagnata da alcune misure per la tutela degli utenti e della concorrenza, come la separazione tra proprietà delle reti e proprietà del servizio;

- Fase di collocamento sul mercato di quote azionarie delle società di nuova istituzione e di quelle partecipate, tale collocamento è avvenuto in più tranches ed ha implicato una privatizzazione sostanziale delle società.L’italia risulta in secondo paese al mondo dopo il Giappone per entità di privatizzazioni.

ESTERNALIZZAZIONI

1 esternalizzazioni di attività amministrativePropensione delle amministrazioni centrali ad esternalizzare attività connesse ai sistemi informativi e attività riguardanti i rapporti con l’esterno e la comunicazione e l’organizzazione.Le amministrazioni locali esternalizzano in misura minore i sistemi informativi e mostrano interesse per la gestione della contabilità e gestione del personale:2 esternalizzazioni di servizi interniAmministrazioni centrali esternalizzano maggiormente servizi di vigilanza e sicurezza e di gestione e manutenzione, invece le amministrazioni locali, i servizi di gestione e manutenzione;3 esternalizzazioni di servizi finaliIl servizio finale più esternalizzato è la gestione dei rifiuti, segue il servizio socio-assistenziale e le attività di erogazione e distribuzione dei servizi a rilevanza economica.

LA DIMENSIONE ECONOMICA DEL SETTORE PUBBLICO

L’operatore pubblico svolge un ruolo fondamentale nella creazione e nello sviluppo delle infrastrutture immateriali, che costituiscono la base della crescita economica e dello sviluppo sociale

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e culturale del paese. Nelle infrastrutture immateriali rientra il capitale umano, ma anche il contesto in cui si svolge l’attività economica produttiva. Le riforme della p.a. recentemente varate interessano due ambiti: l’innovazione tecnologica, volta a modernizzare la p.a. e a migliorare i rapporti con i cittadini e le imprese; la riforma del lavoro pubblico ed il rafforzamento dei sistemi di valutazione e misurazione dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione pubblica.

LE DIMENSIONI DEL LAVORO PUBBLICO

I lavoratori delle p.a. sono circa 3 milioni e 600 mila ovvero il 15% della forza lavoro del paese. Il settore con più dipendenti è la Scuola seguita dal Servizio Sanitario Nazionale ed il settore Regioni ed Autonomie Locali. In riferimento al grado di decentramento del sistema pubblico italiano si vede che nelle amministrazioni centrali è collocato il 59% dei dipendenti pubblici nelle locali il 41%.La differenza tra lavoratori contrattualizzati e non è di circa l’ 85% dei primi nei confronti dei secondi.Il contratto di lavoro prevalente nelle p.a. è quello a tempo indeterminato ovvero circa il 90%, però si è manifestata una crescita del lavoro flessibile.Per il lavoro part-time il personale impiegato è circa il 5% del totale ed il loro numero è in aumento negli ultimi anni, circa l’85% è di donne le quali si trovano in prevalenza nella tipologia di prestazione lavorativa superiore al 50% dell’orario di lavoro. La percentuale dei dipendenti pubblici è costituita da donne, circa il 55% ed è in costante aumento, la maggior parte di loro è impiegata nella scuola e nel servizio sanitario nazionale.L’età media dei lavoratori pubblici è in aumento ad oggi risulta prossima o superiore ai 50 anni, come lo è anche il dato riferito alla anzianità di servizio che si aggira intorno ai 20 anni.Tale invecchiamento è dovuto ai blocchi di assunzioni e conseguente non ingresso di nuovi lavoratori, tale calcolo è fatto sul solo personale a tempo indeterminato, includendo quelli a termine e le altre tipologie di lavoro flessibile, il livello dovrebbe abbassarsi.La densità sindacale dei lavoratori pubblici si attesta intorno al 50% con un andamento crescente negli ultimi anni, significativo è il dato che vi è un aumento di sindacalizzazione della dirigenza che è superiore al personale non dirigente, il dato si attesta sul 68% con punte che arrivano fino al 90%. In riferimento alle rappresentanze sindacali ad oggi si contano circa 242 organizzazioni, di cui solo 40 sono presenti nelle Regioni Italiane e solo 29 (12%) di loro, raggiungono la soglia minima di rappresentatività necessaria per legge per essere ammessi alle trattative nazionali, infatti le tre maggiori conferderazioni sindacali CGIL, CISl e UIL hanno il 71% del totale delle deleghe pertanto solo il restante 29% viene ripartito per le restanti organizzazioni sindacali. DINAMICA RETRIBUTIVA

La spesa pubblica per il pagamento dei pubblici dipendenti è in fase di diminuzione in termini di PIL, dal 12% al 10% nel 2008 ed è tuttora costante. L’analisi della dinamica retributiva nelle p.a. individua 3 fasi:

1 anni ’80 si ha una crescita delle retribuzioni nel settore pubblico superiore sia all’inflazione che ai tassi di crescita delle retribuzioni nell’industria.

2 anni ’90 in coincidenza con la riforma del lavoro, la dinamica retributiva risulta più contenuta, inferiore a quella fatta registrare nell’industria e nel resto dell’economia.

3 anni 2000 accentuazione della dinamica di crescita, con tassi di incremento che tornano ad essere superiori a quelli del resto dell’economia e dell’inflazione, ciò perché le amministrazioni hanno fatto largo uso di risorse per la contrattazione di secondo livello, aggiuntive a quella nazionale.

Le ultime leggi finanziarie soprattutto a partire dal 2006 hanno riproposto il contenimento delle voci di spesa soprattutto in riferimento alla contrattazione integrativa, imponendo per i fondi previsti per i trattamenti accessori, la riduzione del 10% sul precedente limite.

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Inoltre con il D.lgs 150/2009 sono stati introdotto nuovi e più stringenti controlli sui costi della contrattazione integrativa volta ad accertare il rispetto dei vincoli finanziari imposti per legge e la concreta definizione dei criteri improntanti alla premialità ed al riconoscimento del merito.

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CAPITOLO 2: PRIVATIZZAZIONE E CONTRATTUALIZZAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO E NUOVI ASSETTI GIURIDICI DELL’ORGANIZZAZIONE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

1. IL LAVORO PUBBLICO IN ITALIA: CENNI STORICI

In Italia la configurazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche come rapporto di pubblico impiego affonda la sue radici nel periodo post-unitario. La concezione di fondo è quella del rapporto di immedesimazione organica (il pubblico impiegato è abilitato a manifestare la volontà della P.A. e ad agire per conto di essa). In origine l’incarico di funzionario era onorario, solo in seguito sarà prevista la remunerazione. Non può esistere una sovrapposizione fra il rapporto alle dipendenze della P.A. e quello alle dipendenze di datori di lavoro privati. Il pubblico impiego nel periodo fascista e poi anche nel primo periodo repubblicano, (la Cost. confermava ciò negli artt. 97-98) aveva questi caratteri: duplicità di rapporti: organico (inserimento nell’ufficio, che giustifica l’esercizio di poteri) e di

servizio, (svolgimento di una prestazione lavorativa); il rapporto di lavoro del dipendente pubblico non ha fondamento contrattuale, ma deriva da atto

unilaterale di nomina; è disciplinato da leggi e regolamenti e la sua gestione avviene attraverso atti amministrativi; l’impiegato è soggetto ad una subordinazione di tipo gerarchico (non a una subordinazione

tecnico-funzionale come il dipendente privato) alla quale corrispondeva una supremazia speciale da parte della P.A;

il pubblico impiegato non può vantare diritti soggettivi perfetti nei confronti della amministrazione datrice di lavoro ma solo interessi legittimi della cui eventuale lesione è giudice la magistratura amministrativa.

Le mutazioni sociali e politiche degli anni 60-70 (primi governi di centro sinistra a partecipazione socialista) fanno emergere un diverso atteggiamento nei confronti del lavoro pubblico. Si riscontrano mutamenti dell’esperienza sindacale (sindacalismo di tipo autonomo e corporativo), lo Stato non resta indifferente a tali mutamenti abolendo tramite la Corte Costituzionale il divieto di sciopero per i dipendenti della P.A. così come previsto dalle norme del c.p. del 1930 e attribuendo a quest’ultimi diritti sindacali sostanzialmente corrispondenti a quelli previsti nel settore privato allo Statuto del Lavoratori (L.n.300/1970) e dall’altro prevedendo la contrattazione collettiva come strumento di definizione del rapporto di pubblico impiego. La dottrina inizia a riflettere sulla rigidità del sistema: basti pensare alla inadeguatezza della immedesimazione organica rispetto all’enorme quantità di dipendenti pubblici che svolgono prestazioni a rilievo puramente interno, parificabili a quelle di qualsivoglia lavoratore del settore privato. A ciò si aggiunge il riconoscimento della natura privatistica del rapporto di lavoro alle dipendenze degli Enti pubblici economici che svolgono attività imprenditoriali.Si deve ad un autorevole studioso Massimo Severo Giannini diventato anche ministro della Funzione Pubblica l’elaborazione nel 1970 di una costruzione che ha distinto il rapporto organico con il rapporto di servizio, aprendo la strada alla riforma del 1990 Si delineano così nuove interpretazioni atte a favorire, a Costituzione immutata, processi di riforma che avvicineranno la disciplina del pubblico impiego a quella del lavoro subordinato privato. Infatti l’art. 97 cost. nel richiedere che i pubblici uffici siano organizzati secondo disposizioni del legge, non include necessariamente anche i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici, anche se strumentali al funzionamento della struttura ammnistrativa. Giannini lascia esplicitamente fuori dalla

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sua elaborazione i dirigenti pubblici i quali a causa delle funzioni svolte non possono essere compararti con i pubblici dipendenti.Nel 1983 con la (Legge quadro sul pubblico impiego) viene dettata una più organica e generale disciplina sui diritti sindacali e sulla contrattazione collettiva, la quale viene formalmente investita di una competenza regolativa su numerose materie del rapporto di lavoro (altre restano esplicitamente riservate alla legge). La contrattazione collettiva (come già accadeva in precedenza) non viene riconosciuta idonea a produrre accordi direttamente efficaci sui rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici: gli accordi infatti, una volta siglati dovevano essere recepiti con atto unilaterale.Il decennio successivo vede il fallimento della nuova disciplina: la selezione dei soggetti sindacali abilitati alla negoziazione prescindeva da una verifica sul campo della loro effettiva rappresentatività; il riparto di competenze tra legge e contrattazione risultava poco chiaro; la necessità del recepimento con atto unilaterale esponeva frequentemente all’intervento demolitivo della magistratura; inoltre il regime pubblicistico del rapporto di pubblico impiego, con le sue rigidità burocratico-gestionali, appare un ostacolo ad una più flessibile gestione del personale. Tutti fattori che fanno emergere la necessità della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, le stesse grandi Confederazioni sindacali consapevoli della importanza della partita in gioco hanno contribuito in modo determinante al processo riformatore.

2. LA LUNGA E TORMENTATA RIFORMA DEL LAVORO PUBBLICO: DALLA LEGGE AMATO ALLA LEGGE BRUNETTA

La vigente disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle P.A. è il risultato di un processo iniziato nel 1992. Di questo processo evolutivo possono individuarsi 5 fasi: nelle prime due sono stati definiti i tratti essenziali della riforma secondo il metodo della sperimentazione operativa, mentre nelle altre fasi successive vi sono stati i perfezionamenti e le correzioni di rotta (inclusa la riforma Brunetta del 2009, che benché sia stata presentata come una riforma “radicale” riprende ed integra la disciplina precedente). Prima di esaminare le varie fasi appare opportuno sottolineare le finalità perseguite dal legislatore (art. 1 D.Lgs. 165/2001):1. accrescere l’efficienza delle P.A., principalmente attraverso la modernizzazione e lo snellimento

delle regole giuridiche e organizzative di funzionamento dell’apparato amministrativo;2. razionalizzare il costo del lavoro pubblico, soprattutto attraverso la riforma del sistema di

contrattazione collettiva, la quale diviene l’unico strumento cui compete la definizione delle retribuzioni dei dipendenti pubblici privatizzati.

3. realizzare una migliore utilizzazione delle risorse umane, attraverso la garanzia di pari opportunità di lavoro, nonché sulla formazione professionale.

a) In riferimento alla prima finalità essa resta sostanzialmente affidata alla modernizzazione ed allo snellimento dell’apparato amministrativo. Su questo piano determinante è la privatizzazione e contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, ma anche la collocazione al centro del nuovo sistema organizzativo della p.a.. della figura del dirigente pubblico considerato un vero e proprio manager a cui sono riconosciuti poteri autonomi volti ad assicurargli l’ indipedenza dalle pressioni politiche e sindacali, ma che nel contempo è chiamato a rispondere personalmente dei risultati conseguiti. Altro elemento importante ai fini della costituzione di una amministrazione efficiente è quello della innovazione delle strutture tecniche di supporto (informatizzazione dei processi) . I capisaldi del legislatore sono pertanto, l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’attività ammnistrativa, la flessibilità organizzativa, la trasparenza dell’azione amministrativa.

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b) La seconda finalità è la riforma del sistema di contrattazione collettiva che diventa l’unico strumento a cui compete la definizione delle retribuzioni pubbliche. Viene posto un argine a quei fenomeni (leggi e leggine) che concedevano abitualmente in passato trattamenti economici migliorativi ai lavoratori pubblici, per finalità politico-clientelari;

c) La terza finalità è la garanzia di pari opportunità di lavoro e di sviluppo professionale tra lavoratori e lavoratrici, nella speranza di formare un “nuovo” lavoratore pubblico consapevole dei propri compiti. La riforma del lavoro pubblico, pur avendo ampia estensione, non ha portata generale in quanto ha lasciato assoggettati al regime pubblicistico alcune categorie (polizia, magistrati, diplomatici, docenti universitari, ecc.).

3. LE 5 FASI DELLA RIFORMA

1° FASE. È segnata dal D.Lgs. 29/1993 (che attua una legge delega del ’92) e dai vari decreti correttivi emanati nello stesso anno. Si ricerca soprattutto la modernizzazione del sistema amministrativo italiano, rendendo più efficiente ed efficace l’attività delle P.A. in favore dei cittadini. Tuttavia la spinta riformatrice è venuta anche da alcuni fattori “esterni”: la crisi della Prima Repubblica, la necessità di ridimensionare la spesa pubblica italiana, la necessità di rientrare nei parametri di Maastricht. Gli aspetti essenziali della prima fase furono: privatizzazione = riconduzione del lavoro pubblico sotto le leggi che governano il lavoro privato; contrattualizzazione = i rapporti individuali di lavoro sorgono dal contratto individuale/contratto

collettivo, e non più dall’atto pubblico unilaterale di nomina; conservazione di una disciplina speciale per alcuni istituti meritevoli di una tutela specifica; ambiti di esclusione della privatizzazione e contrattualizzazione dei dirigenti di prima fascia

(che restano al regime pubblicistico),ed inclusione di quelli di seconda fascia; definizione del principio di separazione tra potere politico e dirigenziale; introduzione del sistema di verifica dei risultati di siffatta attività gestionale dirigenziale da parte dei nuclei di valutazione e previsione di una corrispondente responsabilità per i dirigenti;

avvio di un nuovo sistema di relazioni sindacali e contrattazione collettiva, che si proclama fondato sul principio di libertà sindacale e contrattuale ma invece mantiene il parametro del controllo della Corte dei Conti sia sulla spesa contrattuale sia indirettamente sui contenuti negoziali;

riparto di giurisdizione = affidamento alla magistratura ordinaria della piena giurisdizione in relazione alle controversie inerenti ai rapporti di lavoro, ad esclusione di una serie di materie (che restano al giudice amministrativo).

La riforma del legislatore, pur supportata da autorevoli fondamenta teoriche (Giannini), non ha riscosso immediatamente un generale consenso: anzi i dubbi si sono tradotti ben presto in eccezioni di costituzionalità, si eccepì il presunto contrasto dei principi fondanti della riforma e l’art. 97 Cost. (si riteneva che esso imponeva la necessaria disciplina pubblicistica dei rapporti di lavoro), un’altra eccezione fu sollevata per la parte in cui si definiva l’ambito di esclusione della privatizzazione e contrattualizzazione (esclusione per i dirigenti di prima fascia, inclusione per i dirigenti di seconda fascia). Ma furono risolte le eccezioni in entrambi i casi perorando la tesi per la quale l’art. 97 lascia al legislatore la scelta su quale regime utilizzare per perseguire il buon andamento dell’Amministrazione, il quale ha ritenuto tale soluzione come la più idonea alla realizzazione delle

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esigenze di flessibilità nella gestione del personale e ad assicurare il buon andamento dell’amministrazione .

2° FASE. Si sostanzia in una legge delega del ’97 e una serie di d.lgs. fino al 1998 volti ad integrare, modificare e correggere il D.Lgs. 29/1993. A questa fase possiamo ricondurre anche il D.Lgs. 165/2001 il quale, pur non essendo un vero e proprio testo unico, ne ha svolto e svolge tuttora la funzione tipica, in quanto in essa è riordinata e riunificata l’intera disciplina emanata nel corso delle prime due fasi e su di esso sono stati effettuati tutti gli interventi modificativi ed integrativi delle successive 3 fasi. Questa seconda fase oltre che da esigenze di correzione è stata sollecitata anche da alcuni fattori esterni: la riforma del decentramento amministrativo (con funzioni e compiti passati dallo Stato centrale a Comuni, Prov., Reg.) e la semplificazione amministrativa al fine di rendere l’amministrazione più vicina ai cittadini/utenti. Gli aspetti significativi di questa seconda tappa evolutiva sono: estensione della privatizzazione agli atti di “bassa” o micro-organizzazione (determinazioni

concernenti organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro) . Mentre la c.d. macro-organizzazione (linee fondamentali di organizzazione degli uffici, dotazioni organiche, determinazione degli uffici più importanti) resta disciplinata da quella pubblicistica;

estensione della privatizzazione e contrattualizzazione ai rapporti di lavoro dei dirigenti di prima fascia, ed introduzione di un ruolo unico della dirigenza articolato in 2 fasce, nonché introduzione del principio della temporaneità e della rotazione degli incarichi; il trattamento retributivo e la durata dell’incarico non può essere inferiore ai 2 anni e superiore a 7,accentuazione della distinzione tra funzione di indirizzo degli organi di governo e funzione di gestione amministrativa dei dirigenti; più puntuale meccanismo di verifica dei risultati; introduzione del meccanismo di spoils system per gli incarichi dirigenziali;

revisione dei meccanismi legali di accertamento della rappresentatività dei sindacati dei lavoratori per l’ammissione alla contrattazione collettiva, e ridefinizione del procedimento di stipula dei contratti collettivi per renderlo il più possibile libero e simile al sistema del settore privato;

introduzione della possibilità per le amministrazioni di ricorrere ai contratti di lavoro flessibile.

Le eccezioni di incostituzionalità sollevate dopo il primo processo evolutivo furono di grande aiuto nella fase introduttiva del secondo processo evolutivo: venne ribadita la legittimità costituzionale di intervenire con legge ordinaria che riservi alla legge la regolazione del nucleo essenziale dell’organizzazione amministrativa e ad altre fonti la restante parte dell’organizzazione amm. e dei rapporti di lavoro. Infatti ciò accade per gli atti di micro-organizzazione (regolamentati da una disciplina privatistica) e gli atti di macro-organizzazione che, essendo espressione di interessi pubblicistici di particolare rilievo, restano disciplinati dalla disciplina pubblicistica. La Corte costituzionale ha in buona sostanza “garantito” la legittimità costituzionale di una eventuale scelta legislativa che non solo confermava la privatizzazione e contrattualizzazione dei rapporti di lavoro pubblico ma estendesse altresì, il regime privatistico ai c.d. atti di micro-organizzazione riservando il regime pubblicistico solo alle fondamentali scelte di organizzazione degli uffici e ad alcuni aspetti organizzativi ritenuti espressione di interessi pubblicistici di particolare rilievo. Come abbiamo visto viene inoltre sancita l’estensione della privatizzazione e contrattualizzazione anche per i dirigenti di prima fascia e, come nella prima fase non abbiamo incostituzionalità perché rientra nella discrezionalità del legislatore disegnare l’ambito di estensione. Va infine ricordato che in questa fase il sistema dei controlli subisce interventi di riordino: i controlli vengono spostati a valle

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dell’attività, e così tale strumento diventa non più repressivo ma “collaborativo”, volto a promuovere una corretta gestione pubblica.

3° FASE. La terza fase ha il suo epicentro nella L. 145/2002 la quale interviene modificando profondamente il D.Lgs. 165/2001 nella parte relativa alla disciplina del rapporto dirigenziale. Tale provvedimento legislativo è stato letto da parte della dottrina come una contro-riforma, con cui il potere politico ha mirato a riacquisire il controllo sulla dirigenza, attraverso una maggiore incidenza sull’attività gestionale amministrativa. Gli aspetti significativi di siffatta controriforma sono stati:o riconduzione dell’attribuzione degli incarichi dirigenziali ad un provvedimento unilaterale (al

contratto con il dirigente resta riservato solo il trattamento economico);o introduzione del principio della responsabilità del dirigente per inosservanza direttive

dell’organo politico;o eliminazione del termine minimo di 2 anni di durata dell’incarico – gli incarichi di breve durata

esasperano il loro carattere fiduciario, col rischio di perdita di autonomia e imparzialità dei dirigenti.

Tutto ciò ha portato a rendere meno praticabile l’idea originaria (perseguita dalla due riforme precedenti) di metter il manager pubblico a confronto con le logiche di mercato.

4° FASE. Tale fase, sviluppatasi fino alla metà del 2008 (fino alla caduta del governo Prodi), è caratterizzata da una serie di provvedimenti legislativi che hanno ancora ritoccato il D.Lgs. 165/2001. A parte il primo intervento (che vedremo costituisce una marcia indietro rispetto alla precedente fase, relativamente agli incarichi dirigenziali), i successivi hanno l’intento comune di incidere in senso fortemente limitativo sulla spesa pubblica, anche per via della pressione degli organi di controllo comunitari, sono per lo più interventi di semplice messa a punto, spesso incidenti su aspetti marginali. Gli interventi nel dettaglio sono:1. il primo attiene dunque alla materia degli incarichi dirigenziali, in relazione alla loro durata si è

tornati alla fissazione di un limite minimo pari a tre anni, e di un limite massimo pari a cinque;2. la seconda serie di interventi riguarda la materia della contrattazione collettiva, rispetto alla

quale vengono rivisti e resi più certi nella tempistica alcuni passaggi della procedura che conduce alla firma del contratto nazionale di comparto. Si introducono anche vincoli per la contrattazione integrativa dove vengono posti limiti rigorosi in ordine alla utilizzazione delle risorse disponibili per il personale al fine di assicurare il rispetto dei vincoli di bilancio;

3. un terzo gruppo di interventi riguarda il problema della diffusione, anche nel settore pubblico, dei contratti di lavoro subordinato di tipo temporaneo e di lavoro autonomo, soprattutto nelle forme delle collaborazioni coordinate e continuative. Ciò va visto parallelamente alla scelta del legislatore nelle Finanziarie a partire dal 1997 di bloccare in larga misura il turn-over, per contenere la spesa pubblica, impedendo alle amministrazioni (soprattutto locali e in difficoltà economica) di bandire i concorsi necessari per coprire i posti di ruolo. A fronte di tale necessità si fece largo uso dei contratti di lavoro autonomo per l’approvvigionamento di personale. La presa di coscienza da parte del legislatore di tale fenomeno che aumentava, e dei rischi che potevano derivare per l’efficienza delle P.A., e considerando che, non era assicurato un risparmio dall’uso di questi contratti, condussero ad una politica di limitazione degli stessi. Sono stati pertanto introdotti dei limiti sulla possibilità da parte della pubblica amministrazione di stipulare contratti di lavoro subordinato di tipo temporaneo nonché contratti di lavoro autonomo nella forma delle consulenze e delle collaborazioni coordinate e continuative.

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E’ stato inoltre previsto il ricorso alla mobilità interna dei dipendenti prima della possibilità di bando di concorso per la copertura dei posti vacanti, al fine di evitare dispersioni di risorse e di attuare una efficiente redistribuzione del personale tra le diverse amministrazioni. Occorre inoltre tenere presente che mentre il lavoro flessibile è previsto per le imprese private il cui fine ultimo è il profitto, nel pubblico l’utilizzo di tale forma lavorativa può incidere sull’obbiettivo prefissato dalla costituzione di perseguimento degli interessi generali, nel rispetto dei canoni di imparzialità e professionalità, canoni che in una esperienza lavorativa temporanea possono essere minati in particolare sul piano della formazione del personale (spreco di risorse umane) e sulla disponibilità del lavoratore a dare il meglio di sé in un tempo molto breve.

Inoltre, la P.A. per rinnovarsi e modernizzarsi ha però bisognodi riaprire i canali di reclutamento e di ringiovanire il proprio personale, anche per innestare nuove competenze. Quindi è importante la riattivazione di un regolare turn over. La stabilizzazione dei lavoratori precari operata a partire dalla Finanziaria del 2007 ha comunque sollevato critiche per via della semplificazione delle modalità selettive previste, che hanno portato fissare in termini più rigorosi i meccanismi selettivi per il personale precario che abbia maturato la dovuta anzianità .

5° FASE. Questa fase (col cambio di maggioranza dal 2008), come la precedente, è contrassegnata da un notevole dinamismo legislativo. Stavolta gli interventi non si susseguono a carattere occasionale, ma si inquadrano all’interno di un progetto organico. La nuova fase ha il suo fulcro nell’emanazione del D.Lgs. 150/2009 emanato in attuazione della Legge delega 15/2009. La riforma Brunetta (spesso enfatizzata dal ministro della Funzione Pubblica anche con messaggi comunicativi “aggressivi”: scoprire assenteisti e fannulloni, ecc.) mira all’ottenimento di riduzione del costo del lavoro, incrementi della produttività e miglioramenti dell’efficienza delle strutture pubbliche. Le misure più “sponsorizzate” dal nuovo governo furono quelle relative alla riduzione dell’assenteismo tramite più intensi e accurati controlli delle assenze per malattia. Accanto ad esse si collocano altre misure in materia di relazioni sindacali: da un lato quelle sulla riduzione delle prerogative sindacali (permessi, aspettative) e dall’altro lato quelle modificative di alcuni aspetti delle procedure e dei controlli sulla contrattazione collettiva, specialmente integrativa. Ancora, nella prospettiva di riduzione dei costi e di miglioramento dell’efficienza, vi sono alcune disposizioni legislative finalizzate a riduzione degli organici e quelle in materia di lavoro a tempo parziale (il precariato pur conservando una generale indicazione di sfavore viene ammesso per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali). Accanto a questi strumenti si colloca l’estensione degli obblighi di trasparenza, pubblicità e imparzialità in materia di reclutamento e di concessione di incarichi alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali.Sempre nell’ottica di promuovere il principio di trasparenza viene imposto alle P.A. di pubblicare su propri siti web le retribuzioni dei dirigenti, i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale, ed ancora ulteriori informazioni relative ai tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, nonché i tempi medi di definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi. Gli obiettivi più significativi della riforma perseguiti dal legislatore mediante la legge delega L.15/2009 al governo con D.lgs 150/2009 sono: rendere più rigorosa la responsabilità del dirigente, attribuendogli poteri più ampi, maggiore

autonomia e meno vincoli, ma sottoponendolo a un più pregnante sistema di valutazione; migliorare la produttività del lavoratore pubblico, assoggettando la sua prestazione ad una

valutazione più puntuale, concedendo da un lato l’erogazione di incentivi, premi e scatti e dall’altro sanzioni;

accrescere la disciplina e il rispetto delle regole del rapporto di lavoro (l’etica professionale);10

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riorganizzare le procedure di contrattazione collettiva introducendo più puntuali controlli sulla crescita del costo del lavoro pubblico;

imporre vincoli di trasparenza e consentire ai cittadini di poter adire in giudizio v/ le P.A. nel caso di violazione degli standard qualitativi ed economici o in caso di violazione degli obblighi informativi.

Da ciò emerge che le finalità perseguite dalla riforma sono integrative e specificative rispetto a quelle delle precedenti fasi: il legislatore si è mosso comunque in continuità con gli obiettivi precedenti.

I PRINCIPALI CONTENUTI DELLA LEGGE DELEGA n.15/2009 E DEL D.lgs 150/2009

Nel D.Lgs. 150/2009 vi sono alcuni articoli che modificano il D.Lgs. 165/2001 e altre disposizioni sono autonome. Visti gli obiettivi, passiamo ora ai principali contenuti della riforma:→ il primo insieme di disposizioni sono le previsioni in materia di contrattazione collettiva. Gli obiettivi sopra menzionati, sono stati perseguiti oltre che tramite una ridefinizione del rapporto tra fonte legale e contrattuale, anche mediante una compressione del potere regolativo della contrattazione collettiva e un’estensione dell’area riservata alla legge alla disciplina di molteplici istituti del rapporto di lavoro pubblico. Il D.Lgs. pur confermando che la contrattazione collettiva determina diritti e obblighi del rapporto di lavoro e le materie relative alle relazioni sindacali, ha vietato la negoziabilità dei poteri gestionali del dirigente/manager, in materia di micro-organizzazione e gestione dei rapporti di lavoro (quindi gestione del personale e risorse umane). Il D.Lgs. 150 ha poi ridefinito alcune norme della procedura negoziale, per rendere più penetrante da un lato in sede di contrattazione nazionale, l’intervento dell’attore politico rispetto all’agenzia negoziale e dall’altro di ampliare e rendere più efficace il controllo dei costi contrattuali mediante un ampliamento delle funzioni della Corte dei Conti. Un’altra innovazione riguarda la riduzione del numero degli attuali comparti di contrattazione.La riforma comprende 4 disposizioni per cui il sistema contrattuale prevede che il timone resti nelle mani dell’attore pubblico sia a livello nazionale, sia a livello decentrato: le prime 2 disposizioni riguardano la contrattazione nazionale, prevedono la possibilità per le amministrazioni, di erogare anticipazioni in caso di ritardo nel rinnovo dei CCNL; le altre due riguardano la contrattazione integrativa e prevedono che alla scadenza della sessione negoziale (cioè quando non si raggiunga un accordo sulla stipulazione di un contratto collettivo integrativo) l’amministrazione interessata può provvedere in via provvisoria sulle materie oggetto del mancato accordo fino alla successiva sottoscrizione;→ un secondo insieme di disposizioni riguarda il nuovo sistema di valutazione. Esso è concepito come strumento obbligatorio e generale di misurazione del funzionamento delle P.A. e del personale, in quanto volto ad operare nei confronti delle performance non solo dei dirigenti ma anche di tutti gli altri lavoratori. Il sistema è gestito da più soggetti che hanno il compito di verificare specifici parametri (Commissione per la valutazione = compiti di indirizzo; Organismi indipendenti = istituiti presso ogni amministrazione hanno concrete funzioni di valutazione – ma a parte tali funzioni valutative in realtà ogni dirigente è chiamato a svolgere le funzioni di valutazione del personale a lui assegnato). La misurazione della performance costituisce solo un assaggio del complessivo ciclo di gestione della performance che va dalla definizione degli obiettivi da raggiungere, fino alla rendicontazione dei risultati. Questa generale strategia fondata sulla valutazione della performance è strettamente intrecciata con l’adozione del principio meritocratico come criterio gestionale essenziale;

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→ un ulteriore ambito di intervento legislativo riguarda la trasparenza. Vengono potenziati i vincoli di pubblicità a carico delle P.A. Il principio di trasparenza è connesso all’esercizio delle funzione di controllo; viene imposto lì obbligo di pubblicare nei propri siti istituzionali i dati riferiti alla organizzazione, gestione ed utilizzo delle risorse. → centralità assoluta assumono le previsioni in materia di autonomia della dirigenza, dalla politica e dal contropotere sindacale, di valutazione e responsabilità del dirigente e soprattutto di poteri manageriali. L’autonomia del dirigente rispetto alla politica viene rafforzata attraverso una serie di istituti che vedremo. Per quanto riguarda l’autonomia rispetto le pressioni sindacali si attua attraverso la sottrazione dall’ambito della disciplina sindacale degli atti di macro-organizzazione. Una novità importante è il potenziamento dei poteri manageriali del dirigente: partecipazione alle determinazione delle risorse e dei profili professionali necessari per svolgere i compiti istituzionali propri delle strutture di appartenenza, potere/dovere di valutare il personale addetto ai propri uffici (dovere che implica la responsabilità dello stesso dirigente per mancata ottemperanza agli obblighi di vigilanza) e di esercitare a sua volta il potere disciplinare nei termini dovuti, pena sanziioni disciplinari nei suoi confronti, salvo che il ritardo non sia motivato ;→ l’ultimo importante gruppo di disposizioni attiene la disciplina del rapporto di lavoro. Accanto alla nuova disciplina in tema di valutazione, premi e merito si colloca una disciplina in materia di concorsi, trasferimenti e mobilità e quelle in materia di progressioni economiche e di carriera (con la quale il legislatore ha eliminato alcune incertezze interpretative emerse in passato). L’insieme di norme più corposo è quello in materia disciplinare: nel D.lgs 150/2009 è stato infatti riformulato il procedimento disciplinare e regolati i rapporti con l’eventuale procedimento penale a carico del dipendente. Si è assegnato formalmente una parte del potere disciplinare al dirigente, per le infrazioni più gravi si conferma invece l’istituzione di una ufficio competente per i procedimenti disciplinari, e sono state introdotte nuove figure di illecito disciplinare, contemplando l’erogazione della sanzione massima (il licenziamento) in numerosi casi (aggiuntivi rispetto quelli previsti dai contratti collettivi).

3.5.4. e 3.5.5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SULLA RIFORMA DEL 2009

Conclusioni. L’intervento del 2009 non ha alterato il preesistente assetto generale in materia di lavoro pubblico. Sono rimasti infatti i caratteri fondamentali delle riforme maturate nelle varie fasi:

1. separazione tra decisioni politiche e gestione degli apparati amministrativi;2. attribuzione al dirigente pubblico di funzioni manageriali comparabili a quelle del dirigente

privato e privatizzazione dei poteri dirigenziali di gestione degli uffici e del lavoro (rimanendo gli atti di macro-organizzazione disciplinati da un regime pubblicistico). Tale potenziamento della posizione del dirigente pubblico è servita per renderlo più autonomo e per rafforzare la sua responsabilità gestionale;

3. privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e conseguente assoggettamento alla regola contrattualistica (collettiva e individuale) soprattutto in materia retributiva;

4. razionalizzazione e contenimento del costo del lavoro attraverso l’introduzione di limiti e controlli all’autonomia della contrattazione collettiva.

Il legislatore del 2009 si è proposto di correggere, rafforzare, ed integrare gli aspetti che nell’esperienza passata si erano rilevati più deludenti e deficitari in relazione ai risultati raggiunti. Il nuovo intervento ha comunque introdotto alcune soluzioni forti che sollevano preoccupazioni sull’impatto che queste potranno avere nel predetto sistema, valutabili solo dopo un congruo periodo di applicazione, anche se fin d’ora alcune sono evidenti:

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√ concezione manageriale fondata più sull’autorità che sul confronto tra dirigente, sindacato e dipendenti, viste le previsioni in materia di poteri dirigenziali, di contrattazione integrativa e di esercizio dei poteri disciplinari;

√ le norme sulla non negoziabilità dei poteri dirigenziali di organizzazione di uffici e del lavoro, per quanto giustificabili in virtù dell’eccessiva disponibilità dei dirigenti di disporre in via negoziale le proprie prerogative organizzative, rischiano di irrigidire il sistema di relazioni sindacali in sede decentrata; rimangono tuttavia elevati i rischi di inefficienza sottesi ad una gestione del sistema decentrato di contrattazione in contrapposizione radicale con il sindaco; un buon dirigente deve costruire buone relazioni sindacali e contrattuali nei luoghi di lavoro.

√ eccessivo rigore di alcune sanzioni; √ norme per cui il dirigente è vincolato a esercitare il potere disciplinare v/ i propri dipendenti che

è un’anomalia rispetto al settore privato dove tale potere è esercitato dal dirigente su delega del proprietario/imprenditore e riferita alla gestione del personale. Tale discrezionalità non spetta oggi al dirigente pubblico, che è costretto al procedimento disciplinare dinanzi un’infrazione del lavoratore. Un esercizio inflessibile del potere disciplinare può non essere idoneo a stimolare nei lavoratori un atteggiamento attivo e partecipativo soprattutto nei casi di una poco funzionale organizzazione degli uffici e del lavoro e dunque a anche a causa della mediocrità delle capacità gestionali del dirigente.

5. IL SISTEMA DELLE FONTI

A partire dalla prima fase della riforma e fino ad oggi – con una scelta di fondo che non è più stata messa in discussione nelle sue linee portanti – il rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A., così come succede per il lavoro privato, è soggetto alle regole poste dalle fonti normative gerarchicamente ordinate previste dall’ordinamento (Costituzione, leggi e atti aventi forza di legge, regolamenti); dai contratti collettivi (quadro, di comparto, integrativi) e, con le precisazioni di cui si darà conto, dal contratto individuale di lavoro.

5.1 e 5.2 IL CONTRATTO COLLETTIVO E FONTI NORMATIVE STATUALI

La contrattualizzazione introdotta nel 92-93 implica che la regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico sia demandata, oltre che alle fonti normative del nostro sistema, al contratto collettivo e al contratto individuale di lavoro. Inizialmente sorsero alcune perplessità circa la costituzionalità di una legge che demandasse al contratto di dettare regole in materia di lavoro pubblico in presunto contrasto con l’art. 97 che esplicitamente ricordava che l’organizzazione dei pubblici uffici (c.d. macro-organizzazione) devono essere disciplinati per legge (e in base a essa, da regolamenti e atti amministrativi). La Corte Cost. ha però respinto quest’obiezione e ha ritenuto che la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti sia pienamente conforme alla Costituzione in quanto organizzazione e rapporto di lavoro sono due aspetti distinti e quindi l’art. 97 si riferirebbe solo al profilo organizzativo (quindi la riserva di legge si riferirebbe solo a quest’ultima).Sulle fonti normative statuali non si registra in tema di lavoro pubblico nessun particolare problema: qui è il principio gerarchico che regola i rapporti tra fonti (Cost., fonti primarie e secondarie). Le principali fonti regolative, sono comunque la legge e il contratto collettivo (mentre il contratto individuale ha margini circoscritti). Quello che deve essere messo in luce è che la legge svolge una funzione in parte diversa, poiché mira non solo a tutelare la parte debole del rapporto ( il lavoratore) come avviene anche per il privato ma,

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Artt. 2 e 40 D.Lgs. 165/2001

anche a preservare gli interessi finali (pubblici) del datore di lavoro ovvero la p.a. il che differenzia la disciplina di specialità del lavoro pubblico rispetto a quello privato; ovvero la legge tutela oltre che il lavoratore anche il datore di lavoro.

5.3 LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE REGOLATIVE FRA LEGGE E CONTRATTO C OLLETTIVO

La questione più importante in tema di fonti è la ripartizione delle aree di competenza fra legge e contratto collettivo. L’ultima riforma ha prodotto una restrizione dell’ambito di competenza del contratto collettivo a fronte di una estensione dell’area demandata alla legge (rilegificazione) e ai poteri organizzativi e gestionali della dirigenza (anche se siffatta estensione non comporta una ripubblicizzazione).

A) COMPETENZA GENERALE DEL CONTRATTO COLLETTIVO : disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali.

B) COMPETENZA GENERALE DELLA LEGGE : è la legge che disciplina l’organizzazione amministrativa nelle sue linee essenziali (macro-organizzazione: organizzazione degli uffici, modi di conferimento delle titolarità degli uffici, dotazioni organiche, ecc.); inoltre la legge ha competenza generale per tutte le materie estranee al rapporto di lavoro e come tali coerentemente sottratte alla competenza della contrattazione collettiva (es. responsabilità dei singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative o procedimenti di accesso al lavoro).

C) L’AREA INTERMEDIA: è accettato che fra la disciplina del rapporto di lavoro e gli atti di macro-organizzazione esiste un territorio intermedio in cui si esplica il potere dirigenziale di definire e gestire l’organizzazione degli uffici (atti di micro-organizzazione) e il potere dirigenziale di gestire il complesso dei rapporti di lavoro che a quegli uffici fanno capo, esercitando i poteri (privatistici) del datore di lavoro. La questione è sapere se in tale ambito (soggetto alle regole del diritto privato) esiste o meno una competenza regolativa del contratto collettivo. La risposta ci viene dall’ultima riforma (che supera il carattere generico del precedente divieto –– contemplato dal D.Lgs. 165/2001: è precluso al contratto collettivo di disciplinare e limitare i poteri dirigenziali di micro-organizzazione e di organizzazione del lavoro (gestione dei rapporti).

Nonostante i divieti generici del D.Lgs. 165/2001 nella versione precedente alla riforma che precludevano l’intervento della contrattazione collettiva lasciando il potere di organizzazione degli uffici (micro-organizzazione) alla dirigenza, la prassi avallata dalla dottrina è andata in un’altra direzione: c’è stato un ampio intervento dei contratti collettivi, con conseguente drastica compressione dei poteri manageriali di organizzazione; la riforma del D.Lgs. 165/2001 ha precisato che il contratto collettivo non può intervenire in materia di micro-organizzazione. Anche per quanto riguarda il potere di organizzazione del lavoro e di gestione dei rapporti di lavoro c’era la stessa situazione fra divieto generico del D.Lgs. 165 e prassi. Con le modifiche apportate dal D.Lgs. 150/2009 viene esplicitamente sancito il divieto per la contrattazione collettiva. Cosa s’intende per organizzazione del lavoro? Secondo l’opinione più accreditata e più conforme alla lettera e allo spirito della riforma (anche se da una parte della dottrina è criticata perché comprimerebbe troppo gli spazi del contratto collettivo) si tratterebbe del risultato dell’esercizio dei tipici poteri datoriali di gestione dei rapporti di lavoro, compreso il potere direttivo.L’art. 40 co. 1 ammette infine che la fonte collettiva possa intervenire, nei limiti previsti dalla legge, in materia di 1) sanzioni disciplinari,2)valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del

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trattamento accessorio, 3) mobilità, 4) progressioni economiche. Ci sono poi diversi istituti con i quali la legge interviene direttamente sottraendo ulteriore terreno al contratto collettivo, come vedremo.

5.4 MECCANISMI DI SALVAGUARDIA A DIFESA DELLE AREE DI COMPETENZA DELLA LEG GE E DEL CONT RATTO COLL ET TIVO

Secondo i principi generali le clausole del contratto collettivo che siano in contrasto con la legge sono da considerarsi nulle. Come la nullità anche la sostituzione automatica delle clausole è un istituto di generale applicazione: essa è possibile però solo quando le regole poste dalla legge siano sufficientemente dettagliate e specifiche, altrimenti forzatamente dovrà aversi la nullità.In passato vigeva il principio per cui le leggi (o comunque le fonti normative, anche di rango secondario) che introducessero regole destinate al solo lavoro pubblico erano da ritenersi derogabili dai contratti collettivi successivi, salvo che contenessero un’espressa previsione in senso contrario. Questo meccanismo consentiva in via generale al contratto collettivo di riappropriarsi degli spazi che il legislatore tentava di sottrargli. Tale regola è oggi capovolta ed è sostituita dal principio della inderogabilità salvo espressa previsione contraria.

5.5 LA RISERVA DI COMPETENZA AL CONTRATTO COLLETTIVO IN MATERIA DI TRATTAMENTO ECONOMICO

Nella disciplina precedente al 2009 era opinione condivisa che il trattamento economico fosse materia riservata al contratto collettivo. Questo principio è fatto salvo dalla riforma del 2009. Però occorre ricordare che in materia economica il raggio d’azione del contratto col-lettivo è in qualche modo circoscritto, sia direttamente dalla legge e sia dai poteri dirigenziali: la legge stabilisce con quale modalità la contrattazione possa procedere alla ripartizione delle risorse su base meritocratica; e il datore può intervenire per alcuni casi per fissare in via unilaterale il trattamento dei lavoratori, anticipando gli esiti della contrattazione collettiva (es. dopo 60 gg dall’entrata in vigore della Finanziaria che dispone in materia di rinnovo dei contratti collettivi incrementi di stipendio, tali incrementi possono essere erogati in via provvi-soria previa deliberazione dei rispettivi comitati di settore).Occorre ricordare che mentre in precedenza vigeva la regola per cui le leggi che introducessero regole destinate al solo lavorio pubblico erano da ritenersi derogabili dai contratti collettivi successivi, oggi tale regola è da ritenersi capovolta poiché sono i contratti collettivi che possono essere in parte derogati da eventuali diposizioni di legge che introducano discipline ai rapporti di lavoro.

5.6 IL RUOLO DEL CONTRATTO INDIVIDUALE E IL PRINCIPIO DI PARITÀ DI TRATTAMENTO

La contrattualizzazione del lavoro alle dipendenze della P.A. dovrebbe implicare il riconoscimento an-che al contratto individuale di un ruolo costitutivo e regolativo del rapporto di lavoro. Quanto al primo aspetto è indubitabile che il rapporto di lavoro nasca oggi da un contratto (e non più dall’atto di nomina). Quanto al secondo la portata regolativa è quella messa più in dubbio poiché essa deve confrontarsi con il principio di parità di trattamento contrattuale (sconosciuto al settore privato e che qui trova ragione per garantire l’imparzialità della P.A.). In base a tale principio ogni lavoratore ha la pretesa a vedersi riconosciuto lo stesso trattamento degli altri dipendenti di pari livello. Tale principio implica che il contratto individuale non abbia una vera portata regolativa: gli è precluso in-trodurre una disciplina differenziata, peggiorativa o migliorativa del rapporto di lavoro, ma deve limi-

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tarsi a dare applicazione/richiamare le regole previste dalla legge e dal contratto collettivo (e nella prassi ciò succede non solo in materia retributiva).

5.7 SPECIALITÀ DELLA DISCIPLINA ED INTERESSI PUBBLICI

La disciplina legislativa del rapporto di lavoro alle dipendenze delle P.A. è una disciplina speciale rispetto a quella del settore privato, perché deve attuare i principi costituzionali (in primo luogo il principio del buon andamento ed imparzialità dell’Amm. e di accesso al pubblico impiego mediante concorso, così come previsto dall’art. 97 Cost.) e permettere così alla P.A. di perseguire i pubblici in-teressi affidati alle sue cure.Alla luce dell’attuale disciplina del D.lgs 165/2001 si può ritenere che la specialità del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni si concreta in una disciplina peculiare rispetto a quella del settore privato esclusivamente nei limiti e nei termini indicati dal decreto stesso e cioè attraverso specifiche regole derogatorie richieste dalla natura pubblica dell’interesse finale perseguito.Pertanto nonostante le dichiarazioni di principio che vogliono una unificazione tra lavoro pubblico e privato il legislatore nel dettare le regole che governano i diversi istituti va con il tempo ampliato la divaricazione fra pubblico e privato.

6. LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE LEGISLATIVE TRA STATO E REGIONI

Com’è noto il nuovo art. 117 Cost. individua le materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, ovvero le materie di legislazione concorrente secondo la seguente divisione : i principi fondamentali allo Stato; la normativa di dettaglio alle Regioni, e alla potestà regionale esclusiva ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. A causa delle espressioni non trasparenti utilizzate dall’art. 117 cost. occorre precisare a quale dei tre gruppi ascrivere il diritto del lavoro? La tesi prevalente ritiene che spetti allo Stato la competenza esclusiva sulla disciplina del rapporto di lavoro e del diritto sindacale (rientrerebbero nella voce “ordinamento civile”) e alla competenza concorrente Stato/Regioni invece la disciplina del mercato del lavoro (politiche attive e passive del lavoro e regole per la salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori, che rientra nella “tutela e sicurezza del lavoro” di cui all’art. 117 comma 3°). Ma la questione si complica quando si fa riferimento al lavoro pubblico, perchè spetta alle Regioni dettare regole in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale. Ma cosa s’intende? Le regole in tema di micro-organizzazione (quindi si opterebbe per il significato di organizzazione in un senso stretto) oppure anche quelle di macro-organizzazione (si opterebbe per un significato di organizzazione in senso largo), oppure anche quelle in materia di organizzazione del lavoro (e dunque la disciplina in materia di personale)? Se tutti gli ambiti appena menzionati fossero intesi allora la potestà regionale esclusiva potrebbe intervenire al di fuori di qualsiasi limite fissato dalla legge dello Stato!Sulla questione della ripartizione delle competenze non c’è unanimità di vedute. Secondo alcune recenti pronunce abbiamo che: la potestà legislativa esclusiva statale = riguarda tutti gli aspetti della regolamentazione del lavoro pubblico ricondotti alle regole privatistiche (disciplina del rapporto di lavoro e delle relazioni

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sindacali compreso l’assetto delle fonti e il sistema della contrattazione collettiva, nonché la micro-organizzazione e l’organizzazione del lavoro); potestà legislativa esclusiva regionale = riguarda tutti i restanti aspetti sottratti alla privatizzazione (macro-organizzazione e gli altri istituti estranei al rapporto di lavoro), pertanto nonostante la giurisprudenza costituzionale, visto che comunque, non emerge un criterio netto e sicuro, restano delle incertezze.Al possibile conflitto Stato-Regioni ha tentato di ovviare la L. delega 15/2009 (il d.lgs. 150 l’ha attuata) stabilendo da un lato (quanto al metodo) che i decreti legislativi previsti dalla delega fossero adottati in parte “previa intesa” e in parte “previo parere” della Conferenza unificata Stato-città e Stato-Regioni, e dall’altro (quanto ai contenuti), che i d.lgs. devono specificare le disposizioni rientranti nella competenza esclusiva dello Stato e quelle concernenti principi generali dell’ordinamento giuridico, ai quali si adeguano le Regioni. Nonostante questo intervento non si è riuscito a risolvere l’annosa questione. Sul primo aspetto sono emersi contrasti fra Governo e Conferenza, soprattutto per il coinvolgimento degli enti territoriali nel determinare le risorse per gli incrementi retributivi. Sul secondo aspetto, il d.lgs. 150 fa questa specificazione, però evoca i “principi generali dell’ordinamento ai quali si adeguano le Regioni”: i principi generali non sono presenti nell’art. 117 Cost., ma sono più volte richiamati dalla Corte Cost. come limiti della legislazione regionale (pur con critiche della dottrina), ed essi consentono al legislatore nazionale di intervenire ampiamente su diverse materie. Ciò rende il d.lgs. 150 una indeterminata limitazione della potestà legislativa regionale. È presente inoltre una clausola di “cedevolezza”, per cui dal 31-dic-2010 (termine entro il quale le Regioni erano tenute ad adeguarsi ai principi generali dell’ordinamento) si applicano le disposizioni dello stesso decreto, e ciò anche per la disciplina di dettaglio, fino all’emanazione della normativa regionale.

7. LA DIRIGENZA: CENTRALITÀ DEL PRINCIPIO DI SEPARAZIONE FRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE E L’ A UTONOMIA DEL D IRIGENTE

La riuscita del disegno riformatore avviato negli anni ’90 richiedeva che la dirigenza assumesse effettiva autonomia rispetto al potere politico nella gestione dell’apparato amministrativo (questo era già stato previsto dall’art. 97 Cost. nel sancire il principio di imparzialità dell’azione amministrativa). Tuttavia l’obiettivo di separazione fra politica e amministrazione è rimasto in larga parte irrealizzato sia per le continue ingerenze della politica sia per l’incapacità della stessa dirigenza a rivendicare una effettiva indipendenza.Tra i problemi che hanno minato l’autonomia della dirigenza, non deve essere trascurata la difficoltà di operare una netta distinzione tra i compiti attribuiti al vertice politico e quelli assegnati ai dirigenti. Ciò era aggravato dal fatto che spesso le direttive impartite agli organi dirigenziali erano caratterizzate da eccessiva genericità che rendeva difficile una puntuale individuazione degli obiettivi e da non impedire alla politica interventi nella gestione amministrativa. Il legislatore del 2009, tenendo particolarmente in considerazione questo problema, è intervenuto dimostrando di aver finalmente compreso che non vi può essere da parte dei dirigenti alcuna responsabilità senza autonomia, e che quest’ultima dipende dalla puntuale individuazione dei risultati da realizzare nell’esercizio della propria gestione. Ecco la ragione delle novità introdotte in materia di programmazione degli obiettivi per cui gli organi di indirizzo politico sono chiamati a formulare ogni 3 anni (tramite un documento programmatico detto piano della performance) prima dell’inizio di ogni esercizio, gli obiettivi generali e strategici, da definire in collaborazione con i vertici della

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pubblica amm. che dovrà poi concretamente raggiungerli: essi saranno vagliati per controllare la conformità con le risorse disponibili e verificare la loro concreta raggiungibilità che sarà scongiurato poiché vi sarà il diretto coinvolgimento dei dirigenti seppur in forma di sola consultazione . Il legislatore ha dettato i criteri per guidare l’attività di programmazione. Lo svolgimento dell’attività di programmazione degli organi politici è assicurata da un meccanismo sanzionatorio che oltre a dettare i termini entro i quali tale attività deve essere compiuta, vieta alle amministrazioni inadempienti di proceder all’assunzione di personale o il conferimento di incarichi di consulenza e/o collaborazione, nonchè ai dirigenti responsabili di eventuali omissioni o inerzie di percepire la retribuzione di risultato.

7.2 L A D ISCIPLINA D EGLI I NCARICHI E LE R EGOLE IN T EMA DI I NCOMPATIBILITA’

La disciplina degli incarichi dirigenziali non poteva rimanere estranea dalla riforma del 2009, la soluzione prescelta dal legislatore è stata innanzitutto quella di distinguere la durata del rapporto con quella dell’incarico che viene configurato come un atto privatistico riconducibile alla micro-organizzazione .Realizzando una inversione di tendenza rispetto al passato, il legislatore ha introdotto una riserva di fonte legale, visto che ha vietato l’intervento della contrattazione collettiva sulla materia del conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali (in quanto in tal modo si esclude che la materia sia oggetto di negoziazione tra le parti). Vengono inoltre introdotte una serie di norme ispirate all’obiettivo di evitare condizionamenti esterni: la più importante è quella che vieta il conferimento di incarichi a soggetti che nei due anni precedenti abbiano ricoperto cariche o rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con partiti politici o organizzazioni sindacali. Questa causa di incompatibilità è circoscritta ai soli incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale (perché è stato il settore più esposto a condizionamenti). Il rischio che attraverso lo strumento degli incarichi esterni vengano aggirate le regole in tema di incompatibilità (rischio che tuttora perdura: non si è realizzata una riduzione degli incarichi conferiti a soggetti esterni all’amm., il limite quantitativo è rimasto quello) pare comunque attenuato dalle generali modifiche introdotte nella procedura di conferimento degli incarichi, per i quali oltre che i criteri delle capacità e delle attitudini professionali, occorre tenere presente dei risultati ottenuti, delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’esterno, delle specifiche competenze organizzative. In più in base al principio di trasparenza è imposto all’Amm. di rendere noti all’esterno il numero e la tipologia di posti disponibili, i criteri di scelta ecc., e che in caso di accesso alla qualifica dirigenziale di prima fascia, la metà dei posti disponibile sia assegnata tramite concorso, con la possibilità in caso di specifiche professionalità di coprire una quota di tali posti che non sia superiore alla metà con contratti di diritto privato a tempo determinato ( vedi i dirigenti della Polizia Municipale).

7.3 LE REGOLE IN TEMA DI CONFERMA E REVOCA DEGLI INCARICHI

Per rafforzare la distinzione tra funzioni di indirizzo politico e funzione di gestione amministrativa, il D.Lgs. 150/2009 ha ridotto ulteriormente l’applicazione dello spoils system (incarichi dirigenziali la cui cessazione avviene in modo automatico a seguito del cambiamento del vertice politico) ai soli incarichi di Segretario generale di ministero, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente (la cui cessazione avviene automaticamente decorsi 90 gg dal voto di fiducia del nuovo Governo). Prima dell’ultima riforma lo spoils system era considerato legittimo (dalla Corte Cost.) solo nei confronti dei dirigenti in posizione apicale (esclusi i dirigenti non apicali). Nei confronti delle altre figure dirigenziali, le nuove norme stabiliscono che la revoca anticipata dell’incarico o il recesso del rapporto di lavoro da parte dell’amministrazione possa avvenire solo in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi (che sia accertato tramite il sistema valutativo) e previa contestazione con necessaria instaurazione del contraddittorio.

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Ad una maggiore autonomia del dirigente durante l’espletamento dell’incarico conferito a seguito dell’ottica riformatrice del D.lgs 150/2009 si accompagna da parte dello stesso dirigente una più ampia responsabilità in ordine ai risultati conseguiti che costituiscono l’elemento di valutazione ai fini del rinnovo dell’incarico al momento della sua scadenza. Per quanto riguarda il rinnovo dell’incarico, seppur condizionato alla verifica dei risultati, resta libero, nel senso che anche in presenza di valutazione positiva si può liberamente non procedere al rinnovo: quindi ampia discrezionalità riconosciuta al vertice politico (prima vi era il previo parere obbligatorio conforme del Comitato dei Garanti, oggi c’è solo una interpellanza non vincolante), risulta pertanto difficile immaginare che l’eliminazione di questo filtro non abbia effetti sulla capacità del dirigente di sottrarsi ai condizionamenti della politica .

7.4 L’AMPLIAMENTO DEI POTERI DIRIGENZIALI

L’obiettivo di fare del dirigente un soggetto pienamente responsabile, è stato realizzato dal legislatore ampliandone i poteri. Innanzitutto chiamando i dirigenti ad una maggiore partecipazione nella individuazione delle risorse e dei profili professionali dell’ufficio che sono chiamati a dirigere e dei cui risultati sono chiamati a rispondere (ovvero bisogna tenere conto delle proposte dei dirigenti nella programmazione triennale del fabbisogno di personale). Nella stessa prospettiva si colloca il riconoscimento in favore dei dirigenti di importanti funzioni in materia di mobilità, individuale e collettiva, del personale assegnato ai relativi uffici (il trasferimento dei dipendenti può essere disposto solo previo parere favorevole dei dirigenti responsabili dei servizi e degli uffici il cui personale è o sarà assegnato; inoltre i dirigenti saranno tenuti a rilevare eventuali eccedenze di personale, per le quali potranno in caso negativo rispondere per danno erariale). Tutto ciò al fine di inquadrare l’azione dirigenziale nel rapporto autonomia-responsabilità e innescare un circolo virtuoso capace di migliorare i livelli di efficienza. Da queste disposizioni emerge l’intento del legislatore di innescare un circuito virtuoso, combinando responsabilità e autonomia di poteri che dovrebbe condurre il dirigente ad una gestione più rigorosa ed efficiente delle risorse assegnate poiché lo stesso sarà a sua volta chiamato a rispondere dei relativi risultati non solo al momento del rinnovo dell’incarico ma anche durante il suo svolgimento. Allo stesso spetta il potere valutativo del personale e i poteri di vigilanza sullo stesso per il rispetto degli standard qualitativi e quantitativi fissati dall’amm. che in caso di violazione colpevole lo espone alla sanzione della decurtazione di una quota della retribuzione di risultato che può arrivare fino all’80%. A tutto ciò va aggiunto un inasprimento del sistema sanzionatorio da parte del legislatore che rientra nella “discrezionalità” del dirigente nell’interesse della amministrazione, ed in caso di mancato esercizio e decadenza dello stesso senza giustificato motivo o con motivazioni irragionevoli ed infondate, comporta la sanzione dei confronti del dirigente della sospensione dal servizio e della privazione della retribuzione per una durata massima di mesi 3. L’intento del legislatore è stato di intervenire a monte della scala gerarchica al fine di indurre a cascata comportamenti più rigorosi da parte del dirigente e conseguentemente di tutti i dipendenti. 8. LE TENSIONI SUL FRONTE DEL RAPPORTO TRA POTERI DIRIGENZIALI E CONTROPOTERE SINDACALE : LA NON NEGOZIABILITÀ DEI POTERI DI ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI E DEL LAVORO

Ai problemi di difetto di autonomia nei confronti del potere politico si aggiunge la diffusa tendenza ad inquadrare le prerogative dirigenziali all’interno delle logiche sindacali, condizionandone il

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concreto esercizio ai risultati del confronto sindacali (i sindacati in poche parole contrattano quali poteri il dirigente dovrà esercitare).Poiché il legislatore non aveva fornito indicazioni in merito alla possibilità o meno da parte della contrattazione collettiva di intervenire in materia di micro-organizzazione (organizzazione degli uffici) lasciando così aperto un problema interpretativo. Ma mentre in passato il fenomeno della negoziabilità dei poteri gestionali e/o regolativi del dirigente era tacitamente ammesso (il dirigente poteva perfino negoziare con le organizzazioni sindacali aspetti di micro-organizzazione). La riforma del 2009, con la ferma intenzione di arginare la progressiva invasione da parte della contrattazione collettiva, e nell’ottica di salvaguardare le prerogative dirigenziali riguardanti l’organizzazione degli uffici e del lavoro e restituire piena autonomia decisionale, ha operato la scelta di sottrarre i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro (micro-organizzazione) da qualsivoglia tipo di incidenza sindacale. Sono stati pertanto esclusi dalla contrattazione collettiva le materie riguardanti l’organizzazione degli uffici e quelle oggetto di partecipazione sindacale e quelle di prerogativa dirigenziale. I poteri dirigenziali di micro-organizzazione continuano ad essere di natura rigorosamente privatistica ma a differenza di quanto accade nel settore privato, non è ammessa la loro disponibilità in sede di contrattazione collettiva, e tanto meno è ammessa la possibilità che la contrattazione nazionale possa prevedere forme partecipative (tranne la mera informazione). In tal modo al dirigente viene imposto di assumere in totale solitudine le proprie decisioni organizzative.

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CAPITOLO 3: IL SISTEMA DI VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE DELLE STRUTTURE, DELLA DIRIGENZA E DEL PERSONALE NELLA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1. e 2. VALUTAZIONE E MISURAZIONE – OBIETTIVI, RISULTATI E PERFORMANCE

La riforma del 2009 ha posto un complesso sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti, alternativo e non sostitutivo dei noti meccanismi di monitoraggio e valutazione dei costi-rendimenti-risultati, destinato a:

a. garantire legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile);

b. verificare efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto costi-risultati (controllo di gestione);

c. valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale (valutazione della dirigenza);d. valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, dei programmi e

di altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico (valutazione e controllo strategico).L’introduzione di un sistema valutativo conferma l’ormai consolidata e condivisa volontà del legislatore per un’amministrazione orientata al risultato al fine di avere elevati standard qualitativi ed economici dei servizi, in funzione del “ soddisfacimento” dell’interesse del destinatario del servizio .Ma resta il paradosso dell’introduzione tramite autorità esterna di strumenti interni, che tracciano una rotta fissa che risulta incompatibile con la molteplicità delle strutture interne astrattamente configurabili. Da qui il rischio di ineffettività dell’intero sistema, il rischio di ridurre a mero adempimento formale ciò che dovrebbe informare e animare la cultura interna dell’organizzazione.Oggetto di valutazione è la c.d. performance, cioè il grado con cui un sistema (organizzato o semplice) realizza gli obiettivi definiti e ad esso assegnati (in via autonoma o eteronoma). Emerge lo stretto rapporto tra definizione degli obiettivi e misurazione delle performance: la definizione della “mission” istituzionale (obiettivi istituzionali, che mergono dall’art. 3 miglioramento qualità servizi, valorizzazione merito, trasparenza risultati, soddisfacimento dell’interesse) è il presupposto per l’attivazione dei sistemi di valutazione della performance, e questi a loro volta costituiscono un pretesto per la ridefinizione ragionata di quelle stesse priorità e strategie.

3. CICLO DI GESTIONE DELLE PERFORMANCE, DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI E PIANO DI PERFORMANCE

Fulcro del sistema di valutazione della performance è il c.d. “ciclo di gestione della performance”(CGP), la cui caratteristica essenziale è la ciclicità, o più esattamente la circolarità tra le fasi che lo compongono. Esso ha inizio con una prima fase caratterizzata da un lato dalla definizione e assegnazione degli obiettivi che si intendono raggiungere, dalla correlata individuazione dei risultati attesi, nonché dalla specificazione degli indicatori, e per altro verso dalla correlata allocazione delle risorse disponibili. Ad essa segue una seconda fase dedicata al monitoraggio e alla valutazione della performance, sulla base degli indicatori predefiniti: viene quindi verificato il grado di raggiungimento dei risultati perseguiti e viene avviato un sistema premiale che valorizzi il merito. Terza e ultima fase è la rendicontazione sociale ed istituzionale dei risultati conseguiti (accountability).Base del CGP è l’individuazione degli obiettivi. In base all’art. 5 gli obiettivi sono programmati su base triennale ma concretamente devono essere riferibili ad un arco temporale determinato, di norma un

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anno (da qui emerge la distinzione tra obiettivi intermedi e obiettivi finali). Gli obiettivi sono definiti dagli organi di indirizzo politico amministrativo, sentiti i vertici dell’amministrazione, e devono essere:

coerenti con gli obiettivi di bilancio; rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività, alla missione istituzionale e alle

strategie; specifici e misurabili al fine di consentire una valutazione interna ed esterna; correlati alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili; commisurati a valori di riferimento standard; confrontabili con gli andamenti triennali della produttività della stessa amministrazione.

Gli obiettivi vanno formalizzati entro il 31 Gennaio in un documento programmatico denominato Piano della Performance (PP), dove dovranno essere analiticamente menzionati gli obiettivi strategici e operativi, quelli assegnati al personale dirigenziale, quelli intermedi e finali, e gli indicatori per la misurazione della performance. L’amministrazione deve trasmettere il PP alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CVTI) ed al Ministero dell’Economia. In caso di mancata adozione del PP per inerzia o inadempimento dei dirigenti, è vietato erogare la retribuzione di risultato. Inoltre alla amministrazione è fatto divieto di procedere ad assunzioni di personale o a conferimento di incarichi di consulenza o di collaborazione comunque denominati.

4. IL SISTEMA DI MISURAZIONE E VALUTAZIONE DELLA PERFORMANCE, LA RELAZIONE SULLA PERFORMANCE

Attraverso i sistemi di controllo di gestione presenti nell’amministrazione, gli organi di indirizzo politico (anche grazie ai dirigenti) verificano periodicamente l’andamento della performance durante il periodo di riferimento. La verifica annuale delle performance (organizzativa e individuale) è invece affidata al Sistema di Misurazione e Valutazione della performance, il quale viene adottato da ciascuna amm. con un apposito provvedimento. Esso mira a verificare efficacia, efficienza, economicità dell’azione amministrativa, al fine di ottimizzare anche attraverso interventi correttivi il rapporto costi-risultati. Tali sistemi inoltre definiscono gli elementi costitutivi del processo di valutazione e la definizione delle procedure di conciliazione e integrazione con i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio. Con la riforma del 2009 è stata invece prevista, in sostituzione dei vecchi sistemi di controllo interni una nuova struttura tecnica permanente, l’Organismo indipendente di valutazione della Performance (a cui è anche affidato il controllo strategico – vedi par. 1): è un istituto, composto da uno/tre membri in possesso di determinati requisiti e nominati dall’organo di indirizzo politico, che deve essere costituito in ciascuna amministrazione, che ha la funzione di monitorare e elaborare una relazione complessiva relativa al complessivo sistema di valutazione, ma anche altre, come comunicare agli organi di controllo eventuali anomalie, convalidare la relazione sulla performance, supervisionare al meccanismo di assegnazione dei premi, proporre la valutazione dei dirigenti di vertice, rilevare la valutazione del personale del proprio superiore gerarchico.Come viene valutata la performance? La performance organizzativa viene valutata attraverso il grado di incidenza delle politiche pubbliche attuate sulla soddisfazioni finale dei bisogni della collettività; la performance dirigenziale, viene valutata attraverso la valutazione delle competenze professionali e manageriali espresse; la performance del personale, viene valutata attraverso la valutazione delle competenze e i comportamenti professionali ed organizzativi [artt. 8 e 9].

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All’esito del percorso di valutazione, e comunque entro il 30 giugno, deve essere redatta la Relazione sulla performance che serve ad evidenziare, con riferimento all’anno precedente, i risultati organizzativi ed individuali raggiunti rispetto agli obiettivi programmatici e alle risorse, evidenziando eventuali scostamenti.Analizziamo, nell’ambito del sistema di misurazione e valutazione della performance, il ruolo degli organi di indirizzo politico-amministrativo e dei dirigenti. Ai primi compete emanare le direttive contenenti gli indirizzi strategici, definire il piano di performance e la relazione in collaborazione con i vertici dell’amm., verificare il raggiungimento degli obiettivi. I dirigenti invece costituiscono i soggetti passivi ed attivi di valutazione; questi sono valutati dai meccanismi di misurazione e sono chiamati a valutare la performance individuale del personale che risulta a costoro legalmente assegnato.

5. LA COMMISSIONE PER LA VALUTAZIONE, LA TRASPARENZA E L’INTEGRITÀ DELLE A MMINISTRAZIONI PUBBLICHE ED IL PROGRAMMA TRIENNALE PER LA TRASPARENZA E L’INTEGRITA’

La Commissione per la Valutazione, Trasparenza e Integrità delle P.A. opera in posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione ed in piena autonomia è composta da 5 soggetti nominati tramite un procedimento complesso per salvaguardarne l’indipendenza di giudizio (su impulso del Ministro per la P.A., di concerto col Ministro per l’attuazione del programma di Governo, previo parere favorevole delle Commissioni Parlamentari competenti). Essa ha il compito di indirizzare e coordinare l’esercizio indipendente dei sistemi di valutazione, e di assicurare la comparabilità e visibilità degli indici di andamento gestionale (art. 13). Occorre effettuare delle distinzioni tra i due concetti poichè per trasparenza s’intende la piena accessibilità alle informazioni su ogni aspetto dell’organizzazione e della gestione di una P.A., mentre per integrità viene inteso il rispetto delle norme (legalità) ma anche l’elemento culturale da voler sviluppare nella dimensione professionale e personale del pubblico dipendente mediante azioni o interventi specifici.

6. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Dal nuovo modello si evince: 1) la rinnovata centralità della fase di definizione e assegnazione degli obiettivi, rispetto ai quali appare particolarmente enfatizzato il ruolo degli organi di indirizzo politico, legalmente vincolati almeno formalmente al solo ascolto degli organi dirigenziali di vertice;2) la rendicontazione sociale del grado di raggiungimento degli obiettivi previsti attraverso forme e modalità di diverso genere ma tutte convergenti verso il medesimo fine ovvero obbligare l’amministrazione pubblica a dare conto delle risorse spese e dei risultati raggiunti sull’onda del diffuso radicamento di una cittadinanza attiva e partecipativa con l’intento per i cittadini e le imprese di poter beneficiare di migliori beni e servizi amministrativi, a differenza di quanto accadeva prima dove l’unico intento era la riduzione dei costi ed in tale contesto di grande importanza assume la “ trasparenza” .

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PARTE SECONDA : LA DIRIGENZA PUBBLICA

CAPITOLO 4: ORGANIZZAZIONE E POTERI DATORIALI DEL DIRIGENTE PUBBLICO

1. IL PRINCIPIO DI DISTINZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE

Uno dei punti cardine della riforma del D.lgs 165/2001 è la distinzione funzionale tra politica e amministrazione. L’attribuzione delle attività di indirizzo politico e di controllo di competenza degli organi politici, e la contestuale assegnazione dei compiti relativi al concreto svolgimento delle attività amministrative e di gestione ai dirigenti, serve a definire le rispettive competenze. I dirigenti hanno un’autonomia operativa nell’esercizio dei loro poteri, nell’ambito degli obiettivi fissati dal vertice politico. Essi esercitano due tipi di poteri, assoggettati ad un diverso regime giuridico: poteri pubblici, nello svolgimento dell’attività amm. mirante al soddisfacimento di interessi

pubblici; poteri del privato datore di lavoro, relativi all’organizzazione e alla gestione dei rapporti di

lavoro.

2. IL RUOLO DATORIALE DEL DIRIGENTE PUBBLICO

L’applicazione del principio della distinzione tra politica ed amministrazione comporta che gli organi politici definiscono la c.d. macro-organizzazione (linee fondamentali di organizzazione degli uffici, le dotazioni, ecc.) mentre i dirigenti adottano le determinazioni riguardanti la micro-organizzazione (organizzazione degli uffici, misure relative alla gestione dei rapporti di lavoro). Nell’ambito delle rispettive aree di competenza organizzativa (micro e macro-organizzazione) politici e dirigenti cooperano nella realizzazione degli obiettivi tra loro connessi: gli obiettivi “finali” dell’amministrazione, definiti dall’organo politico, si traducono per il dirigente in autonomi obiettivi dell’organizzazione. In dottrina per capire meglio questo rapporto tra politica e amministrazione, si ricorre al binomio imprenditore-datore: l’imprenditore sarebbe l’organo politico in quanto opera nella sfera del principio di libertà di individuazione degli obiettivi finali; il datore sarebbe invece il dirigente che è sottoposto ad una disciplina privatistico-contrattuale di cui deve tener conto nella determinazione dei suoi obiettivi strumentali.Questa equiparazione tra imprenditore/datore di lavoro con il rapporto tra il politico e il dirigente pubblico non corrisponde alla situazione reale poiché mentre nel settore privato è l’imprenditore che decide nell’esercizio della sua libertà organizzativa che l’ordinamento gli attribuisce, quali e quanti poteri trasferire al dirigente il quale pertanto dispone di competenze delegate; nel pubblico invece è il legislatore a stabilire se spetti o meno al dirigente esercitare i poteri datoriali ed in quale misura.

3. FUNZIONI DELLA DIRIGENZA E POTERI DATORIALI

Le funzioni dirigenziali si articolano in incarichi di dirigenza di prima fascia e incarichi di dirigenza di seconda fascia (vedi artt. 16 e 17 del D.lgs 165/2001). I dirigenti degli uffici dirigenziali generali (o di prima fascia) concorrono alla definizione dell’indirizzo politico-amministrativo, adottano atti e provvedimenti amministrativi, esercitano i poteri di spesa e quelli di acquisizione delle entrate

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rientranti nella competenza dei propri uffici, decidono sui ricorsi gerarchici, hanno il potere di conciliazione nel corso delle liti, curano i rapporti con le altre amministrazioni. I dirigenti di seconda fascia svolgono analoga funzione consultiva nei confronti dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali, formulando proposte e pareri, curano l’attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, adottando atti e esercitando poteri d spesa e acquisizione delle entrate, ed inoltre svolgono i compiti che gli vengono delegati dai dirigenti di prima fascia. La differenziazione appena menzionata riguarda solo l’esercizio da parte dei dirigenti di potestà pubbliche; per quanto riguarda il profilo di dirigente quale privato datore di lavoro le differenze sono: ai dirigenti di prima fascia spetta proporre le risorse e i profili professionali necessari ai compiti dell’ufficio (anche al fine della redazione del documento programmatico triennale), attribuire ai dirigenti gli incarichi e le responsabilità, definire gli obiettivi e distribuire le risorse, dirigere, controllare e coordinare l’attività dei dirigenti di seconda fascia, ed esercitare nei confronti di eventuali inerzie sia il potere sostitutivo sia quello sanzionatorio; i dirigenti di seconda fascia invece dirigono, coordinano e controllano l’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, esercitando eventualmente il potere di sostituzione, gestiscono e valutano il personale e le risorse assegnate ai propri uffici, gestiscono i meccanismi di assegnazioni di premi e indennità, concorrono all’individuazione delle risorse e delle capacità professionali.L’esercizio delle funzioni dirigenziali può essere delegato sia dal dirigente generale al dirigente di seconda fascia, sia da quest’ultimo al dipendente che non abbia qualifica dirigenziale (per questa ultima ipotesi sono previste delle restrizioni: la delega può riguardare solo alcuni tipi di competenze, solo con atto scritto e solo per un periodo determinato e per comprovate ragioni di servizio), tali deleghe possono essere conferite solo ai dipendenti che ricoprono posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati. Accanto a queste figure va segnalata la figura del vicedirigente che svolge funzioni vicarie. In realtà questa previsione è rimasta oggi lettera morta: laddove tale figura fosse istituita, la delega di funzioni sarebbe strumento residuale a cui ricorrere solo se manca il vice-dirigente, in quanto destinatario privilegiato e per definizione di una quota di funzioni dirigenziali.

3.1 L’ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI

Come visto nella seconda fase, la Corte Cost. ritenne legittimo con l’art. 97 Cost. il nuovo modello previsto dal legislatore del ’97 che portava ad una coesistenza fra regime pubblicistico e privatistico per la regolamentazione dell’organizzazione amministrativa. Tale assetto pone un problema, non ancora chiarito neppure dalle ultime modifiche legislative: fissare una linea di demarcazione tra le due aree organizzative. Molte sono state le soluzioni interpretative proposte, alcune volte ad ampliare l’area a regime pubblicistico, altre a riconoscere più ampi margini all’autonomia privatistica delle amministrazioni. Varie sono state le soluzioni interpretative alcune più orientate ad ampliare l’area a regime giuridico pubblicistico, altre inclini a riconoscere più ampi margini all’autonomia privatistica delle amministrazioni. Al primo gruppo troviamo la tesi che affida integralmente alla macro-organizzazione la definizione degli aspetti strutturali degli uffici pubblici, lasciando in area micro solo le determinazioni relative al loro funzionamento. L’altra tesi individua invece il confine tra macro e micro-organizzazione con riferimento al contenuto delle decisioni organizzative , a seconda che riguardino la regolamentazione dei fenomeni organizzativi oppure la loro gestione. Una tesi in particolare sembra possa salvaguardare sia le garanzie per i cittadini (salvaguardate dalla disciplina pubblicistica), sia quella flessibilità necessaria per l’organizzazione (garantita dalla disciplina privatistica): il livello di organizzazione rimesso alle fonti pubblicistiche è quello la cui

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definizione è in grado di incidere in maniera sostanziale sui modi in cui l’attività amministrativa sarà esercitata e su quali finalità saranno perseguite (riparto delle competenze giustificato da ragioni di interesse pubblico); laddove invece la distribuzione dei compiti fra le diverse strutture non incide sulla cura dell’interesse pubblico ma bensì si risolve unicamente nella definizione delle modalità operative per svolgere le attività, si verserà nell’area della organizzazione a regolamentazione privatistica. Questa ripartizione viene a coincidere con la definizione degli uffici dirigenziali di livello generale, mentre le decisioni organizzative poste dai dirigenti, rappresentano l’esercizio di poteri del datore di lavoro. Sostanzialmente condivisa è la riconduzione dell’area della micro-organizzazione (quindi alla disciplina privatistica) delle determinazioni concernenti il funzionamento degli uffici.

3.2 L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Per organizzazione del lavoro s’intende quella attività di coordinamento complessivo della totalità delle prestazioni lavorative in vista del risultato finale cui è preordinata l’organizzazione. In base all’art. 5 del D.lgs 165/2001 le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, perciò l’organizzazione del lavoro è ricondotta alle prerogative datoriali, assimilata all’organizzazione degli uffici, sottraendola alla contrattazione collettiva. La gestione del personale affidata al dirigente deve essere effettuata nel rispetto di alcuni criteri fissati dal legislatore: a) la pari opportunità per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro (art. 7),b) la formazione (art. 7-bis).Una novità introdotta dalla riforma del 2009, come abbiamo già visto, è la possibilità per i dirigenti di partecipare all’elaborazione del documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale (i dirigenti generali o di prima fascia formulano le proposte circa risorse e profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti cui sono proposti, mentre i dirigenti di seconda fascia concorrono a tali proposte). Decisamente più significativo è il ruolo assegnato ai dirigenti in relazione al sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche: oltre a svolgere una funzione di supporto agli organi politici nella verifica dell’andamento della performance, i dirigenti hanno competenza in ordine alla misurazione e valutazione annuale della performance individuale dei dipendenti; tali attività di misurazione e valutazione devono essere collegate al “ raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali”. È inoltre importante il ruolo dei dirigenti quali gestori della flessibilità. A tal proposito può considerarsi il ricorso alla delega di funzioni che permette un maggiore coinvolgimento del personale rispetto all’attuazione di obiettivi condivisi. Nella stessa direzione la previsione di posizioni organizzative (introdotte dalla contrattazione collettiva) al fine di favorire dinamiche organizzative flessibili nelle P.A. coniugando un adeguata valorizzazione del personale ad una congrua soddisfazione economica per i lavoratori. Tale valorizzazione del personale rientra nella micro-organizzazione , trattandosi di una attività che attiene alla definizione di dettaglio ed al funzionamneto degli uffici al fine di incrementare il livello di flessibilità e che si riflette sul piano della organizzazione del lavoro e della gestione del personale creando nuove posizioni di lavoro. In questo contesto si collocano anche l’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili e il ricorso al lavoro autonomo, che dopo aver conosciuto un periodo di largo utilizzo sono oggi comunque assoggettati a limiti di disciplina, la cui violazione è fonte di responsabilità per il dirigente. Un altro esempio di intervento sull’organizzazione del lavoro volto a scardinarne la rigidità (o incentivare la flessibilità) sono l’approvazione dei progetti per il ricorso a forme di tele-lavoro e le disposizioni in

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materia di orario di servizio (cioè il periodo giornaliero necessario per assicurare la funzionalità delle strutture degli uffici pubblici) e dell’orario di apertura al pubblico (corrispondente alle fascie orarie di accesso ai servizi da parte degli utenti). 3.3 LA GESTIONE DEI SINGOLI RAPPORTI DI LAVORO

Il potere direttivo è quel potere di dettare al prestatore di lavoro direttive atte a inserire nell’organizzazione la prestazione dovuta dal lavoratore, nonché determinare le modalità di svolgimento della stessa. Al datore di lavoro spettano poi quei poteri di gestione del rapporto di lavoro specificamente attribuiti dalla legge: ius variandi, cioè l’assegnazione a mansioni equivalenti. Questi spostamenti di personale tra i

vari uffici sono disposti con atto privatistico del dirigente, entro alcuni vincoli da osservare nei confronti delle organizzazioni sindacali. Una peculiarità del lavoro pubblico è l’assegnazione temporanea di mansioni superiori perché, se essa è disposta violando la legge, non comporta l’acquisizione di un superiore inquadramento per il lavoratore (come accade nel settore privato), ma è fonte di responsabilità per il dirigente il quale dovrà ripondere del maggior onere economico sopportato dall’amministrazione se abbi a agito con dolo o colpa grave;

progressioni di carriera dei dipendenti pubblici, è vero che sono oggi governate dallo strumento del concorso pubblico, ma su di esse incidono (al pari delle progressioni economiche) gli esiti della valutazione della prestazione lavorativa compiuta in modo prevalente dai dirigenti;

retribuzione accessoria, i dirigenti, nel rispetto dei criteri definiti dai contratti collettivi, provvedono ad attribuire tali trattamenti, in base agli esiti della valutazione della performance. La riforma ha ribadito l’importanza di una effettiva selezione dei soggetti da incentivare in base al merito e professionalità acquisite ed i relativi criteri per differenziare le valutazioni;

mobilità, per una migliore distribuzione dei lavoratori già dipendenti tra amministrazioni diverse a seconda dell’effettivo fabbisogno degli enti. Gli istituti relativi alla mobilità vengono attuati previo parere favorevole dei dirigenti responsabili del servizio e degli uffici in cui il personale si trova o sarà assegnato;

gestione delle eccedenze di personale e conseguente procedimento di mobilità collettiva . Se si riscontra una eccedenza di almeno 10 dipendenti rispetto al fabbisogno dell’ente il dirigente deve attivare la procedura di informazione e consultazione sindacale (qualora le eccedenze non fossero riscontrate/accertate è configurabile una responsabilità per danno erariale del dirigente);

potere disciplinare, la riforma ha inasprito le sanzioni e ampliato i poteri dirigenziali ed è stata introdotta la responsabilità per il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare che quando compete ai soggetti responsabili aventi qualifica dirigenziale e comporta la sospensione dal servizio o la mancata attribuzione della retribuzione di risultato; tale concetto non pare tenere conto del potere di discrezionalità del dirigente a seguito delle proprie valutazioni che possono determinarne la scelta se applicarla o meno, ma costituisce invece un automatismo automatico di applicazione della sanzione a prescindere.

3.4 LE RELAZIONI SINDACALI

Nell’ambito dei poteri organizzativi del dirigente pubblico è compresa anche la gestione delle relazioni sindacali, con i connessi poteri in sede di contrattazione integrativa. Come si è visto il legislatore del 2009 ha ridimensionato le competenze regolative affidate alla contrattazione collettiva, e la capacità negoziale del dirigente pubblico risulta a sua volta ridotta. Il legislatore ha escluso la negoziabilità delle decisioni inerenti l’organizzazione degli uffici e l’organizzazione del

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lavoro; per il resto l’attività contrattuale del dirigente potrà svolgersi soltanto sugli istituti del rapporto di lavoro e sulle relazioni sindacali (nei limiti di quanto previsto nelle clausole dei contratti di comparto) e in alcune materie nei limiti della legge. Per costruire un consenso sulle scelte attinenti l’organizzazione del lavoro (e quindi la gestione del personale) il dirigente potrà pertanto fare affidamento solo e principalmente sulle sue doti di leadership. ALCUNE CONSIDERAZIONI CRITICHE

Il dirigente è stato chiamato dal legislatore a svolgere un ruolo determinante nella organizzazione e gestione degli uffici pubblici e per poter assolvere il suo compito deve spendere come risorsa la sua competenza manageriale, intesa come la capacità di assumersi le proprie responsabilità in riferimento alle proprie scelte sulle procedure e modelli organizzativi da adottare attraverso un efficiente impiego delle risorse umane, finanziare e materiali.La leva dovrebbe essere la delimitazione del confine tra macro e micro-organizzazione che contribuisce a definire le rispettive competenze tra l’autonomia del dirigente e le ingerenze della politica, ma la scelta operata dal legislatore di riappropriarsi della competenza regolativa solleva preoccupazioni poiché si muove in direzione contraria alle affermazioni del principio di autonomia e responsabilità come strumenti da utilizzarsi per garantire l’efficienza della pp.aa.Se infatti si attribuiscono poteri il cui esercizio risulta assoggettato al rispetto di regole rigidamente predefinite, che lasciano poco margine di manovra e di scelta , si mortifica la funzione manageriale del dirigente pubblico e si delinea per lui un ruolo meramente esecutivo.Inoltre si è puntato prevalentemente sulla valorizzazione della dirigenza attraverso l’attribuzione di poteri autonomi e sul significativo incremento delle retribuzioni quale strumento premiale trascurando di supportare tali scelte da un adeguato sistema di valutazione, mentre con la riforma del 2009 si è puntato forse troppo proprio su questi profili la cui mancanza determina una previsione sanzionatoria di tipo coercitivo la cui efficacia è ancora da verificare.

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CAPITOLO 5: IL RAPPORTO DI LAVORO DEL DIRIGENTE PUBBLICO

1. CONTRATTUALIZZAZIONE DELLA DIRIGENZA PUBBLICA E FONTI DI DISCIPLINA DEL RAPPORTO

La contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici avvenne nella 1^ fase della riforma per i soli dirigenti di seconda fascia, e poi fu estesa ai dirigenti generali, con il bene placito della Corte Cost. La fonte contrattuale affiancò così quella legislativa. Accanto alla disciplina fondamentale della dirigenza pubblica, contenuta nel D.Lgs. 165/2001, applicabile alla dirigenza statale-ministeriale, vi sono discipline speciali riguardanti profili del rapporto dirigenziale di altri settori della P.A., specie quella sanitaria, scolastica, regionale e locale. In tali settori la normativa è quasi sempre contenuta in fonti legislative statali, eccetto per la dirigenza regionale la cui fonte è la legge regionale. Perciò la disciplina del D.Lgs 165/2001 si applica alla dirigenza non statale solo quando manca una specifica regolamentazione dell’istituto, fermo restando che sono in ogni caso vincolanti per tutte le dirigenze i principi generali in materia dettati dal predetto decreto, essendo previsto un espresso obbligo di adeguamento ad essi da parte di tutte le amministrazioni.

2. L’ACCESSO AL RUOLO

In ogni amministrazione dello Stato è istituito il ruolo dei dirigenti, che si articola nella prima e nella seconda fascia, nel cui ambito sono definite apposite sezioni in modo da garantire l’eventuale specificità tecnica. L’accesso alla qualifica di dirigente di seconda fascia avviene per concorso per esami indetti dalle singole amm. o per corso-concorso selettivo di formazione banditi dalla Scuola Superiore della P.A. Il rapporto di lavoro di dirigente si instaura poi, mediante la stipula, da parte dell’amministrazione, di un contratto individuale a tempo indeterminato con il vincitore del concorso.Al concorso possono essere ammessi: a)i dipendenti di ruolo della pp.aa. muniti di laurea con almeno 5 anni di sevizio o se in possesso del dottorato di ricerca o del diploma di specializzazione con almeno 3 anni di servizio svolto in posizione funzionale per l’accesso alle quali è richiesto i possesso del diploma di laurea;b) i soggetti in possesso della qualifica di dirigente in enti e strutture pubbliche non comprese nel campo di applicazione del D.lgs 165/2001 muniti di diploma di laurea che abbiano svolto per almeno 2 anni le funzioni dirigenziali;c) coloro che abbiano ricoperto incarichi dirigenziali o equiparati in amministrazioni pubbliche per un periodo non inferiore ai 5 anni purchè muniti del diploma di lauread) cittadini italiani muniti di idoneo titolo universitario che abbiano lavorato per almeno 4 anni presso enti o organismi internazionali, o abbiano esperienze lavorative in posizioni apicali per le quli è richiesto il diploma di laurea.Mentre al corso concorso selettivo di formazione possono essere ammessi:a) soggetti muniti di laurea, o diploma di specializzazione, dottorato di ricerca o altro titolo post-universitario;b) dipendenti di ruolo della pp.aa. che abbiano almeno 5 anni di servizio svolti in posizione funzionale per l’accesso del quale è richiesto il posseso del diploma di laurea;c) dipendenti di strutture private collocati in posizioni professionali equivalenti a quelle indicate per i dipendenti pubblici;

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Il corso ha la durata di mesi 12 ed è seguito previo superamento di esame da un semestre di applicazione presso amministrazioni pubbliche o private ed al termine i candidati sono sottoposti ad un esame-concorso finale. L’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia avviene per il 50% dei posti che si rendano disponibili annualmente per la cessazione dal servizio dei soggetti incaricati tramite concorso pubblico per titoli ed esami indetto dalle singole amm. Al concorso possono essere ammessi anche i dirigenti di seconda fascia che abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti, per almeno 5 anni senza essere incorsi nelle misure previste per le responsabilità dirigenziali. Al concorso per titoli ed esami possono essere ammessi i dirigenti di ruolo della pp.aa. che abbiano maturato 5 anni di servizio nei ruoli dirigenziali. I vincitori, prima del conferimento dell’incarico, sono tenuti all’espletamento di un periodo di formazione di almeno 6 mesi, presso uffici amm. di uno Stato dell’UE o di un organismo comunitario o internazionale, scelto dal vincitore tra quelli selezionati dall’amm. Alla fine di tale periodo è prevista da parte degli uffici una valutazione del livello di professionalità acquisito, che equivale al superamento del periodo di prova necessario per l’immissione in ruolo.

3. LA DISCIPLINA DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI – LO SPOILS SYSTEM

Il rapporto di lavoro dirigenziale si caratterizza per l’attribuzione al dirigente, nel corso del rapporto a tempo indeterminato, di incarichi a tempo determinato mediante i quali viene specificato il contenuto concreto dell’attività del dirigente. Per il conferimento di ogni incarico si tiene conto delle capacità professionali e dei precedenti del singolo dirigente. A tal fine l’amm. rende conoscibili il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta, acquisisce le disponibilità dei dirigenti e le valuta. L’incarico viene conferito tramite provvedimento unilaterale dell’amm., nel quale sono individuati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, nonché la durata dell’incarico che non può essere inferiore a 3 anni o superiore a 5 (un incarico inferiore a 3 anni può esserci solo se si ha il collocamento a riposo dell’interessato per sopraggiunti limiti d’età). In caso di primo conferimento dell’incarico ad un dirigente di seconda fascia l’incarico è di durata triennale. Al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico. Gli incarichi ministeriali di livello apicale (es. Segretario generale di ministeri) sono conferiti con D.P.R. previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro competente ai dirigenti di prima fascia. Gli incarichi dirigenziali di livello generale sono conferiti con decreto del Presidente del Consiglio su proposta del Ministro competente ai dirigenti di prima fascia o (per non più del 70%) di seconda fascia. Gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale sono conferiti dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale ai dirigenti assegnati al suo ufficio.L’unilateralità del conferimento degli incarichi dirigenziali (introdotta nel 2002 mentre nella precedente disciplina si definivano col contratto individuale la maggior parte delle condizioni dell’incarico) è all’origine di numerosi problemi interpretativi sulla natura di tale atto: provvedimento amministrativo o atto privatistico? La Cass. ha optato per la seconda ipotesi, considerando la complessiva privatizzazione del rapporto di lavoro.Ai dirigenti non titolari di uffici dirigenziali sono attribuiti, su richiesta degli organi delle amm., incarichi per funzioni ispettive, consulenza, ricerca. Il legislatore ha poi previsto il divieto di conferimenti di incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che negli ultimi 2 anni hanno ricoperto cariche in partiti politici o organizzazioni sindacali o che abbiano avuto con essi dei rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza. Gli incarichi sono

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rinnovabili discrezionalmente dall’amm. in base alla verifica dei risultati conseguiti dal dirigente, il loro mancato raggiungimento o l’inosservanza delle direttive imputate al dirigente comportano (previa contestazione) l’impossibilità del rinnovo. L’amm. che non intende confermare l’incarico, in assenza di valutazione negativa, deve comunicarlo comunque al dirigente con congruo preavviso. Gli incarichi dirigenziali sono revocabili prima della scadenza, in base alla gravità dei casi, solo nei casi di responsabilità dirigenziale per mancato raggiungimento dei risultati e degli obiettivi: l’amm. è tenuta alla relativa contestazione motivata e al rispetto del contraddittorio in modo da dare al dirigente la possibilità di esercitare il diritto di difesa . In deroga a questo ultimo principio generale la Corte Cost. ha ammesso eccezioni, come i meccanismi di spoils system, ossia la cessazione automatica dell’incarico (senza necessità di alcuna motivazione) al verificarsi di un certo evento, di solito il cambio di legislatura o di Governo: tale meccanismo è limitato a pochi casi, come l’incarico di Segretario generale di ministeri o di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali o di livello equivalente (con la riforma del 2009 è stata disposta la loro automatica cessazione decorsi 90 gg dal voto sulla fiducia al Governo).

4.. IL TRATTAMENTO ECONOMICO

I contratti collettivi hanno disciplinato la retribuzione dei dirigenti, di secondo livello, prevedendo il c.d. trattamento stipendiale o tabellare, stabilendo che al dirigente devono essere corrisposti anche un trattamento economico accessorio connesso alle funzioni attribuite (retribuzione di posizione) e ai risultati conseguiti (retribuzione di risultato). Principio di onnicomprensività della retribuzione. Gli importi di questi trattamenti sono definiti dal contratto individuale, in relazione alla graduazione e alle responsabilità connesse ai risultati da raggiungere. La riforma del 2009 ha inciso sulla materia della retribuzione dirigenziale, stabilendo che il trattamento accessorio legato ai risultati (retribuzione di risultato) debba in futuro costituire il almeno il 30% della retribuzione netta del dirigente, e che la parte della retribuzione legata ai risultati non può essere corrisposta al dirigente qualora l’amm. non abbia predisposto il relativo sistema di valutazione. Per gli incarichi di uffici dirigenziali di livello generale è il contratto individuale che stabilisce il trattamento economico fondamentale e il trattamento economico accessorio. In ossequio al principio di trasparenza le P.A. hanno l’obbligo di pubblicare sul proprio sito le retribuzioni annuali dei dirigenti (oltre ai curricula vitae).

5 LA MOBILITÀ

La mobilità individuale dei dirigenti delle P.A., da attuarsi nei limiti dei posti disponibili, è regolata dalla stessa disciplina vigente per il personale non dirigente, e consiste nel passaggio diretto tra amministrazioni diverse mediante procedure di trasferimento. I contratti collettivi nazionali disciplinano inoltre gli effetti connessi ai trasferimenti: il mantenimento del rapporto assicurativo, il TFR, ecc. Invece nei casi di mobilità dei dirigenti al fin di svolgere attività presso soggetti privati o pubblici gli stessi sono collocati in aspettativa senza assegni, salvo motivato diniego dell’amm. di appartenenza, tale periodo però gli fa mantenere la qualifica posseduta. In caso di svolgimento della propria attività presso soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche , il periodo di collocamento in aspettativa non può superare i 5 anni e l’aspettativa non è computabile ai fini dell’anzianità di servizio e per la previdenza complementare.

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Mentre per l’assegnazione temporanea presso altre pp.aa. o imprese private, sulla base di appositi protocolli di intesa , ai dirigenti si applica la medesima disciplina prevista per tutti i dipendenti pubblici

6. L’ASSUNZIONE DI DIRIGENTI MEDIANTE CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO

Gli incarichi di funzione dirigenziale, oltre che a dirigenti di ruolo dell’amministrazione, possono essere conferiti anche mediante contratti a tempo determinato, entro il limite del 10% della dotazione organica dei dirigenti di ruolo della prima fascia e dell’8% della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia. La durata di tali incarichi non può eccedere 3 anni per gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale, per quelli di Segretario generale di ministeri e per quelli di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali ed equivalenti, e di 5 anni per gli altri incarichi di funzione dirigenziale. Questi incarichi possono essere conferiti, con esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione.Nel caso di dirigenti di prima fascia, qualora l’incarico richieda specifica esperienza e professionalità, si può provvedere con contratti di diritto privato a termine alla copertura di singoli posti, e comunque di una quota non superiore alla metà di quelli da mettere a concorso attraverso concorso pubblico aperto ai soggetti in possesso dei requisiti professionali e delle attitudini manageriali corrispondenti al posto da ricoprire; questi contratti sono stipulati per un periodo non superiore a 3 anni. Il trattamento economico dei dirigenti assunti con contratto a tempo determinato può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato. Per il periodo di durata dell’incarico, se dipendenti della P.A. sono collocati in aspettativa senza assegni, con riconoscimento dell’anzianità di servizio.

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CAPITOLO 6: LA VALUTAZIONE DELLA PRESTAZIONE DIRIGENZIALE E LE CONNESSE RESPONSABILITÀ. RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE E DISCIPLINARE

1. LA VALUTAZIONE COME STRUMENTO DI INCENTIVAZIONE E CONTROLLO

L’intervento del 2009 ha attribuito al sistema di valutazione della dirigenza pubblica un ruolo centrale, in una strategia di riforma fondata sul merito e sulla qualità delle prestazioni. Si è confermata la duplice funzione della procedura di valutazione: una finalizzata all’erogazione della retribuzione di risultato e alla distribuzione degli incarichi di funzione dirigenziale ( funzione di incentivazione), e l’altra, eventuale, di rilevazione della responsabilità dirigenziale (funzione di controllo). La disciplina della valutazione delle prestazioni dirigenziali è contenuta nella fonte legale (le nuove norme introdotte dal 150/2009 e quelle da lui modificate nel 165/2001), in questo campo la contrattazione collettiva incontra rigorosi limiti (ricordare che è espressamente esclusa dalla contrattazione, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali) la quale trova nella legge l’unica fonte di disciplina.

1.1 e 1.2 LA VALUTAZIONE COME CONDICIO SINE QUA NON DELLA RETRIBUZIONE DI RISULTATO E COME FASE PER L’EVENTUALE ADDEBITO DELLA RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE

Il D. Lgs. 150/2009 ha ribadito l’impostazione (già espressa nelle precedenti riforme del ‘ 90) secondo cui non può esserci retribuzione di risultato senza preventiva valutazione positiva. Va chiarito che l’espressione “retribuzione di risultato” non va intesa in senso letterale, come retribuzione collegata esclusivamente agli obiettivi raggiunti (buone prestazioni erogate), ma bensì come complesso delle attività dirigenziali che di volta in volta esprimono l’incarico di funzione dirigenziale (performance individuale): gli esiti degli indicatori di performance, il raggiungimento di specifici obiettivi individuali, la qualità del contributo dato alla performance generale; la capacità di valutazione dei propri collaboratori.L’Organismo Indipendente di Valutazione delle performance compila una graduatoria delle valutazioni individuali dei dirigenti, distinti per livello generale e non, raggruppandoli in tre differenti fasce (in base ai livelli di performance): 25% fascia di merito alta (con la possibilità di variare la percentuale del 5% con la conseguente variazione anche delle altre); 50% fascia di merito intermedia; 25% fascia di merito bassa. La collocazione dei dirigenti nelle fasce di merito è funzionale all’attribuzione di una retribuzione di risultato, ricordare che alla collocazione nella fascia bassa non corrisponde alcuna retribuzione accessoria legata al merito.La obbligatorietà prevista per legge della valutazione ai fini dell’attribuzione della retribuzione di risultato comporta l’illegittimità di alcune pratiche negoziali in sede decentrata che prevedevano l’erogazione anticipata di una percentuale di retribuzione correlata al risultato senza la preventiva valutazione, oppure la distribuzione a pioggia dell’intera retribuzione di risultato senza preventiva valutazione.

1.3 L A V ALUTAZIONE COME F ASE PER L ’E VENTUALE A DDEBITO DELLA R ESPONSABILITA ’ D IRIGENZIALE

Se nel corso della procedura di monitoraggio dell’attività dirigenziale emergono distonie gestionali, tali da integrare gli estremi dell’art. 21, sarà avviata la procedura di addebito della responsabilità dirigenziale. Con tale avvio sono riconosciute alcune garanzie procedurali, come la preventiva contestazione dell’addebito, il rispetto del contraddittorio e la procedimentalizzazione prevista dalla legge o dai contratti collettivi nazionali. La legge non specifica se sia possibile o meno sospendere la

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procedura di valutazione (per attivare la procedura sanzionatoria) quando ricorrano i presupposti per l’addebito della responsabilità: nel silenzio di legge si ritiene che altre fonti possano colmare il vuoto normativo (es. il regolamento di un ente locale).

2. LA RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE E I RAPPORTI CON LA RESPONSABILITÀ DISCRIPLINARE

Nell’esercizio della sua attività, il dirigente può commettere infrazioni che integrano diverse forme di responsabilità (amministrativa, amministrativa-contabile, penale, disciplinare, dirigenziale). Quest’ultima è una responsabilità aggiuntiva rispetto alle altre, essa sanziona specificamente l’incapacità manageriale del dirigente pubblico (ferma restando la sua responsabilità disciplinare) nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, o per inosservanza delle direttive imputabili al dirigente (art. 21). Appare opportuno effettuare un distinguo tra le obbligazioni derivanti rispettivamente dal contratto a tempo indeterminato che segna la nascita del rapporto di lavoro del dirigente a seguito di concorso, dall’attribuzione dell’incarico. Sembra infatti possibile sostenere che mentre la responsabilità disciplinare gravita intorno al contratto di lavoro “di base” la responsabilità dirigenziale gravita attorno all’incarico .La responsabilità disciplinare è invece l’inadempimento degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro. Diciamo che la responsabilità disciplinare gravita attorno al contratto di lavoro “di base”, mentre la responsabilità dirigenziale ruota attorno all’incarico. Distinguere le due forme di responsabilità non è sempre agevole nella prassi, a volte le due forme si sovrappongono. La responsabilità disciplinare è la tipica forma di responsabilità per colposo inadempimento del contratto di base, rispetto alla quale è imprescindibile la rilevanza dell’elemento psicologico, colpa o dolo, del dirigente. Mentre quella dirigenziale, che ha essenzialmente natura oggettiva, si sdoppia in: una responsabilità per l’inosservanza delle direttive datoriali (molto simile alla responsabilità

disciplinare, ma che differisce da questa per le sue ricadute sul piano del raggiungimento degli obiettivi);

una responsabilità di risultato, per mancato raggiungimento degli obiettivi sottesi all’incarico.Può confondere l’art. 21 co. 1-bis, che prevede, sentito il Comitato dei garanti, una decurtazione fino all’80% della retribuzione del dirigente una volta accertata la sua colpevole violazione del dovere di vigilanza sul personale dei propri uffici per l’osservanza degli standard fissati dall’Amm. (con le garanzie naturalmente della previa contestazione, contraddittorio, ecc.). Si tratta di una responsabilità disciplinare (perché fondata sulla colpa), pur essendo rubricata come responsabilità dirigenziale e pur impiegando la procedura tipica di quest’ultima.Per evitare confusione tra le due forme, non bisogna più ricercare nelle procedure di addebito, visto che oggi si somigliano (in passato la differenza consisteva nel fatto che solo per la resp. dirigenziale era obbligatorio il parere preventivo del Comitato dei garanti), ma semmai nelle procedure di rilevazione (oggi è necessaria la previa procedura di valutazione solo per l’addebito di resp. dirigenziale).Tipico esempio per capire la sottile differenza è il caso in cui il dirigente effettua la scelta dei propri collaboratori per la realizzazione di un progetto, dove nel caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo preposto, la responsabilità dirigenziale sanzionerà la responsabilità oggettiva del dirigente che non è stato in grado di selezionare bene il suo gruppo di lavoro. Al contrario, la colpevole violazione del “dovere di vigilanza “ che si manifesta durante l’esecuzione del progetto integra gli estremi della responsabilità disciplinare e presuppone pertanto l’accertamento della

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colpevolezza del dirigente medesimo; pertanto la prima si attiverà durante una procedura di valutazione volta a verificare il raggiungimento dell’obbiettivo , mentre la seconda a prescindere.

3. LA RESPONSABILITÀ DIRIGENZIALE: CAUSALI – PROCEDURA DI ADDEBITO - SANZIONI

Cause della responsabilità dirigenziale:- mancato raggiungimento degli obiettivi, da accertare nel corso della procedura di valutazione, a

prescindere dal comportamento doloso dell’agente;- inosservanza delle direttive, in questo caso deve sussistere il requisito della imputabilità, e qui

sorge il dubbio se occorra l’elemento soggettivo della colpa (proprio per questo, tale forma di responsabilità è spesso “sovrapponibile” alla responsabilità disciplinare).

Ma ciò nonostante la responsabilità dirigenziale resta sostanzialmente una responsabilità di natura oggettiva.Individuati gli estremi per l’addebito della responsabilità dirigenziale, la parte datoriale pubblica procede alla contestazione dell’addebito al dirigente e, nei casi previsti di grave responsabilità [vedi livello grave], deve attivare un contraddittorio con il medesimo. Occorre quindi il parere del Comitato dei Garanti: oggi esso è necessario ma non vincolante, sia nel caso di resp. dirigenziale sia nello specifico caso di quella disciplinare, quindi anche in caso di pronuncia negativa sulla sanzione, l’amministrazione potrebbe ugualmente irrogarla. Il parere della Commissione va fatto entro 45 gg dalla richiesta, oltre i quali l’amm. può prescindere da esso. Il Comitato dei Garanti è un organismo di 5 componenti, nominato con decreto del P.C.M., che dura in carica 3 anni.Contro la sanzione irrogata il dirigente potrà fare ricorso al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. Le sanzioni che il legislatore ha previsto per la resp. dirigenziale possono essere di due livelli: lieve e grave. Al livello lieve corrisponde l’impossibilità di rinnovo dell’incarico precedentemente ricoperto (non incide sul rapporto di lavoro di base), ciò avviene in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo e inosservanza semplice delle direttive. Al livello grave corrisponde la revoca dell’incarico e la messa a disposizione dei ruoli, ovvero il recesso dal rapporto di lavoro di base così come previsto in base alle disposizioni del contratto collettivo. In quest’ultimo caso, affinché il licenziamento sia corretto, è indispensabile la corretta procedimentalizzazione. La corretta sequenza impone la rilevazione a seguito dei meccanismi di valutazione di un caso grave di mancato raggiungimento degli obbiettivi assegnati o l’inosservanza delle direttive impartite. Una volta acquisito questo dato la procedura prevede la preventiva contestazione dell’addebito, l’audizione del dirigente ai fini del contraddittorio con la parte datoriale pubblica ed il parere non vincolante del Comitato dei Garanti. Solo al termine di tale percorso procedurale che il datore di lavoro può adottare la sanzione del licenziamento per responsabilità dirigenziale. Qualora il dirigente impugni l’atto datoriale che dispone la cessazione del rapporto, il giudice competente sarà il giudice ordinario con le funzioni di giudice del lavoro. Non vi è una giurisprudenza unica nel caso in cui il licenziamento fosse impugnato dinanzi al giudice Ordinario: la Cass si è espressa favorevolmente sulla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo ma, la giurisprudenza di merito ha sostenuto, anche in pronunce recenti, l’opposto.

4. LA RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEL DIRIGENTE: INFRAZIONI, PROCEDURE E SANZIONI

L’addebito della responsabilità disciplinare può essere mosso dinanzi ad un inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro del dirigente (artt. 2105 c.c., che riguardano gli obblighi

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di diligenza e fedeltà). Le ipotesi riconducibili a tale fattispecie sono definite dai contratti collettivi, però negli artt. 55 e ss (con disposizioni riscritte o aggiunte nel 2009) emergono alcuni casi specifici, con relative sanzioni: a. rifiuto ingiustificato a testimoniare o a collaborare in un procedimento disciplinare in corso in

un'altra P.A. → sanzione = privazione della retribuzione fino a 15 gg;b. inadempimento del controllo delle condotte assenteistiche → sanzione = lo stesso del punto c;c. mancato esercizio o decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza

giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate in quanto vi sia una condotta avente palese rilevanza disciplinare → sanzione = sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in proporzione alla gravità dell’infrazione non perseguita, fino a massimo 3 mesi in relazione alle infrazioni sanzionabili con il licenziamento, e anche la mancata attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a quello spettante per il doppio del periodo della durata della sospensione. Con la modifica del D.lsg del 2009 è oggi possibile applicare le sanzioni conservative e cioè quelle diverse dal licenziamento, infatti fino ad allora l’unica sanzione applicabile era il licenziamento.

Per quanto riguarda il procedimento disciplinare, per i dirigenti può essere azionato dall’Ufficio Competente per i Procedimenti Disciplinari (ufficio deputato a contestare l’addebito al dirigente, a convocarlo per il relativo contraddittorio, a istituire e concludere il procedimento di addebito della sanzione disciplinare), ma nonostante ciò si ritiene (dottrina e giurisprudenza) che il procedimento disciplinare può essere attivato da qualsiasi ufficio esistente nel proprio apparato, seppure non istituzionalmente creato per assolvere questo compito. Le determinazioni conclusive del procedimento disciplinare sono poi adottate dal dirigente generale. Sono previste le stesse garanzie della procedura di addebito della responsabilità dirigenziale. In caso di contestazione della sanzione disciplinare del dirigente resta competente il giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro – anche il tal caso non c’è una giurisprudenza unica sulla possibilità o meno di reintegrazione nel posto di lavoro.

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PARTE TERZA: La Disciplina del Rapporto di LavoroCAP. 7: ACCESSO AL LAVORO PUBBLICO: PROCEDURE DI RECLUTAMENTO E COSTITUZIONE DEL RAPPORTO

1. RILEVANZA COSTITUZIONALE DELL’ACCESSO AI PUBBLICI UFFICI

Con la riforma del ‘92 il legislatore ha inserito le procedure di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro ai pubblici uffici tra le materie che devono essere regolate esclusivamente dalla legge e, in base a essa, da fonti unilaterali di natura pubblicistica. Il fondamento di ciò è l’art. 97.1 Cost., che pone una riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici, anche se tale riserva non implica necessariamente riserva di regime pubblicistico (abbiamo già parlato della distinzione tra atti di macro e micro-organizzazione, con quest’ultima disciplinabile anche da atti unilaterali della dirigenza o negoziali-privatistici). Altro principio fondamentale in materia è quello del concorso quale ordinario strumento di reclutamento nelle p.a. (art. 97.3 Cost.). Tutte le procedure per il reclutamento devono essere in ogni caso idonee a contemperare le esigenze di trasparenza e imparzialità della p.a., con quelle di economicità ed efficacia della selezione.

2. MODALITÀ DI ACCESSO: I PRINCIPI GENERALE

La norma che attualmente detta la disciplina generale del reclutamento del personale è l’art. 35 del D.lgs 165/2001, per cui l’assunzione avviene con contratto individuale di lavoro (ribaltando così il vecchio principio secondo cui il rapporto di pubblico impiego si costituiva per effetto di atto unilaterale della P.A.). Le modalità di assunzione avvengono di regola:

tramite procedure selettive, volte all’accertamento delle professionalità richiesta; mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento nei profili per i quali è richiesto il

solo requisito della scuola dell’obbligo .Le procedure di reclutamento devono essere conformi ai seguenti principi: - pubblicità della selezione - imparzialità, economicità e celerità – adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei per

verificare il possesso dei requisiti - rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori- decentramento delle procedure di reclutamento - commissioni composte esclusivamente da esperti di provata competenza nelle materie di

concorso, scelti tra i funzionari delle amministrazioni e che non abbiano incompatibilità ovvero che non ricoprano cariche politiche o sindacali.

Vanno inoltre accertate le conoscenze informatiche e di almeno una lingua straniera tra i candidati.La dirigenza è invece soggetta ad una disciplina speciale [vedi cap. 5 par. 2] e la cui caratteristica sta nella presenza di un doppi canale; l’uno quello dei concorsi banditi direttamente dalla amministrazione interessata e l’altro quello del corso-concorso bandito dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

3. PROCEDURE DI RECLUTAMENTO, GRADUATORIE, ASSUNZIONE DEI VINCITORI

L’avvio delle procedure di reclutamento è subordinato ad una serie di adempimenti preliminari. Innanzitutto ogni amm./ente deve attenersi alla programmazione triennale del fabbisogno del personale (fatta dagli organi di vertice); è necessario emanare un apposito decreto di autorizzazione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri nel caso in cui si intenda procedere all’assunzione di

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almeno 5 lavoratori con contratto a tempo determinato (compresi i contratti di formazione e lavoro). Inoltre, l’espletamento delle procedure concorsuali, per coprire i posti vacanti, deve essere sempre subordinata a due condizioni: 1)l’attivazione delle procedure di mobilità e 2) la preventiva verifica dell’impossibilità di ricollocare il personale in disponibilità. I concorsi pubblici per le assunzioni nelle amministrazioni dello Stato e nelle aziende autonome si devono espletare di norma a livello regionale (regionalizzazione del reclutamento); eventuali deroghe sono autorizzabili dal Presidente del Consiglio. Gli Enti locali disciplinano modalità e procedure di assunzione nei loro regolamenti. È stata introdotta anche la c.d. territorializzazione delle procedure concorsuali, ossia la previsione che il luogo di residenza possa costituire un requisito di partecipazione al concorso, quando la residenza sia strumentale all’assolvimento dell’incarico.Conclusa la procedura di selezione, l’elenco dei candidati esaminati dalla commissione viene trasmessa all’amministrazione , che predispone la graduatoria di merito: sono dichiarati vincitori i candidati utilmente collocati in tale graduatoria, nei limiti dei posti disponibili e tenendo conto dei posti a favore delle c.d. categorie protette e altre categorie di riservatari previste dalla legge. La P.A. entro il giorno precedente a quello della stipula del contratto individuale di lavoro, è tenuta a comunicare l’assunzione ai Centri per l’Impiego. La legge prevede infine che il neo-assunto è obbligato a restare nella sede di prima destinazione per almeno 5 anni.

4. L’INSERIMENTO E L’INTEGRAZIONE LAVORATIVA DEI DISABILI NELLE P.A.

La L. 68/99 in materia di assunzione dei soggetti disabili (categorie protette) mira a promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa di tali categorie. Per garantire ciò, i disabili devono iscriversi negli appositi elenchi del collocamento obbligatorio, previo accertamento della disabilità. I datori di lavoro pubblici e privati che hanno alle dipendenze almeno 15 dipendenti devono riservare una quota percentuale di posti a tali soggetti, che varia in base alla loro dimensione occupazionale. Entro 60 gg. dal momento in cui scatta l’obbligo di effettuare l’assunzione obbligatoria (quando la quota d’obbligo risulta scoperta), i datori devono presentare agli organismi rappresentativi del lavoro competente per territorio (i Centri per l’impiego) una richiesta di avviamento del disabile. Per le P.A. è prevista la chiamata numerica dei soggetti appartenenti alle categorie previste (mentre i datori privati possono effettuare chiamate nominative), eccetto i casi in cui la legge consente anche a loro la chiamata nominativa. I lavoratori disabili vengono avviati al lavoro in forza delle graduatorie compilate sulla base dei criteri fissati dalle Regioni e rese pubbliche. L’assunzione avverrà previa verifica della compatibilità dell’invalidità con le mansioni da svolgere. I disabili possono partecipare a tutti i concorsi banditi da qualsiasi amm. (eccetto alcuni casi, come i servizi di polizia in cui ciò non è consentito ), e non è necessario possedere il requisito della disoccupazione al momento dell’assunzione. Essi hanno diritto alla riserva dei posti, nei limiti della quota d’obbligo, fino al 50% dei posti messi a concorso.

5. L’ACCESSO DEGLI STRANIERI AI POSTI DI LAVORO PRESSO LE P.A.

L’art. 51 Cost. stabilisce che tutti i cittadini, di ogni sesso, possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. La cittadinanza è quindi tra i requisiti necessari per l’ammissione agli impieghi nella P.A. (escludendo così l’applicazione del principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno degli Stati membri dell’UE). Tuttavia tale requisito non è da considerarsi assoluto, come dice una pronuncia del 1980 della Corte di Giustizia, ma riguarda solo i posti e le mansioni che implicano direttamente o

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indirettamente la partecipazione all’esercizio delle potestà pubbliche (ovvero implicano la tutela dell’interesse nazionale), il legislatore italiano ha voluto pertanto ridimensionare i vincolo della cittadinanza previsto dalla Costituzione, art. 38 del D.lgs 165/2001, . rinviando ad un regolamento l’individuazione dei posti per quali è necessario la cittadinanza italiana. Tale disciplina trova applicazione solo per i cittadini UE e non per i cittadini extracomunitari ( che sono esclusi a priori).

6. ALCUNI PROBLEMI INTERPRETATIVI

L’art. 35 ha sollevato diversi problemi interpretativi. Controverso è il significato dell’espressione procedure selettive, che sembra consentire deroghe al principio del concorso ed ammettere procedure di tipo non comparativo. Premettendo che questa interpretazione non contrasta con l' art 97.3 Cost., va detto che la stessa Corte costituzionale in più occasioni, dopo aver ribadito che il concorso rappresenta la forma generale e ordinaria di reclutamento nel settore pubblico, ha ammesso che le amm. possano ricorrere a procedure selettive di tipo non concorsuale, purché giustificate dalla necessità di garantire il buon andamento dell' amministrazione o di attuare altri principi di rilievo costituzionale. Altro problema interpretativo si è posto in relazione al principio secondo cui le procedure selettive devono garantire in misura adeguata l'accesso dall'esterno. Questa previsione, letta al contrario, ammette che le procedure di reclutamento per i posti di ruolo delle P.A. consentano, almeno in parte, la selezione interna di lavoratori già dipendenti pubblici: si tratta di un problema che riguarda solo le cd progressioni verticali, riguardanti i passaggi da un' area di inquadramento a quella superiore, dato che quelle orizzontali (riguardanti i passaggi interni alle aree) interessano esclusivamente lavoratori già in servizio presso le P.A. La Corte Costituzionale, in varie sentenze, ha individuato nel concorso pubblico il modello unico anche per la progressione in carriera dei lavoratori pubblici. Nella riforma 2009 il legislatore ha recepito tale orientamento: l’amministrazione potrà pertanto destinare al personale interno, una riserva di posti comunque non superiore al 50%, ed inoltre che, una valutazione positiva conseguita per almeno 3 anni costituisce titolo rilevante ai fini dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore; e infine che la collocazione per 3 anni consecutivi o 5 non consecutivi, nella fascia alta delle graduatorie di merito è titolo rilevante ai fini della progressione di carriera.Qualche problema interpretativo potrebbe porsi anche per la nuova previsione della residenza come titolo di accesso al concorso: la Corte Cost. ha precisato che l’elemento della residenza non deve mai assumere un valore prioritario rispetto alla valutazione di merito. Solo la presenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi, specificatamente individuati, potrebbe far ritenere legittime tali “discriminazioni”.In base all’art. 63 sono devolute alla giurisdizione del Giudice Amminsitrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle P.A., lasciando all’interprete il compito di chiarire se la previsione si estenda o meno alle progressioni verticali o di carriera, e orizzontali.

7. PROFILI DI CRITICITÀ SUL PIANO APPLICATIVO

Alcune criticità spesso emerse nello svolgimento delle procedure di reclutamento del persone pubblico: fenomeno dei concorsi di massa – lunghezza patologica delle procedure, scarse garanzie per i

partecipanti e obiettive difficoltà di individuare realmente i soggetti più qualificati;

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necessità di predisporre meccanismi di ingresso nei ruoli del personale pubblico che consentano di evitare la dispersione delle risorse investite dalle amministrazioni nella realizzazione di percorsi di formazione/lavoro.

Per ovviare a questi problemi si prospettava il passaggio al sistema dei “concorsi unici” e l’attivazione di alcuni istituti volti a decongestionare i concorsi stessi, specificando i requisiti di partecipazione, razionalizzando le procedure selettive e valutative, e sperimentando concorsi comuni alle diverse amministrazioni. Ma la nuova riforma ha confermato il principio della concorsualità per l’accesso al lavoro e per le progressioni di carriera.

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CAPITOLO 8: ORDINAMENTO PROFESSIONALE E DISCIPLINA DELLE MANSIONI

1. MANSIONI E ORDINAMENTO PROFESSIONALE NEL LAVORO PUBBLICO: LIMITI DI COERENZA

Il processo di contrattualizzazione del lavoro pubblico ha molto inciso sulla regolamentazione dell’ordinamento professionale dei lavoratori pubblici e sulla disciplina delle mansioni, anche se quello dell’utilizzazione professionale del dipendente pubblico si è rivelato un settore molto resistente alla assimilazione tra “pubblico” e “privato”. In precedenza l’assunzione ad un impiego pubblico si snodava attraverso passaggi e fasi di natura pubblicistica il cui esito finale era l’incardinamento formale del lavoratore in un posto in organico (il ruolo); posto definito attraverso una qualifica funzionale corrispondente ad una porzione delle attività amministrative svolte dall’ufficio a cui il dipendente era assegnato. Con l’art. 52 del D.lgs 165/2001 da una parte vi è stata una nuova apertura alle logiche del contratto individuale, dall’altra si è conservato qualcosa del pregresso regime speciale. Si può dire che la contrattualizzazione ha invertito la prospettiva spostando l’accento dalla qualifica (descrittore delle funzioni attribuite al dipendente) alle mansioni (descrittore del contenuto della prestazione oggetto del contratto di lavoro); però ancora oggi lo svolgimento della prestazione lavorativa in una P.A. rende spesso difficile il completo ricorso all’apparato concettuale dell’autonomia negoziale.La disciplina lega oggi più di quanto avveniva in passato la definizione del contenuto obbligatorio della prestazione lavorativa alle esigenze generali del contesto organizzativo dei pubblici uffici, e ciò solleva problemi:

o limiti del potere datoriale di conformazione delle mansioni alle concrete esigenze dell’organizzazione;

o coerenza tra organizzazione, inquadramento professionale e modelli di valutazione del personale.

2. I MODELLI DI INQUADRAMENTO DEL PERSONALE

I lavoratori pubblici sono catalogabili in prima battuta in base alle categorie legali di cui all’art. 2095 c.c. (dirigenti – quadri – impiegati – operai); ma il riferimento assume qui un valore più descrittivo che precettivo: l’applicabilità del 2095 c.c. al lavoro pubblico è di sicuro non integrale. A parte i dubbi di assimilazione tra dirigenti privati e dirigenti pubblici, manca nel pubblico impiego una categoria corrispondente a quella dei quadri. È pur vero che il legislatore ha previsto la vice-dirigenza – probabile omologo dei quadri – ma si tratta di una figura troppo controversa, sfornita dei tratti di una vera e propria categoria legale: in primis perché la sua istituzione risulta integralmente affidata alla contrattazione collettiva (e quindi potrebbe non trovare mai realizzazione), ma anche perché questa appare assimilabile ad una qualifica convenzionale attribuita ai lavoratori altamente specializzati. Possiamo affermare comunque che la materia della classificazione del personale sia stata e sia ancora un oggetto privilegiato di contrattazione collettiva (e quindi con la sottrazione di tale ambito alla legge). La recente riforma, oltre a confermare il ruolo della contrattazione collettiva (restano numerosi rinvii alla contrattazione nell’art. 52 del D.lgs 165/2001), ridefinisce i sistemi di classificazione professionale, i quali nei diversi comparti sono stati articolati proprio su 3 o 4 aree o categorie (queste costituiscono il primo insieme di inquadramento generale dei lavoratori, attraverso la tecnica delle declaratorie, formule convenzionali che rappresentano conoscenze, competenze e capacità richieste per lo svolgimento delle relative attività lavorative). Le aree/categorie si articolano al loro

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interno in posizioni economiche o livelli economici o fasce retributive o fasce di merito. E nell’ambito delle categorie si individuano i diversi profili professionali (assimilabili al concetto privatistico di qualifica), che nel definire i contorni tecnici della prestazioni lavorativa e le attribuzioni proprie della categoria di appartenenza, consentono di identificare in concreto le mansioni. In alcuni comparti all’interno della categoria sono anche distinguibili le posizioni economiche apicali, che possono rappresentare un incremento stipendiale ma anche un livello professionale differenziato pur all’interno della stessa area.Non riguardano l’inquadramento professionale le c.d. posizioni organizzative, che non sono qualifiche ma bensì incarichi a tempo determinato specificamente retribuiti, che possono essere assegnati dai dirigenti con atto motivato ai dipendenti che rivestono qualifiche apicali, a seguito del conferimento di un incarico di particolare complessità o di alta professionalità e/o specializzazione e caratterizzate da elevata autonomia ed esperienza.

3. LE MANSIONI ESIGIBILI E IL PERIMETRO DELL’EQUIVALENZA

Esaminiamo l’ambito concreto della prestazione di lavoro del dipendente pubblico. L’art. 52, anche dopo il 2009, continua a imperniare il sistema sulla nozione, più concreta, di mansioni, piuttosto che su quella più astratta di qualifica. Il perimetro della prestazione dovuta dal lavoratore pubblico risulta tracciato dall’insieme delle mansioni individuate al momento della sua presa di servizio, così come descritte nel contratto individuale (fonte del rapporto di lavoro) nonché individuate per diritto vivente e per esplicite statuizioni della contrattazione collettiva, e da quelle ulteriori, strumentali e complementari alle prime. In realtà non sempre nel contratto individuale troviamo analiticamente elencate le mansioni di impiego del lavoratore (ma spesso sono individuate genericamente per sintesi e per la loro decodifica bisogna guardare il sistema negoziale di inquadramento).La legge consente come peraltro avviene nel settore privato, il mutamento di mansioni (lo spostamento del lavoratore ad altra attività) e la determinazione dell’ampiezza di tale mutamento è affidata alla nozione legale di equivalenza. L’equivalenza non è tanto il risultato di un accertamento a posteriori dell’esecuzione della prestazione lavorativa; ma essa risulta definita dal sistema di inquadramento professionale: per la dottrina prevalente, il legislatore ha inteso che automaticamente le mansioni collocate in un’area contrattuale (ad opera della contrattazione collettiva) sarebbero equivalenti in quanto tali. Tuttavia è più ragionevole ritenere che il perimetro dell’equivalenza vada di volta in volta espressamente delineato dalla contrattazione collettiva. Non ci sono riferimenti sulla possibilità di adibizione a mansioni inferiori (mentre in passato c’era qualche timido riferimento), cosicché si ritiene sussistente, come nel settore privato (art. 2103 c.c.), un divieto generale, ferma restando l’ampia facoltà regolativa del contratto collettivo in tema di ordinamento professionale.

4. 4.1 e 4.2 ASSEGNAZIONE DI MANSIONI SUPERIORI DIFFERENZE TRA PUBBLICO E PRIVATO

Al pari di quanto avviene con l’art. 2103 c.c. per il lavoro privato, l’art. 52 del D.lgs 165/2001 prevede il potere del datore di adibire temporaneamente i lavoratori all’esercizio di mansioni della qualifica immediatamente superiore, per obiettive esigenze di servizio. Nonostante tale generale previsione avvicini la disciplina di lavoro privato a quella del pubblico, le differenze sono numerose: tassativa individuazione dei presupposti causali che legittimano, rispetto alla regola

dell’equivalenza, l’eccezionale esercizio dello ius variandi nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico.

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Si tratta (art. 52.2): 1) la vacanza del posto in organico, per non più di 6 mesi (prorogabili fino a 12 qualora siano state avviate le procedure di copertura dei posti vacanti ma queste non si siano concluse); 2) sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto (esclusa l’assenza per ferie) per tutta la durata dell’assenza; In riferimento alla 1° ipotesi occorre notare la mancanza di coordinamento interno tra la sua formulazione e quanto previsto dalla disposizione legislativa che prevede che in caso in cui si utilizzi un dipendente per sopperire a vacanze di posti in organico , occorre avviare la procedura per riempire il posto vacante entro il termine massimo di gg. 90.

Una delimitazione è stata fatta dalla legge della fattispecie sostanziale (nel settore privato ha provveduto invece la giurisprudenza): sulla vecchia problematica del mansionismo, cioè il sistematico svolgimento da parte dei lavoratori di mansioni diverse rispetto a quelle proprie della loro qualifica.

Il lavoratore assegnato a mansioni superiori ha diritto ad un credito retributivo corrispondente al trattamento previsto per la qualifica superiore, ma non matura un diritto al definitivo conseguimento della qualifica ad essa corrispondente. L’esercizio di fatto delle stesse non ha effetto ai fini dell’inquadramento. Questa è la principale differenza tra pubblico e privato,(infatti nel lavoro privato il lavoratore impiegato in mansioni superiori per un periodo superiore a tre mesi, ha diritto all’assegnazione definitiva delle stesse, salvo che questa avvenga per sostituzione del lavoratore assente con il diritto alla conservazione del posto). Si tratta di uno dei lasciti pubblicistici di cui si parlava a inizio capitolo, ovverosia sulla permanenza del concorso quale modalità di accesso alle qualifiche nel lavoro pubblico, inoltre per esigenze di pubblico interesse (soprattutto per il controllo della spesa) è stato impedito la piena integrazione normativa tra pubblico e privato.La precisa quantificazione di questo credito è stata tuttavia oggetto di diversi contenziosi tra dipendente e pubblica amministrazione tanto che si è arrivati ad affermare che l’applicazione dell’art. 36 Cost. non deve necessariamente tradursi in una obbligatoria spettanza economica da parte del pubblico dipendente; inoltre il maggior onere economico che l’amministrazione deve sopportare se è imputabile al dirigente di settore lo stesso ne risponde se abbia agito con dolo e/o colpa grave. 5. LE PROGRESSIONI DI CARRIERA

Sempre per esigenze di pubblico interesse, anche per la materia della progressioni di carriera la riforma ha consolidato il tramonto della contrattualizzazione e l’attribuzione alla fonte pubblicistica. Le progressioni all’interno della stessa area (orrizzontali ) avvengono secondo principi di selettività, in base alle qualità culturali e professionali, all’attività svolta e ai risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Invece le progressioni fra le aree (verticali) avvengono per concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amm. di destinare al personale interno una riserva di posti (non superiore al 50%). Sono state così definite dall’art. 52 quelle che nel precedente sistema di contrattazione collettiva venivano definite come progressioni orizzontali (avanzamenti solo economici) e le progressioni verticali (finalizzate al conseguimento di una qualifica giuridica superiore) – queste seconde transitano pertanto nella materia del reclutamento e assunzioni.Un’ultima novità del legislatore riguarda le c.d. posizioni economiche apicali, oggi per accedere a tali posizioni è definita una quota di accesso del max del 50% da riservare a concorso pubblico (sulla base di un corso concorso bandito dalla Scuola superiore della p.a.). Ma la norma non è chiarissima, vi è il dubbio se la riserva varrebbe per gli accessi esterni (di candidati non in servizio presso l’amministrazione ai quali verrebbe destinato il corso-concorso); mentre gli interni, dipendenti in

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servizio, parteciperebbero alla copertura del restante 50% o più attraverso le normali selezioni, non ad evidenza pubblica, imposte dalla disciplina per le comuni progressioni economiche, oppure se come per le progressioni verticali la norma imporrebbe una selezione pubblica aperta, con partecipazione contestuale di interni ed esterni al corso-concorso salva la quota riservata agli accessi dall’esterno. Prevale la prima interpretazione, però si auspica un intervento chiarificatore del legislatore.

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CAPITOLO 9: LA RETRIBUZIONE NEL LAVORO PUBBLICO

1. LA RETRIBUZIONE DEL LAVORATORE PUBBLICO. LA COMPETENZA ESCLUSIVA DELLA FONTE CONTRATTUALE

Mentre per i privati è l’art. 2094 del c.c. che disciplina la retribuzione obbligatoria da parte del da -tore di lavoro, e agli artt. 2099-2102 vengono determinate le modalità ed i termini per l’esecuzione di tale obbligo, nel settore pubblico è l’art. 2 dl D.lgs 165/2001 che attribuisce in via esclusiva alla contrattazione collettiva le competenze per la determinazione della retribuzione del personale della p.a., consentendo ai contratti individuali di intervenire soltanto nei limiti previsti dalla contrattazione collettiva, pertanto eventuali incrementi retributivi concessi ma non previsti dal contratto collettivo, cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del rinnovo contrattuale. In tale modo il legislatore conferma l’esclusività della fonte collettiva in materia di trattamenti retributivi.

2. LA DISCIPLINA LEGALE E CONTRATTUALE DELLA RETRIBUZIONE

La norma che disciplina il trattamento economico dei dipendenti pubblici è l’art. 45 del D.Lgs 165/2001. Secondo tale norma la retribuzione definita dal contratto è composta da:- un trattamento economico fondamentale- un trattamento economico accessorioGli ultimi rinnovi contrattuali hanno visto una progressiva assimilazione strutturale e termilogica tra le definizioni e nozioni adottate dalla contrattazione dei settori produttivi privati e da quella del set-tore pubblico, infatti sono ormai entrati in uso comune anche al settore pubblico le seguenti definizioni:- retribuzione base mensile- retribuzione individuale mensile- retribuzione globale di fatto annuale- retribuzione giornaliera- retribuzione oraria

5. IL TRATTAMENTO ECONOMICO FONDAMENTALE

Nel trattamento economico fondamentale, che rappresenta la voce più consistente dell’intera re-tribuzione vi è la retribuzione tabellare, calcolata a seconda dell’inquadramento/posizione econom-ica del dipendente), dall’indennità integrativa speciale, e dall’eventuale retribuzione annuale di anzianità.

6. IL TRATTAMENTO ACCESSORIO

Il trattamento accessorio invece, è caratterizzato nella sua erogazione dalla non universalità dei soggetti destinatari, e ad esso sono riconducibili una pluralità di voci retributive, tutte determinate dal contratto collettivo. Il trattamento economico accessorio indica 3 distinti parametri in base ai quali deve essere riconosciuto ai dipendenti:

1) la performance individuale2) la performance organizzativa3) l’effettivo svolgimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per

la salute.Le nuove disposizioni che vincolano i contratti collettivi alla erogazione di trattamenti accessori che premino il merito e determinino il miglioramento dell’organizzazione e della efficienza amministra-

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tiva, devono essere pertanto destinate apposite risorse economiche idonee a garantire l’effettivo ri-conoscimento del merito.Il legislatore ha pertanto voluto introdurre trattamenti economici accessori strettamente collegati alla valutazione meritocratica ed ha pertanto introdotto una serie di procedure per la misurazione e valutazione delle performance creando appositi organismi preposti alla valutazione ed alla verifica degli obiettivi da raggiungere ed al dirigente il cui compito è la valutazione del proprio personale secondo il principio del merito, vincolando di conseguenza la contrattazione collettiva al rispetto di un modello meritocratico e di ripartizione delle risorse da utilizzare.Tale intervento si è reso necessario poiché fin dai primi accordi avvenuti negli anni ’80 i compensi in-centivanti sono stati solitamente a causa della esiguità delle risorse finanziarie disponibili sono stati distribuiti a “pioggia” senza tenere conto dei risultati conseguiti dai singoli dipendenti.Tutto ciò è accaduto anche a causa di alcune criticità presenti nel settore pubblico come:- difficoltà di valutare con idonei strumenti la produttività della singola struttura amministrativa o

ufficio; - la difficoltà nell’individuare obiettivi e risultati condivisi dalle parti e periodicamente verificabili- la carente elaborazione di efficienti ed attendibili criteri di valutazione dei risultati conseguiti at-

traverso la collaborazione e le prestazioni individualiLa soluzione è stata trovata nel dirigente che avrà il compito di effettuare la misurazione e valu-tazione dei dipendenti in riferimento al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali, nonché alle competenze dimostrate ed ai comportamenti professionali ed organizzativi tenuti. A tal fine ogni amministrazione per legge deve predisporre una graduatoria delle valutazioni individ-uali all’interno della quale il personale sia distribuito in differenti livelli in modo che:- il 25% sia collocato nella fascia di merito alta, alla quale corrisponde l’attribuzione del 50% delle

risorse destinate per legge al trattamento accessorio collegato alle performance individuali.- Il 50% deve essere collocato nella fascia intermedia alla quale corrisponde l’attribuzione del 50%

delle risorse destinate - Il restante 25% deve essere collocato nella fascia di merito bassa alla quale non viene cor-

risposto alcun trattamentoOccorre precisare che alla contrattazione collettiva integrativa è riconosciuta la possibilità di intro-durre modifiche sulla composizione percentuale delle fasce; infatti vi è la possibilità di modificare la percentuale delle fasce in aumento e/o diminuzione, del 5% nella fascia alta con corrispondente variazione compensativa di una o entrambe le altre fasce e di prevedere delle deroghe alla dis-tribuzione percentuale delle altre 2 fasce. Alla stessa contrattazione tra la fascia media e quella bassa delle risorse destinate ai trattamenti accessori collegati alla performance individuale .

7. GLI ULTERIORI STRUMENTI PREMIANTI

Il D.lgs 150/2009 ha individuato una serie di ulteriori strumenti destinati a remunerare il merito e la professionalità, che si aggiungono al trattamento accessorio.Tra i premi di natura economica troviamo:- Il bonus annuale delle eccellenze il cui ammontare è definito dalla contrattazione collettiva ed è

assegnato alle performance eccellenti individuate in una percentuale non superiore al 5% del personale dirigenziale e non che risulti collocato nella fascia di merito “alta”

- Un ulteriore trattamento economico è rappresentato dal premio annuale per l’innovazione di valore pari al bonus annuale di eccellenza ed è assegnato al miglior progetto realizzato nell’anno che sia in grado di produrre un significativo cambiamento dei servizi o dei processi lavorativi con conseguente impatto sulla organizzazione

Sono inoltre previsti per i dipendenti che si sono distinti durante la propria attività lavorativa premi di natura non economica ma destinati alla propria crescita professionale con l’attribuzione di incar-ichi e responsabilità nonchè con l’accesso a percorsi di alta formazione e crescita professionale.

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Ulteriori strumenti sono rappresentati dalle progressioni di carriera.

8. LE PROGRESSIONI ECONOMICHE ORRIZZONTALI

A seguito della riduzione per legge del numero dei livelli di inquadramento retributivo la con-trattazione collettiva ha individuato nuove voci retributive che attraverso l’attribuzione di “fasce re-tributive” rappresentano una progressione orrizzontale della posizione economica del singolo lavo-ratore.La gestione di tali progressioni è attualmente uno dei problemi del lavoro pubblico, pertanto è stato oggetto da parte della normativa di riforma del 2009, la quale ha previsto che le progressioni eco-nomiche orizzontali all’interno della stessa aerea di inquadramento siano attribuite per merito sec-ondo dei criterio selettivi ad una quota limitata di dipendenti, ed in particolare a coloro che si col -lochino per un periodo di 3 anni consecutivi ovvero per 5 annualità anche non consecutive nella fas-cia di merito alta .

9. LA PARITA’ DI TRATTAMENTO

L’art. 45 comma 2° del D.lgs 165/2001 fissa il principio della parità di trattamento tra i dipendenti pubblici e prescrive che le amministrazioni pubbliche garantiscano ai propri dipendenti tale parità e comunque non inferiore a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi. Pertanto è da escludersi che l’amministrazione e/o il dirigente possano applicare al personale trattamenti economici differenti di-versamente a quanto accade nel privato dove il datore di lavoro può attribuire ad alcuni dipendenti degli aumenti retributivi differenti purchè non abbiano fine discriminatorio.Pertanto gli unici trattamenti economici differenziati ai dipendenti pubblici possono essere individuati o bei trattamenti economici differenziati o in quelli previsti dai contratti individuali, ma entrambi devono derivare sempre dalla contrattazione collettiva.Occorre precisare che i recenti rinnovi contrattuali nel settore pubblico hanno inciso significativamente sulla quantità di retribuzione contrattabile a livello decentrato e sulle destinazioni della stessa poichè vi è stato un’ intreccio tra struttura e composizione della retribuzione e riforma degli inquadramenti professionali dei dipendenti pubblici.Si è pertanto creata una scarsa mobilità professionale dei dipendenti e una compensazione della carente progressione di carriera attraverso l’attribuzione di posizioni economiche c.d. orrizzontali, che di fatto hanno assorbito le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata.

CAPITOLO 10: ORARIO DI LAVORO , PAUSE,RIPOSO E FERIE

1.LA DISCIPLINA GENERALE IN MATERIA DI ORARIO DI LAVORO E LA SUA APPLICAZIONE ALLE PUBBLICHE AMMINSITRAZIONI

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A seguito di direttive europee il D.lgs n.66/2003 ha dato finalmente attuazione alle direttive comuni-tarie, tale decreto ha effettuato una riscrittura organica dell’intera disciplina abrogando tutte le dis-posizioni previgenti.La nuova disciplina si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati, conseguentemente anche ai dipendenti della pp.aa.

2.L’ESCLUSIONE DI ALCUNI LAVORATORI PUBBLICI O IMP I EGANTI IN SERVIZI DI PROTEZIONE CIVILE DAL CAMPO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA GENERALE E I PROBELMI DI COMPATIBILITà CON LA DISCI-PLINA COMUNITARIA.

Il decreto nr. 66/2003 fa ampio uso della possibilità di derogare alla disciplina comunitaria preve-dendo specifiche esclusioni nonché adattamenti a numerose attività lavorative.Infatti viene escluso dal campo di applicazione il personale indicato dalle stesse direttive comunitarie e quello che svolge particolari compiti come il personale appartenete alla Protezione Civile, il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, nonché quello appartenete alle strutture giudiziarie, penitenziarie e quello destinato per finalità istituzionali a compiti di ordine e sicurezza pubblica (forze di polizia) , delle biblioteche e dei musei e delle aree archeologiche dello Stato.A causa della molteplicità delle esclusioni si sono avute delle perplessità di tale legge alla conformità della direttiva europea, la Corte di Giustizia in tal senso ha precisato che queste eccezioni devono es-sere interpretate in senso restrittivo e tenendo conto che le attività escluse debbano essere ritenute indispensabili al buon funzionamento della vita sociale. Infatti la Corte ha affermato che tale esclu-sione è da ritenersi valida solo per quei servizi indispensabili alla tutela della sicurezza , della salute e dell’ordine pubblico in circostanze gravi ed eccezionali ( vedi catastrofi, calamita, guerre etc) dove non risulta possibile pianificare una normale organizzazione lavorativa (orari, permessi, ferie etc) pertanto anche per taluni organi durante la normale attività gli stessi devono soggiacere alle appli-cazioni previste dalla direttiva n.104. Ma il D.lgs n. 66/2003 ha ribadito e pertanto escluso dalla direttiva comunitaria il personale delle Forze di Polizia che svolge i normali compiti di istituto, perfino gli addetti al servizio di vigilanza pri -vata .

10. PRINCIPALI CONTENUTI DELLA DISCIPLINA ITALIANA

Secondo i contenuti previsti dal D.Lgs 66/2003 abbiamo:- un orario massimo settimanale pari a 48 ore comprensivo anche delle prestazioni straordinarie

che deve essere rispettato facendo una media non settimanale ma su un arco temporale di mesi 4 elevabile a 6 e/o 12;

- un periodo minimo di riposo giornaliero pari ad 11 ore consecutive su 24;- intervalli ( pause) per prestazioni giornaliere superiori alle ore 6 di almeno 10 min;- un riposo settimanale di 24 ore consecutive coincidente di regola con la domenica da calcolare

come media in un periodo non superiore a 14 gg. e da cumulare con il riposo giornaliero;- un periodo minimo di ferie annuali pari a 4 settimane, 2 delle quali da godere entro l’anno di

maturazione e le restanti entro 18 mesi;- una tutela specifica per i lavoratori notturni; Rimane la differenziazione del normale orario pari a 40 ore settimanali dove è stabilità la normale re-tribuzione ed il lavoro straordinario dove è la contrattazione collettiva che fissa le relative maggio-razioni retributive e dove lo stesso D.lgs 66/2003 prevede un tetto massimo annuale di ore lavorate di 250 oggetto anch’esse di contrattazione collettiva e riferita alle modifiche sull’aumento e/o riduzione delle ore e/o sull’utilizzo delle stesse per goderne a titolo di riposo compensativo . Nella legge finanziaria del 2008 è stata prevista una modifica dell’orario di riposo sia settimanale previso in ore 48, che giornalieri previsto in ore 11 per tutto il personale sanitario comprensivo dei ruoli dirigenziali a seguito del principio generale della protezione della sicurezza e della salute dei la-

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voratori, dove nei casi di eccezionalità non sia possibile effettuare il godimento del riposo compen-sativo.Conseguentemente alla contrattazione collettiva spetta il compito di definire le modalità idonee a garantire condizioni di lavoro appropriate al pieno recupero con capacità energie spico-fisiche.

4.L’ATTUAZIONE DEI RINVII LEGALI NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

A differenza di quanto avvenuto nel settore privato nel comparto della pubblica amministrazione le deroghe ammesse dalla legge non sono state attuate anche a causa della strategia dei sinda-cati poco propensi a cedere alla controparte, con la sola eccezione dei contatti della sanità.Occorre peraltro precisare che da tempo nei contratti collettivi sono stati inseriti e disciplinati ril -evanti aspetti della materia come l’orario settimanale di 26 ore, quello plurisettimanale, i turni, la banca ore , la reperibilità, i limiti e l’orario straordinario il godimento delle ferie .Per quanto riguarda le modalità di organizzazione sia degli orari che dei giorni lavorativi si fa riferimento ai diversi contratti di comparto tranne nei casi di servizi che per la loro particolarità debbono essere erogati con orari continuativi e in tutti i giorni della settimana ( vedi servizio sani-tario nazionale.)Occorre ricordare inoltre che ai sensi del D.lgs n. 165/2001, gli orari degli uffici pubblici devono corrispondere alle necessità dei loro fruitori e con gli orari delle altre amministrazioni pubbliche dei paesi UE.

11. LA FUNZIONALIZZAZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO ALL’ORARIO DI SERVIZIO E DI APERTURA AL PUB - BLICO

Inizialmente gli orari di servizio erano concordati dalle parti sindacali in sede di concertazione, senonchè l’esperienza ha dimostrato che in alcuni casi i contratti decentrati hanno disciplinato oltre agli orari di lavoro anche quelli riferiti agli orari di servizio. Pertanto quando l’orario di servizio è con-templato nel CCNL tra i possibili oggetti di concertazione conferma come le esigenze organizzative condizionino lo svolgimento della negoziazione ed i risultati.La stessa contrattazione di comparto dovrà oggi adeguarsi alla riforma del 2009 dove l’organiz-zazione degli uffici e le misure riguardanti la propria gestione saranno assunte dagli organi preposti (dirigenti) in via esclusiva con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro, fatto salvo la sola informazione ai sindacati dove previsto nei contratti.

CAPITOLO 11:L’OBBLIGO DI SICUREZZA DEL DATORE DI LAVORO PUBBLICO

1. LA TUTELA DELLA SALUTE DEI PRESTATORI DI LAVORO: PRINCIPI GENERALI ED EVOLUZIONE NOR - MATIVA

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Uno degli obblighi previsti per legge al datore di lavoro è quello della tutela della salute fisica e psichica dei suoi dipendenti osservando pertanto le misure di prevenzione previste dalla normativa vigente .Il datore di lavoro è tenuto a garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro non solo dei suoi dipen -denti ma anche di tutti coloro che per determinati motivi si trovino ad operare all’interno dell’azienda e sono conseguentemente esposti ai rischi ( vedi stagisti, lavoratori autonomi, parteci-panti a corsi di formazione professionale, allievi di istituti di istruzione ecc) . Nonostante la disciplina legislativa in materia di sicurezza sia generale e si fondi nell’art. 2087 del c.c. , vi sono deroghe e differenze tra lavoratori privati e dipendenti pubblici, occorre sottolineare che grazie a questa norma il nostro ordinamento è stato sempre all’avanguardia nei confronti della salute dei lavoratori, molto prima che il legislatore europeo individuasse standard da applicare nei paesi dell’UE.Grazie al carattere “ aperto” della norma generale 2087 c.c.- la nostra giurisprudenza ha potuto ar-gomentare l’esistenza nel nostro ordinamento del principio della c.d. “massima sicurezza tecnologi-camente fattibile” in modo da poter estendere al massimo l’obbligo di sicurezza del datore di la-voro ed escludendo nel contempo la possibilità dello stesso di avanzare giustificazioni di ordine eco-nomico o organizzativo che ne potessero limitare la portata.A partire dagli anno ’80 la normativa europea ha continuamente aggiornato la legislazione sulla salute e sicurezza dei lavoratori ed in attuazione a tali normative il legislatore italiano ha innovato profondamente la disciplina in vigore dapprima con il D.lgs 626/1994 e più recentemente con l’em-anazione di un Testo Unico di Norme di prevenzione con il D.lgs n. 81/2008 che contiene la disciplina fondamentale in materia sia per il lavoro pubblico che privato; occorre precisare che per il privato il legislatore ha ritenuto che alcuni settori presentino delle particolari specificità tali da giustificare una normativa secondaria.

2.TITOLARITA’ , RIPARTIZIONE E DELEGA DEGLI OBBLIGHI DI SICUREZZA NELLA PUBBLICA AMMINIS-TRAZIONE

Mentre nel privato è il datore di lavoro che risponde degli obblighi di prevenzione previsti dalla nor-mativa vigente, il quale può identificare poi nel “dirigente o nel preposto” le figure titolari degli obb-lighi di prevenzione, nel pubblico tale individuazione risulta problematica.Tale situazione è determinata dalla rilevanza penale di gran parte degli obblighi di prevenzione con la conseguente individuazione del responsabile secondo il principio di “ effettività” piuttosto che utiliz-zare il criterio formalistico. Infatti è ritenuto responsabile penale colui che eserciti all’interno della azienda effettivamente i poteri organizzativi e di controllo necessari all’attuazione degli obblighi di legge e non colui che solo formalmente risulti delegato. Questo principio è stato utilizzato dalla giurisprudenza non soltanto per il settore privato ma anche per quello pubblico, conseguentemente prima con la il D.lgs 626/1994 ed in seguito con il D.lgs 81/2008 il legislatore ha fornito una definizione legislativa di “ datore di lavoro” responsabile della sicurezza.Nel settore pubblico la legge stabilisce che sia responsabile il dirigente e/o il funzionario preposto nei soli casi in cui il soggetto sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, che con atto formale a firma dell’organo di vertice sia stato dotato di autonomia, poteri decisionali e di spesa; pertanto nei casi in cui tale individuazione non sia possibile risulterà responsabile l’organo di ver-tice. Secondo la nuova normativa il preposto è colui che in ragione delle competenze professionali ac-quisite e nei limiti dei poteri gerarchici e funzionali adeguati all’incarico conferitogli garantisca l’at-tuazione delle direttive ricevute controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori; al pre-posto è pertanto riconosciuto un mero ruolo di vigilanza e controllo sulla corretta applicazione da

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parte del lavoratore delle misure di sicurezza e prevenzione come predisposto dai datori di lavoro e dirigenza, conseguentemente risulta una figura intermedia tra dirigente e lavoratori.La ripartizione degli obblighi tra datore di lavoro e gli altri due co.obbligati (dirigente e/o presposto) può essere modificata attraverso l’istituto della “ delega di funzioni” che altro non è che un atto for-male con il quale il datore di lavoro trasferisce i propri obblighi ( ad esclusione di quelli che per legge risultano non delegabili) ad un altro soggetto (dirigente) il quale si assume anche le eventuali respon-sabilità penali. Il soggetto delegato deve avere specifici requisiti ovvero: l’atto di delega deve essere formulato in forma scritta, specificando la capacità del delegato, il trasferimento nei necessari poteri per poter eseguire quanto di sua competenza ( organizzativi, gestionali e di spesa) e l’accettazione della delega per iscritto.

2. DALL’OBBLIGO AGLI OBBLIGHI . I CONTENUTI ESSENZIALI DELL’OBBLIGO DI SICUREZZA

L’obbligo di sicurezza si divide in una serie di prestazioni e/o misure generali e particolari di preven-zione previste dalla legislazione che ora sono raccolte nel D.lgs 81/2008 la cui attuazione dovrebbe portare alla riduzione se non eliminazione dei rischi per i lavoratori.Il datore di lavoro deve designare all’interno della propria azienda il Responsabile del Servizio di Pre-venzione e Protezione (RSPP) ovvero il soggetto delegato a presiedere la struttura tecnica che for-nisce le competenze per la realizzazione delle misure di prevenzione, unitamente agli altri compo-nenti del Servizio di Prevenzione (addetti) ed al Medico Competente.Il datore di lavorio deve inoltre effettuare la Valutazione dei Rischi e redigere il relativo documento (documento di valutazione dei rischi) dove vengono definiti per ogni processo produttivo tutti i rischi per la salute dei lavoratori e le relative misure di prevenzione necessarie; atto necessario e non dele -gabile.L’obbligo di adottare tutte le necessarie misure di prevenzione ricade sul datore di lavoro ed anche sui soggetti delegati.Tra questi obblighi troviamo la formazione ed informazione dei lavoratori e deve rivestire i caratteri di un vero e proprio addestramento sul posto di lavoro effettuato da parte di personale esperto.Altro obbligo è la costituzione all’interno della stessa azienda della costituzione di una Rappresen-tanza di Lavoratori per la Sicurezza (R.L.S) .

CAPITOLO 12: IL MOBBING

1.IL TERMINE E IL CONCETTO

Il termine mobbing deriva dalla lingua inglese e significa aggredire, assalire.

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L’ordinamento italiano ad oggi è ancora privo di una disciplina esaustiva specificatamente dedicata al mobbing, la giurisprudenza ha comunque supplito a tale carenza sia provvedendo alla sua definizione sia individuando gli strumenti di tutela all’interno del sistema normativo vigente.Il mobbing è stato pertanto definito come un atteggiamento ostile, persecutorio spicologicamente e moralmente violento, posto in essere da uno o più soggetti nei confronti della vittima.Le condotte classificate sono:- la marginalizzazione dalla attività lavorativa- lo svuotamento delle mansioni lavorative- la mancata di assegnazione dei compiti lavorativi- l’inattività forzata- il ripetuto esercizio ingiustificato dei poteri disciplinari- la prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi- l’impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie - l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto alle iniziative di formazione ed aggiornamento pro-

fessionale- i maltrattamenti verbali e le offese personali- la deligittimazione dell’immagine davanti i colleghi ed i soggetti estranei all’impresa e/o amminis-

trazione pubblicaSecondo i prevalenti orientamenti tali condotte devono essere di apprezzabile intensità, reiterate e protratte per un periodo di tempo indicato in mesi 6Inoltre tali condotte devono essere poste in essere direttamente dal datore di lavoro o in suo nome da dirigenti e/o preposti oppure da colleghi parigrado del lavoratore .

2.L’INQUADRAMENTO GIURIDICO E I PROFILI DI RESPONSABILITA’

L’inquadramento giuridico delle condotte di mobbing e l’individuazione dei relativi titoli di re-sponsabilità impone di distinguere 3 profili con riferimento ai rapporti:1) il rapporto tra amministrazione datrice di lavoro e dipendente vittima di mobbing2) il rapporto tra chi pone in essere l’azione di mobbing e il dipendente vittima3) il rapporto tra il mobber ( colui che effettua mobbing) e l’amministrazione datrice di lavoro

3.L’INQUADRAMENTO GIURIDICO E I PROFILI DI RESPONSABILITA ’ NEL RAPPORTO TRA PUBBLICA AMMINSI - TRAZIONE DATRICE DI LAVORO E VITTIMA DEL MOBBING

Nell’ambito del rapporto di lavoro tra pubblica amministrazione e il dipendente vittima del mob-bing, la giurisprudenza ha ricondotto le concrete fattispecie di mobbing alla violazione dell’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del dipendente. Tale norma obbliga infatti il datore di lavoro a predisporre tutte le misure necessarie per prevenire i fattori di rischio che a porre in essere direttamente comportamenti lesivi dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. Conseguentemente la p.a. è responsabile se non dimostra di aver adottato tute le misure preventive e di vigilanza atte ad eliminare eventuali situazioni e/o comportamenti vessatori ai propri dipen-denti da parte dei superiori o degli stessi colleghi parigrado.Non di rado i giudici hanno rinvenuto nelle condotte di mobbing oltre alla responsabilità contrattuale di cui all’art. 2087 del c.c. anche profili di responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043.

4.L’INQUADRAMENTO GIURIDICO E I PROFILI DI RESPONSABILITA’ NEL RAPPORTO TRA MOBBER E VITTIMA DEL MOBBING

La condotta vessatoria del mobber rappresenta un fatto illecito che cagiona al mobbizzato un danno ingiusti, conseguentemente il mobber risponde nei confronti della vittima per responsabilità civile

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extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c ; inoltre in alcuni casi vi sono anche profili di natura pe-nale.

4.L’INQUADRAMENTO GIURIDICO E I PROFILI DI RESPONSABILITA’ NEL RAPPORTO TRA MOBBER E P. A . DATRICE DI LAVORO

La condotta vessatoria posta in essere dal mobber costituisce uno scorretto adempimento del contratto di lavoro ed è pertanto sanzionabile dal punto di vista disciplinare. Al riguardo oltre alle sanzioni disciplinari previste nei contratti collettivi del settore pubblico, l’art. 55 del D.lgs 165/2001 stabilisce che si applica la sanzione disciplinare del licenziamento nei casi di reiterazione nell’ambi-ente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità della persona.La condanna del mobber può comportare la conseguente condanna della p.a. al risarcimento del danno nei confronti della vittima e nei casi previsti la stessa p.a.. potrà rivalersi sullo stesso mobber per il danno erariale subito.

5.GLI STRUMENTI DI PREVENZIONE

È il dirigente il soggetto identificato dalla p.a. in colui che deve creare gli strumenti di prevenzione del mobbing, poiché è colui al quale è stato demandata l’organizzazione e la gestione delle risorse umane.Infatti, oltre ad astenersi da condotte aggressive e vessatorie lo steso è tenuto ad adottare tutte le misure organizzative necessarie ad evitare episodi di mobbing o nei casi in cui avvengano a porvi rimedio con opportune scelte gestionali e ad avviare il conseguente procedimento disciplinare nei confronti del responsabile.

CAPITOLO 13: LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA DELLAVORATORE PUBBLICO

1.UN SISTEMA INTEGRATO DI FONTI NORMATIVE

A tutela del diritto di riservatezza del lavoratore , il legislatore ha posto nel corso degli anni un in-sieme di normative.

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Le prime sono state introdotte nella L. 300/1970 ovvero nello Statuto dei Lavoratori a cui si sono succedute a partire dal 1996 la L.n. 675/1996 che è poi confluita con modifiche ed integrazioni nel D.lgs n. 196/2003 ovvero nel c.d Codice della Privacy.Le citate norme sono regole fondamentali che il datore di lavoro deve seguire e che limitano con-seguentemente la sua attività di raccolta di informazioni personali sul dipendente.Tipico esempio è il divieto della raccolta di informazioni così come previsto dall’art. 8 dello Statuto dei lavoratori sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore nonché su ogni altro fatto non rilevante ai fini della valutazione delle attitudini professionali del medesimo.A causa della mancanza di una disciplina organica “ad hoc” il trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro (pubblico e privato) è regolato dalle disposizioni generali del Codice della Privacy.

2.I DIRITTI TUTELATI (Diritto alla riservatezza, alla protezione dei dati personali e all’ identità personale) e I PRINCIPI GENERALI

Il Codice della Privacy sancisce il diritto di ciascun individuo ala protezione dei dati personali che lo riguardano, e che si completa con l’obbligo del soggetto che tratta tali dati di effettuare tali tratta-menti nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonchè della dignità dell’interessato.A tal fine il Codice prevede la osservanza di alcuni rigorosi principi che devono essere osservati du-rante il trattamento dei dati; tipo “ in modo lecito e secondo correttezza” e “raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi e non incompatibili “ conseguentemente gli stessi devono es-sere esatti ed aggiornati e conservati per il solo tempo necessario alla realizzazione degli scopi che ne giustificano la raccolta.A garanzia di quanto detto il Codice attribuisce al medesimo un diritto all’ informazione sulle carat-teristiche di tale trattamento e la possibilità di accesso agli archivi i fini della rettifica ed integrazione dei dati incompleti oltre alla cancellazione di quelli errati.Inoltre le regole sul trattamento dei dati personali variano in funzione del soggetto che li tratta (pri-vato, pubblico, autorità giudiziaria) e del tipo di trattamento svolto (raccolta, conservazione, comuni-cazione, diffusione ecc).

3.IL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI DEI DIPENDENTI DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

Il Codice della Privacy ha integrato il testo del D.lsg 165/2001, stabilendo espressamente che le am-ministrazioni pubbliche devono attuare le linee fondamentali di organizzazione degli uffici nel rispetto della normativa in materia di trattamento dei dati personali, in contrasto con quanto pre-visto dalla L.241/1990 sulla pubblicità dell’azione amministrativa. Tale scelta è stata fatta per dif-ferenziare il trattamento dei dati personali effettuato da soggetti pubblici da quello svolto da privati e conseguentemente dall’utilizzo dei dati personali dei dipendenti pubblici da quello dei dipendenti privati; infatti la parte I del Codice contiene alcune disposizioni valide solo per i dipendenti pubblici.Il Garante della Privacy ha inoltre seguendo tale principio emanato distinte Linee Guida in materia di trattamento dati a seconda della natura pubblica o privata del rapporto di lavoro.In base ad una regola in vigore pertanto le pubbliche amministrazioni non devono richiedere ai pro-pri dipendenti il consenso per il trattamento e possono utilizzarli per lo svolgimento delle “ funzioni istituzionali”.Regole più restrittive sono invece dettate con riferimento alla diffusione e comunicazione dei dati comuni che il che il codice ammette solo se previste da leggi e/o regolamenti, qualora la comuni-cazione avvenga tra amministrazioni pubbliche vi sono regole più flessibili ed è possibile anche in mancanza di una specifica normativa purchè sia preventivamente avvertito il Garante; tipici esempi sono i dati riguardanti il personale dirigenziale, dati relativi a concorsi e selezioni ecc).Le pp.aa devono avere maggiori cautele invece nei casi in cui le informazioni che trattano sono con-siderate “sensibili “ ovvero riguardano la vita privata come la salute, le abitudini sessuali, le con-

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vinzioni politiche e religiose, sindacali, l’origine razziale ed etnica ecc.) o giudiziarie; in tali casi il Codice prevede il trattamento solo se autorizzato da disposizioni di legge.Tipici esempi sono i dati utilizzati per il collocamento obbligatorio, l’assunzione di personale anche appartenente a categorie protette , nonché ad obblighi retributivi, fiscali o contabili od ancora al fine di rispettare specifici obblighi o svolgere compiti previsti dalle normative sull’igiene e sicurezza o salute della popolazione .

4.I CONTROLLI SUI LAVORATORI E LE NUOVE TECNOLOGIE

Tra le disposizioni fatte salve dal Codice della Privacy vi è l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che deve essere rispettato dalle pubbliche amministrazioni nell’esercizio del loro potere di controllo sull’ef-fettivo adempimento della prestazione lavorativa dei loro dipendenti e sul corretto utilizzo degli strumenti di lavoro dati loro in dotazione.Tra tali apparecchiature rientrano anche tutte le strumentazioni hardware e software che permet-tono il controllo dell’utente, il Garante della Privacy ha pertanto provveduto ad emanare Linee Guida per la posta elettronica ed internet dove ha espressamente vietato l’utilizzo di strumenti di controllo a distanza , ammettendo però a fronte di esigenze produttive , organizzative e di sicurezza sul lavoro l’utilizzo di sistemi che consentano indirettamente un controllo a distanza e determinano un trattamento dei dati personali purchè nel rispetto delle procedure previste dal Codice.In tale occasione è stata emanata una direttiva ministeriale sull’utilizzo di internet e della posta elet-tronica istituzionale sul posto di lavoro; in tale direttiva viene ribadito il concetto che le amminis-trazioni pubbliche in quanto datori di lavoro sono tenute ad assicurare la funzionalità ed il corretto impiego delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione da parte dei propri dipendenti at-traverso la definizione di regole sulla modalità di utilizzo e la predisposizione di tutte le misure idonee a prevenire abusi mediante (filtri, blocchi) e ove necessario attraverso controlli effettuati nel rispetto della privacy e con il consenso delle rappresentanze sindacali.I lavoratori devono al contempo adottare comportamenti lavorativi idonei e non causare danni alle apparecchiature utilizzate, oltre a osservare l’art. 10 del Codice di Comportamento dei dipendenti della p.a. che vieta di utilizzare a “fini privati” materiale o attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio

CAPITOLO 14: IL POTERE DISCIPLINARE

1. IL FONDAMENTO GIURIDICO DEL POTERE DISCIPLINARE

L’esercizio del potere di irrogare sanzioni disciplinari a carico dei dipendenti delle P.A. è disciplinato dagli artt. 55 ss, riformati nel 2009. Essi sono la fonte principale, anche se non esclusiva, dato che esse rinviano a disposizioni sia del c.c. e sia alla contrattazione collettiva. La regolazione del potere disciplinare nelle P.A. è molto diversa da quella per i rapporti di lavoro privato. Volendo individuare

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una matrice comune possiamo dire che il potere disciplinare costituisce esercizio del potere privato della P.A., e non della sua supremazia speciale (come veniva concepito quando la fonte era il diritto pubblico). Così la sanzione disciplinare non è un provvedimento amministrativo, ma un negozio giuridico che incide nella sfera del dipendente. La differente regolazione del potere disciplinare fra lavoro pubblico e privato, è giustificata dalla volontà di adattare la disciplina sostanziale e procedimentale alla particolarità organizzativa della P.A., e non alla natura giuridica del potere.

2. LE NORME DISCIPLINARI FRA LEGGE, CONTRATTO COLLETTIVO E CODICE DI COMPORTAMENTO

Il contratto collettivo nazionale di comparto rappresenta la fonte sussidiaria alla legge per l’individuazione delle infrazioni e delle relative sanzioni disciplinari attraverso la predisposizione del codice disciplinare. Si tratta di fonte principale, ma non esclusiva del catalogo delle infrazioni, visto che è possibile configurare condotte illecite sul piano disciplinare anche per comportamenti non espressamente previsti dal codice disciplinare (per lesione degli artt. 2104 e 2105, soggetti a sanzione ai sensi dell’art. 2106 c.c.). A differenza del settore privato, il contratto collettivo non è più fonte esclusiva delle sanzioni disciplinari, bensì vi sono non poche fattispecie sanzionatorie previste dal D.Lgs. 165/2001 e che sono indisponibili al contratto collettivo.Il contratto collettivo individua inoltre i modelli di comportamento dei lavoratori, indicati nel codice di comportamento, che seppur eticamente doverosi, non si configurano come obbligo contrattuale di per sè, ma divengono giuridicamente vincolanti con l’esplicito rinvio operato dalle norme del codice disciplinare.

3. LA RESPONSABILITÀ DEL DIRIGENTE PER L’ESERCIZIO DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Il dirigente quando ha notizia di comportamenti punibili con sanzioni disciplinari superiori al rimprovero verbale e inferiori alla sospensione del servizio (ovvero con privazione della retribuzione per più di 10 gg) deve attivare immediatamente il procedimento disciplinare, mentre nel settore privato tale procedimento è nella piena discrezionalità del dirigente, in quanto alter ego dell’imprenditore. La legge stabilisce al riguardo un vero e proprio obbligo legale a carico del dirigente nell’esercitare l’azione disciplinare, la cui violazione determina responsabilità contrattuale (art. 55-sexies): il mancato esercizio, o la decadenza dell’azione disciplinare per omissioni o ritardi (senza giustificato motivo), o irragionevoli/infondate valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare, comportano l’applicazione al dirigente responsabile della sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, in proporzione alla gravità dell’infrazione non perseguita. Il comportamento omissivo del dirigente non intacca la posizione del lavoratore, che in ogni caso resterà normalmente non punibile per decorrenza dei termini procedimentali.La responsabilità di cui si è trattato va riferita anche ai soggetti non aventi qualifica dirigenziale, ai quali si applica egualmente la sanzione della sospensione della retribuzione. La responsabilità dei soggetti non aventi qualifica dirigenziale è però limitata alla più ristretta competenza che il legislatore ha conferito a tali soggetti.

4. LE FATTISPECIE SANZIONATORIE CONTRATTUALI E LEGALI

In relazione al principio di proporzionalità (2106 c.c.) i contratti collettivi prevedono una gamma di sanzioni la cui entità è proporzionata alla gravità dell’infrazione. Le sanzioni normalmente previste dai contratti collettivi sono: 1) rimprovero verbale – 2) rimprovero scritto (censura) – 3) multa per

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un importo non superiore a 4 ore di retribuzione – 4) sospensione non superiore a 10 gg (però alcuni contratti prevedono anche la sospensione da 11 gg fino a 6 mesi, durante i quali la retribuzione è totalmente sospesa solo per i primi 10 gg, mentre per il restante periodo è ridotta del 50%) – 5) licenziamento con preavviso – 6) licenziamento senza preavviso.Accanto alle fattispecie sanzionatorie contrattuali, il d.lgs. 165 ne prevede altre, oltre a quelle per le quali è previsto il licenziamento disciplinare e a parte la sanzione per i dirigenti per omessa o errata azione disciplinare, le ulteriori fattispecie legali di infrazioni (e le correlate sanzioni) sono: rifiuto di collaborazione con l’autorità disciplinare del dipendente che per ragioni di servizio o di

ufficio conosce informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare vs altro dipendente, oppure il dipendente che rende dichiarazioni false o reticenti → sospensione del servizio senza retribuzione (per max 15 gg);

condanna per la p.a. al risarcimento del danno a causa di una violazione di un dipendente (degli obblighi stabiliti da leggi e contratti) → sospensione dal servizio senza retribuzione (da 3 gg a 3 mesi, in base all’entità del risarcimento), sempre che non ricorrano già i presupposti per un’altra sanzione;

inadempimento del dipendente non produttivo di responsabilità risarcitoria a carico della P.A., ma solo di un danno grave al normale funzionamento dell’ufficio di appartenenza → collocamento in disponibilità;

violazione dell’obbligo legale di trasmissione all’INPS del certificato medico da parte dei medici dipendenti di una struttura sanitaria pubblica → sanzione disciplinare, fino al licenziamento in caso di reiterazione. Ricordare che per falsa certificazione medica delle assenze per malattia è prevista anche una sanzione penale.

Anche il responsabile della struttura (dirigente o no), in caso di mancata cura nell’osservanza delle procedure di controllo delle assenze per malattia, è soggetto ad una sanzione disciplinare.

5., 6. e 7. PRINCIPIO DI PUBBLICITÀ + PROCEDIMENTO DISCIPLINARE + IMPUGNAZIONE E CONCILIAZIONE

La Cass. ha sancito l’indefettibilità dell’onere di affissione e comunicazione del codice disciplinare, a pena nullità della sanzione. L’art. 55 prevede la sua pubblicazione sul sito istituzionale dell’amm. Per sede telematica si hanno anche le comunicazioni delle sanzioni disciplinari che sono effettuate tramite posta elettronica certificata (quando il lavoratore dispone di casella di posta, altrimenti posta o consegna a mani). A completamento del principio di pubblicità è previsto che il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento.La titolarità del procedimento disciplinare spetta al dirigente responsabile della struttura se l’infrazione prevede l’irrogazione di una sanzione superiore al rimprovero verbale e inferiore alla sospensione del servizio per più di 10 gg; se invece il responsabile non ha qualifica dirigenziale o se la sanzione è superiore, la titolarità sarà dell’ufficio competente individuato da ciascuna amm. Il procedimento disciplinare si avvia con la contestazione immediata dell’addebito al dipendente subito dopo aver ricevuto notizia dell’infrazione, e comunque non oltre 20 gg (in ottemperanza al principio dell’immediatezza della contestazione). Contemporaneamente l’autorità disciplinare convoca il dipendente per il contraddittorio, fissando la data con preavviso di almeno 10 gg: il dipendente può farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale. Se nel giorno fissato per l’audizione il dipendente non vuole presentarsi invierà memoria scritta, o nel caso di grave impedimento per la presentazione chiederà un rinvio. Il procedimento deve concludersi entro 60 gg dalla data dell’addebito , con l’archiviazione o l’irrogazione di una sanzione (termine perentorio a pena di decadenza dell’azione disciplinare e del diritto di difesa per il dipendente); i termini si

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raddoppiano in caso di previsione di sanzione superiore alla sospensione per 10 gg. L’autorità disciplinare può acquisire informazioni o documenti da altre P.A., senza che ciò comporti una sospensione o differimento dei termini.La sanzione irrogata può essere impugnata solo con ricorso al Giudice del lavoro. Ciò che la legge consente ai contratti collettivi è invece la possibilità di disciplinare la procedura di conciliazione, non obbligatoria quando la legge non prevede la sanzione del licenziamento. Le procedure conciliatorie devono precedere l’eventuale irrogazione della sanzione. La conciliazione può accelerare i tempi del proc. disciplinare, ovvero archiviare il procedimento, o irrogare una sanzione attenuata rispetto a quella prevista da legge o contratto (ma sempre della stessa specie).

8. PROCEDIMENTO DISCIPLINARE E PROCEDIMENTO PENALE

Il rapporto fra procedimento disciplinare e procedimento penale è ormai chiarito dalla L. 97/2001 e dall’art. 55-ter introdotto nel 2009. Nel 2009 si è smentita la precedente disciplina: ora il procedimento disciplinare che ha ad oggetto fatti in relazione ai quali provvede l’autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in pendenza di procedimento penale; tuttavia per le infrazioni più gravi, nei casi di maggiore complessità dell’accertamento e quando gli esiti dell’istruttoria non conducano a elementi sufficienti, il procedimento disciplinare può essere sospeso fino al termine di quello penale. Se il procedimento disciplinare si era concluso con una sanzione, e poi in sede penale si accerta con sentenza irrevocabile di assoluzione che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale, l’autorità competente su istanza di parte riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo agli esisti del giudizio penale (ciò anche quando si condanna x 1 fatto che prevedeva in sede disciplinare il licenziamento, ed è stata applicata 1 sanzione diversa) . Qualora invece il procedimento disciplinare si sia concluso con l’archiviazione mentre quello penale con sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità disciplinare deve riaprire il procedimento disciplinare e adeguare la sanzione disciplinare all’esito conclusivo del giudizio penale. Il termine per la riapertura del procedimento disc. è di 60 gg dalla comunicazione della sentenza all’amm. Il procedimento disciplinare riaperto deve concludersi entro 180 gg dalla ripresa.

9. POTERE DISCIPLINARE E ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Oltre che strumento volto a reprimere condotte patologiche, il potere disciplinare, con la riforma, è concepito anche come uno degli strumenti fisiologici di miglioramento dell’efficienza organizzativa e rendimento dei lavoratori, sino al punto di configurare la scarsa efficienza come fattispecie legale sanzionatoria.

CAPITOLO 15: IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE NEL LAVORO PUBBLICO

1. e 2. IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E LE RAGIONI GIUSTIFICATIVE

Nel rapporto di lavoro pubblico trova applicazione, salvo eccezioni che vedremo, la disciplina generale sul licenziamento individuale valida nel settore privato (in particolare artt. 2118-2119 c.c. – art. 18 L. 300/70 ossia Statuto Lavoratori – L. 604/66, quest’ultima solo per le disposizioni relative alla forma del licenziamento, alla sua giustificazione e all’impugnativa). A queste norme si affiancano

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disposizioni specifiche per il pubblico impiego del D.lgs. 165/2001, in particolare gli artt. 55-quater e 55-octies.La L. 604/66 introduce il principio della necessaria giustificazione del licenz., per cui il datore deve indicare i motivi per cui non vuole/può più impiegare il lavoratore. Le motivazioni sono sia soggettive (colpe del lavoratore) che oggettive . Un licenziamento intimato senza giustificazione è illegittimo e, nel settore pubblico, sempre inefficace.

2.1 LE RAGIONI SOGGETTIVE: GIUSTA CAUSA E GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

Due sono le cause soggettive che giustificano il licenziamento individuale: o giusta causa, cioè una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto

di lavoro. Ciascuna parte può recedere senza preavviso o prima della scadenza del termine (se a tempo determinato);

o giustificato motivo, un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, che legittima il licenziamento con preavviso.

La differenza delle due causali soggettive sta essenzialmente nella maggiore gravità dei fatti costituenti la giusta causa che non consente la prosecuzione neppure temporanea del rapporto (durante il periodo di preavviso) e che può derivare anche da fatti estranei al rapporto di lavoro (es. furto a danno di terzi, di un commesso addetto alla cassa), che siano in grado di ledere l’aspettativa del datore dei successivi adempimenti.Ad ogni modo si tratta di due fattispecie elastiche: spetterà al giudice valutare. Proprio perciò i tentativi della contrattazione collettiva di predeterminare ipotesi di giusta causa sono stati avversati. Solo in determinate ipotesi, come nel caso del licenziamento per violazione della normativa sulle incompatibilità (giusta causa), il legislatore si era spinto a predeterminare queste fattispecie. La riforma ha aumentato le ipotesi predeterminate (senza necessità di valutazione) di giusta causa o giustificato motivo, ciò nel tentativo di rendere più efficiente la P.A. e sanzionare adeguatamente i dipendenti, sottraendo spazi alla contrattazione. In base al nuovo art. 55-quater, si avrà licenziamento senza preavviso (giusta causa) in caso di: 1) falsa attestazione della presenza in servizio o della malattia che giustifica l’assenza; 2) falsità in atti o dichiarazioni commesse ai fini della progressione in carriera; 3) reiterazione di condotte gravemente indisciplinate; 4 condanna penale definitiva che preveda l’interdizione dai pubblici uffici o l’estinzione del rapporto di lavoro. Costituiscono invece motivi predeterminati di giustificato motivo:

1) l’ assenza priva di valida giustificazione per un n° di giorni, anche non continuativi, superiori a 3 nell’arco di un triennio o per più di 7 gg nell’arco di un decennio;

2) mancata ripresa del servizio entro il termine fissato dall’amm. in caso di assenza; 3) ingiustificato rifiuto al trasferimento per ragioni di servizio; 4) licenziamento per scarso rendimento nel biennio per violazione degli obblighi concernenti l’obbligazione (ipotesi particolare subordinata ad una valutazione discrezionale).Vi sono infine ipotesi per le quali la P.A. ha la facoltà (non l’obbligo) di licenziare, es. reiterato rifiuto di sottoporsi alla visita medica di accertamento dell’idoneità.Abbiamo visto il principio della obbligatorietà per il dirigente di esercitare il potere disciplinare, pena la sua responsabilità; analogamente è sancito l’obbligo di licenziamento quando sussiste 1 causa di licenziamento.

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2.1.1 IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

I licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo costituiscono nella maggioranza ipotesi di licenziamento disciplinare. Infatti il licenziamento è la più grave delle sanzioni del lavoratore. I codici disciplinari individuano spesso ipotesi di licenziamento con preavviso o senza preavviso, e altre sono indicate nell’art. 2119 c.c. e nella L. 604, alle quali si dovranno applicare le norme procedurali previste dallo Statuto dei Lavoratori per le sanzioni disciplinari (pubblicità del codice disciplinare, obbligo di contestazione dell’addebito, contraddittorio).Il licenziamento va considerato disciplinare ogni volta che sia correlato ad un comportamento imputabile a titolo di colpa al lavoratore, a prescindere dal fatto che sia previsto nel codice disciplinare. Viceversa la previsione disciplinare diviene rilevante una volta che si tratti di valutare la validità del licenziamento irrogato per colpa: qualora la previsione manchi, il licenziamento disciplinare sarà valido ed efficace solo se violi norme penali o norme che sanciscono doveri fondamentali del lavoratore (in tali casi il lavoratore non può invocare l’ignoranza). Il licenziamento disciplinare deve essere immediato e seguire subito i fatti che lo giustificano, o meglio dalla conoscenza che il datore ne ha: nel caso di giusta causa l’immediatezza è rigorosa, visto che in tali casi non è consentita la provvisoria prosecuzione del rapporto (se no la causa non sarebbe così grave).

2.1.2 IL LICENZIAMENTO GIUSTIFICATO DA FATTI PENALMENTE RILEVANTI

La legge stabilisce l’estinzione del rapporto di impiego come pena accessoria in caso di condanna definitiva alla reclusione non inferiore a 3 anni per delitti di concussione, peculato e corruzione, e la possibilità che la medesima estinzione sia conseguente a procedimento disciplinare in caso di condanna definitiva per altri reati. Ricordare che ai fini della responsabilità disciplinare il patteggiamento è equiparato a condanna irrevocabile.

2.2 LE RAGIONI OGGETTIVE DI GIUSTIFICAZIONE DEL LICENZIAMENTO

Le ragioni oggettive di giustificazione del licenziamento sono quelle in cui non viene in rilievo una condotta colpevole del prestatore di lavoro, ma per ragioni legate all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare svolgimento. Esse di dividono in due sottogruppi: esigenze economico-produttive della parte datoriale (riduzione o trasformazione di attività o di

lavoro). Si tratta in pratica delle stesse ragioni che possono portare alla mobilità collettiva [vedi cap. 16];

ragioni relative alla persona del lavoratore , per cui egli non può più svolgere la propria attività definitivamente o per un periodo di tempo superiore al massimo di tolleranza stabilito nei contratti collettivi. Sono diverse dalle condotte colpevoli. Es. inidoneità fisica sopravvenuta, perdita di permessi o autorizzazioni necessarie all’adempimento, collocamento a riposo a compimento dell’età massima pensionabile, ecc.

2.3, 3. e 4. LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO + IRROGAZIONE DEL LICENZIAMENTO + IMPUGNAZIONE

Il licenziamento discriminatorio, determinato non per le ragioni sopra illustrate ma da altre che il legislatore ritiene illecite, è inefficace poiché nullo. Il lavoratore per poter eccepire tale

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licenziamento deve provare l’esistenza della discriminazione tramite la mera allegazione di fatti idonei a fondare la presunzione, restando al datore il dovere di fornire la prova contraria.Per quanto riguarda la forma del licenziamento, questo va intimato per iscritto. Anche i motivi del licenziamento devono essere comunicati per iscritto dal datore, qualora il lavoratore lo richieda nei 15 gg dalla comunicazione del recesso, entro 7 gg dalla richiesta. La forma scritta serve a garantire la piena conoscenza e per difendersi adeguatamente. L’inosservanza delle disposizioni in questione rende il licenziamento inefficace ed il rapporto di lavoro proseguirà fino a che il licenziamento non sarà intimato nelle forme prescritte.Il licenziamento va impugnato dal lavoratore, a pena decadenza, entro 60 gg dalla ricezione della relativa comunicazione (ovvero dalla comunicazione dei motivi che la sorreggono, se questi non vengono resi noti contestualmente), con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà. Lo stesso effetto discende dalla comunicazione al datore della richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione. Dopo questo atto al lavoratore non restano che i termini ordinari di prescrizione per far valere in giudizio l’illegittimità. L’onere di prova della sussistenza della giustificazione grava sul datore di lavoro, ma in caso di licenziamento discriminatorio l’onere spetterà al lavoratore (che può ricorrere però anche a dati statistici).

5. LE TUTELE

Qualora il prestatore ottenga in giudizio la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, questo risulterà improduttivo di effetti sull’originario rapporto di lavoro, il quale dunque sarà considerato come mai risolto. Di conseguenza il lavoratore illegittimamente licenziato avrà diritto ad essere reintegrato nell’originario posto di lavoro, con tutte le condizioni di impiego in atto prima del licenziamento, nonché al pagamento di una indennità a titolo di risarcimento del danno commisurata alla retribuzione globale di fatto (non percepita) dal giorno dell’illegittimo licenziamento a quello della reintegrazione (comunque non meno di 5 mensilità). L’amministrazione sarà altresì tenuta a versare i contributi previdenziali e assistenziali per lo stesso periodo. Il lavoratore, in alternativa alla reintegrazione nell’originario posto di lavoro, può inoltrare richiesta per ricevere un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto.

6. RIAMMISSIONE IN SERVIZIO

L’istituto peculiare dell’impiego pubblico è la riammissione in servizio, ossia la ripresa, da parte del soggetto richiedente, della medesima attività che svolgeva nel precedente rapporto. Tale istituto è previsto per i casi di cessazione dall’impiego dovuta a: dimissioni, collocamento a riposo e alcuni casi di decadenza dall’impiego. Esso comporta la riammissione nel ruolo e nella qualifica originaria, con decorrenza di anzianità nella qualifica stessa dalla data del provvedimento di riammissione. Di fronte alla richiesta dell’ex dipendente, l’amministrazione si trova in una posizione di discrezionalità, con l’unico obbligo di pronunciarsi entro 60 gg dalla richiesta. La giurisprudenza maggioritaria ritiene invece che la riammissione si configuri come una costituzione ex novo del rapporto di impiego, per cui non è possibile riconoscere al dipendente riammesso l’anzianità pregressa.

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CAPITOLO 16: LA MOBILITÀ INDIVIDUALE E COLLETTIVA

1. INTRODUZIONE

l termine “mobilità”, pur descrivendo il trasferimento di lavoratori da un’amministrazione all’altra, evoca istituti che rispondono a finalità differenti e diversamente regolati, il cui tratto comune è l’essersi progressivamente ispirati alle regole del diritto privato (in quanto atti di gestione del personale) pur mantenendo alcuni tratti pubblicistici. Per di più la recente normativa ha previsto per tali istituti che in caso di espletamento di concorsi per la copertura dei posti vacanti in organico è disposta la preventiva attuazione delle procedure volte ad attuare la mobilità individuale e collettiva dei dipendenti.

2. LA MOBILITÀ INDIVIDUALE (C.D. PASSAGGIO DIRETTO)

Il passaggio diretto del lavoratore, anche non dirigente, da un’amministrazione all’altra (art. 30), costituisce la forma ordinaria per realizzare il trasferimento individuale dei dipendenti. Esso risponde innanzitutto ad esigenze private di quest’ultimi, ma può altresì rappresentare uno strumento per la gestione delle eccedenze di personale. L’istituto pur ispirandosi al diritto privato, è un istituto peculiare del settore pubblico, non avendo nel settore privato una propria regolamentazione specifica (c’è il 2103, però relativo al trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra, solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive). Analizziamo i presupposti fondamentali della fattispecie disciplinata dall’art. 30: iniziativa del dipendente : la mobilità è conseguente alla domanda presentata dal dipendente. Ciò

non implica che sussista per il lavoratore un diritto soggettivo di trasferimento, visto che l’amm. può rifiutarlo;

esistenza di posti vacanti in organico presso l’amministrazione di destinazione. Le amm. devono dare idonea pubblicità dei posti vacanti e fissare i criteri di scelta; il richiedente infatti deve essere in possesso della stessa qualifica richiesta;

consenso dei tre soggetti coinvolti (dipendente, amministrazione e dirigenti responsabili dei servizi/uffici nei quali il lavoratore transiterà) questo requisito è suffragato dalla qualificazione del passaggio diretto come “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.). Infatti col trasferimento non è necessaria una nuova stipula del contratto ma vi è continuità del rapporto, il lavoratore quindi mantiene ogni pregresso diritto (es. ferie, livello contrattuale, anzianità di servizio ecc ).

3. LA MOBILITÀ COLLETTIVA (C.D. COLLOCAMENTO IN DISPONIBILITÀ)

La seconda tipologia di mobilità è quella collettiva, e interessa il personale dichiarato eccedente rispetto alle dotazioni organiche delle singole amministrazioni, per riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. La disciplina che regola l’istituto (artt. 33 ss) rinvia esplicitamente a quella prevista nel privato per i licenziamenti collettivi, al fine di colmare lacune: ciò non deve trarre in inganno, poiché mentre nel settore privato l’esito della procedura porta al licenziamento dei lavoratori eccedenti (che diventano così disoccupati), nel settore pubblico esso consiste nella collocazione in disponibilità dei lavoratori interessati che non siano stati diversamente impiegati, per massimo 24 mesi, con il persistere per tale periodo della condizione di occupati. Decorsi i 24 mesi di durata massima del collocamento in disponibilità, durante i quali il dipendente percepisce un’indennità pari all’80% della retribuzione, il rapporto di lavoro si estingue automaticamente.

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La P.A., mediante i dirigenti responsabili, quando rileva un’eccedenza di personale di almeno 10 dipendenti, deve attivare la procedura di informazione e consultazione sindacale: la mancata individuazione delle predette eccedenze è valutata come causa di responsabilità per danno erariale. La procedura si apre con l’invio di una comunicazione preventiva alle rappresentazioni unitarie del personale e ai sindacati firmatari del contratto collettivo di comparto o di area (garanzia di partecipazione delle organizzazioni sindacali). Entro 10 gg dal ricevimento della comunicazione i sindacati possono richiedere un esame congiunto delle cause che hanno determinato l’eccedenza e sulle possibilità di diversa utilizzazione del personale eccedente, anche ricorrendo al passaggio diretto. La consultazione deve concludersi entro 45 gg dal ricevimento della comunicazione, con la sottoscrizione di un accordo ovvero con la predisposizione di un verbale che eventualmente dia conto dei motivi di dissenso espressi dalle parti: in questo secondo caso i sindacati possono chiedere un ulteriore confronto davanti all’autorità amministrativa, che dovrà concludersi entro 15 gg. Per i criteri di individuazione dei lavoratori eccedenti, si ricorre a quelli individuati dalla contrattazione collettiva o in mancanza a quelli fissati dalla legge (esigenze tecnico organizzative e produttive del datore di lavoro, carichi di famiglia e anzianità in concorso tra loro). Conclusa la procedura, l’amm. colloca in disponibilità il personale non altrimenti utilizzabile e lo iscrive in appositi elenchi, secondo l’ordine cronologico di sospensione del rapporto. É disposto un vincolo generale in capo a tutte le amministrazioni: esse possono procedere a nuove assunzioni solo previa verifica dell’impossibilità di reimpiegare il personale in disponibilità, pena la nullità delle assunzioni stesse.Va precisato che qualora l’eccedenza riguardi meno di 10 dipendenti, l’amm. deve comunque tentare di impiegarli presso altre amm. e in caso di esito negativo dovrà attivare il collocamento in disponibilità.

4. LA MOBILITÀ TEMPORANEA (COMANDO E DISTACCO)

L’ultimo istituto della mobilità applicato ai pubblici dipendenti, è la mobilità temporanea. Ci si riferisce in particolare alla fattispecie del comando e del distacco, entrambe consistenti nella temporanea assegnazione di un lavoratore ad un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, per determinate esigenze dell’una o dell’altra. Il comando soddisferebbe prioritariamente esigenze dell’amministrazione destinataria, mentre il distacco sarebbe disposto nel prevalente interesse di quella di appartenenza.L’attuale disciplina della mobilità temporanea è affidata alla contrattazione collettiva: è richiesto il consenso del lavoratore come requisito essenziale della fattispecie e si è altresì stabilito che sebbene il rapporto di lavoro del lavoratore distaccato/comandato resti incardinato presso l’amministrazione di appartenenza, l’onere retributivo gravi su quella di destinazione.

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CAPITOLO 17: LA FLESSIBILITA’ DEL LAVORO SUBORDINATO NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E IL LAVORO AUTONOMO

1.VARIABILITA’ DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE, PROCESSI ORGANIZZATIVI DI ADATTAMENTO E LAVORO FLESSIBILE

La c.d. flessibilità del lavoro è l’ambito in cui si è manifestato con più evidenza i limiti e le contraddizioni della mordenizzazione organizzativa della pp.aa.Il ricorso alle forme contrattuali flessibili fu ammesso solo nel 1998, e nell’intento del legislatore tale forma avrebbe dovuto assecondare l’auspicato processo di adattamento organizzativo con riferimento alle esigenze amministrative di carattere temporaneo . Ma tale intento non si è concretizzato e l’inerzia delle pp.aa. sul piano dei riassetti organizzativi ha determinato il verificarsi di fenomeni abusivi di impiego di lavoro flessibile.Ciò è avvenuto soprattutto nel momento in cui il legislatore ha di atto vietato le assunzioni a tempo indeterminato, in tale contesto le pp.a.a hanno trovato più facile e conveniente fronteggiare il proprio bisogno di personale mediante la stipulazione e reiterazione di assunzioni temporanee ovvero con prestazioni lavorative di natura autonoma, piuttosto che riorganizzarsi e redistribuire il personale in modo razionale.Tale ricorso illecito ed abusivo al lavoro flessibile mediante contratti a termine e/o forme di collaborazione ha alla fine destabilizzato l’intero sistema portando sul piano normativo alla creazione di apposite procedure idonee ad intercettare e soddisfare tale richiesta.

2.IL PRINCIPIO DELL’ASSIMILAZIONE NORMATIVA DEL LAVORO PUBBLICO AL LAVORO PRIVATO ED IL CONTENUTO PRECETTIVO DELL’ATTUALE ARTICOLO 36 DEL D.LGS 165/2001

L’art. 36 del D.lgs 165/2001 dispone che per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di forme contrattuali flessibili mediante l’assunzione di personale così come previsto dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nelle imprese. Viene così confermata la assimilazione del regime giuridico del lavoro pubblico a quello del lavoro privato e nel contempo rafforzata la scelta del legislatore di creare un diritto comune ai rapporti di lavoro pubblico e privato.Come detto precedentemente l’art. 36 prevede il ricorso al lavoro flessibile nei soli casi di “esigenze temporanee ed eccezionali” dove per eccezionale si intende la temporaneità ovvero inteso come situazione occasionale ed imprevedibile poi modificato in straordinario; mentre nei casi di fabbisogno lavorativo ordinario le p.a. devono assumere con contratti di lavoro a tempo indeterminato. Ad una conclusione differente si è arrivati invece in riferimento al lavoro “ accessorio” poiché in tale caso l’occasionalità è intesa dalla legge non da esigenze della p.a. ma dalla stessa prestazione lavorativa ed è definità legislativamente in base al compenso percepito nell’anno solare da ogni lavoratore che non può superare i 5.000,00 €. L’art. 36 contiene inoltre altre 3 norme ovvero:

1) il divieto di reclutare personale temporaneo destinato a funzioni direttive e/o dirigenziali 2) il rinvio ai contratti nazionali a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo

determinato3) la precedenza nelle assunzioni di tali soggetti con contratti a tempo indeterminato

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3. IL RISARCIMENTO DEL DANNO CONSEGUENTE ALLA VIOLAZIONE DI NORME IMPERATIVE SULLE ASSUNZIONI

Mentre nel privato l’utilizzo di lavoratori in violazione dell’art. 36 comma 5° comporta la regolarizzazione dei medesimi con contratti a tempo indeterminato, nel pubblico ciò non accade, conseguentemente ciò ha contribuito non poco a destabilizzare le p.a. rispetto all’utilizzo di lavoratori ” flessibili”.Tale regola è dettata dal principio che nel pubblico l’unica forma riconosciuta di inserimento di lavoratori a tempo indeterminato è tramite “concorso”; tale norma appare però in contrasto nel caso di quei rapporti di lavoro che si sono instaurati a seguito di avviamento da parte dei centri provinciali per l’impiego e pertanto senza necessità di concorso; inoltre lo stesso legislatore ha riconosciuto un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo determinato ai lavoratori che hanno prestato attività lavorativa con contratti/mansioni per un periodo superiore ai 6 mesi.Altre norme contenute nell’art. 36 prevedono il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno “ nei casi di violazione di norme imperative derivanti da prestazioni di lavoro a tempo determinato” con l‘obbligo della amministrazione di recuperare dai dirigenti le somme indebitamente pagate qualora la violazione sia a titolo di dolo o colpa grave, il quale inoltre non percepirà la retribuzione di risultato.Per quanto riguarda la tutela risarcitoria, il dipendente se ha percepito la retribuzione dovuta e gli sono stati versati i contributi previdenziali, potrà richiedere solamente quelle di natura extra-contrattuale ovvero la perdita di eventuali chances e del danno di immagine, alla reputazione e alla professionalità del lavoratore. Per quanto riguarda invece la tutela risarcitoria si è lungamente dibattuto se si potesse applicare al dipendente pubblico la sanzione pecuniaria prevista per i privato ovvero la trasformazione dei contratti da tempo determinato a tempi indeterminato in violazione all’art.l 36 del D.lgs 165/2001.Ma i giudici non volendo disapplicare il divieto temendo il danno che con tale decisione si avrebbe potuto avere sulle pubbliche amministrazioni, hanno deciso di condannare le stesse a risarcire il danno derivante dalla perdita di un‘occupazione a tempo indeterminato mediante una valutazione di tipo strettamente economico.Diversi inoltre sono stati i sistemi di quantificazione del risarcimento da parte dei giudici poiché alcuni hanno tenuto conto dell’età e zona geografica del danneggiato ai fini occupazionali, altri hanno quantificato il danno all’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se il rapporto di lavoro fosse stato regolare fino alla data della sentenza ed altri ancora hanno condannato l’amministrazione al pagamento delle 5 mensilità come previsto dall’art. 18 della L.n° 300/1970 ed in aggiunta le ulteriori 15 mensilità quale misura sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro. E’ intervenuta inoltre una decisione legislativa nazionale a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia rimasta ferma fino al 31/12/2009 dove si permetteva alle amministrazioni pubbliche che necessitavano di personale e che fossero in regola con le disponibilità finanziarie di stabilizzare i lavoratori precari antecendenti al 2006 assunti con contratti a termine.

4. IL RICORSO DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI AL LAVORO AUTONOMO

A causa del frequente utilizzo ed abuso della pp.aa. del lavoro autonomo, per rapporti di lavoro aventi caratteristiche di subordinazione ed la fine di contenere la spesa pubblica il legislatore ha introdotto specifici controlli preventivi, ed a causa della inefficacia della sanzione prevista dall’art. 36

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comma 5° del D.lgs 165/2001, ha previsto nei casi di responsabilità da parte del dirigente che utilizza tali forme di collaborazione, nella perdita della retribuzione di risultato.Inoltre il legislatore ha rimarcato e riformulato le condizioni che legittimano il conferimento di tali incarichi specificando altresì che per i compiti istituzionali della pp.aa devono essere svolti utilizzando personale dipendente pubblico e sono specificatamente :

1) quando vi è l’impossibilità di reperire personale in servizio per l’espletamento di determinati compiti;

2) quando la p.a. necessita di professionalità elevate non reperibili presso il proprio enteIn tali casi ciò è fattibile e l’incarico deve essere conferito per iscritto e deve specificare puntualmente l’oggetto dell’incarico e del luogo in cui deve essere eseguito e della data di cessazione dello stesso.Inoltre al fine di contrastare la nota pratica clienterale, il legislatore ha previsto l’obbligo di selezione del personale mediante procedure comparative e di darne pubblicità, mediante bando o avviso pubblico di indizione della procedura, i criteri di valutazione dei candidati e le eventuali prove.E previsto anche che le p.a. che si avvalgono di tali forme esterne di collaborazione pubblichino sul proprio sito web i relativi provvedimenti di affido incarico con specificato il tipo di incarico conferito, la durata ed il costo dell’incarico; l’omessa pubblicazione comporta l’ìnefficacia dei contratti di consulenza.

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CAPITOLO 18: IL LAVORO A TEMPO PARZIALE E IL REGIME DELL’INCOMPATIBILITA’

1. IL PART-TIME: RICOSTRUZIONE DELLA DISCIPLINA LEGALE

L’impiego del part-time nella p.a. si è caratterizzato per essere diverso da quello previsto per i dipendenti privati, infatti anziché servire per aumentare l’occupazione esso mira a contenere la spesa per il personale ed a permettere una deroga ai principi di incompatibilità lavorativa dei dipendenti pubblici.Naturalmente in entrambi i settori viene utilizzato per conciliare le esigenze di vita a quelle lavorative, nel pubblico la normativa di riferimento è il D.lgs 61/2000 che seppur modificata con il D.lgs 276/2003 ( riforma del mercato del lavoro) lo stessa precisa che non debba applicarsi alla p.a.

2.NOZIONE E TIPOLOGIE DI PART-TIME

Il part.time è caratterizzato da un orario di lavoro ridotto rispetto alle normali 36 ore previste nel tempo pieno così come fissato dai contratti collettivi nazionali. La legge non prevede una durata minima obbligatoria dell’orario ridotto, ma la contrattazione collettiva prevede che non sia inferiore alle 30% del tempo pieno.Vi sono 3 tipi di tempo parziale:

1) Orrizzontale dove la prestazioen è su 5/6 gg. lavorativi ad orario ridotto2) Verticale dove la prestazione è effettuata solo in alcuni giorni della settimana3) Mista dove vi è una combinazione delle prime due

Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario ci riferimento al giorno, al mese ed all’ anno.Tale contratto non rientra tra le “forme contrattuali flessibili”, può essere stipulato tra tutti i profili professionali tranne che per il personale militare, le Forze di Polizia ed il Corpo dei Vigili del Fuoco.La contrattazione nazionale fissa nel 25% il personale che può essere utilizzato a tempo parziale, in alcuni contratti è prevista una ulteriore estensione del 10% in presenza di gravi motivi e documentate situazioni familiari.

3.STRUMENTI DI GESTIONE FLESSIBILE DELL’ORARIO RIDOTTO

Il D.lgs 61/2000 prevede inoltre previo consenso del lavoratore di variare il regime orario pattuito all’atto dell’assunzione o prolungando la durata dell’orario ( straordinario) ovvero modificando la collocazione temporale attraverso clausole flessibili.

- Lavoro straordinario e supplementare Per lavoro supplementare si intende una attività lavorativa fatta oltre l’orario concordato dalle parti nel contratto a tempo parziale di tipo Orizzontale, esso vien regolato dalla contrattazione collettiva dove vengono specificate le motivazioni, la maggiorazione retributiva e l’entità massima giornaliera ed annuale; in caso di superamento del limite previsto la legge impone il passaggio ad un orario del 50% a sua volta innalzabile.Il lavoro straordinario invece consiste nella eccedenza dell’orario giornaliero previsto ed è ammesso dalla legge solo nell’ambito del part-time verticale e misto in alcuni casi il ricorso al lavoro straordinario è del tutto vietato.

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- Clausole elastiche Sono quelle clusole che consentono al datore di lavoro di variare nel corso del rapporto lavorativo la prestazione inizialmente concordata con il singolo dipendente

4.LA TRASFORMAZIONE DA FULL-TIME A PART-TIME

La richiesta del part-time può avvenire solo attraverso la richiesta del dipendente già in servizio a tempo pieno e serve a ridurre il proprio orario di lavoro.Mentre inizialmente era un vero proprio diritto la possibilità del dipendente di chiedere il passaggio al part-time, nel 2008 tale disciplina ha subito una radicale modifica, infatti l’amministrazione ora può respingere tale richiesta oltre ai casi in cui il richiedente intenda effettuare una seconda attività in contrasto con le funzioni lavorative assegnate che nei casi in cui produca pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa. In caso di richiesta di part-time da parte del lavoratore, se l’amministrazione non si pronuncia entro il termine di 30 gg. la richiesta si intende tacitamente accolta.Il dipendente pubblico a differenza di quello privato una volta ottenuto il part-time può ritornare al tempo pieno dopo 2 anni, oppure anche prima se vi è la disponibilità del posto in organico.Alcuni contratti stabiliscono che coloro che sono stati assunti a tempo parziale, decorso un triennio dalla data di assunzione hanno dritto di passare al tempo pieno semprechè vi sia disponibilità di posto in organico.Inoltre in caso di patologie invalidanti e/o malattie oncologiche il dipendente ha comunque la possibilità di passare dal tempo pieno a quello parziale e viceversa.

5. IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE

In base ad un principio comunitario i lavoratori part-time godono degli stessi diritti previsti nei contratti collettivi ( ferie, paga, trattamenti accessori) di quelli a tempo pieno, in proporzione naturalmente alle ore lavorate.

6. IL REGIME DELLE INCOMPATIBILITA’ E LE DEROGHE PER I PART-TIMES

Storicamente al dipendente pubblico era vietato effettuare altro tipo di attività lavorativa (c.d. rapporto di esclusività) in seguito tale impedimento era stato attenuato anche allo scopo di incentivare per motivi di contenimento della spesa pubblica il part-time, pertanto coloro che effettuavano una attività lavorativa non superiore al 50% di quella normale potevano esercitare la libera professione soprattutto in riferimento alla professione forense anche a seguito di pronuncia di legittimità dfa parte della Corte Costituzionale.In seguito, il legislatore ha nuovamente introdotto tale impedimento soprattutto per la professione forense da parte dei dipendenti pubblici fatta eccezione per i professori universitari o di scuole secondarie statali.

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CAPITOLO 19: PRIVATIZZAZIONI, ESTERNALIZZAZIONI E TUTELA DEI LAVORATORI

1.I PROCESSI DI PRIVATIZZAZIONE ED ESTERNALIZZAZIONE DI ATTIVITà E SERVIZI PUBBLICI

A partire dagli anni ‘90 è partito sotto l’influsso anglosassone del c.d. new public management il processo diretto alla esternalizzazione/privatizzazione di alcuni servizi pubblici ad aziende e/o imprese specializzate; si sono avute nello specifico : 1) le privatizzazioni che sono caratterizzate dal mutamento della natura giuridica da pubblica a privata del titolare della attività e/o servizio. Al riguardo la dottrina differenzia tra privatizzazioni formali che si realizzano con la trasformazione dell’ente da pubblico a privato e le privatizzazioni sostanziali che si caratterizzano dal controllo delle società dal pubblico al privato. 2) le esternalizzazioni che prevedono il passaggio da una amminsitrazione che produce beni e servizi strumentali alla propria attività ad una amministrazione che li acquisisce dall’esterno o facendo ricorso al libero mercato e quindi mediante gara di appalto o mediante acquisizione tramite società costituite o partecipate dalle stesse amministrazioni pubbliche (vedi Beinasco Servizi) .Molto spesso le privatizzazioni andrebbero classificate come dismissioni di attività ( vedi dismissione del patromonio immobiliare) non destinato a scopi pubblici. Tali procedure di esternalizzazione/privatizzazione comportano la modifica delle regole di governance e di azione che passano dal diritto amministrativo pubblico a quello privato, dove l’esternalizzazione produce il passaggio della natura giuridica del gestore (da pubblico a privato) dando in appalto i servizi a soggetti privati dietro il pagamento di un corrispettivo.La collaborazione tra pubblico e privato nella gestione delle funzioni pubbliche è previsto dall’art. 118 della Costituzione, ed ha trovato l’avvallo della stessa Corte Costituzionale, conseguentemente molte attività rigurdanti compiti istituzionali possono essere esternalizzate a soggetti privato a seguito di espresse previsioni di legge; inoltre spesse volte il passaggio da pubblico a privato è utilizzato dallo stesso legislatore al fine di migliorare i conti pubblici e di efficienza gestionale.Occorre precisare che ad oggi in quei paesi in cui tali processi sono partiti molto prima ( vedi USA) sono in atto profondi ripensamenti politici ed un tendenziale recupero di tali servizi poiché si sono rilevate problematiche dettate dal perseguimento del profitto/lucro a scapito dell’interesse pubblico ( vedi la problematica riferita alla sanità privata, il controllo degli aereoporti dopo i fatti dell’11 settembre e delle prigioni in Iraq ) che erano in mano a soggetti privati.

2.LA NORMATIVA SULLE PRIVATIZZAZIONI ED ESTERNALIZZAZIONI. PROFILI GENERALI E RECENTI SVILUPPI

Mentre inizialmente il legislatore aveva dato una forte spinta alla esternalizzazione dei servizi da parte degli enti pubblici al solo fine di effettuare un contenimento della spesa pubblica e di migliore efficienza gestionale che aveva portato questo trend legislativo al top nell’anno 2006, il quadro normativo più recente si stà evolvendo in altra direzione.Infatti il preventivo e necessario ricorso alle esternalizzazioni da parte degli enti pubblici è stato soppresso, inoltre è stata compressa la possibilità della pp.aa. di procedere a privatizzazioni ed esternalizzazioni.Tale situazione è iniziata con l’art. 13 della L. n. 248/2006 ( c.d. legge Bersani) che ha preso di mira le società costituite o partecipate dalle pp.aa. regionali o locali per la produzione di beni e servizi strumentali alla loro attività ( diversi dai servizi pubblici locali) ovvero per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative imponendo alle stesse di operare solo con gli enti

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costituenti o partecipanti o affidanti e con il conseguente divieto di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privato.Non meno importante è stata la L. n° 133/2008 novellata dalla L. n.166/2009 che ha profondamente modificato la disciplina in materia di servizi pubblici locali a rilevanza economica , scoraggiando fortemente le “privatizzazioni” e le “ esternalizzazioni” realizzate mediante affidamenti diretti a società in house ( di proprietà o comunque controllate dall’ente pubblico affidante).Ad oggi tali affidamenti sono possibili solo in situazioni eccezionali che a causa di caratteristiche economiche, sociali, ambientali e morfologiche non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, in tal caso l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta motivandola.Occorre ricordare che pur con i vincoli previsti dall’art. 13 della L. n. 248/2006, l’art. 6 stabilisce che le pp.aa sono autorizzate nel rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza ad acquisire sul mercato i servizi originariamente prodotti al proprio interno a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di dotazione organica.Il trend di progressivo disfavore nei confronti dei processi di privatizzazione e di esternalizzazione si consolida e rafforza con talune specifiche prescrizioni concernenti il personale. Oltre alla impostazione di un tetto al trattamento economico di amministratori, dirigenti e consulenti delle società a prevalente partecipazione pubblica, particolare rilievo assume l’art. 18 dell L. n: 133/2008 il quale in materia di reclutamento del personale e di conferimento di incarichi, impone alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblico locali il rispetto dei principi prescritti alle stesse amministrazioni pubbliche. Mentre, se a reclutare o incaricare siano altre società a partecipazione pubblica totale o di semplice controllo, esse sono tenute a rispettare i principi di derivazione comunitaria di trasparenza, pubblicità ed imparzialità.Tutte queste società sono sottoposte al patto di stabilità interno ed al controllo della Corte dei Conti con conseguente responsabilità amministrativa e contabile di amministratori e dipendenti.

3.PRIVATIZZAZIONI ED ESTERNALIZZAZIONE: IL PROBLEMA DELLA TUTELA DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

Le leggi che hanno disciplinato le privatizzazioni hanno anche regolamentato il passaggio dei lavoratori dal pubblico al privato, ma tale disciplina di tutela non sembra in grado di limitare gli effetti al ribasso degli standard di trattamento economico dei lavoratori convolti .Ciò avviene soprattutto nei casi di conferimento all’eterno del servizio non mediante il conferimento dello stesso senza bando di gara, ma mediante l’utilizzo della procedura del bando di gara che si fonda sul presupposto dell’abbattimento dei costi del lavoro scaricando pertanto sui lavoratori il conto più salato, per ovviare a cio è stato emanato il Codice dei contratti pubblici di lavoro , servizi e forniture con D.lgs 162/206 che ha introdotto innovazioni e specificazioni in grado di contrastare il meccanismo suindicato

4.LA DISCIPLINA IN MATERIA DI TRASFERIEMENTO DI ATTIVITA’.

L’art. 31 del D.lgs n. 165/2001 dispone che nel caso di trasferimento o di conferimento di attività svolte dalla pp.aa. enti pubblici e/o aziende a soggetti privati e/o esternalizzati, il lavoratore segue il posto di lavoro come accade per il settore privato ed al personale si applica l’art. 2112 del c.c. L’estrema ampiezza dell’art. 31 rischia di cadere negli eccessi individuati e sanzionati dalla Corte di Giustizia Europea che ha ritenuto in contrasto con la Direttiva n. 96/67/CE di liberalizzazione dei servizi aeroportuali di terra la normativa del decreto italiano con la quale si disponeva il passaggio

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automatico dei dipendenti del precedente gestore al nuovo gestore con effetti di grave limitazione nell’accesso a tali mercati da parte di nuovi soggetti a causa della mancanza di competitività . Dalla interpretazione dell’art. 31 emerge chiaramente che il trasferimento del personale addetto scatta ogni volta che venga conferita o trasferita all’eterno l’attività svolta da una qualsiasi struttura riferibile ad amministrazioni ed enti pubblici non economici. In riferimento alla sopravvivenza delle disposizioni speciali che hanno disciplinato le grandi privatizzazioni ovvero il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ed agli enti locali, tali clausole essendo di competenza esclusiva dello Stato impedisce alla normativa regionale di regolamentare i processi di privatizzazione o di esternalizzazione anche in riferimento ai contratti di lavoro.

5.IL RINVIO ALLA DISCIPLINA PRIVATISTICA DEL TRASFERIMENTO DI AZIENDA I dipendenti pubblici oggetto del trasferimento dall’ azienda pubblica quella privata sono soggetti alla medesima normativa vigente per il settore privato e quindi all’art. 2112 del c.c. e art. 47 della L. 428/1990.Il rinvio a tale normativa comporta:

1) La continuazione del rapporto di lavoro con il nuovo soggetto e la limitazione della facoltà di recesso da parte del nuovo datore di lavoro ; per quanto riguarda invece il dissenso del lavoratore al trasferimento la questione è delicata poiché il passaggio al privato comporta modifiche sia nella disciplina del contratto e più ancora nella garanzia del posto di lavoro, vi sono infatti alcune sentenza che contrastano con il principio sulla impossibilità di dissentire del lavoratore.

2) La conservazione da parte del lavoratore dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro , intendendosi i soli diritti acquisiti e non le semplici aspettative.

3) La sostituzione dei contratti collettivi nazionali con quelli del medesimo livello applicabili dall’impresa del cessionario, e dove tale applicabilità non possa verificarsi si utilizzeranno i vecchi contratti collettivi fino alla loro scadenza.

4) In caso di trasferimento o conferimento della attività sia l’amministrazione cedente che il cessionario devono attivare la procedura di informazione e consultazione che deve essere così articolata:

- comunicazione scritta da parte della amministrazione cedente e del cessionario dei motivi del trasferimento con le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori ceduti; tale comunicazione va fatta quando la parte cedente ha più di 15 dipendenti, e deve essere preventiva alla cessione ovvero almeno 25 gg. prima e va inoltrata ai sindacati di categoria;- avvio su richiesta sindacale di un esame congiunto che si intende esaurito quando dopo 10 gg. dal suo inizi non si sia raggiunto l’accordoQualificazione di condotta antisindacale nei casi di mancato rispetto della procedura.

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CAPITOLO 20 : APPALTI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E TUTELA DEI LAVORATORI DIPENDENTI DA APPALTATORI E SUB-APPALTATORI

1.LA NOZIONE DI APPALTO PUBBLICO

Il contratto di appalto è il contratto con il quale una parte ( appaltatore) si obbliga nei confronti di un committente alla realizzazione mediante organizzazione di mezzi e gestione a proprio rischio di una opera o di un servizio in cambio del pagamento di un corrispettivo in denaro ( art. 1655 c.c).L’appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’esercizio da parte dell’appaltatore degli specifici poteri datoriali (direttivo, organizzativo e disciplinare) risultando pertanto insufficiente la mera organizzazione preliminare dei lavoratori consistente nella selezione, formazione, amministrazione e contribuzione degli stessi.Il contratto di appalto è lo strumento a cui i soggetti privati o le pp.aa. fanno ricorso per acquisire prodotti e servizi a condizioni competitive sia sul piano dei costi che della efficienza oltre che per decentrare le attività in precedenza svolte al loro interno.Il contratto di appalto prevede che il committente riceva solo la prestazione in cambio del pagamento della stessa mentre tutti gli obblighi ed oneri lavorativi rimangono in capo all’appaltatore .Nel casi di lavori di appalto per enti pubblici il legislatore ha normato diversamente le procedure di appalto e ciò al fine di tutelare maggiormente i lavoratori delle imprese aggiudicatrici al fine di evitare che a causa dei forti interessi economici in gioco la forte competizione produca una forte riduzione dei costi con conseguente riduzione dei trattamenti economici lavorativi e degli standar di sicurezza, pena la decadenza dell’incarico conferito.

2.LE CONDIZIONI PER L’AGGIUDICAZIONE DELL’APPALTO POSTE A TUTELA DEL LAVORARTORE : CLAUSOLE SOCIALI E OBBLIGHI A TUTELA DELLA SALUTE E SICUREZZA DEI LAVORATORI Al fine di garantire i lavoratori dipendenti della ditta aggiudicatrice dell’appalto pubblico affinchè la stessa non basi la propria competitività sulla riduzione del costo del lavoro sono state imposte dal legislatore specifiche tutele che sono previste nel Codice degli Appalti.In base a ciò il legislatore prevede che la ditta vincitrice della gara di appalto debba avere degli standar minimi di tutela del lavoratore sia sul piano economico che su quello della sicurezza dei luoghi di lavoro.In forza di ciò così come previsto dagli artt, 86 e 87 del c.c,. l’imprenditore che intenda partecipare alLa gara di appalto deve fornire nella offerta tutte le spiegazioni relative alle varie voci di prezzo che concorrono a formare l’importo totale posto come base di gara, tale documentazione sarà utilizzata dalla stazione appaltante per verificare la congruità della offerta ed in caso di offerte ritenute basse richiederà integrazioni al fine di verificare il rispetto degli standar di sicurezza, delle condizioni di lavoro e dei salari minimi inderogabili e stabiliti dalla legge .Questo ultimo obbiettivo viene perseguito imponendo agli appaltatori pubblici di applicare i contratti collettivi della categoria e previsti nella zona dove avviene l’opera, ciò al fine di evitare che la concorrenza tra appatatori si basi esclusivamente sulla riduzione del costo del lavoro; ed in caso di violazione accertata a tale regola l’appaltatore sarà automaticamente escluso da qualsiasi appalto pubblico.

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Con riferimento alla mancata applicazione delle varie clausole sociali da parte dell’appaltatore si hanno:

1) La possibilità per il lavoratore di agire direttamente nei confronti del promittente per l’adempimento della prestazione promessa;

2) In caso in cui la clausola sociale non sia stata inserita nel contratto di appalto, la stessa verrò inserita automaticamente

3) Invece per l’individuazione del contratto collettivo da applicare si utilizzerà quello stipulato dai sindacati più rappresentativi, tale norma è stata affiancata dall’art. 118 del D.lgs 163/2006 del Codice degli Appalti pubblici che sancisce l’obbligo per l’appaltatore di osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionali e territoriali e in vigore per il settore e per la zona in cui avviene la prestazione.

3.LA TUTELA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA DEL LAVORATORE IMPIEGATO NELL’APPALTO PUBBLICO

Il legislatore in sede di riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori ha riscritto in parte gli obblighi gravanti sia sul committente che sull’appaltatore nei confronti dei lavoratori impiegati nell’esecuzione delle opere in appalto.In capo al committente vi è l’obbligo di cooperazione con l’appaltatore, inteso in: a) verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici in relazione ai lavori, servizi o forniture da realizzare e b) fornire all’appaltatore dettagliate informazioni circa i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui dovranno operare nonchè riguardo gli strumenti di protezione già adottati.Mentre per quanto riguarda gli obblighi di cooperazione dell’appaltatore abbiamo: a) cooperazione per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro e incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto ; b) coordinamento dei rispettivi interventi di protezione e prevenzione dei rischi informandosi reciprocamente. Al committente pubblico spetta inoltre l’elaborazione di un documento di valutazione dei rischi , contenete l’indicazione delle misure adottate per eliminare o ridurre al minimo gli stessi.Tale documento dovrà essere allegato al contratto di appalto sotto pena di nullità e dovrà contenere i costi relativi alla sicurezza del lavoro ed i costi delle misure adottate per eliminare o ridurre gli stessi.

4.I DIRITTI DEL LAVORATORE NEI CONFRONTI DEL COMMITTENTE PUBBLICO

Il lavoratore ha diritto di agire nei confronti del committente pubblico “stazione appaltante” per il pagamento di quanto dovuto e non percepito dall’appaltatore in ragione dell’attività lavorativa prestata per l’esecuzione dell’opera o del servizio commissionati, entro naturalmente il limite di quanto ancora dovuto dal committente all’appaltatore al momento della domanda. Inoltre secondo la interpretazione giurisprudenziale il lavoratore potrebbe agire nei confronti della stazione appaltante oltre che per gli obblighi retributivi anche nei casi di risarcimento dei danni, nei casi in cui ciò non sia possibile ad opera INAIL o dell’IPSEMA, tutto ciò senza essere tenuto ad agire preventivamente nei confronti del datore di lavoro e senza dover dimostrare l’insolvenza di quest’ultimo.

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CAPITOLO 21: LE CONTROVERSIE DI LAVORO

1.LA DEVOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA ORDINARIA

Fin dall’inizio le controversie di lavoro dei dipendenti pubblici sono stato oggetto di giurisdizione della magistratura ordinaria. Anche con la riforma il legislatore ha messo mano nella seconda fase delle privatizzazioni, si è infatti disposto che a far data dal 30 giugno 1998 tutte le controversie passassero dal giudice amministrativo alla magistratura ordinaria.Solo due tipologie di contenzioso sono rimaste alla giurisdizione amministrativa ovvero quelle relative ai rapporti di lavoro del personale ancora in regime di diritto pubblico anche se attinenti a diritti patrimoniali connessi e quelli in materia di procedure concorsuali per l’assunzione (TAR).

2.I PROBLEMI LEGATI AL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

Tale divisione delle competenze a portato a notevoli difficoltà interpretative soprattutto in capo al contenzioso in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di competenza dell’autorità amministrativa e quelle relative all’assunzione al lavoro trasferite all’autorità giudiziaria ordinaria. Il problema è stato risolto dalla Suprema Corte che ha deciso:

a) La giurisdizione dell’a.g.o per le controversie attinenti a concorsi interni per la progressione orrizzontale;

b) La giurisdizione della g.a. per le controversie relative ai concorsi per la progressione verticale riservata ai soli interni;

c) La competenza della g.a. nei concorsi misti ( ovvero per personale interno ed esterno) e dei concorsi interni di tipo misto ( ossia riguardanti la progressione nella stessa area di appartenenza, sia tra aree o categorie diverse).

Altro problema era riferito al conferimento degli incarichi dirigenziali dove, poiché si è deciso che rientrassero nei contratti di tipo privatistico fossero di competenza del giudice ordinario, come peraltro anche le problematiche legate al trattamento di fine rapporto ed il trattamento pensionistico.

3.I POTERI DELL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA ORDINARIA

Poiché la “privatizzazione” del rapporto di lavoro pubblico non ha comportato un mutamento di natura delle pp.aa. il legislatore ha ritenuto opportuno specificare i poteri del giudice ordinario, dove l’art. 63 del D.lgs 165/2001 da un lato si è preoccupato di affermare i pieni poteri dell’a.g.o. nei confronti delle amministrazioni seppur con riferimento al solo giudizio di cognizione e dall’altro ha deciso di svincolare il giudice ordinario dalla decisione di legittimità degli atti amministrativi di competenza della giustizia amministrativa.Occorre peraltro precisare che la devoluzione all’a.g.o. della maggior parte delle controversie di lavoro inerenti i pubblici dipendenti ha determinato un sovraccarico di lavoro ed al fine di arginare tale situazione sono stati introdotti numerosi strumenti al fine di eliminare questo sovraccarico di lavoro mediante l’utilizzo dell’arbitrato, conciliazione pregiudiziale ecc .

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4.GLI UFFICI PER LA GESTIONE DEL CONTENZIOSO DEL LAVORO

L’art.12 del D.lgs 165/2001 ha previsto l’istituzione all’interno della pubblica amministrazione di uffici per la gestione del contenzioso, occorre ricordare che essi hanno rilevanza solamente interna in quanto è al dirigente che spetta il compito di promuovere e resistere alle liti, nonché di conciliarle e transigerle.Ai sensi dell’art. 65 del D.lgs 165/2001 chi intende agire in giudizio per la soluzione di una controversia individuale di lavoro deve obbligatoriamente promuovere a pena di improcedibilità della domanda giudiziale, il c.d. tentativo di conciliazione; decorsi 90 gg. dalla richiesta, la domanda giudiziale diventa procedibile .Il tentativo di conciliazione è svolto sia in sede sindacale che in sede amministrativa, i promotori possono essere sia il dipendente che la pubblica amministrazione.Il tentativo di conciliazione deve essere consegnato o spedito tramite raccomandata all’amministrazione interessata, la stessa se non intende accogliere le pretese del lavoratore dovrà nei successivi 30 gg. depositare presso la DPL le proprie osservazioni scritte e nominate un proprio rappresentante in seno al collegio.Nei 10 gg. successivi al deposito dovrà essere fissata la convocazione delle parti per l’espletamento del tentativo di conciliazione ed in quella sede il lavoratore potrà farsi rappresentare o assistere mediante mandato di delega dal sindacato, mentre l’amministrazione dovrà comparire tramite un soggetto munito del potere di conciliare ( dirigente e/o suo delegato).Qualora il tentativo di conciliazione non abbia esito positivo , il collegio formulerà una nuova proposta bonaria di definizione della controversia, ed in caso negativo, darà atto mediante verbale del fallimento della conciliazione; qualora invece il tentativo riesca verrà redatto verbale con valore di titolo esecutivo non impugnabile.Per quanto riguarda invece la conciliazione in sede sindacale così come previsto nello stesso contratto collettivo nazionale, tale tentativo viene effettuato a seguito di una fase obbligatoria fatta davanti allo stesso arbitro che in tale occasione assumerà il ruolo di conciliatore . Per quanto riguarda la procedura le parti devono comparire personalmente entro 30 gg dalla accettazione della designazione da parte dell’arbitro ed il tentativo di conciliazione dovrà esaurirsi entro 10 gg. dalla comparizione. Se la conciliazione a esito positivo si aprirà la fase arbitrale vera e propria in quanto l’arbitro dovrà fissare la prima udienza per trattare la causa.

5.L’ARBITRATO

Se un tempo era categoricamente vietato fare ricorso ad arbitri nelle controversie di lavoro, oggi ciò è ammesso e previsto negli stessi contratti collettivi di lavoro come alternativa alla via giudiziale.Le parti possono scegliere di comune accordo ( o mediante estrazione in caso di disaccordo) di un arbitro inserito in apposte liste gestite da uffici costituiti presso la Direzione Regionale del Lavoro e denominati “Camere Arbitrali Stabili”. Le parti possono pertanto decidere di comune accordo.La procedura è la seguente: l’arbitro deve essere scelto entro 10 gg. dall’intesa, le parti hanno perentoriamente 5 gg di tempo dalla designazione per depositare presso la camera arbitrale l’atto di accettazione dell’incarico da parte dell’arbitro; il luogo dove avverrà il dibattimento verrà deciso dalle parti

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L’arbitro nel giudicare dovrà osservare le norme inderogabili di legge e previste nei contratti collettivi e dovrà sottoscrivere il lodo entro 60 gg. dalla prima udienza ( salvo proroga di 30 gg se consentito dalle parti) e comunicarlo entro 10 gg. dalla sottoscrizione alle parti mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, diversamente non avrà diritto ad alcun compenso.Entro 30 gg. dalla notificazione del lodo lo stesso potrà essere impugnato in un unico grado davanti al Tribunale della Circoscrizione in cui ha sede l’arbitrato, trascorso tale termine o se le parti hanno dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale o infine se il ricorso è stato respinto dal Tribunale, il lodo su istanza delle parti potrà essere dichiarato esecutivo dal giudice.

6.L’INTERVENTO DELL’ARAN NEI GIUDIZI INDIVIDUALI E L’ACCERTAMENTO PREGIUDIZIALE SULL’EFFICACIA, VALIDITA’ E INTERPRETAZIONE DEI CONTRATTI COLLETTIVI

Uno dei problemi tipici della disciplina contenuta nei contratti collettivi è la spesso scarsa intelligibilità delle clausole che sono frutto della contrattazione collettiva; al fine di risolvere il problema il D.lgs 165/2001 ha concesso all’ARAN il potere di intervenire nei giudizi davanti all’a.g.o. al fine di garantire la corretta interpretazione e l’uniforme applicazione dei contratti collettivi qualora sia necessario per la definizione di una controversia individuale di lavoro.In forza di tale norma il giudice fissa una nuova udienza di discussione ( non prima di 120 gg ) affinchè l’ARAN possa nel termine di 30 gg. convocare le organizzazioni sindacali con le quali ha firmato l’accodo dubbio per verificare la possibilità di arrivare ad una interpretazione autentica del testo, ovvero ad una modifica della clausola controversa.Tale intesa avrà efficacia retroattiva e vincolerà sia le parti che il giudice, se invece, decorsi i 90 gg. dalla comunicazione all’ARAN non si arrivi ad un accordo, sulla questione deciderà il giudice con sentenza impugnabile col solo ricorso immediato per Cassazione.

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PARTE QUARTA : IL SISTEMA DI RELAZIONI SINDACALI NEL SETTORE PUBBLICO.LA DISCIPLINA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA ED IL CONFLITTO

CAPITOLO 22: LE RSA, LE RSU E I DIRITTI SINDACALI NEL SETTORE PUBBLICO

1. IL RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI SINDACALI NEL SETTORE PUBBLICO

Sia nella fase liberale che nel periodo corporativo, i diritti sindacali nelle P.A. sono stati ignorati, considerati non compatibili con la speciale configurazione del rapporto che legava il funzionario all’amm. Gli stessi principi di diritto sindacale contenuti nella Cost. non hanno trovato effettiva applicazione tra i lavoratori pubblici almeno fino alla fine degli anni ’60, tanto che, l’anno 1970 è considerato l’anno zero delle relazioni sindacali. Le successive tappe sono l’estensione dell’applicazione dello Statuto dei Lavoratori al settore pubblico raggiunta con Andreotti nel ’73, a cui fa seguito la conquista della contrattazione collettiva triennale per i dipendenti statali nel ’77 che nel ’79 sarà riconosciuta come strumento di regolazione dei rapporti di pubblico impiego. L’estensione dei diritti sindacali del settore privato a quello pubblico sarà completata nel ’93 in occasione della prima fase di riforma. In tema di maggiore rappresentatività è solo in occasione della seconda riforma che viene dettata la disciplina legale ed ancora oggi operante. Le fonti a cui facciamo riferimento non sono fonti legali, in quanto queste rinviano per il completamento della disciplina ad appositi accordi sindacali: tra i più importanti l’Accordo Collettivo Quadro (ACQ) del ’98, sulla costituzione delle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie) e sulla definizione del regolamento elettorale.

2. GLI ORGANISMI DI RAPPRESENTANZA DEL PERSONALE (RSA E RSU)

L’art. 42 del D.lgs 165/2001 prevede il diritto di costituire le RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali) sono organismi di rappresentanza dei lavoratori di ogni singola sigla sindacale previste dalla legge in alternativa alle RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria), nel senso che ogni sindacato può decidere di costituire la propria RSA ma se l’organizzazione sindacale aderisce all’Accordo Collettivo Quadro, le RSU subentrano alle RSA nella titolarità dei diritti sindacali. Una compresenza non si può avere, perché il sindacato che decide di aderire all’ACQ anche se non dovesse riuscire a presentare liste o eleggere componenti nella RSU, non potrà poi costituire RSA. Quali sono i requisiti dimensionali per costituire la RSU e la RSA? Sono previsti due ordini dimensionali dall’art. 42: uno verticale = per ogni Ente che occupi più di 15 dipendenti; uno orizzontale (eventuale) = nel caso di Enti con pluralità di sedi e strutture periferiche

considerate livelli decentrati di contrattazione collettiva dal Contratto Collettivo Nazionale di Comparto (CCNC).

3. L’ORIGINALITÀ DELLA RSU

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Tra i possibili modelli di organismi di rappresentanza del personale, vengono contrapposti gli organismi di rappresentanza sindacale (a base associativa) a quelli di rappresentanza elettiva-istituzionale (scelti da tutti i lavoratori, sindacalizzati e non). La RSU rappresenta un terzo genere, in quanto pur venendo eletta da tutti i lavoratori non perde la sua natura sindacale, poiché solamente le associazioni sindacali formalmente costituite hanno titolo per presentare le liste per la sua elezione.Possono godere dei diritti sindacali e sedere al tavolo delle trattative per la stipula del CCNC solo i sindacati che abbiano una capacità rappresentativa almeno del 5% (media tra dato elettorale e dato associativo = n° iscritti / n° sindacalizzati). Teoricamente resta possibile l’ipotesi di un sindacato che non aderendo all’ACQ ed avendo un numero di iscritti pari al 10% dei lavoratori sindacalizzati opti per la costituzione di una RSA: tale scelta non è premiante in quanto come abbiamo detto, la rappresentatività ai fini contrattuali (ai fini della stipula del CCNC) viene sempre verificata operando la media fra dato elettorale e associativo (e ciò avvantaggia le RSU). Il legislatore lasciando la libertà di scegliere la propria rappresentanza associativa (tra RSA e RSU) è riuscito a disinnescare la tentazione di ciascun sindacato di costituire una RSA. L’elezione per la costituzione delle RSU avviene ogni tre anni. Tre mesi prima della scadenza del mandato le RSU e le associazioni sindacali rappresentative concordano con l’ARAN le date dello svolgimento delle elezioni e i termini per la presentazione delle liste e per l’istituzione della Commissione elettorale, che deve assicurare il corretto svolgimento delle operazioni, proclamare gli eletti, e avere una funzione di “giurisdizione domestica”, visto che risolve eventuali contestazioni e ricorsi (contro le sue decisioni, si può ricorrere ad un Comitato di Garanti, che deve risolvere la controversia tassativamente entro 10 gg). Tutte le associazioni sindacali possono presentare liste, a prescindere dalla loro capacità rappresentativa e dall’essere firmatarie di contratti collettivi, purché aderiscano all’ACQ. L’elettorato attivo e passivo spetta a tutti i lavoratori dipendenti. La votazione avviene mediante suffragio universale e a voto segreto seguendo il metodo proporzionale tra liste concorrenti. Il numero dei componenti delle RSU non potrà essere inferiore a 3 componenti nelle amministrazioni che occupano fino a 200 dipendenti; fra più di 200 dipendenti e fino a 3000 vanno aggiunti altri 3 componenti per ogni 300 dipendenti; mentre per le amm. che occupano più di 3000 dipendenti vanno aggiunti 3 componenti ogni 500. Gli eletti e i risultati elettorali vengono comunicati dalla Commissione all’ARAN.L’ACQ stabilisce che la carica di componente della RSU è incompatibile con qualsiasi altra carica in organismi istituzionali o carica esecutiva in partiti o movimenti politici, e che il verificarsi di una causa di incompatibilità determina la decadenza della carica. Come chiarito dalla stessa Cass. la decadenza non va proclamata dalla stessa Amministrazione, che non può ingerire sul funzionamento della RSU; quindi, per esclusione, tocca alle RSU.Altre questioni dibattute sulla decadenza degli eletti nelle RSU si sono avuti in casi in cui l’eletto cambia sindacato durante il proprio mandato ed in casi in cui vi è la revoca del singolo componente dell’iscrizione all’associazione sindacale nella cui lista è stato eletto, in entrambe le situazioni la giurisprudenza ritiene che non vi sia decadenza della carica.

4. L’ATTIVITÀ SINDACALE SUL LUOGO DI LAVORO

L’ACQ definisce le funzioni e le prerogative della rappresentanza unitaria che spaziano dai diritti di informazione e partecipazione, alla competenza contrattuale in sede integrativa, ai diritti sindacali. Tra i diritti sindacali più significativi, ricordare il diritto di assemblea, cioè il diritto dei lavoratori di partecipare, durante l’orario di lavoro per almeno 10 ore l’anno pro capite senza decurtazione di

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retribuzione, a riunioni. L’assemblea può essere indetta dalla RSU collegialmente, ci sono perplessità su tale possibilità da parte dei singoli componenti delle RSU… perché l’ACQ lo consentirebbe, ma alcuni contratti collettivi di comparto hanno previsto che questo sia un diritto della RSU nel suo complesso (e per la giurisprudenza prevale la previsione del contratto collettivo). L’art. 21 dello Statuto dei Lav. prevede l’obbligo per il datore di consentire, fuori dall’orario di lavoro, lo svolgimento di referendum su materie sindacali: l’indizione avviene da parte di tutte le rappresentanze sindacali (quindi soltanto la RSU collegialmente, di comune accordo con eventuali RSA).

5. e 6. GUARENTIGIE E TITOLARITÀ DEI DIRITTI SINDACALI + RSU E CONDOTTA ANTISINDACALE

Sulle ampie tutele previste per il rappresentante sindacale, l’art. 42 prevede l’equiparazione dei componenti delle RSU ai dirigenti delle RSA. Tra queste guarentigie va ricordato il divieto di trasferimento di un rappresentante del sindacato in una unità operativa ubicata in sede diversa da quella di assegnazione senza il preventivo nullaosta del sindacato di appartenenza. Particolare tutela si ha anche in caso di licenziamento (art. 18 Stat.): il giudice su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui aderisce, può reintegrare il sindacalista lavoratore quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore. Si pensi infine alla possibilità di astenersi dalla prestazione per svolgere attività sindacale. Il contratto collettivo nazionale quadro che integra lo Statuto dei Lavoratori, prevede la disciplina per il diritto ai distacchi, alle aspettative e ai permessi.L’art. 28 dello Statuto dei Lav. prevede una speciale tutela giudiziaria, con tempi molto ridotti, per i casi in cui il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà sindacale o il diritto di sciopero (è qui fornita in pratica la definizione di comportamento antisindacale). Le legittimazione a promuovere ricorso per comportamento antisindacale è posta in capo agli organismi locali (quelli più periferici) delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Non ai singoli lavoratori, non alle RSA o a Consiglio i Fabbrica e RSU (come sempre escluso dalla giurisp.). Quindi in pratica l’azione compete ai segretari delle strutture minime del sindacato e che in quanto tali agiscono come rappresentanti degli organismi locali. Non mancano tuttavia opinioni contrarie: le RSU in quanto organismi pluralisti ed unitari e autonomi (l’autonomia era appunto la ragione per cui si negava la legittimazione ad agire, che non portava a configurarli come organismi periferici del sindacato) delle associazioni sindacali, e composte a seguito di elezione del sindacato, sarebbero dotate della legittimazione ad agire per reprimere la condotta antisindacale.

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CAPITOLO 23: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL SETTORE PUBBLICO

1. LE COMPETENZE DELLA LEGGE E DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NELLA LAVORO PUBBLICO

Con la nuova riforma l’obiettivo generale di tutte le fasi (l’omologazione normativa con il settore privato) per quanto venga formalmente ribadito, diventa in realtà ancora più irraggiungibile, dato che a seguito di questa riforma gli spazi regolativi riconosciuti alla fonte legale si accrescono sensibilmente a discapito della fonte negoziale. Si parla di rilegificazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico, tendenza che investe necessariamente anche i vari elementi che compongono la struttura della contrattazione. Si tratta di previsioni legali che talvolta recano una disciplina organica e completa, talaltra hanno un contenuto più limitato volto ad orientare le scelte delle parti negoziali, rinviando ad esse la regolamentazione di una materia. Grazie a questi rinvii comunque la fonte negoziale continua ad avere un adeguato spazio di autonomia. Anche dopo il 2009, l’art. 40 prevede che la contrattazione collettiva disciplini i diritti e gli obblighi pertinenti al rapporto di lavoro nonché le materie relative alle relazioni sindacali. Tuttavia, a differenza del passato, sono state indicate le materie per le quali è del tutto esclusa la possibilità di una disciplina negoziale: tutte quelle dell’art. 1 L. 421/92 (es. principi di organizzazione degli uffici; disciplina delle responsabilità e delle incompatibilità; procedimenti di selezione per l’accesso e l’avviamento al lavoro; ecc.); le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, tutte quelle previste come oggetto di partecipazione sindacale, nonché quelle relative alle prerogative dirigenziali.Per salvaguardare la ripartizione effettiva delle competenze è stato predisposto un meccanismo sanzionatorio (artt. 1339 e 1419 c.c.) che comporta l’automatica sostituzione delle clausole dei contratti con le norme imperative eventualmente violate e l’effetto della nullità parziale del contratto.

2. LA STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

La legge sembra individuare la fonte regolativa della struttura contrattuale esclusivamente nella contrattazione collettiva. Spetta alla contrattazione (art. 40) definire i c.d. comparti (cioè l’ambito applicativo del contratto collettivo nazionale), l’ambito delle aree di contrattazione della dirigenza, i diversi livelli contrattuali e i relativi rapporti, e la durata dei contratti collettivi nazionali ed integrativi. Tuttavia il legislatore individua due livelli di contrattazione: nazionale e integrativo.

2.2 GLI ACCORDI QUADRO

Un primo tipo di contratti collettivi nazionale è rappresentato dai c.d. contratti collettivi quadro, cui compete la funzione di regolare una determinata materia o un determinato istituto in modo

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uniforme per il personale di più comparti di contrattazione: spetta all’autonomia collettiva decidere in ordine all’attivazione di tale contratto e sia all’ambito di applicazione. Il contratto quadro viene negoziato e stipulato dall’ARAN ( Agenzia per la Rappresentanza Negoziale della Pubblica Amministrazione) e le confederazioni sindacali e non ha una periodicità fissa, in quanto si ricollega ad interventi dilazionati nel tempo.

2.3 IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI COMPARTO

Il contratto collettivo nazionale di comparto è il baricentro del sistema contrattuale pubblico. Ad esso è attribuito il compito di definire il trattamento normativo ed economico standard di tutti i lavoratori pubblici destinatari delle sue prescrizioni. Definisce inoltre, tramite clausole di rinvio, i possibili interventi della contrattazione integrativa, le materie relative alle relazioni sindacali (permessi, aspettative, ecc.). L’ambito soggettivo di applicazione di questo contratto è il comparto, che rappresenta l’equivalente delle categorie merceologiche proprie della contrattazione privata. I dipendenti delle amministrazione pubblica erano stati raggruppati in 10 comparti di contrattazione collettiva (es. comparto del personale scolastico; comparto del personale del servizio sanitario; comparto del personale delle agenzie fiscali; ecc.), ma oggi alla luce della nuova riforma (e del nuovo art. 40.2) i comparti di contrattazione non potranno essere più di 4, e saranno definiti da specifici accordi quadro fra ARAN e confederazioni sindacali.Alla contrattazione collettiva spetta la definizione della composizione interna di ciascun singolo comparto: in tale attività negoziale le parti godono della più ampia autonomi, dato il venir meno del limite per cui i comparti dovevano essere definiti con riferimento a “ settori omogenei ed affini”.Per quanto riguarda i dirigenti pubblici, è prevista una contrattazione autonoma rispetto a quella degli altri dipendenti pubblici. L’ambito di riferimento per l’applicazione dei contratti collettivi nazionali della dirigenza si identifica con l’area di contrattazione (che per la dirigenza costituisce l’equivalente dei comparti, che come visto sono propri del personale non dirigente). Con la riforma anche le aree di contrattazione della dirigenza non possono essere superiori a 4 (prima erano 8), che saranno identificate non appena individuati i comparti di contrattazione collettiva, tramite gli accordi quadro.

2.4 IL CONTRATTO INTEGRATIVO

Il contratto integrativo è un secondo livello di contrattazione. Questo strumento, previsto dall’art. 40.3, è stato valorizzato dalla recente riforma che l’ha riconosciuto come idoneo a promuovere politiche premiali e meritocratiche del personale per una maggiore efficienza della P.A. nei confronti dei cittadini.Per il finanziamento del secondo livello di contrattazione, la legge formalmente sembra prevedere come unico limite il rispetto dei vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ogni amministrazione. Tuttavia in pratica è sempre il contratto collettivo nazionale a definire l’entità delle risorse finanziarie destinabili, presso ciascuna amministrazione, alla contrattazione integrativa. La contrattazione nazionale definisce anche i modi di ripartizione delle risorse per la contrattazione decentrata, in base ai livelli di merito derivanti dalla graduatoria delle performance delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali annualmente predisposta dalla Commissione per la valutazione la trasparenza e l’integrità delle P.A. Le Regioni però, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli Enti locali, possono destinare alla contrattazione

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integrativa risorse aggiuntive, nel rispetto del contratto collettivo nazionale e dei parametri di virtuosità fissati per la spesa del personale, in linea al rispetto dei vincoli di bilancio, e sempre che Regioni ed Enti Locali rispettino i principi in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance. L’autonomia riconosciuta alla contrattazione integrativa è limitata anche sotto il profilo dei contenuti: essa può svolgersi solo nelle materie e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale di comparto, cui compete anche la definizione dei soggetti e la relativa procedura, compresi i controlli sui costi.La contrattazione di secondo livello in materia di trattamenti economici accessori, deve necessariamente essere finalizzata alla maggiore produttività del lavoro pubblico (attraverso incentivi e premi). Dal 2009 il legislatore ha riconosciuto alla contrattazione integrativa alcune specifiche competenze:

eventuali deroghe alle % previste per i livelli di performance nell’ambito della graduatoria finalizzata alla differenziazione delle valutazioni;

determinazione dell’ammontare del bonus annuale delle eccellenze; modalità selettive per il riconoscimento delle progressioni economiche; criteri generali per l’erogazione del premio di efficienza.

2.4.2 FORME DI CONTROLLO, PUBBLICITÀ E DI MONITORAGGIO DELLA CONTRATTAZIONE INTEGRATIVA

Alle forme di controllo interno individuate direttamente dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, l’art. 40-bis ha aggiunto ulteriori tipologie di controllo esterno, sempre in compatibilità della spesa in materia di contrattazione integrativa. Per far ciò è previsto che:

a) le amministrazioni statali, gli enti pubblici non economici e gli enti e le istituzioni di ricerca, devono trasmettere i contratti integrativi sottoscritti, con un’apposita relazione tecnico-finanziaria e una relazione illustrativa, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero dell’Economia (Dipartimento della ragioneria generale dello Stato), al fine di verificare la compatibilità dei costi contrattuali con riferimento non solo ai vincoli di bilancio, ma anche a quelli derivanti dall’applicazione di specifiche norme di legge. L’esito di tale verifica, che deve concludersi entro 30 gg, è il presupposto per la stipula del contratto integrativo – in caso di inutile decorrenza del termine (che può essere sospeso solo in caso di richiesta di integrazioni) si può procedere, mentre in caso invece di esito negativo l’amministrazione deve riaprire le trattative al fine di eliminare o modificare quelle clausole che hanno determinato l’impossibilità a procedere .

b) Tutte le P.A. devono inoltre trasmettere sempre al Ministero dell’Economia entro il 31 maggio di ogni anno specifiche informazioni sui contenuti della contrattazione integrativa, certificate dagli organi di controllo interno. Il Ministero trasmette tali dati alla Corte dei Conti, che le utilizza ai fini della redazione del referto sul costo del lavoro. Per i contratti integrativi sono previste inoltre specifiche forme di pubblicità al fine di garantire la massima trasparenza.

Le Amministrazioni devono trasmettere all’ARAN nel termine di 5 gg dalla sottoscrizione della contrattazione integrativa il testo di suddetto contratto e la relazione tecnico-finanziaria e quella illustrativa con indicazione delle modalità di copertura degli oneri finanziari con riferimento a strumenti annuali e pluriennali di bilancio.L’ inadempimento degli obblighi di trasmissione e pubblicità sopra descritti, comporta come sanzione l’impossibilità di adeguamento delle risorse destinate alla contrattazione integrativa.

2.5 RAPPORTI TRA LIVELLI CONTRATTUALI

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La disciplina dei rapporti tra contratto collettivo nazionale e contratto integrativo è rimessa alla contrattazione collettiva nazionale: abbiamo visto che la legge dispone che la contrattazione integrativa può svolgersi solo nelle materie e nei limiti stabiliti dal contratto collettivo nazionale (oltre all’impossibilità di invadere gli ambiti riservati alla legge o altre fonti), emerge pertanto l’importanza del ruolo della contrattazione collettiva nazionale. Al fine di garantire coerenza tra i 2 livelli contrattuali il legislatore ha previsto uno specifico meccanismo sanzionatorio: le clausole dei contratti integrativi in contrasto con i vincoli e i limiti di competenza previsti dai contratti collettivi o dalle norme di legge, sono nulle e non possono essere applicate. Ciò comporta la loro sostituzione automatica con le norme di legge imperative eventualmente violate e gli effetti della nullità parziale del contratto (la nullità colpisce la singola clausola difforme non l’intero contratto integrativo): in sostanza le suddette clausole sono sostituite di diritto dalla norma legale o contrattuale la cui violazione ne ha determinato la nullità. Tale sanzione si applica per qualsiasi difformità, sia per i contenuti sia per le modalità di finanziamento, sia essa in meglio o in peggio per i lavoratori.Nel caso di accertato superamento in sede di contrattazione integrativa dei vincoli finanziari per essa previsti da parte della Corte dei Conti , accanto al sistema sanzionatorio finora descritto è previsto l’obbligo per l’Amministrazione che vi ha dato luogo di recuperare i maggiori oneri sostenuti nell’ambito della sessione negoziale successiva.

2.6 LA RISERVA DI CONTRATTAZIONE COLLETTIVA IN MATERIA DI TRATTAMENTO ECONOMICO

L’intervento riformatore del 2009 non ha fatto venir meno quella riserva di contrattazione collettiva in materia di trattamento economico, sia fondamentale che accessorio, sussistente sin dalle origini della riforma (1993), ha introdotto però alcune deroghe, limitate e parziali, all’operatività di tale riserva di contrattazione (artt. 40 co. 3bis e ter). Con riferimento alla contrattazione nazionale è previsto che, al fine di sollecitare la conclusione della trattativa, decorsi 60 gg dall’entrata in vigore della legge finanziaria relativa ai rinnovi contrattuali del periodo di riferimento, le amministrazioni possano procedere all’erogazione, in via provvisoria, degli incrementi previsti per i trattamenti stipendiali, previa deliberazione dei diversi comitati di settore e sentite le organizzazioni rappresentative, salvo successivo conguaglio al momento della effettiva stipulazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. In relazione invece alla contrattazione integrativa è stato previsto che: i contratti collettivi nazionali di lavoro devono definire il termine di durata delle sessioni negoziali decentrate e che alla scadenza di tale termine, se non vi è la stipulazione del contratto integrativo, il datore assume autonomamente le proprie decisioni in materia con apparente carattere di definitività (fino al rinnovo del contratto integrativo relativo al successivo periodo di riferimento). Anche gli atti adottati unilateralmente dal datore di lavoro pubblico in caso di non raggiungimento dell’accordo devono essere assoggettati ai medesimi controlli di compatibilità economico-finanziaria prevista per la contrattazione integrativa.Da una lettura congiunta delle due disposizioni in apparenza sembrano prevedere discipline contrastanti per fattispecie e in parte coincidenti: la prima infatti evidenzia un carattere di definitività dell’intervento decisorio datoriale in caso di decorrenza infruttuosa della sessione negoziale (fino al rinnovo del contratto integrativo relativo al successivo periodo di riferimento), la seconda invece legittima la decisione unilaterale sulle materie per le quali non si è raggiunto l’accordo, ma solo con carattere di provvisorietà (fino alla sottoscrizione del contratto integrativo). Al fine di evitare un conflitto sembra potersi ritenere che mentre la prima disposizione fissa la regola generale con

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riferimento alla contrattazione integrativa relativa a tutti gli istituti normativi del rapporto di lavoro, la seconda invece ha la veste di regola speciale, nel senso che si riferisce esclusivamente alla contrattazione integrativa avente ad oggetto materie attinenti al trattamento economico del personale.

3.1.1 I SOGGETTI DELLA CONTRATTAZIONE NAZIONALE: LA PARTE DATORIALE (ARAN E COMITATO DI SETTORE)

La legge individua e disciplina direttamente i soggetti della contrattazione nazionale, sia per la parte datoriale che sindacale. Per la parte datoriale l’agente operante in nome e per conto di tutte le amministrazioni pubbliche è l’ARAN = organismo tecnico, dotato di personalità giuridica, avente autonomia organizzativa e contabile, nei limiti del proprio bilancio. Il compito dell’ARAN è quello di rappresentare legalmente tutte le P.A. ai fini della contrattazione collettiva nazionale: tale rappresentanza avviene nel rigoroso rispetto degli atti di indirizzo prevalentemente formulati dai Comitati di Settore per la contrattazione collettiva nazionale di ciascun comparto.I Comitati di Settore sono organismi istituti per legge per ogni comparto. La legge prevede in particolare l’istituzione di:- 1) un Comitato di Settore nell’ambito della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per l’esercizio

delle competenze riguardanti il personale delle Regioni e dei relativi enti dipendenti;- 2) un comitato si Settore nell’ambito della Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI),

dell’Unione delle Provincie d’Italia (UPI) e dell’Unioncamere che comprenderà in futuro il personale degli Enti Locali, delle Camere di Commercio e dei segretari comunali e provinciali;

- 3) un Comitato di Settore identificato nel Presidente del Consiglio dei Ministri dove rientrano le amministrazioni del Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università, della Ricerca, e i direttori delle Agenzie fiscali;

Essi sono costituiti direttamente dalle P.A. sulla base di loro scelte autonome e garantiscono alle diverse P.A. una più diretta ed immediata partecipazione alla formazione della volontà contrattuale, avendo essi il compito non solo di predisporre e formulare atti di indirizzo ma anche di esprimere il loro parere sull’ipotesi di accordo raggiunta dall’ARAN ai fini della sottoscrizione definitiva del contratto collettivo nazionale. Per i c.d. contratti collettivi quadro, le funzioni di indirizzo e le altre competenze inerenti alla contrattazione collettiva sono esercitate collegialmente dai diversi Comitati di Settore. I Comitati definiscono la propria organizzazione e composizione interna autonomamente, nonché le proprie modalità di funzionamento e di assunzione delle relative decisioni.Tornando all’ARAN, i suoi organi sono il Presidente e il Collegio di indirizzo e di controllo. Il Presidente è nominato con D.P.R. su proposta del Ministro della P.A. e dell’Innovazione, e la durata dell’incarico è di 4 anni (con possibilità di riconferma per una sola volta), e per esso vige un regime di incompatibilità assoluta della carica con qualsiasi altra attività professionale a carattere continuativo. Il Collegio è composto da 4 componenti e presieduto dal Presidente; i componenti sono scelti tra esperti e 2 di essi rappresentano le istanze delle Autonomie Locali, gli altri due sono designati con decreto del PdC (1 su proposta del ministro dell’economia, l’altro del ministro della p.a.). Al Collegio compete la definizione delle strategie negoziali, al fine di assicurarne l’omogeneità, assumendo non solo la responsabilità per la contrattazione ma anche il compito di verificare e garantire che le trattative si svolgano nell’osservanza delle direttive contenute negli atti di indirizzo. I termini dell’incarico sono identici a quelli del Presidente. Il collegio delibera a maggioranza su proposta del Presidente. Per il Presidente e per i componenti del Collegio è definito un rigoroso regime di incompatibilità. Per svolgere le sue attività l’ARAN dispone di una propria organizzazione e di proprio personale, e la gestione finanziaria è soggetta al controllo a consuntivo della Corte dei Conti.

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Oltre ad essere attribuiti compiti relativi alla negoziazione e alla stipulazione dei contratti collettivi nazionali di comparto, ivi compresa l’attività di interpretazione autentica degli stessi, sono attribuite all’ARAN altre rilevanti funzioni, come l’assistenza alle P.A., le attività di monitoraggio, studio e documentazione necessarie per lo svolgimento della contrattazione, la raccolta sui dati delle deleghe e sui voti ai fini della verifica e dell’accertamento della rappresentatività sindacale. In particolare l’ARAN è tenuta ad effettuare il monitoraggio sull’applicazione dei contratti collettivi nazionali e sull’andamento della contrattazione integrativa, presentando un rapporto annuale al Dipartimento della Funzione Pubblica, al Ministero dell’Economia e ai Comitati di Settore, rapporto in cui verifica l’effettività e la congruenza della ripartizione delle materie demandate rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva, sia nazionale che integrativa.Infine la legge prevede che i rappresentanti designati dai Comitati di settore possono assistere l’ARAN nello svolgimento delle trattative. Questi in sostanza fungono da interlocutori riservati e privilegiati dell’ARAN (e non fungono da negoziatori), e da sostegno politico immediato soprattutto nei momenti particolarmente critici.

3.1.2 I SOGGETTI DELLA CONTRATTAZIONE NAZIONALE: LA PARTE SINDACALE

Diversamente da quanto avviene nel settore del lavoro privato – dove il datore di lavoro individua il proprio interlocutore sindacale discrezionalmente sostanzialmente basandosi sulla base dei concreti rapporti di forza – nel settore pubblico è la legge a dettare specifici criteri di selezione del soggetto sindacale. La regola generale è che alle trattative per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di comparto o di area dirigenziale siano ammessi solo le organizzazioni sindacali che possono considerarsi effettivamente rappresentative nell’ambito del comporta o area ovvero che godano di un consenso ampio e diffuso tra i lavoratori. I criteri per misurare la rappresentatività sono 2: dato associativo = le deleghe rilasciate per la riscossione del contributo sindacale a favore di ogni

sigla sindacale, rispetto al totale delle deleghe nell’ambito considerato; dato elettorale = il numero di voti conseguiti da ciascuna sigla sindacale nelle elezioni della RSU,

rispetto al totale dei voti espressi.L’accertamento della rappresentatività sindacale attualmente ha una periodicità biennale, ma dovrà essere necessariamente modificata in relazione alla nuova durata triennale prevista per i contratti collettivi nazionali ed integrativi. Alle trattative per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di comparto o di area, sono ammesse solo le organizzazioni sindacali che raggiungono la soglia minima del 5% espressa dalla media tra il dato associativo e quello elettorale. Invece per il rinnovo invece dei contratti collettivi concernenti le diverse aree dirigenziali sono invitati alle trattative le organizzazioni sindacali in possesso della soglia minima 5% calcolata però con esclusivo riferimento del dato associativo, visto che manca il dato elettorale.Rispetto agli accordi di definizione dei comparti o delle aree dirigenziali e per i contratti collettivi nazionali quadro, la delegazione sindacale è rappresentata solo dalle confederazioni. Sono considerate rappresentative solo quelle confederazioni che hanno, in almeno 2 comparti o aree, organizzazioni sindacali ad esse affiliate che siano rappresentative secondo i criteri previsti dalla legge.Per l’efficacia della stipulazione dei contratti collettivi nazionali di comparto o di area è previsto un preciso requisito: le organizzazioni sindacali che intendono procedere alla stipula devono rappresentare nel loro insieme almeno il 51% nella media tra dato associativo e elettorale, o almeno il 60% calcolato con riferimento al solo dato elettorale (il controllo di tale requisito è affidato all’ARAN).

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3.2 I SOGGETTI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA INTEGRATA: LA PARTE DATORIALE E LA PARTE SINDACALE

La legge non offre indicazioni sulla composizione della delegazione della parte datoriale pubblica in sede di contrattazione integrativa, rinviando alla contrattazione collettiva nazionale di comparto. Tale rinvio è stato attuato dai vari contratti collettivi nazionali in modi diversi: a volte il soggetto delegato a negoziare veniva scelto dalle singole amministrazioni autonomamente; altre volte la scelta è imposta da una disciplina specifica.Vista la separazione tra poteri di indirizzo politico-amministrativo e poteri gestionali (questi ultimi di esclusiva competenza dei dirigenti), gli organi di governo delle amministrazioni non partecipano alla delegazione trattante, dato che la contrattazione collettiva rientra sicuramente tra le attività aventi natura gestionale. Le amministrazioni possono avvalersi anche dell’assistenza dell’ARAN a fini della contrattazione integrativa.Per quanto riguarda la parte sindacale, la legge e i contratti collettivi nazionali di lavoro di ogni comparto attribuiscono i poteri e le competenze negoziali in sede di contrattazione integrativa alle RSU e ai rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali territoriali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di comparto.

4. LA DURATA DEI CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI E DEI CONTRATTI INTEGRATIVI

Nell’assetto regolativo esistente fino ad oggi la legge non aveva definito la durata dei contratti collettivi di lavoro, nazionali e integrativi, rimettendone la determinazione alla contrattazione collettiva. I contratti collettivi avevano fissato nel Protocollo su costo del lavoro del 1993 il periodo di vigenza delle clausole contrattuali in 4 anni per quelle con contenuto normativo ed in 2 anni per quelle concernenti la parte economica. Tale regolamentazione comune al settore privato, riguardava sia la contrattazione nazionale (esclusi i contratti quadro) sia quella di secondo livello. Successivamente nell’accodo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 2009 è stato dato un nuovo assetto alla materia stabilendo la durata triennale dei contratti collettivi per la parte sia normativa che economica.

5.1 LA PROCEDURA DI CONTRATTAZIONE COLLETTIVA IN SEDE NAZIONALE

Nel settore del lavoro privato, le procedure di contrattazione collettiva nazionale si svolgono quasi esclusivamente sulla base di prassi applicative ormai consolidate. Nel settore del lavoro pubblico invece la procedura di negoziazione continua a trovare la sua fonte di regolamentazione direttamente nella legge, per via delle specificità che ancora lo contraddistinguono rispetto all’esperienza di lavoro privata (es. controllo spesa pubblica). Si tratta di una regolamentazione ampia che comunque non esclude spazi di possibile intervento della contrattazione collettiva su alcuni aspetti non considerati direttamente dal legislatore. La procedura prevista si articola in diverse fasi, ciascuna avente termini procedurali.Vi è innanzitutto una fase precontrattuale nella quale sono definite preliminarmente le risorse finanziarie a disposizione per il rinnovo contrattuale, anche per la quota destinata alla contrattazione integrativa. Segue poi la predisposizione dei necessari atti di indirizzo da parte dei Comitati di Settore in occasione di ogni rinnovo contrattuale e la trasmissione di tali atti all’ARAN. Ricevuto l’atto di indirizzo, l’ARAN può avviare la trattativa negoziale, convocando le confederazioni e le organizzazioni sindacali riconosciute rappresentative nel comparto o nell’area dirigenziale. L’ARAN

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informa costantemente i Comitati di Settore e il Governo sull’andamento del negoziato. La trattativa si conclude con una ipotesi di accordo, con le quali le parti formalizzano l’accordo raggiunto. Inizia quindi una terza fase che si articola in diverse forme di controllo sui contenuti dell’ipotesi di accordo. L’ARAN deve trasmettere l’ipotesi di accordo raggiunta con le organizzazioni sindacali corredata della relazione tecnica e dalla quantificazione dei costi contrattuali, nel termine di 10 gg dalla sottoscrizione, al competente Comitato di Settore e al Governo. I Comitati di Settore verificano la rispondenza dell’accordo raggiunto in sede negoziale con le indicazioni e gli obiettivi formalizzati a suo tempo nell’atto di indirizzo, anche e soprattutto sotto il profilo della compatibilità economica. Il Governo può effettuare un controllo in relazione alla rispondenza con le sue linee generali di politica economica-finanziaria, e il controllo si traduce nella possibilità del Governo stesso di effettuare osservazioni entro 20 gg dall’invio del contratto da parte dell’ARAN. Acquisito parere favorevole dai Comitati di Settore (ed intervenute le osservazioni del Governo) il giorno successivo l’ARAN trasmette alla Corte dei Conti l’ipotesi di accordo, con la quantificazione dei costi contrattuali, ai fini della certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio.Da questo momento si apre la fase del controllo della Corte dei Conti, alla Corte spetta la funzione di certificare i costi contrattuali come quantificati dall’ARAN in relazione a ciascuna ipotesi di contratto collettivo, sotto il profilo della compatibilità finanziaria e la compatibilità economica. La Corte deve esprimersi nel termine di 15 gg, decorso il quale la certificazione si intende effettuata positivamente. L’esito della certificazione è comunicato dalla Corte all’ARAN, al Comitato di Settore e al Governo. In caso di certificazione positiva il contratto viene sottoscritto definitivamente e diventa efficace dal momento della stipulazione. In caso di certificazione negativa le parti non possono procedere alla sottoscrizione definitiva del contratto collettivo nazionale e la legge dispone che il Presidente dell’ARAN, d’intesa con il competente Comitato di Settore, procedano alla riapertura delle trattativa, anche se non è ben chiaro se, trattandosi a tutti gli effetti di un nuovo contratto devono essere nuovamente effettuati tutti precedenti passaggi. Nel caso in cui la certificazione non positiva riguardi solo singole clausole contrattuali la legge consente alle parti di procedere ugualmente alla stipulazione definitiva del contratto collettivo, ferma restando l’inefficacia assoluta e l’inapplicabilità delle clausole segnalate della Corte dei Conti. A fini notiziali e conoscitivi è previsto un obbligo di pubblicazione del contratto collettivo nazionale sottoscritto, sulla Gazzetta Ufficiale. Inoltre il testo contrattuale deve essere pubblicato anche sul sito dell’ARAN e su quello delle Amministrazioni interessate.

5.2 LA PROCEDURA DI CONTRATTAZIONE COLLETTIVA IN SEDE DECENTRATA

A differenza della contrattazione collettiva nazionale, la legge non detta alcuna disposizione diretta in ordine alle procedure della contrattazione integrativa, dato che questi aspetti sono demandati in via esclusiva alla contrattazione collettiva nazionale. Il legislatore ha comunque tenuto fermo il meccan-ismo che prevede duplicità di controlli: esterni ed interni soprattutto sulla compatibilità dei costi della contrattazione integrativa con i vincoli di bilancio e con quelli derivanti dalla applicazione di norme di legge effettuata dai revisori dei conti, dal collegio sindacale e dagli uffici centrali di bilancio. .5.3 IL REGIME TRANSITORIO

In presenza di una nuova riforma del lavoro pubblico, il legislatore ha previsto un adeguato periodo di rodaggio, per la piena conoscenza e assimilazione delle nuove norme da parte dei datori di lavoro pubblici e per consentire l’intervento della contrattazione collettiva nazionale nell’ambito degli spazi

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ad essa effettivamente demandati. Il termine per l’adeguamento dei contratti integrativi è il 31-12-2010, per il contratti collettivi per il comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali sono previsti termini diversi (entro il 31-12-2011).

CAPITOLO 24: L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO

1. e 2. L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO + CONTROVERSIE SULL’INTERPRETAZIONE

Il contratto collettivo del pubblico impiego ha una efficacia diretta e generale nei confronti di tutti i dipendenti rientranti nel suo campo di applicazione. Secondo una parte della dottrina, l’efficacia erga omnes del contratto collettivo del settore pubblico sarebbe collegata alla sua natura pubblicistica – e quindi alla sua veste di vera e propria fonte del diritto – la quale a sua volta troverebbe fondamento nei principi di imparzialità e buon andamento dell’Amm. (art. 97 Cost.): principi la cui rispondenza sarebbe la ratio giustificatrice dei vincoli legali soggettivi, procedurali e di contenuto, i quali risulterebbero altrimenti inammissibili in virtù del principio di libertà sindacale dell’art. 39 Cost. (che comporta l’assoggettamento dello stesso contratto collettivo al principio volontaristico di diritto comune). In contrasto con tale tesi, la dottrina maggioritaria (e la Corte Cost.) ritiene che come accade nel settore privato anche la contrattazione collettiva del settore pubblico è espressione della libertà negoziale dell’autonomia privata collettiva, e l’efficacia generale del contratto collettivo non discenderebbe dalla sua presunta natura pubblicistica, ma sarebbe l’effetto indiretto del combinato degli artt. 40 e 45 con il principio volontaristico, e cioè del vincolo per le amm. di conformarsi al contratto collettivo e del rinvio a quest’ultimo contenuto nel contratto individuale stipulato dall’amministrazione con ciascun lavoratore.Con scopi deflativi sulle controversie sull’interpretazione dei contratti collettivi, l’art. 49 del D.lgs n.165 dispone che le parti stipulanti possano concludere, dopo la stipula del contratto collettivo, appositi accordi con cui definire, con effetto dall’iniziale vigenza del contratto, il significato della clausola controversa. Gli accordi di interpretazione autentica sostituiscono la clausola controversa, assumendo la stessa generale efficacia soggettiva dei contratti collettivi: unico limite è l’intangibilità, in assenza di esplicito consenso del lavoratore, dei diritti già consolidati. La legge richiede per la stipulazione di questi accordi l’intervento delle stesse parti originarie ed al riguardo la giurisprudenza ha ritenuto che sia necessario che gli stessi vengano sottoscritti da tutte le organizzazioni che hanno firmato il contratto originario

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CAPITOLO 25: RELAZIONI SINDACALI E PARTECIPAZIONE

1. IL SISTEMA DI RELAZIONI SINDACALI NEL SETTORE PUBBLICO

Il sistema di relazioni sindacali e i meccanismi partecipativi a esso connessi sono stati oggetto di specifica attenzione sin dall’avvio della riforma, sia per escludere prassi consociative che nel tempo si erano consolidate, sia per dare attuazione alla corposa legislazione comunitaria che assegna alla partecipazione la funzione di sostenere il dialogo sociale a livello di impresa, consentire una migliore gestione del cambiamento organizzativo ed economico e garantire un lavoro di qualità. Tali temi sono uno degli aspetti di maggiore fragilità nell’assetto normativo delineato dal d.lgs. 165/2001 riformato nel 2009, infatti si collocano in un’area di delicata contiguità con il sistema di contrattazione collettiva ed il rigido assetto di regole e procedure che lo sorreggono. Come vedremo tale materia continua a risultare compressa dall’espansione regolativa del legislatore dell’ultima riforma.

2. LA SINGOLARITÀ DELLA PARTECIPAZIONE E DELLE RELAZIONI SINDACALI NEL LAVORO PUBBLICO

La legge attribuisce alla contrattazione collettiva la disciplina dei rapporti sindacali e degli istituti della partecipazione nel settore pubblico. Questa formale attribuzione, già all’indomani della prima fase di riforma, appariva del tutto superflua in quanto tradizionalmente nel nostro sistema era stata la fonte collettiva a disciplinare le forme della partecipazione, anche se in alcuni casi sempre più frequenti la legge riconosceva a rappresentanze di lavoratori la titolarità di specifici diritti di informazione e consultazione. Mentre nel sistema di relazioni sindacali privatistico l’esperienza partecipativa risulta fondata su una tipica matrice conflittuale, nel settore pubblico il sistema di relazioni sindacali risente dell’ambiguo rapporto tra potere (datoriale-gestionale) e contropotere (sindacale-interdizionale): in esso il metodo (della partecipazione in quanto forma) dell’azione collettiva tende a trasformarsi in un contesto di relazioni dove non sempre è chiara la distinzione dei ruoli e soprattutto delle responsabilità. Questa singolarità ha due riflessi: da un lato, quelle delle relazioni sindacali continua ad essere un tema di grande rilievo in relazione all’organizzazione degli uffici e del lavoro nella P.A.; dall’altro tale singolarità sembra tramutarsi in un elemento destinato a snaturare le relazioni sindacali, nella misura in cui la loro caratteristica fondamentale è quella di essere espressione ultima di autonomia collettiva.

3. IL QUADRO NORMATIVO LEGALE NELLE SUE ISPIRAZIONI DI FONDO

Il sistema partecipativo del settore pubblico è improntato sulla distinzione dei ruoli, ma partecipativo nel metodo, giacché destinato ad incidere anche sull’organizzazione del lavoro, e perciò si pone in complicata armonia col più generale rinvio alla contrattazione collettiva come fonte di disciplina delle materie relative al rapporto individuale di lavoro. Va notato che il legislatore del 2009, ha alterato l’equilibrio già precario di un sistema che pretendeva di uniformarsi a quello tipico del settore privato, ma denso di elementi di resistenza: che se da un lato la prassi e l’interpretazione sistematica avevano cercato di attenuare, risultano ora rinvigoriti.

4. IL MODELLO PARTECIPATIVO DEL SETTORE PUBBLICO

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Prima osservazione sul nuovo assetto regolativo: in relazione ai poteri gestionali riconosciuti al dirigente in materia di organizzazione degli uffici e del lavoro, viene fatta salva la sola informazione ai sindacati e solo quando sia prevista dalla contrattazione di comparto (artt. 5 e 9). Si tratta di un vincolo alla libera esplicazione dell’autonomia collettiva, ma a ben vedere, sia pure in modo indiretto, anche all’autonomia del dirigente che dovrà attenersi a obblighi informativi nell’ambito del sistema relazionale decentrato instaurato con le rappresentanze sindacali. Il nuovo assetto segna una riduzione degli spazi di agibilità degli istituti partecipativi, con riferimento ai poteri di organizzazione degli uffici e di gestione dei rapporti di lavoro. La formulazione estremamente “asciutta” del nuovo art. 9 – il quale fa espresso riferimento alle modalità, oltre che agli istituti della partecipazione, come oggetto sul quale la contrattazione è chiamata ad intervenire – lascia intendere che il terreno di sviluppo degli istituti della partecipazione resta quello della regolazione dei rapporti di lavoro: per tali materie il contratto nazionale può optare per l’attivazione in sede decentrata degli istituti della partecipazione (specificamente informazione, consultazione e concertazione) o piuttosto rinviare ai tavoli della contrattazione collettiva. Si tratta di una scelta che si muove in direzione opposta a quella prevista in materia prima della riforma: prima si riconosceva ai contratti collettivi nazionali la possibilità di estendere gli istituti della partecipazione anche ad una parte della micro organizzazione (per aspetti aventi diretta incidenza sul rapporto di lavoro), oggi no. Questa riduzione degli spazi di partecipazione è una scelta poco coerente con la volontà di fondo di convergenza col settore privato. Va infine menzionato l’art. 40, riformulato nel 2009: laddove la contrattazione nazionale abbia attivato in sede decentrata forme di partecipazione sindacale, è vietata la trasformazione del tavolo partecipativo in tavolo negoziale. Il legislatore conferma così il rifiuto al fenomeno invasivo della contrattazione collettiva.

5. LE DISPOSIZIONI IN MATERIA PARTECIPATIVA CHE NON HANNO SUBITO MODIFICHE DALLA RIFORMA

Un ulteriore elemento di disordine regolativo dell’attuale assetto, per il mancato raccordo con le disposizioni del testo previgente rimaste invariate dopo il 2009, si rinviene in materia della contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale (art. 44). Tale disposizione dà alla contrattazione collettiva nazionale la definizione di nuove forme di partecipazione delle rappresentanze del personale ai fini dell’organizzazione del lavoro nelle P.A. e abroga le norme che prevedevano forme di rappresentanza istituzionale o organica, anche elettiva, del personale all’interno di organismi di varia natura (per lo più commissioni del personale o organi collegiali di gestione, come i consigli di amministrazione), comprese le commissioni di concorso. La ratio dell’abrogare queste rappresentanze era nella volontà di eliminare questo tipo di prassi consociativa che aveva dato luogo ad una distorsione delle relazioni sindacali interne alla P.A. incidendo sull’efficienza della loro attività. La norma prevede di sostituire queste commissioni di personale o organismi di gestione con forme e procedure di partecipazione, che verranno individuate dalla contrattazione collettiva. L’art. 44 non è un’eccezione all’art. 9 in materia di partecipazione, ma una disposizione “speciale”, in quanto evita l’insorgenza di pratiche distorsive.Oltre all’art. 44 va ricordata un’altra disposizione non modificata dalla riforma, ossia l’art. 6, il quale riconosce alle organizzazioni sindacali rappresentative ai sensi dell’art. 9 il diritto di essere consultate ai fini della definizione degli assetti riguardanti l’organizzazione e la disciplina degli uffici, e per le variazioni delle dotazioni organiche. Non è specificato di quali organizzazioni rappresentative si tratti, ma la norma introduce un vero e proprio obbligo di consultazione legale ed estende il momento partecipativo, per un aspetto (quello delle dotazioni organiche) che è direttamente riconducibile alla macro-organizzazione. Il che contraddice quanto detto in precedenza in tema di micro-

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organizzazione o organizzazione degli uffici e di gestione dei rapporti di lavoro dove il legislatore ha specificatamente stabilito che è possibile soltanto che la contrattazione nazionale preveda l’istituto partecipativo dell’informazione.

6. I PRINCIPALI PROBLEMI INTERPRETATIVI

La contrattazione collettiva ha previsto procedure di informazione, obblighi di esame congiunto, procedure di consultazione, prevenzione e raffreddamento di conflitti, modalità per la costituzione di commissioni paritetiche, con regole minuziose, finalizzate alla separazione di ruoli e funzioni tra organizzazioni sindacali e dirigenza. Però non sono mancate nella prassi contrattuale esperienze distoniche rispetto al sistema sopra descritto.Il legislatore in occasione della riforma del 2009 ha cercato di rinforzare il sistema sanzionatorio predisposto nel caso in cui si verificasse una violazione dei limiti fissati dalla normativa . L’art. 40 del D.lgs165/201 prevede che le pubbliche amministrazioni non possano sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinino materie non espressamente delegate a tale livello negoziale, specificando che nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge le clausole sono nulle e non possono essere applicate e sono automaticamente sostituite ai sensi degli art.1339 e 1419 del c.c.

7. I SOGGETTI DELLA PARTECIPAZIONE

Un problema importante che l’art. 9, anche nella versione post riforma, non affronta direttamente rimettendolo alla contrattazione collettiva, è quello che riguarda i destinatari dei diritti di partecipazione. Una scelta comunque coerente che ha rimesso alla contrattazione nazionale di comparto la disciplina delle modalità che consente alla RSU di esercitare in via esclusiva i diritti di informazione e partecipazione riconosciuti dalle disposizioni di legge o contrattuali. Scelta non dissimile è stata fatta dall’art. 44 che come abbiamo visto ha portato alla soppressione delle commissioni dei consigli di amministrazione sostituendoli con forme di partecipative definite dalla contrattazione collettiva. Sono diffusi organismi a composizione paritetica che svolgono una funzione ausiliaria rispetto all’azione contrattuale, di competenza dei soggetti negoziali.

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CAPITOLO 26: LO SCIOPERO DEI PUBBLICI DIPENDENTI

1. LO SCIOPERO COME DIRITTO COSTITUZIONALMENTE GARANTITO

In Italia lo sciopero è garantito costituzionalmente dall’art. 40, con tale articolo viene esclusa qualsiasi responsabilità penale del lavoratore, il quale può automaticamente sospendere il proprio rapporto di lavoro rifiutandosi di prestare attività lavorativa ed il datore di lavoro a sua volta può legittimamente sospendere il pagamento della retribuzione. La Costituzione non garantisce invece un corrispondente diritto di serrata di cui all’art. 41 poiché la serrata non sospende il rapporto di lavoro, ma costituisce un rifiuto di ricevere la prestazione la cui legittimità va valutata in modo civilistico secondo quanto previsto nella normativa sui contratti ed obbligazioni.Il rinvio alla legislazione ordinaria contenuta nell’art. 40 ha sollevato il problema della compatibilità con la legislazione restrittiva in vigore all’epoca dell’entrata in vigore della Costituzione (1948) ed in particolare con le norme penali fasciste del 1930 che punivano come reato qualunque forma di autotutela sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, sanzionando in modo più grave lo sciopero dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio.La Corte Costituzionale invece di dichiarare incostituzionali tali norme ha preferito operare selettivamente, valutando di volta in volta la conformità di ciascuna di esse con il diritto di sciopero previsto dall’art. 40 cost. ha così emesso una serie di sentenze c.d. “ manipolative” contribuendo per tale via a precisare i contenuti ed i limiti del diritto di sciopero.

2 L ’ELABORAZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE : LO SCIOPERO PER FINI CONTRATTUALI E QUELLO PER FINI NON CONTRATTUALI

La Corte Costituzionale già nel 1960 con sentenza, ha affermato la piena legittimità sia sul piano civile che penale della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 502 c.p. che lo vietava poichè in contrasto con l’art. 40 Cost.Successivamente in occasione dei giudizi di legittimità cost. degli artt. 503 e 504 c.p. , che vietavano lo sciopero a fini politici ed il similare sciopero di coazione della pubblica autorità, al Corte ha affrontato il problema procedendo ad una prima differenziazione tra lo “sciopero per fini economici-politici e lo sciopero politico in senso stretto” in tal modo:

1) a ritenuto legittimo lo sciopero per fini economici-politici quando viene effettuato al fine di rivendicazioni che riguardano interessi di lavoratori che trovano riscontro nelle norme costituzionali e sia dunque rivolto a contrastare interventi della pubblica autorità che riguardano le condizioni socio-economiche dei lavoratori ( vedi sciopero a seguito della riforma del sistema pensionistico);

2) mentre ha ritenuto illegittimo lo sciopero politico in senso stretto ( tipo contro un intervento militare all’estero) poiché non ha come obbiettivo la tutela di interessi economico-professionali dei lavoratori.

Ma ha peraltro introdotto una ulteriore differenziazione:- in linea generale in quanto trattasi di manifestazione idonea a favorire il perseguimento dei fini di

cui all’art 3 cost . (ovvero il diritto dei lavoratori alla organizzazione politica, sociale ed economica del paese) una siffatta astensione trova comunque protezione.

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- esiste tuttora un area vietata che è quella dell’astensione dal lavoro per fini politici ma tesi a “sovvertire l’ordinamento costituzionale” in tal caso essi sono punibili ai sensi degli artt. 503 e 504 del c.p

In base alle sentenze della Corte Costituzionale viene chiarito come il diritto di sciopero per quanto tutelato dall’art. 40 cost. sia soggetto a limiti esterni intesi nel senso che deve essere contemperato con altri diritti costituzionalmente tutelati come i diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza pubblica ecc., nel 1990 la Corte Costituzionale ha regolamentato lo sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali.Pertanto dall’entrata in vigore della costituzione e del relativo art. 40 non è mai stato realmente regolamentato il diritto di sciopero e lo spazio vuoto è stato riempito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza ordinaria.

4. IL CONTENUTO DEL DIRITTO DI SCIOPERO

A seguito della sentenza della Corte di Cassazione n° 711/1980 è stato definito il concetto di sciopero ovvero: “vuole intendersi come una astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori per il raggiungimento di un fine comune” .Secondo una elaborazione dottrinale non può essere considerato sciopero le forme anomale dello stesso tipo come, lo sciopero a scacchiera ed a singhiozzo poiché come detto prima doveva interessare una molteplicità di lavoratori e doveva arrecare un danno al datore di lavoro definito “ingiusto” poiché più che proporzionale rispetto alla mera perdita della prestazione lavorativa del singolo lavoratore.Ma la legittimità dello sciopero non può essere fatta dipendere solo dal maggiore o minore entità del danno alla produzione, poiché sono considerati illegittimi quegli scioperi che incidono non solo sulla produzione, ma anche sulla capacità produttiva dell’imprenditore poiché impediscono l’esercizio della sua libertà di iniziativa economica ed il diritto al lavoro di coloro che sono occupati grazie a quella iniziativa pertanto in contrasto con gli artt. 4 e 41 cost.

5. DIRITTO DI SCIOPERO E PUBBLICI DIPENDENTI

Anche prima della riforma del 1992 che ha privatizzato e contrattualizzato il rapporto di lavoro, i dipendenti pubblici godevano del diritto di sciopero così come previsto dall’art. 40 cost., l’unico limite imposto dal legislatore di negazione di tale diritto si ha nei confronti dei militari e degli addetti alla Polizia di Stato in ragione del pubblico servizio reso.

6. LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI, ORIGINI E CONTENUTO DELLA DISCIPLINA

Nel 1990 è stata emanata con il consenso delle organizzazioni sindacali la L.n. 146/1990 modificata in seguito dalla L.83/200 , la quale recepisce i principi cardine elaborati dalla Corte Costituzionale in materia di limiti esterni e riferiti al diritto di sciopero previso dall’art. 40 cost. con il diritto degli stessi cittadini ed utenti all’utilizzo dei servizi definiti dalla stessa costituzione come essenziali ed indispensabili.A tali servizi viene pertanto applicata la disciplina restrittiva dello sciopero così come definito dalla L.146/1990 ovvero dalla possibilità di garantire il godimento dei diritti della persona alla vita, alla salute alla libertà ed alla sicurezza.La finalità della legge è pertanto di contemperare il diritto di sciopero con tali servizi, la Corte Costituzionale nel riconoscere in generale il diritto alla astensione collettiva dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti, aveva sempre sottolineato la necessità che risulti sempre assicurata la tutela dei valori costituzionalmente garantiti.Conseguentemente il diritto di sciopero dei lavoratori addetti ai servizi essenziali è garantito nel momento in cui sono garantiti i diritti essenziali della persona e degli utenti, conseguentemente tali

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obblighi gravano non solo sui lavoratori ma anche sui datori di lavoro e sulla pp.aa. ed imprese erogatrici dei servizi.

6 LE PROCEDURE DI RAFFREDDAMENTO E CONCILIAZIONE E LA PROCLAMAZIONE DELLO SCIOPERO

Prima della proclamazione dello sciopero le parti ovvero il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali sono tenute ad effettuare le procedure di conciliazione previste negli accordi e nei contratti collettivi e qualora non intendano adottare tale procedura possono richiedere che il tentativo preventivo di conciliazione si svolga presso strutture pubbliche (Prefetture, Comuni ecc) .La proclamazione dello sciopero deve essere effettuata con un termine minimo di preavviso di 10 gg. entro il quale le parti sono tenute a comunicare per iscritto la durata dell’astensione dal lavoro, le sue modalità e le motivazioni.

7. LE PRESTAZIONI INDISPENSABILI; IL PRINCIPIO DI RAREFAZIONE

Sulle imprese e amministrazioni erogatrici del servizio e sulle organizzazioni sindacali che hanno proclamato lo sciopero grava l’obbligo di garantire le prestazioni indispensabili. A tale scopo è prevista la predisposizione di specifiche misure le quali possono disporre l’astensione dallo sciopero di limitate categorie di lavoratori ovvero di forme di erogazione periodica del servizio.Devono inoltre essere garantiti intervalli minimi tra effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo al fine di evitare che differenti scioperi eventualmente proclamati in successione da soggetti diversi siano idonei a compromettere la continuità del servizio.L’individuazione delle prestazioni indispensabili è affidata all’accordo tra le organizzazioni sindacali ed i datori di lavoro dove devono essere indicate le prestazioni da garantire all’utenza e gli strumenti e le modalità della loro erogazione e quanti e quali lavoratori devono essere esentati dallo sciopero.A garanzia del rispetto delle regole suindicate vi è la Commissione di Garanzia ed in caso di mancato accordo la stessa può adottare una provvisoria regolamentazione che rimane vincolante per le parti.A carico dei datori di lavoro vi è infatti l’obbligo di cooperazione per garantire l’effettuazione delle prestazioni indispensabili con precise modalità e tempistiche di erogazione delle stesse.

8. LE SANZIONI

In caso di violazione delle regole sopra descritte la L. 146/1990 precede a carico dei lavoratori, dei sindacati, dei responsabili delle imprese e delle amministrazioni ed enti che erogano i servizi apposite sanzioni, la cui applicazione è affidata alla Commissione di Garanzia.Nei casi di non rispetto delle sanzioni comminate dalla Commissione il datore di lavoro ne risponde pagando una sanzione amministrativa per ogni giorno di ritardo ingiustificato, nei confronti dei soggetti sindacali sono invece previste la sospensione dei permessi sindacali retribuiti e l’esclusione temporanea dalle trattative contrattuali. Nel caso poi in cui la l’organizzazione sindacale che ha proclamato lo sciopero illegittimo non goda dei diritti che dovrebbero essere sospesi, la legge prevede l’erogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.Anche i datori di lavoro e i pubblici amministratori sono soggetti in caso di violazione a sanzioni amministrative pecuniarie che vengono sempre deliberate dalla Commissione di Garanzia.

9. LA PRECETTAZIONE

La precettazione è il rimedio previsto nei casi in cui sussista il pericolo di un grave pregiudizio dei diritti della persona costituzionalmente tutelati che possono nascere dal non corretto funzionamento dei servizi pubblici essenziali. Il soggetto competente alla precettazione è il Presidente del Consiglio

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dei Ministri o un Ministro da lui delegato nei casi di conflitto di rilevanza nazionale, altrimenti tale competenza spetta al Prefetto.Alla Commissione di Garanzia spetta invece il potere di dare impulso al procedimento e di formulare proposte non vincolanti circa i contenuti dell’ordinanza di precettazione. L’ordinanza può disporre l differimento dello sciopero, la riduzione della sua durata, oppure l’osservanza delle misure idonee a garantire la salvaguardia dei diritti costituzionali della persona, essa deve essere emanata entro 48 ore dall’inizio dello sciopero al termine della procedura che prevede un tentativo di conciliazione tra le parti in conflitto. La sua violazione comporta l’applicazione delle sanzioni pecuniarie nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, ovvero la sospensione dell’incarico nei confronti dei responsabili delle amministrazioni , degli enti e delle imprese erogatrici del servizio.

10. LA COMMISSIONE DI GARANZIA

Tale commissione riveste un ruolo centrale nel sistema della L.146/1990, ad essa infatti sono riconosciute importanti funzioni circa la valutazione dei contratti e degli accordi, l’indicazione della provvisoria regolamentazione , la promozione degli accordi , l’esercizio di poteri consultivi e sanzionatori.Le competenze e le modalità di designazione dei suoi componenti avvengono mediante nomina con Decreto del Presidente della Repubblica e sono scelti tra esperti di diritto costituzionale, diritto del lavoro e relazioni industriali e sono una autorità amministrativa indipendente. Le sue deliberazioni sono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale.

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