Il doppio - Doppelgänger

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IL DOPPIO

PROLOGO

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CAP I Una stanza bianca e un piano nero

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CAP II L’incrinatura

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CAP III Il periodo del genio

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CAP IV L’esterno capovolto

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CAP V Fuga

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CAP VI Il giardino

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L’ultimo accordo vibrava ancora con un impercettibile movimento ondulatorio. Si levava e abbassava sul dorso di un serpente senza testa né coda che si stendeva sinuoso e armonico nel vuoto. Il suo movimento era costante nello spazio indefinito e scandito da anse di volta in volta più ampie. Sorgeva e sprofondava come un’onda lanciata verso una sponda irraggiungibile. Sollevava dal profondo la pesante massa delle sue acque che riversava continuamente senza esaurirsi nella tensione di un’azione culminante e mai compiuta. L’accordo scivolava lungo le linee parallele delle corde del pianoforte verso l’infinito matematico, dove s'incontravano. Ogni cosa distante trovava unita in quel punto e tutto si ricomponeva. Alexander Nibyarekis sentiva il suono scendere nel gorgo del suo orecchio e spegnersi sul timpano dove lo sovrastava il pulsare del sangue. Mentre l’accordo scemava, cresceva la sensazione del freddo sul corpo bagnato di sudore e la febbre e lo sfinimento si concretavano nel sale. La tempia premeva contro i tasti d’avorio altrettanto pallida e bianchissime le nocche coronavano i pugni. Alexander teneva gli occhi fissi nello specchio dal quale lo osservava il suo demone: fantoccio, grottesca imitazione d’uomo; che, curvo e scomposto, poggiava

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il capo su una bara in forma di piano. La Morte gli sedeva sulle spalle e gli accarezzava il collo. Il volto ricco del demone che lo aveva guardato tra una folla di visi aridi e tra luce e ombra, ora si mostrava, per completare il cerchio delle sue apparizioni, come opulenza creativa, sguardo da visionario, febbre ed esaurimento; rivelava, in fine, di essere il volto di Alexander che si copriva di morte come un velo che si abbassa, come polvere che ricopre, come falso che nasconde il vero. Qualcosa di vitale, che era stato dimenticato, ritornava a galla troppo lontano perché si potesse afferrare ...

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Attraverso il vetro, leggermente ondulato, della porta, il bambino che suonava il pianoforte appariva come un riflesso nell’acqua. Dalle finestre proveniva la luce verde, degli alberi sottomarini e ondeggianti del parco, che riempiva la stanza dai muri bianchi e dal pavimento di marmo. Il piano a coda spandeva e contraeva il suo nero accanto al piccolo musicista. Enormemente distante, come poteva coglierlo il pensiero, lo strumento troneggiava tetro ed elegante all’interno dello spazio chiuso delle pareti, nella stanza bianca, o nulla conciliante, immerso nel tempo: uniforme soluzione di episodi trascorsi dal momento in cui Alexander aveva iniziato a ricordare, al momento ricordato, e nel suono, che costituiva la sostanza di quel tempo. Avvolto dai teli del vuoto, della distanza, del ricordo e del suono, lo strumento non sfumava i suoi contorni e non perdeva il sinuoso andamento del suo legno, ma colmava l’estensione. Era una massa imponente, un oggetto fisso e dominante. Il piano, come ora lo conosceva il giovane, sembrava, anche nel ricordo, un despota seducente e portatore di morte e sfondava il bagliore della memoria, sebbene nel passato fosse stato soltanto un’ombra accucciata ai

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piedi di Nibyarekis bambino e docile al suo tocco; un’ombra che espandeva e contraeva il suo nero, capace d'inghiottire. Le prime volte, seduto accanto allo strumento, Alexander aveva sentito delle affinità fra quel pulsare e la forza da cui si sentiva tendere. Aveva frugato le note più grevi ed estese e le più acute e profonde; dilatato il suo pensiero facendolo suonare attraverso l’ebano come una voce. Aveva esercitato la capacita di creare e con essa che era la parola efficace, la formula per agire sulla realtà, per modificarla, adattarla a sé, per evocare all’esterno il proprio interno. Onde, moto sommerso di maree e fondale sconosciuto, il pensiero, il sentimento e l’anima, che erano i soggetti di un ambiente fluttuante in sintonia con l’esterno, si erano riversati fuori dal varco della musica. Un’inondazione vivace e incontrollata aveva caratterizzato da allora tutta l’infanzia di Alexander. Ogni volta che egli si sedeva allo strumento, dal centro della sua mente una luce si diffondeva, tremava un riverbero, si proiettavano visioni e poi esplosioni, in un fremito frenetico. Con fiducia accompagnavano l’artefice che destava ogni cosa per se stesso, per modificare lo spazio reale col proprio immaginario. La musica era un’invenzione che riempiva ogni angolo della stanza, percuoteva i vetri

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e sfuggiva espandendosi per poi collassare e sparire nella mente, quando le corde del pianoforte tornavano immobili. Nonostante il cambiamento non sembrasse permanente perché prodotto in solitudine, dal momento che Nibyarekis ebbe modo di essere ascoltato da un pubblico sempre più vasto, si accorse che le sue esecuzioni al pianoforte erano un prodigio capace di scuotere e mutare l’animo delle persone. Durante i suoi studi al Conservatorio non mancò mai di notare quanto fosse differente l’effetto del suo modo di suonare, poiché nessuno come lui poteva scavare nel corpo degli altri delle celle così ben costruite da conservare per lungo tempo le amozioni e i pensieri da lui instillati. Comunicare e creare, pertanto, vennero a costituire per Alexander il più grande entusiasmo, proprio perché era certo di poter materialmente trasferire il suo sentire senza diminuirlo, bensì amplificandolo.

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Era ancora lontano, tuttavia, dal sentirsi appagato. Se fosse riuscito soltanto a trasmettere anche il terzo dei soggetti: l’anima, così da poterla contemplare negli altri e conoscerla; come si fa con il proprio volto che rimarrebbe sconosciuto se non fosse riflesso, la sua ricerca avrebbe avuto valore. Per realizzare quest'aspirazione, Alexander pianificava l’andamento della sua volontà matura, fra fissità e variazione, con complicati intrecci di segni neri su linee e fra spazi, componendo. Spartiti e spartiti si accatastarono per soddisfare la trascrizione di una creazione desiderata e naturalmente penetrante, che fosse capace di mutare gli ascoltatori, lasciandoli incoscienti di essere lo strumento di un’analisi insolita e il bersaglio di tanta determinazione. Ogni composizione di Nibyarekis, perché lo avvicinasse al suo obiettivo, era costruita con un’approssimazione sempre maggiore alla struttura e ai meccanismi del suo intimo, attraverso una febbrile introspezione e un accanito discernimento che ne distillassero l’essenziale. La profondità e la robustezza delle esecuzioni delle opere di Nibyarekis avvincevano l’auditorio, sebbene inconsapevole della loro origine. Poiché lo spirito era l’elemento che materialmente s’insinuava in coloro che,

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sempre più folti, affollavano i concerti del maestro, la spinta libera era anche ciò che per lui doveva appartenere alla sua anima come una catarsi. Non sapeva, ancora, quale fosse l’acme, né si accorgeva di suonare non tanto per comunicare, quanto per esprimersi, non tanto per dare, quanto per prendere, per godere della sua capacità modificare: mutare gli altri secondo il proprio volere. L’immagine della sagoma nera nella stanza bianca e del verde promettente degli alberi stava scomparendo.

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Benedetto fronteggiava con lo sguardo limpido l’immota densità della nebbia. Il suo volto era levigato dal grigiore del giorno e l’alone del suo respiro appariva e scompariva lentamente dal vetro. Teneva le mani appoggiate in alto, agli stipiti della finestra e, poiché entrambe mostravano il dorso in ombra contro la luce, sembravano assai magre. Tutta la figura del giovane appariva fragile rispetto alla monotonia del tempo che sembrava essersi fermato. Alexander osservava l’amico chiedendosi se il suo tranquillo ottimismo riuscisse a scorgere qualcosa all’esterno che sfuggisse al tedio dell’immobilità. Tutto era fermo e il pregio di quella giornata era di non mentire sulla realtà. Era un tempo fatto per riflettere e Nibyarekis aveva ponderato la sua volontà e le sue azioni confrontandole con il giorno immoto. Aveva così scoperto che la pretesa di mutare qualcosa col proprio lavoro era un’illusione.

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Ciò che si era sforzato di trovare, infatti, e ciò che aveva creduto di costruire costituivano delle espressioni equivalenti alla parola “inutile”. La presunzione di essere importante perché capace di incidere sugli altri era stata un vaneggiare di cui ora provava vergogna. Arrossì e, distogliendo lo sguardo, incontrò il sorriso di Raffaele. “Peccato, avevo quasi terminato.” Gli disse questi con il suo forte accento straniero e gli mostrò lo schizzo a matita che ritraeva Alexander al pianoforte: lo spigolo del gomito appoggiato allo strumento, la mano che sfiorava i fogli dello spartito, la testa inclinata. Nibyarekis nel disegno era assorto e il chiaroscuro rendeva evidente la tristezza da cui era invaso. Alexander aveva sempre apprezzato la sensibilità di Raffaele, capace di entrare in sintonia con i suoi sentimenti, questa volta, tuttavia, commento infastidito, quasi a schermirsi: " È cupo!" Il sorriso di Raffaele incespicò, per un attimo, nella comprensione; si alzò, si accostò a Nibyarekis e lo guardò proprio come Benedetto stava accanto ai vetri freddi e guardava la nebbia. Entrambi fissavano gli occhi con tenerezza

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e famigliarità in un mondo lontano il cui centro era impossibile scorgere. Si sentivano attratti dal vuoto che piano piano si era aperto, quel giorno, di fuori e nell’intimo di Alexander, nelle ore silenziose che avevano trascorso insieme. Nel fare ciò non avevano considerazione per la tristezza che ne fuoriusciva, ma si accostavano con piacere a quella visione perché ne ricevevano un insolito senso di pace, come chi si acquieta ammirando lo spegnersi della sera. Raffaele sapeva di assistere al tramonto di qualche spirito nella vita di Alexander, ciò non lo turbava: era la traccia di un mutamento che avrebbe prodotto una crescita. Nibyarekis era un genio della musica, un musicista d'ineguagliabile talento, aveva un successo mondiale e ogni cosa era merito della sua estrema sensibilità che continuamente si rinnovava. Nonostante Nibyarekis avesse sofferto numerose crisi dell’ispirazione, mai si sarebbe potuto abbattere. Il vuoto che Raffaela intuiva non poteva restare tale perché si sarebbe colmato naturalmente. Come l’acqua non può che entrare in recipiente sommerso dal quale sfuggano una dopo l’altra grosse bolle d’aria, così una sinfonia nuova avrebbe riempito l’animo di Alexander, immerso nella musica, dopo che ne erano uscite

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composizioni tanto sublimi. A tal punto la coscienza della propria mediocrità quale pittore aveva spinto Raffaele. L’artista argentino, sognatore e confuso, nutriva la più completa fiducia nel genio di Nibyarekis che, invece, affogava. Raffaele nel suo fraintendimento, non indagava le forze che avevano tagliato una ferita nella mente del musicista, ma rimaneva all’esterno come Benedetto stava all’interno della stanza, a guardare la nebbia. Da parte sua, Alexander non aveva pensato di confidare la propria angoscia ai due amici, poiché per uscirne, fino ad ora, gli era bastata la loro presenza. Si era riposato ora sull’intelletto di Benedetto, ora sull’animo di Raffaele ed era riuscito, in questo modo, a fuggire dal carcere dei propri ragionamenti. Per eludere il proprio affanno aveva seguito la loro vita, con placido interesse, fra cose note e ignote. Si era sovrapposto camaleonticamente a entrambi per scomparire e intanto osservare le virtù che più invidiava: la capacità di Benedetto di stare saldo e ritto nella monotonia, di tenere sempre uniti e presenti i frammenti del suo Io nel vago e nell’incerto, e le contraddizioni di Raffaele che negavano la possibile uniformità. Raffaele era animoso e dolce, irrequieto e

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pigro, entusiasmante e tetro. Era bello vedere infranti dai propri amici i limiti del fisso che, in quel momento, lo angustiavano. Alexander guardò lo spartito, le cinque rette che scandivano la stessa distanza di quiete silenziosa

ed armonica, e le linee verticali che battevano la regolarità del tempo. Vi collocò i segni neri delle note come mosche sulla carcassa di un tedio tangibile. Nauseato dalla propria inerzia, posò lo sciame sulla carta come aveva imparato a fare, secondo uno schema legato in ogni suo punto, articolato, ricco di patos e contrasti, sebbene la spontaneità e la ragione del suo produrre fossero ormai finiti. Quando contemplò l’ultimo movimento del concerto, il cielo cominciava a scurire. Riordinò l’uno sull’atro i fogli e consegnò il plico agli amici perché portassero a stampare quella carta scritta che non aveva più legami con lui.

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Rimasto solo, sprofondò nuovamente nel malanimo e nell’insoddisfazione. Il pianoforte, silenzioso e altero, sembrava deriderlo per il suo lavoro che di giorno in giorno si svuotava di sentimento e diventava meccanico e ripetitivo. Era una conseguenza inevitabile del fatto che la spinta originaria fosse cessata e il moto avesse iniziato a esaurirsi contrastato dall’attrito di

un’indole troppo greve e del peso dell’incertezza. Le illusioni, troppo esposte all’impatto con l’aria si erano staccate come ali nella frenesia della corsa. Alexander si trovava appesantito. La ruota della creazione, pertanto, rallentava ed il ciclo della sua giornata: desiderio-pensiero-studio-esecuzione-mutazione-conoscenza, si frammentava. Alla mutazione non seguiva la conoscenza, allo studio l’esecuzione, al pensiero la studio. Ciò che lo spezzava irrimediabilmente era l’assenza del desiderio. Alexander aveva perso la capacita di desiderare e, con essa, il tempo a venire. La ruota si doveva necessariamente fermare perché aveva di fronte un muro. Col lavoro assiduo delle sue composizioni il

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musicista non aveva costruito nulla che aprisse una strada o gli apparecchiasse uno scopo. Non poteva, ora, ne negare l’evidenza ne vivere ancora la vita degli altri per disertare la propria perché di fronte all’assenza di attese era scomparso il desi-derio. La sera del 27 novembre, salendo i gradini che lo portavano sul parco, Nibyarekis pensò che da qualche tempo, ormai, teneva concerto non per sua scelta ma perché cosi, gli era imposto dagli obblighi verso i suoi amici, il suo impresario e il pubblico. Aveva accettato questa situazione insieme alla consapevolezza che la sua musica non potesse mutare gli altri, ma non aveva mai dubitato di poter leggere negli ascoltatori quello che di sé ignorava. Se si fosse ingannato anche su questo, l’essenza del suo intimo gli sarebbe rimasta vietata. L’idea che ciò fosse possibile lo fece vacillare. Alzò lo sguardo verso i palchi coperti di stucchi bianchi e dorati, gremiti di sagome scure e verso la pioggia di cristalli del lampadario acceso al centro del teatro, dal quale sembrava provenire più calore che luce. Sotto gli archi sovrapposti dei palchi, separati da sei raggi rossi, erano cinque

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mosaici brulicanti di volti. Tutto ondeggiava nel silenzio dell’attesa e Alexander avrebbe voluto riflettersi in qualche sguardo per dissipare il dubbio che lo aveva assalito, ma i suoi passi afoni lo portarono, invece, attraverso il bollente tappeto cremisi, allo strumento che lo attendeva e mostrava i fogli abbacinanti dello spartito. Si sedette, perciò, e restò immobile a capo chino, infastidito dalle persone che riempivano il teatro. Per tanti anni, iniziava a convincersi, le aveva inutilmente plasmate a sua somiglianza, con la musica, perché gli rivelassero l’invisibile: impossibile aspettarsi che una statua profferisca parola anche s e scolpita da sembrare reale. Aveva certo percosso senza ragione quelle persone perché i loro volti gli parlassero dal mo-mento che la musica li attraversava, li scavava, li imbeveva lasciandoli diversi ma loro si ostinavano a restare muti. Loro sapevano chi fosse ma volevano negargli anche il più piccolo indizio rivelatore dell’essenza di Nibyarekis. Alexander si scioglieva in un succo, un elisir, per trasmettere la propria vita agli altri e si aspettava, per riconoscenza, che questi lo digerissero e lo rigurgitassero rendendolo appetibile a lui il cui stomaco, altrimenti,

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non avrebbe potuto tollerarlo. L’allegria del lampadario si spense per chiedergli, con quel gesto rispettoso, d’iniziare il concerto. Un cono di luce piovve su di lui per esaltarlo e, al contrario, lo isolo e intrappolo nell’aria scottante della sua paralisi. Il caldo era ancora più sensibile in contrasto con la fredda lama che apriva la ferita dalla quale fuoriusciva, senza poterlo trattenere, il desiderio. Nell’ombra s’intuivano visi asciutti, statici, pietre inespressive. Per loro il concerto sarebbe stato moribondo e scemo perché, in una nebbia informe, si perdevano i vecchi sentimenti, le folli aspirazioni e i disegni cervellotici abbandonati per ribrezzo e, ora, definitivamente dal musicista. Il brano che stava eseguendo, infatti, sembrava ad Alexander tanto lontano da se, che lo aveva composto, da costringerlo a inseguire continuamente le note sullo spartito: azione che lo sollevava e lo distraeva da sguardi diventati schermi, membrane semipermeabili che assorbivano tutto e a tutto impedivano di uscire. Alexander li osservo con delusione. Erano diversi eppure identici, omogenei fra le strisce rosse e gli stucchi dorati. Non si erano accorti che Nibyarekis era alieno alla sua musica? Perché suonare ancora?

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Di colpo il suo sguardo precipitò sul volto, l’unico fra quelli visti, che gli parlasse. Una parola, finalmente, che annunciava una qualche umanità scomparsa dagli altri volti, una qualche affinita che non lo rifiutasse, sperimentata in passato e assente nel presente. Fra le persone che erano involucri, gusci, alla fine, vi era chi andava tanto oltre l’apparenza e la fisicità da essere una mera presenza. Reale o possibile che fosse, chi gli stava davanti sembrava promettergli l’assurdo. Quando non lo animava più neppure un inganno, ogni certezza e disillusione di Alexander veniva capovolta. I fogli dello spartito si sparsero sul tappeto cremisi. Alexander continuò l’esecuzione improvvisando sul tema, senza fatica, come una liberazione e senza pensare, come se la melodia fosse strappata da qui due occhi lontani e lucidi come specchi. In quelle due sfere riflettenti la vedeva muoversi, crescere forte, nutrita dalla commozione, e vedeva una nota amara, il guizzo di una voce secca, dolore e piacere, bene e male, uniti e inscindibili negli accordi. Un canto sottile si diffuse per il teatro, un profumo dolce scisso dal gelo infinito di un rincorrersi di note. al disotto si stendeva un murmure fosco come un abisso profondo.

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Alexander, per la prima volta, intravedeva se stesso ma, per sua eccesiva impazienza e per inesperienza, tornava a perdersi.

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Sarebbe stato logico pensare che non lo avrebbe più rivisto. Quante possibilità aveva di ritrovare nei suoi concerti il volto di uno sconosciuto fra la folla degli auditori? Gli sembrava di non ricordare quel volto, la sua forma, i suoi tratti, se le orecchie fossero piccole e gli zigomi forti. Gli occhi soltanto ancora li vedeva, sospesi: due fuochi fatui che svelavano una presenza nascosta. Gli occhi di un incantatore che crea un mistero non celando completamente ma mostrando poco per disorientare, per tenere avvinta a sé l’attenzione dell’incantato. Ciò che gli era nascosto, la propria essenza, Alexander lo vedeva in quegli occhi e, tuttavia, non riusciva a contemplarlo con la ragione. Doveva, dunque, oltrepassare la porta perché la sua vista, non più offesa dalla luce, si adattasse all’oscurità diradandola; doveva entrare e iniziare il cammino verso il punto ignoto, senza fretta, imparando gradualmente a distinguere la sostanza fra le ombre. Sarebbe stato un atto sconsiderato, dettato da un’incomprensibile fiducia, poiché penetrare nel nero di quelle pupille, per dirigersi verso la propria immagine riflessa, significava perdere la propria volontà; annichilire il pensiero razionale, il calcolo, lo studio, umiliarli con la meraviglia dalla quale si lasciava condurre.

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Da quei bulbi oculari germogliava una conoscenza ed era contenuta una forza che lo tenevano legato a loro e al destino; Alexander era vittima di un sortilegio che gli confidava il futuro e lo seduceva ad agire avventatamente e a suonare improvvisando. Tutto sembrava a portata di mano, bastava afferrarlo prima che svanisse e svaniva non appena si cercava di capire. Sarebbe stato logico considerare assai remota, se non impossibile, la presenza continua di quel volto a ogni concerto, ogni sera, in ogni citta e Paese dove Nibyarekis era atteso, eppure Alexander era certo che sarebbe stato presente e che lo avrebbe notato fra tutti.

Ogni volta poté scorgerlo, immerso nel pubblico, rivolto verso di lui, mostrare apertamente il suo inganno. Alexander temeva di aggiungere a esso il proprio, sovrapponendo l’illusione di vedere il volto a quella dell’incanto prodotto dai suoi occhi. Più volte cercò di descrivere a Benedetto e a Raffaele lo sconosciuto dal quale, ora, faceva dipendere tutta la propria opera, perché lo identificassero, gli dessero la consistenza sufficiente a trattenerlo, a impedire che la corrente delle persone lo trascinasse fuori, dopo il concerto, nelle strade.

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La figura dello straniero sembrava così leggera da essere spezzata dallo scroscio degli applausi e risucchiata dallo spostamento d’aria prodotto dall’ammassato dirigersi degli spettatori verso l’uscita. Alexander era irritato da tutte quelle presenze, non fosse stato per loro, lo sconosciuto, solo, i contorni delineati, si sarebbe fatto conoscere. Nibyarekis lo avrebbe potuto fermare e d avrebbe rotto l’incantesimo che lo nutriva per indagarne la natura, trovare la realtà dietro all’illusione, oppure, inaspettatamente, cosa da folle, avrebbe continuato a credere nella materia del sogno e a camminare nel buio della stanza la cui porta era il misterioso individuo. Si era già addentrato per molti passi nell’oscurità lasciandosi alle spalle l’uscio. Il battente poteva essere rimasto aperto per permettergli in ogni momento di riemergere alla luce, per garantirgli che la permanenza nella stanza fosse una sua scelta, ma poteva essersi chiuso intrappolandolo, costringendolo a guardare nelle tenebre, ad aggirarvisi senza fine. Il dubbio, ingigantito alla dimensione di una tentazione biblica, tormentava Alexander che, tuttavia, non osava voltarsi verso la soglia perché temeva di tramutarsi in sale.

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Il bisogno di entrare nel nero di quegli occhi, che rispondevano ai suoi desideri, era per Alexander così pressante da farlo sentire predato. La sua paura era quella di chi si trovi innanzi, spalancato, qualcosa di straordinario che trascenda la com-prensione. Era la soddisfazione dei suoi desideri così immediata a spaventarlo tanto quanto, al principio, lo aveva entusiasmato. Benedetto bussò varie volte al camerino senza avere risposta, quindi si decise a entrare. Trovò Alexander su una seggiola, quasi rannicchiato, col capo fra le mani: era evidente la sua sofferenza. Benedetto gli chiese se dovesse annullare il concerto e Nibyarekis diede un cenno di assenso ma rifiutò di vedere un medico. Per la prima volta rinunciò a suonare. Resto per lungo tempo in compagnia di Benedetto senza avere il coraggio di confidargli la sua ossessione e senza parlare, nonostante lo sguardo limpido dell’amico si posasse su di lui consolatorio. Il musicista si sentiva posseduto e, poiché ciò soddisfaceva la volontà, avrebbe voluto confessare se non fosse stata più la

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vergogna di scoprirsi, di raccontare ciò che provava. Un’unica figura gravitava ogni pensiero di Alexander e riempiva a tal punto la mente da farlo sentire lontano dagli altri affetti. Il camerino stretto e giallo di luce elettrica iniziava a nausearlo. Si fece, quindi, accompagnare all’aperto e per le strade umide cercò un po’ di sollievo. Benedetto lo rassicurò riguardo al concerto annullato, offrendosi di sistemare di persona ogni cosa: per la serata persa e per le successive che avrebbe rimandato, avrebbe addotto come scusa il cattivo stato di salute del compositore. “ La causa vera, spero, me la vorrai dire, perché temo sia più grave di un malessere fisico.” Sebbene Benedetto, con queste parole, avesse inteso offrire il suo aiuto, Nibyarekis non poté evitare di irrigidirsi come davanti a una minaccia e, quando giunsero al palazzo dove Alexander aveva trovato alloggio per l’inverno, il musicista si affrettò a scomparire attraverso la bocca nera del portone che si apriva nella pesante facciata. Le massicce figure di due colossi in marmo osservarono Benedetto tornare sui suoi passi.

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Alexander entrò, ripose il cappotto nell’armadio, appese la giacca e buttò la cravatta sul letto. Mentre si slacciava i polsini e il collo della camicia andò nella stanza del pianoforte. Si fermò un istante a contemplarlo: suo strumento e suo padrone. Il capo gli doleva fortemente. Premette le palme sugli occhi, poi passò le dita tra i capelli fino alla nuca e le intrecciò sul collo portando indietro la testa. L’immagine persisteva. Alexander si sedette al pianoforte e iniziò a suonare un motivo sottovoce. La notte era chiara e gelida. Un fioco bagliore illuminava la stanza creando profonde ombre. Fra il buio e la parete pallida, Alexander vide qualcuno che lo fissava. Il piano, dunque, non era il solo demone, un nuovo demone gli stava di fronte, sfumato dal debole chiarore e dall’oscurità, due fuochi fatui lo guardavano. La sua ossessione era con lui com’era naturale che fosse, come un simulacro.

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Il demone era entrato nelle ore tarde, non visto, silenziosamente, muovendosi come un ladro. Come uno spettro era strisciato nelle fessure e sui muri per apparire nel chiaroscuro della stanza. Ora che si trovava vicinissimo ad Alexander dimostrava di non essere immateriale, di essere tangibile. Il suo corpo aveva peso, aveva muscoli e nervi, le sue mani portavano il disegno, azzurro e lievemente in rilievo, delle vene. Il demone respirava: il suo petto si alzava e si abbassava velocemente come stretto dalla stessa ansia di Alexander che esitava a guardare quel viso. Nonostante il musicista potesse veder che chi gli stava di fronte fosse reale quanto lui stesso, il modo in cui aveva sperimentato la sua presenza prima e in quel momento continuavano a procurargli un senso d’irrealtà.

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Il volto del demone era teso e leggermente pallido, gli occhi castani, scuri e lucidi come specchi, lo scrutavano nello stesso modo. Nelle grosse pupille nere Alexander poteva distinguere il proprio riflesso e il demone se stesso in quelle di Nibyarekis. Al pari di due specchi collocati l’uno di fronte all’atro, che si riflettono vicendevolmente e riflettono con l’atro specchio la propria immagine in esso contenuta, il demone e Alexander vedevano se stessi e l’infinito tunnel che sfondava la possibilità di distinguere davanti e dentro di loro. Una vertigine li precipitava nel vortice dell’immagine dentro l’immagine, ma, se Alexander in quella frammentazione trovava se stesso, il demone cosa trovava? “Perché sei qui?” chiese Alexander, senza accorgersi di rompere il silenzio, all’alone di luce che formava il semicerchio di una palpebra, la pelle liscia di una guancia, le vene sul dorso delle mani del demone. Una voce inconsueta e intima gli sussurro la risposta. “Per la tua musica.” “La mia musica?” disse Alexander, quasi con disprezzo, mentre si voltava verso il pianoforte nero come la notte, il male, la delusione.

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“La mia musica?” ripeté accarezzando i tasti con la consapevolezza che la musica era ciò per cui viveva. Il demone cercava il legame immateriale, la sostanza astratta, le onde sonore inafferrabili, che potevano essere possedute solo nel momento dell’esecuzione, nell’attimo in cui erano prodotte e svanivano. Senza l’esecutore, l’artefice, nel solo momento della creazione, quell’arte era inesistente. Il demone cercava Alexander senza il quale quella musica non poteva sussistere, non si poteva conservare né trasmettere. Alexander ritornò al suo strumento e iniziò a suonare lasciando sfuggire una nota dopo l’altra senza pensare, per ore, entrando a poco a poco nel dormiveglia. Continuò a mantenere viva la melodia quasi neanche ascoltandola. La luna tramontò e l’oscurità divenne perfetta. Intorno a sé Alexander non percepiva altro che la presenza del demone e la musica che li univa. La musica innanzi tutto.

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Un vortice ruotava a spirale di curva in curva sempre più stretto. Magnetico e ipnotico, spingeva a seguirlo nel suo moto quando sprofondava e s’inabissava e quando s’innalzava vertiginosamente. Il vortice era per Alexander lo sguardo sulla propria immagine, su quella dentro a questa, su un’altra ancora e un’altra sempre più piccola, una dentro l’altra. Le immagini diventavano un gruppo indistinto di macchie, poi una sola macchia dal colore indefinito, quindi un punto senza colore e senza dimensione, uniformità assoluta e non quantificabile essenza. Alexander vi si chiudeva attorno, annullati lo spazio e la molteplicità, per contenere il liquore più intimo della sua anima: la musica. Il liquido inebriante era abbracciato e custodito contro ogni possibile perdita o diffusione perché se fosse trapelato verso qualcosa, avrebbe manifestato l’esterno e il diverso. Alexander, che nel proprio sistema di riferimento: il vortice, poteva percepire attorno a sé solo la propria proiezione, avrebbe dunque assistito al capovolgimento del suo mondo, la musica avrebbe sfondato il cielo e lacerato il velo, dimostrando la sottigliezza e l’inadeguatezza del vetro che la doveva contenere. L’ampolla nella quale Alexander l’aveva posta a fermentare era, infatti, l’illusione.

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Ponendo uno specchio di fronte all’altro, il demone aveva creato in un punto, l’infinita serie di sovrapposizioni, di convergenze e di simmetrie che costituiva l’equilibrio di quell’illusione, la parete del cristallino sotto la quale si rimescolava e cresceva il concentrato prezioso. Il demone aveva puntellato l’empireo al cui fuoco cuoceva la musica. Nelle ore di oscurità completa, Alexander strinse il suo falso cielo sotto al quale la sua musica digeriva i germi di una composizione risolutiva.

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Un vapore plumbeo si gonfiava dal cielo verso terra oscurando il mattino. Le automobili come animali spaventati e guardinghi, si muovevano fra il bianco della neve che copriva l’asfalto e quello dei fiocchi e spingevano davanti a loro i coni paglierini dei fari. Raffaele si trovava nel branco, sperduto tra il candore, e concentrava la sua attenzione oltre il parabrezza che i tergicristallo stentavano a tenere pulito. Attraverso la ragnatela ghiacciata del lunotto, finalmente intravide la stradina che si affacciava sull’autostrada e si perdeva nella foschia verso i boschi. Il tic-tac delle luci di posizione guastò, con la sua concretezza, l’onirica bellezza del paesaggio, mentre l’automobile, sbandando, leggermente in curva, s’infilava per quella via e, dopo una ventina di minuti, nei boschi. La neve aveva incrostato gli alberi per tutta la loro lunghezza sul lato contro vento, rendendoli ancora più scheletrici.

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L’automobile salì un dosso, scese in una valletta, deviò per un viottolo e si fermò in una radura davanti ad un cancello di ferro scuro dl doppio battente. I fiocchi presero a cancellare dal parabrezza l’immagine delle lance nere che collegavano i pilastri in cemento e del grande alloro le cui fronde si piegavano sotto il peso della neve. Sotto di esse la terra si mostrava nuda e il suo colore intenso bastava a suscitare un senso di calore. Raffaele chiuse la portiera, lasciò cadere le chiavi in tasca e aprì il cancello di ferro facendo forza contro lo strato bianco. Lasciò la stretta sul ferro come scottato, tanto era freddo. Si strofinò le mani arrossate e vi alitò sopra producendo una densa nube di vapore, subito dispersa dal vento. Mentre camminava, il suo respiro si materializzava a intermittenza ed era sospinto lontano nel giardino che era cristallizzato da una spessa coltre in forme ondulate e inquietanti. Le decorazioni liberty della villa, in fondo al viale, sovrastavano come occhi tristi quelle masse immobili e, vuote e spalancate, attendevano il giovane che si avvicinava.

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Quando Raffaelle entrò nella villa, un odore di marcio lo investì col calore. L’odore della polvere e dell’abbandono e l’impressione netta della violazione lo accompagnarono per il corridoio buio fino al salottino, dove l’ampia porta a vetri, che dava sul giardino, era grondante di condensa. Il desiderio, pertanto, di trovare sollievo nel tenue disegno del paesaggio all’esterno, fu frustrato dai vetri ciechi che contribuirono, al contrario, ad accrescere l’oppressione. Le fiamme del caminetto, inoltre, rendevano l’aria della stanza soffocante, sebbene non sembrassero sgradite a Nibyarekis che dormiva sul divano, proprio dinanzi al fuoco.

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Raffaele guardò le stigmate lasciate sui muri dai dipinti staccati, che circondavano, spettrali, il pianoforte. Lo strumento dominava il centro della stanza e conservava, nello squallore, il suo aspetto impeccabile. Lucido e nero, rifletteva le vampe guizzanti compiacendosi di sembrare un miraggio, la presenza illusoria di qualcosa di lontano, il soggetto di un quadro metafisico. Alexander si destò, si alzò e posò sull’amico uno sguardo torbido che l’altro preferì non sostenere. “Sto conducendo una vita poco serena e poco onesta.” disse e Raffaele tornò a contemplare la superficie lucida del pianoforte. La stanza vi si rifletteva distorta dalle anse e incupita dal nero laccato; sembrava l’interno in dissoluzione della casa degli Usher e, come nel racconto di Poe, altrettanto carica di attesa e di timore. “Che cosa hai visto nei miei occhi che ti disturba? - chiese Alexander e aggiunse con noncuranza - Probabilmente solo la risacca, ciò che si é abbattuto e rifluisce al mare.” Raffaele rabbrividì sentendolo parlare come un pazzo e si sentì stringere ulteriormente dalla pena ma Nibyarekis si sedette al pianoforte e continuò a parlare con una sincerità ripugnante.

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“ Se mi vedi consumato e prosciugato nella mia solitudine e perché su di me e sceso l’inverno.” si passò una mano sul volto. “E’ calato con il pallore ascetico dalla neve che, seppellendo, ridà purezza. Sono un asceta che persegue la mortificazione dell’istinto della comunicazione e delle passioni.” La luce livida dell’esterno colava su Alexander come la biacca, dipingendo le sue stesse parole. Il riverbero del fuoco, sebbene si riflettesse amplificato sul nero laccato del piano, pareva rispettare i desideri del giovane e non lo lambiva.

“Voglio diventare freddo come il ghiaccio. Voglio incubare il mio animo come fa la neve con l’humus. Voglio tenerlo caldo col mio gelo e lasciare che dalla sua putrefazione si formino coaguli vitali.”

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Non era pazzia, nonostante fosse espressa come tale, piuttosto un fermo proposito che, tuttavia, spaventava Raffaele ancor di più. “Che si cagli come il latte - proseguì Alexander giacché il suo interlocutore era ammutolito davanti alla sua enfasi - o si raggrumi come il sangue, l’importante é che cada ogni orpello. Il vero oro sta al di sotto della mia dissoluzione. Voglio purgarmi di tutto ciò che non sia essenziale, ridurmi alla mia essenza e ... - il tomo della sua voce torno quello di un tempo - lasciarla morire ... a poco a poco ... deve dissolversi ... diventare nutrimento ... " Nibyarekis era persuaso che tutti questi concetti, sputati come volontà, non erano condivisibili, era cosciente di essersi spinto oltre il limite della ragione e che, pertanto, né Raffaele né alcun altro potevano capire e accettare il suo rifiuto di suonare per un pubblico che lo apprezzava e seguiva con entusiasmo. Aveva lasciato la sua carriera e i suoi amici e, come giustificazione, il bisogno di non comunicare espresso con poche parole farneticanti che, nel complesso, parlavano di autodistruzione. Alexander non poteva aspettarsi che silenzi e goffi consigli, volti ad assecondare per ingannare, anche da Raffaele e Benedetto e dalla loro incapacità era esasperato. Appoggiò le braccia conserte al piano e si

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chinò fino a toccarne la superficie con la fronte che scottava. Il tepore del legno la penetrò con una fitta. “Perché non mi lasci in pace? - chiese a Raffaele - Perché non te ne vai? Vedi che non sono malato e non sono infelice?" Raffaele voltò la schiena alla vetrata sulla quale scivolavano lacrime di condensa. Era venuto proprio per non tornare ma, ora, provava vergogna perché la sua rinuncia avrebbe soddisfatto l’amico invece che scuoterlo dal suo torpore. Per il breve momento che aveva trascorso nel salottino, non aveva potuto fissare lo sguardo sull’amico ma l’aveva lasciato vagare sugli oggetti che suggerivano quella desolazione che non voleva incontrare sul suo volto. Tutto quello che cercava, era qualcosa che non fosse definitivo, ma rientrasse nella normalità, nel comune sentire. Non voleva vedere manifesta nell’aspetto di Alexander una volontà che rompesse le regole, l’ordine prestabilito. Preferiva, piuttosto, che gli mentisse purché la menzogna sembrasse più accettabile del vero. “Riprenderò i concerti in estate.” disse Nibyarekis e, per un attimo, Raffaele restò incerto se la voce provenisse dall’amico o da una propria idea. “Davvero?” “Si”, una risposta intellegibile e falsa.

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La luce nella stanza era debole e uniforme. Le pareti macchiate da grossi quadri, la parete che incastonava le fiamme del caminetto e la vetrata opaca di condensa, racchiudevano il pianoforte, Nibyarekis e Raffaele: le ombre di racconti e luoghi scomparsi, la fornace e l’occhio coperto dalla cataratta che non vedeva l’esterno. Raffaele, allora, si accomiatò e disse che avrebbe rassicurato gli amici, i colleghi e la stampa, con la notizia che Alexander avrebbe ripreso la sua vita e i concerti, quindi ritornò all’automobile. Mentre ripuliva la vettura dalla neve, respirò con piacere l’aria fredda del mattino. Lì fuori, infatti, si poteva sentire sollevato non dovendosi confrontare con un fatto che dimostrava la sua inettitudine. Nonostante il fatto fosse immutabile e ineluttabile l’inettitudine, poteva fingere. Alexander, al contrario, non poteva, al punto che per il suo sincero affanno si ammalo di polmonite. Fu ricoverato in un piccolo ospedale nelle vicinanze della villa e furono prese mille precauzioni per non richiamare l’attenzione di curiosi e dei media. Dopo tre mesi di degenza, fu dimesso con la raccomandazione che si riguardasse, lavorasse il minimo indispensabile, facesse

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pasti abbondanti e si distraesse. Dal momento che la malattia si era presentata in forma acuta e Nibyarekis era ancora convalescente e debole nel fisico, non tor-nasse agli eccessi passati, quando si era condotto irresponsabilmente a rischio di morire. Si era temuto il peggio, eppure, Alexander, a causa dell’incoscienza, che la febbre altissima gli aveva procurato, non si era accorto della preoccupazione degli amici, né del pericolo, ma aveva sognato di trovarsi nel suo empireo di suoni. Il suo corpo era stato attraversato dal gelo e squassato dai brividi, Alexander aveva battuto i denti, aveva tossito in continuazione fino a che la testa non gli era sembrata spaccarsi: poi una fitta al petto l’aveva trascinato nel sonno. Era rimasto trafitto e dalla trafittura aveva preso ad ardere, attraverso l’assenza di pensieri e nella pace, di musica. Il cuore batteva velocemente, il respiro era affannoso e le labbra cianotiche, tuttavia, aveva superato l’acme della malattia e stava lentamente guarendo. Quando lasciò l’ospedale, volle tornare alla villa, dove aveva trascorso l’inverno, poiché era stata la casa della sua infanzia e la considerava un rifugio. Sentiva, infatti, il

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bisogno di un riparo non tanto per fuggire dallo stato di estrema vulnerabilità in cui lo aveva ridotto la malattia, quanto per essere protetto, ancor un po’, dalla vita che gli altri volevano che conducesse. Sia per la stagione dell’anno, che per quella del suo intimo, si sentiva tiepido di felicità e desiderava un luogo particolare dove quel tepore potesse essere esposto senza venir meno. Tutto per quel calore non era uguale a prima. Durante il tragitto in automobile a Nibyarekis, che usciva all’aperto dopo essere stato rinchiuso, i prati, gli alberi fioriti, e l’aria tersa rendevano il verde del paesaggio abbacinante. Raffaele parcheggiò come sempre di fronte al cancello. Attraverso le lance di ferro il giardino si gonfiava incolto e rigoglioso. Alexander avanzava lentamente per ammirare l’incontrollata e generosa crescita di ogni pianta ma Raffaelle, incapace di cogliere il compiacimento dell’amico, assicurò che il giardino sarebbe stato completamente trasformato dall’opera di un buon giardiniere e ricondotto al suo ordine. “Non voglio assolutamente che sia toccato!”, sbotto contrariato Alexander e subito mitigò “ma sono contento del

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restaurato che é stato fatto alla villa.”. L’edificio era tornato quello di una volta e Nibyarekis, che con Raffaele vi girava attorno, poteva guardarlo quasi si trovasse realmente nel passato. Quando giunsero sul retro della villa, da una porta a vetri spalancata sul giardino, venne loro incontro Benedetto. Usciva dalla stanza del pianoforte come dal nulla, poiché la luminosità del cielo rendeva forti i contrasti ed era impossibile scorgere l’interno della sala perché in ombra. Non appena il sole, più basso all’orizzonte, vi penetrò e illuminò lo strumento, Alexander si staccò dagli amici ed entrò.

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Nel giardino dimoravano il sole e le ombre sciolte a ridosso dei muri, gli iris e la rose. Il muschio cresceva nelle rughe del cemento, nascosto sotto l’edera; le erbe lunghe e magre, costellate di piccoli fiori, fra i ciottoli del cortile. Il melo sosteneva docilmente le sue fronde nel calore. La musica scendeva lentamente nel giardino, come la luce che pesava sull’immobilità di ogni foglia e come l’odore intenso e gelido degli iris, dolciastro delle rose. Qualche fiore rinsecchito stava ripiegato sul suo stelo contro le spine rosse. Note dure e staccate le contavano una a una. Mentre la sua gola palpitava e le sue unghie graffiavano la pietra, una lucertola ascoltava, attraverso il buco nero del suo orecchio, gli accordi oscuri e ripetuti che si spingevano oltre le sbarre arrugginite del cancello e si profumavano dell’essenza dell’alloro.

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Sulle foglie rigide e odorose il "do diesis" incontrava il "mi" e il "la" in un brano in "re minore". Il giardino, come un selvaggio, nascondeva i suoi begli occhi sotto capelli folti e scarmigliati e godeva di quella musica ambigua nella quale si combinava il senso di morte e di abbandono a un sotterraneo sgorgare di vita. Libero dalle mani che lo avevano coltivato e nella sua orgogliosa superbia, il giardino si chiudeva su se stesso coprendosi di rovi e di sterpi, ma la musica di Nibyarekis trovava su quel pungente dorso lo sfondo più adatto alla sua scomoda novità.

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Nei motivi e nei movimenti si manifestavano tutta l’esuberante forza creativa e l’impeto di una vita, come il getto del sangue che esce da un’arteria recisa. Imitando il gesto del folle che si taglia le vene, Nibyarekis scagliava la sua musica contro il sasso sgretolato, il ferro corroso, contro le erbe pallide e stentate e le spine taglienti perché si spaccassero i vasi della sua rigida struttura e riversassero quanta della sua vita potessero. Sui petali bellissimi dell’iris, nel cuore più volte velato delle rose, sulla superficie liscia dei ciottoli, nell’orecchio oscuro della lucertola, goccia dopo goccia, cadevano le note della sua sonata: un armonico stillicidio che trovava nel singolo elemento di quel giardino la giusta sostanza per accoglierlo. A ogni riflesso sulla pietra levigata apparteneva una nota, così a ogni punto dove da un ramo se ne staccava un altro, a ogni formica nera e rapida, a ogni stame polveroso, a ogni calice ricco di nettare, a ogni ragno nella sua seta. Nulla al di fuori del muro di cinta sarebbe potuto risuonare allo stesso modo. Erano pieni di musica il verde, la terra, i muri di quel giardino, il sole, e l’ombra. Sgorgando ora lenta, ora veloce, con ritmo cardiaco, la musica trascinava con sé le forze e l’animo di Nibyarekis che freneticamente si esauriva nella sua ultima

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composizione. L’ultimo accordo vibrava ancora con un impercettibile movimento ondulatorio ...

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