Il docente come manager dell'apprendimento

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AUTORE: GIUSY TOMIRI

IL DOCENTE COME MANAGER DELL’APPRENDIMENTO:

L’IMPORTANZA DELLE COMPETENZE

Per molto tempo l’insegnamento è stato considerato una sorta “vocazione”:

solo chi mostrava un’attitudine alla relazione con giovani, una certa dose di

pazienza e passione poteva definirsi un buon insegnante. Questa

rappresentazione dell’identità professionale risultava coerente con un

contesto educativo che fino a qualche decennio fa poteva contare su confini e

procedure fortemente definite e su di un obiettivo collettivamente condiviso

volto alla trasmissione alle nuove generazioni di saperi, di modelli culturali, di

strumenti simbolici che ne permettessero l’iscrizione nel mondo degli adulti.

Oggi la situazione è cambiata. L’ambiente sociale si caratterizza per

mutamenti continui, i codici di senso rapidamente rivelano la loro

obsolescenza e le nuove generazioni si trovano alle prese con un compito

molto più spostato sulla necessità di una continua costruzione del senso e dei

contesti che di acquisizione degli stessi. Tradizionalmente, l’essere esperto

della disciplina era considerato una parte rilevante della conoscenza

professionale di base dell’insegnante. Ciò perché si pensava che la

conoscenza della materia e una buona pratica lavorativa fossero di per sé

sufficienti per essere considerato un buon insegnante. Tale concezione

dell’insegnamento è molto riduttiva, perché non tiene conto della complessità

della professione docente e delle nuove concezioni dell'insegnante come

manager dell'aula e facilitatore dell’apprendimento.

L’insegnamento non è solo una successione di lezioni, ma un’organizzazione

e animazione di situazioni di apprendimento.

Il docente deve avere come obiettivo i processi di costruzione della

conoscenza orientati verso l’apprendimento attivo dello studente.

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Tra i tratti più significativi che caratterizzano l'attuale società postmoderna

occupano un posto significativo i media digitali e la comunicazione

interattiva. Si assiste all’ irrompere prepotente delle nuove tecnologie nella

pratica quotidiana dell’azione educativa e dell’organizzazione stessa della

didattica. Smartphone e i Tablet Pc, sempre connessi a Internet, vedono

l’affermarsi della nuova cultura digitale, cioè di uno stile comunicativo

orientato all’interazione, alla produzione di contenuti e alla condivisione.1

Nati e cresciuti all’ombra degli schermi interattivi, i nativi digitali sono

“simbionti” strutturali della tecnologia, e le protesi tecnologiche che utilizzano

dall’infanzia sono parte integrante della loro identità individuale e sociale. Fin

da piccoli video- giocano, hanno un blog e comunicano sui social network

come Facebook. La loro cultura è partecipativa e si fonda su produzione e

condivisione di creazioni digitali. Da strumento,i media digitali si sono

trasformati in linguaggio, contenuto, metodo.2

L’insegnamento enciclopedico,ancorato a rigidi schemi disciplinaristi, è un

paradigma che gli alunni di oggi percepiscono privo di senso. Sul piano

didattico la spiegazione, la logica dimostrativa e il ragionamento ipotetico-

deduttivo, che richiedono complessi processi mentali, generano

demotivazione e disattenzione. Ho notato,invece,come gli studenti si sentono

motivati solo quando vengono resi parte attiva nella costruzione della propria

conoscenza.

La conoscenza dei nativi digitali, col supporto delle nuove tecnologie,è

fondata sulla velocità e quantità delle informazioni veicolate e sulla possibilità

di relazionarsi in tempo reale con più soggetti e più fonti, anche a una

distanza crescente.

1 Cfr. P. Flichy, La rivoluzione digitale, 1996 2 "il medium è il messaggio", direbbe M. McLuhan; cfr H.I. Inose - J.R. Pierce, Tecnologie dell’informazione e nuova

cultura, 1984

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La società digitale ha modificato le capacità cognitive degli alunni verso

forme di intelligenza che vertono sul multitasking e sulla simultaneità, quella

che può essere definita NetIntelligenza.

Come ha scritto Pierre Levy, la loro cultura è partecipativa e si fonda su

produzione e condivisione di creazioni digitali. In questo nuovo contesto

l’insegnante non è più solo un “trasmettitore” di conoscenza ma un

facilitatore, che fa da filtro tra il caos della rete e il cervello dello studente.3

Per tali ragioni la disposizione ad apprendere e ad ascoltare in modo non

passivo la lezione aumenta quando il docente incoraggia gli studenti a

ipotizzare soluzioni,rilevare problemi, a prevedere risposte. Consegnare un

pacchetto conoscitivo preconfezionato (la lezione)o far immagazzinare

conoscenze risulta improduttivo,perché rischia di rendere lo studente

inerte,mentre sarebbe opportuno creare condizioni favorevoli

all’appropriazione personale e attiva dei contenuti.

In linea con l’evoluzione della Net-intelligenza,l’obiettivo era quello di metter

in condizione gli alunni di analizzare e gestire le informazioni in modo rapido

ed efficace estraendoli da più media.

Affinchè l’insegnamento sia efficace e significativo ha bisogno di acquisire

flessibilità e di spostare il suo interesse sul protagonista della relazione

educativa, che è a tutti gli effetti l’alunno.

Il docente si deve prefissare ol compito di “ insegnare ad imparare”, cioè

fornire agli studenti gli strumenti metodologici necessari per usare

consapevolmente le conoscenze e renderle spendibili sul piano concreto ed

operativo. Considerando il fatto che attualmente il sapere non è più

contenibile e che quindi il docente non può esserne detentore, occorre fornire

ai ragazzi metodi di fruizione culturale e strumenti che li rendano autonomi

nella ricerca e nell'acquisizione di nuove conoscenze. L'insegnante deve

3 Pierre Levy , cfr. “L’Intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberespace, 1994; Les Tecnologies de

l’intelligence. L’avvenir de la pensée à l’ère informatique, 1990; Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie,

1999

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mettere il suo sapere a disposizione dell'allievo, perché diventi punto di

partenza per un ulteriore arricchimento culturale e autonomo da parte dello

studente. Lavorare sulle competenze, che rappresentano un orizzonte e non

un’acquisizione consolidata,guidare lo studente verso un apprendimento

autonomo era lo scopo principale della sua attività di insegnamento.

L’obiettivo è di carattere metodologico, quale sviluppare l’attitudine a

concepire un problema e riconoscerlo

Per realizzare quel famoso principio di Montaigne: “È meglio una testa ben

fatta, che una testa ben piena” o quell’altro ancor più antico di Quintiliano:

“Non multa, sed multum”.

Insegnare significa "tirar fuori" ciò che è dentro alla persona: significa cioè

valorizzare quanto di meglio ci sia potenzialmente in un individuo,

comprendendo i suoi bisogni e incentivando le sue competenze. Quello che

possiamo identificare col modello-Bildung, è un modello squisitamente

antropologico che lega il ruolo dell’insegnante al pensare la formazione

umana dell’uomo. Per un tempo limitato e in punta di piedi, si invade e si

“segna” la vita di una persona che sta crescendo, con l’obiettivo di dare un

contributo teso a fornire a quella persona gli strumenti culturali perché sia

maggiormente libera, più sicura di sé, autonoma, indipendente e in grado di

fare scelte da un ragazzo che incontra la cultura come strumento per

crescere, per capire il mondo in cui sta costruendo la propria identità e ha

bisogno di adulti con cui percorrere il cammino: a scuola si imparano gli

altri.

“Quando, per la prima volta, un giovane maestro entra in classe, non più per una esercitazione pedagogica «in cui il collegio prova la sua efficienza», ma per assumere il suo compito di maestro, «la classe davanti a lui è come uno specchio del genere umano», così multiforme, così piena di contraddizioni, così inaccettabile». Al primo momento egli prova sbigottimento e si sente impari al suo compito «di accettar (i ragazzi) come realmente sono, così come devono divenire».

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«Come devo comportarmi, che cosa devo fare?», si domanda turbato; e i ragazzi non gli rendono certo le cose facili. Essi sono turbolenti, rumorosi, stanno davanti a lui con impudente curiosità. Egli, al primo momento, è tentato di rimproverare i caporioni del disordine, di dare ordini, di imporre con

l’autorità le regole di una condotta decente, di dire no! a ogni cosa che gli sorge contro dal basso». Il giovane maestro inesperto non trova la via per instaurare il dialogo con la classe.

Ma ecco che i suoi occhi incontrano un viso che lo colpisce. Non è un viso particolarmente bello né particolarmente intelligente, «ma è un viso reale». Su di esso legge una domanda differente dalla curiosità impudente e superficiale degli altri: «chi sei? conosci qualche cosa che mi concerne? mi

porti qualche cosa? che cosa mi porti?». Egli allora si rivolge a questo allievo. Anche attraverso la domanda più semplice e comune può instaurarsi un rapporto dialogico. Il dialogo, per questa via, investirà tutta la classe. Questo non avviene finché l’allievo «ripete la lezione», ma quando egli è riuscito a fare qualche osservazione personale. «Nello stesso tempo la sua faccia è cambiata, non è più caotica come prima. E la classe si è fatta silenziosa. Tutti ascoltano. La classe, anch’essa, non è più un caos. Qualche cosa è avvenuto». (M. Buber, 1939)

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BIBLIOGRAFIA

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