Il diritto societario - rivista Politica Economica · particolare Renzo Costi, Gustavo Piga,...

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Il diritto societario Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano Università «Tor Vergata», Presidenza del Consiglio Presidenza del Consiglio Roma dei Ministri, Roma dei Ministri, Roma e Università della Tuscia, Viterbo I. - Introduzione* I.1 Vari commentatori (v. fra gli altri P. Krugman) hanno so- stenuto che gli scandali della Enron e di altre grandi imprese fi- nanziarie e non finanziarie hanno avuto un impatto negativo sul- l’economia statunitense e internazionale, che è stato più dram- matico e profondo di quello provocato dagli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Tali scandali hanno infatti minacciato la credibilità e la connessa fiducia in quella spessa rete di flussi infor- mativi che, alimentando la “contabilità sociale” di ogni sistema fondato sugli scambi, rende convenienti le relazioni economiche di mercato. La gravità della situazione ha sollevato problemi si- stemici e ha, così, impedito di ridurre gli scandali aziendali a ca- * di Marcello Messori, <[email protected].> Il presente scritto ha beneficiato delle puntuali critiche di economisti e giuristi. L’autore ringrazia in particolare Renzo Costi, Gustavo Piga, Gaetano Presti e Francesco Vella, le cui os- servazioni gli hanno permesso di chiarire vari passaggi e di evitare varie impreci- sioni. È però tutt’altro che scontato che le sue competenze da economista siano state sufficienti per utilizzare al meglio i loro consigli. Mai come nel caso valgo- no, perciò, gli usuali caveat. [Cod. JEL: G30, K22]. Avvertenza: i numeri nelle parentesi quadre si riferiscono alla Bibliografia al- la fine del testo PAROLE CHIAVE

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Il diritto societario

Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo MaranoUniversità «Tor Vergata», Presidenza del Consiglio Presidenza del Consiglio

Roma dei Ministri, Roma dei Ministri, Romae Università della Tuscia,

Viterbo

I. - Introduzione*

I.1 Vari commentatori (v. fra gli altri P. Krugman) hanno so-stenuto che gli scandali della Enron e di altre grandi imprese fi-nanziarie e non finanziarie hanno avuto un impatto negativo sul-l’economia statunitense e internazionale, che è stato più dram-matico e profondo di quello provocato dagli attentati terroristicidell’11 settembre 2001. Tali scandali hanno infatti minacciato lacredibilità e la connessa fiducia in quella spessa rete di flussi infor-mativi che, alimentando la “contabilità sociale” di ogni sistemafondato sugli scambi, rende convenienti le relazioni economichedi mercato. La gravità della situazione ha sollevato problemi si-stemici e ha, così, impedito di ridurre gli scandali aziendali a ca-

* di Marcello Messori, <[email protected].> Il presente scrittoha beneficiato delle puntuali critiche di economisti e giuristi. L’autore ringrazia inparticolare Renzo Costi, Gustavo Piga, Gaetano Presti e Francesco Vella, le cui os-servazioni gli hanno permesso di chiarire vari passaggi e di evitare varie impreci-sioni. È però tutt’altro che scontato che le sue competenze da economista sianostate sufficienti per utilizzare al meglio i loro consigli. Mai come nel caso valgo-no, perciò, gli usuali caveat. [Cod. JEL: G30, K22].

Avvertenza: i numeri nelle parentesi quadre si riferiscono alla Bibliografia al-la fine del testo

PAROLE CHIAVE

si di comportamenti devianti da parte di singoli manager; il cheha fatto emergere la rilevanza, anche macroeconomica, di un(in)efficiente governo societario delle imprese.

A questo riguardo, il sistema statunitense ha cercato di cor-rere rapidamente ai ripari. Il Sarbanes-Oxley Act e la connessa ap-provazione di nuove regole amministrative e penali hanno impo-sto alle società statunitensi quotate di soddisfare più esigenti stan-dard di trasparenza e di informazione verso gli azionisti e il pub-blico e di rafforzare i controlli rispetto a irregolarità contabili egestionali. In proposito, si è accentuato il grado di indipendenzadei componenti degli audit commettee, deputati ai controlli inter-ni, e si è drasticamente ridotta la possibilità per le società di re-visione, deputate ai controlli esterni, di associare gli incarichi diconsulenza e di certificazione dei bilanci per una stessa impresa;inoltre, i revisori sono stati sottoposti a una più stringente su-pervisione, mediante la costituzione di un organismo ad hoc; in-fine le false informazioni societarie, finalizzate a sostenere i cor-si dei titoli di una data impresa, sono diventate un illecito anchepenale e hanno avuto sia sostanziali aggravi di pena che più lun-ghi tempi di prescrizione in sede civile.

Al di là delle attuali difficoltà nella implementazione di aspet-ti qualificanti di tali iniziative1, ciò dimostra che negli Stati Uni-ti si stanno ridisegnando le modalità e i confini del governo so-cietario delle imprese. Sotto il profilo economico, gli scandali “al-la Enron” vanno interpretati anche — se non soprattutto — come“falliment” negli assetti societari di molte società quotate; di con-seguenza l’autoregolamentazione e l’autonomia contrattuale, cheavevano dominato fino a ieri il diritto societario anglosassone,vanno oggi associate a vincoli più stringenti in termini di regola-mentazione e di sanzioni (anche penali). La stessa Unione Euro-pea ha messo in agenda un’ampia riforma del proprio diritto so-cietario, che dovrebbe sfociare nella predisposizione e nell’appro-vazione di una direttiva comunitaria in materia. Tranne che per

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1 Come è noto, la nomina del responsabile del nuovo organismo di controllodei certificatori ha scatenato pressioni lobbistiche che minacciano di togliere cre-dibilità a gran parte delle iniziative statunitensi, intraprese nei mesi scorsi.

alcuni aspetti - peraltro di grande rilievo (si pensi al regime co-munitario delle offerte pubbliche di acquisto), si è ancora nellafase di impostazione. Secondo il membro italiano della Commis-sione di esperti che anima tale fase (Rossi [46]), in analogia aquella statunitense, la riforma societaria europea si incentrerà sul-la tutela degli azionisti di minoranza, su un severo contenimentodei conflitti di interesse e sull’indipendenza dei controlli internied esterni. Non va però dato per scontato che, per realizzare que-sti fini comuni, anche l’Unione Europea debba imporre maggiorivincoli in termini di regolamentazione e di sanzioni. Il diritto so-cietario dei paesi dell’Europa continentale ha una tradizione piùrigida e dirigistica rispetto a quella anglosassone; pertanto, al fi-ne di pervenire a una combinazione equilibrata ed efficace fral’autonomia contrattuale, la regolamentazione e le sanzioni, la fu-tura direttiva dell’Unione Europea potrebbe dare ampio spazio al-la trasparenza dei mercati e a schemi di (dis)incentivo della (de)-responsabilizzazione delle imprese in un quadro meno vincolisti-co di quello attuale.

I.2 I prossimi anni chiariranno se, e in quale misura, si rea-lizzerà un processo di convergenza fra il capitalismo di matriceanglosassone e il capitalismo di matrice europeo-continentale sulterreno del governo societario2. Il quadro delineato è, comunque,sufficiente per mostrare che anche il diritto societario italiano ri-chiede una profonda revisione. Il corpo attuale delle nostre rego-le societarie risale a sessant’anni fa (1942) e, specie nel corso de-gli anni novanta, per recepire varie direttive comunitarie ha su-bito modifiche non sistematiche e ha perso — quindi — di com-pattezza. Per di più l’innovativo Testo unico della finanza (TUF,1998), che fa esclusivo riferimento alle imprese quotate in mer-cati regolamentati e che introduce tutele per gli azionisti e per ilmercato allineate ai migliori standard internazionali, ha reso fin

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2 Sostengo da tempo che, sul terreno finanziario ed economico anche se nonsu quello sociale, le differenze fra i due modelli di capitalismo (statunitense ed eu-ropeo-continentale) si stanno attenuando (v. per esempio: MESSORI M. [39]; TECLA

[49]); ciò sarebbe tanto più vero se si riducessero le distanze pure fra le rispetti-ve forme di governo societario, che contribuiscono a dettare le regole del ‘gioco’economico.

da subito evidente la necessità di un completamento legislativonei confronti delle imprese non quotate. Così, già con il governoProdi (1998), si sono poste le basi per una generale riforma deldiritto societario italiano mediante la costituzione di una Com-missione di studio (la Commissione Mirone) per la predisposizio-ne di un progetto di legge delega. I lavori di tale Commissionehanno accompagnato i tre recenti governi di centro-sinistra e sisono conclusi con il governo Amato, che non è però stato in gra-do di varare il relativo disegno di legge. Quest’ultimo è stato pro-mulgato dal governo Berlusconi nell’ottobre del 2001.

Il contenuto della legge delega ricalca parzialmente le con-clusioni della Commissione Mirone che, raccomandando la ri-mozione di vecchi vincoli e il rafforzamento di criteri di traspa-renza e di responsabilità, miravano ad affermare sia l’autonomiastatutaria e contrattuale sia — soprattutto — un più articolatoutilizzo degli strumenti e dei mercati finanziari da parte del tes-suto italiano di piccolo-medie imprese. La legge delega ha ap-portato modifiche sostanziali a tali conclusioni soprattutto in re-lazione a due aspetti: 1) il falso in bilancio e in altre comunica-zioni societarie e 2) il regime delle cooperative. Inoltre essa hamodificato, seppure in modi più selettivi, orientamenti importantirispetto alle società a responsabilità limitata (Srl) e alle specifi-che forme di società per azioni (Spa). Il governo Berlusconi hapoi dato immediata applicazione alla parte penale della legge de-lega, per accelerare la stesura dei decreti delegati e l’approvazio-ne del relativo decreto legislativo sui reati societari (aprile 2002).La predisposizione dei decreti delegati, inerenti alla parte non pe-nale della legge delega sul diritto societario, è stata invece affi-data a una nuova Commissione (Commissione Vietti), che ha por-tato a termine i suoi lavori a settembre 2002. Nel mese di no-vembre 2002 questi decreti delegati saranno sottoposti al parereconsultivo dei due rami del Parlamento e, dopo la definitiva ap-provazione da parte del Consiglio dei Ministri, diventeranno leg-ge. La previsione del governo è che l’iter si concluderà entro lafine dell’anno in corso (2002), cosicché le nuove norme di dirit-to societario potranno entrare in vigore dall’inizio del 2003. Intal caso, le imprese non cooperative si dovranno adeguare alle

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nuove norme entro il settembre 2003 e le imprese cooperative en-tro il dicembre 2003.

Il nuovo quadro legislativo del diritto societario italiano ri-guarda l’intera sezione del Codice civile, inerente alle società dicapitali; esso incide, quindi, sul governo societario sia delle im-prese non quotate che delle imprese quotate in mercati finanzia-ri regolamentati3. I suoi punti qualificanti riguardano la diversanormativa dei reati di false comunicazioni sociali, la maggiore au-tonomia delle società a responsabilità limitata (Srl), le differen-ziazioni fra i vari tipi di società per azioni (Spa), l’introduzionedi norme generali per la regolamentazione dei gruppi e la distin-zione fra due tipologie diverse di impresa cooperativa. Come si èaccennato, questi aspetti fanno riferimento sia a regole sostanzialiche a norme penali. Fra breve esse troveranno completamento nel-la ridefinizione del diritto fallimentare, cui sta lavorando un’altraCommissione (la Commissione Trevisanato), e in quella della re-golamentazione delle società di revisione, che è stata oggetto delcosiddetto Rapporto Galgano.

I.3 Sarebbe velleitario proporsi una valutazione generale delnuovo diritto societario italiano sia per le limitate competenze (pergiunta, strettamente economiche) dello scrivente, sia per i vinco-li di spazio di una Introduzione, sia per l’assoluta indisponibilitàdi evidenze empiriche. Avvalendomi anche delle analisi di LauraCavallo e di Angelo Marano, dedicate — rispettivamente — alleimprese cooperative e al sistema dei controlli (v. infra, parti II eIII), in quanto segue miro ad affrontare due domande di ordineprevalentemente economico: (i) il nostro nuovo diritto societariooffre strumenti appropriati per incidere su due problemi peculia-ri del sistema italiano delle imprese, ossia il trascurabile peso del-le società quotate rispetto alle non quotate e la struttura pirami-dale dei loro assetti proprietari?; (ii) esso perviene a una proficuacontaminazione fra la tradizione anglosassone e quella europeo-continentale, trovando un efficace equilibrio fra l’autonomia con-trattuale e la responsabilizzazione delle imprese, da un lato, e la

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3 Per quanto riguarda le imprese quotate, le nuove norme di diritto societariosi dovranno coordinare con il Tuf (v. sopra).

tutela dei soci (e di altri operatori di mercato) e il rafforzamentodei controlli, dall’altro?

Per fornire una risposta — ancorché parziale — al primo deidue precedenti interrogativi, parto dall’esame di alcune novità nor-mative che potrebbero produrre effetti contrastanti sulle peculia-rità negative del nostro sistema delle imprese: la revisione del fal-so in bilancio e in altre comunicazioni sociali (prg. I.4) e la nuo-va normativa sui gruppi e sui patti di sindacato (prg. I.5). Affrontopoi il secondo interrogativo, utilizzando il criterio della “proficuacontaminazione” fra tradizione anglosassone ed europeo-conti-nentale per individuare punti di forza e di debolezza del nuovodiritto societario italiano (prg. I.6). Ciò mi porta al tema dei con-trolli, approfondito nella parte di Marano (prg. I.7). Infine, nel pa-ragrafo I.8, esamino alcuni dei problemi posti da un’altra rilevantenovità che caratterizza il diritto societario italiano: la nuova nor-mativa sulle cooperative. Ciò mi porta alla parte di Cavallo, cheviene esaminata nel prg. I.9.

Prima di entrare nel merito degli interrogativi posti, è peròopportuno fare una precisazione. Specie il precedente punto (i)sembra suggerire che un’efficace normativa societaria sia condi-zione necessaria e sufficiente per un efficiente governo delle im-prese e per il conseguente superamento di inadeguati assetti pro-prietari e organizzativi. Una simile lettura pare, del resto, avalla-ta dal disegno di legge delega ed è — per molti versi — implici-ta già nell’impostazione della Commissione Mirone. La legge de-lega si propone infatti di innescare quei processi di riorganizza-zione che siano in grado di spingere le piccolo-medie imprese disuccesso a un salto dimensionale, a un più sistematico accesso aimercati finanziari e a una maggiore apertura del proprio capita-le. Dovrebbe tuttavia essere chiaro che una così cruciale modifi-ca negli assetti industriali, finanziari e proprietari del sistema eco-nomico italiano non può dipendere solo da un rinnovato quadronormativo. Una legge può incentivare ma non imporre la cresci-ta dimensionale delle imprese, l’offerta e l’utilizzo di nuovi stru-menti finanziari, l’aumento nella contendibilità della struttura pro-prietaria (v. Hart [21]). Per esempio, vari studi di law & econo-mics (v. in particolare Roe [45]) mostrano che una “buona” nor-

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mativa societaria è insufficiente a imporre la ‘disciplina’ del mer-cato, incentrata sulla separazione fra proprietà e controllo, qua-lora in un dato sistema economico il rapporto fra azionisti e ma-nagement sia caratterizzato da obiettivi contrastanti e da asim-metrie informative. Può infatti accadere che i proprietari, per per-seguire i loro obiettivi mediante una delega del controllo al ma-nagement, debbano disegnare schemi di incentivo così costosi darisultare inefficienti4. In questo caso, si può addirittura determi-nare un’inversione nel supposto nesso causale: gli alti costi diagenzia disincentivano la creazione di una più efficace normativasocietaria5.

La conclusione è che i precedenti interrogativi (i) e (ii) nonsono interpretabili come se imputassero stringenti e impropri nes-si causali che vanno dalle norme di governo societario alla pre-senza delle imprese nei mercati finanziari o alla loro specificastruttura organizzativa e proprietaria. La tesi, qui sostenuta, è piùsemplicemente che un efficace quadro normativo risulta essereuna delle condizioni necessarie, ancorché non sufficienti, per unpiù efficiente assetto delle imprese finanziarie e non finanziarie.

I.4 Le ultime considerazioni consentono di riprendere il filodell’analisi, partendo dal problema del falso in bilancio e in altrecomunicazioni sociali. Come ho sopra accennato, si tratta di unodei due aspetti per i quali le raccomandazioni della CommissioneMirone sono state radicalmente mutate dalla legge delega. Rispettoall’ordinamento preesistente, la Commissione si limitava a preci-sare la definizione di alcune figure di reato e a introdurne di nuo-ve (in particolare, i casi di falsa comunicazione sociale e di cor-ruzione degli organi sociali). La legge delega ha invece scardina-to le precedenti fondamenta di protezione dell’informazione so-cietaria, trasformando i falsi in bilancio, in prospetto e in altre

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4 Nel gergo degli economisti, i costi di agenzia diventano troppo elevati (v. alriguardo: JENSEN M. - MECKLING W. [27]; HARRIS M. - RAVIV A. [20]; HART O. [23]).

5 Ciò indebolisce l’impostazione di LA PORTA R. et AL. [31], [33], anche se la-scia impregiudicate le ragioni atte a spiegare gli elevati costi di agenzia. Al ri-guardo, le cause possono essere molteplici. Oltre a un inadeguato quadro norma-tivo, basti qui ricordare: la scarsa lealtà della cultura manageriale, l’opacità nellastruttura organizzativa delle imprese, la scarsa pressione competitiva dei mercati,forme di intrusione politica, e così via.

comunicazioni sociali da “reati di pericolo” a “reati di danno”. Larilevanza penale degli illeciti è stata, cioè, subordinata alla sussi-stenza di un consistente danno economico, patrimoniale o finan-ziario per i soci e per i creditori; in assenza di un tale danno, que-sti illeciti sono stati ridotti alla fattispecie di mera contravvenzio-ne. Anche alla luce della diversa impostazione europea e delle op-poste iniziative legislative di recente assunte sul tema dagli StatiUniti (v. sopra, prg. I.1), tale scelta ha tolto ogni credibilità allaparte penale del diritto societario italiano (v. Foffani e Vella [17]).La trasparenza nell’informazione sociale ha infatti cessato di es-sere un valore da tutelare in quanto “bene pubblico” che rispon-de a interessi collettivi, per essere derubricata a strumento di sal-vaguardia degli interessi patrimoniali privati dei soci e dei credi-tori. Per di più, questa trasformazione del reato si è accompagnatasia a una drastica diminuzione delle pene e delle sanzioni, conconseguente riduzione dei tempi di prescrizione, sia a meccani-smi farraginosi in termini di procedibilità.

Il decreto legislativo dell’aprile 2002 non ha apportato alcunmiglioramento rispetto alla legge delega. Entrando in qualche det-taglio, esso stabilisce che le false comunicazioni sociali assuma-no rilevanza penale solo se comportano un danno che eccede il5% del risultato economico di esercizio o lo 1% del patrimonionetto e, in ogni caso, solo se producono “valutazioni estimative”che alterano quelle corrette per più del 10%; ed è quasi inutilesottolineare che ciò assicura spazi di impunità anche per dannidi importo assoluto consistente. Inoltre, nelle società non quota-te, la pena massima ammonta a meno di un terzo di quella pre-vista per le società quotate. Infine, nelle società non quotate a dif-ferenza che in quelle quotate, la punibilità penale delle false co-municazioni sociali è subordinata alla querela da parte del socioo del creditore e, anche in tale caso, è quasi inutile sottolineareche ciò può rendere aleatoria o strumentale l’azione penale nel ca-so delle imprese non quotate.

Questi aspetti giuridici, già di per sé negativi, hanno impli-cazioni economiche che — se possibile — sono ancora più disa-strose. Come si è prima detto (v. prg. I.3), il riferimento al falsoin bilancio e in altre comunicazioni sociali serve qui per verifica-

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re se la parte penale del nuovo diritto societario aiuti ad attenuarealcune anomalie del sistema economico italiano. In particolare, sitratta di verificare se il nuovo decreto legislativo serva a: 1) mi-nimizzare lo “scalino” normativo fra il ristretto insieme di societàper azioni, quotate in mercati regolamentati e già soggette al TUF,e la consistente porzione delle nostre grandi e medie imprese che,non essendosi quotate anche per fruire di regole meno rigorose,avrebbero le dimensioni e l’organizzazione adatte per farlo; 2) in-centivare quella grande massa delle piccolo-medie imprese italia-ne di successo che, pur essendo molto lontane dalla quotazione,potrebbero acquisire un più robusto assetto finanziario e allenta-re, così, la dipendenza dai margini di autofinanziamento, dal pa-trimonio della famiglia imprenditoriale e dal credito bancario(specie di breve termine); 3) disincentivare la struttura piramida-le dei nostri gruppi. È evidente che queste finalità sono disattesese si esaltano i privilegi di tutte le imprese non quotate rispettoa quelle quotate, se si forniscono scappatoie giuridiche mediantela costruzione di “scatole cinesi”, se si rendono relativamente piùcostose le fonti di finanziamento non di debito per le piccolo-me-die imprese.

Purtroppo ciò è proprio quanto accade a seguito della nuovanormativa sul falso in bilancio e in altre comunicazioni sociali.Innanzitutto, la differenziazione delle pene e dei criteri di perse-guibilità fra società quotate e non quotate ha l’evidente effetto diaccrescere il relativo “scalino” normativo. In secondo luogo, tale“scalino” permane anche se società non quotate controllano so-cietà quotate; il che offre una comoda scappatoia fondata sullastruttura piramidale dei gruppi. Infine, la sostanziale depenaliz-zazione del falso in bilancio per le società non quotate rende piùcostoso per le piccolo-medie imprese accedere a strumenti inter-medi di capitale. Il ricorso a questi strumenti richiede rapporti difiducia fra l’impresa e i singoli risparmiatori che, a differenza del-le banche, non hanno una “tecnologia” privata per l’acquisizionedi informazioni riservate; pertanto esso risulta conveniente ri-spetto al finanziamento bancario solo se l’impresa, non diretta-mente soggetta alla disciplina dei mercati finanziari, offre ‘segna-li’ credibili ai risparmiatori in termini di gestione trasparente e di

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informazioni veritiere. Il che è una condizione davvero difficile dasoddisfare se i potenziali soci o creditori sanno di avere armi spun-tate per ‘punire’ le false comunicazioni.

La nuova normativa del diritto societario produce, così, al-meno tre gravi distorsioni economiche: ostacola, anziché aiutare,l’ispessimento dei mercati finanziari che, nonostante i progressidegli ultimi anni, continuano a pesare assai meno in Italia chenegli altri grandi paesi dell’Europa continentale; premia il ripro-dursi di “scatole cinesi” e ne accentua il potenziale elusivo; in-centiva l’inefficiente (perché eccessiva) dipendenza del nostro si-stema delle imprese dal finanziamento bancario specie di brevetermine.

I.5 Di recente, la nuova normativa sul falso in bilancio e inaltre comunicazioni sociali ha sollevato obiezioni in termini dicompatibilità sia con il diritto comunitario sia con la Convenzio-ne Ocse (1998, ratificata in Italia nel 2000), che impone agli Sta-ti aderenti di perseguire la pratica della contabilità fuori bilancio.Al di là degli esiti di tali obiezioni6, qui importa sottolineare chela parte penalistica del nuovo diritto societario italiano appare an-che incompatibile con gli obiettivi, posti dalla stessa legge delegarispetto al sistema delle imprese e sopra ricordati (salto dimen-sionale, miglior accesso ai mercati finanziari, maggiore aperturadel capitale; v. prg. I.3). Del resto i decreti, proposti dalla Com-missione Vietti e più fedeli allo spirito della delega, hanno impli-cazioni economiche in contraddizione con quelle ricordate in con-clusione del paragrafo I.4. Al riguardo, basti assumere come esem-pio la trattazione dei gruppi e il connesso problema di quegli ac-cordi fra soci che sfociano in “patti di sindacato”. La Commis-sione Vietti fornisce piena legittimazione sia alla struttura di grup-po che alle varie forme di patto di sindacato. Tuttavia, se la nor-mativa sul falso in comunicazioni sociali finiva per premiare lepratiche elusive della struttura piramidale dei nostri gruppi, i de-creti delegati della parte non penale fissano regole più stringenti

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6 Essendo stato sollevato in vari tribunali e accolto da una Corte d’Appello, ilproblema è ora sottoposto alla Corte Europea di Giustizia del Lussemburgo, cheha titolo per formare diritto comunitario.

e accrescono i costi sia per i gruppi che — in certa misura — peri patti di sindacato (Marchetti [35]).

A questo riguardo, va innanzitutto notato che la nuova nor-mativa aumenta la trasparenza della struttura di gruppo e delleoperazioni infragruppo. In particolare, la definizione di capo-gruppo e — dunque — di controllo include ogni attività di dire-zione e di coordinamento di altre società, svolta a titolo indivi-duale o in collaborazione; e ogni operazione è valutata sotto ilprofilo dei suoi costi e dei suoi benefici (attesi) per ciascuna del-le società coinvolte. Ciò amplia le regole di responsabilità tantoda generare possibili margini di ambiguità sotto il profilo giuri-dico; in chiave economica, si ha però che gli obblighi della capo-gruppo rispetto alle diverse tipologie di soci di società controlla-te appaiono estensibili anche ai partecipanti a un patto di sinda-cato di una data società rispetto ai soci di minoranza di quellastessa società. La definizione di capogruppo appare, cioè, suffi-cientemente articolata da dettare le regole anche per le diverseforme di patto di sindacato. Pertanto, sebbene i decreti delegatidella Commissione Vietti siano — per molti versi — più laschi ri-spetto al TUF in termini di trasparenza dei patti di sindacato7, es-si rafforzano i disincentivi rispetto alle strutture piramidali delleimprese mediante una regolamentazione indiretta.

Per meglio apprezzare l’ultima affermazione fatta, è bene pre-cisare le nuove regole imposte alle operazioni infragruppo. La va-lutazione dei costi e dei benefici, indotti da ogni operazione neiconfronti delle società coinvolte, comporta una maggiore tutelatanto delle società controllate quanto dei loro soci (anche di mi-noranza). L’applicazione alle società controllate del principio del“vantaggio compensativo”, che ne pone a confronto gli eventualidanni diretti — derivanti da una determinata operazione infra-gruppo — con i possibili vantaggi indiretti — derivanti dall’appar-tenenza al gruppo — non sostituisce infatti altre forme di tutela

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7 A differenza che nelle società quotate o nelle società non quotate che con-trollano società quotate, per le società non quotate non si prevede alcun obbligodi pubblicità rispetto ai patti di sindacato vigenti. Ciò implica che, a parità di ognialtra circostanza, la struttura proprietaria delle imprese è meno trasparente e —dunque — contendibile.

delle minoranze. Così gli amministratori di una società capogrup-po assumono la responsabilità degli eventuali danni non solo neiconfronti della società controllata ma anche nei confronti dei so-ci di minoranza di tale società, che possono avviare un’azione dirivalsa indipendentemente dal comportamento dei soci di maggio-ranza della stessa società. Inoltre, estendendo le tutele garantitedal TUF nei più limitati casi di obbligo dell’“OPA a cascata” per lesocietà quotate8, tutti i soci di una società controllata non quota-ta possono esercitare il diritto di recesso ogni qual volta una mo-dificazione nella struttura del gruppo (mutamento nell’oggetto diattività della capogruppo, variazione nei suoi assetti proprietari dicontrollo, e così via) incida sulla rischiosità del loro specifico in-vestimento. Il che, fatta salva la possibile difficoltà di precisare giu-ridicamente il concetto economico di rischiosità dell’investimento,amplia e rafforza le tutele nei confronti dei soci di minoranza.

Queste considerazioni mostrano che i decreti delegati dellaparte non penale del nuovo diritto societario disegnano uno sche-ma che disincentiva la costruzione di gruppi piramidali a fini elu-sivi. Il problema è che tale schema è in patente contraddizionecon i decreti delegati della parte penale di questo stesso dirittosocietario. La sindrome del Dottor Jekyll e di Mister Hyde sem-bra, dunque, imporsi non solo a livello individuale ma anche aproposito di un tema macroeconomico così serio qual è quellodella definizione delle regole del gioco per l’operare delle nostreimprese.

I.6 L’irrisolta doppiezza del nuovo diritto societario italianosi manifesta anche rispetto a quei temi (quali l’autonomia con-trattuale, la responsabilizzazione delle imprese, la tutela dei socie il rafforzamento dei controlli), che dovrebbero trovare un’equi-librata armonizzazione così da contaminare proficuamente la tra-dizione europeo-continentale con quella anglosassone (v. sopra,prg. I.3). Spesso, al posto della contaminazione, vi è una perico-losa oscillazione che rischia, in alcuni casi, di sacrificare la tra-

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8 Si ricordi che, secondo il regolamento della Consob, l’“OPA a cascata” scat-ta solo se vi è un’OPA su una società, che funge da mero contenitore della parte-cipazione nella società controllata.

sparenza e i diritti dei soci di minoranza o del mercato alla li-bertà del management o dei soci di controllo e, altre volte, di im-porre una regolamentazione tanto intrusiva da distorcere l’effi-ciente governo societario delle imprese. Al riguardo, due esempiemblematici — e, per molti versi, opposti — sono forniti dalla ra-dicale revisione delle Srl e delle Spa.

Nel vecchio ordinamento, la forma societaria della Srl era an-cillare rispetto alla forma della Spa e finiva, così, per essere schiac-ciata fra quest’ultima forma e i vari tipi di società di persone. Sul-la scia della Commissione Mirone, nella legge delega la Srl ha —invece — assunto una sua specificità conforme alle esigenze dimolte piccolo-medie imprese a controllo famigliare; essa ha, in-fatti, mantenuto il principio della responsabilità limitata ma haacquisito un’elevata flessibilità statutaria e una forte elasticità neiconferimenti che, in linea di principio, permettono adattamentiottimali alle svariate esigenze dei suoi proprietari. Tali elementigarantiscono un’ampia autonomia contrattuale e puntano sulla re-sponsabilizzazione delle singole imprese; al contempo, essi indu-cono un’eccessiva destrutturazione nella forma societaria della Srl,che rischia di indebolire gli incentivi e i controlli anche di mer-cato e di favorire, per conseguenza, usi strumentali o — peggio— elusivi di questa forma societaria. Vari aspetti della legge de-lega e dei successivi decreti delegati rendono altamente probabi-le il verificarsi di tali rischi. Basti considerare che la nuova for-ma di Srl diventa applicabile anche a grandi imprese “chiuse”, os-sia a grandi imprese a proprietà concentrata; anzi, dato che la de-strutturazione fa diminuire i costi di organizzazione propri allestrutture gerarchiche (i cosiddetti “costi di influenza”; v. Milgrom-Roberts [40]) ma fa aumentare i costi relativi ai rapporti di scam-bio (i cosiddetti “costi di transazione”; v. Williamson [57]), alla fi-ne questa nuova forma della SRL sembra ‘tagliata’ per società digruppo o per forme di joint-ventures più che per le piccolo-medieimprese (v. Presti [44])9.

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9 Per inciso ciò sembra incentivare il riprodursi di strutture piramidali e,conformemente alla nuova normativa sul falso in bilancio, contraddire così i piùelevati costi che sono imposti alla costruzione di gruppi piramidali in altre partidel nostro nuovo diritto societario (v. sopra, prg. I.5).

Considerazioni diverse valgono per le nuove forme di Spa. An-che in tale caso, la revisione del diritto societario pare privilegia-re l’autonomia contrattuale e la responsabilizzazione delle singo-le imprese. Pur se nell’ambito di un modello normativo unitariodi Spa, vengono infatti delineate tre diverse forme societarie (laSpa “chiusa”, ossia ad azionariato concentrato; la Spa “aperta”,ossia ad azionariato diffuso ma non quotata; la Spa quotata), chedovrebbero ridurre lo “scalino” normativo fra società quotate e al-tre società “aperte”. A queste tre diverse forme societarie si ac-compagnano tre possibili forme di governo (ordinaria, monisticae dualistica; v. infra), che dovrebbero incentivare la competizionesocietaria e la contendibilità proprietaria della Spa. Un primo pro-blema è che la disciplina delle Spa non quotate ma “aperte” ètroppo poco strutturata ed esigente rispetto a quella delle Spa quo-tate e che, al contempo, la disciplina delle Spa “chiuse” è tropposimile a quella delle Spa “aperte”. Il risultato è che vi sono in-centivi deboli — se non negativi — all’ingresso nei mercati rego-lamentati per le imprese “aperte”, potenzialmente pronte a quo-tarsi, in quanto un’eventuale quotazione comporterebbe la perdi-ta di privilegi normativi ancora troppo rilevanti; e regole tropporigide per le Spa “chiuse”, che dovrebbero invece essere nelle con-dizioni di concedere un maggiore spazio all’autotutela del limita-to insieme dei loro soci — difficilmente assimilabile a una mino-ranza priva di “voce” e di strumenti di controllo. Il secondo pro-blema è che la competizione fra le diverse forme di governo del-le SPA è minata da regole distorsive.

Vale la pena di chiarire l’ultimo punto (v. al riguardo Ferra-rini [16]). La forma ordinaria della Spa riproduce il vecchio go-verno societario, incentrato sul controllo terzo da parte del colle-gio sindacale; la forma monistica di derivazione anglosassone af-fida invece il controllo interno a una parte non esecutiva e indi-pendente del Consiglio di Amministrazione, denominata “Comita-to per il controllo sulla gestione” e sostitutiva del Collegio Sinda-cale; infine, la forma dualistica di derivazione renana introduce ilConsiglio di Sorveglianza, cui sono attribuite una parte delle com-petenze del Collegio Sindacale e una parte delle competenze del-l’Assemblea dei Soci. In contrasto con i modelli originari, nella

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versione italiana delle ultime due forme di governo, la regola-mentazione delle funzioni proprie ai diversi organi genera pro-blemi di funzionamento così seri da impedirne la stessa pratica-bilità.

Nel modello monistico italiano, il “Comitato per il controllosulla gestione” esercita funzioni diverse da quelle dell’audit com-mittee anglosassone, in quanto è chiamato ad addossarsi quei com-piti di controllo prima affidati al Collegio Sindacale. Come si èsopra ricordato, i membri di tale Comitato sono però anche mem-bri del Consiglio di Amministrazione. Pertanto, la variante italia-na del modello monistico poggia su un insanabile conflitto di in-teressi: una parte dei controllati funge anche da controllore. Nel-la variante italiana del modello dualistico, il conflitto di interesserisulta persino rafforzato. Il Consiglio di Sorveglianza non parte-cipa, a differenza di quello tedesco, alle decisioni strategiche del-l’impresa; esso svolge invece funzioni tipiche del Collegio Sinda-cale e, allo stesso tempo, approva il bilancio in luogo dell’Assem-blea dei Soci e non è toccato da cambiamenti nel controllo pro-prietario dell’impresa. Il risultato è che il bilancio viene approva-to da un organo, che adempie compiti sistematici di controllo in-terno e funge da barriera rispetto alla contendibilità di mercatodegli assetti proprietari dell’impresa. Di conseguenza, nel model-lo dualistico italiano, si riproduce quella commistione fra con-trollati e controllori che, come si è appena mostrato, caratterizzaanche il nostro modello monistico; per di più, qui il garante del-la continuità societaria svolge anche il ruolo di controllore.

Questi gravi limiti nella traduzione italiana dei due principa-li modelli internazionali di governo societario mostrano che lacompetizione rispetto alla tradizionale forma ordinaria è più ap-parente che reale. Essi mostrano anche che il nostro nuovo dirit-to societario presta spesso scarsa attenzione ai conflitti di inte-resse e rischia, pertanto, di sottovalutare alcuni aspetti relativi al-la trasparenza nell’informativa societaria e alla tutela dei soci diminoranza. Tale preoccupazione è attenuata — ma non cancella-ta — dall’intensificazione e dalla standardizzazione degli obblighidi informazione, dal crescente peso affidato ai controlli esterni deirevisori o delle società di revisione e dalla più estesa casistica di

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interessi privati degli amministratori rispetto alle operazioni so-cietarie10. A quest’ultimo proposito va peraltro ricordato che, seb-bene un amministratore debba sempre dichiarare al proprio Con-siglio la presenza di un interesse personale o per conto terzi ri-spetto a una data operazione — indipendentemente dall’esistenzadi un evidente conflitto di interessi — e sebbene il Consiglio deb-ba motivare la convenienza per la società della delibera relativa epossa impugnare tale delibera se assunta con il voto determinan-te dell’amministratore interessato, quest’ultimo non è più obbli-gato ad astenersi dalla votazione (salvo se ricopre la carica di am-ministratore delegato) e a fornire specifici chiarimenti all’assem-blea dei soci.

I.7 Quanto detto fa emergere la rilevanza del sistema dei con-trolli. L’argomento è al centro dell’analisi di Marano (parte II), cheesamina sia i controlli esterni basati sulla revisione contabile siai controlli interni sia quelli inerenti all’atto costitutivo. Al riguar-do, Marano pone in luce che la nuova normativa si ispira al cri-terio della semplificazione delle procedure e a quello della valo-rizzazione dell’autonomia organizzativa dell’impresa. Ciò trovaconferma nella sostanziale abolizione dell’omologazione dell’attocostitutivo dell’impresa e — soprattutto — nella maggiore libertàdi scelta rispetto agli organi preposti al controllo interno nelle di-verse forme di Spa. Come si è sopra ricordato (v. prg. I.6), pur senell’ambito di regole distorsive della concorrenza fra diverse for-me di governo, il Collegio Sindacale può essere sostituito dal Con-siglio di Sorveglianza o dal controllo interno di gestione.

L’attenzione di Marano si concentra, però, sui problemi postidai controlli esterni dei revisori. In particolare, nel suo saggio siesamina il rapporto di agenzia fra azionisti e management in pre-

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10 Se la società fa ricorso alla raccolta del capitale di rischio sul mercato (os-sia, è una Spa quotata o “aperta”), essa ha l’obbligo di sottoporsi a un controlloesterno da parte di una società di revisione sottoposta alla vigilanza della Consob;e anche le Spa, tenute a redigere un bilancio consolidato, sono obbligatoriamen-te soggette al controllo esterno del revisore. Va però ribadito che, in materia dicontrolli, i decreti delegati finiscono per assimilare le tre forme di SPA. Così, an-che se di tipo monistico o dualistico, le Spa “chiuse” e senza obbligo di bilancioconsolidato possono avvalersi del solo organo di controllo interno; il che aggravai conflitti di interesse sopra segnalati.

senza dell’intermediazione del revisore, che funge da “controlloredelegato”. In proposito l’autore costruisce un gioco sequenziale,caratterizzato da asimmetrie di informazione e da “rischio mora-le” con azione nascosta e aperto dalle mosse della natura11. Nelgioco, vi sono stati di fatto che spingono il “controllore delegato”a colludere con l’agente da controllare (ossia il management). Inbase ai ‘segnali’ di mercato, il principale (ossia l’insieme degli azio-nisti) può trovare conveniente disegnare adeguati schemi di in-centivo, che — per evitare la collusione fra agente e “controlloredelegato” — corrispondono a quest’ultimo pagamenti contingentiai risultati futuri ottenuti dall’impresa; oppure, lo stesso princi-pale può trovare conveniente erogare pagamenti fissi al revisoree tollerare la possibile collusione e le sue conseguenze negative intermini di risultati futuri. A prescindere da quale dei due casi siapiù conveniente, il gioco porta comunque a equilibri attesi su-bottimali perché la collusione è distorsiva e gli schemi di incen-tivo (necessari per evitarla) sono costosi.

Tale conclusione analitica è utile per spiegare i costi “socia-li”, che caratterizzano nella realtà i controlli esterni, e per indivi-duare le condizioni, che minimizzano questi costi. Marano sotto-linea, al riguardo, che le società di revisione godono di “econo-mie di scopo” e tendono, quindi, ad associare l’attività di auditinge quella di consulenza per una stessa impresa. Ciò tende ad ab-bassare il prezzo di offerta sia dei servizi di consulenza che di au-diting, ma determina anche la spinta alla collusione fra “control-lore delegato” e management. Vi sono vari fattori, che possono di-minuire la probabilità che tale spinta si concretizzi e incida ne-gativamente sui risultati futuri dell’impresa. Nel saggio in esamesi valutano, fra l’altro, i positivi effetti di: un aumento della con-correnza nel mercato della revisione, la periodica rotazione dei re-visori, una parziale riduzione delle asimmetrie informative, la mi-naccia “credibile” (anche in senso probabilistico) di punizioni neiconfronti dei comportamenti collusivi individuati. La soluzione

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11 Per un’accurata definizione di “gioco sequenziale”, v. MYERSON R.B. [41]. Peruna semplice definizione di “rischio morale” con azione nascosta, v. KREPS D. [29],ch. 16.

più robusta consiste tuttavia nel vietare l’offerta congiunta di ser-vizi di consulenza e di auditing, in quanto ciò elimina alla radicela convenienza alla collusione. Confermando il risultato del ‘gio-co’ sequenziale, una simile soluzione non è comunque priva di co-sti. Essa sacrifica le economie di scopo e dissipa così un surplussociale, di cui avrebbe potuto godere anche l’impresa in terminidi più bassi prezzi di acquisto dei servizi. Come in tutte le situa-zioni, in cui il mercato raggiunge al più equilibri di second best,la regolamentazione può pertanto accrescere l’efficienza12.

I.8 Fino ad ora si è trascurato un altro tema rilevante, in cuisia la legge delega che i decreti attuativi del nuovo diritto socie-tario italiano si discostano significativamente dal vecchio ordina-mento e dalle stesse proposte della Commissione Mirone: il regi-me differenziato delle imprese cooperative (v. Costi [11]). Le coo-perative sono investite dalle nuove regole del diritto societario nonfosse altro perché importano le novità dalle nuove forme di Spae di Srl. Per le piccole cooperative (con un numero di soci-per-sone fisiche non superiore a otto) si deve applicare, se compati-bile, la nuova normativa delle Srl; per le grandi cooperative (conun numero di soci superiori a venti e con un totale attivo dellostato patrimoniale eccedente 1 milione di euro) si deve applicareinvece, se compatibile, la nuova normativa delle Spa. Come è ov-vio, ciò non significa che tutti i tratti essenziali delle cooperativesiano rivoluzionati. Resta immutato un aspetto comune e carat-terizzante per qualsiasi genere di cooperativa: il criterio di “unatesta, un voto”.

Al riguardo, le deroghe previste appaiono rilevanti ma non diportata tale da alterare il principio di fondo. Le persone giuridi-che, che sono soci di una cooperativa, possono esprimere un mas-simo di cinque voti; e il numero delle deleghe, utilizzabili da ognisocio, viene innalzato da cinque a dieci. Inoltre, se previsto nel-l’atto costitutivo dell’impresa cooperativa, i finanziatori e i sotto-scrittori di strumenti finanziari partecipativi hanno la facoltà di

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12 Al di là delle accennate difficoltà (cfr. n.1), la scelta statunitense di istitui-re un nuovo organismo di controllo dei revisori riconosce proprio la necessità diregolamentazione.

votare purché il loro peso non superi il limite di un terzo dei so-ci presenti nell’assemblea; e lo stesso criterio si applica al cosid-detto voto plurimo, che è attribuito a chi intrattiene rapporti discambio mutualistici con la cooperativa in ragione del valore diquesti rapporti13. Altrettante novità si riscontrano, poi, dal latodell’elettorato passivo. Diversamente da quanto accade oggi, la mi-noranza degli amministratori di una cooperativa può essere scel-ta fra i non soci; inoltre, se previsto dallo statuto, è possibile se-lezionare gli amministratori in proporzione alle diverse categoriedi soci; infine, anche i possessori di strumenti finanziari di unacooperativa possono ricoprire la carica di amministratori sebbe-ne per non più di un terzo di quelli disponibili e, nel caso di op-zione per la forma monistica, comunque in posizione non esecu-tiva.

Le restrizioni esaminate trovano giustificazione nell’essenzastessa dell’attività cooperativa: lo scambio mutualistico, che devestare alla base dei rapporti economici fra i soci e le imprese coo-perative. Peraltro le maggiori novità, introdotte dal nuovo dirittosocietario, derivano proprio da questo tratto di fondo. La nuovanormativa suddivide, infatti, le cooperative in due grandi tipolo-gie: la tipologia, nella quale la mutualità è prevalente, e la tipo-logia, nella quale la mutualità ha cessato di essere prevalente. L’ap-partenenza all’una o all’altra tipologia dipende dal fatto che gliscambi mutualistici con i soci eccedano o meno il 50% dell’atti-vità della cooperativa. Così una cooperativa di consumo è a mu-tualità prevalente, se l’attività a favore dei soci supera la sogliadel 50% dell’attività totale; e, analogamente, una cooperativa dilavoro è a mutualità prevalente, se le prestazioni lavorative dei so-ci coprono più del 50% delle prestazioni lavorative totali in essaerogate. Tale distinzione è di estrema rilevanza. La nuova nor-mativa conferma infatti il regime di agevolazione fiscale, di cuigode da tempo il sistema cooperativo, per la sola tipologia a mu-tualità prevalente, definita nella legge delega come cooperativa co-stituzionalmente riconosciuta. L’altra tipologia di cooperativa per-de le agevolazioni fiscali e può trasformarsi, se lo delibera alme-

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13 Individualmente, la quota massima scende da un terzo a un decimo.

no la metà dei soci di ognuna delle cooperative coinvolte14, in unaqualsiasi società a fini di lucro e priva perciò di scopi mutuali-stici e di ogni altro tipo di agevolazione. In questo caso, l’attivopatrimoniale della ex cooperativa va devoluto a un fondo mutua-listico per la promozione e lo sviluppo della stessa cooperazione.

Le maggiori critiche, rivolte alla parte in esame del nuovo di-ritto societario, si sono appuntate proprio sulla distinzione fra coo-perative a mutualità prevalente o non prevalente. È indubbio cheil criterio di distinzione adottato denunci, forzatamente, marginidi arbitrarietà. Va tuttavia riconosciuto che, se alcune cooperati-ve hanno smarrito il tratto della mutualità o sono state il veicolodi scelte elusive, è quanto mai opportuno separarle dal corpo del-le genuine attività cooperative così da eliminare artificiali barrie-re alla concorrenza e distorsioni nel funzionamento del mercato(v. Hart e Moore [24]). Del resto, tale scelta permette di mante-nere al centro dell’analisi il requisito della mutualità e di ribadi-re la posizione di eguaglianza fra i soci nella costituzione di ognicooperativa e nella definizione dei diversi rapporti economici. Unaconseguenza di ciò è che la nuova normativa evita di allentare ivincoli stringenti, che pesano sull’erogazione di dividendi in rap-porto al capitale trasferito e che vietano la distribuzione delle ri-serve, ma sottolinea la diversa natura dei ristorni (ossia della re-munerazione aggiuntiva ex post per le prestazioni e per gli apportidei soci o della riduzione ex post dei prezzi per gli acquisti deisoci), che riguardano transazioni economiche con i soci e che —quindi — non vanno sottoposti a regole troppo stringenti.

Tutto ciò non comporta però che le forme di finanziamentodebbano limitarsi agli strumenti più tradizionali ed essere subor-dinate agli stringenti vincoli posti ai dividendi. A tale riguardo, lanuova normativa apre spiragli insufficienti.

I.9 Il punto, sollevato alla fine del precedente paragrafo, staal cuore dell’analisi di Laura Cavallo (parte III). In questa analisi

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14 La quota si innalza a due terzi per le piccole cooperative con un numerodi soci inferiore a 50; e tale quota si abbassa al 20% dei soci totali e a due terzidei soci presenti in assemblea per le grandi cooperative con un numero di socisuperiore a 10.000. In quest’ultimo caso, è però necessaria una specifica clausolastatutaria.

si sottolinea, infatti, che la salvaguardia dello scopo mutualisticoin ambedue le tipologie di cooperative è compatibile con l’acces-so delle relative imprese ai mercati finanziari al fine di raccoglierecapitale di rischio senza ledere le abituali prerogative e tutele ca-ratterizzanti i soci finanziatori e quelli non finanziatori. In pro-posito, basti considerare due elementi: (i) da tempo sono dispo-nibili nel mercato strumenti finanziari, che non incidono né su-gli assetti proprietari di un’impresa né — direttamente — sullasua struttura di governance; (ii) anche qualora un’impresa coope-rativa facesse ricorso a nuove forme di finanziamento che modi-ficano la posizione dei soci finanziatori, incidendo sulle sue strut-ture di governo societario, ciò non sarebbe necessariamente incontrasto con il perseguimento di obiettivi propri a un’impresacon (prevalente) carattere mutualistico.

Per sostanziare i precedenti punti (i) e (ii), Cavallo proponedi utilizzare una distinzione fra imprese cooperative, che ne pri-vilegi gli assetti organizzativi e che sia complementare a quellafra cooperative a mutualità prevalente o non prevalente: le coo-perative a carattere personale, che sono normalmente di piccoladimensione e che esaltano i vantaggi della forma cooperativa (Harte Moore [24]), e le cooperative “aperte”, che possono raggiunge-re dimensioni maggiori e che hanno proprietà diffusa e fraziona-ta. Adottando come criterio di ordinamento le quattro tipologie diimprese cooperative così ottenute (ossia: cooperative a caratterepersonale e a mutualità prevalente; “aperte” e a mutualità preva-lente; a carattere personale e a mutualità non prevalente; “aper-te” e a mutualità non prevalente), Cavallo suggerisce di differen-ziare gli strumenti finanziari utilizzati e le conseguenti tutele a fa-vore dei soci finanziatori. In particolare, nel caso di cooperativea carattere personale (a maggior ragione, se a mutualità preva-lente), la proposta è di ricorrere a strumenti finanziari di merca-to non partecipativi e di minimizzare l’introduzione di nuove tu-tele a favore dei soci finanziatori; nel caso di cooperative “aper-te”, la proposta è invece di liberalizzare l’accesso anche a stru-menti finanziari partecipativi e — almeno nel caso delle coopera-tive a mutualità prevalente — di fare ricorso ad appropriati mec-canismi di governo societario per rendere compatibili le conse-

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guenti nuove tutele dei soci finanziatori con gli scopi mutualisti-ci e con il ruolo degli altri soci.

Il problema diventa, quindi, quello di tradurre tali propostein soluzioni concrete. A questo fine, Cavallo adatta alle coopera-tive diversi suggerimenti presenti nella letteratura economica.Quanto alle cooperative a carattere personale, la sua proposta èdi ricorrere a forme obbligazionarie indicizzate, accompagnate daclausole di convertibilità in prestito sociale. Quanto alle coopera-tive “aperte”, la proposta di Cavallo è invece di ammettere sia l’ac-cesso al capitale di rischio sia privilegi nella ripartizione dei pro-fitti di impresa. Come si è già ricordato (v. sopra, prg. I.8), il de-creto delegato contempla la possibilità di riconoscere diritti di par-tecipazione o patrimoniali ai possessori di strumenti finanziari.Opportuni schemi di incentivo, desunti dai problemi di agenziapropri alla separazione fra proprietà e controllo, potrebbero ar-monizzare tali diritti con la prevalenza dei fini mutualistici. Inparticolare, data la mancanza di contendibilità negli assetti pro-prietari cooperativi, si tratterebbe di puntare sull’indipendenza delConsiglio di Amministrazione, rafforzata da incentivi basati su ob-bligazioni indicizzate. Purtroppo, anche questa soluzione è osta-colata dal fatto che solo la minoranza degli amministratori di unacooperativa può essere scelta fra i non soci (v. prg. I.8).

I.10 In conclusione. Il parziale esame della nuova normativaitaliana sul diritto societario, svolto nei precedenti paragrafi, faemergere luci e ombre. A livello generale, le luci riguardano il fat-to che è stato prodotto uno sforzo sistematico di ridefinizione del-le regole del gioco con il fine di evitare che le società non quota-te, rimanendo estranee alle novità introdotte dal Tuf rispetto allesocietà quotate in mercati regolamentati, risultassero penalizzateda un quadro legislativo obsoleto e rigido oppure fruissero dellaprotezione ingiustificata di un eccessivo “scalino” normativo. Leombre derivano sostanzialmente dal fatto che, spesso, tale fine nonè stato raggiunto e, talvolta, è stato anzi contraddetto in modi co-sì evidenti da risultare imbarazzanti. A quest’ultimo proposito, ilcaso emblematico è rappresentato dalla nuova normativa sul falsoin bilancio. Oltre ad aver derubricato la trasparenza dell’informa-

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zione da “bene pubblico” a strumento di salvaguardia degli inte-ressi patrimoniali privati di soci e di creditori, la nuova legge haprevisto che il rigore delle pene e delle sanzioni sia assai inferiorenelle imprese non quotate rispetto a quelle quotate; il che rafforza— appunto — lo “scalino” normativo da attenuare e offre comodeforme di elusione fondate sulla struttura piramidale dei gruppi.

Alcuni raggi di luce attraversano temi specifici, ma rilevanti.Per fare un solo esempio, a differenza del passato quadro legisla-tivo, i decreti delegati risultanti dai lavori della Commissione Viet-ti introducono disincentivi alla formazione di gruppi piramidali ascopi elusivi. Ombre significative si proiettano invece sulle formedi Srl e di Spa, sul problema del conflitto di interessi e sugli stan-dard di trasparenza e di tutela dei potenziali azionisti o soci ri-spetto agli azionisti e ai soci preesistenti. Al riguardo, sebbene ab-bia trascurato parti significative della recente normativa (peresempio: le nuove forme di emissione delle azioni, le nuove mo-dalità di capitalizzazione delle Srl, e così via), la mia precedenteanalisi rende evidente che il rafforzamento dei diritti di ‘uscita’dei vecchi soci ha un costo elevato: l’indebolimento delle garan-zie di entrata per gli outsider. In ultima analisi, ciò aumenta leprobabilità di “fallimento” di un qualsiasi mercato incapace di au-toregolarsi in modo ottimale; il che vale, probabilmente, per mol-ti mercati e, certamente, per tutti i mercati finanziari.

II. - Riforma del diritto societario: sistema dei controlli eteoria economica*

La riforma del diritto delle società di capitali e delle cooperati-ve15, che diventerà pienamente operativa il 1 gennaio 2004, si pro-

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* di Angelo Marano, <[email protected].> Le considerazioni espostenon necessariamente rispecchiano quelle della Presidenza del Consiglio e in nes-sun modo possono essere attribuite a detta istituzione. Un ringraziamento a F. Vel-la e a D. Marchesi per le osservazioni che hanno formulato ad una precedente ver-sione di questo lavoro. [Cod. JEL: G30, K22, D82].

15 Legge delega n. 366/2001 e conseguenti decreti attuativi (in particolare, ainostri fini, il decreto legislativo n. 6 del 2003, che riscrive il Capo V del Titolo Vdel Libro V del C.C. - artt. 2325-2545). La riforma ha tratto spunto, pur con alcu-

pone di completare il percorso, iniziato, per le sole società quotate,con il Testo unico della finanza (Tuf)16, di adeguamento al mutatocontesto economico delle norme in materia societaria contenute nelCodice civile del 1942. Qui si analizza un elemento centrale del si-stema che si va prefigurando, rappresentato dal sistema dei controlli.

La riforma ha finalità caratterizzate da un forte contenuto eco-nomico: si propone di favorire la crescita dimensionale delle im-prese, di migliorarne, aumentando il grado di apertura al mercato,la struttura finanziaria, di superare lo “scalino normativo” fra so-cietà quotate e non, che tende a disincentivare la quotazione. Piùin generale, la riforma si propone di aumentare il grado di affida-bilità del contesto normativo, coniugando il tutto con i principi ge-nerali di semplificazione ed autonomia statutaria, che vengono cat-turati nella parola d’ordine di “un diritto al servizio dell’economia”.

Date queste finalità, è importante interpretare la normativasui controlli societari che si va prefigurando con occhi da econo-mista, attenti però alle specifiche disposizioni introdotte dallariforma, soffermandosi in particolare sul rapporto fra impresa erevisore. Le norme sui controlli societari costituiscono infatti unadelle modalità attraverso le quali vengono affrontati i problemi diagenzia fra amministratori, azionisti di maggioranza, azionisti diminoranza e creditori sociali, dalla cui soluzione dipende in mi-sura rilevante la possibilità di attivare normali relazioni econo-miche e la capacità del sistema finanziario di assecondare la cre-scita delle imprese e garantire adeguati flussi di finanziamentoesterni (La Porta et Al. [30] e [32]).

Nel corso del 2002, i fallimenti della Enron e di Worldcom, sve-

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ne importanti modifiche, da due progetti di legge presentati nella passata legisla-tura dai DS e dal governo, quest’ultimo basato sulle conclusioni dei lavori svolti inseno alla Commissione Mirone. La riforma tocca sostanzialmente tutti gli ambitidel diritto delle società di capitale non quotate, applicandosi anche alle quotate,per quanto non diversamente disposto da altre norme. La legge affronta la disci-plina delle Srl (art. 3), delle Spa (art. 4), delle cooperative (art. 5), dei gruppi so-cietari (art. 10), il bilancio (art. 6), la trasformazione / fusione / scissione (art. 7)e lo scioglimento / liquidazione / cancellazione (artt. 8 e 9) delle imprese. La rifor-ma affronta anche il tema della disciplina degli illeciti in ambito societario (art.11) e contiene nuove norme sulle procedure (art. 12), essendo state lasciate da par-te solo le norme sul fallimentare (delle quali si sta occupando la Commissione Tre-visanato, istituita presso il Ministero della Giustizia) e la normativa fiscale.

16 v. decreto legislativo 58/1998 (legge Draghi).

lando gravi irregolarità contabili e il mancato controllo da parte deirevisori (che ha coinvolto nel crollo anche Arthur Andersen), han-no mostrato appieno quanto centrale sia questo tema e importan-te una regolamentazione adeguata della materia. Negli Stati Uniti,già nel luglio dello stesso 2002, si è provveduto all’approvazione del-la legge Sarbanes-Oxley, che ha sostanzialmente rafforzato i mec-canismi di controllo societario. In Italia e negli altri paesi europeisi sta provvedendo ad un riesame della regolamentazione alla lucedi quanto avvenuto oltreoceano e sicuramente tali fatti influenze-ranno nei prossimi anni la normativa primaria e secondaria.

Nel frattempo, la riforma del diritto societario segna un si-gnificativo cambiamento di impostazione nei controlli.

I controlli societari attivati nel passato dal legislatore tende-vano ad essere di tipo formale. Ad essi si associava una legisla-zione prescrittiva, inibente molti comportamenti imprenditorialiconsiderati rischiosi e punitiva in caso di insuccesso dell’attivitàd’impresa. Si pensi alle norme che richiedevano l’omologazioneda parte del tribunale dell’atto costitutivo e delle sue modifiche,a quelle sui conferimenti, ai limiti molto stretti all’emissione distrumenti finanziari, alle norme sui bilanci e sui relativi reati, al-la previsione, nella legge fallimentare, di incapacità accessorie acarico dell’imprenditore fallito.

Nel corso del tempo tale tipo di regolamentazione ha finitoper essere considerata inadeguata, in quanto troppo costosa (intermini di oneri amministrativi, aumento del costo del finanzia-mento e riduzione degli investimenti), in parte inefficace (in quan-to la necessità del mero rispetto formale della norma ha origina-to comportamenti elusivi) e distorsiva dei comportamenti im-prenditoriali e della struttura produttiva.

Nel nuovo diritto societario il sistema di prescrizioni, divietie controlli diretti pubblici viene sostanzialmente ridimensionato.Viene lasciato ampio spazio all’autonomia statutaria, mentre al-cuni controlli vengono semplicemente aboliti, altri vengono dele-gati alle strutture di governance dell’impresa stessa, per altri an-cora al controllo pubblico si sostituisce un controllo esterno, de-legato ad operatori specializzati. È questo il caso, in particolare,dell’abolizione del controllo giudiziario sull’atto costitutivo e del-

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l’estensione dell’obbligo di certificazione dei bilanci: saranno no-taio e revisore a garantire della corretta costituzione e della veri-dicità dei documenti contabili dell’impresa.

Tuttavia, come gli altri agenti, anche i controllori rispondonoai propri interessi ed incentivi, e non vi è assicurazione a prioriche svolgeranno in modo corretto i controlli loro affidati. Paral-lelamente all’accresciuta rilevanza dei controlli delegati, aumentadunque l’importanza della regolamentazione di tali attività.

Inoltre, non necessariamente i soggetti e gli interessi tutelatinel nuovo sistema saranno gli stessi del vecchio. Vedremo, in par-ticolare, che se l’estensione dell’obbligo di revisione esterna po-trebbe contribuire alla tutela degli azionisti di minoranza, non deltutto convincente appare il suo apporto ai fini della tutela dei cre-ditori sociali.

Il resto del capitolo è organizzato come segue. Nel paragrafoII.1 si analizzano le linee di riforma del sistema dei controlli, conriferimento non solo alla revisione contabile ma anche ai controllisull’atto costitutivo e ai controlli interni. Nel paragrafo II.2 si ren-de esplicito il legame fra teoria economica e diritto, mostrando co-me la prima possa dar conto non solo dei principi generali, ma an-che della regolazione specifica delle attività di controllo17: la ne-cessità dei controlli viene collegata al problema di agenzia origina-to dalle asimmetrie informative e le specifiche norme di regola-mentazione delle attività di revisione sono razionalizzate e valuta-te nel contesto di un modello di teoria dei giochi con delegated mo-nitoring. Il paragrafo II.3 contiene le conclusioni del lavoro.

II.1. - Le nuove norme sui controlli societari

II.1.1 Il controllo notarile in sede di costituzione dell’impresa e dimodifica dell’atto costitutivo

Fra i principi ispiratori della riforma del diritto societario vi

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17 Con riferimento al caso italiano, il tema della rilevanza economica delle nor-me sui controlli societari è stato affrontato anche da LONGO M. - MACCHIATI A. [34],che hanno discusso in specifico gli aspetti economici e regolamentari da cui di-pende la qualità della revisione contabile sulle imprese quotate.

sono quelli di semplificazione e valorizzazione dell’autonomia or-ganizzativa dell’impresa. Essi sono esplicitamente richiamati nel-le nuove norme in tema di costituzione e di modifica dell’atto co-stitutivo dell’impresa, che prevedono la sostituzione dell’omologa-zione da parte dell’autorità giudiziaria con un controllo notarile.

Fino al 2000, l’atto costitutivo delle società di capitali e ognisua eventuale modifica dovevano essere sottoposte al giudizio diomologazione da parte del tribunale prima dell’iscrizione nel Re-gistro delle società. L’autorità giudiziaria controllava “l’adempi-mento delle condizioni stabilite dalla legge” e, “sentito il PM”, da-va via libera all’iscrizione. Nei fatti, l’omologazione non era uncontrollo di mera legalità, bensì volto alla tutela di interessi pub-blici, solitamente identificati nella trasparenza e sicurezza del mer-cato, e al verificare l’adeguatezza dell’organizzazione societaria.

La Legge di semplificazione 199918, “in attesa della riforma deldiritto societario”, ha sostituito all’omologazione un controllo no-tarile. Il notaio che ha redatto l’atto costitutivo, o che ha verba-lizzato una modifica, controlla che siano conformi alle leggi, as-sumendosi la responsabilità nel caso risultino poi “manifesta-mente” inesistenti i requisiti legali, e provvede poi a richiedere l’i-scrizione al Registro delle imprese, cui spetta una verifica della re-golarità formale della documentazione. Un procedimento di omo-logazione da parte del tribunale può essere attivato solo su ini-ziativa dello stesso notaio qualora, in caso di modifica dell’attocostitutivo, non ritenga siano adempiute le condizioni richiestedalla legge.

La norma è subito apparsa come una rottura degli schemiprecedenti e ha suscitato reazioni in un senso e nell’altro: alcunihanno sostenuto che il notaio, in quanto coinvolto in veste di pro-fessionista nell’impresa, non fornirebbe le necessarie garanzie diindipendenza e sarebbe comunque difficilmente punibile; inoltre,la procedura di omologazione andrebbe rafforzata piuttosto cheabolita, stante la maggiore autonomia statutaria che, in prospet-tiva, verrà concessa all’impresa; sul versante opposto, si è fattonotare che, a parte l’Italia, solo Germania e Austria richiedevano

Il diritto societario 181

18 L. 340/2000, art. 32.

un simile controllo e che esso è costoso e in parte arbitrario, es-sendo affidato al singolo tribunale precisarne i contenuti.

La riforma conferma, e i decreti attuativi addirittura raffor-zano, la scelta fatta19. In sede di costituzione dell’impresa, l’abo-lizione dell’omologazione è esplicita: il notaio provvede al deposi-to dell’atto costitutivo e, contestualmente, richiede l’iscrizione alRegistro delle imprese, cui viene dato corso previo controllo me-ramente formale della documentazione. Non viene qui esplicita-mente richiamato un “controllo notarile”, che rimane però impli-cito nella natura di atto pubblico dell’atto costitutivo. In sede dimodifica, invece, è esplicitamente previsto che il notaio che ha re-datto il verbale debba verificare l’adempimento delle condizionistabilite dalla legge prima di chiederne l’iscrizione nel Registro. Èancora possibile attivare un processo di omologazione da partedel tribunale, ma stavolta non più su iniziativa del notaio, bensìdegli amministratori, nel caso il notaio non ritenga di poter prov-vedere all’iscrizione.

II.1.2 Il sistema dei controlli interni

Attualmente, il sistema italiano di controllo interno societarioè basato sul Collegio Sindacale. Tale organo è obbligatorio nelleSrl che raggiungano determinate dimensioni di capitale, fattura-to, attivo dello stato patrimoniale o dipendenti e in tutte le Spa,quotate o meno. Ai sensi dell’articolo 2403 del c.c., nelle Srl e Spanon quotate al collegio sindacale spetta il controllo sull’ammini-strazione e dei conti, e possono farne parte solo professionisti re-visori contabili. Nelle Spa quotate (artt. 148-154 Tuf) al collegiosindacale spettano competenze di controllo sull’amministrazionee sull’adeguatezza della struttura organizzativa, mentre il control-lo contabile è delegato ad una società di revisione; inoltre, solouno dei sindaci deve necessariamente essere un revisore e alme-no uno deve essere eletto dalla minoranza.

182 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

19 v. i nuovi artt. 2330, 2436, 2463, 2480 del c.c. contenuti nei decreti attua-tivi.

La riforma sembra confermare il quadro attuale per le Srl.Anche se la delega non fa alcun riferimento al collegio sindacaleo ad altri organi di controllo interno, prevedendo, come unico con-trollo sottratto all’autonomia statutaria e organizzativa dell’im-presa, quello sui conti “oltre un certo limite”, in sede di decretiattuativi si è invece riproposta l’obbligatorietà del collegio sinda-cale nelle Srl che superino limiti analoghi a quelli previsti dallanormativa attuale, rimanendo ferma la possibilità, per le altre, dinominare comunque un collegio sindacale o ricorrere, se lo ri-tengano, alla revisione esterna (nuovo art. 2477 c.c.). A differen-za di quanto previsto dalla normativa attuale, tuttavia, quando viè l’obbligo di nomina del Collegio Sindacale, questo è finalizzatoal controllo dei soli conti e non anche dell’amministrazione, es-sendo lasciato all’impresa stessa valutare l’opportunità o meno diaffidare al Collegio anche questo secondo compito.

Il quadro cambia invece radicalmente nelle Spa: la riformada un lato valorizza l’autonomia statutaria nella scelta degli or-gani di controllo interno, dall’altro estende a tutte le Spa il prin-cipio, che già caratterizza le quotate, di separazione fra control-lo sull’amministrazione e controllo sui conti, generalmente affi-dato ad un revisore esterno (non necessariamente una società direvisione - v. oltre, par. II.1.3). Le Spa, anche le quotate, cui siapplicano le nuove norme laddove non incompatibili con le pre-cedenti (nuovo art. 2325-bis c.c.), possono infatti adottare unoqualunque di tre alternativi modelli di controllo interno, incen-trati sul Collegio Sindacale (come è stato finora), oppure su unConsiglio di Sorveglianza (modello dualistico di corporate gover-nance, di ispirazione tedesca), oppure ancora su un comitato in-terno al Consiglio di Amministrazione, preposto al controllo in-terno di gestione (modello monastico, di ispirazione anglosasso-ne). In tutti e tre i casi non è previsto obbligo di rappresentan-za della minoranza negli organi di controllo, ma tale presenzapuò eventualmente essere assicurata per via statutaria. Al Consi-glio di Sorveglianza, di nomina assembleare, spettano funzioni dicontrollo sulla gestione, ma anche il potere di approvare il bi-lancio, di nominare gli amministratori ed esercitare l’azione diresponsabilità nei loro confronti. All’eventuale comitato preposto

Il diritto societario 183

al controllo interno spetterebbe invece il compito, più limitato,del controllo della gestione; esso sarebbe individuato all’internostesso del Consiglio di Amministrazione e, per questo, dovrebbeessere costituito20 da amministratori senza deleghe e in possessodi requisiti di indipendenza. La terza colonna della tavola 1 sin-tetizza gli organi di controllo interno che si vanno configurandonei vari tipi societari.

II.1.3 Il controllo esterno sui conti: la revisione contabile

L’obbligo di sottoporsi a revisione contabile, introdotto per laprima volta per le Spa quotate dal d.P.R. 136/1975, è stato pro-gressivamente esteso ad altre categorie21. Il Tuf, agli articoli 155-156, ripresi nel nuovo articolo 2409 ter c.c., definisce l’attività direvisione come verifica, nel corso dell’esercizio, da un lato della“regolare tenuta della contabilità sociale e della corretta rileva-zione dei fatti di gestione nelle scritture contabili”, dall’altro del-la corrispondenza del bilancio di esercizio e del bilancio consoli-dato alle risultanze delle scritture contabili e alle norme che li di-sciplinano. Da questo secondo tipo di attività il revisore trae spun-to per formulare un giudizio sulla correttezza del bilancio, giudi-zio espresso in un’apposita relazione, che costituisce lo strumen-to attraverso il quale egli comunica con gli azionisti, i creditori, idipendenti della società e l’opinione pubblica, assolvendo allo sco-po primario dell’attività di revisione, di accrescere l’informazionedel pubblico sulla corretta conduzione dell’impresa22.

Prima della riforma, l’attività di revisione svolta ai sensi di leg-

184 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

20 In maggioranza secondo il testo della delega (art. 4), totalmente secondo idecreti attuativi (nuovo art. 2409-octiesdecies c.c.).

21 Oltre alle Spa quotate, sono soggette a revisione obbligatoria le loro con-trollate, le imprese che sollecitano il pubblico risparmio e quelle emittenti stru-menti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante, le assicurazioni, le im-prese editrici, le concessionarie autostradali, le aziende pubbliche locali, molte coo-perative, consorzi agrari e altre imprese operanti in specifici settori.

22 Alla società di revisione spetta anche, in base all’art. 158 del Tuf, di dare unparere sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni in caso di aumento dicapitale con limitazione del diritto di opzione e in caso di fusione, scissione e di-stribuzione di acconti sui dividendi delle società quotate.

Il diritto societario 185T

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ge, sottoposta a vigilanza della Consob, poteva essere esercitataquasi esclusivamente da società iscritte all’albo speciale Consob. Airevisori contabili persone fisiche e alle altre società di revisione,comunque iscritti ad un albo tenuto presso il Ministero della Giu-stizia, era permesso operare quasi esclusivamente nell’ambito del-la revisione volontaria. La riforma prevede da un lato un’ulterioreestensione dell’obbligo di revisione, dall’altro un ampliamento deisoggetti titolati a svolgerla (v. quarta colonna della tavola 1).

Per le Srl, come già visto, anche se il testo della delega avreb-be permesso, nei casi in cui il controllo dei conti è obbligatorio,di richiedere la revisione esterna, in sede di attuazione si è pre-ferito mantenere il controllo in capo ad un Collegio Sindacale in-teramente composto da revisori, mentre la revisione esterna sem-bra una mera opzione concessa alle altre Srl, che non sono tut-tavia assoggettate ad alcun obbligo di controllo legale dei conti(nuovo art. 2477 c.c.).

Nelle Spa, è esplicitamente previsto l’obbligo di revisioneesterna dei conti per le società (ancorché non quotate) che ricor-rono al mercato del capitale di rischio, identificate in sede di de-creti attuativi, piuttosto riduttivamente, con quelle «emittenti azio-ni diffuse fra il pubblico in maniera rilevante»23, che erano co-munque già assoggettate all’obbligo di revisione24. La revisione de-ve essere svolta da una società iscritta all’albo presso il Ministe-ro della Giustizia, che viene però, per tale incarico, assoggettataalla supervisione Consob. Per le Spa che non ricorrono al merca-to del capitale di rischio, diventa rilevante che siano tenute o me-no a predisporre il bilancio consolidato: nel primo caso il con-trollo deve essere affidato ad un revisore esterno (società di revi-sione o persona fisica); nel secondo è fatta salva la possibilità perle Spa che optano per il Collegio Sindacale quale organo di con-trollo interno di affidargli anche il controllo dei conti, a patto che,

Il diritto societario 187

23 Il riferimento implicito è all’“Elenco emittenti strumenti finanziari diffusitra il pubblico in misura rilevante” tenuto dalla Consob, nel quale erano presential 31 luglio 2002 165 società, delle quali però almeno una emittente strumenti fi-nanziari diffusi diversi dalle azioni.

24 L’articolo 116 del Tuf prevede infatti che tali società sottopongano il bilan-cio al giudizio di una società di revisione, anche se ciò comporta la necessità so-lo del secondo dei due tipi di attività di revisione descritti nel testo.

in tal caso, esso sia interamente composto da revisori professio-nisti.

L’estensione dell’obbligo e l’allargamento del novero dei sog-getti che possono eseguire la revisione ai sensi di legge richiederàsicuramente interventi in sede di normativa secondaria, che po-trebbero offrire l’occasione per un ripensamento generale della re-golamentazione dell’attività di revisione. Fino ad ora, infatti, lesue peculiarità e la necessità di garantire l’indipendenza e la pro-fessionalità del revisore avevano fatto sì che essa fosse soggettaad una regolamentazione almeno formalmente stringente: comericordato, la revisione ai sensi di legge era finora riservata a so-cietà altamente qualificate, sottoposte a vigilanza da parte dellaConsob. Inoltre erano previste diverse limitazioni all’attività, frale quali spiccano la durata massima triennale del mandato di re-visione, rinnovabile al massimo due volte, e l’esclusività dell’og-getto sociale delle società di revisione.

Nel corso dei lavori preparatori della riforma, le società di re-visione (Assirevi [4]), se da un lato hanno accettato l’idea di un’a-pertura del mercato ai revisori persone fisiche a fronte dell’esten-sione dell’obbligo, dall’altro hanno lamentato l’eccessiva onerositàdella regolamentazione, che impedirebbe loro di utilizzare in ma-niera efficiente le proprie competenze, privando le aziende di unpotenziale e utile contributo alla gestione. Esse hanno propostodi rendere possibile fornire prestazioni accessorie, tipicamente diconsulenza, e senza limiti di tempo. A garanzia dell’indipendenzaavrebbero dovuto essere invece stabiliti limiti percentuali sul fat-turato di ogni società di revisione derivanti da un unico cliente.Le società di revisione hanno anche lamentato la crescita espo-nenziale del numero di cause civili nelle quali esse sono chiama-te a rispondere di perdite causate dalla società revisionata, e ri-chiesto perciò di porre limiti quantitativi alla responsabilità delrevisore in un multiplo del compenso percepito, una posizioneespressa in un ordine del giorno fatto proprio dal governo in se-de di approvazione della legge di riforma25.

In sede di attuazione della delega, il tema della responsabi-

188 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

25 v. Ordine del giorno n. 170 all’articolo 11.

lità sembra esser stato risolto in maniera non favorevole a quan-to proposto dalle società di revisione, stante che il nuovo artico-lo 2409-sexies c.c. ne afferma la responsabilità nei confronti del-la società, dei soci e dei terzi, senza alcun riferimento a limiti.D’altra parte, le modalità di regolamentazione della revisione e glistrumenti per garantire l’indipendenza sono al centro del dibatti-to, ed una qualche apertura nei confronti delle tesi dei revisori èsembrata manifestarsi in sede alla Commissione Galgano, incari-cata dal Ministro dell’Economia di studiare le ripercussioni in Ita-lia dei fallimenti americani, dove si è valutata la possibilità di ren-dere possibile al revisore, o almeno alla rete di cui fa parte, disvolgere, sia pure entro certi limiti, anche servizi diversi, di am-pliare a 6 anni, sia pure non rinnovabili, la durata del mandatodi revisione e di limitare la concorrenza di prezzo fra revisori.

Proprio dal caso americano viene invece un esempio che sem-bra andare in controtendenza rispetto alle proposte dei revisori.Fra le nuove norme introdotte dalla legge Sarbanes-Oxley spicca-no infatti quelle che riducono drasticamente la possibilità per lesocietà di revisione di offrire servizi accessori al controllo dei con-ti e l’introduzione della rotazione obbligatoria, fissata, nel casoamericano, ogni 5 anni.

La ratio di tali strumenti di regolazione verrà discussa, inun’ottica di teoria economica, nel prossimo paragrafo. Prima diprocedere oltre va però richiamato un ulteriore elemento. Comesi vedrà, non indifferente ai fini dell’esame da parte di un econo-mista è che il mercato della revisione sia particolarmente con-centrato. Tanto a livello internazionale che nazionale, esso è qua-si interamente controllato da pochissime società, le big five (ArthurAndersen, Ernst & Young, KPMG, Deloitte & Touche, Pricewa-terhouseCoopers), destinate probabilmente a ridursi a quattro se,come già avvenuto in Italia, Andersen sarà assorbita da Deloitte& Touche. In Italia queste società controllano una quota elevatis-sima del mercato: ad esempio, nel 1997/98 una sola Spa fra quel-le appartenenti al 20% di dimensioni maggiori è ricorsa ad un re-visore diverso, mentre il numero totale di società di revisioneiscritte all’albo Consob assommava, a maggio 2002, ad appena 22.Tale caratteristica del mercato favorisce episodi collusivi, e infat-

Il diritto societario 189

ti nel 2000 le maggiori società di revisione e l’associazione di ca-tegoria, Assirevi, sono state condannate dall’Antitrust a multe percomplessivi 4,5 miliardi, a seguito di comportamenti tesi a fissa-re i prezzi, a evitare la competizione fra revisore in carica ed en-trante e ad imporre, laddove possibile, clausole di limitazione del-la responsabilità contrattuale del revisore uniformi.

II.2. - Controlli societari e asimmetrie informative

II.2.1 Asimmetrie informative e revisione come delegated monito-ring

Si considerino i rapporti fra un debitore e un creditore in unmondo senza incertezza. Prima dell’accensione del prestito è otti-male per il debitore assicurarne il rimborso, perché altrimenti ilfinanziamento non ha luogo; ma una volta ottenuto il prestito èottimale per il debitore non rimborsarlo mai più. Tuttavia, se ilcreditore non viene adeguatamente tutelato non vi sarà alcun pre-stito fin dall’inizio, e il debitore stesso non potrà usufruire del fi-nanziamento cui aspirerebbe e che sarebbe disponibile, ex-ante manon ex-post, a restituire. Lo stesso accade, in generale, per qua-lunque scambio non contestuale di beni, di servizi lavorativi o delcapitale e nei contesti principale-agente, ad esempio quando i so-ci (principale) mettono a disposizione del manager (agente) i pro-pri fondi26. Per permettere che tali scambi abbiano luogo inter-viene la legge, riconoscendo la responsabilità contrattuale, ovve-ro, ad esempio, il diritto del creditore al rimborso27.

In un mondo aleatorio, tuttavia, il riconoscimento legislativo

190 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

26 La teoria economica fa riferimento a tale situazione come di incoerenza in-ter-temporale della politica ottimale: una scelta ottimale ex-ante (chiedere il pre-stito e successivamente ripagare il debito) non lo è più ex-post (una volta che ilprestito sia stato ottenuto); in tali condizioni, e in mancanza di tecnologie per ilmantenimento delle promesse, individui razionali rifiuteranno di anticipare i fi-nanziamenti, i beni o i servizi richiesti, non essendo credibile la promessa di suc-cessivo rimborso o pagamento (ELSTER J. [15], PERSSON T. - TABELLINI G. [43]).

27 Si prescinde qui dal problema dell’enforcement: riconoscere un diritto nonsignifica, di per sé, essere in grado di garantirne il godimento (cfr. LA PORTA R. etAl. [32]).

degli obblighi contrattuali non è sufficiente. Innanzitutto, è gene-ralmente impossibile (o eccessivamente costoso) contemplare nelcontratto tutti gli eventi rilevanti possibili; la legge e l’autorità pub-blica sono allora chiamate ad integrare, con norme suppletive, lanaturale incompletezza dei contratti privati. In secondo luogo,quand’anche i contratti fossero completi, rimarrebbe il problemadella verificabilità. In un mondo aleatorio, dove esistono rischiquale quello di bancarotta, generalmente l’agente è l’unico a co-noscere in dettaglio le proprie condizioni economiche e questo,incentivando l’adozione di comportamenti opportunistici, originafenomeni di selezione avversa e rischio morale, casi di fallimentodel mercato, nei quali scambi mutuamente vantaggiosi non ven-gono attivati, o lo sono in misura meno intensa e a condizioni piùgravose rispetto a quanto sarebbe tecnicamente efficiente.

È necessario allora affiancare al riconoscimento del diritto deicreditori al rimborso e degli azionisti ai profitti dell’impresa stru-menti che rendano tali soggetti ragionevolmente sicuri ex ante del-l’affidabilità dell’agente, ex post dell’adeguatezza delle azioni da luiintraprese e dei risultati conseguiti.

Una possibilità sarebbe che ciascun principale esaminasse ac-curatamente l’agente prima di instaurare la relazione e ne moni-torasse poi costantemente azioni e risultati. Anche ammesso checiò sia possibile, tuttavia, tale forma di controllo diretto rischia diessere estremamente gravosa, per il singolo e a livello sociale, da-to che ciascun soggetto dovrebbe pagarne i costi per intero. Perquesta ragione è spesso più efficiente ricorrere ad un delegatedmonitoring, nel quale un unico, o comunque un numero limitatodi soggetti, si assume l’onere del controllo.

In alcuni casi è l’autorità pubblica ad effettuare il controllo,e l’assenza di interventi sanzionatori dovrebbe certificare l’affi-dabilità e il corretto comportamento del soggetto controllato. Al-tre volte sono soggetti come le banche a trovarsi a svolgere unafunzione analoga, dato che, possedendo informazioni circa i flus-si di pagamento che riducono grandemente l’asimmetria infor-mativa e disponendo di tecnologie ed expertise specifici, possonoassumersi in prima persona i compiti di finanziamento e di suc-cessivo monitoraggio delle imprese, il che diventa anche, agli oc-

Il diritto societario 191

chi dei terzi, una certificazione delle condizioni dell’impresa fi-nanziata28.

Come visto nell’introduzione, i controlli societari diretti daparte dell’autorità pubblica sono stati considerati sempre menoadeguati e eccessivamente distorsivi, il che ha portato a ricercaresoluzioni alternative, identificate, almeno in parte, nella delega deicontrolli a operatori professionali, esterni all’impresa. Da questopunto di vista, la revisione contabile, delegated monitoring per ec-cellenza, diventa centrale e per questo su di essa si incentrerà ladiscussione che segue.

Il ricorso ad un revisore esterno non basta tuttavia a garan-tire il superamento, sia pure a un costo, dei problemi originatidalle asimmetrie informative. Nell’istante stesso in cui si ricorreal revisore bisogna porsi il problema della possibile collusione im-plicita fra controllore e controllato29. Chi accerta che le informa-zioni che il revisore fornisce al mercato siano affidabili? Se nonlo fossero, il problema del controllo si sarebbe semplicemente spo-stato a monte, ciascun singolo investitore non dovendo più im-piegare risorse per monitorare l’impresa, bensì il revisore. In ef-fetti, quest’ultimo, come il notaio cui spettano i controlli preven-tivi prima assicurati dall’omologa del tribunale, non rischia capi-tale proprio nell’impresa che esamina, né viene altrimenti diret-tamente e significativamente toccato dalle sue performance finali;potrebbe dunque non avere incentivi sufficienti a svolgere col do-vuto rigore il proprio compito e a riferirne fedelmente al princi-pale.

L’affidabilità della revisione riposa allora su di una efficaceregolamentazione. Abbiamo visto che il revisore è responsabiledelle proprie certificazioni e che la legge ne sottopone l’attività acontrollo pubblico, prescrivendo che essa sia svolta da operatoriprofessionalmente qualificati e imponendo divieti, quali quelli con-nessi all’esclusività dell’oggetto sociale e alla rotazione dell’incari-co, che dovrebbero assicurare l’indipendenza del revisore.

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28 In tal senso ad esempio STIGLITZ J. - WEISS A. [48].29 v. TIROLE J. [50]. Dato che, nell’ambito di cui ci occupiamo, eventuali ac-

cordi di collusione esplicita sono illeciti e non possono essere fatti valere in sedegiudiziaria, l’analisi considera solo l’eventualità di una collusione implicita.

Si noti come lo stesso problema sia affrontato in modo di-verso in altre forme di controllo delegato. Anche il venture capi-talist, ad esempio, deve accertarsi della qualità dell’impresa che fi-nanzia, ma lo fa sedendosi nel Consiglio di Amministrazione, ov-vero partecipando direttamente al progetto. Per quanto riguardail finanziamento intermediato dal sistema bancario, invece, il pro-blema è risolto in parte grazie alla sottoposizione del sistema ban-cario stesso ad una rigida vigilanza prudenziale, in parte graziealla particolare struttura delle attività e passività bancarie: la di-versificazione dell’attivo riduce grandemente la variabilità dellaperformance di una banca, riducendo sostanzialmente, in condi-zioni normali, la possibilità per il banchiere di annunciare perdi-te ai propri correntisti e neutralizzando di fatto il rischio dei de-positanti30.

II.2.2 Un modello di auditing

La teoria economica dunque evidenzia un problema di agen-zia, individua una possibile soluzione nel delegated monitoring esegnala però che si presenta il rischio di collusione fra agente econtrollore delegato.

È possibile andare oltre, cercando di dare conto delle speci-fiche caratteristiche che ha assunto la regolamentazione dell’atti-vità di revisione. La modellizzazione dell’attività di revisione, peressere realistica, richiede tuttavia una struttura che consideri al-meno 3 o 4 operatori (principale, agente, revisore ed eventual-mente un giudice), che dia conto della possibilità di collusione im-plicita e che consideri esplicitamente le caratteristiche dell’infor-mazione prodotta. Questo porta naturalmente ad utilizzare un ap-proccio di teoria dei giochi.

Di seguito si presenta un modello di delegated monitoring inpresenza di rischio morale, elaborato nella sua forma originariada Acemoglu [1], che va nella direzione indicata. In questo para-grafo ci si sofferma sugli elementi e meccanismi chiave, riman-

Il diritto societario 193

30 v. DIAMOND D. [14].

dando alle note i particolari. I risultati sono applicati alle speci-fiche norme sulla revisione nel paragrafo II.2.3.

Il modello è illustrato con riferimento al problema di agenziafra manager e azionisti. Tuttavia la struttura rimane identica (es-sendo necessario solo qualche piccolo aggiustamento nell’inter-pretazione) se viene applicato ad un problema di rischio moraleche contrapponga, invece, azionisti di maggioranza (dei quali imanager siano diretta emanazione) e azionisti di minoranza (o ilmercato finanziario in genere). In realtà, in molti paesi, fra cuil’Italia, «il problema di agenzia più importante non è il conflitto,sottolineato da Berle e Means, tra investitori esterni e managers,bensì quello tra investitori esterni ed azionisti di maggioranza, iquali hanno un controllo quasi totale sui managers»31.

Consideriamo un’impresa che porta avanti un progetto chepuò concludersi in ogni periodo con probabilità positiva, venen-do in tal caso rimpiazzato da uno nuovo nel periodo successivo.Con probabilità p il progetto è buono, e in tal caso al terminefrutta y con probabilità qg; con probabilità (1-p) è cattivo, e ugual-mente dà y, ma con probabilità qb, dove qb<qg; in caso di insuc-cesso ambedue i progetti danno 0. Un progetto può essere liqui-dato in ogni momento prima della conclusione, con un ricavo pa-ri a L. In media (non condizionata) il valore atteso di un proget-to è maggiore di L, tuttavia, mentre il valore atteso da un buonprogetto è superiore al valore di liquidazione, un progetto cattivoandrebbe immediatamente interrotto.

Si consideri il rapporto fra gli azionisti (principale) e il ma-nager dell’impresa (agente). Gli azionisti hanno interesse a intra-prendere e continuare un progetto solo se è buono, tuttavia nonsono in grado di conoscerne il tipo, bensì solo l’output finale (0o y) quando esso ha termine. Si assume invece che il manager co-nosca il tipo di progetto e tuttavia cerchi sempre di portarlo avan-ti fino alla fine, che la probabilità di successo sia alta (e, dunque,il progetto buono) o bassa (cattivo): è l’idea del manager come ab-solute empire builder (Hart e Moore, [25]). In ogni periodo, anchese il progetto non è terminato, dai bilanci dell’impresa se ne po-

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31 v. La PORTA R. et Al. [32], p. 16; v. anche SHLEIFER A. - VISHNY R.[47].

trebbe evincere la natura, per questo, in caso di progetto cattivo,il manager ha incentivo a presentare dei conti che non rappre-sentano fedelmente la situazione societaria32. Si crea dunque unasituazione di rischio morale (non legata alla osservabilità del ri-sultato finale, bensì al tipo di progetto intrapreso) che gli azioni-sti possono cercare di risolvere ricorrendo ad un auditor (delega-ted monitor).

In ciascun periodo l’auditor esamina i conti della società, sco-pre se sono veritieri o meno e fornisce un responso agli azionisti.Agli occhi di quest’ultimi l’attestazione dell’auditor ha dunque ilvalore di una dichiarazione sulla bontà o meno del progetto. Nonsempre, tuttavia, il revisore riesce a documentare adeguatamentela propria risposta: solo in alcuni casi, nei quali il progetto è cat-tivo, egli arriva a disporre di una evidenza che lo mette in gradodi dimostrarlo agli azionisti (hard information, H); negli altri ca-si (tutti quelli in cui il progetto è buono e alcuni nei quali è cat-tivo) egli può solo dichiarare, senza poter dimostrare, la naturadel progetto (soft information, S)33. Assumere un auditor potràdunque ridurre l’incertezza (l’informazione hard non ammette am-biguità), ma non eliminarla del tutto.

Oltre alla revisione, l’auditor svolge altre attività per l’impre-sa. Con probabilità positiva, tuttavia, svolge tali attività in modonon soddisfacente e, per ipotesi, deve essere licenziato dal mana-ger, che ne osserva il comportamento, non osservabile invece da-gli azionisti34.

Il diritto societario 195

32 Si pensi ad esempio alla possibilità di indicare un numero di sottoscrittoriad un servizio che l’impresa sta lanciando più elevato del reale.

33 Le ipotesi che il revisore scopra sempre la verità e che quando il progettoè buono l’informazione sia sempre soft rendono più semplice il modello ma nonsono critiche ai fini del risultato. Sulla distinzione fra informazioni soft e hard v.ANTLE R. [2], TIROLE J. [50].

34 L’ipotesi che il manager possa licenziare l’auditor è cruciale. Nella realtàspetterebbe invece all’assemblea, dunque agli azionisti, l’autorità sulla nomina o illicenziamento del revisore. Tuttavia, il potere dell’assemblea di nominare il revi-sore è meramente formale: come nota l’Antitrust (Autorita Garante della Concor-renza e del Mercato [5], pp. 63-5), «è importante mettere in evidenza la non coin-cidenza fra i fruitori — in primo luogo gli azionisti — del servizio di revisione ei suoi acquirenti — i managers — i quali si trovano nella condizione di sceglieree remunerare il proprio controllore»; sono gli amministratori a preparare la deli-bera, che viene solo ratificata dall’assemblea, ed essi avranno quasi sempre buon

È proibita ogni forma di collusione esplicita fra manager eauditor. Tuttavia non è detto che all’auditor converrà sempre ri-velare il vero agli azionisti e non, invece, attestare la veridicità deiconti presentati dal manager, dichiarando un progetto buono an-che se in realtà è cattivo. Questo dipenderà dagli incentivi del-l’auditor. Si assume che egli sia neutrale al rischio e che dalle at-tività che svolge per l’impresa ottenga, in ogni periodo, oltre aicosti medi (assunti pari a 0), una rendita, esogenamente data, pa-ri a R. Tale rendita è originata da condizioni di non perfetta com-petizione nel mercato della revisione e/o da costi di sostituzionedell’auditor per l’impresa e/o dal vantaggio competitivo che l’in-carico di revisione offre al revisore nello svolgimento delle attivitàaccessorie. Se viene licenziato, l’auditor perde la rendita, dunqueha un incentivo ad essere confermato nell’incarico.

Oltre a R, l’auditor può ricevere un premio condizionato al ri-sultato dell’impresa, z, o alla sua dichiarazione (un pagamento βogni volta che dichiara che il progetto è cattivo). Invece, se l’au-ditor dà un responso positivo ma il progetto si conclude a fine pe-riodo con un fallimento, egli è portato dagli azionisti in tribuna-le dove, se il progetto era cattivo, viene scoperto con probabilitàpositiva e deve, in tal caso, pagare una multa.

Per finire, si assume che il manager abbia un costo positi-vo, ancorché arbitrariamente piccolo, di licenziamento dell’audi-tor, cosicché, ceteris paribus, preferirà non licenziarlo, e cheazionisti e revisore abbiano un uguale tasso di sconto intertem-porale.

Vale la pena di sottolineare fin d’ora l’importante ruolo chele attività accessorie rivestono nello spiegare il possibile emerge-re degli equilibri collusivi. In primo luogo, come detto, le attivitàaccessorie sono una possibile fonte di rendita per il revisore, dacui origina un incentivo a non perdere il proprio incarico. In se-condo luogo, la presenza di attività accessorie rende l’eventuale li-

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gioco nello sbarazzarsi di un revisore sgradito in sede assembleare. Se poi si con-sidera il problema di agenzia come rapporto fra azionisti di maggioranza e mi-noranza, piuttosto che fra azionisti e manager, risulta ancora più evidente quan-to ridotta sia la capacità da parte della minoranza tanto di influire sulla nominadel revisore quanto di avere precise informazioni sulle modalità di svolgimentodelle attività accessorie che questi eventualmente svolge per l’impresa.

cenziamento dell’auditor da parte del manager ambiguo agli occhidegli azionisti, che non sanno se sia dovuto all’incorruttibilità oall’incapacità del revisore; questo però apre la porta alla possibi-lità che il manager licenzi l’auditor anche se questi non ha man-cato ai suoi compiti, e così avverrà se, con ciò facendo, riusciràad aumentare la probabilità che gli azionisti continuino il pro-getto.

La situazione descritta è rappresentabile come un gioco di-namico con informazione imperfetta fra tre giocatori (auditor, ma-nager, shareholder) e con 5 mosse della natura35 (graf. 1).

Quando l’auditor si trova a fronteggiare un progetto cattivocon soft information, se dice che il progetto è cattivo e viene li-cenziato guadagna sia la rendita R nel periodo corrente che il pa-gamento contingente alla sua dichiarazione β, ma rinuncia allarendita nei periodi futuri. Per evitare la collusione fra auditor emanager, ovvero che l’auditor dichiari il progetto buono anchequando è cattivo ma non può provarlo, gli azionisti dovrebberoallora offrire pagamenti contingenti (β o subordinati al risultato,z) tali da compensare tale perdita, al netto dei costi giudiziari cheil revisore si aspetta di dover pagare quando collude (probabilitàdi essere scoperto per relativa multa).

Il diritto societario 197

35 Nel grafico 1 si riporta l’albero del gioco, che può essere descritto come se-gue:

1) quando il progetto viene avviato, la natura decide se è buono o cattivo; 2)all’inizio di ogni periodo la natura decide se l’evidenza è hard o soft (potranno dar-si i tre casi di progetto cattivo + evidenza hard, progetto cattivo + evidenza soft,progetto buono + evidenza soft); 3) la natura decide se l’auditor manca o menonelle attività accessorie che svolge per l’impresa; 4) l’auditor esamina i conti e, at-traverso la propria attestazione, “dichiara” agli azionisti se il progetto è buono ocattivo e, in quest’ultimo caso, se dispone di evidenza hard; 5) il manager decidese licenziare o meno l’auditor, cosa che avviene obbligatoriamente nel caso egliabbia mancato nelle sue attività accessorie; 6) gli azionisti decidono se continua-re o liquidare il progetto sulla base del rapporto del revisore (progetto buono/cat-tivo, evidenza hard/soft) e sulla decisione del manager (licenziamento/conferma);7) nel caso il progetto venga continuato, ancora la natura decide se il progetto hao meno termine nel periodo, e se il risultato è y o 0; 8) se il progetto, buono ocattivo che sia, viene continuato e non finisce nel periodo, il gioco riprende nelperiodo successivo dal punto 2; 9) se il progetto si conclude nel periodo con uninsuccesso (output pari a 0) mentre l’auditor aveva certificato che era buono, gliazionisti lo citano in giudizio; 10) davanti al giudice, l’auditor è sempre assolto serisulta che il progetto era buono; 11) se invece il progetto era cattivo, la naturadetermina se l’auditor è o meno condannato al pagamento di α.

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GRAF. 1

L’ALBERO DEL GIOCO* FRA AUDITOR, MANAGER, SHAREHOLDERS

* v. Acemoglu D. [1].Legenda:prog buono: il progetto è buonoprog cattivo: il progetto è cattivohard info: evidenza dimostrabile che il pro-getto è cattivosoft info: evidenza non dimostrabileinc: auditor manca nei suoi compiti ac-cessoricomp: auditor non manca nei suoi compi-ti accessorig: l’auditor “dichiara” che il progetto è buo-no (soft info)b: l’auditor “dichiara” che il progetto è cat-tivo (soft info)bh: l’auditor “dichiara” che il progetto ècattivo (hard info)f: il manager licenzia l’auditor

k: il manager conferma l’auditornc: lo shareholder liquida il progettopr: lo shareholder continua il progettoc: il progetto continua nel periodo succes-sivoei: il progetto finisce con un insuccessoes: il progetto finisce con un successosue: lo shareholder cita l’auditor in giudi-zioco: l’auditor è condannatoas: l’auditor è assoltoN = naturaA = auditorM = managerS = shareholdershareholder’s information sets:[{S1, S3}, {S2, S5, S8, S11, S14, S17},{S4}, {S6, S12, S18}, {S7, S9, S13, S15}, {S10, S16}].[{S19, S20, S22, S23, S25, S26}, {S21, S24, S27}].

Il risultato36 (graf. 2) è che se R è sufficientemente alto ma-nager e auditor colluderanno, mentre risulterà ottimale per gliazionisti accettare tale collusione implicita e ridurre al minimo ipagamenti contingenti, ricorrendo invece a compensi di ammon-tare fisso (i costi medi più R, esogeno) e al ricorso al giudice quan-do, a fronte di una dichiarazione positiva da parte dell’auditor, ilprogetto fallisce37. Nel caso invece la rendita dell’auditor sia bas-sa converrà agli azionisti proporre pagamenti contingenti e l’e-quilibrio del gioco sarà non collusivo, con l’auditor che dichiareràsempre correttamente di che tipo è il progetto.

La collusione emerge dunque dal tentativo del revisore dimantenere la propria rendita assicurandosi la riconferma nell’in-

Il diritto societario 199

36 Si assume che la dichiarazione dell’auditor abbia un valore intrinseco, nelsenso che gli azionisti non continuano col progetto se il report è negativo e l’au-ditor non viene licenziato. Si considera poi che:

I) quando gli azionisti ricevono un’evidenza (cattiva) hard non avranno dub-bi e liquideranno il progetto; II) il manager troverà ottimale non licenziare, se può(ovvero se non ha fallito nelle attività accessorie), un auditor, che, in possesso diinformazioni hard, dichiari che il progetto è cattivo; III) quando l’auditor ha svol-to in maniera non soddisfacente le proprie duties gli converrà riportare che il pro-getto è cattivo: in tal caso sarà infatti sempre licenziato, ma almeno guadagneràβ; IV) conseguentemente, se l’auditor dispone di informazioni hard troverà otti-male dichiarare che il progetto è cattivo; V) quando il progetto è buono, o è cat-tivo con informazione soft, se l’auditor non manca ai suoi compiti accessori e at-testa che il progetto è buono non verrà licenziato e lo shareholder continuerà colprogetto. Se infatti il manager lo licenziasse non aumenterebbe la probabilità dicontinuare il progetto (cioè la probabilità che gli azionisti assegnano al progettodi essere buono) e dovrebbe pagare in più il costo di licenziamento dell’auditor;VI) il manager licenzierà un auditor che non manchi ai suoi compiti ma dichiariche il progetto è cattivo quando in realtà è buono se vi sarà una probabilità po-sitiva che in tal modo gli azionisti continuino il progetto. Infatti se non lo licen-ziasse, l’auditor dichiarerebbe sempre cattivo il progetto, indipendentemente dallasua vera natura, ed esso sarebbe conseguentemente liquidato in tutti i casi neiquali l’auditor non deve essere licenziato; VII) per β non troppo elevato, quandoil progetto è buono e l’auditor ha svolto in maniera soddisfacente le altre attivitàper l’impresa, questi confermerà che è buono; VIII) si esamina poi come varianola probabilità assegnata dagli azionisti a che il progetto sia buono e la strategiadell’auditor a seconda che il manager licenzi o confermi un auditor che, malgradol’informazione sia soft, segnali un progetto cattivo agli azionisti, invece di collu-dere e dichiarare invece che è buono.

37 Se quando un auditor viene licenziato un’altro viene assunto nello stesso pe-riodo (invece che, come nel modello esposto nel testo, nel periodo successivo), pos-sono emergere equilibri reputazionali, nei quali un equilibrio collusivo verrà so-stenuto dalla convinzione che anche gli eventuali nuovi auditor colluderanno, men-tre nel caso l’attesa sia di comportamenti non collusivi prevarrà un equilibrio noncollusivo.

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GRAF. 2

LA SOLUZIONE DEL GIOCO(escluso nel ramo di progetto cattivo

con informazione soft e auditor che non manca alle sue duties accessorie)

Legenda:prog buono: il progetto è buonoprog cattivo: il progetto è cattivohard info: evidenza dimostrabile che il pro-getto è cattivosoft info: evidenza non dimostrabileinc: auditor manca nei suoi compiti ac-cessoricomp: auditor non manca nei suoi compi-ti accessorig: l’auditor “dichiara” che il progetto è buo-no (soft info)b: l’auditor “dichiara” che il progetto è cat-tivo (soft info)bh: l’auditor “dichiara” che il progetto ècattivo (hard info)f: il manager licenzia l’auditork: il manager conferma l’auditor

nc: lo shareholder liquida il progettopr: lo shareholder continua il progettoc: il progetto continua nel periodo succes-sivoei: il progetto finisce con un insuccessoes: il progetto finisce con un successosue: lo shareholder cita l’auditor in giudi-zioco: l’auditor è condannatoas: l’auditor è assoltoN = naturaA = auditorM = managerS = shareholdershareholder’s information sets:[{S1, S3}, {S2, S5, S8, S11, S14, S17},{S4}, {S6, S12, S18}, {S7, S9, S13, S15}, {S10, S16}].[{S19, S20, S22, S23, S25, S26}, {S21, S24, S27}].

carico, tentativo che deve però tenere conto della punizione allaquale egli andrà incontro nel caso sia poi condannato dal giudi-ce. Si notino gli elementi chiave che sostengono il risultato di col-lusione. L’esistenza di una rendita sufficientemente elevata, in-nanzitutto, ma anche la possibilità per il manager di influenzarneil godimento da parte dell’auditor, la qual cosa richiede che eglipossa licenziarlo e che risulti ambiguo agli occhi degli azionistise il licenziamento è dovuto all’incompetenza o alla decisione dinon colludere. Infine, si noti che ricorrere ad un auditor è co-munque utile all’azionista, anche quando l’equilibrio è quello col-lusivo, dato che permette di ridurre, ancorché non eliminare to-talmente, l’incertezza (il che è catturato dall’ipotesi che l’auditorpossa venire in possesso di evidenza hard).

II.2.3 Le implicazioni del modello per la disciplina della revisione

L’enfasi del modello sulla collusione implicita e sugli incenti-vi del revisore a venir confermato nell’incarico presenta notevolispunti di realismo. In effetti, «contabili, sociologi e avvocati en-fatizzano l’instaurarsi di relazioni protratte nel tempo e conside-razioni di tipo dinamico come la vera minaccia all’indipendenzadei controllori in particolare e dei revisori contabili in particola-re»38. Tale realismo permette di valutare la criticità di molti deglielementi che caratterizzano il sistema di regolazione dell’attivitàdi revisione, chiarendo il meccanismo attraverso il quale essi au-mentano l’efficacia del controllo.

Si consideri infatti che nel modello l’emergere di un equili-brio collusivo fra revisore e manager è tanto più probabile: a)quanto minore è l’indipendenza del controllore, ovvero maggiorigli incentivi a colludere col manager; b) quanto minori sono i co-sti in cui incorre l’auditor colluso quando viene smascherato; c)quanto più ambigua è l’informazione che arriva a conoscenza del-l’azionista.

a) Gli incentivi alla collusione dipendono dalla rendita R at-

Il diritto societario 201

38 v. ACEMOGLU D. [1], summary.

tesa dal revisore: la sua indipendenza diminuisce al crescere delcosto opportunità della mancata collusione col manager. Analiz-ziamo le possibili fonti di tale rendita e gli istituti finalizzati a ri-durre gli incentivi alla collusione.

Innanzitutto, l’attività di revisione genera economie di sco-po, che spingono le società di revisione verso lo strutturarsi co-me imprese multi-prodotto, affiancando attività di consulenza aquelle di auditing: la rendita può essere dunque estratta dalle at-tività accessorie svolte per l’impresa, che il revisore in carica puòassicurare a costi più contenuti rispetto ad un consulente ester-no. In tal senso la norma sull’esclusività dell’oggetto sociale, proi-bendo alle società di revisione di offrire servizi accessori, tendea ridurre gli incentivi alla collusione, anche se all’effetto anti-collusivo della norma si contrappone il costo di non poter uti-lizzare un patrimonio informativo che permetterebbe all’impre-sa di usufruire delle consulenze di cui ha bisogno a prezzi piùcontenuti. Come già richiamato nel parafrago II.1.3, la dram-matica riduzione del novero delle attività non direttamente con-nesse alla revisione che è permesso svolgere alla società di au-diting è, in effetti, uno dei punti qualificanti della nuova leggeamericana sui controlli; per comprendere quanta importanza ri-vesta tale aspetto, basti ricordare che nel 2001 la quota di fat-turato originata dalla revisione si era ridotta per le maggiori so-cietà di revisione ad appena un terzo39 e che, vuoi per anticipa-re la legge, vuoi per evitare crolli nella reputazione, fin dai pri-mi mesi del 2002 tutte si sono attivate per separare e vendere leproprie divisioni di consulenza.

In secondo luogo, la rendita del revisore origina dalla strut-tura oligopolista del mercato, dominato, come detto, da 5 grandiimprese che hanno un vantaggio sostanziale in termini di dimen-sioni, competenze tecniche, copertura su scala internazionale delservizio, reputazione, il che si traduce in un’efficace barriera al-l’entrata. Conseguentemente, la rendita si riduce se aumenta laconcorrenza nel settore della revisione.

Il punto merita di essere sottolineato. Nel mondo fin qui de-

202 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

39 v. FRANKEL R. - JOHSON M. - NELSON K. [18].

scritto vi sono due fonti di inefficienza di base: da una parte l’a-simmetria informativa, che genera la necessità di monitoraggio;dall’altra la struttura non perfettamente concorrenziale del mer-cato, cui si deve l’insorgere del potere di mercato dell’auditor edella conseguente rendita. Tuttavia, il combinato di asimmetrieinformative e mancanza di concorrenza genera un terzo elemen-to di inefficienza, rappresentato dalla collusione fra agente e con-trollore, cui sono associati ulteriori costi, aggiuntivi rispetto aquelli di monitoraggio e a quelli originati dalla sola rendita. In al-tre parole, non solo la scarsa concorrenza produce prezzi supe-riori ai costi medi, ma favorisce anche la collusione dell’auditorcol manager, poiché dalla rendita origina un costo opportunità diperdere l’incarico. La tutela della competizione nel mercato dellarevisione assume dunque importanza centrale, e rende ancora piùimportanti gli interventi, come quello già ricordato nel paragrafoII.1.3, dell’Antitrust contro intese collusive fra le società di revi-sione.

Infine, la presenza di costi fissi firm specific per il revisore edi costi di cambio revisore per l’impresa (formazione del team aglispecifici sistemi contabili e di controllo interno adottati) generaquasi-rendite e l’incentivo per il revisore a mantenere il più a lun-go possibile il proprio incarico. A contrastare tale fenomeno è l’ob-bligo di rotazione periodica dei revisori, che impone un limitemassimo al valore della rendita attesa dall’auditor, che verrà co-munque ad esaurirsi alla fine del mandato, anche se a costo del-la dissipazione degli investimenti firm specific, che si tradurrà inun aumento del prezzo dei servizi di revisione40. In effetti, pro-prio l’opportunità di contenere gli effetti sui prezzi dell’obbligo dirotazione ha suggerito di permettere il rinnovo del mandato suun periodo di una certa lunghezza, il che permette di spalmaregli investimenti firm specific su più anni.

b) Consideriamo poi che la collusione è tanto minore quantopiù alta è la punizione attesa dall’auditor “infedele”, ovvero quan-

Il diritto societario 203

40 Come già visto (v. sopra, prg. II.1.3), le legge italiana proibisce il rinnovodel mandato di revisione oltre il IX anno, mentre negli Stati Uniti la legge Sar-banes-Oxley ha fissato la durata massima in 5 anni.

to maggiori sono la probabilità di essere scoperti in caso di col-lusione e la conseguente multa.

Questo suggerisce cautela circa la ventilata introduzione dilimiti alle responsabilità del revisore: un revisore che abbia unabassa probabilità di essere scoperto, o debba pagare un ammon-tare contenuto quando viene condannato, adotterà più facilmen-te comportamenti collusivi.

D’altra parte, se si introducesse nel modello una possibilità,per quanto remota, che l’auditor sia riconosciuto colpevole anchequando non lo è, in caso la punizione sia molto elevata potreb-bero originarsi comportamenti perversi, che minerebbero l’effica-cia stessa del controllo delegato: potrebbe infatti diventare con-veniente per l’auditor essere più realista del Re, ed evitare di as-sumersi qualunque responsabilità dichiarando sempre e comun-que che il progetto è cattivo. Rinuncerebbe in tal modo alla ren-dita, ma riceverebbe comunque β (per quanto basso) ed evitereb-be una, magari improbabile ma alquanto costosa, condanna in ca-so di insuccesso41.

c) Infine, la revisione è tanto più efficace quanto più chiaraè l’informazione che arriva agli azionisti.

Di nuovo, qui gioca un ruolo chiave l’esclusività dell’oggettosociale: essa rende cristallina l’origine dei problemi che possonoinsorgere fra manager e auditor, permettendo di uscire dall’ambi-guità sul come vada interpretato un cattivo report, se come risul-tato veritiero dell’esame del progetto o come dichiarazione di unauditor che, avendo mancato nelle altre attività che svolge per l’im-presa, sa che sarà comunque licenziato, di qualunque sia il segnodel suo rapporto.

Rimane la possibilità, non considerata nel modello ma chepuò creare lo stesso tipo di ambiguità sul significato del licenzia-mento del revisore, che egli debba essere licenziato perché dimo-stratosi inadeguato a svolgere l’attività stessa di auditing. Ad evi-tare ciò interviene la supervisione da parte di un’autorità pubbli-ca come la Consob e l’imposizione di stringenti requisiti profes-

204 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

41 DE FOND M. - SUBRAMANYAM K. [12] evidenziano come i revisori assumanoatteggiamenti più “conservatori” verso le imprese che presentano un rischio mag-giore di suscitare contese giudiziarie.

sionali e auditing standard, a garanzia della capacità del revisore.Ne emerge un quadro nel quale il licenziamento del revisore do-vrebbe poter essere letto, senza ambiguità, come una ritorsioneda parte del management.

La tavola 2 riassume i meccanismi sui quali agiscono gli spe-cifici istituti regolamentari della revisione, ai fini di evitare la col-lusione fra manager e auditor. L’ultima colonna indica i costi so-ciali delle singole norme, da confrontare con i benefici originatidalla diminuita possibilità di collusione.

Il diritto societario 205

TAV. 2

LE MISURE VOLTE AD EVITARE LA COLLUSIONE

finalità → tutela principale via costi della delegated monitor regolamentazione

meccanismo → riduzione punizione aumentoprovvedimenti ↓ incentivi dell’auditor trasparenza

alla “infedele” dell’informazionecollusione

obbligo di perdita investimentirotazione dei X firm specificrevisori

esclusività rinuncia alle economiedell’oggetto X X di scopo generate dalsociale la revisione sui servizi

accessori di consulen-za

responsabilità rischio di un uso stru-del revisore X mentale della respon-

sabilità del revisore

tutela concorrenza rischio peggioramen-nel settore della X to della qualità dellarevisione revisione a seguito di

eccessiva concorrenzadi prezzo

supervisione X aumento dei costidella revisione

requisiti costituiscono una bar-professionali X riera all’entrata

II.2.4 Obbligatorietà del controllo, reputazione e tutela di investi-tori e creditori sociali

Un’obiezione che può essere avanzata ai modelli principale -agente é che non danno conto del perché debba esserci un obbli-go di ricorrere al revisore. In fondo, i soci e risparmiatori in ge-nere, quando finanziano un’impresa, lo fanno volontariamente, epotrebbero tranquillamente rifiutare capitale a chi non dia ade-guate garanzie in termini di certificazione dei bilanci.

Tale obiezione punta al fatto che, accanto alla funzione di tu-tela del singolo principale, il monitoring può assolvere anche lapiù generale funzione di tutela del mercato, fissando gli standardminimi richiesti a determinate categorie di imprese e riducendocosì grandemente il carico di informazioni che un qualunque sog-getto che entra in contatto con l’impresa deve procurarsi e verifi-care. È in tal senso che l’obbligo di revisione, così come il con-trollo notarile dell’atto costitutivo, assume un ruolo sostitutivo delcontrollo diretto pubblico; invero, l’auditing è nato proprio quan-do ci si è trovati davanti alla necessità di introdurre un sistemadi controlli gestibile senza appesantire oltre misura l’Amministra-zione Pubblica42.

Va valutato, però, se alla sostituzione di una modalità di con-trollo con un’altra non si accompagni anche una ridefinizione deisoggetti e degli interessi tutelati.

In effetti, la tutela offerta dai controlli delegati sembra in pri-mo luogo indirizzata ai potenziali investitori e al mercato finan-ziario che, senza bisogno di esaminare i bilanci, saprebbero chele imprese di un certo tipo soddisfano determinati requisiti e chenon sussiste un problema forte di selezione avversa e rischio mo-rale del manager. L’estensione dell’obbligo di revisione nella rifor-ma del diritto societario sarebbe allora giustificato anche dall’al-largamento della platea di imprese che possono ricorrere al mer-cato dei capitali. Per giunta, il mercato finanziario, sul quale ope-rano operatori professionisti, sarebbe dotato di uno strumento dipunizione dell’auditor colluso aggiuntivo rispetto alla responsabi-

206 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

42 v. LA PORTA R. et Al. [32], p. 28.

lità giudiziaria: quello che deriva dalle conseguenze, per il revi-sore, della perdita della propria reputazione: un auditor privo direputazione serve poco al principale, ma serve poco anche al ma-nager e non verrà quindi assunto43.

L’altra categoria di agenti che i controlli delegati dovrebberotutelare è rappresentata dagli stakeholders, in particolare dai for-nitori e creditori sociali diversi dai detentori di strumenti finan-ziari di debito. Per essi risulterebbe ancora più costoso e diffici-le che per gli investitori effettuare un controllo preventivo, e sa-rebbe ancora più elevato il costo sociale, in termini di minore at-tività economica, dell’eventuale rinuncia ad avviare rapporti eco-nomici con l’impresa. Ancora più sentita, dunque, l’esigenza di as-sicurare standard minimi uniformi; in effetti, alla tutela di tali sog-getti (oltre che del fisco) erano principalmente finalizzati istitutiquali l’omologazione giudiziaria, la disciplina dei conferimenti, lenorme sui bilanci, ora giudicati poco efficaci ed eccessivamenteinibenti e distorcenti i comportamenti imprenditoriali.

Da questo punto di vista, sorgono però alcune perplessità cir-ca l’efficacia che potrà avere il sistema di controlli delegati che siva delineando, perplessità che inducono a ritenere che la tuteladei creditori sociali e degli altri stakeholders sia un problema ir-risolto nella riforma del diritto societario. Da un lato, infatti, l’in-dipendenza del notaio cui viene affidato il controllo sull’atto co-stitutivo nei confronti di impresa e manager è molto bassa e, inogni caso, è dubbio che la gran parte dei creditori sociali saran-no in grado di far valere le proprie ragioni nei confronti del no-

Il diritto societario 207

43 Questo almeno in teoria. Nella realtà, il meccanismo reputazionale sembraoperare efficacemente solo in occasione di fatti eclatanti, quali quelli che hannocoinvolto l’Arthur Andersen, mentre in condizioni “normali” è controverso. SeFRENKEL R. - JOHSON M. - NELSON K. [18] ne trovano qualche evidenza nel casoamericano, in Italia, LONGO M. - MACCHIATI A. [34] non ne trovano alcuna: la quo-ta di mercato di una società di revisione non varia significativamente dopo l’e-manazione di provvedimenti sanzionatori da parte della Consob. In Cina, DE FOND

M. - WONG T. - SHUHUA L. [13], p. 269, mostrano come l’imposizione di requisitidi revisione più stringenti abbia semplicemente prodotto il passaggio verso revi-sori di qualità inferiore, meno incisivi, e attribuiscono ciò all’assenza di un mer-cato in grado di valutare la relazione di revisione e “punire” un auditor poco ze-lante: «la nostra ipotesi è che questa “fuga dalla qualità della revisione contabile”derivi dalla mancanza di incentivi a richiedere revisori indipendenti».

taio che a suo tempo ha redatto un atto costitutivo anche “mani-festamente” non conforme alla legge. D’altra parte, è difficile pen-sare a creditori sociali quali i fornitori o i lavoratori, agenti nonprofessionalmente esercitanti attività di finanziamento, in gradodi valutare preventivamente la relazione del revisore, ed è diffici-le che tali soggetti possano in qualche modo “punire” l’auditor sulpiano della reputazione. L’unico strumento effettivo di tutela pertali soggetti risulterebbe la chiamata in giudizio sulla base dellaresponsabilità civile del revisore, cosa che potrebbe rivelarsi spes-so troppo difficile (stante che l’onere della prova spetta al ricor-rente), ma che, altre volte, potrebbe stimolare comportamenti deicreditori volti a rivalersi sull’auditor laddove non è più possibilerivalersi sull’impresa (come già adesso lamentano le società di re-visione, v. prg. II.1.3 sopra)44.

II.3. - Conclusioni

Le finalità economiche della riforma del diritto societario, disemplificazione, valorizzazione dell’autonomia organizzativa,apertura al mercato, crescita dimensionale delle imprese italiane,rendono centrale il tema dei controlli societari e le modalità disoluzione del conflitto di agenzia fra azionisti, manager, creditorisociali.

Il diritto societario è chiamato a raggiungere un difficile equi-librio fra opposte esigenze. La singola impresa, di per sé, chiede-

208 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

44 L’impressione che nella riforma del diritto societario la tutela dei creditorisociali sia in qualche modo sacrificata all’esigenza di lasciare spazio all’autonomiadell’impresa e che la tutela riguardi i risparmiatori piuttosto che i terzi è confer-mata dal fatto che nella Relazione di accompagnamento alla legge di riforma si faspesso riferimento alla tutela dei primi e quasi mai a quella dei secondi. Si pen-si anche al ruolo assegnato nel nuovo diritto societario ai conferimenti, che do-vrebbero essere soprattutto finalizzati a garantire la piena operatività sociale, co-sicché qualunque elemento utile all’impresa, pur se difficilmente liquidabile, po-trebbe essere oggetto di conferimento. Sulla stessa linea si muovono varie propo-ste di riforma del diritto fallimentare, miranti a considerare il fallimento (piutto-sto che la perdita del capitale sociale o del patrimonio) come possibilità conna-turata al rischio d’impresa. In parziale controtendenza la norma della riforma cheprevede l’aumento del capitale minimo delle Spa, che, implicitamente, confermaal capitale sociale un ruolo di garanzia dei creditori, rinunciando così a possibiliforme alternative di tutela, quali quelle basate sul patrimonio.

rebbe massima semplificazione e minima interferenza sulla pro-pria attività. Tuttavia, senza controlli a tutela dei diritti di terzi esoci potrebbe essere difficile procurarsi finanziamenti, o porre inessere quei normali rapporti commerciali che definiscono l’attivitàstessa d’impresa.

I soggetti coinvolti possono attivare i controlli autonoma-mente, in particolare affidando quelli contabili ad un auditor ester-no all’impresa. Tuttavia l’autorità governativa può farsi carico inprima persona dei controlli, o rendere obbligatorio il ricorso acontrollori esterni, quando intenda garantire determinati standardminimi e permettere al mercato di percepire con immediatezza lecaratteristiche e l’affidabilità dei vari tipi di impresa.

Da questo punto di vista la nuova normativa fa una doppiascelta. Da una parte ridefinisce il sistema dei controlli, valoriz-zando quelli esterni ad opera di professionisti piuttosto che l’in-derogabilità delle norme e il controllo autoritativo (la qual cosa,di per sé, implicherebbe una normativa finalizzata al raggiungi-mento dello stesso livello di tutela precedente attraverso nuovistrumenti). Dall’altra ridefinisce in parte le finalità e i destinataridel controllo: se l’obbligatorietà della revisione contabile è sicu-ramente strumento prezioso per gli operatori finanziari e, sia purper via mediata, per gli investitori individuali, più dubbio è se es-sa possa sostituire efficacemente, agli occhi dei creditori sociali,il precedente sistema di prescrizioni, divieti e controlli diretti pub-blici, che proprio nella tutela dei creditori sociali (e del fisco) tro-vava il fine dichiarato.

In ogni caso, l’accresciuta rilevanza di controlli esterni dele-gati a professionisti, in condizioni nelle quali sono presenti po-tenziali rischi di collusione fra controllore e impresa, aumental’importanza di una regolazione efficace di tali attività e, in par-ticolare, della revisione contabile. In tal senso, le norme sull’e-sclusività dell’oggetto sociale, sulla rotazione degli incarichi, sul-la responsabilità del revisore, sui requisiti professionali sono cru-ciali, così come importante è la piena attivazione del meccanismoconcorrenziale nel mercato della revisione, che dovrebbe, eroden-do le rendite, ridurre l’incentivo alla collusione fra controllore econtrollato.

Il diritto societario 209

III. - La riforma del diritto societario relativa alle societàcooperative: scopo mutualistico e tutela dei soci finan-ziatori alla luce della teoria economica*

Il tema delle società cooperative è uno dei nodi centrali deldibattito che ha accompagnato la riforma del diritto societario.La disciplina delle cooperative vigente non risulta più adeguataalla realtà economica attuale. L’evoluzione dei mercati rende ne-cessario acquisire capitale di rischio per far fronte alle mutate esi-genze competitive, e si richiedono forme di governo societario piùappropriate ad incentivare l’efficienza e la qualità della gestionesocietaria. Le disposizioni proposte per la riforma del settore mi-rano ad attrarre verso le cooperative capitale di rischio e capacitàmanageriali, offrendo ai finanziatori esterni adeguati incentivi eco-nomici e di partecipazione alle decisioni dell’impresa. Nel dibat-tito che ha accompagnato la riforma è stato sottolineato il difet-to di tali disposizioni di fare rinvii troppo generici alla disciplinadelle Srl e delle Spa e di offrire una tutela eccessiva ai soci fi-nanziatori riducendo in maniera rischiosa la linea di confine tracooperative e società di capitali. La legge n. 366 del 2001 intro-duce una distinzione tra cooperative costituzionalmente ricono-sciute e non costituzionalmente riconosciute, riservando a questeultime, per le quali lo scopo mutualistico non è prevalente, le di-sposizioni più incisive in tema di flessibilità organizzativa e tute-la dei soci finanziatori. L’applicazione delle agevolazioni pubbli-che è però riservata alle cooperative costituzionalmente ricono-sciute. Considerata l’ampiezza della delega al governo, è di fon-damentale importanza l’interpretazione contenuta nel decreto diattuazione n. 6 del 2003 su cui ha lavorato la commissione Viet-ti e che relativamente alle società cooperative, riscrive integral-mente il titolo VI del libro V del codice civile. Tale decreto, che

210 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

* di Laura Cavallo <[email protected].> ringrazia i partecipanti alla 42ªRiunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti per gli utilicommenti. Un particolare ringraziamento va a L. De Nuccio, C. De Vincenti, D.Marchesi e A. Zevi per le osservazioni e chiarimenti. Valgono i consueti caveat. Leconsiderazioni esposte sono dell’autore e non necessariamente rispecchiano quel-le della Presidenza del Consiglio e in nessun modo possono essere attribuite a det-ta istituzione. [Cod. JEL: K22, G30, G32 G38].

entrerà in vigore il 1º gennaio 2004, sarà quindi costantemente ri-chiamato nelle pagine che seguono.

I nodi cruciali della riforma riguardano: a) quali e quante coo-perative rientreranno tra le cooperative costituzionalmente rico-nosciute (a mutualità prevalente, come indicato nel testo del de-creto); b) come verrà impostata la relativa disciplina.

In questo capitolo viene analizzato, alla luce della teoria eco-nomica e finanziaria, uno degli aspetti più controversi emersi neldibattito sulle società cooperative: la compatibilità delle disposi-zioni che favoriscono l’afflusso di capitali e di nuove capacità ma-nageriali verso le cooperative con la natura originaria di questeimprese e la conservazione dei tratti che le distinguono dalle so-cietà di capitali.

Il paragrafo III.1 illustra i timori emersi in sede di discussio-ne dei provvedimenti che hanno preceduto la legge di riforma e lasoluzione adottata nel testo della legge; il paragrafo III.2 discutele definizioni di cooperativa ai fini civilistici e fiscali, e il ruolo del-la struttura organizzativa della cooperativa nella scelta delle mo-dalità di ricorso ai capitali esterni e nella applicazione dei princi-pi di tutela dei soci finanziatori previsti dalla riforma. Il paragrafoIII.3 propone e discute strumenti finanziari incentivo-compatibiliche non alterano la struttura proprietaria e di governance dell’im-presa. Il paragrafo III.4 analizza i meccanismi di corporate gover-nance offerti dalla letteratura economica che permettono di tute-lare il perseguimento dello scopo mutualistico nelle imprese coo-perative che ricorrono invece a strumenti finanziari partecipativi.Il paragrafo III.5 commenta i principali elementi di flessibilità deiprincipi partecipativi delle cooperative previsti dalla riforma allaluce delle considerazioni emerse. Il paragrafo III.6 conclude.

III.1 - Il dibattito relativo alle società cooperative

L’importanza della disciplina della riforma del diritto societa-rio che riguarda le società cooperative è evidente se si pensa alruolo fondamentale che occupano tali società nella realtà econo-mica italiana. Esistono, infatti, migliaia di imprese cooperative (cir-

Il diritto societario 211

ca 160.000) situate soprattutto nelle regioni più ricche del Paese.Le circa 40.000 cooperative che aderiscono alle varie associazionidi categoria e per le quali si dispone di dati quantitativi, contanoda sole otto milioni e mezzo di soci e hanno un fatturato com-plessivo che supera i 130.000 miliardi. Queste imprese operano neisettori nevralgici della struttura produttiva e impiegano milioni dilavoratori45. Grazie alle peculiarità che ne caratterizzano la strut-tura societaria, le cooperative tendono a creare maggiore occupa-zione rispetto alle società di capitali. Anche se esiste una vasta let-teratura (Ward [56], Vanek, [52]) che sottolinea la tendenza delleimprese cooperative a mantenere livelli di occupazione più bassidelle equivalenti imprese capitalistiche che facciano profitti, e unapropensione a investire in progetti che restringano l’occupazione,è anche vero che una parte sostanziale dei soci delle cooperativeè costituita da soci lavoratori, e che le imprese cooperative tendo-no a nascere nei settori dove il rapporto capitale/lavoro è più bas-so. Inoltre, sempre con riferimento alla posizione dei soci lavora-tori, le cooperative garantiscono una maggiore stabilità dei postidi lavoro che sono sottoposti in minore misura alle variazioni con-giunturali dell’economia. Come osserva Jossa [28], la cooperativadi lavoro rispetto ad una equivalente impresa capitalistica eliminala disoccupazione dovuta ad alti salari o all’alto costo del lavoro46

e la disoccupazione keynesiana47.La disciplina delle società cooperative è contenuta fonda-

mentalmente negli articoli 2511-2548 del codice civile ed è stataintegrata da alcune leggi di settore, tra cui rilevano la legge Ba-sevi (decreto legislativo C.P.S. 14 dicembre 1947) e la legge n. 59del 13 gennaio 1992, che ha portato importanti innovazioni. Leagevolazioni fiscali a favore delle cooperative sono attualmente

212 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

45 Facendo riferimento ai dati Legacoop, il giro di affari delle cooperative èaumentato dell’8,6% dal 1999 al 2000, mentre il numero di addetti è aumentatonello stesso periodo globalmente del 3,9%, superando per alcuni settori punte diaumento percentuale degli occupati del 6%.

46 Infatti ai soci lavoratori di una cooperativa non viene pagato un salario maviene assegnato il residuo che rimane quando ai ricavi vengono sottratti i costinon da lavoro.

47 In un’impresa gestita da lavoratori infatti, questi ultimi eviteranno di licen-ziarsi gli uni con gli altri e il numero dei licenziamenti verrà ridotto al minimo;v. in proposito MEADE J.E. [38].

contenute nei provvedimenti istitutivi delle varie imposte, in par-ticolare negli articoli da 10 a 14 del Dpr n. 601 del 29 settembre1973, e nell’articolo 12 della legge n. 904 del 16 dicembre 197748.

I timori rilevati nel dibattito sulla riforma delle cooperativesono riconducibili a due problemi di fondo comuni. Da un lato,si ritiene che consentire alle cooperative di rinviare alla discipli-na delle società di capitali e di emettere strumenti finanziari con-senta a queste società di raccogliere capitale di rischio in condi-zioni di concorrenza distorta, dati i benefici pubblici di cui usu-fruiscono le cooperative e non le società di capitali. Dall’altro, siteme che la presenza e la tutela dei soci finanziatori, con attri-buzione a questi ultimi di diritti amministrativi, possa finire perminare la natura originaria della società cooperativa e i tratti chela distinguono dalle società di capitali.

Entrambi i problemi devono essere analizzati alla luce delladefinizione di “natura originaria della cooperativa” che si vuoletutelare, a sua volta collegata alla definizione di principio mu-tualistico e alla giustificazione dei particolari privilegi concessi atali società. Il carattere mutualistico rappresenta la peculiarità fon-damentale dell’impresa cooperativa. Le cooperative sono fondatesu meccanismi solidaristici e partecipativi, e devono avere comescopo prevalente quello di fornire prestazioni (sotto forma di be-ni o servizi o anche di occasione di lavoro) ai membri stessi del-l’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che si po-trebbero ottenere sul mercato. Gli elementi caratteristici della so-cietà cooperativa, che garantiscono i valori solidaristici e parteci-pativi, sono essenzialmente: il principio “una testa un voto”, lapresenza di un limite massimo nella remunerazione delle quotesociali ordinarie e, soprattutto, il principio di indivisibilità delleriserve, che prevede che una quota degli utili netti annuali vengadestinata a riserva e non possa essere ridistribuita ai soci. I pro-blemi emersi nel dibattito dipendono dal fatto che i principi del-la legge delega vanno ad intaccare proprio questi che sono con-

Il diritto societario 213

48 La disposizione contenuta in questo articolo è particolarmente rilevante estabilisce che non sono tassabili, in quanto “non concorrono a formare il redditoimponibile delle società cooperative e dei loro consorzi”, gli utili destinati a ri-serva permanentemente indivisibile.

siderati gli elementi imprescindibili che caratterizzano la coope-rativa rispetto alle altre società di capitali, prevedendo deroghe alprincipio del voto capitario, possibilità di delega dell’esercizio divoto, possibilità che gli amministratori possano non essere soci,e ampi margini di discrezionalità all’autonomia statutaria sullenorme riguardanti la partecipazione agli utili, la distribuzione del-le riserve e il ristorno. Tuttavia, se è vero che le disposizioni chefacilitano il ricorso a capitali esterni costituiscono una minacciaal mantenimento dello scopo mutualistico così come di altre pre-rogative delle cooperative, non è detto, e si vuole riaprire in que-sta sede l’interrogativo in merito, che non esistano dei meccani-smi in grado di risolvere questi problemi senza rendere troppo ri-gida la disciplina delle cooperative costituzionalmente ricono-sciute e la possibilità di estendere il ricorso a capitali esterni an-che per questa tipologia di imprese.

Nei prossimi paragrafi verranno approfonditi alcuni di questimeccanismi. Si noti che questo lavoro non vuole entrare nel me-rito di ragioni diverse da quelle economiche che possono motiva-re le restrizioni delle disposizioni che facilitano il ricorso a capi-tali esterni per le cooperative o che possono mettere in dubbio lastessa opportunità di mantenere la struttura di impresa di tipocooperativo. Si fa riferimento da un lato all’esigenza di mettereun freno al fenomeno delle imprese che nascondono l’esistenza diuna attività lucrativa dietro le false spoglie di uno scopo mutua-listico, dall’altro alla possibilità di risolvere i problemi di efficienzae di reperimento di risorse finanziarie delle cooperative italianetrasformando le cooperative esistenti in società lucrative. L’orien-tamento prevalente, che ha ispirato la legge delega, risulta quellodi ridurre in maniera significativa il numero delle imprese che po-tranno usufruire dei benefici fiscali (e che quindi rientreranno nel-la tipologia delle costituzionalmente riconosciute). Per effetto deldecreto legislativo del 6 novembre 2001 nel giro di pochi anni (illimite previsto è di 5 anni) scompariranno anche gli altri benefi-ci riservati ai lavoratori delle cooperative. Tuttavia sarebbe ridut-tivo legare l’esistenza delle cooperative (o almeno, di tutte le coo-perative) alla possibilità di usufruire dei benefici pubblici. Per al-cune imprese la struttura cooperativa è indispensabile al perse-

214 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

guimento delle finalità mutualistiche dei soci, o permette di per-seguire tali finalità in maniera più efficiente rispetto alle gemellesocietà di capitali. Non si esclude che in altri casi possa essereeconomicamente più efficiente trasformare le cooperative in so-cietà di capitali, soprattutto con riferimento alla nuova disciplinadettata dalla legge delega per tali società. Ad esempio, la legge de-lega permette di avvalersi di sistemi di amministrazione che fa-voriscono la partecipazione alla gestione da parte dei lavoratori,e di conseguenza il mantenimento di alcune delle prerogative del-la struttura cooperativa49.

Per identificare le imprese meritevoli di usufruire dei benefi-ci pubblici al momento della distinzione delle cooperative nelledue tipologie previste e per verificare periodicamente la preva-lenza del carattere di mutualità, è fondamentale che i limiti checaratterizzano lo scopo mutualistico dell’impresa siano definiti inmaniera più precisa e oggettiva rispetto a quanto fatto con la nor-mativa che si è succeduta negli ultimi anni, e che venga garanti-to un sistema efficiente di vigilanza. Le disposizioni sulle coope-rative contenute nel decreto delegato di riforma del diritto socie-tario (che prevedono criteri e parametri molto precisi per la defi-nizione della prevalenza), congiuntamente con le nuove regolecontenute nel decreto che riordina il meccanismo di vigilanza, do-vrebbero rispondere in maniera efficace a questa esigenza. Unapiù efficiente e delimitata attribuzione dei benefici fiscali risolve-rebbe anche il problema di distorsioni concorrenziali tra societàcooperative e società di capitali. Le restrizioni allo scopo di lucroe i limiti legati al perseguimento dello scopo mutualistico dellacooperativa necessari per ottenere i benefici rendono infatti leazioni relative meno convenienti rispetto a quelle di altre societàdi capitali relativamente ai capital gains ottenibili e alla negozia-

Il diritto societario 215

49 Ferme restando le differenze, sia in senso positivo che negativo, tra coope-rative di lavoratori e proprietà azionaria dei dipendenti, quest’ultima forma di ge-stione permette di mantenere in una società capitalista alcuni dei benefici tipicidella cooperativa: in particolare quello di rendere più stabile il legame tra lavora-tore e impresa, con il vantaggio di favorire l’identificazione del lavoratore con gliinteressi della società, migliorare la produttività e conservare la propensione del-l’impresa a fare elevati investimenti in capitale umano e nel grado di specificitàdel lavoro (JOSSA B. [28], PAGANO U. [42]).

bilità dei titoli, e costituiscono un costo superiore ai benefici ot-tenibili sul piano fiscale50.

III.2. - Scopo mutualistico, benefici fiscali e ruolo dellastruttura organizzativa nella determinazione dei limi-ti alle disposizioni a tutela dei soci finanziatori.

La “natura originaria” della cooperativa può essere identifi-cata facendo riferimento a tre elementi: lo scopo mutualistico, l’as-senza di scopo di lucro e il tipo di struttura organizzativa. Anchese contribuiscono, insieme, a caratterizzare la cooperativa, questitre elementi sono distinti51. Nella concezione originaria di coope-rativa, emerge un rapporto antitetico tra mutualismo e scopo dilucro. Lo scopo mutualistico consiste nel realizzare, anziché il pro-fitto, gli interessi dei soci in quanto utenti o lavoratori. Con l’e-volversi della normativa in materia, lo scopo mutualistico non èpiù esclusivo: si ammette, con gradazioni diverse, anche il perse-guimento di uno scopo di lucro. Il principio mutualistico non sibasa sul divieto di realizzare un “lucro oggettivo”, ossia di svol-gere attività produttive di utili, ma sul divieto di realizzare un “lu-cro soggettivo”, che si determina limitando la distribuzione degliutili realizzati tra i soci. In questa direzione si muove l’articolo 26della legge Basevi nel definire i requisiti mutualistici52. Resta fer-mo che le agevolazioni e i benefici riservati alle società coopera-tive sono subordinati al perseguimento dello scopo mutualisticocome attività prevalente, considerato che il loro obiettivo è quel-

216 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

50 Tale affermazione ha già trovato un significativo riscontro nello scarso nu-mero di finanziatori esterni attirati dai nuovi strumenti finanziari introdotti conla legge 59 del 1992.

51 Ad esempio, l’assenza di scopo di lucro non coincide con mutualismo: nontutte le società no-profit sono infatti cooperative, né perseguono necessariamentegli interessi dei soci. Per contro, per alcune cooperative, ad esempio le cooperati-ve che ultimamente si stanno formando tra gli stessi imprenditori, gli interessi chei soci mirano a conseguire sono definibili proprio in termini di un maggior pro-fitto.

52 L’articolo 26 della legge Basevi conferma peraltro la coincidenza tra scopomutualistico e assenza di scopo di lucro ai fini tributari ridefinendo la mutualitàproprio specificando i criteri che assicurano che lo scopo di lucro non sia preva-lente e non sia soggettivo.

lo di sostenere il ruolo sociale delle cooperative laddove l’assenzadi profitto non favorisce la permanenza delle imprese sul merca-to e il mantenimento di una posizione concorrenziale53. Il terzoelemento, ossia la struttura organizzativa tipica della cooperativa,non è essenziale a caratterizzare tale tipo di impresa né a giudi-care l’opportunità di attribuire ad essa benefici fiscali. Tuttavia,quello che verrà sostenuto in questo lavoro è che è proprio que-sta determinante, e non lo scopo mutualistico, a giustificare peralcune cooperative l’opportunità di mantenere dei limiti alle di-sposizioni a tutela dei soci finanziatori. Per altre, tali limiti co-stituiscono un vincolo all’evoluzione organizzativa, e la tutela del-le finalità mutualistiche può essere assicurata da altri meccanismipiù efficaci allo scopo.

La struttura organizzativa considerata “tipica” della coopera-tiva, ossia quella nella quale prevale l’identità personale e il co-siddetto intuitus personae, permette di realizzare vantaggi com-parati in termini informativi risolvendo a monte alcuni dei pro-blemi di tipo principale-agente tipici delle società di capitali e fa-cilita la permanenza di strutture di impresa essenzialmente “au-togestite”. La conseguenza di associare la cooperativa a tale tipodi struttura organizzativa, che a sua volta viene considerata unacaratteristica delle imprese di minori dimensioni, è quella di li-mitare la protezione pubblica alle cooperative di piccole dimen-sioni. Tuttavia non è detto che una impresa non possa avere ca-rattere cooperativo anche se caratterizzata da una scala dimen-sionale più ampia e da una struttura organizzativa che per il nu-mero dei partecipanti si avvicina di più a quella delle public com-panies anglosassoni. In alcuni casi una dimensione più ampia puòessere essenziale al raggiungimento della scala ottimale e al man-tenimento di un equilibrio con le imprese concorrenti. In analo-gia con le public companies, tali cooperative richiedono la pre-senza di un gruppo manageriale specializzato, con lo svantaggioche nel loro caso non esistono meccanismi di controllo interni o

Il diritto societario 217

53 In questo senso il fatto che le riserve indivisibili non costituiscono base im-ponibile è giustificato anche dai principi costituzionali di uguaglianza e di capa-cità contributiva.

esterni sull’attività manageriale. Poiché per queste imprese i prin-cipi partecipativi (una testa un voto, etc.) non sono indispensabi-li né efficaci a garantire il perseguimento del fine mutualistico,eventuali deroghe a tali principi e la modifica della struttura dicorporate governance non solo non avrebbero ricadute negative suirisultati della gestione, ma potrebbero migliorare la struttura or-ganizzativa e finanziaria, permettendo una gestione più efficientee più adeguata al livello dimensionale dell’impresa.

Tali considerazioni sull’importanza della struttura organizza-tiva della cooperativa e della effettiva partecipazione dei soci alleattività e alla gestione dell’impresa nel determinare l’opportunitàdi favorire il ricorso a finanziatori esterni con capacità decisio-nali è coerente con i risultati riportati da Hart e Moore [25]. Que-sti autori evidenziano infatti come la superiorità della strutturacooperativa rispetto a un’ impresa nella quale i diritti di proprietàsono in mano ad un outsider (che potrebbe essere un finanziato-re esterno), dipenda in maniera determinante dall’omogeneità del-le preferenze dei soci cooperatori, che a sua volta dipende dallatipologia della cooperativa ed è generalmente predominante perle cooperative di minori dimensioni e con una gamma di attivitàlimitata e ben definita. Nel caso in cui gli interessi dei coopera-tori divergano, l’impresa sarebbe più efficiente se i diritti di pro-prietà e di controllo venissero riallocati ad un soggetto esterno.

Sulla base di tali considerazioni e al fine di contribuire ai ra-gionamenti in merito alla estensione dei meccanismi di tutela deisoci finanziatori applicabile alle due tipologie di cooperative non-ché alla disciplina delle cooperative a mutualità prevalente, loschema della tavola 3 propone una ulteriore ipotetica divisionedelle imprese che oltre alla rilevanza dello scopo mutualistico edello scopo di lucro considera anche il tipo di struttura organiz-zativa della società.

Se, come verrà argomentato nei prossimi paragrafi, è possi-bile evitare che le disposizioni a tutela dei soci finanziatori com-promettano la natura mutualistica dell’impresa, alcune di questedisposizioni potrebbero essere applicate in maniera più estensivaanche alle cooperative a mutualità prevalente. Eventuali limiti an-drebbero semmai graduati e differenziati secondo la tipologia e la

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dimensione dell’impresa (quindi il tipo di struttura organizzativa)con l’obiettivo di non alterare i meccanismi partecipativi nelle im-prese in cui questi sono virtuosi e di migliorarli in quelle in cuisono poco efficienti. Per questo motivo, la tavola 3 distingue leimprese costituzionalmente riconosciute (a mutualità prevalente,secondo lo schema del decreto legislativo) in due tipologie. La pri-ma comprende le imprese per le quali prevale il carattere perso-nale (“cooperativa a carattere personale” nella tavola), ovvero, co-me chiarito in precedenza, la struttura organizzativa consideratatipica delle cooperative. La seconda include invece le imprese dimaggiori dimensioni o a proprietà molto diffusa e frazionata, nel-le quali già non prevale l’intuitus personae (“cooperativa aperta”nella tavola).

I suggerimenti in merito alla disciplina da applicare alle di-verse tipologie di imprese con riferimento alla possibilità di ri-corso al mercato dei capitali e alle disposizioni a tutela dei socifinanziatori sono riportati rispettivamente nelle ultime colonnedella tavola 3. In particolare, per le cooperative costituzionalmentericonosciute a carattere personale, è opportuno preservare i van-taggi connessi al tipo di organizzazione limitando o evitando l’ap-plicazione delle disposizioni a tutela dei soci finanziatori. Per fa-vorire comunque l’apporto di capitali dall’esterno si potrebberoprevedere idonei strumenti di finanziamento non partecipativi, cheverranno discussi nel prossimo paragrafo. Per le cooperative “aper-te”, sarebbe invece possibile e anzi auspicabile applicare in ma-niera più estensiva i principi della riforma. Opportuni meccani-smi di corporate governance, che verranno discussi in seguito, per-metterebbero di evitare che le forme di tutela e di partecipazionealle decisioni concesse ai soci finanziatori distolgano l’attività del-la società dai fini mutualistici.

Tra le cooperative non costituzionalmente riconosciute an-drebbero a ricadere le cooperative nelle quali coesistono finalitàmutualistiche e scopo di lucro (v. ultime due righe della tavola)per le quali lo scopo mutualistico non è prevalente (o, in alcunicasi, quasi inesistente), o per le quali strategie di espansione han-no reso la partecipazione dei soci finanziatori e il peso decisio-nale di questi ultimi tale da spostare l’obiettivo principale del-

220 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

l’impresa verso la motivazione del profitto. Per queste imprese vie-ne quindi a mancare la ratio che giustifica l’attribuzione di bene-fici fiscali, considerato che esse possono contare sui profitti perfare fronte alle esigenze di ammodernamento e di espansione. Cisi chiede quindi quale sia il confine tra queste cooperative e le so-cietà di capitali, e quale sia il senso di mantenere una categoriadi cooperative non costituzionalmente riconosciute.

Per chiarire questo punto, si è ritenuto interessante operareanche nel caso delle cooperative non costituzionalmente ricono-sciute la distinzione tra cooperative a carattere personale e coo-perative “aperte”54. Nella prima categoria ricadono le imprese perle quali i profitti sono semplicemente un mezzo per raggiungerel’obiettivo dei soci mutuatari e la struttura organizzativa a carat-tere personale è imprescindibile e necessaria al perseguimento del-lo scopo mutualistico. Queste imprese, anche avendone la possi-bilità, non avranno interesse a derogare ai principi organizzativitipici delle cooperative, e privilegeranno strumenti finanziari nonpartecipativi. È per questo motivo che non si ritiene necessario,nella disciplina relativa a queste cooperative, prevedere eccessiverestrizioni alle disposizioni a tutela dei soci finanziatori (penulti-ma colonna della tav. 3). Le altre cooperative, quelle “aperte”, so-no invece le cooperative per le quali l’esigenza di ricorrere a ca-pitali esterni e eventualmente a nuove capacità manageriali pre-vale su quella di tutelare i principi organizzativi fondati sull’in-tuitus personae. Questa “sottoclasse”, all’interno della categoriadelle cooperative non costituzionalmente riconosciute, è proba-bilmente destinata a rimanere “vuota”: non potendo usufruire deibenefici fiscali riservati alle società cooperative e non avendo nes-sun vantaggio legato al mantenimento della struttura organizzati-va tipica delle società cooperative, per queste imprese sarà pre-sumibilmente più efficiente trasformarsi in società di capitali. Nelfrattempo, anche per questa tipologia di cooperative si ritiene op-portuno minimizzare le restrizioni alle disposizioni volte a favo-

Il diritto societario 221

54 Tale distinzione ha uno scopo puramente descrittivo; in realtà tutte le coo-perative non costituzionalmente riconosciute verranno assoggettate alla stessa di-sciplina.

rire l’ingresso di soci finanziatori, che avrebbero come unica con-seguenza quella di determinare per queste imprese uno svantag-gio competitivo rispetto alle società capitaliste nel reperimento dicapitale di rischio, spingendole a trasformarsi in società di capi-tali non sotto la spinta di ragioni economiche e di efficienza masolo della necessità di sottrarsi ai limiti connessi al ricorso a ca-pitali esterni.

III.3. - Strumenti finanziari incentivo-compatibili per le im-prese cooperative a carattere personale

La questione che si vuole approfondire in questo paragrafo,alla luce della letteratura teorica ed empirica sull’argomento, è see come sia possibile favorire l’afflusso di capitali verso le coope-rative e l’apporto di capitale da parte dei soci sovventori senza al-terare la natura mutualistica della cooperativa né la struttura pro-prietaria e di governance per le imprese nelle quali tale strutturaè “virtuosa”. Come si è detto, a fronte dello svantaggio compara-to in termini di accesso ai mercati finanziari, le cooperative a ca-rattere personale godono del vantaggio organizzativo dovuto allamaggiore identificazione tra interesse dei singoli e dell’impresa(Bartlett et Al. [7]) e dell’importante vantaggio informativo dovu-to alla partecipazione di tutti i membri alla raccolta e all’utilizzodei dati dell’impresa, che sarebbe difficile e costoso replicare at-traverso i tradizionali sistemi di monitoraggio (Aoki [3]). I variprovvedimenti finalizzati a incentivare l’ingresso dei soci sovven-tori rischiano di creare gruppi di controllo in grado di alterare ivantaggi di tali meccanismi di partecipazione.

Tali rischi sono emersi nella limitata letteratura che ha ana-lizzato i possibili effetti della legge 59/92 dal punto di vista eco-nomico. È anche vero che, se non si prevedono forme di merca-to del controllo dell’impresa e strutture di governance adeguate afavorire la partecipazione alle decisioni dell’impresa da parte deisoci sovventori, i membri della cooperativa saranno incentivati aridistribuire i profitti in forma di remunerazione alle prestazionimutualistiche piuttosto che a dividerli in basi paritarie con gli al-

222 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

tri soci. Una possibile soluzione a questo problema, proposta an-che in sede di discussione dei progetti di riforma, è quella di sot-trarre alle decisioni dell’assemblea la disciplina della remunera-zione dei soci finanziatori affidandola all’autonomia statutaria eregolamentare che la definirà in ragione della loro partecipazio-ne al capitale. Dati i limiti di flessibilità di questa soluzione e l’im-possibilità di accompagnarla a disegni di incentivo, si ritiene in-teressante analizzare meccanismi alternativi.

Per studiare la questione alla luce della letteratura economi-ca occorre far riferimento e conciliare diversi filoni teorici, in par-ticolare: quello sulla teoria degli incentivi, quello sulla ripartizio-ne dei profitti nell’impresa, quello sulla struttura delle imprese ge-stite da lavoratori (che è stata di recente estesa al caso delle coo-perative di lavoratori) e quello della vasta letteratura di teoria deigiochi e economia dei costi di transazione che ha affrontato il pro-blema dei conflitti di interesse tra i vari soggetti coinvolti nel-l’impresa (Ben-Ner [9]). Queste teorie nascono in genere per in-terpretare i conflitti tra detentori di capitale e lavoratori nelle im-prese capitalistiche, ma, considerata l’analogia dei problemi, pos-sono essere proficuamente utilizzate per analizzare i meccanismidi incentivi che si instaurano tra i finanziatori esterni e i sogget-ti coinvolti nell’impresa. La letteratura ha esaminato la possibilitàdi utilizzare forme di finanziamento che non prevedono il coin-volgimento dei soci finanziatori nei processi decisionali dell’im-presa; in questa direzione si muovono anche le norme collegatealla legge finanziaria per il 1998, che consentono l’emissione dititoli obbligazionari da parte delle imprese cooperative. Tuttavial’utilizzo di tali strumenti di finanziamento dovrebbe essere ac-compagnato da un’adeguata struttura di incentivi che vincoli inmaniera credibile il management dell’impresa a perseguire gli stes-si obiettivi dei soci finanziatori sostenendo in tal modo l’equili-brio cooperativo tra i partecipanti.

Mazzoli e Negrini [37] suggeriscono come strumento ottima-le di finanziamento per le società cooperative le obbligazioni conrendimento indicizzato al tasso di crescita del fatturato. Gli au-tori sottolineano come tale strumento, oltre a non modificare lastruttura proprietaria e il carattere mutualistico dell’impresa coo-

Il diritto societario 223

perativa, sia anche idoneo a garantire una redditività adeguata aifinanziatori esterni senza ridurre gli incentivi dei membri dellacooperativa. L’indicizzazione infatti permette al creditore dell’im-presa di conseguire, senza rischio, un rendimento superiore aquello di mercato del debito. Al tasso di rendimento di mercatoinfatti, viene aggiunta una parte variabile e correlata a qualchemisura di crescita dell’impresa55. Le misure di crescita dell’im-presa, riassumendo in sé i diversi obiettivi che guidano l’operatodi chi gestisce l’impresa, rendono più credibile il loro vincolo neiconfronti dei finanziatori evitando problemi di moral hazard e dimonitoraggio. Perché questo sia vero, l’indicatore deve anche es-sere trasparente e quindi facile da rilevare e controllare. Tra gliindicatori di crescita dell’impresa, il riferimento al fatturato è sta-to suggerito da Baumol [8] in considerazione del fatto che oltrea costituire un vincolo credibile per i finanziatori esterni esso èanche più facile da osservare. Waldmann e Smith [55] propongo-no, in alternativa, di far riferimento a qualche misura delle con-dizioni del settore in cui l’impresa opera. Un indicatore di questogenere avrebbe però il difetto di non tenere conto di eventuali ri-sultati sopra la media.

Sembra opportuno fare qualche riflessione sulla scelta del pa-rametro di indicizzazione per le obbligazioni delle imprese coo-perative. Gli obiettivi dei soci mutuatari sono diversi da quelli deimanager nelle società lucrative. In particolare, mentre per le so-cietà lucrative l’obiettivo da massimizzare è rappresentato dalprofitto, per le società cooperative non esiste un vero e proprioprofitto; inoltre gli obiettivi delle cooperative non solo sono di-versi da quelli delle società di capitali ma possono essere diver-si a seconda del tipo di cooperativa. Per quanto di fatto la mag-gior parte degli obiettivi sia collegata alla crescita del fatturato,che potrebbe comunque risultare un parametro idoneo a sinte-tizzare gli interessi di chi gestisce l’impresa, sembra opportunoevidenziare tali differenze per valutare l’efficacia del criterio diincentivazione.

224 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

55 La parte variabile del rendimento non può essere negativa, altrimenti i ti-toli di debito sarebbero paragonabili a capitale di rischio.

Ad esempio nelle cooperative di lavoro l’obiettivo è quello dimassimizzare la retribuzione del lavoro, retribuzione che rappre-senta invece un costo nelle società di capitali.

Per quanto il fatturato abbia il vantaggio, rispetto al profitto,di non escludere il costo del lavoro e di rappresentare anche gliinteressi dei soci lavoratori, l’obiettivo di queste cooperative puòessere più propriamente identificato nel valore aggiunto, che com-prende profitto e costo del lavoro. In particolare Tortia [51], pro-pone di fare riferimento alla variabile definita da Meade [38]56 co-me remunerazione netta totale del lavoro (total net labour earnings,TNLE), ottenuta sottraendo al valore aggiunto gli interessi sul de-bito. Questa variabile isola l’obiettivo dei membri della cooperati-va da quello dei finanziatori, che non hanno poteri decisionali nel-l’impresa. Il valore aggiunto inoltre, rispetto al fatturato, è un pa-rametro di indicizzazione meno soggetto a problemi di moral ha-zard e monitoraggio, poiché lega la remunerazione dei finanziato-ri sia ai ricavi che ai costi sostenuti per l’acquisto dei beni inter-medi. In genere infatti, un incremento del fatturato è collegato aun aumento degli investimenti o un aumento dei prezzi degli in-put. Nel caso di indicizzazione al fatturato il fatto di dover divi-dere la crescita del fatturato con i finanziatori esterni sostenendointeramente il relativo costo potrebbe portare i membri della coo-perativa a fare investimenti inferiori a quelli ottimali. I finanzia-tori esterni si renderebbero conto che l’incentivo dei manager è in-completo e l’indicizzazione potrebbe risultare meno efficace.

In ogni caso la soluzione dei prestiti obbligazionari presentadei limiti, alcuni dei quali evidenziati dagli stessi Mazzoli e Ne-grini. In primo luogo, è noto che l’emissione di obbligazioni nonrisolve i problemi di sottocapitalizzazione delle imprese coopera-tive e appesantisce la leva finanziaria e quindi l’incidenza deglioneri finanziari e la rischiosità dell’impresa. Importanti contribu-

Il diritto societario 225

56 Il valore aggiunto netto può essere definito (MEADE J.E. [38]) come il valo-re del fatturato più il valore dell’incremento nelle quote partecipative, meno il co-sto di acquisto delle materie prime e di altri input meno il deprezzamento del ca-pitale fisso, meno le tasse sul fatturato e altre tasse legate all’attività dell’impresa.L’apporto di capitale fisso non figura tra gli input, ma questo non cambia i risul-tati del modello considerato che anche questi investimenti hanno una correlazio-ne positiva con il fatturato.

ti della letteratura economica sulla teoria del finanziamento inpresenza di asimmetrie informative sottolineano come i costi diagenzia del debito possano essere determinati dalla correlazionetra livello di indebitamento e propensione dei manager-proprieta-ri a investire in progetti più rischiosi (Jensen e Meckling, [27]). Afavore dell’aumento dell’indebitamento per le imprese cooperativegioca il fatto che in queste imprese il grado di rischiosità asso-ciato alla leva finanziaria è più basso che per le società di capi-tali. La minore rischiosità deriva dalle garanzie offerte ai soci fi-nanziatori dalla normativa vigente, che prevede l’indivisibilità del-le riserve tra i soci e limiti alla remunerazione delle quote socia-li. Questa constatazione sottolinea l’importanza di mantenere que-sti limiti per le cooperative che intendono avvalersi di questa mo-dalità di finanziamento.

In ogni caso, per quanto minore rispetto alle società di capi-tali, il problema del debito esiste ed è particolarmente sentito dal-le cooperative di minori dimensioni, a causa della relazione in-versa tra dimensione dell’impresa e incidenza degli oneri finan-ziari57, e dei costi fissi piuttosto ingenti connessi all’emissione diobbligazioni che sono difficilmente sostenibili da imprese di mi-nori dimensioni.

Il suggerimento di Mazzoli e Negrini è che le cooperative dimedio-piccole dimensioni potrebbero avvalersi di consorzi di emis-sione o di altre forme di coalizione tra imprese, o forme di ri-sparmio gestito. Tuttavia, se non si può escludere la possibilità perle imprese medio-piccole di avvalersi di questo strumento, verosi-milmente l’utilizzo di obbligazioni è praticabile principalmente dal-le cooperative di grandi dimensioni e con una reputazione conso-lidata che sono solo una piccola parte delle cooperative italiane58.

226 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

57 Confermata dall’analisi empirica di Mazzoli e Negrini e facilmente spiega-bile con la maggiore possibilità per le imprese di maggiore dimensione di diver-sificare gli investimenti e quindi il rischio, e con il maggior potere contrattualesul mercato creditizio, che consente di limitare i costi finanziari

58 Dai dati Legacoop, 1996 sulla struttura per dimensione delle cooperative inItalia, risulta che le cooperative di grandi dimensioni (oltre i 100 addetti) sono so-lo il 2% del totale delle cooperative, mentre le cooperative di piccole dimensioni(fino a 19 addetti) sono l’86% del totale. Inoltre le cooperative di medie e grandidimensioni sono concentrate nel nord Italia, mentre le piccole cooperative si tro-vano soprattutto nel meridione.

Un altro modo per risolvere i problemi di agenzia è quello diemettere obbligazioni convertibili. Questa soluzione, riferita alcontesto istituzionale delle public companies anglosassoni, avreb-be un’applicabilità limitata nel caso delle cooperative, considera-to che l’eventuale clausola di convertibilità riguarderebbe la tra-sformazione delle obbligazioni in prestito sociale, che non è per-fettamente assimilabile al capitale di rischio. Tale soluzione avreb-be senso nella misura in cui le obbligazioni fossero collocate pres-so gli stessi membri della cooperativa, soluzione che lascia pocospazio all’effettivo reperimento di capitali esterni. In ogni caso, ilricorso a strumenti finanziari indicizzati che non alterano la strut-tura di governance dell’impresa, preferibilmente accompagnati daclausole di convertibilità delle obbligazioni in prestito sociale, po-trebbe contribuire a ridurre i problemi di finanziamento di alcu-ne imprese cooperative italiane.

III.4. - Strumenti finanziari partecipativi e meccanismi digovernance a tutela dei soci finanziatori.

Dalle conclusioni del paragrafo precedente emerge che glistrumenti finanziari non partecipativi, per quanto importanti, nonsono di per sé sufficienti a risolvere i problemi di finanziamentodelle cooperative italiane. Soprattutto per le imprese nelle qualila struttura organizzativa non si basa sul carattere personale onelle imprese in crescita, questi strumenti dovrebbero accompa-gnare e non sostituire l’accesso ai mercati finanziari azionari59.L’accesso al capitale di rischio determina però una modifica del-l’allocazione originaria della proprietà60. Come si è visto, Hart e

Il diritto societario 227

59 Come dimostrano alcuni studi teorici ed empirici, l’accesso a tali mercatiavrebbe a sua volta ripercussioni positive sull’accesso all’indebitamento e al cre-dito bancario e ai relativi costi, poiché la diffusione delle informazioni e l’effettodi signalling degli strumenti finanziari tipici del mercato azionario — informationsensitive instruments — riduce le asimmetrie informative e i relativi problemi diagenzia.

60 la nuova teoria sull’allocazione dei diritti di proprietà (HART O. [22] e HART

O. - MOORE J. [25]) afferma che in origine l’allocazione della proprietà è efficien-te se attribuita all’agente le cui quote partecipative hanno il maggiore effetto sulvalore del bene

Moore [24] sottolineano come la riallocazione della proprietà edel controllo a finanziatori esterni sia una soluzione efficiente nelcaso di non perfetto allineamento degli interessi dei soci coope-ratori, correlato in genere a un’espansione dell’ambito di operati-vità e delle attività dell’impresa. La riallocazione del controllo de-termina una separazione tra proprietà e controllo che induce re-lativi problemi di conflitti di interesse tra azionisti (proprietari) emanager (controllanti). Dalla letteratura che analizza la relazionetra crescita e riallocazione del controllo si evince che gli ostacolie le resistenze alla riallocazione del controllo (particolarmente ri-levanti per le imprese di minori dimensioni e in generale per leimprese italiane) costituisce una delle principali cause della len-tezza dei processi di crescita (Barca e Ferri [6]). Per incentivarel’apporto di capitale di rischio da parte dei finanziatori esterni el’ingresso di nuove e più efficienti capacità manageriali è neces-sario introdurre modifiche della struttura proprietaria e di ge-stione della cooperativa e privilegi nella ripartizione dei profittidell’impresa. In tal senso si muovono le disposizioni della rifor-ma del diritto societario e in tal senso a sua volta era stata orien-tata la legge 59/92. Le forme di tutela e di partecipazione alle de-cisioni concesse ai soci finanziatori dovrebbero essere anche piùdecise, considerato che quelle previste dalla legge 59 non hannoavuto l’effetto sperato. L’articolo 2526, co. 2 del codice civile del-lo schema di decreto delegato, attribuisce all’atto costitutivo ilcompito di stabilire i diritti di partecipazione o patrimoniali at-tribuiti ai possessori di strumenti finanziari. Opportune regole digovernance possono evitare che i diritti di partecipazione distol-gano l’attività dell’impresa dai fini mutualistici. In analogia aquanto avviene per le public companies anglosassoni, dove ap-propriate regole di corporate governance riescono ad assicurare laconvergenza di interessi tra azionisti e manager dell’impresa, perle cooperative queste regole potrebbero assicurare la convergenzadi interessi tra soci finanziatori e soci mutuatari.

I più noti meccanismi a garanzia degli interessi dei portatoridi capitale di rischio e volti a controllare l’operato di chi gestiscel’impresa si dividono in meccanismi interni ed esterni. Tra quelliinterni, i più importanti sono: il controllo da parte dei creditori

228 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

dell’impresa; i disegni di incentivo; la struttura del capitale; il con-trollo da parte dei consigli di amministrazione. Il meccanismoesterno è rappresentato dal mercato per il controllo societario(market for corporate control). Questo meccanismo tuttavia, rite-nuto il più efficiente per risolvere i conflitti di interesse nelle pu-blic companies, non è idoneo a risolvere gli stessi problemi in unasocietà cooperativa. Infatti anche se le imprese cooperative sonoper molti versi paragonabili alle public companies anglosassoni61,a differenza di queste esse non hanno una proprietà diffusa neimercati finanziari e hanno un accesso al mercato limitato. Peral-tro, per le stesse public companies l’efficacia dei rimedi “esterni”forniti dal mercato viene recentemente messa in discussione a fa-vore di uno dei meccanismi interni: quello basato su un ruolo piùattivo dei consigli di amministrazione indipendenti.

Maug [36] dimostra che un consiglio di amministrazione cheabbia pieni poteri e sia effettivamente indipendente costituisce ilmeccanismo più efficiente di controllo di gestione. Un consigliodi amministrazione indipendente con poteri decisionali in meritoalla remunerazione degli azionisti e dei manager e alla assunzio-ne dei manager (Bianco [10]) fa sì che nessuno nell’impresa deci-da per i propri interessi o la propria remunerazione o per gli in-teressi e la remunerazione dei soci appartenenti alla propria ca-tegoria. Naturalmente l’efficacia di tale forma di soluzione dei con-flitti di interesse dipende in maniera cruciale dall’effettiva possi-bilità di costituire un organo imparziale e indipendente dagli in-teressi specifici dei vari partecipanti all’impresa. I membri del con-siglio di amministrazione sono infatti nominati o sostituiti dagliazionisti o proprietari della società, che possono anche votarecambiamenti nello statuto. Inoltre i manager sono quelli che di-spongono delle principali informazioni sull’impresa e in generesono loro stessi a scegliere effettivamente gli amministratori o co-munque a dare indicazioni in tal senso agli azionisti che non han-no sufficiente informazione. In secondo luogo, considerato che gliamministratori non hanno diritto ai rendimenti residuali, non èchiaro quali siano i loro incentivi a mantenere un comportamen-

Il diritto societario 229

61 Specialmente per quanto riguarda la caratteristica di avere una proprietàazionaria altamente frazionata.

to efficiente e chi supervisioni che si comportino in maniera cor-retta, il famoso problema di “chi controlla il controllore”. In ge-nere, per allineare gli interessi degli amministratori indipendentia quelli degli azionisti, si prevede che almeno una parte della lo-ro remunerazione sia costituita da quote o azioni della società oda stock options. Nelle imprese cooperative, andrebbe previsto unmeccanismo di incentivi disegnato in base ai parametri indicaticon riferimento alle obbligazioni indicizzate (paragrafo III.3). Seperò il Consiglio di Amministrazione non è in grado di esercita-re pienamente i propri poteri senza condizionamento, come sot-tolinea lo stesso Maug, la soluzione di governance basata sul Con-siglio non solo cesserebbe di essere la più efficiente ma divente-rebbe in assoluto la meno efficiente. L’effettiva indipendenza delConsiglio di Amministrazione richiede che la maggioranza degliamministratori non abbia interessi né legami con la società, chesiano stabiliti dei precisi requisiti di incompatibilità con profes-sioni o incarichi che possano compromettere la loro indipenden-za, che i poteri dei manager siano limitati e che ci sia una mag-giore diffusione delle informazioni rivolte: (i) agli amministrato-ri, per realizzare una gestione efficiente dell’impresa, (ii) agli azio-nisti, per giudicare l’operato degli amministratori e decidere inmaniera autonoma sulla loro eleggibilità.

Alcuni interventi operativi in tale direzione consistono nel: 1)favorire la presenza di amministratori non soci, ed estenderla al-la maggioranza dei membri del Consiglio (come avviene nelle pu-blic companies anglosassoni); 2) ampliare e migliorare il ricorso arevisori esterni; 3) adottare sistemi più trasparenti di divulgazio-ne delle informazioni62. La maggiore trasparenza, accompagnatada regole e limiti precisi sulla durata e sulla rieleggibilità degliamministratori contribuirebbe anche in parte a risolvere il pro-blema del controllo del loro operato. Inoltre, permetterebbe di mi-tigare il problema di demandare a persone non socie, che non vi-vono la cooperativa, compiti vitali per l’impresa. Sempre a questoscopo si potrebbe lasciare al management originario della coope-

230 Marcello Messori - Laura Cavallo - Angelo Marano

62 Alcune proposte volte a rendere gli amministratori più indipendenti dal ma-nagement sono contenute nel Cadbury Report sugli aspetti finanziari della Corpo-rate Governance, pubblicato nel 1992.

rativa i poteri di controllo sulle operazioni ordinarie dell’impresa,definendo con chiarezza i limiti di tali poteri, e riservare esclusi-vamente agli amministratori non soci il potere di definire la re-munerazione dei soci cooperatori e finanziatori.

Per le società che prevedono il sistema “dualistico” esiste unulteriore strumento di controllo dell’operato e dell’indipendenzadegli amministratori, poiché il consiglio di amministrazione è sog-getto al controllo del “comitato di sorveglianza”. In questo sensorisultava condivisibile il suggerimento emerso nell’ordine del gior-no riferito alle società cooperative di prevedere la valorizzazionedelle assemblee separate e la facoltà di eleggere amministratorinon soci, qualora la cooperativa scelga il sistema dualistico, an-che per le cooperative costituzionalmente riconosciute. Il testo deldecreto che entrerà in vigore nel 2004 invece, come verrà pun-tualizzato nel prossimo paragrafo, preclude anche alle cooperati-ve non costituzionalmente riconosciute la possibilità di avere unconsiglio di amministrazione indipendente.

III.5. - Gli elementi di flessibilità previsti nella proposta diriforma alla luce della teoria economica.

Le considerazioni generali emerse nei paragrafi precedentipermettono di trarre indicazioni specifiche anche in merito allesingole disposizioni introdotte dalla riforma, in particolare: 1) lederoghe al principio del voto capitario; 2) la delega dell’eserciziodi voto; 3) la possibilità che gli amministratori possano non es-sere soci; 4) le disposizioni a tutela dei soci finanziatori e i nuo-vi sistemi di finanziamento, come gli ampi margini di discrezio-nalità lasciati all’autonomia statutaria in materia di partecipazio-ne agli utili, distribuzione delle riserve e ristorno. Come si è det-to, non è necessario, e può essere in alcuni casi non auspicabile,ricorrere a tali principi di tutela dei soci finanziatori se si ricor-re a strumenti di finanziamento non partecipativi e quando l’or-ganizzazione dell’impresa è a carattere personale. Negli altri casi,si suggeriscono le seguenti considerazioni.

1) Deroghe al principio del voto capitario. Una ripartizione dei

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voti diversa dal principio “una testa, un voto” è necessaria a ren-dere appetibile il titolo cooperativo per i soci sovventori63: il li-mite di 5 voti attribuibili a questi soci in base alla legge 59/92 nonè di per se sufficiente a raggiungere questo scopo, soprattuttoquando il capitale conferito è relativamente elevato. Nel dibattitoè stato proposto di ponderare il numero di voti in relazione al-l’apporto di capitale, fissando eventualmente per legge un tettomassimo. L’articolo 2526 del c.c. così come modificato dal decre-to attuativo della legge n. 366 del 2001, rimanda all’atto costitu-tivo il compito di stabilire i diritti di partecipazione spettanti aipossessori di strumenti finanziari, entro il limite di un terzo deivoti rappresentati in assemblea. La soluzione dei conflitti di inte-resse basata su un Consiglio di Amministrazione indipendente per-metterebbe di superare i problemi legati alle deroghe al principiodel voto capitario, considerato che a prescindere dal numero divoti ad essi attribuiti i soci finanziatori non potrebbero influiresulla propria remunerazione, e che l’adeguatezza della stessa sa-rebbe assicurata dal consiglio. Tuttavia, poiché come si è dettol’effettiva indipendenza dei membri del consiglio è minata dal fat-to che questi sono nominati dagli azionisti o proprietari della so-cietà (nel caso delle cooperative sia soci mutuatari che soci fi-nanziatori), eventuali limiti alle deroghe al principio del voto ca-pitario dovrebbero essere finalizzati a garantire un equilibrio trail peso dei soci sovventori e quello dei soci mutuatari nell’elezio-ne dei membri del consiglio di amministrazione. In ogni caso, poi-ché esistono anche altri meccanismi a tutela dell’indipendenza deimembri del consiglio, rimarrebbero spazi per ampliare la possi-bilità di deroga e favorire la partecipazione di soci sovventori intutti i tipi di cooperative.

2) Ampliamento della possibilità di delegare l’esercizio di voto. Perquanto riguarda il timore, sollevato nel dibattito, che questa dispo-sizione possa compromettere l’intuitus personae alla base della strut-

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63 Nel dibattito è stato inoltre sottolineato che per alcune cooperative le de-roghe al principio del voto capitario sarebbero una esigenza valida anche per i so-ci mutuatari, in particolare per le cooperative con base sociale molto ampia (ades. le cooperative agricole) e nelle quali il volume di attività è spesso assicuratoper lo più da pochi soci che tuttavia hanno lo stesso peso decisionale di soci checontribuiscono in misura poco significativa.

tura giuridica delle cooperative, non dovrebbero esserci problemi adammettere un ampliamento del numero delle deleghe per le impre-se nelle quali non prevale l’elemento personale, a meno che questoampliamento non estenda il fenomeno dei “soci fittizi”. Nel dibatti-to è emersa la necessità di limitare comunque il numero di deleghetenendo in considerazione la dimensione, il numero dei soci e il par-ticolare scambio mutualistico della singola cooperativa e di accom-pagnare l’ampliamento delle deleghe a misure volte a garantire chel’assemblea dei delegati sia rappresentativa anche delle minoranzee a una maggiore possibilità per i soci di ottenere informazioni sul-lo svolgimento dell’attività sociale. Il decreto legislativo prevede checiascun socio possa rappresentare in assemblea fino ad un massi-mo di dieci soci, e rimanda all’atto costitutivo della società il com-pito di stabilire le disposizioni relative. Esso sancisce inoltre il di-vieto, ampiamente condiviso nel dibattito che ha preceduto la rifor-ma, di delegare i non soci nelle assemblee (2540 c.c. modificato).

3) Possibilità che gli amministratori possano non essere soci. Co-me è emerso dall’analisi degli strumenti di governance volti a tute-lare i soci finanziatori, per le cooperative “aperte” tale disposizio-ne non solo sarebbe auspicabile, ma dovrebbe riguardare la mag-gioranza dei membri del consiglio. Infatti oltre a favorire l’efficienzadella società grazie all’apporto di capacità manageriali esterne, lapresenza di amministratori non soci è uno degli elementi più im-portanti a garantire l’indipendenza del consiglio di amministrazio-ne. Tuttavia, l’articolo 2542 del codice civile, nel testo del decretolegislativo, prevede che la maggioranza degli amministratori siascelta tra i soci cooperatori, escludendo quindi la possibilità che lecooperative — senza distinguere tra cooperative a mutualità pre-valente e non prevalente — possano avere un consiglio di ammi-nistrazione indipendente64. Inoltre il decreto prevede che in ognicaso i possessori di strumenti finanziari non possono eleggere piùdi un terzo degli amministratori e dei componenti dell’organo di

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64 Le disposizioni generali sui sistemi di amministrazione e di controllo previ-ste per le società di capitali lasciano invece spazi per costituire un management in-dipendente. È prevista la possibilità che l’amministrazione sia affidata a non soci oche sia riservata per statuto al possesso di requisiti di indipendenza; nel caso la so-cietà scelga il sistema monistico è previsto che la maggioranza degli amministra-tori debba essere in possesso dei requisiti di indipendenza previsti per i sindaci.

controllo. Per quanto sia comprensibile la resistenza a privare i so-ci mutuatari dal controllo dell’impresa per le imprese a mutualitàprevalente, soprattutto per quelle nella cui struttura organizzativaprevale il carattere personale, non sembra altrettanto condivisibilela necessità di escludere a priori che le altre tipologie di coopera-tive possano avvalersi di un consiglio di amministrazione indipen-dente e dei vantaggi ad esso relativi; quantomeno la scelta potreb-be essere demandata all’atto costitutivo della società.

4) Principio di indivisibilità delle riserve. L’indivisibilità delle ri-serve è stata ribadita nel testo del decreto legislativo, che non per-mette eccezioni neanche a vantaggio dei soci finanziatori (v. art.2526, co. 2 c.c. nel testo del decreto). La modalità di assegnazio-ne dei residui a riserve collettive e indivisibili è la più diffusa trale imprese cooperative (Tortia [51]) e favorisce l’accumulazione delcapitale e il carattere collettivo dell’impresa. Nel dibattito è statoevidenziato che eventuali deroghe a questo principio indebolireb-bero la struttura patrimoniale e finanziaria delle società coopera-tive, infrangendo il principio costituzionale dell’assenza del fine dispeculazione privata. Inoltre, come evidenziato in precedenza, leriserve indivisibili costituiscono anche una garanzia per i finan-ziatori esterni in grado di ridurre l’onere del debito. È anche veroche limiti al principio di indivisibilità delle riserve potrebbero ri-sultare necessari a garantire una remunerazione adeguata al ri-schio affrontato dai soci finanziatori. Inoltre questi limiti permet-tono di ridurre il rischio, sottolineato tra gli altri da Furuboth ePejovich [19] e Vanek [54], che i membri della cooperativa effet-tuino investimenti inferiori al livello ottimale per l’impresa. Infat-ti poiché l’orizzonte temporale dei soci è generalmente più brevedi quello necessario a ottenere i risultati di una politica di inve-stimento adeguata, il fatto che una parte dei residui non possa es-sere ridistribuita spingerà le decisioni di investimento verso pro-getti meno profittevoli ed efficienti ma di breve termine65. La so-

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65 Tale problema potrebbe essere risolto anche destinando una parte del valo-re aggiunto all’accumulazione del capitale prima di determinare il residuo da de-stinare a riserva indivisibile. Tuttavia l’altra soluzione risulta preferibile, perché isoci cooperatori tendono a preferire una remunerazione stabile delle proprie pre-stazioni mutualistiche.

luzione di governance basata su un consiglio di amministrazioneindipendente, favorendo la gestione imparziale degli utili, permet-terebbe di evitare investimenti sub-ottimali e di garantire ai socifinanziatori una adeguata remunerazione dei capitali investiti nel-la società.

III.6. - Conclusioni

In questo capitolo è stato analizzato, alla luce della teoria eco-nomica, uno dei temi centrali della riforma del diritto societario,quello della disciplina delle società cooperative. La legge delegatende a preservare i caratteri distintivi delle cooperative che per-seguono lo scopo mutualistico come attività prevalente, le coope-rative costituzionalmente riconosciute, riservando a queste ultimei benefici fiscali ma limitando loro la possibilità di ricorrere a ca-pitali esterni e a soci finanziatori.

Questo capitolo ha evidenziato come il perseguimento delloscopo mutualistico da parte delle cooperative, anche a carattereprevalente, non sia incompatibile con la possibilità per questeimprese di reperire capitali sul mercato e di concedere appro-priate forme di tutela ai soci finanziatori. Da una parte, infatti,la teoria della finanza permette di costruire strumenti finanzia-ri in grado di offrire adeguati incentivi ai portatori di capitalesenza alterare la struttura proprietaria o di governance. Dall’al-tra, la teoria dell’impresa suggerisce diversi meccanismi che per-mettono di assicurare il perseguimento degli obiettivi tradizio-nali dei soci cooperatori anche in un contesto nel quale l’arrivodi soggetti con interessi diversi, quali i soci finanziatori, alterila struttura di governo societario. Se la tutela dei soci finanzia-tori non contrasta con i principi mutualistici, anche la discipli-na relativa alle cooperative costituzionalmente riconosciute po-trebbe prevedere maggiori elementi di flessibilità nel ricorso acapitali esterni, purché questi non contrastino con l’assenza dilucro che giustifica l’attribuzione di benefici fiscali a queste so-cietà. Nel lavoro si suggerisce piuttosto di graduare gli eventua-li limiti all’applicazione delle disposizioni a tutela dei soci fi-

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nanziatori e la scelta tra strumenti finanziari partecipativi e nonpartecipativi in funzione della tipologia e della dimensione del-l’impresa, con l’obiettivo di non alterare i meccanismi organiz-zativi nelle imprese in cui questi sono virtuosi e di migliorarliin quelle in cui sono poco efficienti.

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