IL DESTINO DELL'AFRICA TRA SUFISMO E SALAFISMO · La diffusione dell'Islam trovera' poi limitazioni...

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www.invisible-dog.com [email protected] IL DESTINO DELL'AFRICA TRA SUFISMO E SALAFISMO L'Islam entra in Africa, dopo la morte di Maometto, senza particolari effetti dirompenti seppur a seguito di conquiste militari. Infatti, dopo la morte di Maometto nel 632, il primo Califfo dell'Islam Abu Bakr intraprese una serie di operazioni militari per la diffusione della nuova fede nel mondo. Benche' egli morisse due anni piu' tardi, suo nipote Omar continuo' questo programma ambizioso di espansione militare con la conquista di Gerusalemme (636), Damasco e Antiochia e poi la Persia (651). Il primo ingresso dell'Islam sul continente africano avverra' nel 646 con la conquista dell'Egitto. Come sopra enunciato, e' un Islam tollerante e apolitico che nell'impatto con le societa' africane ne rispetta inizialmente usi, costumi, tradizioni, riti (anche quelli pagani e animisti) senza costituire quindi un elemento destabilizzante delle strutture societarie secolari preesistenti nel continente. E' una penetrazione, pertanto, che nel proseguo della storia e nella sua espansione geografica avviene senza traumi, trovando fertile terreno nella disponibilita' esoterica di quei popoli. L'Islam africano e' pero' una religione sincretica, semplice e tollerante, ma lontana dal dotto o raffinato Islam arabo, quasi una sua deformazione. La diffusione dell'Islam trovera' poi limitazioni con l'insorgere del colonialismo in Africa e con la competitivita' che si instaura, sia sul piano religioso che di civilta', tra mondi e culture diverse. L'Islam quindi e' oggi variegatamente distribuito nel continente lungo questo itinerario politico e sociale che lo vede fortemente presente nel nord e lungo l'arco costiero. Ma l'Islam africano, almeno nella sua iniziale manifestazione, e' soprattutto di matrice moderata e spirituale, si accompagna con facilita' al fatalismo e spiritualita' degli africani, ne asseconda anche la ritualita' e la volonta' associativa. LE CONFRATERNITE SUFI Le migliori risposte a queste ultime istanze di moderazione vengono, nel tessuto sociale africano, con lo sviluppo, piu' che altrove delle Confraternite sufi. Dal punto di vista storico le confraternite sufi emergono in Medio Oriente nel XIImo secolo per poi diffondersi in Africa (il nome "suf" deriva dagli abiti di lana di cammello che i sufi indossavano per indicare la devozione ad una vita mistica. Altro nome dato agli adepti di queste confraternite e' quello di "dervish", parola persiana per indicare colui che si affranca dai problemi terreni per dedicarsi a Dio). Secondo alcuni storici, l'origine del misticismo sufi, almeno quello non propriamente ancora organizzato in confraternite, viene invece fatto risalire all'ottavo secolo quando, a seguito delle Invisible Dog – Periodico online Direttore Responsabile – Alessandro Righi Edito da Invisible Dog Srl Via Cassia 833, Rome, Italy Testata registrata presso il Tribunale di Roma n.198/2011 del 17/6/2011

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IL DESTINO DELL'AFRICA TRA SUFISMO E SALAFISMO

L'Islam entra in Africa, dopo la morte di Maometto, senza particolari effetti dirompenti seppur a seguito di conquiste militari. Infatti, dopo la morte di Maometto nel 632, il primo Califfo dell'Islam Abu Bakr intraprese una serie di operazioni militari per la diffusione della nuova fede nel mondo.

Benche' egli morisse due anni piu' tardi, suo nipote Omar continuo' questo programma ambizioso di espansione militare con la conquista di Gerusalemme (636), Damasco e Antiochia e poi la Persia (651).

Il primo ingresso dell'Islam sul continente africano avverra' nel 646 con la conquista dell'Egitto. Come sopra enunciato, e' un Islam tollerante e apolitico che nell'impatto con le societa' africane ne rispetta inizialmente usi, costumi, tradizioni, riti (anche quelli pagani e animisti) senza costituire quindi un elemento destabilizzante delle strutture societarie secolari preesistenti nel continente. E' una penetrazione, pertanto, che nel proseguo della storia e nella sua espansione geografica avviene senza traumi, trovando fertile terreno nella disponibilita' esoterica di quei popoli.

L'Islam africano e' pero' una religione sincretica, semplice e tollerante, ma lontana dal dotto o raffinato Islam arabo, quasi una sua deformazione.

La diffusione dell'Islam trovera' poi limitazioni con l'insorgere del colonialismo in Africa e con la competitivita' che si instaura, sia sul piano religioso che di civilta', tra mondi e culture diverse. L'Islam quindi e' oggi variegatamente distribuito nel continente lungo questo itinerario politico e sociale che lo vede fortemente presente nel nord e lungo l'arco costiero. Ma l'Islam africano, almeno nella sua iniziale manifestazione, e' soprattutto di matrice moderata e spirituale, si accompagna con facilita' al fatalismo e spiritualita' degli africani, ne asseconda anche la ritualita' e la volonta' associativa.

LE CONFRATERNITE SUFI

Le migliori risposte a queste ultime istanze di moderazione vengono, nel tessuto sociale africano, con lo sviluppo, piu' che altrove delle Confraternite sufi. Dal punto di vista storico le confraternite sufi emergono in Medio Oriente nel XIImo secolo per poi diffondersi in Africa (il nome "suf" deriva dagli abiti di lana di cammello che i sufi indossavano per indicare la devozione ad una vita mistica. Altro nome dato agli adepti di queste confraternite e' quello di "dervish", parola persiana per indicare colui che si affranca dai problemi terreni per dedicarsi a Dio).

Secondo alcuni storici, l'origine del misticismo sufi, almeno quello non propriamente ancora organizzato in confraternite, viene invece fatto risalire all'ottavo secolo quando, a seguito delle

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numerose conquiste militari e delle conseguenti ricchezze durante la dinastia Omayad, l'Islam rischiava di perdere le sue connotazioni etiche originali. Personaggi come Hasan al Basri (642-728), Rabia al Adawiyah (m. 801), al Hallaj (condannato a morte nel 922 dopo 8 anni di imprigionamento) si dedicarono infatti a criticare le autorita' musulmane, ma anche a predicare l'unione con Dio attraverso l'amore di Dio.

Nella pratica il sufismo si sviluppa come un orientamento mistico dell'Islam in contrapposizione ad una visione giuridico/legale dell'ortodossia musulmana (ed e' per questo aspetto che ne facilitera' la diffusione in Africa). Afferma la possibilita' di una vicinanza emotiva a Dio e una conoscenza intuitiva di Dio attraverso la fede, ma al di fuori dell'enfasi intellettuale e giuridica del sunnismo ortodosso. In tal senso i sufi interpretano il Corano come la chiave per determinare un'unione mistica dell'individuo con Dio. Ogni ordine ricerca quindi per i propri adepti (chiamati "mourids", traduzione araba di "colui che accetta" o "colui che e' votato a una fede") una stretta relazione personale con Dio attraverso speciali discipline spirituali.

Sono gli esercizi di preghiera ("dhikir") che vengono accompagnati da movimenti del corpo, anche attraverso il canto e la danza, secondo una formula stabilita dal fondatore dell'ordine. In questo modo, quando le litanie sono particolarmente lunghe, i fedeli raggiungono spesso l'estasi entrando in trance che e' poi lo scopo di liberare il corpo e portarlo alla presenza di Dio. Il modo di pregare ("tariqa" o "via") varia da confraternita a confraternita che vengono poi identificate proprio con il nome di questa "tariqa". Ogni "tariqa", oltre ad avere un proprio rituale, ha una sua organizzazione interna che puo' essere, a seconda degli ordini, piu' o meno gerarchica.

E' una gerarchia che si sostituisce a quella dei clan o dei gruppi etnici di appartenenza (ed in questo crea un'alternativa sociale al tribalismo africano). C'e' un capo che da' l'iniziazione ai nuovi membri e che delega alcune responsabilita' ad altri livelli. L'adesione alla confraternita e' volontaria anche se poi prevalgono anche legami e tradizioni familiari che si tramandano da padre in figlio. I novizi giurano fedelta' al capo della confraternita. I leaders degli ordini, che prendono il titolo di Sheykh (dottori dell'Islam), sono ritenuti possessori del "baraka".

Si tratta di una "benedizione sovrannaturale" che implica un potere spirituale intrinseco nell'esercizio dell'attivita' religiosa. Ma e' anche qualcosa di piu': un insieme di caratteristiche personali positive, sia morali che intellettuali, di cui solo alcuni individui sono dotati. Tale stato di spiritualita' puo' continuare anche dopo la morte generando poi lo status di "uomo santo" che esula, nella venerazione popolare, dall'appartenenza ad una specifica confraternita. Molte tombe, cosi', diventano oggetto di pellegrinaggio.

Vengono venerati i precedenti capi della confraternita dando un senso di continuita' al "baraka" e vengono accreditati della stessa benedizione anche coloro che diffondono il credo religioso: i "marabutti" nell'Africa Occidentale, i "wadaddo" in Somalia.

I "marabutti" (traslitterazione di "al morabitoun" cioe' "coloro che hanno costituito un riparo religioso") sono in pratica intermediari tra l'individuo e Dio e celebrano le funzioni islamiche. Tuttora costituiscono un sistema itinerante di diffusione dell'Islam. Oltre all'insegnamento del Corano e la promozione culturale dell'Islam, il "marabutto" fa proselitismo, propaga la fede, fa talvolta anche politica, celebra i rituali e le funzioni per la guarigione delle persone (viene infatti accreditato di un potere mistico per proteggere dalle malattie o dal malocchio), mette in atto opere

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di mediazione (negoziati, operazioni di pace tra fazioni in lotta), fa il consulente (anche politico) di capi tribali, garantisce protezione e asilo agli individui, vende amuleti o talismani. Prima si riteneva che il "baraka" fosse applicabile solo ai discendenti di Maometto, ma con l'avvento del sufismo e la creazione delle confraternite poteva essere ora applicato a chiunque ne avesse le caratteristiche.

Il sufismo introduce anche un altro concetto molto importante e cioe' l'accettazione di un "intermediario" tra l'individuo e Dio. Da li' nasce il ruolo delle confraternite e il riconoscimento dell'"uomo santo". Nella loro generalita' i membri delle confraternite sufi vivono in modo secolare nelle loro tribu', sebbene talvolta si riuniscano in comunita' separate (chiamate "jama'a") per sottoporsi a indottrinamento. Solo in pochi si dedicano al celibato. Si tratta pertanto piu' di comunita' spirituali che pratiche, anche se esiste un territorio centrale ("zawiya") dove opera la confraternita.

Gli aspetti mistici del sufismo hanno favorito in Africa la fusione tra credenze islamiche e quelle pre-islamiche. Prendendo origine da una combinazione del misticismo sufi con l'ortodossia sunnita, le fratellanze islamiche hanno poi costituito nel continente un fattore unificante tra cultura e religione al di fuori delle differenze etniche e tribali. Altro ruolo svolto da questi ordini e' stato quello di anteporsi all'occidentalizzazione dei costumi.

Le prime confraternite sufi in attivita', come accennato, risalgono al XIImo secolo (la "Rifaiyyah" fondata in Basra e subito diffusasi in Iraq, Siria e Egitto; la "Suhrawardiyyah", fondata da Abu Najib al Suhrawardi (1097-1168), diffusasi in India; la "Kubrawiyyah", fondata da Nayim Al Din Kubra (1145-1221), discepolo di Suhawardi, in Iran e poi diffusasi soprattutto in India; la "Qadiriyyah" che poi avra' un forte sviluppo in Nord Africa). Per quanto riguarda l'Africa, la prima confraternita sufi appare in Egitto, proveniente dalla Siria, come espansione della "Rifaiyyah". La fondera' Ahmad al Badawi (1199-1276), personaggio a cui furono anche attribuiti miracoli (tuttora a Tanta in Egitto vi e' un festival annuale della "Badawiyyah").

Nel frattempo e parallelamente alla "Badawiyyah" egiziana, il sufismo incomincia a diffondersi anche nel resto del Nord Africa attraverso il sostegno della dinastia Almohadi (1130-1269) che governava sul Marocco, Algeria, Tunisia nonche' parte della Spagna. Nel XIIImo secolo in Tunisia un certo Shadhili formo' la "Shadhiliyyah" che ancora oggi e' diffusa, seppur in modo non molto consistente, in Algeria, Tunisia e Marocco. Il XVIIImo secolo costituira' una nuova evoluzione del sufismo a seguito dell'avvento del wahabismo che rifiutava molte pratiche sufi , come la venerazione dei santi, ed incoraggiava la stretta applicazione della Sharia. Nasceranno cosi' nuovi ordini come la "Tijaniyah" e la "Sanusiyah".

Di seguito la descrizione di alcune confraternite sufi che hanno avuto un ruolo preminente in Africa:

- la QadiriyahE' il piu' vecchio ordine sufi. E' stato fondato da Abdel Qadir al Djilani (1077-1166) in Iran Al Djilani poi risiedera' a Bagdad come responsabile di una scuola giuridica Hanbalita. Nel XVmo secolo avra' grosso sviluppo anche in Africa grazie alla guida di Osman Dan Fodio (1754-1817) che si dedico' soprattutto all'eliminazione delle pratiche tribali nei rituali islamici (operava nell'area dell'attuale Niger e Nigeria). Tale confraternita, come tutte le altre consimili, include elementi emotivi e mistici, ma soprattutto persegue l'istruzione e l'insegnamento islamico come sistema per trovare Dio. Tutti i membri della confraternita devono seguire soprattutto i precetti di umilta',

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generosita' rispetto del prossimo a prescindere da credo religiosi o status sociali. La Qadiriyah e' stata fortemente impegnata al fianco degli algerini nella guerra per l'indipendenza dal colonialismo francese.

- la TijaniyahE' stata fondata da Ahmad Tijani, un berbero algerino, nel 1781 (lui morira' nel 1815). Ha un rituale (leggasi metodo di recitazione) piu' semplice e piu' flessibile della Qadiriyah anche se entrambe condividono la dottrina e gli obblighi religiosi. I suoi membri, al contrario della Qadiriyah, non sono tenuti a sviluppare l'insegnamento islamico ed e' considerata, sempre rispetto all'altra confraternita, piu' idonea a recepire un modo di vita piu' moderno. I precetti della confraternita impongono il rifiuto della menzogna, il furto, l'uccisione e la truffa. E' imposto anche il rispetto delle promesse, l'amore verso il prossimo, l'ubbidienza verso il Signore. Nessun membro puo' togliere la liberta' ad altri senza motivo. Nelle preghiere bisogna rispecchiarsi in Dio. Pur riconoscendo che ogni individuo pecca, la Tijaniyah ritiene che gli adepti della confraternita verranno premiati dopo la morte. La Tijaniyah, a differenza delle altre organizzazioni, non permette l'appartenenza contemporanea ad altre confraternite. Nei fatti applicano un separatismo religioso dagli altri ordini. E' difficile che un confratello lasci l'organizzazione nella diffusa credenza che colui che tradisce a' condannato a morire da apostata. I tijani si considerano un po' l'aristocrazia degli ordini mistici e si auto-definiscono "al tariqa al Mohammediyah" ("la via di maometto"). Ahmad Tijani veniva accreditato di ricevere le rivelazioni direttamente da Maometto e quindi era un tramite privilegiato diventando un "qubt al aqtab" ("il polo dei poli"). Nelle sue grandi linee la Tijaniyah ha le caratteristiche di un ordine missionario che si e' esteso nell'Africa Occidentale a spese della Qadiriyah. Alla morte di Tijani nel 1815 sorgeranno numerosi conflitti tra le varie "zawiya" portando poi al frazionamento e creazione di altre confraternite.

- la SanusiyahFondata a La Mecca nel 1837 dall'algerino Mohammed ibn Ali al Sanasi (aut Senusi) della tribu' Senusi nato nel 1787 e che si proclamava discendente di Fatima. Sanasi studia a La Mecca e fonda varie "Zawiya" (comunita'). In Libia sviluppera' la sua attivita' soprattutto in Egitto e Cirenaica organizzando le tribu' beduine del Fezzan e di Kufra. Tra le varie confraternite e' quella piu' indirizzata verso l'attivita' politica. La sua "zawiya" sara' inizialmente Jaraboub. Propugna un islam purificato con l'adattamento alla vita dei nomadi del deserto. Predica inoltre l'osservanza dei precetti del culto islamico (a volte con punte di integralismo comportamentale come il divieto dell'uso del tabacco) e nei suoi riti tende ad un'unione mistica con il Profeta e non con Dio. Si tratta di un'unione intesa come imitazione nella vita di tutti giorni. La storia della Sanusiyah (italianizzata in Senussia) si interseca con la storia della Libia. Alla morte di al Sanasi gli succede il figlio Mohammed al Mahdi (1859 che governera' fino alla sua morte nel 1902), fortemente dedito al proselitismo anche nell'area del lago Ciad ed ai traffici commerciali nell'area sahariana che lo arricchiranno. Con la presenza francese in Ciad e quella italiana in Libia la confraternita entra in contrasto con le potenze coloniali. Il successore di al Mahdi, Ahmad al Sharif, sviluppera' una politica, peraltro senza successo, al fianco della Turchia a cavallo della Ima guerra mondiale. All'arrivo a capo della confraternita di Idris viene sottoscritto un accordo con gli italiani che comunque verra' poi rotto nel 1923. Inizia la lotta armata contro gli occupanti ed i leader della confraternita saranno costretti a scappare in Egitto dove sosterranno gli inglesi a cavallo della II guerra mondiale. Dal 1951 al 1969 (colpo di stato di Gheddafi) una dinastia senussa guidera' il Paese. La confraternita conta tutt'oggi circa 350 "zawiya" sparse per l'Africa (soprattutto Marocco e Ciad) fino all'Indonesia.

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- la Mouridya fondata da Amadou Bamba (alias Mohamed ben Habit Allah 1852- 1927), ha il suo baricentro geografico in Senegal e Gambia ed e' una confraternita che si colloca ideologicamente a meta' strada tra la Tijanyah e la Qadiryah. Bamba era considerato un innovatore. Guidata da un Califfo (o Gran marabutto ) con potere assoluto, e' articolata con marabutti regionali. Ha una sua struttura economica legata al lavoro manuale dei suoi adepti. Viene anche autodefinita "il modo di imitare il Profeta". Da questa confraternita, ne nasceranno altre come i Baye Fall dello Sheykh Ibrahim Fall.

IL SALAFISMO

In contrapposizione all'approccio moderato del sufismo si sviluppa poi nel mondo islamico e conseguentemente anche in Africa una tendenza che spinge verso una radicalizzazione di comportamenti religiosi, una visione ed interpretazione ortodossa dei precetti. Il Salafismo, che prende origine dalla parola araba "salaf" cioe' "antichi/antenati", propugna il ritorno ad un Islam puro, quello riferibile ai primi anni dopo la morte del Profeta ritenendo che nel corso dei secoli a seguito delle dominazioni straniere e della collusione con il mondo occidentale, la religione abbia perso le sue caratteristiche originarie. I garanti e gli assertori di un Islam puro sono quelli che implicano anche un ricorso ideologico al "jihad" come strumento di difesa (della nazione islamica) e poi di offesa (contro questo contagio sociale esterno). E' una dottrina evolutiva che fornisce alibi ai fondamentalisti musulmani nella lotta contro la modernizzazione, la decadenza dei costumi e la globalizzazione e che oggi, nelle sue forme piu' deleterie, postula l'attivita' terroristica.

Dal punto di vista storico il salafismo trae origine dal teologo Ibn Taymiya, discepolo della scuola "Hanbalista" (da Ahmad Ibn Hanbal IX secolo), che ricusava l'utilizzo di metodologie razionali nell'interpretazione del Corano e della Sunna perche' elementi divini e quindi avulsi da un approccio razionale. Ibn Taymiya, partendo da questo assunto, divenne sostenitore di una interpretazione individuale dei libri sacri, posizione a quei tempi innovatrice perche' configurava una diffusione della religione piu' popolare ed al di fuori delle e'lite di potere che sino allora curavano gli aspetti teologici e sociali dell'Islam. Comunque Ibn Taymiya esigeva l'obbedienza ai capi politici e combatteva tutte le devianze teologiche che questo nuovo approccio interpretativo determinava.

Nel XVIIImo secolo sara' poi anche Mohammed Ibn Abdel Wahab (fondatore del "wahabismo") ad aderire all'hanbalismo per ritrovare un Islam puro e dopo di lui l'iraniano Jamal Al Din Al Afgani (1838-1897), l'egiziano Mohamed Abduh (1849-1905) ed il siriano Rachid Redha (1865-1935). Nascera' cosi' questa corrente salafita che portera' peraltro ad una defenestrazione delle strutture clericali dell'Islam.

Con la creazione dell'Associazione dei "Fratelli Musulmani" di Hassan Al Banna in Egitto nel 1928 il salafismo prende anche una connotazione politica, cioe' l'Islam deve essere riorganizzato attraverso una presa del potere (inizialmente Al Banna aveva aderito al sufismo). Negli anni '50 un altro egiziano, Sayed Qutb (1906-giustiziato da Nasser nel 1966), anche lui membro dei Fratelli Musulmani, teorizzera' questa presa di potere sui capi arabi "empi" per il ripristino di uno Stato islamico attraverso la lotta armata. Sara' lui il referente ideologico di molti movimenti terroristici, non ultimo Al Qaeda.

Allo stato attuale vi sono principalmente tre tendenze nell'ambito dei movimenti salafiti:

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- un salafismo moderato che rifiuta un approccio politico dell'Islam, e' contro la violenza, boicotta le elezioni, giudica gli attentati o la pratica dei "shahid" illegale;

- un salafismo riformista o modernista, vicino alle tesi dei Fratelli Musulmani, che invece subordina la politica alla religione e fornisce interpretazioni del Corano che giustifichino tale obiettivo;

- un salafismo cosiddetto "jihadista" che rifiuta la predicazione e esalta la guerra santa, sia contro il mondo musulmano che contro l'occidente, anche se proclamata individualmente rifiutando nel contempo ogni approccio politico.

LE CARATTERISTICHE DELL'ISLAM ED I SUOI EFFETTI NEL CONTESTO SOCIALE AFRICANO

Nelle sue linee generali, l'Islam e' una religione semplice, scarsamente dogmatica e come tale facilmente assimilabile anche da individui culturalmente e socialmente meno evoluti. Questa caratteristica puo' essere applicata a molte popolazioni africane. Sul piano pratico basta infatti attenersi ai cosiddetti 5 pilastri della religione (la dichiarazione di fede alias "shahada", le 5 preghiere giornaliere alias "salat", il versamento annuale dell'elemosina per i meno abbienti alias "zakat", il digiuno durante il mese del Ramadan alias "saum", il pellegrinaggio almeno una volta nella vita a La Mecca alias "haji").

Sul piano dogmatico ci si limita all'unicita' di Dio ("tawid") e della comunita' islamica ("umma"), all'immortalita' dell'anima, al fatto che Maometto e' l'ultimo dei profeti (il cosiddetto "sigillo dei profeti") dopo Adamo, Noe', Abramo, Mose' e Gesu' (il Corano non abolisce la rivelazione ebraica ne' quella cristiana bensi' la completa, pone cioe' il "sigillo" finale), all'esistenza degli angeli (vedasi il ruolo dell'Arcangelo Gabriele nelle rivelazioni a Maometto), al Corano come ultima scrittura del disegno divino ed al Giudizio Universale (simile a quanto concepito nel Cristianesimo seppur con varianti piu' prosaiche del godimento divino).

Le "shura" (versetti) del Corano e gli "hadith" (insegnamenti del Profeta) della "sunna" (tradizione) sono gli unici elementi di ispirazione teologica che peraltro si prestano ad interpretazioni strumentali in quanto non esiste nell'Islam una gerarchia religiosa di riferimento (c'e' un clero ma non ci sono sacerdozio o sacramenti ) ma solo scuole giuridiche (°). E' proprio nell'interpretazione dei testi sacri trova origine spesso il radicalismo e l'estremismo. Infatti, per quanto riguarda l'interpretazione dei libri sacri e la possibilita' di una loro strumentalizzazione, vi sono nell'Islam due principali correnti di pensiero:

- quella del "taqlid" ovvero l'interpretazione deve essere condotta ed applicata nell'ambito delle esistenti scuole di dottrina islamica;

- quella della "itjihad" cioe' l'interpretazione dei sacri testi e' un fatto individuale.

Soprattutto da quest'ultimo approccio trova, molte volte, giustificazione teologica il terrorismo.

Maometto, nella sua esperienza terrena, aveva creato in Medina uno Stato dalle basi religiose che governava la "umma". Da questa sovrapposizione tra potere temporale e spirituale nasce per l'Islam, a maggior differenza dal giudaismo e cristianesimo, una stretta interdipendenza tra politica e

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religione che accentua l'impatto sociale delle religione sulle vicende dei popoli.

Se il Dio cristiano e' quello dell'amore, il Dio ebraico e' quello della giustizia, quello musulmano e' soprattutto un Dio sociale. Cioe' l'Islam introduce un concetto di "statalita'" che non e' assimilabile a quello di teocrazia, ma e' legato ad una interdipendenza tra la divulgazione e applicazione dei precetti islamici e la legittimazione del potere. La scarsa ricorrenza di eventi democratici nel continente africano rende questo precetto facilmente recepibile.

L'Islam introduce anche un'altra caratteristica specifica che e' il decreto divino e la predestinazione. La predestinazione e' un concetto molto diffuso a livello popolare che include la credenza che ogni cosa che avviene nella vita e' volonta' di Dio e che pertanto ogni tentativo di cambiare gli eventi e' inutile. E' una dimensione del potere e/o saggezza e/o misericordia di Dio che postula un concetto di fatalismo (benche' poi anche nell'Islam si dovrebbe associare ad una responsabilita' umana).

Non casualmente "Islam" e "Muslim" (stessa radice di consonanti) introducono il concetto di sottomissione a Dio. L'abbandono del musulmano alla volonta' di Dio, cioe' la predestinazione nell'ortodossia sunnita, ha comunque caratteristiche meno filosofiche o spirituale dell'equivalente concetto cristiano. Il fatalismo introdotto dall'Islam e' un altro dei concetti che le popolazioni africane hanno accettato con facilita' avendo vissuto storie secolari di calamita' sociali e miserie.

Forse anche per questo aspetto di predestinazione, il senso dello sviluppo e modernizzazione della societa' islamica appare piu' limitato rispetto all'approccio e progresso dell'Occidente (ed anche questo aspetto e' piu' confacente alle realta' africane). Si determina cosi' un divario tra due mondi e quando scatta, come nell'attuale congiuntura politica, un confronto, esso diventa scontro di civilta', una lotta non solo tra cristiani e musulmani, ma anche tra i rispettivi mondi. All'interno del mondo musulmano comunque esiste, anche se mediaticamente meno visibile, uno scontro tra moderati e radicali.

Vi e' poi un ultimo concetto ed e' quello della giustizia divina. Dio e' "buono" e quello che fa e' "bene". Dio pero' e' al di sopra del bene e del buono o del male e non e' tenuto ad alcun vincolo di giustizia. Dio non e' obbligato ne' obbligabile. Non vi puo' essere ingiustizia perche' tutto appartiene a Lui. Ergo Dio fa quello che vuole. Non c'e' correlazione tra buon comportamento e giustizia terrena. Il premio divino arriva nell'altra vita. L'africano vive un presente difficile, anche se non meritato, ma non si domanda se cio' sia giusto o meno. L'Islam cosi' diventa per lui strumento sociale laddove da un lato vengono negati diritti e liberta', ovvero c'e' una poverta' che reclama maggiore giustizia ma in ultima analisi, la speranza di un futuro migliore in cielo puo' far meglio accettare una miseria terrena. Altro aspetto che ha reso appetibile l'Islam alle popolazioni africane e' la tolleranza verso alcuni aspetti sociali della cultura autoctona, come il matrimonio multiplo (peraltro inviso alle altre religioni monoteiste). Sono aspetti che invece risultano incompatibili con il cristianesimo e l'ebraismo. LE CONSEGUENZE DEL RADICALISMO ISLAMICO

Sufismo e salafismo sono stati gli ingredienti che a diverso titolo e dosaggio hanno poi influenzato gli eventi in Africa in quei Paesi a maggioranza e/o forte presenza islamica. Negli ultimi anni il salafismo ed il suo conseguente radicalismo - poi trasformato in estremismo - religioso sembrano avere preso il sopravvento sulle correnti moderate all'interno del mondo islamico. Le ingiustizie

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sociali, la presenza di regimi totalitari e la poverta' dilagante, che sono una costante nel panorama politico africano, hanno aiutato l'affermarsi di questo approccio radicale.

Il salafismo come ispirazione di movimenti terroristici lo ritroviamo in molti Paesi africani: la Jihad Islamiyah e la Jamaa Islamiyah in Egitto, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento in Algeria, Al Qaida nel Maghreb Islamico in tutta la fascia del sahel sub-sahariano, il Gruppo Islamico Combattente Libico in Libia, i "taleban" e i Boko Haram della Nigeria, Al Ittihad Al Islami e le Corti Islamiche e poi gli Shabaab in Somalia, cellule di Al Qaida nelle Comore, l'"Allied Democratic Front" (infiltrato da estremisti del Al Tabligh) in Uganda, il Gruppo Islamico Combattente Marocchino, il Fronte Islamico Tunisino (ed anche l'Ennadha di Rachid Gannouchi nella sua prima configurazione nella lotta contro Ben Ali) in Tunisia, l'attivita' (sovversiva) della Haramain Islamic Foundation in Kenya e Tanzania, il P.A.G.A.D (People Against Gangsterism and Drug) e la Qibla (di ispirazione sciita) in Sudafrica. Ma la lista potrebbe continuare ancora.

Secondo alcune statistiche, nel 2011 ci sarebbero stati nel mondo 1974 attacchi terroristici di matrice islamica, con oltre 9000 morti e circa 17.000 feriti. E si tratta di un trend in crescita che vede l'Africa sempre piu' presente. Tra l'altro i musulmani in Africa sarebbero oggi oltre 370 milioni contro 305 milioni di cristiani e 137 milioni di aderenti a religioni indigene e quindi sarebbero adesso, rispetto al recente passato, in maggioranza numerica (le statistiche al riguardo non sono particolarmente accurate).

Sotto l'aspetto storico, la presenza e diffusione dell'Islam in Africa non costituirebbe elemento di interesse se non si ricorresse oggi ad un uso improprio di questa religione nelle vicende internazionali e nella storia contemporanea di vari Paesi del continente. E' l'insorgere del cosiddetto fondamentalismo islamico che nelle sue manifestazioni piu' deteriori diventa estremismo e poi terrorismo (°°). In Africa, circoscritto in alcune aree e/o Paesi, questo fenomeno sociale negativo e' presente sia come fattore endogeno (vedasi le vicissitudini politico-sociali dei singoli Stati) che esogeno (la citata confrontazione tra mondi e civilta'). A differenza di altre parti del mondo, il fenomeno dell'estremismo islamico in Africa e' potenzialmente piu' pericoloso, non per quello che e' oggi ma per quello che potra' essere domani.

E' una valutazione legata ad una serie di circostanze oggettive quali:

lo stato di indigenza della maggioranza delle popolazioni africane quindi c'e' il potenziale pericolo che si possa determinare un uso dell'Islam come rivalsa sociale;

la scarsa diffusione di regimi equi e/o di ispirazione democratica e quindi che si possa determinare un uso dell'Islam come rivalsa politica (ed in questo contesto il riferimento ai Fratelli Musulmani e' alquanto congruo);

l'accentuata sete di spiritualita' dei popoli africani quindi un uso dell'Islam come placebo sociale;la ricerca di una identita' culturale che unisca le varie etnie o tribu' al di fuori dei confini imposti dalla storia quindi un uso dell'Islam come identificativo etnico;

la presenza di culture religiose elementari inserite in un contesto culturale debole quindi un uso dell'Islam come identificativo culturale;

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la necessita' di un fatalismo di sostanza per affrontare condizioni di vita negative per malattie, fame, poverta' con un uso dell'Islam come placebo teologico.

Tutto questo deve essere inserito in un continente dove vi e' una presenza massiva di armi, una corruzione dilagante, spazi ampi dove muoversi e operare senza controlli, scarso supporto di tecnologie. Sono tutti questi dei fattori che possono amplificare gli effetti devastanti di un fenomeno terroristico. Ma quello che piu' preoccupa e' la prospettiva che l'Islam africano diventi sempre piu' associato ad un fenomeno di instabilita' sociale acquistando tutti gli identificativi di cui si e' sopra fatto menzione. Non piu' legato ai soli eventi del nord Africa, come finora prevalentemente accaduto con la cosiddetta "primavera araba", ma geograficamente esteso in altre aree della fascia sub-sahariana.

Ulteriore elemento di preoccupazione e' la saldatura che sta avvenendo tra i vari movimenti estremisti islamici africani che non esercitano piu' la loro influenza negativa nel contesto di un singolo Paese, ma tendono a internazionalizzare la loro attivita' a livello regionale e forse domani anche a livello continentale. In altre parole si passa cioe' da una fase in cui il terrorismo islamico si appropria di una problematica sociale locale (ed ha solo l'imbarazzo della scelta) per legittimare il proprio operato e da questa poi transuma in tematiche e contesti geograficamente piu' ampi. Si e' oggi cosi' creata una contiguita' territoriale tra la Somalia, i gruppi operanti nella fascia sahelo sahariana e quelli presenti nei Paesi del nord Africa. Ed e' forse non casuale ricordare che Al Qaida, gia' ai tempi di Osama Bin Laden, aveva indirizzato i suoi interessi geo-strategici al continente africano (Bin Laden aveva soggiornato in Sudan, dove aveva fatto anche investimenti importanti, ed era anche transitato in Somalia prima di trasferirsi in Afghanistan).

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ (°)Le 4 scuole giuridiche islamiche che in ambito sunnita dissertano sul diritto islamico ("Fiqh") sono :− la scuola Hanafita (da Azzam Abu Hanifa morto nel 767 e vissuto in Siria) che e' considerata la piu' liberale perche' disposta alla interpretazione analogica (diffusa soprattutto in Asia ). Vi si riconoscono circa il 50% dei musulmani;− la scuola Malikita (da Malik ibn Anas , morto nel 795), diffusa in Africa settentrionale;− la scuola Shafita o Shafei (da Abdullah Mohammed al Shafi , morto nell'818), presente in Egitto , Somalia ed Etiopia. Shafi era vissuto in Irak ed in Egitto ed in entrambi i paesi aveva emesso opinioni religiose ("fatwa") contrastanti tra loro (da li' il concetto di applicare le regole in accordo alle condizioni ambientali);− la scuola Hambalista (da Ahmad ibn Hambal, morto nell'855) che e' considerata la piu' tradizionale e conservatrice. Restringe al massimo l'uso dell'analogia razionale. E' quella corrente di pensiero a cui ha fatto poi riferimento il wahabismo saudita e molti dei movimenti estremisti islamici.Sono comunque tutte scuole ortodosse concatenate nel tempo e che hanno pertanto in comune un discorso interpretativo (benche' allora la trasmissione delle loro idee avvenisse solo oralmente). Differiscono solo in alcune interpretazioni dei testi sacri , perche' vi e' poi un adattamento ai tempi e ai luoghi e anche la possibilita' di passare da una scuola all'altra secondo le esigenze. La sharia ( che acquista le caratteristiche di un diritto canonico) si rifa' poi agli insegnamenti di questi quattro grandi teologi dell'Islam. Nella pratica le 4 scuole si differenziano in una catalogazione giuridica dell'interpretazione dei fatti che va dall'obbligatorio (esecuzione premiata e omissione punita) , al

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raccomandabile (esecuzione premiata e omissione non punita), al permesso o concesso (non vi sono ne' premi ne' punizioni), all'esecrabile (non punibile ma riprovevole sul piano religioso) fino ad arrivare al proibito (che e' punito). Ci si basa sull'Igma cioe' il consenso nell'interpretazione degli "hadith" e tale consenso diventa poi legge e si tramuta in un obbligo.Il Qiyas e' invece il ragionamento analogico , la deduzione per analogia cioe' le norme ed i precetti precedenti che regolano l'interpretazione dei fatti presenti.Altro aspetto e' che la pratica diventa tradizione.Variano i giudizi e le interpretazioni ed alla fine cio' ha impedito il formarsi di un unico sistema giuridico-teologico.Comunque esulano dalle competenze delle 4 scuole giuridiche islamiche la trattazione di elementi non ortodossi come il diritto ereditario o quello di famiglia (dove comunque esistono tra loro ampie diversita').Come anticipato sono tutte scuole giuridiche sunnite mentre in campo sciita predomina la scuola "Jafari" legata all'imam Jafar al Sadiq.

(°°) E' da notare al riguardo che l'O.N.U., benche' abbia piu' volte condannato in varie risoluzioni il terrorismo non e' stato in grado di dare una precisa definizione di questo termine. Generalmente si tende a fare una netta distinzione tra:fondamentalista islamico : colui che insiste su una interpretazione letterale delle scritture sacre islamiche pur non essendo necessariamente implicato in attivita' politiche e/o destabilizzanti;estremista islamico : colui che intende usare la violenza (e pertanto anche il terrorismo) per il raggiungimento di obiettivi religiosi.

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COME NASCE UNA FONTE

Per un Servizio Informazioni, nell'ambito dell'attivita' istituzionale per la salvaguardia della sicurezza nazionale, e' essenziale la raccolta di notizie. Ogni mezzo per farlo e' sostanzialmente lecito nell'ambito, ovviamente, di quelle attribuzioni che gli vengono conferite da leggi o mandati governativi. Piu' ampio e' lo spettro di autonomia operativa che gli viene concessa, meno vincoli e controlli vengono esercitati (e questo ne garantisce comunque la segretezza), piu' efficiente e' il Servizio, ma piu' efficace e' anche il risultato operativo che ne consegue.

LO HUMINT

La classica forma di raccolta delle notizie e' quello che viene etichettato nel mondo dell'intelligence con il nome di "Humint" ovvero "Human intelligence" cioe' l'acquisizione che avviene attraverso l'utilizzo di informatori (sul piano interno) o di spie (come ormai una certa letteratura predominante li etichetta) qualora si operi all'estero. Meglio dire, fuori dal contesto letterario: collaboratori informativi.

Una volta si trattava dell'attivita' predominante di un Servizio Informazioni quando soprattutto non esistevano altre forme piu' sofisticate di acquisizione di notizie. Un mestiere vecchio come il mondo, lo spionaggio ha poi assunto aspetti piu' tecnologici: e' diventato "sigint" ("signal Intelligence" alias intercettazioni delle comunicazioni), "elint" ("electronic intelligence" alias intercettazione dei segnali elettronici), "Imint" ("image intelligence" alias acquisizione attraverso immagini satellitari), decrittazione dei messaggi cifrati (con l'utilizzo massivo di computer per trovare la possibilita' di leggere il contenuto di comunicazioni trasmesse in forma simulata), fino ad arrivare alla raccolta di notizie attraverso un filtraggio di tutte le notizia stampa che circolano nel mondo ("open sources" o "fonti aperte").

Ma, come detto prima, lo humint rimane l'attivita' principe dell'intelligence, quella piu' vecchia ma anche quella piu' importante. Si individuano obiettivi informativi di interesse e si individuano quelle persone che potrebbero aiutarci a fornire le notizie. E dopo questa prima valutazione di potenzialita' c'e' poi l'attivita' specifica di reclutamento (ed e' questa l'attivita' che nel suo complesso acquista caratteristiche di difficolta' e di pericolosita').

LA TECNICA DELLO HUMINT

La difficolta' deriva dal fatto che la cosiddetta potenziale "fonte" deve essere avvicinata, studiata, convinta ed alla fine reclutata. Questo avviene il piu' delle volte in un contesto ostile come potrebbe essere un Paese straniero dove viene esercitata un'attivita' di controspionaggio proprio per impedire che i suoi segreti vengano svelati.

Occorrono da parte di colui che e' preposto al reclutamento qualita' comunicative, capire o individuare i punti deboli di chi ti sta davanti, studiarne psicologicamente comportamenti e reazioni, capire il perche' della sua collaborazione (cioe' le motivazioni del tradimento che possono essere tante : denaro, vendetta, rancore, patriottismo...) e, soprattutto, qual e' il prezzo di questa collaborazione (perche' questa e' una verita' incontrovertibile: ognuno ha un prezzo!). Se il reclutatore non acquisisce tutti questi dati non puo' oggettivamente procedere al reclutamento perche' i rischi che lui corre sono superiori ai guadagni di un'ipotetica collaborazione. Potrebbe

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essere un infiltrato dei Servizi locali, potrebbe essere un provocatore, potrebbe essere un millantatore, potrebbe essere un doppiogiochista (perche' chi tradisce una volta lo puo' fare piu' volte anche in forma contraria). E se fosse un alcolizzato o un drogato che ne rendono labile la personalita' e difficile il mantenimento di un segreto? Spende soldi per il gioco o li spende per donne? Tutte domande che hanno bisogno di una risposta puntuale. Quindi prudenza e soprattutto sagacia.

E' pur vero che il reclutatore, prima di procedere ad avvicinare il personaggio, comunica tutti i dati del soggetto alla Centrale per una verifica negli schedari se esistono controindicazioni note, ma si tratta per lo piu' di una precauzione di routine. Vale soprattutto se si tende a reclutare un connazionale. Ma se si tratta di uno straniero in un Paese straniero - ed e' il caso classico piu' ricorrente - il grosso della valutazione lo fa il reclutatore stesso che e' poi colui che rischia sul terreno.

Effettuato il reclutamento, stabilita una congruita' - sia psicologica che finanziaria - tra motivazione del tradimento e relativo prezzo, il reclutatore assume adesso la nuova configurazione di gestore della fonte. Anche qui occorrono doti psicologiche: bisogna acquistare nei fatti la fiducia della fonte, stabilire un rapporto di familiarita', vincerne timori o paure. Deve essere concordata una forma di contatto per renderlo il piu' possibile casuale, un linguaggio per comunicare in forma simulata, creare un contesto sociale che renda plausibile un contatto tra i due. In questa fase ogni richiesta che viene formulata alla fonte deve essere dosata sulla accessibilita' della fonte all'obiettivo informativo e sulla pericolosita' nell'acquisizione di quanto di interesse. Il tutto in modo graduale.

Ma e' anche, da parte del reclutatore/gestore, ancora il momento delle verifiche. Si chiedono alla fonte dettagli informativi (magari anche su dati gia' noti) per vedere se dice il vero o se millanta o depista. In questo caso il supporto della Centrale e' piu' incisivo: la fonte fornisce una notizia e questa viene verificata nel contesto di altre notizie prima di diventare una vera e propria informazione.

Se la fonte supera questa verifica, il percorso comune tra la stessa ed il suo gestore procede nel tempo. Si tratta solo di far si' che le aspettative finanziarie o psicologiche della fonte diventino elemento insostituibile del rapporto di collaborazione.

Altrimenti, se la fonte non supera questa verifica di merito, bisogna prevedere uno sganciamento che per motivi di segno contrario puo' costituire motivo di pericolosita' per l'uomo dei Servizi che ha reclutato e poi gestito il personaggio.

Ma se la fonte ha dato riscontri positivi, se il suo potenziale informativo soddisfa le aspettative che hanno postulato il suo reclutamento, se la collaborazione prosegue nel tempo e non sorgono perplessita' sul suo comportamento, a questo punto la fonte diventa patrimonio operativo del Servizio che l'ha reclutato. Il rapporto che si instaura temporalmente tra lei e il gestore, diventa piu' istituzionale e deve prescindere da quei rapporti bilaterali e personali inizialmente creati. Se il gestore cambia sede o rientra in patria, un altro gestore deve prenderne le funzioni. Ed anche qui si sviluppano due attivita', parallele sul piano delle iniziative, ma convergenti su quello che e' l'obiettivo finale e cioe' passare da un rapporto bilaterale fiduciario ad un altro rapporto bilaterale altrettanto fiduciario: il vecchio gestore deve convincere la fonte, il nuovo gestore deve rassicurare e guadagnare a sua volta la fiducia della fonte.

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I SERVIZI E LA PROPENSIONE ALL'ATTIVITA' HUMINT

Non esiste un Servizio che non dia adeguato spazio all'attivita' di Humint. Il problema si pone nell'incidenza di questa forma di acquisizione di notizie rispetto ad altre.

La C.I.A., negli anni passati, aveva dato priorita' ad altre forme alternative partendo dalla considerazione - ma forse presunzione - che avendo gli Stati Uniti un vantaggio tecnologico, questo poteva bastare a soppiantare l'attivita' classica di raccolta. Nella realta' gli americani si confrontavano con un atteggiamento ostile in molti teatri operativi e avevano quindi fatto di necessita' virtu'. Le disfatte in Iraq e Afghanistan hanno poi dimostrato che questo approccio operativo era sbagliato. In Bagda , ai tempi del proconsole Bremer e successivamente di Negroponte, gli uomini di Langley non avevano la possibilita' di circolare nella capitale irachena senza assumersi rischi molto alti e con risultati molto modesti, in quanto non esistevano comunita' autoctone (curdi, sciiti, sunniti) che nutrissero simpatie per l'esercito americano. Le informazioni erano quasi tutte di origine tecnologica (intercettazione sistematica di tutte le comunicazioni telefoniche e radio, visioni satellitari, ampio uso di drones per sorveglianza), ma niente impediva di prevenire gli attacchi terroristici che colpivano continuamente i contingenti internazionali. Mole enorme di notizie, difficolta' a selezionarle con tempestivita' per un loro utilizzo immediato (questo nonostante parole chiave che davano priorita' ad una intercettazione rispetto ad altre) e mancanza dell'uomo sul terreno, quello che sapeva in anticipo cosa accadeva dopo e che conosceva uomini e fatti. Non c'era una percezione degli umori della popolazione che potesse poi guidare le scelte del governo a prevenire malumori o iniziative sgradite, non c'erano elementi per dare spazio ad una efficace attivita' di guerra psicologica. I continui attentati che giornalmente avvengono tuttora in Kabul o nella periferia dell'Afghanistan dimostrano palesemente che l'attivita' di Humint e' ancora deficitaria.

I Servizi inglesi - diciamo meglio quelli anglofoni (quindi accomuniamo all'MI-6 anche le strutture informative neozelandesi e australiane ) - hanno sempre usufruito e concorso ad una ricerca informativa tecnologica con gli americani. Durante la guerra in Iraq queste comunita' militari e di intelligence avevano accesso ad un loro sistema informatico di riferimento dove circolavano tutte le notizie di interesse che comunque non venivano spartite con gli altri contingenti internazionali.

Inglesi e francesi e tedeschi hanno abbastanza sviluppato l'attivita' di Humint, ma l'efficacia delle loro reti e' concentrata soprattutto nelle ex colonie, dove il piu' delle volte hanno contribuito ad addestrare i Servizi informativi locali.

I Servizi italiani (un po' anche gli spagnoli) hanno una tendenza a dare spazio allo Humint anche se talvolta non riescono a codificare un vero e proprio reclutamento di fonti. L'innata comunicativa latina, un approccio personale amicale, il rappresentare una nazione che comunque non ha grossi retaggi storici negativi alle spalle e puo' risultare quindi tendenzialmente simpatica, fa si' che i contatti umani siano facilitati e con questo anche l'accesso a notizie di interesse (quindi talvolta non "fonti" ma quelli che comunemente vengono etichettate come "persone utili"). E' un quid che manca agli americani (che, come si insediano in un Paese, esportano un loro modello sociale e si isolano dal contesto locale), in quota parte ad inglesi e francesi (che tendono a instaurare rapporti interpersonali non paritetici, ma condizionati talvolta da approcci ancora un po' elitari o meglio dire da ex colonialisti) ed ai tedeschi, perche' la proverbiale rigidita' comportamentale teutonica non aiuta sempre l'instaurazione di un rapporto di amicizia.

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Ci sono pero' nel mondo delle strutture di intelligence che hanno una spiccata e prevalente attivita' di Humint potendo contare su delle circostanze etniche o religiose che aiutano lo sviluppo dello specifico settore.

Uno di questi Servizi e' il Mossad che puo' contare su una comunita' ebraica sparsa nel mondo che e' elemento di sostegno attivo di un qualsivoglia bisogno informativo dello Stato di Israele. Se si abbina a questa circostanza favorevole, la necessita' di dare un forte contributo di intelligence alla sicurezza della propria nazione, un'ampia disponibilita' di uomini e mezzi finanziari, un modus operandi che esclude qualsiasi tipo di limitazione nel perseguimento dei propri obiettivi (compreso il ricorso all'eliminazione del nemico), un accesso diretto al contributo di altri Servizi importanti (soprattutto americani e inglesi), il tutto puo' accreditare quella fama di efficienza che nell'immaginario collettivo viene attribuito al Mossad.

Un altro Servizio, il National Security Service armeno, ha analoghe opportunita' di intelligence facendo riferimento alla propria diaspora nel mondo che non e' solo etnica, ma anche religiosa. Benche' meno noto, anche perche' affiliato all'SVR russo, gode di un enorme prestigio operativo nel mondo delle spie.

Anche il Vaticano, nella sua rete di preti, suore, conventi e comunita' religiose sparse in ogni angolo della terra, e' uno Stato che e' molto informato sulle cose del mondo. Non lo fa con una propria struttura di intelligence, ma con il Segretariato di Stato per le relazioni con gli altri Stati (alias il Ministero degli esteri) che ha una fitta rete di nunzi apostolici che rappresentano la Santa Sede. Il Nunzio e' l'ambasciatore del Vaticano e come tale ha necessita' di accedere a tutte quelle notizie che interessano il suo Paese (che coincide con la sua Istituzione). Non ha bisogno di fonti, gli bastano le chiese, le parrocchie, i vescovadi o gli arcivescovadi, le comunita' religiose, i fedeli.

I LIMITI DI LEGGE PER I SERVIZI ITALIANI : UN'ANOMALIA

La legge 801 del 24 ottobre 1977, che istituiva la creazione del SISMI (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare), del SISDE (Servizio per le Informazione e la Sicurezza Democratica) e del CESIS (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza) dopo la soppressione del SID (Servizio Informazione Difesa) era la legge istitutiva dei Servizi di Informazione italiani), all'articolo 7 dettava che: "In nessun caso i Servizi possono avere alle loro dipendenze, in modo organico o saltuario, membri del Parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali, magistrati, ministri di culto e giornalisti professionisti". Questa era una specifica limitazione di legge al reclutamento di fonti che comunque - leggasi il caso del giornalista Renato Farina meglio conosciuto come fonte "Betulla" - ha avuto le sue eccezioni.

La nuova legge 124 del 3 agosto 2007, che ancora una volta provvede a ridisegnare la struttura di intelligence del Paese (questa volta il SISMI diventa A.I.S.E. - Agenzia per le Informazioni e Sicurezza Esterna; il SISDE diventa A.I.S.I. - Agenzia per le Informazioni e la Sicurezza Interna; il CESIS diventa D.I.S. - Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza), mantiene e addirittura allarga questi specifici limiti di reclutamento. All'articolo 21 11mo comma cita testualmente: "In nessun caso il DIS e i Servizi di informazione per la sicurezza possono, nemmeno saltuariamente, avere alle loro dipendenze o impiegare in qualita' di collaboratori o di consulenti membri del Parlamento europeo, del Parlamento o del Governo nazionali, consiglieri regionali, provinciali,

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comunali o membri delle rispettive giunte, dipendenti degli organi costituzionali, magistrati, ministri di confessioni religiose e giornalisti professionisti o pubblicisti".

Il tutto rappresenta un'anomalia tutta italiana che puo' avere parziale giustificazione se si accredita l'idea che i Servizi abbiano avuto trascorsi devianti in democrazia (ed e' forse questo il motivo predominante visto che ogni riforma mira sempre agli aspetti di controllo, alle verifiche parlamentari, al dividere le funzioni piu' che accorparle), ma che sicuramente non trova giustificazione se si esamina la limitazione dal punto di vista operativo. Comunque e' una limitazione che colpisce soprattutto l'attivita' sul piano interno, piu' che nelle funzioni di spionaggio all'estero.

Pero', ed e' forse l'aspetto piu' controverso, il comma di legge parte dal presupposto, concettualmente sbagliato, che una cooperazione tra gli organi di sicurezza dello Stato e rappresentanti dello Stato o dei mass media o del clero non sia, come auspicabile, un atto dovuto, ma solo una circostanza da demonizzare. In altri Paesi del mondo questo non avviene e non e', soprattutto, paragrafo di legge.

IL MONDO DELLE SPIE

Il collaboratore informativo (il termine "spia" implica un giudizio negativo, talvolta dispregiativo, che non sempre ha fondatezza) e' solo una minima parte di un gioco che si gioca ogni giorno in ogni parte del mondo. Un mondo sommerso, una sfida tra Stati e idee che non conosce regole, dove si vince o si perde e talvolta si muore. Una lotta tra chi vuole sapere e chi vuole nascondere, dove la distinzione tra quello che e' bene e quello che e' male e' vaga, opaca, incrociata.

E' un mondo nascosto e solo per questo oggetto di curiosita', illazioni, diffidenza. Ma come la storia insegna, lo spionaggio puo' essere un lavoro sporco - ed e' per questo necessario che sia fatto da gentiluomini - ma che garantisce la sicurezza.

Il comune cittadino non se ne accorge perche' il tutto avviene lontano dai riflettori e dai mass media. Un proverbio arabo dice:"il frutto della pace e' appeso all'albero del silenzio". E lo spionaggio e' un mondo di silenzio che contribuisce anche ad evitare guerre.

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TUAREG : LEGITTIME RIVENDICAZIONI O TERRORISMO ?

Il 4 febbraio 1998 veniva creata la Comunita' degli Stati del Sahel Sahariano, meglio conosciuta con l'acronimo di CEN-SAD. Era una iniziativa voluta da Gheddafi e che inizialmente vedeva l'adesione di 6 Stati (oltre alla Libia, il Niger, il Mali, il Sudan, il Ciad , il Burkina Faso). Scopo dichiarato: quello di creare una zona di libero scambio che potesse favorire l'integrazione economica. Quindi qualcosa di simile alla COMESA (Common Market for Easter and Southern Africa) nell'Africa australe e orientale o all'ECOWAS (Economic Community for West Africa States) per l'Africa occidentale, il SADC (Southern Africa Development Community) dell'Africa australe.

Scopo reale: quello di mettere in atto, da parte libica, un'area di influenza favorevole ai propri interessi geo-strategici. Quartier generale a Tripoli, soldi e finanziamenti soprattutto libici verso questi Paesi vicini, economicamente disastrati e quindi facilmente asservibili ai propri voleri. Nel tempo il CEN-SAD si e' ulteriormente allargato arrivando a comprendere 28 Paesi, quindi anche fuori dai confini geografici della fascia sub-sahariana (altri Paesi hanno infatti aderito nel mal celato interesse di acquisire soldi ed investimenti libici). Ma sostanzialmente, a parte la nota megalomania di Gheddafi (che poi si era servito di questa organizzazione per ottenere il necessario consenso per una guida annuale dell'African Union), la finalita' principale del CEN-SAD e' rimasta nel tempo quella, da parte libica, di tenere in sudditanza politica e finanziaria i Paesi di questa regione.

Il CEN-SAD permetteva quindi alla Libia di interferire – in una cornice di "legalita'" istituzionale – con gli affari interni dei Paesi sub-sahariani, teneva rapporti con le comunita' tuareg della zona talvolta strumentalizzandole e assecondandone all'occorrenza le spinte autonomistiche, talvolta mediando tra loro e le autorita' centrali dei vari Paesi. In questo modo controllava quello che avveniva ai propri confini meridionali, si assicurava una certa sicurezza frontaliera ma lo faceva esercitando nel contempo una forma di pressione sugli Stati limitrofi. Si garantiva anche dai problemi di convivenza con i Toubou del Tibesti ciadiano, altra etnia tuareg, che si scontravano periodicamente con la popolazione di Kufra.

Le intromissioni libiche nelle vicende tuareg procuravano al regime del Rais anche manovalanza a basso prezzo per finalita' di sicurezza interna come il massivo impiego di mercenari sub-sahariani, prevalentemente tuareg, a fianco dei lealisti nel corso della rivolta.

Queste ingerenze libiche creavano pero' anche problemi relazionali con l'Algeria che non vedeva di buon occhio le interferenze di Tripoli in un'area al nord del Mali (e quindi al sud dell'Algeria), dove la collusione tra bande tuareg e formazioni di AQIM (Al Qaida in the Islamic Maghreb) poneva grossi problemi di sicurezza. Ma anche Tripoli, a parte le manipolazioni a proprio favore delle istanze tuareg, temeva questa collusione perche' nell'ambito di AQIM erano confluiti anche le katibah (leggasi battaglioni) di irriducibili libici del disciolto Gruppo Islamico Combattente Libico.Tanta era questa preoccupazione libica in questo campo che, nell'ambito del Segretariato Generale del CEN-SAD, c'era un Dipartimento Pace e Sicurezza che altro non era che un ufficio di coordinamento tra i Servizi dei Paesi aderenti all'organizzazione.

Ma anche questo non bastava e Tripoli aveva lanciato, intorno al 2005, l'idea di costituire a Bamako un centro di coordinamento operativo dove fare confluire tutte le notizie afferenti il terrorismo regionale e di costituire nel contempo una forza di pronto intervento con truppe dei Paesi della fascia sub-sahariana. Per costituire questa struttura era stato richiesto il sostegno (addestrativo,

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finanziario e di apparecchiature) a vari Paesi occidentali. Gli americani avevano aderito in linea di principio benche' diffidenti, gli inglesi si erano accodati, i francesi erano invece riluttanti a vedere interferenze di altre nazioni in una zona di egemonia francofona come l'ex colonia del Mali, italiani e spagnoli erano favorevoli qualora l'iniziativa fosse stata meglio dettagliata. Chi pilotava i contatti era il Musa Kusa, prima nella veste di Direttore dell'External Security Service e poi di Ministro degli esteri. Comunque l'iniziativa libica non era stata supportata da ulteriori dettagli ed il progetto e' rimasto senza seguito anche per quello che poi e' successo nelle vicende interne libiche.

In sintesi, le interferenze libiche nella regione oscillavano tra due interessi contrastanti: da un lato l'utilizzo spregiudicato delle comunita' tuareg per destabilizzare e soggiogare politicamente i Paesi del Sahel, dall'altro il dover evitare che situazioni di instabilita' creassero spazio alla diffusione del terrorismo maghrebino.

Prima dello scoppiare della cosiddetta primavera araba la questione tuareg/terrorismo era in questi termini. Libia e Algeria sviluppavano attivita' di contrasto e repressione verso ogni forma di terrorismo seppur con risultati alterni, Mali e Niger (ed in quota parte anche Mauritania) ottenevano il dovuto supporto in questa direzione e l'unico aspetto che allora preoccupava i regimi della regione era questa commistione/convivenza che si esplicitava in attivita' di sequestri di persone, traffico di armi e droga e brigantaggio.

LA CADUTA DI GHEDDAFI

La caduta del regime di Gheddafi ha modificato i termini del problema. La presenza di mercenari tuareg maliani a fianco dei lealisti (circa 600 uomini) ha fatto si' che dopo l'uccisione di Gheddafi questa massa di gente, fortemente armata, scappasse dalla Libia rifugiandosi nei Paesi originari del Sahel. Accanto ai tuareg sono dovuti scappare dalla Libia anche tutte quelle masse di clandestini africani che si erano introdotti nel Paese per trovare un lavoro o per comprasi un viaggio della speranza verso l'Italia (i soli maliani erano circa 2000). Infatti, oramai in Libia si era creato nell'immaginario dei ribelli che avevano conquistato il potere che ogni persona di colore potesse essere stato un mercenario e quindi doveva essere perseguito o giustiziato.

Transumando verso il sud, questa massa di gente ha pero' acuito in modo irreversibile i problemi sociali e di sicurezza dei Paesi dell'area. I tuareg (piu' armati di prima) hanno iniziato ad utilizzare la loro forza per portare avanti le loro istanze secessioniste (e quindi si sono saldati con le formazioni di AQIM che trovavano maggior spazio operativo in aree destabilizzate), i poveri clandestini che sono tornati in patria hanno ancor piu' peggiorato le condizioni di disagio sociale, soprattutto del Niger e del Mali, ora a corto dei finanziamenti del Rais.

Su questa situazione socialmente esplosiva si e' innescato un ulteriore elemento di destabilizzazione: la fuga degli uomini di Gheddafi dopo la caduta del regime verso il sud, il loro interesse a utilizzare ancora una volta i tuareg per contrastare la nuova dirigenza libica , il fascino ed il potere persuasivo dei loro soldi.

IL GOLPE MILITARE

Ed e' in questo scenario che deve essere letto ed interpretato quello che poi e' avvenuto in Mali. Gia' ad inizio dell'anno si erano sviluppate le prime nuove proteste tuareg. Il governo centrale maliano

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non era risultato in grado materialmente di fronteggiare questa emergenza militare. Nella notte tra il 21 e il 22 marzo di quest'anno avviene un colpo di Stato militare in Bamako: 2 contingenti militari della capitale si ribellano, soprattutto quelli del guarnigione di Kati, alle porte di Bamako, la piu' grande del Paese. Guida la rivolta il tenente Amadou Haya Sanogo che sospende ogni garanzia costituzionale, impone il coprifuoco e chiude frontiere e aeroporti. Il Presidente Amadou Toumani Toure', amico di Gheddafi (durante la rivolta libica aveva tentato per conto dell'African Union una mediazione tra il Rais ed i ribelli) viene estromesso. Toure' viene accusato di non aver saputo adeguatamente contrastare ed eliminare la rivolta tuareg nel nord del Paese.

Ma e' una ribellione dimezzata perche' non tutte le guarnigioni militari aderiscono al colpo di stato. E' una situazione di stallo che indebolisce militarmente ancor piu' la lotta contro i tuareg che cosi' dilagano nel nord del Paese. Per ironia della sorte Sanogo, che voleva debellare la ribellione, nei fatti l'alimenta. Dopo un mese il tenente e' costretto a lasciare il potere. Aveva chiesto aiuti militari e una mediazione sia alla Nigeria che all'ECOWAS. Negozia la sua uscita di scena in cambio dell'impunita'. Il potere viene trasferito ai civili. Viene nominato un governo di transizione nazionale guidato dallo Sheykh Modibo Dialla, un Presidente ad interim nella persona di Dioncunda Traore', indette nuove elezioni presidenziali. Ma il caos e' assoluto in Bamako.

C'e' un tentativo di contro-colpo di stato da parte dell'ex presidente Toure', appoggiato dai "red berets", paracadutisti che si scontrano con i "green berets" di Sanogo. Avra' la meglio quest'ultimo che con l'arrivo del governo civile mantiene immutato il suo potere contrattuale (nel nuovo governo 3 militari rivestono incarichi chiave). Ma ancora una volta sara' un pesante rapporto di Amnesty International a dare sostanza a questa faida militare ed al prezzo pagato dai vinti. Lo stesso Presidente ad interim Traore' il mese dopo verro' ferito da una folla inferocita e si dovra' recare a Parigi per cure.

Non e' piu' una lotta tra i bambara, etnia sedentaria (rappresenta il 50% del Paese), fortemente presente nell'esercito, e gli storici avversari tuareg, nomadi. E' una lotta all'interno del potere maliano.

L'AVANZATA DEI TUAREG

Il 17 gennaio inizia l'offensiva tuareg guidata dal Movimento Nazionale per la Liberazione dell'Azawad (MNLA) che conquista Gao, Kidal, Ansongo. Seguono Anderamboukane, Me'naka, Tinzawaten, Tessalit. Il 1 aprile, dopo due giorni di assedio, cade anche Timbuctu, il tutto approfittando della confusione a Bamako a seguito del golpe militare. Il fronte adesso e' fermo a Douentza (regione di Bandiagara) che dista 150 km da Mopti e circa 6oo km da Bamako.

Chi si contende questa area conquistata, grande tre volte l'Italia, sono vari gruppi animati da obiettivi diversi.

Il movimento nazionale per la liberazione dell'Azawad (MNLA) e' una formazione laica, una forza di 7/800 uomini (tra loro e' ricomparso il fenomeno dei bambini-soldato), ben armati ed equipaggiati, formato soprattutto da mercenari scappati dalla Libia, guidati da un colonnello dell'esercito libico (fino al luglio 2011) Mohammed Najem. Il movimento mira all'indipendenza dell'Azawad, una zona a nord del fiume Niger (800.000 kmq, circa 1 milione di abitanti) abitata prevalentemente dai tuareg. Il 6 aprile dopo la conquista di Timbuctu il MNLA ha dichiarato

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l'indipendenza e la nascita di questo nuovo Stato (peraltro riconosciuto da nessuno). E' li' che si era rifugiato Abdullah Senussi, cognato di Gheddafi, prima di essere arrestato in Mauritania e rimpatriato in Libia.

Ma l'obiettivo politico dell'MNLA non e' condiviso da altre fazioni armate che sono presenti nell'area. C'e' l'Ansar Dine ("partigiani della fede") guidata da Iyad ag Ghali, alias Abu al Fadl, un personaggio gia' implicato nelle ribellioni tuareg degli anni '90 (allora lui rivendicava la secessione dell'Azawad) e coadiuvato dal suo vice, Omar Oukd Hamaha. Estremista religioso, era gia' stato cacciato dall'Arabia Saudita per le sue idee rivoluzionarie. Il suo gruppo ha come obiettivo la conquista di tutto il Mali e la sua islamizzazione. Ha incominciato ad imporre la sharia nei territori conquistati, sono state distrutte le tombe e mausolei dei marabutti sufi in Timbuctu (patrimonio dell'umanita' dal 1988 per decisione UNESCO), sono comparsi casi di amputazione a Timbuctu e Gao, un caso di lapidazione a Aguelhok, proibito alcol, donne velate, niente promiscuita' nei contatti, uso della televisione, proibizione della musica. Iyad ag Ghali, originario del Kidal, forte di 3/400 uomini armati, tuareg della tribu' Ifoghas (una delle piu' importanti), ha forti collusioni con AQIM con cui condivide una visione salafita dell'Islam. A Gao era comparso con al fianco 3 capi militari di quel gruppo:

− Mokhtar Belmokhtar, comandante guercio di Ghardaia, con esperienze nelle madrasse pakistane, sposato a una maliana

− Abdulhamid abu Zied (con la sua katiba Tarek bin Zayad) alias Mohamed Ghadir (secondo i Servizi algerini) alias Abdulhamid al Sufi alias Abid Hamadou (come da mandato di cattura Interpol del 2006)

− Yahya abu Hammam (nominato capo della zona sahariana dall'emiro Droukdal dopo la morte dell'emiro Makhlouf), capo della katiba al Furqan

Ma oramai tutte queste 3 formazioni (guidate da algerini) non rispondono piu' al grande capo di AQIM, Abdulmalek Droukdal, che viene accreditato di scarso carisma. E quindi nel caos del nord del Mali non esiste adesso un solo referente AQIM, ma molti gruppi armati con autonomia operativa. Compare quindi, in questo panorama, anche il Movimento per l'Unita' e la Jihad nell'Africa Occidentale (MUJAO), una fazione dissidente di AQIM da cui si era separata nel dicembre 2011 ed ora guidata da Hamada Ould Mohamed Kheirou.

Se il MNLA persegue la secessione da Bamako, l'Ansar Dine l'islamizzazione del Paese. Tutte queste fazioni di AQIM vogliono solo poter operare indisturbate in uno spazio territoriale senza controllo alcuno ed esportare la loro rivoluzione islamica.

Tra l'MNLA e l'Ansar Dine vi sono stati anche dissidi che ha visto poi l'MNLA estromesso da Gao e Timbuctu. Quindi, allo stato attuale, e' anche difficile capire chi comanda e dove e, soprattutto, se tra questi gruppi eterogenei esiste una qualsivoglia cooperazione operativa.

L'avanzata dei tuareg ha creato un contro esodo di popolazione della zona verso il sud. Gli organismi internazionali stimano questa ondata di profughi in circa 250.000 persone. Anche questa situazione ha alimentato il caos sociale in Bamako.

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LE MEDIAZIONI

Si alternano tentativi di mediazione per cercare di risolvere il dissidio tra tuareg e autorita' maliane. Ci prova il Presidente del Burkina Faso, Blaise Campaore', per conto dell'ECOWAS, il ministro algerino per gli affari maghrebini e africani MesSahel fa un tour nel Sahel e si offre per un dialogo tra le parti (tende pero' a specificare che non siano pero' "terroristi"). Ma il problema principale e' che non e' ben chiaro con chi si deve negoziare. E su che cosa negoziare. Il problema non e' piu' tra tuareg e Bamako perche' altri attori sono adesso presenti nel nord del Mali.

Su proposta francese, il 10 ottobre il Consiglio di Sicurezza ha dato 45 giorni di tempo ad ECOWAS e African Union per preparare un piano di intervento nel nord del Mali e lo stesso consesso ha autorizzato un intervento africano in quel Paese. La risoluzione Onu parla anche di dare spazio a negoziati tra ribelli e autorita' centrale pur preservando l'unita' territoriale del Paese. Intanto l'ex Premier italiano Romano Prodi e' stato nominato inviato speciale Onu per il Sahel. La Francia e' molto sensibile a quel che avviene in Mali, ha una significativa presenza militare nell'area (Burkina Faso, Mauritania, Niger, Ciad, Mali, Repubblica Centrafricana, Senegal, Costa d'Avorio, Gibuti per un totale di circa 6000 uomini), da ex Paese colonizzatore tende a mantenere un forte diritto di prelazione sulle vicende regionali, ha peraltro 8 ostaggi in mano dei terroristi di AQIM e sfrutta, attraverso la societa' AREVA, le miniere di uranio a cielo aperto del Niger che sono essenziali per le forniture dei propri impianti nucleari (e non casualmente queste miniere sono concentrate nella regione dell'Ayr dove la popolazione e' a predominanza tuareg).

LE PROSPETTIVE

Il rischio che il problema del Sahel si internazionalizzi e' molto alto. Da un lato lo stesso Mali tende a internazionalizzare il problema per ricevere supporto da altri Paesi e per accomunare le proprie preoccupazioni riguardo la propria integrita' territoriale con quelle piu' ampie – e di maggior impatto – che riguarda la diffusione del terrorismo islamico nella regione.

Un problema grosso e' rappresentato dal fatto che con la caduta dei vari regimi della primavera araba e' nei fatti decaduta quella collaborazione fra intelligence che esisteva nel nord Africa e nel Sahel contro il terrorismo islamico.

La prospettiva piu' inquietante e' rappresentata dalla cosiddetta "somalizzazione" della regione (cioe' aree senza controlli di governi autorevoli), terre di nessuno in mano a bande di terroristi e criminali. Questa saldatura tra rivendicazioni autonomiste, terrorismo e brigantaggio determina una miscela sociale pericolosa che puo' travalicare i confini maliani ed esportare instabilita' altrove. Nell'area sono gia' comparsi personaggi legati ai Boko Haram nigeriani (implicati nell'attacco al consolato algerino di Gao) e uomini legati al deposto Presidente ivoriano Gbagbo. Come succede spesso, il caos chiama caos e la transumanza di uomini o gruppi che perseguono come modello di vita ribellioni e sovvertimenti, provenienti dal Medio oriente e Afghanistan, gia' iniziano a comparire nel nord del Mali.

I tuareg hanno sempre fatto del loro nomadismo una caratteristica di autonomia che li ha sempre portati a non rispettare confini o autorita' centrali. Hanno il senso della liberta' di muoversi e di rimanere legati alle proprie usanze, ma probabilmente non hanno il senso di uno Stato propriamente detto. Bistrattati, economicamente emarginati, hanno trovato nel brigantaggio e nel sequestro di

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stranieri da parte di vari gruppi terroristici una forma di sussistenza. Da li' la loro connivenza con il terrorismo. Il loro Islam non era sicuramente di matrice salafita (come dimostra la massiva presenza di mausolei sufi nel nord del Paese), ma una convergenza di interessi contingenti li ha fatti diventare tali.

Non esistono statistiche precise che indichino quanti siano in effetti i tuareg nel Sahel. Si parla di circa 1 milione in Mali (su una popolazione di 15 milioni di abitanti), 1,5 milioni in Niger, 800.000 in Algeria, forse 4-5 milioni in totale (aggiungendo quelli della Mauritania e del Ciad). Gli stessi Paesi che li ospitano hanno sempre evitato di contarli per non dare un'identita' alle loro istanze.

Ma come detto prima, il problema non e' solo riferibile alle rivendicazioni tuareg per una nazione che non hanno mai avuto. Il problema principale e' il terrorismo islamico che rischia di infettare un continente dove poverta', instabilita', diseguaglianze sociali, evanescenza di confini, autorita' con scarso controllo del territorio – tutti elementi che favoriscono il fenomeno eversivo – sono fortemente diffusi. E in prima istanza e' il pericolo di una saldatura geografica tra il nord del Mali ed aree instabili alquanto contigue: il nord della Nigeria e la Somalia. Nella sostanza, quindi, le vicende maliane sono solo il segnale piu' evidente ed inquietante di quello che potrebbe accadere altrove.

Se verra' creato un contingente militare internazionale, sotto l'egida dell'ONU, per riportare il nord del Mali sotto il controllo di Bamako, ma soprattutto per debellare i vari gruppi di terroristi, cio' potra' avvenire solo con la fattiva assistenza (non partecipazione diretta) di Paesi occidentali che dovranno fornire intelligence, logistica, addestramento, soldi. Pensare che questa emergenza politico-militare possa essere risolta dal Mali o da un contingente africano da solo significa sotto stimare la minaccia e nel contempo accreditare agli interventi di pace delle forze militari del continente un'efficacia che non si e' mai manifestata precedentemente.

Il contingente africano, in realta', sarebbe dedicato al "peace enforcement" e non al "peace keeping". In altre parole, l'uso delle armi sarebbe prioritario e ricorrente. Il problema principale sono i tempi per mettere in atto questo contingente militare (gia' si prospetta un'adesione della Nigeria e del Sudafrica): il Mali non ha infrastrutture adeguate, i Paesi partecipanti non hanno mezzi adeguati, qualcuno li deve ampiamente finanziare. Il timore e' che occorra troppo tempo, dando ai ribelli tuareg e alle varie fazioni di AQIM il tempo di consolidarsi. Comunque il contingente dovrebbe essere composto di 6.000 uomini di cui la meta' maliani e il rimanente di Paesi dell'ECOWAS (o alternativamente anche dell'African Union).

L'Italia, in linea di principio, avrebbe gia' dato la sua adesione a fornire assistenza. Altrettanto avrebbe fatto la Spagna. Francia e U.S.A. gia' stanno addestrando reparti maliani in loco. Ma la forza di dissuasione (e all'occorrenza di imposizione), qualora effettivamente ce ne fosse bisogno, sarebbe comunque costituita dai reparti francesi della regione, dall'Africom americano di stanza a Gibuti, dai drones che partono dal Burkina Faso e stanno gia' monitorando la zona.

Ma a parte il preminente problema di terrorismo, vale anche ricordare che nella regione a nord del Mali e nelle aree limitrofe dell'Algeria e Mauritania sono stati scoperti giacimenti di petrolio. Il Mali e' peraltro il terzo esportatore al mondo di oro. Quindi interessi di sicurezza, ma anche interessi economici. Ed e' un altro elemento che sicuramente fa crescere l'attenzione internazionale.

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