Il cuore di Gloria

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di Salvatome M. Genovese, mystery

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Salvatore Genovese

IL CUORE DI GLORIA

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IL CUORE DI GLORIA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Salvatore Genovese ISBN: 978-88-6307-346-1

Foto di copertina: Piko Studio (www.pikostudio.tk)

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Luisa

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Introduzione Santa Croce, per chi non conosce Napoli, è un piccolo borgo arroc-cato sulla collina dei Camaldoli. Con la sua piazzetta, la chiesa con tanto di campanile, i pochi negozi indispensabili, la pizzeria e un paio di bar, ha un aspetto ibrido tra un paese di montagna e una periferia urbana. Ha salvaguardato questa sua peculiarità per una serie di circostanze, prima tra le quali l’essere circondato dalle mura di tre o quattro grossi ospedali. A valle c’è l’immenso quartiere di Chiaiano, a cui si congiunge tramite una stretta via di campagna, risparmiata dall’urbanizzazione abusiva solo perché costeggia alcu-ne cave di tufo tramutate in gigantesche discariche. Tale “moderna” concezione dell’assetto urbano, grondante di disprezzo verso il territorio e verso chi vi abita, sarà probabilmente ricordata come una delle piaghe più vergognose della storia meridionale. Una testimo-nianza, se mai occorresse, di quanto la politica sia intimamente commista al malaffare, nel cui crogiuolo, in questo caso identificabi-le nelle cave napoletane, si mescolano con baldanzosa indifferenza tutti i colori fino a generare una melma grigia. Questa storia inizia proprio in uno di quei piccoli e alquanto squalli-di locali del rione Santa Croce, coi tavolini e le sedie in bilico su uno stretto e scosceso marciapiedi di pietra lavica martellata, occupati a lenta rotazione da qualche vecchio rimbambito o da qualche ragazzo che, senza voglia di futuro, tale diventerà. Un pomeriggio di giugno, nei primi anni di questo millennio che in quel posto stenta a permeare, Gegè Salieri, geriatra, aveva appena visitato una popolana, ormai ridotta dai suoi novant’anni a poche ossa dolenti ricoperte da molta pelle. Rifletteva vagamente su quanto un residuo di coscienza, quanto invece il puro istinto conservativo e

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quanto infine l’amorevole ostinazione dei figli, lui complice, obbli-gassero la vegliarda a sopravvivere tra la sedia a rotelle, il letto ortopedico e le tante sofferenze materiali e morali che ritmano il tempo in cui lentamente si dissolve un’esistenza ormai solo simboli-ca. Si sentiva agnosticamente coinvolto in una commedia a soggetto, istigato a un accanimento terapeutico da nessuno voluto ma passi-vamente perpetrato da tutti gli attori. Era spesso assillato da questo pensiero ma col passare del tempo, man mano che avanzavano la desertificazione dello spirito e la prominenza della pancetta, lo aveva relegato nell’ambito dei problemi senza soluzione, accanto all’ultimo teorema di Fermat e al dogma dell’infallibilità papale. Semplicemente era il suo lavoro, tanto più che la sua specializzazio-ne ruotava proprio intorno al segmento terminale della vita con lo scopo di garantirne, al di là di ogni professione di buone intenzioni, in parte anche per ragioni puramente lucrative, la durevolezza prima della qualità. Riemerse quasi senza accorgersene da tali profondità passando davanti a uno di quei bar. Per quanto ne avesse un certo ribrezzo, il desiderio indotto dall’aroma del caffè era irresistibile. Entrò, tirò fuori dal taschino del pantalone a dieci a dieci i sessanta centesimi, fece lo scontrino e lo mise sul banco in falso marmo verde, sopra una pozzanghera d’acqua e sotto un’ultima monetina da dieci, come si usa ancora da quelle parti. Il ragazzo del bar, lungo e magro come un fenicottero, con una divisa bianca pataccata di marrone e il ta-schino di sinistra penzolante, chiese: «Zucchero?» «Sì, grazie» rispose Gegè a mezza voce. Fu in quel momento che notò, di sfuggita e sfavorito dalla deprimen-te luce dei neon, un altro cliente che stava andando via. È probabilmente successo a tutti noi di scorgere qualcuno che, pur senza poterlo identificare con precisione, ci è sembrato invece di conoscere benissimo, di averlo anzi visto più volte; lì per lì pensò che fosse uno tra i mille volti incontrati ogni giorno sul lavoro e che gli era rimasto stampato nella mente per qualche particolare tratto del viso, oppure che si trattasse di una banale somiglianza con chissà

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chi. Tuttavia questa sensazione lievitò rapidamente fino a coinvolge-re in un ricordo oscuro, dai confini indistinti, anche il bar con tutto il suo arredamento, l’allampanato barista e il cassiere. Per più di un attimo si sentì confuso, sbandato; tentò di analizzare i ricordi, di far affiorare qualcosa di più preciso, ma con scarso successo. A tratti si sentiva quasi disposto a cedere all’idea di stare facendo un volo indietro nel tempo. Continuò a seguire i movimenti dell’uomo ten-tando di guardarlo in viso con più attenzione, ma senza successo, fin quando non lo vide uscire frettolosamente dal bar. Troppo di fretta, quasi si fosse accorto anche lui di Gegè e non volesse lasciargli il tempo di ricordare. Lo seguì ancora con lo sguardo attraverso la piccola vetrata, ostacolato da un espositore di patatine sormontato da un paio di scatoloni di cartone vuoti. Quando non riuscì più a veder-lo provò ad affacciarsi sulla strada. Troppo tardi, neanche l’ombra di quel tipo. Chiese al ragazzo del caffè: «Mica mi sai dire chi è quello?» «Scusate, chi dicite?» «...quello che è appena uscito. Mi pare di conoscerlo, non sono sicuro... sai com’è, io sono un po’ distratto, vedo tante persone e qualche volta azzecco certe figure...» Il fenicottero lo guardò con un’aria tra il semi-assente e lo stupito. «Ma... nun ce steva nisciuno primm’e vuje. Pascà, tu aie vist’ ascì a quaccheruno?» aggiunse rivolto all’obeso padrone del bar che stava seduto dietro alla cassa. «No... può essere che stavo distratto, sto facendo i conti... ma l’ul-timo caffè lo abbiamo servito venti minuti fa... ecco, qui c’è la copia dello scontrino.» «Avete visto? Forse v’è paruto a vuje.» «Ma no, sono sicuro, era qui, uno alto più o meno quanto me, con la barba di tre giorni e i capelli lunghi.» «Nooò, ve site ‘ngannato» concluse il ragazzo in modo secco così da non lasciare spazio a repliche. Perplesso e demoralizzato, ancora in pieno marasma, Gegè salutò concisamente e uscì. Provò a camminare nella stessa direzione presa dal tipo misterioso, sperando di incrociarlo, ma fece solo pochi metri

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e con scarsa convinzione dato che neanche ricordava bene come fosse vestito; certamente non in modo formale: un jeans blu o grigio scuro e una camicia con le maniche lunghe a righe bianche e nere, forse un paio di scarpe di gomma e qualcosa al polso, tipo un brac-ciale o un ingombrante orologio. Il nostro dottor Salieri conosceva bene il comunissimo fenomeno del déja vu in quanto medico e soprattutto per averlo sperimentato personalmente in altre occasioni, sia pure con minore drammaticità. Secondo gli psichiatri si tratterebbe di una transitoria alterazione delle funzioni cognitive con un erroneo rapporto tra l’attenzione e la memoria. Rifiutando a priori l’idea di poter perdere anche per un solo attimo il controllo delle proprie capacità di percezione e giudizio, iniziò a scervellarsi su che cosa fosse mai successo nei cinque minuti prece-denti. Provò a mettere in dubbio di aver realmente visto quell’uomo. No, ne era assolutamente certo, era lì e lui non aveva avuto le tra-veggole. Gli venivano in mente un paio di ipotesi. La prima era che i personaggi del bar fossero in malafede, reticenti per una qualche losca ragione; magari si trattava di un latitante da coprire. La secon-da possibilità era che l’uomo, dopo aver preso il suo caffè, si fosse chiuso nel bagno per un buon quarto d’ora per poi uscire senza aver dato nell’occhio al ragazzo, che era girato di spalle mentre preparava il caffè, e senza essere notato dal cassiere, miope e assorto nei suoi conti. Ecco, forse il mistero era risolto. Diede un ultimo sguardo in giro, ma nulla da fare. Recuperò l’auto e andò via.

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CAPITOLO I I giorni seguenti Gegè li passò come aveva trascorso metà della sua esistenza, preso da mille cose di tutti i giorni. Sveglia alle sette in punto, una carezza a Laura, la donna con cui condivideva il letto da una ventina d’anni, il rituale del caffè, poi le abluzioni d’obbligo, una frettolosa colazione con latte e fiocchi di cereali, un saluto e qualche buona raccomandazione per la scuola ai figli, due giovanotti di diciannove e sedici anni, che avrebbe rivisto solo a sera. E via... un’ora di traffico, quando tutto fila liscio, per raggiungere l’ospedale proprio nel ventre della città. Quel tempo apparentemente morto avrebbe potuto essere una buona occasione per riflettere su centomi-la cose, ma Gegè Salieri si limitava a mangiarsi le unghie (che ormai non tagliava più da anni) moltiplicando a mente 2,5 ore × 6 giorni × 48 settimane che diviso 24 fa... e per quante volte ripetesse questo calcolo, il risultato era sempre la stessa assurda cifra: trenta. Rappre-sentava il numero di notti e di giorni ottenibili mettendo in fila le ore trascorse ogni anno nella sua automobile, perpetuando un soliloquio sconnesso e improduttivo. Gli sembrava una follia, un mese intero per ciascun anno della sua vita chiuso in quella lattina... quante cose avrebbe potuto fare in tutto quel tempo che, ancora moltiplicato per ventiquattro, totalizzava due interi anni di vita sprecata ad abbrutirsi e a dar fondo alla sua onicofagia? Ma la cosa più angosciante non era tanto questa domanda quanto la risposta a essa, che era assolutamente inesistente. Quante cose? e soprattutto, quali? Allora, preso da un senso di profondo smarrimen-to e da quel malessere esistenziale che sonnecchia anche in uno spirito rarefatto come il suo, cominciava a vagare con la fantasia, ormai resa inerme dalla rinuncia continua a qualsivoglia aspirazione o slancio.

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Iniziava col rimuginare su qualche sistema a lui ancora ignoto per lucrare sulla sua professione. Poi, pentito d’avere vilipeso l’idealismo giovanile che lo aveva spinto a iscriversi a medicina, passava a pensare che avrebbe fatto meglio a trascorrere tre mesi ogni tre anni in una missione in Africa o in Brasile. In fondo era stata questa la sua maggiore motivazione allo studio: non tanto l’interesse a insinuarsi nei misteriosi anfratti della biologia e della patologia quanto l’altruistico senso di solidarietà che caratterizzava i giovani di quella stagione. Ma, come poi vedremo, tanta passionalità sarebbe stata progressivamente prosciugata dal torchio della vita. Una volta conseguita la laurea, il poco tempo libero che gli restò tra concorsi e turni di guardia lo dedicò a Laura, la ragazza di cui s’era invaghito, che mai gli avrebbe consentito d’inseguire un ideale più alto del metter su famiglia e che, appena ne ebbe l’opportunità, lo immolò sull’altare del Santuario di Pompei. Immancabilmente, giunto a quel punto delle sue divagazioni, Gegè sopprimeva anche l’ultimo sprazzo d’idealismo giustificandosi con se stesso che un’esperienza missionaria l’avrebbe potuta riconsidera-re solo in un lontano futuro. Per ora sarebbe stata una follia mollare tutto, lavoro moglie e figli, per andare così lontano, anche per pochi mesi, magari col rischio di beccarsi qualche malattia tropicale, ad affrontare sacrifici inaccettabili quali il dormire sotto una tenda brulicante d’insetti immondi o il mangiare cavallette e tarantole arrostite. Oltretutto questo rinvio all’infinito delle ambizioni sopite generava nel suo interiore una rassicurante sensazione d’im-mortalità. Il sollevarsi della sbarra d’ingresso dell’ospedale era un inconscio segnale di ritorno dal suo piccolo e monotono pianeta onirico all’ancora più angusto e stagnante mondo reale. Rapidamente riepi-logava le cose da fare nella giornata mentre cercava il posto migliore per parcheggiare l’auto, possibilmente sotto un pioppo, dato che il caldo estivo cominciava a essere davvero insopportabile. Trentatré gradi all’ombra e il doppio nell’abitacolo sfiancherebbero uomini ben più piantati. Naturalmente i posti più ambiti erano sempre occu-pati dai soliti iperpuntuali che tanto lo stizzivano: i colleghi che

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abitano a due passi dall’ospedale e che non si capisce perché diavolo non vengano a piedi o con la metropolitana, quelli che invece abita-no molto lontano e quindi anticipano tantissimo l’orario della sve-glia per non restare intrappolati nella tangenziale. Insomma, tutti contro di lui. Finiva quindi col lasciare la macchina in seconda fila e le chiavi al custode di turno che avrebbe poi ricompensato con un caffè da trentacinque centesimi al distributore automatico. Indossato il camice e timbrato il cartellino, ostentando un’aria trafe-lata puntava diritto al reparto di medicina di cui ormai conosceva ogni piastrella del pavimento, quelle scheggiate in un angolo e quelle fuori tonalità. Anche lì sempre le stesse facce che mal soppor-tava per varie ragioni cumulatesi negli anni, come quasi sempre succede in un ambito ristretto. Salvo quella della Ivana, infermiera poco più che trentenne che col suo corpo snello, la vita stretta, i fianchi larghi e il seno pieno ma non esagerato, non deliberatamente ma tenacemente nel passato aveva solleticato la sua sonnacchiosa sensualità. Gegè, nella recondita certezza di un rifiuto o per pura codardia, non aveva mai avuto il coraggio di farsi avanti e Ivana era rimasta solo l’emblema irraggiungibile delle sue fantasie erotiche. Così fino al giorno in cui Franco, un collega più anziano di qualche lustro, accortosi forse della sua strisciante passione, non gli confidò di “essersela fatta” nella saletta degli elettrocardiogrammi. L’occasione sarebbe stata una cena in reparto, bagnata col vino bianco generosamente fornito dal decano degli infermieri che fe-steggiava il suo pensionamento. Quando intuì dal silenzio e dallo sguardo basso e lucido del suo ascoltatore di essere sulla via giusta per infliggergli una profonda sofferenza, il dottor Franco sadicamen-te iniziò a farcire il racconto con molti particolari che riguardavano il corpo della donna, il colore e la tessitura della pelle, vellutata al tatto come quella di poche altre, i segni del costume, la consistenza delle tette, e poi come si muoveva e quanto gemesse per il piacere. Infine, una gragnuola di dettagli sul coito orale e su quello anale. Vero o falso che fosse, Ivana da quel momento crollò verticalmente giù dalle brame di Gegè, il quale preferì conservarne un’immagine quasi mariana piuttosto che consentire che nelle sue fantasticherie si

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intromettessero e prendessero corpo le prosaiche narrazioni di Fran-co. Continuò a guardarla senza farsi notare, vagamente sperando che fosse lei un giorno a rivolgergli la sua attenzione, senza alcuna reale intenzione attuativa ma per il semplice compiacimento del suo amor proprio. Cosa che naturalmente non successe mai. Un anno più tardi Ivana si sposò e dopo altri dieci mesi ebbe una bimba. La figura di Gegè Salieri era gravata da un certo eccesso di adipe, insinuatosi lentamente nel suo addome dall’epoca del matrimonio; a ciò avevano contribuito una malcelata propensione verso i dolci e i formaggi e la scarsissima attività motoria, scelta consapevole che giustificava dicendo che secondo lui lo sport può fare più male che bene. Anche le sue convinzioni morali e religiose avrebbero potuto definirsi adipose; pur non avendo basi molto profonde, all’atto pratico erano flessibili quanto quelle di un parroco. Così messo, né le sue pulsioni erano abbastanza impetuose, né i suoi freni inibitori erano sufficientemente laschi affinché la limbica ideazione delle gioie del sesso potesse mai superare la soglia che divide il mondo delle speranze da quello della vita tentata. Poi, la fine del mito di Ivana gli aveva dato il colpo di grazia. Fu proprio in quel mese di giugno, pochi giorni dopo l’incontro misterioso nel bar di Santa Croce, che nel reparto di medicina si ricoverò un uomo sui settant’anni o qualcosa di più. Gegè fu partico-larmente colpito dallo sguardo luminoso e malinconico al tempo stesso con cui lo accolse quando entrò nella sala di degenza per scrivere l’anamnesi. Viso scarno e rugoso, carnagione intensa, occhi grigio-azzurri, addome piatto e gambe magrissime fino alle caviglie che invece contrastavano per un visibile turgore. Il respiro breve e lievemente stertoroso, accompagnato da sporadici colpetti di tosse stizzosa, facevano intuire al dottor Gegè Salieri che la causa del ricovero fosse una seria insufficienza cardiaca. «Miocardiopatia dilatativa» esordì l’anziano ancor prima di presen-tarsi. «Ok, signor... signor... Rosselli» rispose Gegè dando uno sguardo alla prima pagina della cartella «...ma andiamo per gradi. Noi medici

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vogliamo sapere prima un sacco di fatti che non ci azzeccano niente col motivo del ricovero.» «Lo so, ormai ci sono abituato... Dunque, da bambino non ho avuto la scarlattina, tutto il resto sì... ah, tranne la febbre maltese. Sono stato sempre benone. Un breve ricovero per un calcolo renale a trent’anni, qualche influenza e null’altro.» «Va bene, semplifichiamo... soffre di diabete, pressione alta, coleste-rolo?» «Sì, un po’ il colesterolo, è un fatto di famiglia.» «Prende farmaci per questo? E da quanto tempo?» «Simvastatina, quasi vent’anni ormai. Dicono che se non rovina il fegato può allungare la vita di una dozzina d’anni. È vero?» chiese con aria ironica. «Le statistiche dicono qualcosa del genere. Funziona benissimo e probabilmente ha davvero allungato la vita di molte persone, ma queste cose vanno prese con le molle. I farmaci non fanno miracoli ma spesso le indicazioni si espandono miracolosamente... per le aziende produttrici. Purtroppo non basta ingoiare cinque o sei com-presse al giorno per campare cent’anni.» «Eh, infatti... il mio cuore a un certo punto s’è stancato, ha comin-ciato a gonfiarsi come una zampogna e non c’è stato nulla da fare. E nessuno di voi ha saputo dirmi il perché.» «Quand’è che si è accorto di avere qualche problema?» «Nel ‘96. Ero in aereo, tornavo da Verona come sempre. Improvvi-samente iniziò un affanno, sempre più intenso. Mi mancava l’aria e il cuore batteva velocissimo; lo sentivo andare a vuoto. L’hostess mi fece sdraiare per terra, mi diede ossigeno e così stetti meglio. Poi feci degli accertamenti e la diagnosi fu quella che le ho detto.» «Che lavoro fa?» «Sono pensionato, lo ero già allora.» «Ah, pensavo che fosse in viaggio per lavoro» replicò, consapevole che quell’osservazione andasse già oltre i limiti del suo compito. «No, non era per lavoro.» Gegè avrebbe voluto saperne di più. Gli capitava raramente di essere incuriosito dai fatti dei suoi pazienti; succedeva quando si trovava di

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fronte a persone dall’eloquio facile, o dall’aria vissuta, o da un’intuibile superiorità intellettiva, caratteristiche tutt’e tre presenti nel sig. Rosselli. Tuttavia ne doveva rispettare la privacy. «Ha un ecocardiogramma recente?» «L’ultimo è di due mesi fa. Secondo il cardiologo doveva essere tutto in ordine. Invece, eccomi qui. La notte scorsa ho avuto un ennesimo episodio di edema polmonare. Al pronto soccorso hanno detto che mi hanno preso per i capelli. Fortuna che ne ho ancora molti» disse Rosselli con l’evidente intenzione di sdrammatizzare. «Già, non è da tutti valicare i settanta senza abbandonare la zavor-ra... mi dice che farmaci prende?» Rosselli tirò fuori un foglio sgualcito con un lungo elenco di nomi, qualcuno scritto in modo approssimativo ma egualmente comprensi-bile all’occhio allenato di Gegè che lo prese piegandolo in due e aggiunse: «Va bene così, le faccio fare un prelievo di sangue e trascrivo le cure in corso con qualche piccola modifica. Oggi purtroppo è venerdì. Le risposte più importanti le avremo entro un paio d’ore, le altre arrive-ranno solo lunedì mattina.» Andò quindi in astanteria per aggiornare il quaderno della terapia. Lì c’erano tre detestabili colleghi, cioè l’inviso Franco, la sgraziata Grazia e Mario, immeritatamente primario per “volontà politica”. Chiese se qualcuno di loro conoscesse già il nuovo ricoverato, spe-rando con questo di semplificare e sfoltire le procedure diagnostiche. Purtroppo la risposta fu unanimemente negativa: il signor Rosselli era al suo primo ricovero in quell’ospedale, ma a Franco venne in mente che al momento dell’accettazione, in pronto soccorso, aveva detto di essersi fatto trasportare lì su sua esplicita richiesta. Qualche giorno prima avrebbe conosciuto un tipo che gli aveva parlato molto bene di quel reparto di medicina e aveva insistito affinché lo tenesse ben presente in caso di malore. Commentò ridacchiando disgusto-samente: «Va’ a capire chi è stato quel bontempone che ce lo ha mandato a morire qui.»

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Avendo terminato le sue otto ore Gegè ripescò l’auto, finalmente parcheggiata sotto un pioppo che a quell’ora non solo non gli era più d’alcuna utilità ma anzi lasciava cadere sulla vettura la melassa appiccicosa degli afidi. Tornando dal lavoro nel tardo pomeriggio, aveva ancora un paio d’ore di luce da sfruttare per fare qualche piccola riparazione in casa. Così quella sera il nostro geriatra s’improvvisò elettricista per sostituire una presa di corrente fusa dal sovraccarico d’un asciugacapelli troppo potente. Un lavoro sempli-cissimo che può diventare fonte di incredibili difficoltà per certi individui che sembrano affetti da una sorta di connaturata inabilità; così era per Gegè che terminò quel complesso intervento chirurgico quando la luce solare era diventata già troppo scarsa. Ad aiutarlo ci pensò il figlio minore, il più volenteroso dei due, tenendogli una torcia puntata alternativamente sull’area di lavoro e nelle pupille. Poi tutti a cena. Siccome a pranzo era solito mangiare pochissimo o nulla, a sera pareva non saziarsi mai e dava flemmaticamente fondo a tutto ciò che di commestibile gli capitava sotto le ganasce, mentre la tv iniziava a permeare ogni recesso della sua mente. Per una sorta di pigra solidarietà con Laura in genere guardava le trasmissioni di spettacolo che svagavano e svuotavano il suo spirito residuo. Quella sera andò a letto con lo stomaco particolarmente appesantito dai salumi e con la mente agitata da un turbinio di pensieri che inavver-titamente stavano iniziando a intorbidare la sua coscienza, smoven-do lo spesso strato di fango che aveva lasciato sedimentare in fondo all’anima nel corso di quattro lustri.

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CAPITOLO II Il sabato del dottor Salieri era il giorno in cui egli dedicava al dio Morfeo il rito sacrificale di una settimana di buoni propositi per il weekend, seppellendoli sotto un morbido guanciale di gommapiuma. Quel sabato però la cerimonia procedeva a singhiozzi a causa del caldo afoso e di quell’agitazione che, come dicevamo, da alcuni giorni si era impossessata del tranquillo Gegè, pur in mancanza d’una precisa causa efficiente. Così già alle otto si trascinò suo malgrado in cucina a preparare il caffè. Riteneva che la moka rap-presentasse un caso unico nella storia, in cui la spocchiosa tradizione partenopea s’era inchinata senza riserve al talento tecnologico d’un ingegnere piemontese; tuttavia fare un buon caffè resta un’arte dei cui segreti ben pochi possono considerarsi autentici depositari. Per tale motivo seguiva un suo preciso rituale, codificato in un piccolo manuale in cinque punti fondamentali, che andavano dalla pulizia accurata della moka, al livello giusto dell’acqua nel bollitore, al modo di compattare la polvere di caffè, fino al controllo della tem-peratura d’estrazione e del flusso del liquido nero attraverso il cami-no. Proprio mentre accendeva il fuoco recitando in background il suo pentalogo, squillò il telefono. Era uno dei sette figli della vecchietta di Santa Croce che ne annunciava il decesso, avvenuto silenziosa-mente durante la notte. Gegè presagiva già da tempo questa notizia, anzi erano almeno un paio d’anni che si chiedeva quali ignote risor-se potessero tenere ancora in vita un corpo così malridotto e pro-gressivamente depauperato d’umana dignità; ciononostante, provò a tirar fuori due parole d’occasione, cercando di mostrarsi quanto più possibile compartecipe del dolore. Ma i suoi pensieri, ancora fra-stornati per il sonno, s’erano momentaneamente sottratti alla censura

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del super-Io, per cui stava realizzando che l’aspetto per lui mag-giormente dolente di quella precoce dipartita era il mancato guada-gno che essa avrebbe comportato: quei cento euro che intascava ogni due o tre mesi, accompagnati da altrettanti riverenti ringraziamenti da parte dell’intero parentado, integravano dignitosamente il bilan-cio del suo ménage familiare. Quando ripose il telefono, l’aroma del caffè iniziava a spargersi nella cucina coprendo il tanfo dei piatti impilati nel lavello e ancora impiastricciati dai residui della cena. La sensazione olfattiva interagì con quei pensieri, così da riprodurre nelle sue sinapsi, per un breve attimo, il vissuto di qualche giorno addietro. In quel flash-back si figurò chiaramente e dettagliatamente la scena nel bar, con tutti i protagonisti piazzati al loro posto. La cosa che più lo sconvolse fu il rivedere con assoluta certezza, fuori d’ogni dubbio, l’atteggiamento del ragazzo allampanato e del tarchiato cassiere. Diversamente da come aveva concluso quel giorno per darsi pace, entrambi non avrebbero potuto non notare il misterioso personaggio prima che uscisse dal locale, almeno per un momento. Il ragazzo, dopo che ebbe spinto in basso la leva della macchina da caffè aspettando che la tazzina si riempisse, passò una spugna sul bancone verde scuro per eliminare un paio di pozzanghere d’acqua, la polvere di zucche-ro sparsa un po’ dovunque e i cerchi lasciati dai piattini. Quindi per qualche secondo doveva essere stato necessariamente rivolto verso la saletta. Da parte sua, il cassiere aveva abbassato le lenti sulla punta del naso e le sue pupille, svettando sulla montatura, avevano puntato verso la porta del bar giusto mentre l’uomo usciva, forse per controllare che chiudesse i vetri onde evitare lo spreco d’aria condi-zionata. Dunque, a meno che non si fosse trattato d’un fantasma, entrambi avevano deliberatamente e spudoratamente mentito. In quel momento la dolce Laura lo risvegliò definitivamente: «Ciao, dormiglione. Vedo che sei già in piedi, cosa sta per succedere stamattina? Mi pare proprio la giornata giusta per andare a fare quel famoso giretto al centro commerciale. I ragazzi più tardi andranno al mare con gli amici e noi potremmo pranzare fuori, che ne pensi?»

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Gegè sapeva benissimo di non dovere né potere affatto pensare nulla di diverso, perché una qualsivoglia risposta non entusiasticamente affermativa avrebbe generato malumore e diverbi e questa era dav-vero l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Tentò di mascherare al meglio il disappunto per quel lungo e imprevisto fuori programma, anche perché aveva lo scrupolo d’aver promesso già da mesi un giro turistico tra mobili, divani e scaffali, senza aver trovato fino a quel momento la forza e il tempo per mantenere la parola. Se la cavò quindi con un sarcastico: «Mi sembra un’ottima idea. Come ho fatto a non pensarci io per primo?» Disse a Laura di cominciare a prepararsi mentre lui sarebbe passato un attimo a fare di persona le condoglianze ai parenti della nonage-naria defunta, che non abitavano lontano. Detto fatto, s’infilò rapi-damente camicia, pantaloni e scarpe, poi prese portafogli, chiavi e occhiali da sole e scese in garage a tirar fuori la Golf. In un lampo arrivò nel rione, non già per rendere omaggio alla salma, cosa che non gli era mai passata per la testa, bensì per assecondare l’inintel-ligibile bisogno di far luce sul suo enigma. In realtà non aveva in mente alcun piano investigativo; sperava che portandosi sul posto potesse cogliere qualche dettaglio che gli era sfuggito la volta prece-dente, oppure che ci fosse una qualche probabilità di rivedere l’uomo del mistero. La via era alquanto stretta e i pochi posti adatti al parcheggio erano perennemente occupati dai residenti che se li erano assegnati di tacita intesa, poiché consideravano quel tratto di strada quasi un cortile privato; tuttavia ebbe la fortuna di individuare uno spazio strategico per sostare senza problemi e usare la sua auto come un dissimulato osservatorio. Quindi s’accostò al marciapiede e vi salì sopra a retromarcia con le due ruote di destra, lasciando i vetri chiusi per ridurre la visibilità dell’abitacolo dall’esterno e il motore acceso per tenere in funzione il climatizzatore. Il bar, giusto di fronte a lui, era già aperto; al banco c’erano un uomo e una donna che consuma-vano cappuccino e cornetto, mentre i due lestofanti occupavano come al solito i loro rispettivi posti. Non avendo nulla di preciso su

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cui indagare, esitò qualche tempo a scrutare cosa si muovesse intor-no e dentro al locale. Nei minuti successivi vide entrare e uscire una serie di personaggi ai quali in altri momenti non avrebbe prestato alcuna attenzione ma che in quella circostanza diventarono oggetto d’ozioso interesse. Mentre la coppia era ancora intenta a consumare le ultime briciole dei cornetti, entrò un uomo anziano con la barba lunga di dieci giorni e abiti da straccione che prese un bicchiere di birra. Già da lontano se ne intuiva il fetore, tant’è che i due si affrettarono a trangugiare il cappuccino, quindi si allontanarono quasi di corsa manifestando nausea con gesti eloquenti. La presenza del barbone nel locale fece per alcuni minuti da deter-rente all’avvento di altri clienti; infatti si videro due ragazze avvici-narsi all’ingresso e subito fare retromarcia per deviare verso la vicina tabaccheria. Ne uscirono dopo un paio di minuti accendendo una sigaretta ciascuna, poi si diressero nuovamente al bar; dato che il vecchio spaventapasseri era appena andato via, pagarono qualcosa al lardoso cassiere e si accostarono al bancone. Una delle due era piuttosto graziosa, magra e vestita con una stuzzicante gonnellina gialla a metà cosce, una camicetta rosa a mezze maniche poco ab-bottonata e un paio di occhiali da sole nerissimi; fu subito oggetto d’attenzione da parte del ragazzo smilzo, le cui movenze sguaiate divennero ancor più plateali mentre sul volto gli si stampò un sorriso inebetito per tutto il tempo in cui le due consumarono una cedrata e un succo di pera. L’altra ragazza, quella del succo di pera, sembrava decisamente meno interessante; di piccola statura, anche lei magris-sima ma liscia come il tubo d’una grondaia, indossava una camicetta bianca giro manica intrisa di sudore sotto le ascelle, un paio di jeans azzurro chiaro e scarpette da ginnastica; guardava gelosa e timida la compagna attraverso i numerosi cerchi concentrici delle lenti che le facevano sembrare gli occhi piccoli come quelli d’un pennuto. Probabilmente, secondo il nostro osservatore, erano due studentesse della vicina facoltà di biotecnologie. Dopo un lungo quarto d’ora di titubanza il dottor Salieri scese dalla macchina e attraversò la stradina per entrare anche lui nel bar. Ordi-

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nò un caffè che gli fu servito dal solito barista con la divisa sempre più sudicia e sdrucita. Dopo aver lentamente svuotato la tazzina fino all’ultima goccia, col cucchiaino raccolse meticolosamente lo zuc-chero rimasto appiccicato al fondo. Nel frattempo il suo sguardo ruotava in ogni direzione, specie verso la vetrata dell’ingresso, e scrutava alternativamente i baristi sperando di coglierne qualche espressione truffaldina a supporto di quella che gli pareva la più rassicurante tra le sue ipotesi, cioè che il suo mister X fosse un mascalzone di cui non si poteva neppure pronunciare il nome. Quando la tazzina divenne completamente bianca, altrettanto lenta-mente andò via senza dire una sola parola, forse non riconosciuto dai due. Stavolta l’ambiente non evocò in lui alcun particolare ricordo o sensazione, salvo un discreto voltastomaco che perdurò fino al pomeriggio, dovuto all’aver ingurgitato due tazzine di caffè in meno di un’ora. Si guardò ancora un poco in giro confidando di vedere in extremis il tizio misterioso, poi si riavviò verso casa. Il giorno trascorse mesto e languido come previsto; Gegè e Laura comprarono due luci da mettere nel soggiorno, poi andarono a pran-zare con linguine ai frutti di mare e frittura mista di calamari e gamberi in uno dei tanti ristoranti economici sul mare della provin-cia flegrea. Terminarono con un bicchierino di viscido limoncello e dato che il locale non era particolarmente affollato sostarono un’altra buona mezz’ora al tavolino chiacchierando del più e del meno. Nel pomeriggio, afflitti dal caldo afoso e dalla difficile dige-stione che quel giorno li accomunava, fecero due passi lenti sul porticciolo di Monte di Procida, pieno di coloratissime barche di pescatori e affrescato dal vulcanico panorama del golfo puteolano, con l’isolotto di San Martino, Procida, Ischia e capo Miseno. Verso le sei e mezzo il sole iniziò a ingiallire e dal mare si sollevò una leggera brezza ristoratrice. Era questo il segnale che il clima stava per diventare più accettabile e quindi si poteva fare ritorno a casa. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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