Il coraggio di avere paura

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A Paolo

Il coraggio di avere paura Oggi è una giornata torrida di agosto. Sono in auto e penso che vorrei andare al mare con i miei figli, ma mi sento chiamare: “Ingegnere! Ingegner Cogne!”. Ecco, lo sapevo, sono loro. Sono mesi che mi danno il tormento, vogliono chiudere velocemente la faccenda, non hanno ancora capito che io sono uno preciso, che devo fare le cose per bene. Accostano accanto alla mia macchina, mi dicono che devo andare con loro, che il sopralluogo per l’agibilità dello stabile devo farlo ora. Hanno fretta. Io non ho fretta, ma va bene, ci vado. Così finalmente mi lasceranno in pace. Non ho il casco, l’ho lasciato a casa. Nemmeno l’imbracatura. Non sapevo che sarei salito su un tetto oggi. Non fa niente, ne farò a meno. Lo so, è sbagliato. Ma sono un esperto, non sono un principiante. L’ho fatto altre volte. Andrà bene. Salgo. Il sole picchia forte. Io amo guardare il gioco di ombre che la luce del sole proietta sul viso di mia moglie durante i caldi pomeriggi estivi. Quella stessa luce oggi crea dei bagliori accecanti sulla lamiera su cui sto poggiando i piedi. Questa luce è fastidiosa, intralcia il mio cammino. Ma so perfettamente cosa fare: devo semplicemente evitare quelle zone in plexiglass che fungono da lucernari. Non sono delimitate; quando scendo da qui lo dirò ai responsabili, non si può mica lavorare in questo modo. Se fosse salito un tecnico meno esperto di me avrebbe rischiato grosso. Per fortuna ci sono io qui. Sento molto caldo, forse troppo, inizio a sudare, i miei passi si fanno incerti. Oggi c’è qualcosa di strano nell’aria, lo sento, lo percepisco come fosse foschia che mi annebbia la vista. Un brivido percorre la mia schiena. Ed è un attimo. C’è un filo, un cavo elettrico forse, sulla lamiera ondulata che sto calpestando. Non lo vedo. Inciampo. Cado esattamente dove non dovevo cadere. Sul plexiglass, che non regge il mio peso. Precipito. Sento il rumore prodotto dal mio corpo nello schiantarsi sul pavimento. E improvvisamente lo so: non sono più io quell’uomo. Lui ora è lì, esanime. Quell’uomo ero io, ma adesso lui non c’è più. Quell’uomo era fragile e si credeva forte. Era piccolo e si credeva padrone della vita. Quell’uomo ha sbagliato e ora chiede perdono a se stesso. E sì, io lo perdono. E insieme a lui perdono tutti gli uomini che si credono invincibili, forti, immortali. Io li perdono e li compatisco per non aver conservato la paura e l’incertezza della prima volta.

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La paura spinge gli uomini a non fidarsi ciecamente di se stessi, dei propri passi. Li rende vulnerabili e allo stesso tempo saggi. Li tiene all’erta, è loro compagna e fa capire che nulla nella vita si deve dare per scontato. Io avevo paura di quella paura. E allora l’ho sconfitta. Ho fatto male. Dovevo tenerla con me. Se avessi avuto un po’ di quella paura, sarei tornato a casa, avrei preso il casco e l’imbracatura. E poi sarei sceso subito da quel tetto e l’avrei detto ai responsabili, anzi l’avrei urlato: “Io senza recinzioni delle zone a rischio lassù non ci salgo”. E invece non l’ho fatto. Non era il coraggio che mi mancava, era la paura che non avevo. Oggi una cosa l’ho capita: la paura era la mia recinzione, ma mi stava stretta e me ne sono liberato. Ho sempre sentito dire che bisogna abbattere i propri limiti, le proprie recinzioni appunto. Mai mi hanno detto che a volte sono necessarie. Se potessi tornare indietro, lo insegnerei ai miei figli. Del Prete Mariangela, Sgura Flaviana