il contrario del sole

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I R A M P I C A N T I EDIZIONI VERSANTE SUD I RAMPICANTI EDIZIONI VERSANTE SUD Carlos Solito I L C ONTRARIO DEL S OLE

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Storie di speleologia di un quindicennio raccolte qua e là tra alcuni massicci calcarei d’Italia con fuori rotta dentro alcune montagne estere. Il Contrario del sole è un viaggio nella speleologia e soprattutto tra chi la fa.

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I R A M P I C A N T I

E D I Z I O N I V E R S A N T E S U D

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Il ContrarIo del Sole

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24978-88-87890-91-4

e 17,00

COLLANA I RAMPICANTI

2 • Ruggero MelesBEN LARITTI. STORIA DI UNA METEORA

3 • Pat AmentJOhN GILL. IL SIGNORE DEL BOULDER

4 • Tilmann HeppWOLFGANG GÜLLICh. ACTION DIRECTE

5 • Chantal MauduitABITO IN PARADISO

6 • Jerzy KukuczkaIL MIO MONDO VERTICALE

7 • Mark TwightCONFESSIONI DI UN SERIAL CLIMBER

8 • Tom DauerREINhARD KARL. SENZA COMPROMESSI

9 • Paul PritchardDEEP PLAY

10 • Alberto SciamplicottiQUELLI DEL PORDOI

11 • Fabio PalmaSOLITARI

12 • David Torres RuizANGELI DEL NANGA

13 • Alain RobertSPIDERMAN

14 • Andy CaveIMPARARE A RESPIRARE

15 • Stefano ArditoDOLOMITI. GIORNI VERTICALI

16 • Jeff ConnorDOUGAL hASTONLA FILOSOFIA DEL RISChIO

17 • Steph DavisTRA VENTO E VERTIGINE

18 • Jim BridwellThE BIRD

19 • Andrew TodhunterDAN OSMAN. INSEGUENDO LA PAURA

20 • C. Caccia, M. FoglinoUOMINI & PARETI 2

21 • Stefano ArditoGIORNI DI GRANITO E DI GhIACCIO

22 • Jerry MoffattTOPO DI FALESIA

23 • Bernadette McDonaldTOMAŽ hUMARPRIGIONIERO DEL GhIACCIO

Filo giù su corda imbrattata. Quando tocco terra, il mio guanto destro è una boccia di fango. Attorno, calcare lacero del furore esplorativo. Blocchetti, pietre e breccia strappata alle pareti. Infilo la testa in un tubo bianco di polvere. Uno sputo d’aria ghiacciata spegne il casco. Ora capisco perché gli altri hanno fatto i ladri qua sotto.

ISBN 978-88-87890-91-4www.versantesud.it

Storie di speleologia di un quindicennio raccolte qua e là tra alcuni massicci calcarei d’Italia con fuorirotta dentro alcune montagne estere. Il Contrario del sole è un viaggio nella speleologia e soprattutto tra chi la fa. Questo non è un libro che propone epiche esplorazioni abissali emozioni tecniche ma, proprio come una salita lungo un pozzo, suda le sensazioni che solo l’esperienza sotterranea riesce a dare in luoghi che sono l’esatto contrario del mondo esterno: colmi di buio pesto. Gli ingredienti di queste pagine sono ritratti di scoperte, notti eterne in compagnia della fiamma di acetilene, amicizie e, soprattutto, gioie e paure.

Carlos Solito, trentenne, è nato a Grottaglie (Taranto). Spinto dalla passione per il viaggio, la fotografia e la scrittura, realizza reportage e servizi fotogiornalistici in tutto il mondo prediligendo le tematiche antropiche e paesaggistiche. Pratica speleologia e sport outdoor. Preferendo la libertà del freelance, numerose sono le riviste italiane ed estere con le quali collabora. Ha pubblicato guide e libri con Rizzoli Rcs, White Star, National Geographic, Skira, Atlante, De Agostini, Domus, Giunti, Terre di Mezzo, Touring Club Italiano, Massa. Quando non viaggia e non esplora,vive tra l’Irpinia e il Salento. Questa è la sua seconda narrativa. (www. carlossolito.com)

Copertina: L’ingresso dell’Ovito di Pietra Secca, Monti Carseolani, Abruzzo (foto Carlos Solito).Riquadro: Carlos Solito (foto Alessandra Lanzetta).Retro: All'uscita di un abisso (foto Carlos Solito).

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2010 © VERSANTE SUD S.r.l. via Longhi, 10 MilanoTutti i diritti riservati

1a edizione Gennaio 2010

Tutte le fotografie sono di Carlos Solito a eccezione delle seguenti:TAV III in basso: Antonello Massimi Alunni.TAV VII in alto: Alessandra Lanzetta; in basso: Alessandra Montanaro.TAV. IX (2): Nicola Lasaracina; (3): archivio Centro Altamurano Ricerche Speleologiche; (4): Enzo Dadduzio; (6): Francesco Maurano.TAV X (7): Francesco Maurano; (12): Angelo Squicciarini.TAV XIV in alto a ds: archivio Gruppo Speleologico Natura Esplora.TAV XVI in alto: archivio Centro Altamurano Ricerche Speleologiche.

www.versantesud.itISBN 978-88-87890-91-4

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Carlos Solito

IL CONTRARIO DEL SOLEStorie di speleologia sulle tracce del buio

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A Christopher, mio figlio,il punto fermo dei miei

andirivieni

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Prefazione di fabrizio ardito

Nove, dovrebbero essere le muse che vegliano sulle attività umane. Appollaiate sulle rocce sferzate dal vento del monte Olimpo o rannicchiate sulle curve dei vasi attici. Scolpite sui frontoni dei teatri dell’Ottocento oppure nascoste tra le pieghe dei versi dell’Iliade. Le signorine di nobili origine (in fondo erano figlie di Zeus) si occupavano, e presumibilmente si occupano tuttora, delle più grandi e degne attività umane. Citando a memoria mi vengono in mente la Poesia, la Storia, la Tragedia, perfino l’Astronomia, su cui vegliava la celeste Urania. Molti di noi, però, ritengono che il conto non sia mai stato esatto e che le muse siano in realtà dieci. Solo che l’ultima, sempre in ritardo per le foto di gruppo, sempre lenta a strofinare via dal peplo le macchie di fango, di rado appare nelle raffigurazioni ufficiali della mitologia. La piccola Speleomene, musa non longilinea e neanche tanto alta, come ultima nata della nobile combriccola si è andata a scegliere un’arte molto particolare: l’esplorazione delle caverne. Cioè di una parte importante di quello che c’è al di sotto della superficie terrestre che, come vi potrà spiegare facilmente qualunque geografo oppure studente di geometria, è tremendamente più esteso della semplice superficie piana e bidimensionale del nostro mondo quotidiano. Per chi fosse duro di comprendonio, basta fare un esempio banale. È più importante la sottile buccia di una mela oppure il suo interno, pieno di zuccheri, semi, talvolta vermi e in genere vitamine? La risposta, per la gloria e la felicità della decima musa, è obbligata.

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La speleologia è un’attività strana, difficile da definire, che in fondo noi ometti bipedi stiamo praticando fin da quando abbiamo deciso di scendere dagli alberi, in una bella giornata di sole di un paio di milioni di anni fa. Per grotte e caverne sono andati un po’ tutti, da Enea a Leonardo da Vinci, da Gesù bambino ai personaggi di grandi miti e di scrittori di valore. Verne e Tolkien, Salgari, Stevenson e Victor Hugo – tra gli altri – una scappata nel mondo senza sole ce l’hanno sempre fatta volentieri insieme ai loro eroi ed eroine. Per un motivo semplicissimo. Le grotte, con il loro buio sgocciolante e misterioso, sono affascinanti più di ogni altro ambiente terrestre. Tutto può succedere in una caverna, soprattutto il non sapere cosa si ha dinnanzi e cercare di scoprirlo con fatica, sudore, concentrazione e perseveranza. E qui, ovviamente, va introdotto il personaggio chiave di queste righe (poche, per vostra fortuna) e delle pagine che le seguono. Lo speleologo. L’ho sempre detto e sostenuto, fino da quando ho scoperto le grotte all’età di quindici anni: le parole hanno il loro significato. Come mai, tra un alpinista, un surfista, uno sciatore e un ciclista, il nostro esploratore delle caverne non si chiama speleista o speleatore, ma speleologo? Le muse, che dall’alto di questa pagina vi guardano con serenità, l’hanno già capito. È facile per loro, perché sono ragazze greche di buona famiglia e quindi ben conoscono il significato (e il valore) della parolina “logos”. Che deriva dal verbo “léghein” che vuol dire, citando a caso tra i suoi significati, scegliere, narrare, addirittura enumerare. E che offre, a noi che per anni siamo stati nel nostro piccolo esploratori del mondo senza stelle, un bell’argomento di conversazione quando ci sediamo a tavola con un climber, un surfer, un trekker, un jogger o addirittura un semi

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surgelato nordic walker. Gli speleologi, almeno quelli che rispettano l’accezione migliore del termine che li definisce, sono molte cose insieme. Per viaggiare sotto la buccia del mondo bisogna essere moderatamente sportivi, acutamente osservatori, costantemente curiosi, leggermente scriteriati e soprattutto tenaci. Già, perché non è che le grotte si aprano in mezzo alla prima strada che vi capiterà di percorrere dopo aver ricevuto l’attestato da un corso di speleologia. Tutt’altro. Le grotte si nascondono tra le pieghe delle montagne, si divertono a restare nascoste, scommettendo tra loro su chi sarà il primo a scoprirle, scelgono di aprire i loro ingressi nei posti più scomodi, freddi e umidicci che si possano trovare in giro. Per trovarle, bisogna camminare per decine di chilometri, studiarne le astuzie con l’aiuto di carte, fotografie e soprattutto di pile di libroni ingialliti che narrano delle vicende degli speleologi che ci hanno preceduto nella nobile ricerca.

Si diceva, quando ero giovane e cioè una bella quantità di anni fa, che oramai non ci sarebbero stati più grandi complessi sotterranei da esplorare, che del mondo senza sole era stato esplorato “il grosso”. Al contrario, dopo qualche anno, sembrava non ci fossero abbastanza speleologi per riuscire a percorrere, rilevare e fotografare le enormi cavità appena scoperte nelle pance delle montagne italiane. Per non parlare di quel che accade su monti e catene lontane anche poche centinaia di chilometri dalle rotte abituali dei viaggi e delle vacanze. Oggi non credo ci sia più nessuno in giro che abbia il coraggio di affermare bestialità come quella che avevo udito in gioventù, anzi. Da esplorare ce n’è per tutti, basta che gli speleologi, quelli veri, allunghino il

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naso infangato al di fuori dai loro monti di casa, dove spesso purtroppo grandi capacità rimangono confinate nelle grotte di tutte le domeniche che magari, una visita dopo l’altra, nemmeno siamo più in grado di osservare per bene.

Ogni volta che viene pubblicato un libro di speleologia sono molto felice. Per vari motivi. Anzitutto perché di libri sulle grotte ce n’è troppo pochi, se solo pensiamo alla complessità dei paesaggi sotterranei e alla loro enormità. Ci sono migliaia di volumi dedicati al bridge e poche decine alle grotte. Ma vi sembra giusto? In fondo – e non vorrei offendere nessun giocatore incallito – le carte sono grosso modo sempre quelle e, già che barare dovrebbe essere vietato, di che diavolo si parla in quei milioni di pagine? Quindi come dicevo sono felice in occasione dei parti di nuovi libri sul mondo sotterraneo, perché ognuno di questi, pur con degli elementi comuni, apre una finestrina differente nella visione generale delle caverne. E sono altrettanto contento di scrivere una prefazione a un volume speleologico, già che mi sento a casa nel nostro piccolo mondo oscuro (anche se devo dire che la presentazione scritta da Umberto Eco e scartata dall’editore non era poi così male). Carlos ha vissuto le sue grotte a modo suo, quindi le ha raccontate come credeva meglio. Ci parla di grotte del sud, con una predilezione per i magnifici e silenziosi monti Alburni (che la maggior parte degli ignari lettori non immagina nemmeno dove siano) ma ci conduce anche a spasso per l’Italia e per il mondo. Le sue esperienze sono state solo sue, ma si sono svolte in un panorama definito, usuale, amichevole, con un suo forte odore di umidità e di carburo. Secondo motivo di allegria consiste nel pensare che, finché qualcuno scrive

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libri di speleologia (e qualcuno li compra, tanto per non dimenticare la vile pecunia che affluisce sonante nelle tasche degli editori) vuol dire che aumentano le possibilità che ci siano nuovi speleologi. Negli anni Cinquanta Chuck Berry ha inventato il rock’n’roll e gli speleologi italiani erano circa un migliaio. Nei ruggenti (si fa per dire) anni Settanta i Jefferson Airplane erano al culmine della loro parabola e gli speleologi del Belpaese erano più o meno sempre mille. Nell’epoca buia e negativa della disco music il numero non è cresciuto e oggi ho l’impressione che le giovani generazioni di curiosi non subiscano massicciamente il fascino della speleologia. E che andando per grotte si possano incontrare spesso sedicenti speleologi cinquantenni imbottiti di viagra e gerovital, che non demordono solo perché molto cocciuti e sostenuti da una scienza medica che, lei sì, ha fatto passi da gigante.

Lo ammetterò, solo perché so che lo spazio a mia disposizione sta giustamente finendo, e tutti voi state scalpitando per terminare la prefazione e poter finalmente aprire con un simpatico scrocchio il prestigioso volume che avete tra le mani. Non è che la speleologia sembri molto attrattiva al grande circo dei media. Ricordate pubblicità ambientate in una grotta? Ridenti signorine che reclamizzano un lucidalabbra in una caverna? Simpatici vecchietti che mangiano con gusto sofficini in una galleria allagata? Io no. La speleologia non è un affare mediatico, i giornalisti in grotta non ci vanno, i fotografi tanto meno (escludendo ovviamente da queste due categorie gli speleologi che sono anche giornalisti o fotografi, credo cinque in tutta Italia). I telegiornali le grotte le guardano con sospetto

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solo dall’esterno, forse proprio perché luoghi dove gli anchormen e i mezzibusti non possono andare. E dove le storie le possono raccontare solamente quelli che ci vanno per davvero. Ed ecco qui, finalmente la chiave della fortuna della vecchia Speleomene. Grotte, caverne e abissi possono essere percorse solo dagli speleologi e dalla loro musa abbigliata di cordura, da nessun altro! Quale miglior motivo per decidere di punto in bianco di dedicare tutte le proprie energie alla ricerca delle più profonde cavità del Gargano o delle più lunghe gallerie dell’Ucraina? Un mondo senza tv, dove i cellulari non suonano (perché non possono, potendo loro squillerebbero volentieri), i programmi tv da satellite non arrivano. E dove i modelli da seguire non sono quelli dei tronisti e dei calciatori, ma magari quelli della saggezza di Groucho Marx e della tenacia dei grandi esploratori, da Colombo a Martel, da Marco Polo a Claude Fighiera. Capperi, se le grotte non ci fossero bisognerebbe inventarle, non fosse altro che per questo.

Fabrizio ArditoRoma, dicembre 2009

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Nient’altro che vento. È un’ora buona che giriamo e l’unica cosa che abbiamo trovato è il vento. O meglio, è lui che ha trovato noi. Ci ha squassati e sfottuti con pizzichi e punture. Di Grava Stretta nessuna traccia. Nessuna. Eppure i faggi di Madonna della Montagna non sono tanti, li abbiamo spiati tutti tra le radici. Siamo scesi in sette dal rifugio Ausineto per cercarla. C’è già chi si arrende e vuole ripiegare sul Pozzo Raffaele Lombardi. «Ma ci siamo già stati, lì da esplorare non c’è niente. N-i-e-n-t-e», urla quello in coda a tutti. Facciamo sosta su un roccione verde di muschi ed eccola, una piccola ferita nel calcare. Quello spicchio di vuoto che squarcia la pietra si vede da una sola direzione. E noi, dopo aver girato in ogni angolo di questa dolina, ci siamo arrivati. Doveva succedere. In sette, uno sprofondamento così piccolo: non potevamo non scovarla. «Meglio tardi che mai», sbotta qualcuno. Un altro si premia accendendosi una sigaretta, per farla fuori in tre tiri. Se non fosse accaduto ci saremmo rintanati nel rifugio a tossire davanti al camino che sparge veli di fumo. Poi avremmo messo su una futile discussione sulle coordinate geografiche errate e, grazie al Solopaca di Enzo Iannella, saremmo sconfinati nello sfottò contro chi, da sempre, professa conoscenze profonde del massiccio, palmo per palmo. Raggiungo l’ingresso. Il rito è sempre lo stesso: mi affaccio, guardo l’oblò sull’altro mondo. Getto una pietra. Aspetto qualche secondo, mi dico: «Eh si! Sono una trentina di metri». Gli occhi rimbalzano nel nulla. Non rubano niente e si disorientano in un cilindro verticale che scivola nel pozzo. «È lei!», grido. Avanzano, mi raggiungono. Natale e

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Alessandra sono già imbragati. Appena il tempo di sistemare la corda e già spariscono nel varco che schizza odore di terra umida. Mi gusto la vestizione, con calma: sottotuta, traspirante, imbrago, longes, bloccanti, moschettoni. Le ultime occhiate nel faggeto spoglio, pieno di luce con mille scaglie di sole. La neve, arata dai nostri passi ingolfati, acceca e, ora che il nuvolone se n’è andato verso il Vallo di Diano, non promette tregua. Ma io ho la mia via di fuga. Do le spalle al bianco e scendo lento nel nero. Inizio la mia nuotata nel calcare. Qualsiasi movimento di braccia e gambe, elegante e di poca grazia, pur di sguazzare nel buio, lasciarsi alle spalle quante più vasche di vuoto possibile e sperare nella grotta giusta, quella che ci apra le porte al benedetto collettore tra gli abissi del Fumo e dei Piani di Santa Maria. Chissà se a valle del Meandro del Martirio riusciremo a superare quel punto interrogativo sopra l’ultimo saltino. Magari entreremo nell’altrove, in ambienti forieri di pozzi che precipitano uno dopo l’altro. Vado. Trenta metri più in basso scelgo la strettoia giusta, me la suggerisce un solletico d’aria. Striscio per pochi metri, la grotta ignora l’andatura orizzontale e si fa di nuovo pozzo. Un salto identico al primo ma meno dispettoso di massi volanti. Ripeto gli stessi gesti sulla successiva corda da cinque metri. Faccio in fretta stavolta. Entro in una sala dove gli altri mi aspettano: ho io il resto della ferraglia e la matassa di poliammide per continuare a scendere. Natale sorride. Il suo sguardo, dietro gli occhiali cerchiati alla Gramsci, annuncia il suo beffardo «Armi tu!» Indica in basso. Sul pavimento le luci dei nostri caschi proiettano un geroglifico nero: una P, che segna, nel linguaggio delle grotte, l’inizio del pozzo. M’infratto. Mentre perdo quota lungo i 40 metri della verticale leggo i

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ricami di calcite di una lunga colata. Belli. Sotto, il vuoto si ridimensiona nel più fastidioso meandro di tutti gli Alburni. Quando quelli del CAI Napoli, nel 1���, lo esplorarono per la prima volta fecero proprio bene a chiamarlo del Martirio. Lo seguo a monte. È una stele di Rosetta di sole esse: si succedono l’una nell’altra per 160 metri fustigando gomiti, anche e ginocchia. Ma pure schiena, petto e tutto il resto dei miei settanta e passa chili. Le voci di chi mi sta dietro si allontanano nell’altra direzione. Alessandra segue il filo d’acqua che da millenni cava questo budello. Va spedita, lei può: è un anguilla e nell’esiguo sa misurare respiri e movimenti. È la più ricercata strettoista della Campania. Anche Natale procede regolare e riesce pure a improvvisare siparietti, aiutato dalla mimica partenopea delle mani: «Signurì e che jate truvanno?», agita la destra. La risata di Alessandra è un fragore. Mi distrae dalla lotta col meandro. Ripenso a quando sono stato meglio credendo di stare peggio. L’avvicinamento a Serra del Gufo sul ventoso pendio del monte Sellaro in Calabria. Le mani gelate durante la risalita del pozzone della Grava di Pasciuddo, in Alta Murgia. L’attesa eterna sotto i nuovi novanta metri di Grave delle Ossa, nella vicina zona dei Varroncelli. Lo sputo d’acqua in faccia nell’inghiottitoio dei Valicelli sul Cervati. Le ginocchia butterate nel laminatoio di Castel di Lepre, in Val d’Agri. Mi ostino a collezionare metri in una penosa marcia. Il casco si spegne. Non riesco ad accenderlo. Il Martirio qui si fa serio e non ho neanche l’unico appiglio di luce del mondo di sopra. Mi fermo, devo riprendere fiato. L’arco di roccia che preme sulle mie spalle vorrebbe che spingessi con forza. Vorrebbe incastrarmi. Sapevo che questa grotta dispensava castighi, ma così non vale. Rimango al buio. Resto in silenzio, volentieri. Mastico

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indiCe

Prefazione 7

il Contrario del Sole 15

zuCChero nero PeSto 25

Vuoti a rendere 35

Monti alburni 1997 47

bifurto: l’ultiMa Carie Profonda 59

GruViera Cilentano 70

SuPra e Sutta Monte 82

GorroPu e altre oMbre eterne 93

PindoS, eloGio VertiCale 104

Sulle traCCe di JuleS Verne 116

e inVerno Ci rubò l’eState 127

il fantaSMa dell’oPera… iPoGea 138

dall’irPnia… 157

… al CarSo 167

ritorno a iChnuSa 172

CaSone auSineto 185

nota dell’autore 189